Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2018

 

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2018, consequenziale a quello del 2017. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

L'ANNO CHE SARA'...

L'ANNO CHE E'...

...E L'ANNO CHE FU...

LE ELEZIONI IN ITALIA.

GENTISMO-POPULISMO-SOVRANISMO.

LA NUOVA IDEOLOGIA.

NUOVO ANNO: VECCHIA POLITICA. SOLITE PROMESSE ELETTORALI E SOLITI COGLIONI CHE CI CREDONO.

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

MARCELLO FOA E LE FACCE TOSTE.

GIORNALISTI: PENNIVENDOLI PUTTANE E SCIACALLI.

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

LA SOLITA FAZIOSITA'.

I SOLITI NIMBINI ESTREMISTI PARTIGIANI.

GRANDI OPERE. CHI LE VUOLE E CHI NO.

I SOLITI DUBBI DI BROGLI ELETTORALI.

POLITICHE 2018: VINCE LA RIBELLIONE, L’ASSISTENZIALISMO O IL POPULISMO?

SPOT, PRIVILEGI E POPULISMO.

SUSSIDI. QUANDO ESSER POVERO CONVIENE.

IL DIRITTISMO.

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA FONDATA SUL TRASFORMISMO E SULLA CONFUSIONE.

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA FONDATA SUL TRADIMENTO.

LA REPUBBLICA DEGLI INSULTI.

LE SETTE IDEOLOGICHE FIGLIE DEL SOCIALISMO: FASCISMO, COMUNISMO, LEGHISMO E GRILLISMO.

1918. L’INIZIO DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE. 

MAI NULLA CAMBIA: 1958.

MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.

1978. L’ANNO DEI TRE PAPI.

NUOVE E VECCHIE ICONE. DA PADRE PIO AL GRANDE FRATELLO.

LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.

L’EMERGENTE POLITICA.

LA TERZA REPUBBLICA?

MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI. PRESIDENTE DEL SENATO.

ROBERTO FICO. PRESIDENTE DELLA CAMERA.

L'ITALIA COMMISSARIATA: EMERGENZA DEMOCRATICA.

CARLO COTTARELLI. IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO GRADITO ALL'EUROPA.

GIUSEPPE CONTE. PRESIDENTE DEL CONSIGLIO TROMBATO.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

GOVERNO E PRESCRIZIONE.

100 ANNI. LA CAMERA DEI FANTASMI.

EMMA BONINO, I 5 STELLE PRO CASTA E LA FINE DEL PARLAMENTO. 

QUELLI DELLA LEGITTIMA DIFESA...NEL PARADISO DEI RAPINATORI.

I MORALISTI DEL CAZZO. QUELLI CHE NON SAPEVANO.

MANOVRA ECONOMICA. TUTTI CONTRO UNA.

EI FU...LA MODA ITALIANA.

TRA CASTA ED ELITE CON CONCORSO TRUCCATO.

COSA NON C'ERA 10 ANNI FA.

I LIBERTINI.

LA MORTE DEGLI GLI ATEI, SENZA PATRIA E SENZA RE.

L’IGNORANZA SACCENTE. I MITI DA SFATARE.

QUEI PERSONAGGI DEGNI DI ESSERE RICORDATI: FERDINANDO IMPOSIMATO, MARINA E CARLO RIPA DI MEANA, PIERO OSTELLINO, STEPHEN HAWKING, FABRIZIO FRIZZI, EMILIANO MONDONICO, LUIGI DE FILIPPO, ARRIGO PETACCO, FABRIZIO QUATTROCCHI, CARLO VANZINA, SERGIO MARCHIONNE, RITA BORSELLINO, VINCINO, INGE FELTRINELLI, BERNARDO BERTOLUCCI, SANDRO MAYER, GEORGE HERBERT WALKER BUSH, ENNIO FANTASTICHINI, GIGI RADICE, FELICE PULICI, ANDREA G. PINKETTS, ENZO BOSCHI, STEFANO LIVIADOTTI, GRAZIA NIDASIO.

CHI CI HA LASCIATI…

IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.

I SOLITI FATTI DI CRONACA.

IL SOLITO 25 APRILE.

LA SOLITA VIOLENZA POLITICA SINISTROIDE.

ED ANCORA IL SOLITO FASCISMO. I SOLITI RAZZISTI. I SOLITI SCIACALLI.

I SOLITI GIUSTIZIALISTI A SENSO UNICO.

LA SOLITA GOGNA ED INGIUSTIZIA.

IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.

I SOLITI FORCAIOLI MANETTARI INFORCATI ED AMMANETTATI.

CIANCIOPOLI: EDITORIA E POTERE.

LA MAFIA OPINABILE.

IL SOLITO MERCIMONIO ISTITUZIONALE.

A 60 ANNI DALLA LEGGE MERLIN: SIAMO TUTTI PUTTANE.

ABORTO. 40 ANNI DOPO LA LEGGE 194.

MANICOMI. 40 ANNI DOPO LA LEGGE 180.

I SOLITI MISTERI IRRISOLTI.

IL SOLITO PERICOLO NUCLEARE.

I SOLITI TRATTATI INTERNAZIONALI (VERI O FALSI).

CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.

I NUOVI SANTI.

LA NOVANTENNE BEFANA.

BUON COMPLEANNO AL CIAO.

SE TI TOCCA, TI TOCCA. LA RIVINCITA DEL DESTINO.

I MOSTRI SIAMO NOI...

I 25 ESERCITI PIU’ POTENTI AL MONDO.

GLI INCUBI DEI SOLDATI ITALIANI.

2018 SOLITO RAZZISMO

 

   

 SECONDA PARTE

 

GOVERNO E PRESCRIZIONE.

Grillini e leghisti come nel poema della “Secchia rapita”. Era il 1200, scrive Francesco Damato l'11 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  Provate a paragonare i leghisti e i grillini di questi giorni, impegnati col problema della prescrizione, ai bolognesi e modenesi del 1200 raccontati quattro secoli dopo da Alessandro Tassoni nel poema eroicomico della “Secchia rapita” e troverete – con la dovuta fantasia naturalmente – assonanze divertenti.

Come i bolognesi dei tempi di Federico II, i leghisti hanno cominciato compiendo qualche fastidiosa scorribanda nel territorio dei grillini con i dubbi del potente sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza. I grillini, convinti di avere risolto tutto facendo inserire nel bilancio del 2019, e in deficit, più di sei miliardi di euro fra le proteste e le minacce europee di una procedura d’infrazione, non hanno gradito. E hanno invaso a loro volta il territorio dei leghisti. Dove, anziché abbeverarvisi, come nel poema del Tassoni, hanno preso a calci una secchia di legno appesa al pozzo del codice penale e contenente la prescrizione, cara – secondo loro – al partito di Matteo Salvini per i benefici ricavati sinora da corrotti, stupratori, assassini e ogni altra sorta di delinquenti frequentati elettoralmente, e imprudentemente, dall’attuale ministro dell’Interno e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Dei quali i leghisti sono rimasti alleati a livello locale, anche dopo avere stipulato con i grillini il contratto del governo gialloverde in carica, presieduto da Giuseppe Conte. Ma dei quali, soprattutto, potrebbero tornare ad essere alleati anche alle prossime elezioni politiche. Dopo avere preso a calci la secchia della prescrizione i grillini, come i modenesi del Medio Evo, se la sono portata come un trofeo nel loro territorio. Dove l’hanno caricata sulla diligenza di una legge contro la corruzione, chiamata enfaticamente “spazzacorrotti”, e ne hanno proposto lo sfondamento. Tale sarebbe infatti la prescrizione se fosse eliminata, come vogliono appunto i grillini, alla prima sentenza nei processi, lasciando senza alcuna scadenza i due successivi gradi di giudizio. I bolognesi, cioè i leghisti, hanno reagito duramente accusando i grillini di avere scoperto anzitempo la bomba atomica, come l’avvocato Giulia Bongiorno, da qualche mese anche ministro della Pubblica amministrazione con la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della giacca, ha definito la soppressione della prescrizione proposta dal suo collega guardasigilli Alfonso Bonafede. E si sono perciò mossi minacciosamente sul territorio bolognese incontrando resistenze accanite. Alla fine la rottura del contratto di governo- richiamato da entrambe le parti, per la sua astuta genericità, a sostegno delle proprie tesi- e la conseguente crisi ministeriale, a sessione di bilancio, come si dice, appena aperta, sono state evitate con un caffellatte preso a Palazzo Chigi dai guerrieri. Che hanno trovato a sorpresa in meno di mezz’ora un accordo, o un compromesso, come preferite. La secchia della prescrizione è rimasta nelle mani dei grillini, che possono tenersela sulla diligenza della legge contro la corruzione mettendole dentro un ordigno a tempo. Che la sventrerebbe entro il 31 dicembre del 2019, o il 1° gennaio del 1920, come ha preferito annunciare il soddisfattissimo ministro della Giustizia, smanioso di vedere finalmente in braghe di tela tutti gli aspiranti prescritti. Ma la secchia è stata sua volta appesa, sempre nella diligenza della legge sulla corruzione in viaggio tra i corridoi e le aule di commissione della Camera, per poi passare al Senato, a un gancio con la manina dell’avvocato Bongiorno. Il gancio, un po’ simile a quello al quale è appesa a Modena nella Torre Ghirlandina la secchia immortalata dai versi del Tassoni, altro non è che la riforma del processo penale propostasi nell’occasione dal governo. Che pensa di riuscire nell’anno o poco più che manca al 31 dicembre del 2019, o al 1° gennaio del 2020, a rimanere naturalmente al suo posto, a proporre e a farsi approvare dalle Camere un’apposita legge delega e a varare infine i decreti delegati. Che dovrebbero fare il miracolo di abolire la prescrizione e al tempo stesso garantire non dico i processi rapidi invocati dai leghisti, ma quanto meno la loro “durata ragionevole” garantita dalla Costituzione. A interrompere, anzi a guastare le feste al solito improvvisate dai grillini, fra terraferma e barconi sul Tevere, quando ritengono di avere segnato un punto a loro favore nell’eterna partita contro avversari e anche alleati, sono arrivati i soliti giornalisti chiedendo al ministro Giulia Bongiorno sulla soglia del Senato, reduce proprio dal caffellatte a Palazzo Chigi, che cosa accadrà della prescrizione a 5 stelle se alla fine dell’anno prossimo la riforma del processo penale non avrà tagliato il traguardo. “Non se ne farà nulla”, ha risposto Bongiorno. Informati di ciò che evidentemente nel caffellatte a Palazzo Chigi non avevano afferrato, o la Bongorno e Salvini magari non avranno loro spiegato bene, Di Maio e Bonafede sono rimasti basiti. E son tornati alla guerra contro i leghisti, come in quella lunghissima della secchia rapita, e del conte di Culagna, raccontata nel 1614 da Alessandro Tassoni. Già insoddisfatto per conto suo della prescrizione di conio grillino, diversa da quella che lui vorrebbe troncare all’inizio delle indagini, ben prima del rinvio dell’imputato a giudizio, il buon Piercamillo Davigo ha dato un’ulteriore delusione ai suoi estimatori sotto le cinque stelle. In particolare, il neo- consigliere superiore della magistratura ha detto che gli effetti della riforma grillina della prescrizione si vedranno quando lui sarà già morto. E non è proprio un bell’augurio alla causa politica e giudiziaria di Di Maio, Bonafede e amici, considerando che Davigo ha solo 68 anni, compiuti da meno di un mese, e gode meritatamente – per carità di ottima salute.

100 ANNI. LA CAMERA DEI FANTASMI.

20 novembre 1918-2018. Cento anni della Camera dei deputati: ecco le tappe, scrive Angelo Picariello lunedì 19 novembre 2018 su Avvenire. Dal "bivacco" di Mussolini all'Aventino, fino agli anni di Mani Pulite, le tappe che hanno fatto la storia. Le celebrazioni si concluderanno martedì sera con l'inno europeo. Cento anni, il 20 novembre, dalla prima seduta della Camera dei deputati nella nuova Aula. Cento anni di votazioni, leggi, discussioni, polemiche e ferite delle istituzioni. Anche con gesti di protesta eclatanti, come l’Aventino delle opposizioni per dire no al fascismo. Cento anni che vedono le pagine nere del Ventennio (in realtà iniziate già prima), le gesta profetiche dei ricostruttori, gli anni di piombo, fino alla caduta progressiva del ruolo e del prestigio del Parlamento, da Mani Pulite in poi. Al punto che tutti i protagonisti successivi hanno costruito di sé un’immagine di rottura con il passato, dal Romano Prodi fondatore dell’Ulivo, al Silvio Berlusconi che si schierò contro i «professionisti della politica», dal “rottamatore” Matteo Renzi fino all’attuale «governo del cambiamento». Nell’albo d'onore anche una storica visita del Papa, un già anziano Giovanni Paolo II che il 14 novembre del 2002 lasciò un ricordo indimenticabile nell’aula di Montecitorio, con deputati e senatori riuniti in seduta comune.

LA NUOVA AULA. La prima Aula, progettata da Paolo Comotto e inaugurata nel 1871, si dimostrò presto inadeguata e i lavori dell'Assemblea furono trasferiti in un'Aula provvisoria in attesa di una sistemazione definitiva. La nuova aula, progettata da Ernesto Basile, fu solennemente inaugurata il 20 novembre 1918. Quella data coincideva con la vittoria nella Prima Guerra mondiale. Prima l'Aula, in ferro e legno, opera dell'ingegnere Comotto, era ospitata dall'attuale cortile, con i comprensibili inconvenienti logistici: licenza di cappello e cappotto per contrastare i rigori dell'inverno, mentre la cerimonia del Ventaglio - occasione di saluto della Stampa parlamentare, la cui Associazione celebra quest'anno il medesimo compleanno - nasceva dall'esigenza di fare fronte al caldo estivo.

LA CERIMONIA E LA MOSTRA. Martedì 20 alle 11, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sarà il presidente della Camera, Roberto Fico, a introdurre una cerimonia commemorativa, mentre la Sala della Regina ospiterà la mostra “La nuova Aula della Camera dei deputati. Il progetto di Ernesto Basile per Montecitorio”: in cinque sezioni, allestite dalla Camera in collaborazione con l'Archivio Basile e l'Università di Palermo, verrà proposto un ricco materiale documentario, anche inedito. La mostra tocca la questione della nuova Aula anche dal punto di vista artistico: il Liberty degli arredi Basile per l'intero palazzo Montecitorio; l'opera architettonica di Ernesto Basile nel complesso della sua attività in varie città italiane. Nel corso della cerimonia sono previsti gli interventi degli storici Alessandro Barbero e Simona Colarizi e dello scrittore Paolo Di Paolo. Nel pomeriggio, alle 18, nell'Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari, alla presenza del Presidente Fico, verrà proiettato in anteprima il documentario "L'Aula di Montecitorio, un secolo tra Arte e Storia", prodotto da Sky.

MUSSOLINI E IL BIVACCO DELLE ISTITUZIONI. «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Così Benito Mussolini nel celebre discorso d’insediamento pronunciato il 16 novembre del 1922 poco dopo la “marcia su Roma” avvenuta il 28 ottobre 1922. Il governo Mussolini il 17 novembre ottenne la fiducia dalla Camera con 306 voti favorevoli e 116 contrari.

IL CASO MATTEOTTI E L’AVENTINO. La secessione dell'Aventino prende il nome del colle Aventino su cui si ritirarono i plebei ai tempi dell’antica Roma per protesta contro i patrizi. Si richiamò a questo precedente storico la protesta attuata dai deputati d'opposizione contro il governo fascista in seguito alla scomparsa di Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924. Il deputato socialista aveva preso la parola in aula per denunciare i brogli nelle elezioni appena tenutesi ma fu rapito da squadracce fasciste e ucciso. Per lungo tempo il suo corpo non venne ritrovato restando così il mistero sulla sua effettiva sorte. Il 13 giugno Mussolini parlò alla Camera affermando di non essere coinvolto nella vicenda, ma anzi di esserne addolorato; al termine il Presidente della Camera Alfredo Rocco aggiornò i lavori, impedendo la risposta da parte dell'opposizione. Di qui la protesta: il 26 giugno 1924 i parlamentari dell'opposizione si riunirono nella sala della Lupa di Montecitorio, nota anche oggi come sala dell'Aventino. Ma dal governo non arrivò nessuna risposta, fino a che, il 16 agosto, il cadavere di Matteotti fu ritrovato nel bosco della Quartarella. Alla certezza della morte scoppiò una rovente polemica all'interno dello stesso Partito Nazionale Fascista (PNF). Alla Camera fu tenuto il discorso del 3 gennaio 1925, in cui il capo del fascismo si assunse la responsabilità politica, morale e storica dei fatti. Mussolini chiese formalmente al Parlamento un atto d'accusa nei suoi confronti in base all'articolo 47 dello Statuto della Camera, ma ciò non accadde, e il fascismo superò questa gravissima macchia della sua fase di insediamento.

L’ASSEMBLEA COSTITUENTE. Dopo la fine della II Guerra mondiale e la lotta di Resistenza seguita alla caduta del fascismo, una volta sancita la sconfitta della monarchia nel referendum, c’era da strutturare una nuova forma di Stato, su base repubblicana. L'Assemblea Costituente della Repubblica italiana, composta di 556 deputati, fu eletta il 2 giugno 1946 e si riunì in prima seduta il 25 giugno nel palazzo Montecitorio. Continuò i suoi lavori fino al 31 gennaio 1948 e portò all'approvazione della nuova Costituzione repubblicana.

GLI ANNI DI PIOMBO. L’onorevole Aldo Moro, presidente della Dc, fu rapito il 16 marzo del 1978 dopo un agguato delle Brigate Rosse che in via Fani annientarono la sua scorta. Proprio quel giorno alla Camera era in programma il voto di fiducia al governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti. Fu il picco più drammatico dei cosiddetti anni di piombo che insanguinarono l’Italia. Moro, dopo essere stato un assoluto protagonista dell’assemblea Costituente, lo era stato anche da deputato. Celebre il suo discorso in difesa dell’onorabilità della Dc, in occasione dello scandalo Loocked, l’azienda statunitense che ammise di aver pagato in mezza Europa tangenti per una fornitura di aerei militari. Lo scandalo aveva coinvolto il socialdemocratico Mario Tanassi e il democristiano Luigi Gui. Moro prese la parola in una seduta infuocata e si rivolse agli esponenti dell’opposizione: «Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare!», tuonò. L’anno successivo il presidente della Repubblica Giovanni Leone travolto a sua volta dallo scandalo dovette dimettersi. Vent'anni dopo, verificata l'insussistenza delle accuse, i radicali Marco Pannella ed Emma Bonino gli scriveranno una lettera di scuse.

MANI PULITE. La crisi della politica, certamente frutto anche della caduta del Muro di Berlino (nel 1989) e della fine della logica dei blocchi portò allo scoppio dell’inchiesta milanese Mani pulite. Il simbolo di quell’era fu il celebre discorso di Bettino Craxi sul finanziamento illecito ai partiti. «Quel che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti… hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia dev'essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perché presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Una chiamata di correità quel 3 luglio del 1992, in aula, alla Camera, che anticipò - dopo l’uscita di scena del leader socialista e la “fuga” in Tunisia, alla sua casa ad Hammamet - la caduta di tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica, compreso il Pci, che cavalcò la protesta popolare, ma che Craxi aveva accusato di aver ricevuto finanziamenti occulti dall’Unione sovietica.

«ARRENDETEVI, SIETE CIRCONDATI». Un episodio simbolicamente altrettanto rilevante dell’epoca di Tangentopoli avvenne il primo aprile del 1993, quando una manifestazione indetta dai giovani del Movimento sociale italiano cinse d’assedio Montecitorio al grido di «Arrendetevi, siete circondati!», slogan che campeggiava sulle magliette dei giovani. Giorgio Napolitano, presidente della Camera parlò di «irresponsabile gazzarra». Ma, la storia si ripete, lo stesso slogan pari pari verrà ripreso dal fondatore del M5s, Beppe Grillo, armato di megafono, a guidare la protesta davanti a Montecitorio, il 20 febbraio del 2013. Il resto è storia dei giorni nostri, in cui alla guida della Camera dei deputati c’è un esponente del M5s, Roberto Fico. Ma, forse non passerà inosservato, le celebrazioni dei 100 anni si chiuderanno martedì con l’inno europeo. Scelta non scontata, in questi tempi di sovranismo.

Tutti i presidenti di Camera e Senato. Tre sono state donne: Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Bodrini. Cinque sono poi diventati presidenti della Repubblica: Giovanni Gronchi, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano. Irene Pivetti aveva solo 31 anni quando venne eletta. Oscar Luigi Scalfaro, invece, restò in carica appena un mese. C'è poi chi, come Amintore Fanfani ha il record di elezioni, ben cinque, ma anche quelle delle dimissioni, tre. Mentre non si conoscono ancora i nomi dei successori di Laura Boldrini e Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato, sono molte le personalità salite sugli scranni più alti del Parlamento, prima dell'arrivo di Elisabetta Alberti Castellati e Roberto Fico, eletti rispettivamente al Senato e alla Camera. Ecco, di seguito, l'elenco completo dei presidenti di Camera e Senato dal 1948 al 2018:

CAMERA DEI DEPUTATI

1- Giovanni Gronchi (Democrazia Cristiana) in carica dall'8 maggio 1948 al 29 aprile 1955

2 - Giovanni Leone (Democrazia Cristiana) in carica dal 10 maggio 1955 al 21 giugno 1963

3 - Brunetto Bucciarelli-Ducci (Democrazia Cristiana) in carica dal 26 giugno 1963 al 14 maggio 1968

4 - Sandro Pertini (Partito Socialista Italiano) in carica dal 5 giugno 1968 al 24 luglio 1976

5 - Pietro Ingrao (Partito Comunista Italiano) in carica dal 5 luglio 1976 al 19 giugno 1979

6 - Nilde Iotti - Prima donna ad essere eletta presidente della Camera (Partito Comunista Italiano e Partito Democratico della Sinistra) in carica dal 20 giugno 1979 al 22 aprile 1992

7 - Oscar Luigi Scalfaro (Democrazia Cristiana) in carica per un solo mese, dal 24 aprile 1992 al 25 maggio 1992

8 - Giorgio Napolitano (Partito Democratico della Sinistra) in carica dal 3 giugno 1992 al 14 aprile 1994

9 - Irene Pivetti (Lega Nord) in carica dal 16 aprile 1994 all'8 maggio 1996

10 - Luciano Violante (Partito Democratico della Sinistra e Democratici di Sinistra) in carica dal 10 maggio 1996 al 29 maggio 2001

11 - Pier Ferdinando Casini (Centro Cristiano Democratico e Unione di Centro) dal 31 maggio 2001 al 27 aprile 2006

12 - Fausto Bertinotti (Rifondazione Comunista) dal 29 aprile 2006 al 28 aprile 2008

13 - Gianfranco Fini (Alleanza Nazionale, Il Popolo della Libertà e Futuro e Libertà per l'Italia) dal 30 aprile 2008 al 14 marzo 2013

14 - Laura Boldrini (Sel, Gruppo Mistro, SI) in carica dal 16 marzo 2013 al 22 marzo 2018

SENATO

1 - Ivanoe Bonomi (Partito Socialista Democratico Italiano) in carica dall'8 maggio 1948 al 20 aprile 1951

2 - Enrico De Nicola (Partito Liberale Italiano) in carica dal 28 aprile 1951 al 24 giugno 1952

3 - Giuseppe Paratore (Partito Liberale Italiano) in carica dal 26 giugno 1952 al 24 marzo 1953

4 - Meuccio Ruini (Indipendente) in carica dal 25 marzo 1953 al 25 giugno 1953

5 - Cesare Merzagora (Indipendente) in carica dal 25 giugno 1953 al 7 novembre 1967

6 - Ennio Zelioli Lanzini (Democrazia Cristiana) in carica dall'8 novembre 1967 al 4 giugno 1968

7 - Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana) in carica dal 5 giugno 1968 al 23 giugno 1973

8 - Giovanni Spagnolli (Democrazia Cristiana) in carica dal 25 giugno 1973 al 4 luglio 1976

9 - Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana) in carica dal 5 luglio 1976 all'1 dicembre 1982

10 - Tommaso Morlino (Democrazia Cristiana) in carica dal 9 dicembre 1982 al 6 maggio 1983

11 - Vittorino Colombo (Democrazia Cristiana) in carica dal 12 maggio 1983 all'11 luglio 1983

12 - Francesco Cossiga (Democrazia Cristiana) in carica dal 12 luglio 1983 al 24 giugno 1985

13 - Amintore Fanfani (Democrazia Cristiana) in carica dal 9 luglio 1985 al 17 aprile 1987

14 - Giovanni Malagodi (Partito Liberale Italiano) in carica dal 22 aprile 1987 all'1 luglio 1987

15 - Giovanni Spadolini (Partito Repubblicano Italiano) in carica dal 2 luglio 1987 al 14 aprile 1994

16 - Carlo Scognamiglio Pasini (Unione di Centro) in carica dal 16 aprile 1994 all'8 maggio 1996

17 - Nicola Mancino (Partito Popolare Italiano) in carica dal 9 maggio 1996 al 29 maggio 2001

18 - Marcello Pera (Forza Italia) in carica dal 30 maggio 2001 al 27 aprile 2006

19 - Franco Marini (La Margherita e Pd) in carica dal 29 aprile 2006 al 28 aprile 2008

20 - Renato Schifani (Forza Italia e Il Popolo della Libertà) in carica dal 29 aprile 2008 al 14 marzo 2013

21 - Pietro Grasso (Pd, Gruppo Misto, Leu) in carica dal 16 marzo 2013 al 22 marzo 2018

Presidenti delle Camere: svolte storiche, record e sorprese, scrive "La Repubblica". Ci sono elezioni dei presidenti delle Camere che hanno segnato la storia della Repubblica: dalla prima volta del comunista Ingrao, a Nilde Iotti, la prima donna a sedere sullo scranno più alto di Montecitorio. Da Giovanni Spadolini beffato al Senato per un voto da Carlo Scognamiglio nel 1994, passando per Oscar Luigi Scalfaro, che rimase presidente per pochi giorni prima di andare al Quirinale, a Fausto Bertinotti, che rubò la sedia a Massimo D’Alema nel 2006. Da Pier Ferdinando Casini, che aprì le porte del Parlamento al Papa, a Gianfranco Fini, che durante il mandato ruppe con Silvio Berlusconi. Senza contare gli outsider Laura Boldrini e Pietro Grasso e le sorprese come Irene Pivetti. E il drappello di presidenti di Camera e Senato che poi sono diventati capi dello Stato.

I primi della Storia repubblicana. GIOVANNI GRONCHI. Tra i fondatori della Democrazia cristiana e leader della corrente di sinistra, fu il primo presidente della Camera della neonata Repubblica italiana, eletto l’8 maggio 1948. Gronchi ebbe un atteggiamento critico verso il Patto Atlantico e fu tra i primi assertori, in ambito democristiano, del superamento della politica centrista di Alcide De Gasperi e di un avvicinamento al Partito socialista di Pietro Nenni. Nel 1955 divenne capo dello Stato. IVANOE BONOMI. Leader del Partito socialdemocratico (Psdi), fu eletto primo presidente del Senato l’8 maggio 1948, carica che detenne fino alla morte avvenuta nel 1951. Negli anni 1944-45 fu a capo di due governi, i terzultimi del Regno d’Italia, dopo la Liberazione di Roma dai nazisti.

Il primo comunista. PIETRO INGRAO. Partigiano, poeta e padre della Repubblica, morto nel 2015 a 100 anni, una delle figure più alte del Pci, fu eletto nel 1976 presidente della Camera.

La prima donna a capo di Montecitorio. NILDE IOTTI. Scomparsa nel 1999, l’esponente del Pci fu la prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, incarico che detenne per tre legislature tra il 1979 e il 1992. Un record che rappresenta anche il più lungo mandato istituzionale relativo a qualsiasi carica nazionale dall'istituzione della Repubblica.

Dalle Camere al Quirinale. SANDRO PERTINI. Socialista, partigiano e membro della Costituente, dal 1953 al 1978 è ininterrottamente membro della Camera della quale diviene presidente il 5 giugno 1968. Riconfermato al guida di Montecitorio il 25 maggio 1972 e il 4 luglio 1976, è eletto capo dello Stato l'8 luglio 1978. Muore nel 1990, a 93 anni. FRANCESCO COSSIGA. Scomparso nel 2010, Cossiga fu eletto a capo del Senato il 12 luglio 1983. Ma nel giugno del 1985 lasciò l’incarico perché fu eletto al Quirinale, come più giovane capo di Stato dell'età repubblicana (aveva 57 anni), dopo essere già stato fino ad allora il più giovane sottosegretario, ministro dell'Interno, presidente del Consiglio e presidente del Senato. OSCAR LUIGI SCALFARO. L’esponente democristiano, morto nel 2012, successe a Nilde Iotti ma fu il più breve presidente della Camera, restando in carica meno di un mese, dal 24 aprile al 25 maggio 1992, prima di essere eletto capo dello Stato (fu il nono presidente della Repubblica). GIORGIO NAPOLITANO. Il Presidente emerito e senatore a vita, capo dello Stato per due mandati, fu anche presidente della Camera subito dopo Scalfaro, dal 3 giugno 1992 al 14 aprile 1994.

Una leghista a sorpresa. IRENE PIVETTI. L’ex dirigente della Lega Nord fu eletta a capo di Montecitorio il 15 aprile 1994 a 31 anni, segnando il record della più giovane presidente della Camera della storia italiana. Nel 1996 fu espulsa dal suo partito per essersi opposta alla linea della secessione padana.

Quelli che beffarono Spadolini e D’Alema. CARLO SCOGNAMIGLIO. Liberale, rieletto senatore nel 1994 nelle file di Forza Italia, fu il candidato di Silvio Berlusconi alla presidenza del Senato. E riuscì a beffare la rielezione di Giovanni Spadolini, sostenuto dal centrosinistra, per un solo voto il 16 aprile 1994. L’esponente repubblicano si spense il 4 agosto di quello stesso anno. FAUSTO BERTINOTTI. “Dedico questa elezione alle operaie e agli operai”. Così Fausto Bertinotti, ex segretario di Rifondazione comunista, appena eletto presidente della Camera il 29 aprile 2006, all’indomani della vittoria dell’Unione, la coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi e appoggiata anche da Prc. I voti furono 337. Cento voti netti per Massimo D’Alema, 144 le schede bianche.

Colui che aprì le porte al Papa. PIER FERDINANDO CASINI. Di cultura democristiana ma rieletto alla Camera alle ultime politiche con il centrosinistra, Pier Ferdinando Casini fu presidente nella XIV legislatura, dal 31 maggio 2001 al 27 aprile 2006. Il 14 novembre 2002, nell'Aula di Montecitorio, Casini accolse Giovanni Paolo II - primo pontefice a pronunziare un'allocuzione solenne dinanzi ai deputati e ai senatori - in visita al Parlamento italiano (in foto).

L’ex missino. GIANFRANCO FINI. Presidente di Alleanza nazionale, ne promosse lo scioglimento nel 2008 nel Pdl, il nuovo partito di centrodestra fondato assieme a Silvio Berlusconi. In quello stesso anno fu eletto presidente della Camera. Nel 2010 alla direzione del Pdl fu protagonista di un duro scontro con Berlusconi che lo invitò ad allinearsi o a lasciare la presidenza della Camera. Fini rispose con la celebre frase: “Che fai, mi cacci?”.

La voce della società civile (società civile? nda). LAURA BOLDRINI. La presidente uscente Laura Boldrini, deputata eletta con Sel, per anni portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, ha assunto la guida di Montecitorio il 16 marzo 2013 con 327 voti. Tra i successi della sua presidenza un risparmio complessivo di 350 milioni di euro grazie anche alla riforma degli stipendi dei dipendenti. Boldrini è stata rieletta deputata alla Camera con Liberi e uguali.

Dall’Antimafia al Senato. PIETRO GRASSO. Ex magistrato, procuratore a Palermo e capo della Direzione nazionale antimafia, diventato senatore con il Pd nel 2013, è passato dopo la scissione dei bersaniani nelle file di Leu con il ruolo di candidato premier. Presidente del Senato uscente, è stato eletto il 16 marzo 2013 con 137 voti, al ballottaggio con il suo predecessore Renato Schifani del Pdl con 117 voti. Dal 14 gennaio 2015, con le dimissioni di Giorgio Napolitano, ha assunto anche il ruolo di presidente supplente della Repubblica fino al successivo 3 febbraio, giorno del giuramento del nuovo capo dello Stato Sergio Mattarella.

C'è una maledizione che incombe sui presidenti della Camera (per chi ci crede). "Occhio che non porta fortuna", ha detto Salvini a Fico durante il loro recente scontro. In effetti da quando è iniziata la Seconda Repubblica, chi ha occupato lo scranno più alto di Montecitorio ha spesso visto, a fine mandato, la propria carriera politica precipitare. Con una sola eccezione, scrive Serenella Ronda il 25 agosto 2018 su Agi. "Sei il presidente della Camera come era la Boldrini, a volte penso che questa carica non porti fortuna; Bertinotti, Fini, Boldrini... Occhio che non porta fortuna...". È la stoccata riservata due giorni fa dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini, al presidente della Camera Roberto Fico, che lo aveva esortato a far sbarcare i migranti a bordo della Diciotti​. E una "maledizione dei presidenti della Camera" esiste davvero. Nessuna leggenda, nessuna credenza popolare. Più semplicemente si tratta di una semplice analisi della cronistoria politica degli ultimi presidenti della Camera. Unica eccezione alla regola della "maledizione" è rappresentata da Pier Ferdinando Casini. Dalla seconda Repubblica ad oggi, chi è stato eletto alla guida di Montecitorio ha, terminato l'incarico, visto tendere verso il basso, se non addirittura precipitare, le sue sorti politiche. Non è sfuggito alla 'maledizione' ad esempio Fausto Bertinotti, così come Irene Pivetti. Esattamente il contrario di quello che avveniva nella prima Repubblica, dove lo scranno più alto di Montecitorio è stato il trampolino di lancio per il Quirinale: così è stato per Giovanni Gronchi, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Oscar Luigi Scalfano e Giorgio Napolitano. Ma andiamo con ordine: il primo "scoglio" che il nuovo Parlamento e i nuovi equilibri politici usciti dalle urne dovranno affrontare e superare sarà come sempre l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Ma se a palazzo Madama, visto il regolamento che disciplina le votazioni, la partita è più rapida, e per così dire, agevole, anche in mancanza di una maggioranza blindata, altrettanto non si può dire per l'analoga partita che si gioca alla Camera. A Montecitorio, l'alto quorum richiesto (la maggioranza dei due terzi dei componenti, poi dal secondo scrutinio la maggioranza dei due terzi dei voti computando tra i voti anche le schede bianche, infine dal terzo scrutinio in poi la maggioranza assoluta dei voti) e l'assenza del ballottaggio tra i due nomi più votati, come avviene nell'altro ramo del Parlamento, può comportare votazioni ad oltranza con conseguenti bocciature a sorpresa. Dunque, il futuro presidente di Montecitorio dovrà vedersela innanzitutto con i voti e le maggioranze trasversali che si verranno a creare. Superato il primo banco di prova, il nuovo presidente della Camera dovrà tentare di invertire le sorti "negative" che finora sono spettate a chi ha guidato il palazzo. 

Irene Pivetti. Entra per la prima volta in Parlamento nel 1992 e ci torna nel 1994 sotto il simbolo della Lega. Vene eletta Presidente della Camera al quarto scrutinio con 347 voti favorevoli su 617. È il 15 aprile. Si aggiudica così il primato di presidente più giovane d'Italia, con soli 31 anni. È anche la seconda donna, dopo Nilde Iotti, a guidare Montecitorio. In quell'anno si registra una 'rottura' con la tradizione consolidata: in entrambi i rami del Parlamento le presidenze vengono affidate a due esponenti della maggioranza, il centrodestra, rompendo una convenzione quasi ventennale, che fino a quel momento aveva affidato la presidenza della Camera e del Senato (fu eletto Carlo Scognamiglio) al maggior partito di opposizione. Terminato il mandato, la carriera politica di Pivetti subisce una virata verso il basso: dallo scranno più alto di Montecitorio fino all'ultima sconfitta elettorale nel 2016: alle elezioni del 1996 è rieletta deputato della Lega Nord, ma il 12 settembre 1996 è espulsa dalla Lega per la sua opposizione alla linea della secessione padana. Un passaggio nell'Udeur di Mastella poi alle amministrative del 2016 si candida per il consiglio comunale di Roma nella lista Noi con Salvini, giungendo seconda, con 1364 preferenze, senza essere eletta.

Luciano Violante. Dopo la vittoria della coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi alle elezioni politiche del 21 aprile 1996, l'Assemblea di Montecitorio elegge alla Presidenza della Camera Luciano Violante. L'elezione avviene al quarto scrutinio, con 316 voti su 609 votanti. Dopo la presidenza della Camera, il nome di Violante è tra i candidati alla Consulta, ma l'elezione non va in porto. Prima, Violante viene rieletto deputato alle elezioni del 13 maggio 2001, è nominato presidente del gruppo Democratici di Sinistra - L'Ulivo. Ancora eletto alla Camera dei deputati nel 2006, è stato nominato presidente della commissione Affari Costituzionali. Dopo la caduta del governo Prodi II, in vista delle elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008, ha dichiarato di non volersi più ricandidare a parlamentare per rispettare il ricambio generazionale perseguito dal segretario del Pd Walter Veltroni. Nel 2014 è stato proposto dal Pd come giudice della Corte Costituzionale in sostituzione di Gaetano Silvestri, ma non ha raggiunto il quorum necessario all'elezione e alla fine ha ritirato la propria disponibilità. Nel 2013, pur di evitare l'elezione di Prodi al Quirinale, l'allora Pdl lanciò l'ipotesi di una rosa di nomi ritenuti "accettabili" da sottoporre al Pd per ottenere i voti del partito di Berlusconi. Tra i nomi figurava anche quello di Luciano Violante. Ma anche in quell'occasione non si raggiunse alcun accordo. 

Pier Ferdinando Casini. Come detto, rappresenta l'eccezione alla regola della 'maledizione'. Sebbene leader di partiti 'piccoli' o come in occasione delle ultime elezioni 'ospitato' nelle liste del Pd quale esponente della nuova formazione Centristi per l'Europa, Casini ha sempre continuato a ricoprire ruoli medio-alti o comunque strategici in momenti particolari delle diverse legislature. Inizia la sua storia politica nel 1980 nella Democrazia Cristiana, poi fonda nel '94 il Ccd. Con la vittoria nella successiva legislatura della sua coalizione, il centrodestra, il 31 maggio 2001 viene eletto presidente della Camera dei deputati. L'elezione avviene nella seduta inaugurale della XIV legislatura, il 31 maggio, al quarto scrutinio, con 343 voti su 597 votanti. Poi si susseguono varie vicende, nasce l'Udc, arriva la rottura con Berlusconi, ma Casini continua ad avere sempre un ruolo da coprotagonista e incarichi di rilievo nonostante le non strabilianti percentuali elettorali: presidente commissione Esteri del Senato, presidente della commissione di inchiesta sulle banche e nuovamente eletto nel collegio uninominale di Bologna per il Senato sconfiggendo Vasco Errani. 

Fausto Bertinotti. Dopo le elezioni del 9 e 10 aprile 2006, con la vittoria elettorale dell'Unione guidata da Romano Prodi, Fausto Bertinotti, segretario dell'allora Partito della Rifondazione comunista, è eletto presidente della Camera dei deputati il 29 aprile 2006, al quarto scrutinio, con 337 voti su 609 votanti. Bertinotti 'soffiò' il ruolo a cui ambiva Massimo D'Alema, che poi fu nominato ministro degli Esteri. Dopo l'esperienza alla guida di Montecitorio il ruolo politico di Bertinotti ha subito un appannamento. Iscritto dapprima al Partito socialista italiano, proveniente dal mondo del sindacato, aderisce poi al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), con cui confluisce nel Partito comunista italiano (Pci) al momento del suo scioglimento nel 1972. Dopo la "svolta della Bolognina" nel 1989 da parte del segretario Achille Occhetto, Bertinotti è tra coloro che si oppongono allo scioglimento del partito. Diventa segretario nazionale del Prc nel gennaio 1994. Nel 1996 stipula il cosiddetto "patto di desistenza" con l'Ulivo, grazie al quale la coalizione di centrosinistra, guidata da Romano Prodi, vince le elezioni, ma nell'ottobre del 1998 si consuma la rottura tra il partito di Bertinotti e il resto della coalizione che porta alla caduta del Governo. Più volte parlamentare italiano ma anche europeo, nel 2004 è eletto presidente del Partito della sinistra europea (SE), incarico che gli viene confermato nell'ottobre del 2005. Nello stesso anno il Prc ed i partiti di centrosinistra stringono un nuovo patto elettorale e di governo. Con le elezioni del 2006, che vedono la vittoria del centrosinistra, è rieletto deputato e rassegna le dimissioni dal Parlamento di Strasburgo. Il 29 aprile 2006 è eletto Presidente della Camera dei deputati, dimettendosi dalla carica di segretario del Prc, nonché da quella di presidente della Se. A seguito della crisi del Governo Prodi e dello scioglimento anticipato delle Camere (6 febbraio 2008), Bertinotti è scelto, per le elezioni di aprile, come candidato premier della coalizione "La Sinistra l'Arcobaleno", che unisce il Prc, il Partito dei comunisti italiani, la Federazione dei Verdi e la Sinistra democratica. Coalizione che però non raggiunge la soglia di sbarramento e non entra in Parlamento. Da allora nessun ruolo politico di rilievo viene ricoperto da Bertinotti. 

Gianfranco Fini. A seguito delle elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008, vinte dalla coalizione di centrodestra, Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, è eletto presidente della Camera al quarto scrutinio, con 306 voti su 611 votanti. Ma come i suoi predecessori, dopo aver seduto sullo scranno più alto di Montecitorio la carriera politica di Fini subisce uno stop. La storia politica dell'ex presidente di Montecitorio è lunga e costellata di vittorie e di ruoli di prestigio: nel 1978 diviene segretario nazionale del Fronte della gioventù. Nel 1983 è eletto, per la prima volta, alla Camera dei deputati ed è successivamente sempre riconfermato, fino alla XVI legislatura, nella quale ricopre la carica di Presidente. È eletto parlamentare europeo nel 1989 e nel 1994. Nel settembre del 1987 è indicato da Giorgio Almirante come suo successore alla segreteria del partito, indicazione ratificata dal Congresso del dicembre 1987. È Segretario nazionale del Movimento sociale italiano-destra nazionale dal 1987 al 1990, fino al congresso di Rimini. Nuovamente segretario nel luglio 1991, rimane in carica fino allo scioglimento del partito avvenuto nel 1995. Nel 1993, il Movimento sociale italiano ottiene un rilevante successo alle elezioni amministrative di novembre. Fini, candidatosi a sindaco di Roma, viene sconfitto al ballottaggio. Il suo partito sostiene il I Governo Berlusconi (1994-1995). Dà vita alla "svolta di Fiuggi" che decreta la nascita di An e nel 1995 ne diventa presidente, carica che manterrà fino allo scioglimento del partito nel Popolo della libertà (2009). Dal 2001 al 2006 è Vicepresidente del Consiglio dei ministri nel II e nel III Governo Berlusconi. Nel gennaio del 2002 è nominato rappresentante dell'Italia alla Convenzione europea per la redazione del progetto di Trattato costituzionale e, dal novembre 2004 al maggio del 2006 ricopre, inoltre, l'incarico di ministro degli Esteri. Nel 2010 si consuma la rottura tra Fini e Berlusconi, che porterà Fini a dar vita alla nuova formazione Futuro e libertà. Terminato l'incarico a Montecitorio, Fini si presenterà alle elezioni con Fli ma sarà una dura sconfitta e da allora l'ex leader di An si è defilato dalla scena politica.

Laura Boldrini. È la presidente uscente della Camera e a differenza della maggior parte dei suoi predecessori non ha una lunga esperienza politica alle spalle, essendo approdata in Parlamento per la prima volta nella scorsa legislatura nelle file di Sel. Ma l'elezione alla guida di Montecitorio, al di là dei risultati ottenuti durante la presidenza, dal punto di vista prettamente politico non le ha spalancato molte porte. Eletta presidente alla quarta votazione con 327 voti su 618 votanti (i voti della coalizione di centrosinistra erano 340), la sua fu una candidatura a sorpresa fatta dal Pd. 'Esterna' alle varie vicissitudini subite da Sel, con scissioni e riaggregazioni varie, fino alla nascita di Leu, Boldrini si è tenuta fuori dai giochi politici durante il suo mandato, caratterizzato però da diverse battaglie, prime fra tutte quella contro il femminicidio e l'uguaglianza di genere, ma anche sui diritti di internet e contro le fake news. Con un occhio rivolto al Pd - ma con i democratici non è mai scoppiato l'amore - Boldrini ha quindi sposato il progetto di Leu, che tuttavia non ha dato i frutti sperati ottenendo alle elezioni un risultato ben al di sotto delle aspettative. La stessa Boldrini è stata eletta grazie al "paracadute" del proporzionale.

I cento anni di Montecitorio diventato bivacco di alieni. Oggi è un secolo di Transatlantico, dove a furia di "passi perduti" e sgambetti l'Italia non s'è desta, scrive Paolo Guzzanti, Martedì 20/11/2018, su "Il Giornale". Il Palazzo e l'aula compiono cento anni, ma la democrazia parlamentare è moribonda. Almeno, quella che conoscevamo. Lo chiamano Parlamento, ma non tu non devi parlare. Parlano i capicordata che oggi convocano le pecore al voto via sms. Meglio tornare agli anni della (gloriosa) prima Repubblica, quando occorreva un permesso per la sala stampa in rigorosa giacca e cravatta. Tutti hanno visto i filmati di Mussolini che definisce quest'aula sorda e grigia, giusto il luogo adatto per far fare bivacco ai manipoli. Poi, certo, l'Aventino, che non era il colle romano ma la sala in cui pregevoli arazzi celebrano l'unità della nazione con l'apologo di Menenio Agrippa. Lì, la democrazia parlamentare si suicidò in preda a una crisi di nervi consentendo all'onorevole Benito Mussolini di mettere i lucchetti ai portoni e passare al regime. Poi il discorso di Giacomo Matteotti, il duce fascista che si assume la responsabilità del delitto e poi finalmente la Montecitorio che ho potuto vedere e vivere. Li ho visti tutti, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, Aldo Moro e Giuseppe Saragat, da Pertini presidente della Camera a Giorgio Almirante a - ovviamente - Giulio Andreotti con cui ho sempre avuto un personale conflitto: compagno di giochi di mia madre e mio zio negli anni Venti, me lo ritrovai acerrimo e impeccabile nemico nella commissione Mitrokhin, ma al Senato. Alla Camera i vecchi dinosauri erano mostri sacri. Se ti azzardavi a denigrare l'istituzione, ti arrivavano i carabinieri a casa. Montecitorio era il sancta sanctorum della democrazia, ritrovata e subito angariata da una Costituzione che per espresse volontà internazionali vieta il primo ministro e impone il bicameralismo perfetto per garantire il freno a mano tirato. Vedo con i miei occhi di bambino il primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola sbarcare a Montecitorio da Napoli con un macchinone impolverato. Ricordo Antonio Segni bianco, magro e nervoso e il durissimo ministro dell'Interno nemico del Pci Mario Scelba, che ho avuto la sorte di intervistare poi sul letto su cui sarebbe morto, perfettamente lucido. O Amintore Fanfani che poi scelse il Senato e la sua rovina e che era il più sferzante collezionista di sarcasmi. Ed Enrico Berlinguer, naturalmente. E l'arrivo di Silvio Berlusconi, quello che aveva sbarrato la strada al Pci trasformato in Pds da Achille Occhetto. Prima c'era stata la Montecitorio di Tangentopoli, tutti dissero che era finita la prima Repubblica, ed ecco Francesco Cossiga il Picconatore, quando a Montecitorio da sottosegretario di Aldo Moro era delegato alla sorveglianza sui servizi segreti i quali sorvegliavano lui. Berlusconi fu poi sgambettato dall'alleato Umberto Bossi per il coup d'état di un avviso di garanzia reso pubblico. Bossi tornò all'ovile e lo ricordo fra le dépendance di Montecitorio e cioè alla gelateria Giolitti, dove nei primi Sessanta facevano colazione Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. L'altra succursale di Montecitorio era il ristorante Da Fortunato al Pantheon dove i montecitoriani si scambiavano segnali attraverso i giornali e i giornalisti e le mozzarelle meravigliose di quel tempo che fu. Passa un millennio di pochi anni ed ecco la ragazza cattolica poi bossiana, Irene Pivetti, nuovo presidente donna della Camera che mi mandò un commesso in tribuna per strapparmi il binocolo. Si può guardare, ma non troppo. Ho visto amori nascere e morire anche fra giornalisti e parlamentari. L'aula di Montecitorio in sé non conta, ma quel che conta (contava) è il salone dei passi perduti, il Transatlantico dove sono nati e morti partiti, leader, cronisti senza voce slacciati e sudati e si sono fatti e disfatti i governi attraverso le interviste rubate. Ecco Bettino Craxi in mezzo al crocicchio che disegnava grandi cerchi all'altezza della vita come gesto retorico e che poi restava zitto anche per un minuto. E di colpo riattaccava e giù, tutti a scrivere. Diffamare il Parlamento allora sarebbe stato considerato impensabile più ancora che sacrilego. Erano tutti parlamentaristi. Era parlamentarista Giorgio Almirante e lo erano tutti gli altri, dai comunisti ai democristiani, ai socialisti. Gli «extraparlamentari», i riottosi nelle piazze rivoluzionarie, avevano visioni di altre democrazie. Ma il tempio era circondato da assoluto rispetto. Tant'è vero che in aula non si mangiava, in aula non si beveva ma al massimo potevi premere un pulsante e chiedere a un commesso un bicchiere d'acqua. Gli «onorevoli» erano già allora circondati da leggende metropolitane sui «privilegi»: la barberia che è sempre stata a pagamento, la buvette delle uova sode con un bicchiere di Fiuggi dove tutti ci siamo dati appuntamento, la famosa mensa della Camera dove pagavi poco ma non potevi portare nessuno dall'esterno. Nel popolaccio queste banalità di tutti i parlamenti, diventarono equivalenti alla corte di Versailles. In realtà i deputati erano lisi e stanchi, arrivati col treno con un trolley (ora c'è un percorso inclinato per le rotelle) e a nessuno - allora - sarebbe venuto in mente di considerare un eletto di Montecitorio come un impiegato a contratto, un lavoratore Inps che va controllato nelle votazioni (essere assenti al voto è uno dei più utili strumenti di filibustering). Il Pci spediva in Parlamento, fra Camera e Senato, tutti i suoi burocrati di Botteghe Oscure. Massa anonima e disciplinata, mollavano due terzi dell'indennità al partito che poi li avrebbe sfruttati al loro ritorno smettendo di pagarli visto che avevano il vitalizio. A Montecitorio arrivavano gli echi degli aumenti che i magistrati attraverso la loro autonomia si concedevano senza chiedere il parere di nessuno. E poiché chi fa le leggi non può guadagnare meno di chi le applica, scattava la corsa all'adeguamento. Capitoli grigi e albertosordiani, che riflettevano l'Italia del boom, poi del centrosinistra, dei pentapartito, dell'arco costituzionale, delle formule e dei veti incrociati, del nuovo italiano leguleio e democristiano in cui però ogni sillaba aveva un significato e se non parlavi la lingua era meglio che cambiavi mestiere. Montecitorio oggi sembra il museo di Montezuma, o un tempio egizio, qualcosa di alieno, da Guerre Stellari. Oggi è abitato per lo più da strani alieni, assediato all'esterno da vocianti che suonano i tamburi e le pentole, intimidito, ridotto molto peggio dell'aula sorda e grigia disprezzata da Mussolini. I nuovi disprezzatori preparano una Montecitorio on line, controllata per via telematica, non più programmi ma contratti, niente più segretari ma capoccia. Un secolo è passato, Montecitorio è un ricordo.

Cent’anni d’aula ma per la destra resta grigia. Fico: lottiamo per la democrazia. La celebrazione dei cent'anni dell'aula di Montecitorio, realizzata dall'architetto liberty Ernesto Basile, scrive Daniela Dalerci il 20.11.2018 su Il Manifesto. Un lungo applauso alla memoria di Giacomo Matteotti, il socialista che nel 1924 pronunciò l’ultimo discorso nell’aula di Montecitorio prima di essere trucidato dai fascisti. Altri poi ne arrivano, dagli spalti pieni zeppi anche di ragazzi e ragazze, alla memoria di Aldo Moro, Nilde Iotti, prima donna eletta presidente della Camera, ai martiri della strage di Capaci la cui notizia fu data nell’emiciclo praticamente in diretta. Parterre de roi ieri mattina per la celebrazione dei cent’anni della bellissima aula costruita dall’architetto liberty Ernesto Basile, in soli dieci anni – oggi sarebbe un record positivo. Ai banchi riservati ai rappresentanti delle commissioni stavolta siedono il presidente della Repubblica Mattarella, quello emerito Napolitano, il presidente del consiglio Conte. Per il Senato c’è la vice presidente Paola Taverna nella sua versione istituzionale (la presidente Casellati è assente giustificata, in missione a Londra). Presente anche mezzo governo coté cinquestelle – i leghisti sono indifferenti alle liturgie laiche e repubblicane e danno per lo più forfait. Schierati anche tutti gli ex presidenti, Luciano Violante, Pier Ferdinando Casini, Laura Boldrini, Gianfranco Fini e Piero Grasso. C’è una robusta componente di retorica in ogni celebrazione e il presidente Roberto Fico, padrone di casa, ne usa per richiamare tre giuste cause: l’antifascismo, la democrazia, la pace. E il tono istituzionale e bipartisan in bocca ad un grillino è già di per sé una buona notizia. L’aula è «la casa degli italiani», dunque per il presidente («casa della buona politica», aveva detto nel 2013 Laura Boldrini al momento del suoi insediamento, ma la buona intenzione si era persa giù per i rami della legislatura), «il luogo in cui trova espressione la sovranità popolare. Il luogo dove costruire il futuro», e la «centralità» del parlamento e la sua trasparenza sono «la chiave per ridurre il senso di distanza e la crisi di fiducia dei cittadini verso la politica». Poi aggiunge a braccio: «Celebrazioni così servono a non dare mai niente per scontato. La democrazia non è scontata. Tutti insieme ogni giorno dobbiamo lottare per cercare di mantenere forte e salda la democrazia». Parole sante. Ispirate da buoni sentimenti parlamentaristici. Non sempre in linea con i progetti della Casaleggio Associati. E peccato siano solo parole: in questa stagione le commissioni spesso e volentieri si bloccano o slittano causa disaccordi nella maggioranza. Parlano gli storici Alessandro Barbero e Simona Colarizi, lo scrittore Paolo Di Paolo. Il centenario dell’aula coincide con l’anniversario della prima guerra mondiale, l’«inutile strage» di Benedetto XV, ed è lì che spesso tornano gli interventi: la fine della guerra e quella vittoria che in realtà prepara pochi anni dopo la marcia su Roma. Alla destra radicale salta la mosca al naso. Un paio di manine solitarie avevano tentato un applauso alla citazione della camera dei fasci e delle corporazioni. La cosa muore lì, nell’imbarazzo generale. Ma alla fine i deputati di Fratelli d’Italia, già insofferenti al tributo a Matteotti, sciamano via. Fabio Rampelli, pugnace vicepresidente della camera, tuona alle agenzie. L’aula di oggi per lui non è «sordida e grigia», però è «disadorna e dimessa», ed «è stata costretta con la violenza a una vergognosa mortificazione della vittoria italiana», quella della prima Guerra Mondiale. Il racconto dei cento anni non gli è piaciuto affatto perché punteggiato di troppo antifascismo e cioè secondo lui composto da «mille stagioni che hanno diviso il popolo italiano invece di celebrarne il momento più bello, più alto, più unificante», la sanguinosa guerra che apre la strada al fascismo. Ce l’ha soprattutto con il filmato di Rai Storia che viene proiettato nel corso della cerimonia. Rampelli vede rosso. Nel testo, attacca, non c’è «nessun accenno alle foibe comuniste, all’autunno caldo comunista, al sessantotto comunista, al terrorismo comunista. Nel secolo trascorso pare il comunismo sia stata un creazione fantastica, scomparso per magia anche dalla strabica quanto inutile ricostruzione», «probabilmente sotto la regia di qualche brigatista pentito». Non è da meno Forza Italia: lamenta che Berlusconi è stato sbianchettato dai momenti clou della vita parlamentare, «grave omissione» addebitata a Fico. Che incassa invece i complimenti generali e minimizza: «Un bel giorno, una bella commemorazione, tutto tranquillo».

Fico riscrive la storia e la destra lascia l'aula: "Fazioso e anti italiano". Nel centenario dell'emiciclo di Montecitorio il presidente dimentica Berlusconi e le foibe, scrive Laura Cesaretti, Mercoledì 21/11/2018, su "Il Giornale". A Montecitorio si celebra il centenario dell'inaugurazione dell'aula della Camera dei deputati, capolavoro Art Nouveau firmato dal palermitano Ernesto Basile, e nell'emiciclo c'è il parterre delle ricorrenze solenni: il capo dello Stato Sergio Mattarella, il presidente emerito Giorgio Napolitano, molti ex presidenti della Camera (dalla Boldrini a Casini, da Fini a Violante) e naturalmente l'attuale padrone di casa, il grillino Roberto Fico. La cerimonia di ieri mattina era tanto solenne quanto evocativa, perché l'inaugurazione dell'aula coincise con la fine della Prima Guerra Mondiale, che vide l'Italia nel novero delle «potenze vincitrici». Ma cento anni (e due guerre mondiali, la seconda per fortuna persa dagli italiani) non sono evidentemente bastati a far smaltire gli spiriti bellici, così anche in questa circostanza scoppia la rissa. Con il drappello di parlamentari di Fratelli d'Italia che inscena una protesta, abbandonando l'aula sotto lo sguardo perplesso di Mattarella, e che accusa Fico di «anti-patriottismo» nonché di «pacifismo», e gli storici da lui invitati - il brillante Alessandro Barbero e la professoressa Simona Colarizi - di «nostalgie asburgiche» per la rilettura «critica» della vittoria del 1918 (Barbero ha ricordato come «l'illusione di essere diventata una grande potenza» e la rabbiosa «retorica della vittoria mutilata» aprirono la strada «verso nuove rovine»), nonché di eccessivo «sinistrismo». Mentre da Forza Italia si contesta il docufilm Rai proposto in aula che, ricostruendo la storia politica italiana, «rimuove la discesa in campo di Berlusconi». In verità più che il «pacifismo» (nel suo discorsetto, letto con diligenza ma con qualche incespicatura, Fico si è limitato a ricordare «l'altissimo tributo di vite umane e di dolore» della Grande Guerra, dato difficilmente contestabile), a sollevare qualche inquietudine per le parole del presidente della Camera è stato se mai un altro aspetto. Nella parte finale dell'intervento, infatti, l'esponente grillino ha parlato del futuro del Parlamento e, sia pur con fumosi giri di parole, si è fatto latore delle teorie un po' orwelliane della Casaleggio sul superamento della democrazia rappresentativa e l'avvento di un'età dell'oro della «democrazia diretta». Fico ha spiegato di «credere fermamente» nel fatto che «il Parlamento debba essere un'istituzione culturale» (affermazione piuttosto avventata, nella forma e nella sostanza) e a suo dire «capace di ascoltare direttamente le richieste dei cittadini e comprendere le loro aspettative». E ha proseguito sostenendo che «l'apertura di questa istituzione va realizzata anche valorizzando tutti gli strumenti di partecipazione dei cittadini al processo legislativo e alla definizione delle politiche pubbliche». Un riferimento neppure troppo velato alle modifiche della Costituzione che il suo partito ha depositato e vuol promuovere, a cominciare dall'introduzione del referendum propositivo senza quorum, una sorta di plebiscito che scavalcherebbe completamente il ruolo del Parlamento. Tutto questo, naturalmente, dopo aver reso omaggio alla «centralità del Parlamento». Il paradosso è che, proprio mentre Fico recita impettito il suo compitino su quanto sia importante che «il senso profondo della democrazia» si «sostanzi nella discussione e nel confronto», i deputati della sua corrente fanno marcia indietro e si allineano obbedienti alla linea del partito. In diciotto avevano annunciato fiera opposizione e battaglia di emendamenti contro il salviniano decreto Sicurezza, ma è durata meno di 24 ore: ieri, in nome della ragion di governo, hanno rinunciato a presentare le loro proposte di modifica e voteranno obbedienti il provvedimento. Sarà per la prossima volta.

Cambiare il passato: un vizio totalitario. La politica manipola la storia perché vede tutto "bianco o nero" e non coglie le sfumature, scrive Giordano Bruno Guerri, Mercoledì 21/11/2018, su "Il Giornale". Non è certo un male che in Parlamento si parli e si discuta di storia - maestra di vita, ahimè, in una classe di asini - se lo si facesse in modo non prevenuto e fazioso: com'è avvenuto ieri durante le celebrazioni per il centenario della nuova aula della Camera. In quell'aula che Mussolini definì «sorda e grigia» (oggi colorata e colorita da deputati variopinti nei modi e negli abiti) sembra che abbia prevalso la faziosità, sia da parte di chi ha organizzato, sia da parte di chi ha commentato. È dai tempi di Omero, ma anche prima, che la storia viene interpretata, celebrata, manipolata a seconda delle convenienze: in genere quelle dei vincitori. È accaduto in tutti i tempi e in tutti i paesi, e si continuerà così, perché il passato è la base del presente e annuncia il futuro. Interpretandolo in un certo modo - e più spesso manipolandolo - si cerca in realtà di sembrare diversi da quello che si è, e comunque di attribuire la colpa ad altri per ciò che non va. In Italia accade forse più spesso, perché siamo un popolo fazioso per motivi storici (la lunga divisione, i campanili) e perché la nostra storia recente è avanzata per scossoni. Nel giro di appena un secolo il Risorgimento e l'Unità sono stati realizzati dalla classe dirigente liberale, ma il fascismo - per esaltare se stesso - pur esaltando Risorgimento e Unità ha dovuto infangare la classe dirigente liberale. Caduto il regime gli sconfitti della democrazia a lungo non hanno voluto riconoscere che quel regime godeva di simpatie popolari, dimenticando pure le proprie responsabilità per essersi trovati divisi e deboli davanti alla sua affermazione. Se il mancato riconoscimento del «consenso» al fascismo è durato più del regime stesso - dal 1945 agli studi di Renzo De Felice, nella seconda metà degli anni Settanta - non stupisce che oggi ci si accapigli sulla prima guerra mondiale, la sua genesi, il suo svolgimento, la sua conclusione e le sue conseguenze. Il centenario favorisce sfoghi e singulti. È di questi giorni, per esempio, lo sdegno di un giornalista del Corriere della Sera verso Gabriele d'Annunzio, indicato fra i principali responsabili dell'ingresso in guerra dell'Italia: ma tacendo del tutto che, ben più di un poeta, influì sull'opinione pubblica e sul governo proprio la molto più autorevole voce del Corriere della Sera. E che, proprio dalle prime pagine di quel giornale, il Vate lanciava molti dei suoi appelli alla guerra. Non ne farei una colpa né a d'Annunzio né al Corriere, quelli erano i tempi, quella era un'onda della storia che veniva da molto lontano, si potrebbe dire addirittura da un secolo esatto prima, dal Congresso di Vienna. Ma vallo a spiegare a chi vuole avere ragione a tutti i costi, specialmente quando ha torto (o non sa). È il caso dei politici, che per deformazione professionale partono dal bianco o dal nero, e fanno una grande fatica a intuire le tante sfumature del grigio. Mancava di grigi, ovvero di «rossi», la cerimonia in Montecitorio per i cento anni della nuova aula, ma forse è stata peggiore la reazione di chi ha definito «lercia faziosità» una faziosità polverosa che si dovrebbe combattere più nelle università - in teoria fatte allo scopo - che in Parlamento. Il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa è stato corretto e lodevole andando a stringere la mano alla storica Simona Colarizi: «Le devo dire che la sua lezione non mi è piaciuta e ritengo un errore averla tenuta in quest'aula»; meno lodevole il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, che se l'è presa con uno storico e scrittore eccellente definendolo «l'improbabile professore Alessandro Barbero, presunto storico». Eppure sono dello stesso partito, a dimostrare che - più della fazione - in mancanza di altri strumenti dovrebbe contare il buonsenso.

CENT'ANNI DI SMEMORATEZZA. (versione estesa dell'articolo di Marcelo Veneziani sul CorSera del 20/05/2015). Com'era prevedibile il Parlamento non ricorderà solennemente il prossimo 24 maggio, centenario della prima guerra mondiale. Lo dico ricordando la giornata speciale dedicata nell'aula di Montecitorio dalla Presidente della Camera Boldrini ai settant'anni della Liberazione, con la partecipazione delle massime autorità dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica Mattarella. Se i settant'anni del 25 aprile sono una data rilevante, si può immaginare cosa siano i cent'anni di un evento che costò più vite umane, che ridisegnò l'Europa e gli assetti planetari e che mobilitò i popoli nel primo conflitto di portata planetaria. Tanto più che la prima data viene ricordata ampiamente e puntualmente ogni anno, è festa civile a tutti gli effetti e mobilita ogni anno in tutta Italia manifestazioni e cortei. Il 24 maggio, invece, non è più festività nel calendario civile del nostro Paese, come del resto il 4 novembre, e dobbiamo aspettare un anniversario straordinario come un centenario per riproporlo all'attenzione dei media e degli italiani. Eppure si tratta di un evento che sconvolse l'Italia, l'Europa e il mondo, lasciando segni enormi, ferite non rimarginabili, drastici mutamenti negli assetti internazionali, di cui tuttora viviamo le conseguenze. Ricordando l'entrata in guerra dell'Italia sulle ali dell'interventismo non si vuole certo celebrare l'amore per la guerra. Così come, ricordando la Liberazione sulle ali della Resistenza non si vuole certo celebrare l'amore per la guerra civile, ma il significato che quell'impresa ha avuto per la libertà e la democrazia in Italia e per la nascita della repubblica. Analogamente, col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un'ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l'Italia, riproporre il tema dell'identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. Soprattutto considerando che l'Italia è un paese dal fragile senso civico, dal controverso stato unitario ma dal tenace carattere nazionale, un marchio e un brand tra i più forti al mondo. Con tutti i suoi vistosi difetti l'Italia ha una spiccata personalità nazionale. Ricordare perciò una data grande e tremenda come l'entrata in Guerra, significa rifare i conti con la dignità nazionale e il suo racconto di formazione. L'intervento nella prima guerra mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all'Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il Paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita. L'unificazione nazionale diventò allora unificazione popolare. Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, pagine di eroismo, un'epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni. Non si tratta di celebrare euforicamente e retoricamente quell'anniversario, anzi si deve sottolineare, come è già in uso, la tragedia e la catastrofe della prima guerra mondiale, le sofferenze degli italiani al fronte, gli errori dei vertici militari, le persecuzioni, gli esiti totalitari che produsse in Europa e in Russia, i genocidi che ne scaturirono. Ma non è giusto ridurre la guerra italiana solo a questo versante, come fanno in tanti, tra autori, registi, media e rappresentanti delle istituzioni. Sarebbe anzi auspicabile che il doloroso revisionismo applicato sulla storia della prima guerra mondiale, che mette in luce i lati in ombra della Grande Guerra e del nostro intervento, sia applicato anche ad altri capitoli della storia, compresa la Resistenza, di cui si fa solo uso celebrativo e sono banditi i risvolti tragici, cruenti e critici. Sul piano storico bisogna perseguire la verità e il rispetto per chi visse e patì quegli eventi, senza mai sacrificarli all'intento celebrativo e apologetico. Veritas e pietas sono le ali per raccontare la storia. E l'amor patrio come passione civile per riannodare un senso e una ricavare lezione. Un equilibrio necessario. Si ripete sempre che dobbiamo coltivare la memoria storica e dobbiamo tornare ad amare il nostro paese, risvegliandone il senso comunitario e l'identità nazionale. Perché allora non dedicare una giornata solenne del Parlamento a quell'evento? Anche per ricordare che l'Italia non è nata nel 1945 e la sua memoria storica non si ferma a settant'anni fa, ma risale a molto, molto prima. Italia: nazione antica, civiltà più antica, stato unitario recente e repubblica più recente. Ma vera, cioè reale e spirituale al contempo. La Nazione, prima di essere un partito, è un sentimento condiviso.

È la legislatura più inoperosa della storia. Alla Camera ci sono rimasti i fantasmi. Allo scoccare dei suoi cento anni, l'Aula di Montecitorio si svela desolatamente vuota. Di persone, di leggi, di vita. Implacabili le statistiche: due provvedimenti nei primi cento giorni di governo, dieci sedute al mese. Ed è solo la punta dell'iceberg di una centralità perduta, scrive Susanna Turco il 13 novembre 2018 su "L'Espresso". Siamo arrivati, cent’anni dopo, al bivacco sui divanetti. Fuori dall’Aula - più o meno sorda e grigia - direttamente fuori. Ma che ci fosse un difetto originario di prospettiva, un pervicace torcersi delle cose nel loro opposto, poteva essere chiaro fin dall’inizio. Quando, inaugurando la nuova Aula della Camera, il 20 novembre 1918, Giuseppe Marcora, presidente della Camera dei deputati del Regno d’Italia, cominciò il suo discorso «Per la vittoria», conquistata due settimane prima nella Prima guerra mondiale, con queste parole: «Onorevoli colleghi, l’Italia è compiuta». Complimenti per la previsione. Quel giorno, raccontano le cronache dell’epoca, anche le tribune in cima all’Aula erano piene fino all’orlo. Rappresentanti dei mutilati di guerra, delle terre redente, gente comune in attesa per ore per assistere all’evento. Cent’anni dopo, Montecitorio, pur avendo in teoria nell’era giallo-verde forse più senso che mai, si ritrova di fatto svuotato: di persone, di leggi, si direbbe di vita. I deputati si aggirano come sperduti in corridoi rimbombanti. Le statistiche hanno detto che i più assidui sono 90. Il simbolo di questa epoca può essere il velista Andrea Mura: eletto con i Cinque Stelle, in piena estate ha chiarito essere più utile fuori del Parlamento che dentro. Una Camera zombie. Dove capitano settimane nelle quali non si sappia cosa scrivere sugli ordini del giorno (esempio: la terza di luglio. Altro esempio: la terza di settembre). Le statistiche dicono infatti che questo è il Parlamento più inoperoso della storia repubblicana: e lo è, per paradossale che possa sembrare, nel momento in cui a conquistare la maggioranza è proprio un movimento che predicava di aprire i Palazzi come «una scatoletta di tonno». I numeri sono implacabili: due leggi votate nei primi cento giorni del governo, il decreto dignità e il mille proroghe, sedute al ritmo di dieci al mese (67 tra metà marzo a metà ottobre, i dati più recenti), 15 leggi definitivamente approvate, di cui 9 conversioni di decreti legge. Ma forse, anche viste e considerate le circostanze eccezionali di quest’avvio di legislatura (quasi novanta giorni senza governo) vi è anche da dire come quest’esiguità sia forse solo la punta dell’iceberg - per un universo che più che mole di numeri sembra aver perso centralità. Nell’emiciclo costruito cent’anni fa sul progetto dell’architetto Ernesto Basile, quell’Aula che Benito Mussolini, appena nominato capo del governo, presentando la sua squadra il 16 novembre del 1922 chiamò «sorda e grigia» minacciando (come poi avrebbe fatto) di trasformarla in un «bivacco di manipoli», si aggirano infatti parlamentari che, dopo aver trionfato a cavallo del mito dell’anticasta, mangiano sì tutti insieme alla mensa dei dipendenti invece che al ristorante dei deputati per far vedere che non sono omologati (ma vi sono precedenti anche in questo senso: dai deputati di Rifondazione comunista agli ex missini), si stupiscono tuttavia che i funzionari del Palazzo - incarnazione del male assoluto da scardinare, secondo la logica grillina - oltre a dar loro tutti gli strumenti e il supporto necessari a lavorare, non gli scrivano anche materialmente i discorsi da pronunciare, in Aula e in Commissione: «Ma come, non ce li scrivete voi i discorsi?», è stata la domanda stupita e quasi delusa della scolaresca neodeputata a Cinque Stelle. Voci che il Palazzo fa rimbombare come un tam tam, di quelli invisibili e spietati. Ma, appunto, la torsione è come iscritta nella storia di un palazzo costruito là dove una volta, in epoca romana, si cremavano gli imperatori (Ustrinum), e ampliato secondo la visione novecentesca e laica di un architetto che aveva immaginato con un uso tutto diverso, a partire dall’ingresso. Anche il film della fin qui breve legislatura lo racconta. Pochi i giorni lavorati, pochissime le leggi discusse: d’altra parte, i primi cento giorni della legislatura passano con i deputati privi pure di uffici assegnati, assisi perciò principalmente sui divanetti del Transatlantico e al massimo intenti a presentare proposte di legge (dopo tre mesi se ne contano 1.259). Ma soprattutto un approccio generale davvero inedito. Lo si vede ad esempio nei question time (le interrogazioni a risposta immediata ai membri del governo): in questa legislatura sono i primi della storia con claque e applausi a scena aperta a sostegno della maggioranza. È fine giugno, Matteo Salvini viene interrogato sui beni confiscati ai Casamonica dal leghista Gianluca Vinci che, al termine, dopo ripetuti applausi da parte dei deputati della maggioranza, si dichiara «sinceramente soddisfatto» della risposta: «Finalmente, signor Ministro, dopo tanti anni, nel suo scranno è tornato a sedersi un uomo che, come lei, tiene al proprio Paese e che rende onore al suo Ministero. I cittadini aspettavano veramente da tanto tempo questo momento, e la ringrazio ancora». Più soddisfatto di così. È lo stesso Salvini a stupirsene: «È la prima volta che al question time c’è più maggioranza che opposizione». Ed ecco, da strumento di controllo sul governo l’interrogazione diventa strumento di elogio del governo. Lo stesso trattamento, manco a dirlo, tocca anche a Luigi Di Maio. Interrogazione a risposta immediata sulle pensioni, di Sebastiano Cubeddu e Davide Tripiedi dei Cinque Stelle. Alla fine Tripiedi dichiara solenne al microfono: «Siamo veramente soddisfatti della risposta e me lo faccia dire, Ministro, siamo veramente orgogliosi di lei. Perché glielo dico proprio da giovane, figlio di una gioventù distrutta da una politica che ha pensato solo ai propri tornaconti. Finalmente il Parlamento e il Ministro si occupano delle ingiustizie: stiamo ripristinando un po’ di giustizia sociale, Ministro». Applausi: ed è fine giugno. Non si è ancora cominciato a lavorare, i presidenti di commissione sono stati appena nominati: ma la «giustizia sociale» è già un pezzo avanti. Altro caso che spiega bene come lavorino oggi alla Camera è nella discussione del decreto sul Tribunale di Bari. Siamo a metà luglio: è il primo provvedimento che ha forza di legge, è la prima rissa della legislatura, con schiaffoni tra Fratelli d’Italia e leghisti. Ma se il parapiglia è un grande classico delle Aule parlamentari di prima, seconda e terza Repubblica, a essere nuove sono certe modalità di presenza. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ripetutamente chiamato in causa durante la seduta per dare spiegazioni sulla scelta del nuovo palazzo in cui collocare il Tribunale, invece che presentarsi tra i deputati scrive un post su Facebook. Comodo, no? A leggerlo in Aula è, integralmente, il deputato di Leu Federico Fornario, dal telefonino. Mentre, dai banchi del governo, il sottosegretario Vittorio Ferraresi, forse dimentico dell’esistenza dell’articolo 68, cioè dell’insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle funzioni, dice di aver sentito «inesattezze gravi» di cui ciascuno «si prende la responsabilità». Come se dall’Aula di Montecitorio si dovesse finire in tribunale. «È un simulacro di ministro della giustizia», attacca l’azzurro Francesco Paolo Sisto, avvocato barese. «Un avatar», dicono da Fratelli d’Italia. Copie digitali. Del resto anche l’opposizione non è, di media, così vivace: sembra, anche lei, una copia sbiadita di se stessa. Una morta vivente. Obiezioni sbilenche, approssimazioni, pasticci. Dell’Aula di Montecitorio si fa volentieri a meno. E del resto, come si diceva, la direzione sta nell’incipit. Inaugurata con la prospettiva di celebrare il trionfo degli ideali risorgimentali, già un anno dopo nel 1919 l’Aula avrebbe visto approvare la riforma elettorale proporzionale, poi i nuovi regolamenti parlamentari con l’introduzione del sistema dei gruppi politici: insomma il rapido superamento di se stessa, fino allo schianto della marcia su Roma. Adesso, nel 2018, in piena estate, c’è chi - a proposito di utilizzo degli spazi - è arrivato a chiedere un’area di meditazione per fare yoga direttamente a Montecitorio e «consentire di superare il pensiero superficiale e inutilmente violento del dibattito politico». Mentre, sempre nell’estate 2018, uno dei provvedimenti più significativi per segnare la linea è quello portato avanti con strenua determinazione dallo stesso presidente della Camera, Roberto Fico: il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari. Che si sostanzia però, ancora una volta, non in un provvedimento d’Aula: avviene tutto attraverso una delibera dell’Ufficio di Presidenza. E viene poi celebrato direttamente in piazza. In piazza Montecitorio, un po’ come la cremazione degli imperatori in epoca romana. Senza passare dall’Aula, appunto. Non è questa, in fondo, l’essenza del Casaleggio-pensiero? Recita parlando con un quotidiano l’imperatore del Movimento Cinque Stelle, il presidente dell’Associazione Rousseau, Davide Casaleggio: «Oggi grazie alla rete e alle tecnologie esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». E prevede, nella stessa intervista, che «al Parlamento resta il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti. Tra qualche lustro è possibile che non sia più necessario nemmeno in questa forma». Quali anticorpi l’istituzione propone? Ancora una volta, è il presidente della Camera Roberto Fico a rispondere: «Credo fortemente nella centralità del Parlamento e ritengo che il suo operato vada valorizzato nell’interesse collettivo», ribadisce di fronte alle parole di Casaleggio. E in pratica che fa? Riunisce i presidenti delle commissioni parlamentari, e fa sapere che intende proporre alla giunta del regolamento una rivoluzionaria novità. Questa: presentare gli emendamenti solo in formato digitale, con gran risparmio sulla spesa per la carta. Orgoglio Camera. Per chi resta, almeno. Secondo i dati di Openpolis, gli eroi quasi sempre presenti nei lavori d’Aula sono in Novanta. Tipo Termopili. Una istituzione semideserta, nella quale il deputato velista Andrea Mura, 96 per cento di assenze, ha buon gioco a rivendicare: «Sono più utile alla patria e ai destini degli oceani andando in barca a vela. E poi noi Cinque Stelle a Montecitorio siamo più di 200. Io a che cosa servo, visto che la maggioranza ce l’abbiamo già ampiamente?». Espulso dal M5S e dimesso da deputato con una rapidità degna di miglior causa - in una Camera dove il decreto per Genova arriva 40 giorni dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri. È vero che, nella seconda Repubblica, la consuetudine di bocciare le dimissioni dei parlamentari faceva sì che anche gli incompatibili conservassero la carica. Ma, come si vede, quanto ai drammi e ai dilemmi dello stare o non stare in Aula, da qualsiasi Aventino si è lontanissimi.

Senza quell’Aula non c’è democrazia. Un Parlamento sempre più svuotato e privato del suo ruolo costituzionale. Questo è sempre stato il sogno delle peggiori destre. Chi ha puntato tutto sulla delegittimazione della rappresentanza, poi ha attaccato i corpi intermedi.  Per comandare in solitudine, scrive Marco Damilano il 6 novembre 2018 su "L'Espresso". Qualche settimana fa mi è capitato di accompagnare un gruppo di ragazzi in visita alla Camera dei deputati. Giovani intelligenti, sensibili, già dotati della giusta dose di malizia e di disincanto di fronte alla retorica, li ho visti girare emozionati per i lunghi corridoi di Montecitorio, il Transatlantico, le sale della Lupa dove si riunirono i deputati dell’Aventino dopo il delitto di Giacomo Matteotti nel 1924 e dove fu proclamata la Repubblica nel 1946, la sala della Regina, fino ad arrivare alla tribuna che si affaccia sull’aula. «C’è un senso di religiosità», mi ha detto uno di loro, a ragione. Il Parlamento, ogni parlamento, è un tempio laico dove si celebra la religione della libertà, della democrazia e del pluralismo. Quello italiano ancora di più, perché ha subito nel corso della sua storia l’onta di essere stato trasformato dal regime fascista nella Camera dei fasci e delle corporazioni, con i gerarchi tutti in camicia nera. Sono passati cento anni dall’inaugurazione dell’aula della Camera, così come la conosciamo oggi. La prima seduta, il 20 novembre 1918, doveva celebrare la vittoria dell’Italia liberale e invece fu l’anticipo del ventennio mussoliniano. Oggi c’è un’Italia nuova, il governo del Cambiamento, eppure lo spettacolo offerto dai deputati (e dai senatori) è raggelante. Parlamento inattivo, ordine dei lavori prosciugato, attività parlamentare ridotta al lumicino. Decadenza del ruolo dei parlamentari. Chi sa indicare i nomi dei capigruppo di Camera e Senato dei due partiti di maggioranza, Movimento 5 Stelle e Lega? Coraggio, non vi preoccupate se non vi viene in mente nulla, la soluzione è in fondo a questo articolo. Eppure fino a non troppi anni fa era una carica autorevole e molto ambita, oggi non se ne conosce neppure il nome e il volto, in compagnia di gran parte degli inquilini del Palazzo. Non comincia certo da oggi, la delegittimazione delle assemblee parlamentari, e non è un fenomeno soltanto italiano. Crisi extraparlamentari, si chiamavano nella Prima Repubblica, tutte lo erano, al punto che il primo governo caduto nell’aula di Montecitorio in seguito a un voto di sfiducia è stato il governo dell’Ulivo di Romano Prodi, nell’ottobre 1998, venti anni fa. Il regno della Casta, il Palazzo lontano e distante, assediato dall’esterno, quante volte lo abbiamo raccontato così, denunciando i privilegi, i soprusi, le scandalose immunità, gli orpelli che hanno via via separato la nomenclatura degli onorevoli dai comuni cittadini. Oggi per molti il Parlamento è la House of Cards, la serie televisiva ambientata nella Casa Bianca prende spunto dai romanzi di Michael Dobbs, che fu il Chief Whip, ovvero il segretario d’aula, nel Partito conservatore inglese all’epica di Margaret Thatcher. «Un tempo Westminster era una palude sulla riva del fiume. Poi la trasformarono, costruendo un palazzo e una grande abbazia, innalzando un immenso miscuglio di nobile architettura e ambizione insaziabile. Nel profondo, però, è rimasta una palude», scrive Dobbs nel primo volume della serie, descrivendo quell’ambiente limaccioso, malsano, soffocante che è un’aula parlamentare, con le sue luci basse e innaturali, e poi i suoi trabocchetti, sporchi giochi, complotti, i deputati nel loro rapporto pericoloso con i giornalisti, spesso concentrati in un unico spazio dove ogni cosa si confonde. Eppure, se viene giù il Parlamento, cade anche la democrazia. È una di quelle banalità di cui ti rendi conto solo quando tutto è finito. In un sistema parlamentare come quello italiano giocare per trent’anni con le leggi elettorali, il numero dei deputati e dei senatori, il rapporto degli eletti con il territorio, i gruppi che nascono e muoiono in pochi mesi, in una parola la rappresentanza, ha finito per uccidere il Parlamento, per trasformarlo in un luogo abitato da zombies, come sognano sempre le destre di tutto il mondo, non solo quella italiana di un secolo fa che progettava di farlo diventare un bivacco di manipoli. Oggi il Parlamento è vuoto e fare politica significa soprattutto questo, come scrisse anni fa il politologo irlandese Peter Mair, governare il vuoto. E se il Parlamento è vuoto, nessuna illusione è possibile, anche l’opposizione che vorrà limitare la sua azione di contrasto della maggioranza alle sedi parlamentari combatterà nel vuoto e si svuoterà anch’essa. È il frutto avvelenato di questi anni, che non ha portato però a una maggiore partecipazione della società. Anzi, dopo lo svuotamento del Palazzo, anche la società ha preso a prosciugarsi, di idee, azioni, persone. In queste settimane, come ha scritto L’Espresso, c’è un grande fiorire di iniziative che nascono sui territori, spontanee, senza partiti o organizzazioni alle spalle. Ne è una prova la manifestazione in Campidoglio del 27 ottobre, un popolo di autoconvocati No-Raggi, cui la sindaca di Roma ha replicato lividamente. Per Virginia tutti i manifestanti sarebbero del Pd e dunque orfani di Mafia Capitale, esattamente come per Silvio Berlusconi le persone che scendevano in piazza contro il suo governo erano pagate dalla Cgil e per Renzi quelli che fischiavano ai suoi comizi erano tutti emissari di M5S. Fa male la sindaca di Roma a sottovalutare il segnale e a rispondere come la più ottusa dei capi-partito: la sua risposta è un altro segno dell’involuzione che sta portando il Movimento da strumento di nuova partecipazione in mano ai cittadini normali a partito militarizzato, blindato all’interno e all’esterno, chiuso come la testuggine romana invocata da Luigi Di Maio contro le divisioni e i malumori che cominciano a farsi largo tra gli eletti del 4 marzo. Più della manifestazione del Campidoglio, un sommovimento borghese, colpisce quanto sta accadendo intorno alla sfida della nave Mar Jonio, il vecchio incrociatore acquistato da un gruppo di attivisti (parlamentari e extraparlamentari di Sinistra italiana, associazioni, movimenti, centri sociali) e all’operazione Mediterranea, l’idea di mettere in mare un’imbarcazione battente bandiera italiana per il salvataggio di migranti e la denuncia di quanto succede al largo delle coste libiche. Un’azione concreta e virtuosa che ha il merito, anche, di aver mobilitato scrittori, artisti, intellettuali, come non succedeva da molti anni. Si unisce così qualcosa di molto europeo e anglosassone, la campagna e la ricerca dell’azione concreta, con un patrimonio tutto italiano, il reticolo di mondi vitali, una riserva di socialità e partecipazione che ha pochi paragoni in Europa. Questi mondi sono finiti sotto attacco negli ultimi anni. Chi ha puntato sulla delegittimazione del Palazzo della rappresentanza, curiosamente, ha puntato a condurre la stessa operazione sui corpi intermedi e su quanto si muove nella società. È una storia che in Italia si può collocare intorno agli anni Novanta-Duemila. Il Parlamento è stato spazzato via insieme ai partiti e la storia ha voltato pagina, lo racconta in modo ispirato e divertito Filippo Ceccarelli nel suo volumone appena uscito “Invano” (Feltrinelli), un manuale o un breviario sulla conquista, il mantenimento e il dissolvimento del potere in Italia nella storia repubblicana. La società è stata percossa, letteralmente, nei suoi punti più sensibili, i giovani e la voglia di un altro mondo possibile, è lo spartiacque che ha segnato la generazione di Michele Rech Zerocalcare, spezzata dai fatti di Genova del 2001, la repressione violenta del dissenso e della contestazione, sarà il cuore della mostra organizzata a Roma che non è solo un evento culturale ma politico, l’esempio di una ricucitura tra due ambienti, la piazza e le istituzioni, che si percepiscono come alternativi e che invece devono restare in un collegamento, anche conflittuale, se non vogliono essere entrambe perdenti. È la storia di questi anni: non se ne sono accorti, ma parlamentari e extraparlamentari hanno vissuto un comune destino. Ora il doppio attacco arriva alla stretta finale. È bastato qualche timido segnale di rivolta tra i parlamentari del Movimento 5 Stelle per scatenare i richiami alla disciplina e il fantasma delle espulsioni che però riguarderebbero non più un movimento ancora immaturo e appena arrivato in Parlamento, ma il partito più votato d’Italia che regge il governo e la maggioranza. E poi la minaccia del solito voto di fiducia per imbrigliare i dissidenti. E la prospettiva di rendere ancora più irrilevante la rappresentanza politica con il mito della democrazia diretta, come espresso da Davide Casaleggio sulle orme del padre visionario. Ma c’è anche il tentativo di tacitare e di silenziare quanto c’è fuori dal Palazzo: una strana parabola per un movimento che era interamente nato fuori dalle istituzioni e ora si ritrova a difendere il proprio spazio di potere, come facevano all’epoca i partiti più sordi e grigi alle domande della società. Ci si blinda contro i No Tap, dopo averli corteggiati e ingannati, e intanto si accumulano direzioni di tg, come hanno fatto tutti, nell’illusione che basti una poltrona a Saxa Rubra per mantenere le posizioni perdute. Non fa eccezione, in questo contesto, l’opposizione del centrosinistra, il Pd che continua a dividersi sui nomi e sulle date congressuali e finisce per essere assente, per la prima volta nella storia repubblicana, sia dal Palazzo che dalle piazze, sia nelle aule parlamentari, dove non si può fare opposizione perché non c’è il governo, né nei movimenti che nascono spontanei e non guidati da nessuno, nel vuoto. Il Vuoto che non prepara nulla di buono, nei prossimi mesi.

Per chi non si ricordasse i nomi dei capi-gruppo delle Camere dei partiti di maggioranza ecco la soluzione:

M5S capogruppo Camera Francesco D'Uva

M5S capogruppo Senato Stefano Patuanelli

Lega capogruppo Camera Riccardo Molinari

Lega capogruppo Senato Massimiliano Romeo

Michela Vittoria Brambilla, fannullona record. La berlusconiana in oltre sette mesi di legislatura ha fatto registrare una sola presenza nelle votazioni di Montecitorio. Forse è troppo impegnata dietro ai suoi 35 gatti? Scrive Adriano Botta il 14 novembre 2018 su "L'Espresso". Michela Vittoria Brambilla, 51 anni, ex giornalista Mediaset promossa deputata da Silvio Berlusconi nel 2008, si appresta a diventare il nuovo mito assoluto dell’assenteismo parlamentare: in oltre sette mesi di legislatura ha fatto registrare una sola presenza nelle votazioni di Montecitorio (quella in cui ha detto no alla fiducia al governo Conte). Per il resto, ha già dato buca più di mille volte, con un indice di assenteismo del 99,93 per cento, secondo i dati Openparlamento.it. Del resto Brambilla deve aver parecchio altro da fare, con tre figli (l’ultimo si chiama Leonardo Silvio, «in onore a un grande uomo del passato e uno del presente») e soprattutto i 12 cani, 35 gatti, 2 cavalli, 2 mini pony, 2 asinelli, 7 capre, 2 pecore, 2 daini, 3 papere e circa 200 piccioni con cui divide casa. In più si sente «sempre un’imprenditrice più che una politica» (così ha detto in un’intervista recente al quotidiano Libero), infine deve occuparsi anche delle sue aziende tra cui la Sotra Coast, che distribuisce gamberi surgelati e salmone affumicato (in questo caso, l’animalismo passa in secondo piano). Anche nella passata legislatura (2013-2018) l’onorevole Brambilla non aveva brillato per presenze in Aula: si era vista solo all’1,1 per cento delle votazioni, pur risultando spesso “in missione”. In quella prima ancora, quando debuttò (2008-2013), aveva fatto un po’ meglio - si fa per dire - con uno score di presenze del 5,6 per cento. In totale, da quando è parlamentare (cioè da oltre 10 anni) Brambilla è stata presente alle votazioni in Parlamento meno del 2,5 per cento delle volte. Curiosamente, nella sua pagina Facebook Brambilla mette una sua foto con lo sfondo di Montecitorio, scattata quindi in una delle rare occasioni in cui l’onorevole ci è passata.

EMMA BONINO, I 5 STELLE PRO CASTA E LA FINE DEL PARLAMENTO. 

Addio senatori e deputati? La provocazione di Carlo Fusi del 19 dicembre 2018 su "Il Dubbio". Di Maio ne vuole tagliare 345. Ma perché limitarsi: non sarebbe meglio eliminarli tutti? Tanto per quello che fanno… E’ una provocazione, d’accordo. Tuttavia la colossale figura di passacarte che deputati e senatori sono costretti a fare nell’esame della più importante legge dello Stato, quella di Bilancio, conferma il loro ruolo pleonastico. Idea: aboliamo tutti gli onorevoli. Che fare di un Parlamento diventato di passacarte. Luigi Di Maio ne vuole tagliare 345. Ma perché limitarsi: non sarebbe meglio eliminarli tutti? Tanto per quello che fanno – ma meglio si potrebbe dire: che li hanno ridotti a fare – sarebbero in pochi gli italiani a dolersene. E sicuramente tutti appartenenti alla Casta che ama privilegi e prebende. Mentre la narrazione grillino- populista ne trarrebbe vantaggio: invece che risparmiare 500 milioni l’anno verre fuori una maxi sforbiciata di un miliardo e mezzo (cfr. Ugo Magri su La Stampa): quanto fa in reddito di cittadinanza pro- capite? Quanto all’altro dioscuro, l’ultrà ministro dell’Interno Matteo Salvini, non serve neppure chiederlo: i suoi obbediscono anche quando devono ingoiare il “decreto “dignità inchinandosi «all’Italia che non ci piace» (Giancarlo Giorgetti dixit). Perciò che problema c’è? E’ una provocazione, d’accordo. Tuttavia la colossale figura di passacarte che i circa mille tra deputati e senatori ( compresi quelli a vita nominati dal capo dello Stato per «altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario» come è scritto in quel reperto archeologico che si chiama Costituzione) sono costretti a fare nell’esame – si fa per dire – della più importante legge dello Stato, quella di Bilancio, conferma il ruolo pleonastico, di tipo ornamentale, che hanno assunto deputati e senatori nell’era del “cambiamento” derivata dallo tsunami del 4 marzo scorso. Di fatto, il provvedimento non verrà discusso ma solo approvato – ma no, è riduttivo: ratificato – con una raffica di voti di fiducia utili ad avere il via libera prima del 31 dicembre. Sennò si finisce nell’esercizio provvisorio: e qualcuno comincia pure a pensare che non sarebbe la peggiore delle soluzioni. L’anti- parlamentarismo che dall’Unità effonde dalle pieghe della società italiana ora non ha più bisogno di essere alimentato. Il Parlamento si spegne per consunzione, per un prolasso di efficacia e legittimazione. Le decisioni che riguardano le leggi e la vita dei cittadini vengono prese altrove. Nei vertici senz’altro segreti ma che interessate voci provvedono a divulgare un attimo dopo la conclusione. O addirittura anticipare: altrimenti i video social che ci stanno a fare? Oppure nei colloqui direttamente a quattr’occhi tra Salvini e Di Maio. O ancora in una comparsata tv: la famigerata “manina” non fu denunciata del ministro dello Sviluppo nel salotto di Vespa? Intendiamoci. Sarebbe sommamente ingiusto addossare alla maggioranza gialloverde lo svilimento di quello che una volta veniva pomposamente (ma giustamente) definito il tempo della democrazia. Decenni di pratiche furbesche coniugate a genialate elettorali stravolgenti il rapporto eletti- elettori hanno contribuito ad uno svilimento che oggi diventa inutilità. Leader e capipartito di ogni colore si sono segnalati nella pervicace volontà di riservare ad un sinedrio il più ristretto possibile, capace di garantire un controllo stringente, il diritto di scegliere chi doveva rappresentare gli italiani. Dalla Repubblica delle Preferenze – cancellate perché ritenute sentina di malaffare, corruzione ed elezioni pilotate – si è passati a quella delle Liste Bloccate: avallo dei più spericolati giochi correntizi tra capibastone e Signori dei Like. Ci si è dannati per condannare l’uso e l’abuso delle risorse economiche ai fini di indirizzare il consenso dei cittadini: i pacchi di pasta o le scarpe spaiate consegnate prima del voto oggi fanno tenerezza. Mentre si sono chiusi gli occhi di fronte allo scippo perpetrato agli elettori sottraendo loro la possibilità di scegliersi chi premiare. Adesso tra le surreali soluzioni di Beppe Grillo che i parlamentari li vorrebbe estratti a sorte, le proposte del ministro per la Democrazia diretta Riccardo Fraccaro e altre immaginifiche nonché deprimenti risultanze, l’onorevole è diventato un sovrappiù. Una prece. Centocinquantasei anni fa il giornalista e scrittore Ferdinando Petruccelli della Gattina diede alle stampe un volumetto intitolato I moribondi di palazzo Carignano, sede del primo Parlamento unitario. Vi si possono leggere frasi come questa: «La missione del Parlamento non è tanto legislativa ed amministrativa. Al punto in cui si trova l’Italia, essa è politica, sovranamente nazionale. Il Parlamento è il simbolo visibile dell’unità d’Italia. Il resto è secondario». Ora quel secondario è diventato principale.

La manovra passa al Senato. Ma è caos. Rush finale per evitare l’esercizio provvisorio, scrive il 22 dicembre 2018 Il Dubbio. Finalmente il testo del maxiemendamento è passato al Senato con 167 voti a favore e 78 contrari, 3 astenuti. Il testo il 28 torna alla Camera. Insieme alle polemiche. Il Pd annuncia il ricorso alla Consulta. Mentre si confermano i tagli alla pubblica amministrazione e il blocco delle assunzioni. Tra i motivi del ritardo anche la norma sui Ncc cambiata ulteriormente dopo le proteste dei tassisti. Tra i voti contrari quello di De Falco del movimento Cinque stelle. Le opposizioni hanno continuato nelle loro proteste: dopo quella accorata di Emma Bonino (cui ieri si è unito anche il senatore a vita ed ex presidente, Giorgio Napolitano), Pd e Forza Italia sono tornati ad accusare il governo di aver esautorato il Parlamento, interrompendo con urla i lavori d’aula. Anche sul fronte interno della maggioranza tira aria pesante, in particolare tra i grillini. La prima a farsi avanti per manifestare la sua contrarietà alla tecnica usata dal governo è stata la pentastellata “eretica” di corrente fichiana, la senatrice Elena Fattori. In un post di facebook che ha ottenuto già moltissime condivisioni ha scritto: “LA MIA ULTIMA FIDUCIA. Oggi darò forse il mio ultimo voto di fiducia a questo governo. FORSE, perché anche se nessuno se lo augura ci saranno situazioni di urgenza (terremoti, alluvioni epidemie o altre emergenze nazionali) per le quali sarà necessario varare un decreto come Costituzione prevede, fare in fretta e chiedere la fiducia al parlamento. E allora non mancherà la mia fiducia responsabile. Ma dall’inizio di questa legislatura chi aveva occupato il parlamento e le piazze per chiedere onestà, trasparenza e, soprattutto partecipazione e democrazia, ha imbavagliato il parlamento impedendogli di contribuire, correggere e proporre. Così anche questa volta non abbiamo potuto proporre: per esempio di alzare il tetto delle pensioni che non vedranno l’adeguamento (1500 euro non sono pensioni d’oro) o allocare maggiori risorse alle terre alluvionate, o all’agricoltura in difficoltà. Non abbiamo potuto impedire che si alzasse la cifra per l’affidamento diretto da 40.000 a 200.000 euro, pericolosa mossa in un paese clientelare come il nostro. E molte altre cose in un lavoro collettivo che avrebbe sicuramente migliorato il provvedimento e le vita delle persone. Ma gli italiani aspettano il reddito di cittadinanza (per quanto la misura sarà diversa da quella che abbiamo raccontato negli anni ma meglio di niente) e pensioni quota 100. Per questo non tradirò le loro aspettative e avranno tutto ciò anche per il mio lavoro e il mio voto. Ma il mio voto ci sarà soprattutto perché i tempi non consentono di tergiversare sennò andiamo in esercizio provvisorio e sono dolori per tutti. Ma poi si deve cambiare perché stiamo costruendo un presente di umiliazione delle istituzioni democratiche che legittimerà chi verrà, CHIUNQUE ESSO SIA, a fare altrettanto. E io non sarò più complice di ciò”. E, per il governo, perdere tasselli al Senato potrebbe rivelarsi fatale.

L'irritazione del Colle per la manovra al buio e il Senato come un ring.

Troppe fiducie e poco dibattito. Mattarella vuole arginare la spinta anti-Parlamento, scrive Massimiliano Scafi, Lunedì 24/12/2018, su "Il Giornale". Stupore, sconcerto. E anche una certa dose di irritazione perché, dice, «il ruolo del Parlamento va rispettato» e non sfregiato. Sergio Mattarella è a Palermo, dove passerà il Natale in famiglia e dove spera di ricaricare le pile. Ma quelle scene dell'altra sera a Palazzo Madama non le ha ancora digerite. Quel Senato nel caos, umiliato, costretto a votare al buio la manovra, a premere il tasto elettronico a notte fonda senza aver nemmeno il tempo di leggere i provvedimenti. Quella maggioranza che esulta come se avesse preso la Bastiglia, quell'opposizione zittita. E quelle clausole di salvaguardia da oltre venti miliardi che zavorrano il futuro del Paese. No, dicono sul Colle, così non va. Uno schiaffo alle Camere? Forse anche al Quirinale. Infatti soltanto pochi giorni prima - mercoledì scorso, non due mesi fa - il capo dello Stato, ricevendo nel Salone dei Corazzieri le alte cariche della Repubblica per lo scambio di auguri natalizi, aveva invitato governo e maggioranza a «garantire il pluralismo», a non esagerare, a tenere nel giusto conto le prerogative delle Camere. «Al Parlamento - queste le parole di Mattarella espressione e interprete della sovranità popolare, è affidato il ruolo centrale nella democrazia disegnata dalla Costituzione. Ruolo che contrassegna ogni democrazia parlamentare e che va rispettato e preservato per non alterare l'essenza di ciò che la nostra Carta definisce e prescrive». Dunque, il discorso è chiaro: secondo il presidente, chi non rispetta le Camere non rispetta l'architrave portante della nostra democrazia. Frasi solenni, volutamente forti, ma Mattarella non ne può più dei maxi-emendamenti, delle troppe votazioni di fiducia, e vorrebbe mettere un freno alla riduzione degli spazi parlamentari. E certo non gli può piacere la riforma a cui sta lavorando il ministro Riccardo Fraccaro, M5s, che vorrebbe sviluppare la democrazia diretta e dei social network perché «molti deputati e senatori sono inutili». E sabato notte c'è stata una rappresentazione plastica, quasi un'anteprima profetica dell'«inutilità» dei parlamentari, costretti a discutere e a votare prima una scatola vuota e poi a scatola chiusa. Lo stesso accadrà con il capo dello Stato. Salvo nuovi rinvii, la Finanziaria arriverà infatti a Montecitorio il 28 in seconda lettura per poi essere rivotata il 29. A quel punto gli uffici del Quirinale avranno poco più di ventiquattro ore per esaminare il malloppo e presentarlo alla firma del presidente. Una firma obbligata, quasi al buio, appena in tempo prima dello scadere della fine dell'anno. Una corsa contro i minuti, per evitare l'esercizio provvisorio di bilancio, lo scatto delle vecchie clausole di salvaguardia, l'aumento dell'Iva per 16 miliardi e la caduta del governo. Una fretta di cui non ci sarebbe stato alcun bisogno, se il governo avesse ascoltato prima i suggerimenti del Colle e non avesse buttato due mesi nello scontro, poi perso, con l'Unione Europea. Mattarella, che ha mediato molto con Bruxelles, ha lodato «il dialogo costruttivo con la Commissione Ue». Una scelta saggia, obbligata dalle circostanze, però tardiva. Risultato, una manovra affannata e sul filo di lana, piena di errori. Sui contenuti il capo dello Stato non si esprime. Ma la baraonda al Senato, quella non gli è andata giù.

I social stanno con "la casta". E il M5S cancella il sondaggio. Su Facebook un post contro i vitalizi: "Voi da che parte state?". Ma i follower votano contro Fico e il sondaggio sparisce, scrive Clarissa Gigante, Venerdì 29/06/2018 su "Il Giornale".  "Voi da che parte state?". Evidentemente i follower della pagina Facebook del Movimento 5 Stelle stanno dalla parte "sbagliata" se il sondaggio lanciato questa mattina sul tema dei vitalizi è sparito dopo quattro ore, quando "la Casta" batteva Fico per 63 a 37. "Noi pensiamo che i vitalizi siano un privilegio indecente e Roberto Fico si sta impegnando per eliminarsi", si leggeva nel post, "La casa non è d'accordo e addirittura vorrebbe denunciarlo per questo". Sotto, da una parte "La Casta" rappresentata da Fausto Bertinotti, Massimo D'Alema, Paolo Cirino Pomicino e Ciriaco De Mita e dall'altra il presidente della Camera ed esponente storico del movimento. E alle 16,52 (quando abbiamo realizzato questo screenshot) il risultato era netto: il 63% dei votanti dichiarava di stare con "La Casta" e solo il 37% con Fico. Una piccola "rivolta", lo scherzo dei non elettori o un post poco chiaro che ha indotto i follower a schiacciare sul volto degli ex parlamentari pensando di "eliminarli" come nel più famoso dei reality? Di certo alle 16,53 è arrivata la decisione di far cancellare tutto. Ma internet non dimentica. È una regole non scritte - e che quelli della Casaleggio Associati dovrebbero conoscere bene - della rete. Dove far passare sottotraccia un tale scivolone è praticamente impossibile...

I 5 Stelle come la casta, la legge bilancio dimentica tutti gli ideali del Movimento, scrive Giuliano Balestreri su it.businessinsider.com il 24 dicembre 2018. All’Europarlamento si sono battuti strenuamente contro “il bavaglio alla rete”. Al Trade and Innovation Forum di Shanghai, il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio aveva addirittura dichiarato: “Il nostro obiettivo principale è rendere l’Italia una Smart Nation”. Una presa di posizione chiaramente vincolata alla legge di Bilancio 2019. D’altra parte da governo che si regge su un movimento nato grazie alla rete e su un partito come la Lega che sta facendo scuola sulla comunicazione web, era lecito aspettarsi una forte spinta innovativa. Invece, gran parte delle misure contenute nel maxi emendamento vanno proprio in direzione opposta. Archiviate le delusioni della flat tax e del reddito di cittadinanza – approvate in forma poco più che embrionale -, gli elettori del governo gialloverde dovranno digerire la totale assenza della svolta innovatrice. L’ultimo in ordine di tempo a minacciare l’addio all’Italia è stato Davide D’Atri, fondatore e amministratore delegato di Soundreef: la società di gestione del diritto d’autore che ha avuto il merito di scardinare6+, obbligando la società guidata da Mogol ad aprirsi all’innovazione. “Siamo un’impresa consolidata nel mercato dell’intermediazione del diritto d’autore, grazie anche alla fiducia di fondi di investimento e venture capital tutti italiani. Non vorremmo – ha scritto D’Atri a Di Maio – lasciare il nostro Paese, come ci è stato richiesto (dagli stessi investitori ndr), qualora non si completi il processo di liberalizzazione che auspicavamo, soprattutto dopo la vittoria del Movimento Cinque Stelle che si è sempre presentato ai suoi elettori come Governo del Cambiamento”. Quando l’ex ministro Dario Franceschini recepì la direttiva Barnier, mantenendo di fatto lo status quo, fu travolto dalle critiche dei 5 Stelle. Basti pensare che il tesoriere del Movimento, Sergio Battelli, prima ancora di insediarsi in Parlamento aveva annunciato una proposta di legge “per migliorare e liberalizzare il settore dei diritti d’autore”. Proprio quello che Soundreef chiede da anni. Eppure nella legge di bilancio c’è traccia di alcun provvedimento che vada in questa direzione. D’altra parte il provvedimento prevede anche il depotenziamento del credito d’imposta per le spese in ricerca e sviluppo delle imprese. A risentirne sarà tutto il Paese comprese il comparto dei videogiochi che – da solo – vale 1,5 miliardi di euro. Proprio a Business Insider, Luca De Dominicis – fondatore dell’Accademia Italiana Videogiochi – aveva raccontato quanto il settore fosse in espansione, con sbocchi professionali enormi e con un tasso di occupazione impressionante. Per decollare il comparto avrebbe bisogno di investimenti in tecnologia, ma tutto tace. C’è poi l’irrisolto tema della mobilità. Dal bike sharing ai motorini che hanno invaso le città; dal car sharing ai colossi Uber e MyTaxi che stanno rivoluzionando il settore degli Ncc e dei taxi. Nonostante le dichiarazioni d’intenti, il governo non riesce a prendere una posizione netta a favore dell’innovazione. Non trova neppure il coraggio di regolamentare il comparto in modo tale da garantire la concorrenza. Sempre i 5 Stelle, nell’estate 2017 attaccarono il governo all’indomani del varo del Ddl Concorrenza che conteneva una delega all’esecutivo per rivedere l’intero settore e “adeguare l’offerta di servizi alle nuove forme di mobilità che si svolgono grazie ad applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti” e “promuovere la concorrenza e stimolare più elevati standard qualitativi”. Il Pd non fece nulla, ma il governo in carica ha lasciato scadere la delega senza colpo ferire. Con il risultato che oltre a non essere state mantenute le classiche promesse di matrice elettorale, non sono stati rispettati neppure gli ideali su cui il Movimento 5 Stelle ha costruito la sua intera storia.

Tutti più poveri: fatto. Qualche giorno fa Luigi Di Maio ha diffuso un foglietto con scritti a mano i presunti successi del suo governo, ognuno seguito dalla dicitura «fatto» rafforzata dall'evidenziatore, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 23/12/2018, su "Il Giornale".  Qualche giorno fa Luigi Di Maio ha diffuso un foglietto con scritti a mano i presunti successi del suo governo, ognuno seguito dalla dicitura «fatto» rafforzata dall'evidenziatore. Oggi che la sua manovra economica sta per ottenere il primo via libera del Senato, dopo una due giorni di rinvii, rivolte parlamentari e ritardi, proponiamo su questa prima pagina una nostra controlista per riassumere, purtroppo, non dei fantomatici successi ma i conclamati insuccessi di questo governo. Da oggi siamo tutti più poveri e meno liberi, e questo è un fatto che grida vendetta se pensiamo che porta la firma anche di Matteo Salvini, cioè anche la nostra che per scelta o per casualità (molti elettori del centrodestra si ritrovarono nel collegio un candidato dell'allora ancora Carroccio) il 4 marzo mettemmo una croce sul simbolo della Lega. Non è un caso che ieri il Corriere della Sera abbia pubblicato un sondaggio che dimostra come i consensi alla Lega stiano crescendo di molto al Sud e stiano calando di non poco - si parla dell'8 per cento - al Nord. La questione non è geografica, amo il nostro Sud e la sua gente, ma non è mettendo in ginocchio il Nord, bloccando le grandi opere e depauperando la sua ricchezza che si risolve il problema. Anzi, un livellamento verso il basso e un eccesso di assistenzialismo non potranno che inguaiare ancora di più gli amici meridionali, che avrebbero invece bisogno di stimoli e modelli di sviluppo da applicare. Il modo in cui si è arrivati a questa sciagurata legge finanziaria è lo specchio del suo contenuto. Il primo sì è arrivato nel caos e in spregio alle prerogative del Senato. In tanti anni non avevo mai visto una cosa del genere, in un mercato rionale o in un suk le cose procedono più ordinatamente e legalmente. Uno scempio sul quale, un po' vigliaccamente, il trio Conte-Salvini-Di Maio si è ben guardato dal metterci la faccia: niente post, nessun selfie o passerella televisiva. Semplicemente sono spariti nel nulla. C'è da vergognarsi per la forma e indignarsi per la sostanza. Ci stanno portando al fallimento esclusivamente per ambizione e interesse personale. Ci sono, nella legge, un codicillo che salva dalla bancarotta il padre di Di Maio e un altro la Raggi dall'incapacità di tappare le buche di Roma. Pagano i pensionati e i piccoli imprenditori che si sono fidati di Salvini. Complimenti, Capitano.

Luigi Di Maio, il suo giochetto ridicolo per rovinarci il Natale: ecco tutte le sue balle, scrive il 25 Dicembre 2018 Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano. La tombolata con la zia zitella e il cugino logorroico non bastavano ad avvelenare il Natale: ora a mandarci di traverso il cappone ripieno arriva il giochino di Luigi Di Maio. Ecco di che si tratta: secondo un post pubblicato ieri su Facebook dal nostro vicepremier, nel Paese starebbero «girando un po' troppe balle di Natale sulla manovra del popolo». Così il politico campano ha deciso di inventarsi un test - vero o falso - da sottoporre a parenti e affini, ovviamente con le risposte precompilate da Giggino. Con le sue balle, insomma.

IVA E PREVIDENZA. Facciamo qualche esempio. Punto uno: «Aumento dell'Iva? Falso!». Sì, per quest' anno non ci sarà, salvo sorprese. Ma c' è un problema. Per far tornare i conti, la stessa finanziaria carica 51,9 miliardi di Iva aggiuntiva sul 2020 e 2021. Per evitare la mazzata questa volta servirà un vero miracolo economico. E di sicuro per mettere le ali alle nostre imprese non basterà distribuire denaro a pioggia ai nullafacenti. Punto due: «Taglio alle pensioni normali? Falso!». Per rispondere a questa affermazione toccherebbe mettersi d'accordo sulle cifre. La legge di stabilità prevede, infatti, una stretta sulla rivalutazione degli assegni di chi percepisce più di 1522 euro netti. E una cifra simile parrebbe normalissima per una persona che ha versato contributi per tutta la vita. Giggino, invece, sembra considerarli pericolosi capitalisti, accumulatori seriali, perfidi Scrooge ingrassati indebitamente alle spalle della gente perbene che resta a casa a riflettere sul divano. Il problema, forse, è che il leader pentastellato fatica a collegare i benefit garantiti dal sistema previdenziale al lavoro svolto, probabilmente perché si tratta di un concetto a lui totalmente estraneo.

I RICORSI. Punto tre: «Taglio alle pensioni d' oro? Vero!». M5S festeggia, ma la questione è tutt'altro che chiusa. La scure del governo è effettivamente calata, ma bisogna vedere se servirà a qualcosa o se invece i giudici non faranno a pezzi il traballante impianto della norma. I rischi che ciò accada sul piano costituzionale non sono pochi, perché la tagliola non fa differenze fra le somme calcolate con il metodo contributivo e quelle che arrivano dal sistema retributivo. E le associazioni di anziani interessati al provvedimento hanno già annunciato l'intenzione di presentare una selva di ricorsi. Passiamo ad altro: «Riduciamo la platea del reddito di cittadinanza? Falso!». Anche in questo caso c' è qualcosa che non torna. Le risorse stanziate inizialmente da Palazzo Chigi per questo provvedimento erano superiori di 1,9 miliardi rispetto a quanto previsto ora. Erano 9 miliardi, sono diventati 7,1. Quindi delle due una: o i soldi verranno distribuiti a meno famiglie, oppure quest' ultime percepiranno somme nettamente più basse. In ogni caso, il Movimento Cinque Stelle ha dovuto rivedere i suoi piani. Scriverlo non è follia. L'elenco di Di Maio è ancora lungo, ma a questo punto è probabile che anche il giochino abbia stufato. Meglio tornare a dedicarsi a una deprimente tombolata.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

Caro Salvini manovra da 7 (vizi capitali), scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 24/12/2018 su "Il Giornale". Matteo Salvini dice di essere soddisfatto di questa manovra e si dà un bel sette in pagella. Si è sempre indulgenti con se stessi, sarebbe più saggio lasciare agli italiani il tempo di sperimentare sulla propria pelle questo presunto capolavoro di economia creativa e poi misurare il loro giudizio. A mio avviso siamo invece di fronte a una manovra viziata fin dal suo concepimento (il famigerato «contratto»), tanto che l’unico «sette» che viene in mente leggendola è un’analogia: quella con il numero dei vizi capitali, quell’insieme cioè di comportamenti che distruggono gli uomini contrapposti alle virtù che creano sviluppo. Il primo dei sette vizi è la superbia, quella con cui Salvini e Di Maio, convinti della propria superiorità, hanno ostentato disprezzo verso gli altri e con altezzoso distacco tradito buona parte degli impegni con i loro elettori. Il secondo vizio è l’avarizia nella sua antica accezione, cioè il bisogno sfrenato di ottenere sempre di più (più voti, più seguaci sui social, più fama) senza curarsi delle conseguenze. Ci sono pure la lussuria (tenere in piedi il governo solo per puro attaccamento ai piaceri del potere); l’invidia, cioè punire chi, dai pensionati benestanti agli imprenditori, nella vita a differenza loro ha conseguito successi e in alcuni casi ricchezza; l’ira, contro i loro critici che vorrebbero zittire e punire economicamente (i tagli all’editoria questo sono); la gola, nel senso di ingordigia e bulimia mediatica; infine l’accidia, cioè l’indolenza nell’affrontare e risolvere i problemi della maggior parte degli italiani. Questo è il mio «sette» a Salvini e Di Maio. E siccome anche io sono un peccatore, non so se per invidia o avarizia, vorrei fare una domanda a Salvini, ben sapendo che non arriverà risposta. È la seguente. Lei, caro ministro, ieri ha detto, per giustificare e minimizzare il taglio delle pensioni, che «chi guadagna dai sei ai quindicimila euro al mese può dare un contributo». Perfetto. Lei, i suoi 125 deputati e 58 senatori, guadagnate (non si preoccupi, paghiamo noi come lei ricordava a tutti prima del4 marzo) appunto sui quindicimila euro il mese. Mi sa dire che taglio lei e Di Maio avete previ- sto in manovra, come «contributo», per i suoi e vostri emolumenti pubblici? Anche perché, come lei ben sa, anche una pensione non totalmente coperta da contributi resta di gran lunga più sudata e meritata dello stipendio di uno di voi.

Continente vero. Il foglietto twittato da Luigi Di Maio per difendere la Manovra (ansa). Marziani. "In Finanziaria è presente una norma che consente di esercitare la professione infermieristica anche senza averne titolo. Servirà a semplificare l'allontanamento di Toninelli dal ministero evitando l'intervento di camici bianchi", scrive Luca Bottura il 24 dicembre 2018 su "La Repubblica". In un post vergato probabilmente da un collaboratore (po' era correttamente indicato con l'apostrofo) Luigi Di Maio ha sottoposto ai propri fan un test sulle "balle" che affliggerebbero la narrazione della cosiddetta manovra del cosiddetto popolo. Ha scritto proprio così, "balle", tra virgolette, probabilmente perché sapeva che mica stava dicendo "verità". Il testo era ospitato su un foglietto, col solito abuso di evidenziatore, e viene dopo analogo messaggio in cui si rivendicavano i successi del Governo giallobruno tra cui la sconfitta della povertà, la cura del cancro e il rinvenimento di un posteggio libero sotto le feste. Il fatto che Di Maio abbia sposato questa comunicazione da prima elementare conferma indirettamente le indiscrezioni su come fu approntato il famoso contratto: Luigi scrisse a Matteo su un foglietto la frase "Ti vuoi mettere con me?". E quello mise la croce sul sì. Che tra l'altro coincide con la sua firma.

Il primo post-con-foglietto di Di Maio ("Fatto!") era stato deriso da Mucciaccia di Art Attack. Giuro. Questo ("Vero/Falso") potrebbe invece finire nel mirino del cantante Paolo Meneguzzi, autore di analogo brano musicale dallo spessore politico comunque più pronunciato. Il prossimo passo è una citazione di Tiziano Ferro per omaggiare Di Maio senior e il papà di Di Battista: "Sere nere".

In Finanziaria è presente una norma che consente di esercitare la professione infermieristica anche senza averne titolo. Servirà a semplificare l'allontanamento di Toninelli dal ministero evitando l'intervento di camici bianchi.

Il grillino distributore di birre che ha postato sui social un post in cui si complimentava con sé stesso per aver inserito il codicillo che favorisce i distributori di birre non lo sa, ma rappresenta un paradigma: questa è tutta gente che ha combattuto Berlusconi per potersi finalmente godere un conflitto d'interessi tutto proprio.

Dopo Bibì (Bagnai) e Biborghi, i due alfieri della turboautarchia che la Lega ha piazzato a presiedere le Commissioni Economia, splende nel cielo di Twitter la stella di Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario di Paolo "boom boom" Savona, che è a favore del doppio cognome e contro la moneta unica. Ieri B. C. ha diffuso ai suoi follower quanto segue: "I Criceti di Satana col loro globalismo irenico promuovono il tribalismo malthusiano omicida mirando a pulizie etniche su scala mondiale per assecondare i bisogni edonistici di elite sociopatiche". I criceti di Satana. Dev'essere il primo effetto degli sgravi sulle birre.

Manovra, Filippo Facci inchioda Gianluigi Paragone: "Il giornalista che ha fatto carriera coi fondi pubblici", scrive Filippo Facci il 24 Dicembre 2018 su "Libero Quotidiano". Il giornalista più apertamente lottizzato d' Italia (l'ha pure ammesso) tuona contro la casta dei giornalisti. Il giornalista notoriamente ingrassato coi contributi pubblici (dalla Padania alla Rai alla poltrona da parlamentare: tutto per sostanziale nomina, altro che «lettori» ed «elettori») tuona contro i fondi all' editoria, il cui taglio «lo chiedono i cittadini»: più una serie di spaventose e superficiali cazzate che tornano utili solo a chi, durante le feste, volesse tenersi leggero: gli basterebbe sbirciare, prima di ogni portata, che cos' ha detto e scritto Gianluigi Paragone il 17 dicembre scorso. Dopodiché, ora, dovremmo passare al merito tralasciando il pulpito: ma è veramente dura dimenticare il pulpito. «Lo dicevo prima e posso ribadirlo adesso: i giornalisti italiani sono una casta», parole sue. E quando lo diceva, Paragone? Forse la prima volta che sentimmo parlare di lui: quand' era direttore della Padania, da immaginarsi con quale indipendenza (e con quali meriti fosse stato insediato) in un periodo in cui i giornali di partito non vivevano «anche» grazie ai fondi per l'editoria, ma solo ed esclusivamente grazie a essi. Poi che ha fatto, l'uomo che «lo diceva prima»? Dopo il periodo probabilmente più libero della sua vita (a Libero, appunto, quotidiano che già percepiva gli orribili fondi) il lottizzato Paragone, coi piedi in due caste, approdava dal niente alla vicedirezione di Raiuno e alla conduzione di sbracatissimi programmi tipo «Malpensa, Italia» (poteva chiamarlo direttamente «Gemonio, Italia», a quel punto) e inaugurava quella che a parere dello scrivente è la serie di talkshow più brutti, squallidi, volgari e arruffapopolo che avevamo mai visto. Poi, passando d' un tratto alla direzione di Raidue per logiche sicuramente molto professionali, e soprattutto annusata l'aria che tirava, cercò di ri-verginarsi annunciando «mi dimetto da giornalista di centrodestra» e intensificando la caciara di puntate titolate, per esempio, «Politici, ora basta!». Si mise l'orecchino e cominciò a introdurre le puntate suonando la chitarra. Una sera, in diretta, meritò il commento del compianto Giorgio Straquadanio: «Paragone si sta già preparando il futuro». E tu prova a smentirlo. Paragone ci provò: «La Rai non è della politica», rispose. No, infatti: la Rai è dei partiti. Intervistato dal Corriere, disse: «La mia è una trasmissione di rottura disordinata, io non ho le idee chiare, non è populismo, forse è anarchia, è il disordine che viene dal fatto che non riesco più a trovare un senso o un ordine a quello che sto vivendo». E siamo perfettamente d'accordo con lui. Ma adesso andiamo veloci, sennò si fa noiosa: d' un tratto diventò amicissimo di Urbano Cairo e Diego Della Valle ed ecco «La gabbia» su La7, l'antisistema come estetica, l'antieuro come missione, le teorie del complotto come fondali. Diventò l'idolo dei deficienti no vax. Sinché venne cancellato dal nuovo direttore di rete. Rimasto a spasso, dopo aver usato la politica per fare il giornalista, usò il giornalismo per fare il politico: a fine settembre 2017 condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier e se lo portò dietro nella presentazione del suo sobrio libro «Gang Bank. Il perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita». Candidato nel listino. Eletto. A quel punto mancava solo un suo blog sul Fatto Quotidiano. Fatto.

Il caso Rai -  E finalmente, ora, possiamo occuparci delle scemenze che ha scritto contro il mondo che ha partorito lui. Paragone dixit: «Noi del MoVimento 5 Stelle avremmo cominciato una sorta di regolamento di conti per seguire i desiderata sia del vicepremier Luigi Di Maio sia del sottosegretario Vito Crimi». Sì. Esattamente. «L' accusa che ci muovono è quella di soffocare il pluralismo dell'informazione e di colpire il diritto dei cittadini ad essere informati».

Esatto, sì. «Che il taglio dei fondi per l'editoria ci sia, è vero. Che sia richiesto dagli stessi cittadini è altrettanto vero. E che i cittadini e i lettori stiano abbandonando il sistema dell'editoria tradizionale è fuori dubbio». Paragone ci sta ricordando che i lettori dei giornali di carta calano in tutto il mondo, ma ecco che cosa sta facendo il governo secondo lui: «Nient' altro che un riordino di un comparto che parte da un dato di fatto se i lettori non ne vogliono più sapere di un giornale, non è concepibile che indirettamente tutti gli italiani debbano concorrere a tenere in vita dei giornali che in edicola non funzionano più». Fine. L' analisi di Paragone è tutta qui. Dopodiché possiamo spiegargli un paio di cose, oltre a quelle che ha già spiegato la direzione di questo giornale a proposito dei soldi statali che se ne andranno comunque in sussidi di disoccupazione (per i giornalisti licenziati, giocoforza) e soprattutto dei soldi che continuano ad andare al pozzo senza fondo chiamasi Rai, quella che serve a far suonare la chitarra a Paragone. Allora.

1) Il liberismo e il «mercato», da soli, non assicurano la sopravvivenza neppure a case editrici, cinema, teatri, opere liriche, musei, mostre e monumenti. Se dovessero campare solo di prodotti e biglietti, chiuderebbero domani. Che facciamo, tagliamo tutto anche lì, data la caratura culturale de «i cittadini» di cui parla Paragone? Gente che probabilmente della cultura ha sempre fatto a meno, e che i giornali non li comprava neanche prima? Senza contare che l'informazione rientra tra i diritti costituzionali garantiti dallo Stato, non è un'elemosina. Non a caso i contributi per l'editoria diretti o indiretti esistono anche all' estero, e segnatamente nella gran parte dei paesi europei.

2) Se anche fosse vero - come dice l'orecchiante Paragone - che «i cittadini e i lettori stanno abbandonando il sistema dell'editoria tradizionale», è sicuramente vero che i soldi per l'editoria digitale vengono proprio e ancora dalle copie cartacee. L' 85 per cento dei ricavi viene ancora dalle carta, per essere precisi: ogni giorno si vendono 2,8 milioni di giornali tradizionali che hanno 16,2 milioni di lettori. Si vede che è gente poco d' avanguardia. L'Agcom comunque informa che il 98 per cento dei giornali online, in Italia, fattura meno di 21mila euro all' anno.

3) La pretestuosità dei tagli all' editoria non si evince solo dai commenti all' intervento di Paragone («devono morire di fame», «i giornalisti mentecatti andranno a zappare la terra o a servire i loro padroni come camerieri») ma anche dalla recente falsità pronunciata da sottosegretario Vito Crimi, che ha definito l'editoria come «il settore più assistito da parte dello Stato». Crimi ha parlato vagamente di una spesa di 3,5 miliardi di euro in 15 anni, cifra che non si sa dove abbia preso. Bene: solamente i sussidi elargiti alle fonti energetiche ritenute dannose per l'ambiente (tipo gas, carbone, petrolio, ecoballe) ammontano a 11,5 miliardi all' anno: dati del Ministero per l'Ambiente. Nel programma dei grillini, tra l'altro, c' è l'abrogazione di questi sussidi, e invece non c' è quella dei fondi per l'editoria. Le innumerevoli interviste e interventi dei mesi scorsi da parte di esponenti leghisti, secondo i quali non ci sarebbe stato nessun taglio, fa capire, infine, come la questione sia stata oggetto di un mero mercato politico. In lingua italiana, quello di Matteo Salvini si chiama voltafaccia.

4) Ultimo ma non ultimo: nei fatti, a guardar bene, il taglio voluto dall' emendamento dei grillini non abolisce i fondi per l'editoria, ma ne vieta l'accesso a circa una ventina di testate diversissime tra loro (l'Avvenire, il manifesto, Libero tra queste) che non sono mai state tenere coi grillini medesimi. Un caso, certo. Così come non è un caso che i 180 milioni che resterebbero (intatti) saranno invece da destinare a un fondo a totale disposizione della presidenza del consiglio per progetti di «soggetti pubblici e privati» i quali promuovano genericamente la «cultura della libera informazione plurale, della comunicazione partecipata e dal basso, dell'innovazione digitale e sociale, dell'uso dei media». In lingua italiana: i grillini potranno dare quei soldi, cioè i fondi per l'editoria, ai loro amici. Filippo Facci

Manovra, via libera anche a chi esercita professioni sanitarie senza titolo. Le associazioni: "Assurdità totale". Un emendamento voluto dal M5S modifica la legge 42/99, stabilendo una deroga per l'iscrizione agli ordini anche da parte dei professionisti senza titoli che abbiano lavorato, nell'arco di 10 anni, almeno per 36 mesi. Il ministero: "Il provvedimento tutela numerosi lavoratori che oggi vedono la loro posizione a rischio", scrive Valeria Pini il 23 dicembre 2018 su "La Repubblica". Si allenta la stretta, voluta dall'ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in materia di professioni sanitarie. Parliamo di fisioterapisti, tecnici di laboratorio, logopedisti, ostetriche. Nella manovra finanziaria il comma 283 bis, un emendamento voluto dal M5S, modifica la legge 42/99, stabilendo una deroga per l'iscrizione agli ordini anche da parte dei professionisti senza titoli che abbiano lavorato, nell'arco di 10 anni, almeno per 36 mesi. In pratica si tratta di una specie di condono. Una decisione, come era facile prevedere, che ha scatenato le critiche delle associazioni di professionisti che giudicano il provvedimento inadeguato fino a definirlo "una assurdità totale". Nell'emendamento appena approvato dal Senato viene in pratica allargata la possibilità di accedere a queste attività professionali. Basta aver svolto professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione senza il possesso di un titolo abilitante per l'iscrizione all'albo professionale, per un periodo minimo di 36 mesi, anche non continuativi, negli ultimi 10 anni. Sarà sufficiente avere questo requisito per continuare a svolgere questi lavori previsti dal profilo della professione sanitaria di riferimento, purché ci si iscriva, entro "il 31 dicembre 2019, in appositi elenchi speciali ad esaurimento (da costituire entro 60 giorni con decreto del ministero della Salute) e istituiti presso gli Ordini dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, fermo restando che tale iscrizione non si tradurrà in un’equiparazione". Il testo prevede inoltre che quest'iscrizione "non comporterà un automatico diritto a un diverso inquadramento contrattuale o retributivo, a una progressione verticale o al riconoscimento di mansioni superiori". Inoltre viene stabilito che "non potranno essere attivati corsi di formazione regionale per il rilascio di titoli". E' stato inoltre ampliato l'accesso alla professione di massaggiatore in quanto viene abrogato l’articolo 1 della legge 403/71 nel quale si sanciva che "la professione sanitaria ausiliaria di massaggiatore e massofisiotarapista è esercitabile soltanto dai massaggiatori e massofisioterapisti diplomati da una scuola di massaggio e massofisioterapia statale o autorizzata con decreto del ministro per la sanità, sia che lavorino alle dipendenze di enti ospedalieri e di istituti privati, sia che esercitino la professione autonomamente”.

• IL DECRETO LORENZIN. Il provvedimento amplia di fatto l'accesso a questi mestieri con una deroga alla legge 13 marzo del 2018 dell'ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che impone a circa  250mila professionisti, dai fisioterapisti ai tecnici di laboratorio, dai logopedisti agli ortottisti, di iscriversi a 17 Albi e confluiti nel nuovo maxi-Ordine dei tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (Federazione nazionale Ordini Tsr-Pstrp). Si tratta di una specie di condono per chi non si era adeguato alla normativa.

• ASSOCIAZIONI CRITICHE. Il provvedimento ha suscitato diverse polemiche fra le associazioni di categoria. Prima fra tutte la posizione della Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica che rappresenta oltre 22.000 iscritti in Italia. "Leggiamo con seria preoccupazione la notizia della sanatoria - fa sapere il sindacato - . Si rischia di creare una pericolosa breccia in un sistema che tutela e garantisce innanzitutto la salute pubblica dei cittadini. Sistema che rappresenta anche una sicurezza per le altre professioni sanitarie. Appartenere a un albo non è una semplice iscrizione, ma significa dover dimostrare al nostro Sistema nazionale, e quindi alla collettività tutta, di possedere una serie di requisiti: un percorso formativo di base e di specializzazione nel settore sanitario, di aver acquisito competenze e abilità, di aver superato esami e prove". Sulla stessa linea anche l'Associazione italiana fisioterapisti, che già prima dell'approvazione da parte del Senato aveva attaccato l'emendamento.  "Assisteremmo al paradosso che chi ha lavorato come dipendente o autonomo svolgendo attività riconducibili a quelle di una professione sanitaria come il fisioterapista o altra professione, senza titoli di studio abilitanti all’esercizio, verrà iscritto in elenchi speciali, potendo così continuare ad esercitare abusivamente. Manca la previsione di quali titoli di studio permetterebbero tale iscrizione, mancano le modalità di verifica delle reali competenze degli iscritti agli elenchi speciali necessarie per potersi occupare della salute delle persone. Una assurdità totale. Nessuno, politica o sindacati, potrà cavarsela con la scusa di aver salvato posti di lavoro", si legge nella nota dell'Associazione italiana fisioterapisti.

• IL MINISTERO DELLA SALUTE. Il ministero della Salute difende il provvedimento ricordando che tutela numerosi lavoratori che prima del decreto Lorenzin hanno esercitato per anni e che oggi vedono la loro posizione a rischio. "Si tratta di decine di migliaia di persone che, a seguito dell’approvazione della legge 3 del 2018, pur operando nel settore sanitario da diversi anni, non sono nelle condizioni di iscriversi in un albo professionale come prescrive la nuova normativa - fa sapere il ministero della Salute -. Parliamo in grande prevalenza di massofisioterapisti ed educatori professionali, ma anche di altre categorie più circoscritte. Tra questi alcuni non hanno partecipato alle procedure indette, a suo tempo, dalle medesime Regioni per la equivalenza ai titoli universitari non essendone prevista la necessità dal quadro normativo di allora; altri si sono formati attraverso corsi organizzati dalle Regioni che non possono essere riconosciuti validi per l’iscrizione agli albi".

• "TUTELARE I LAVORATORI". In questo modo, precisa ancora il ministero, si permette "a chi possa provare con adeguata documentazione, che sarà demandata ad un decreto ministeriale, di aver effettuato un’attività di lavoro dipendente o autonomo per 36 mesi negli ultimi dieci anni di continuare a svolgere le attività previste dal profilo della professione sanitaria. In questo modo tuteleremo tutte quelle persone che lavorano da decenni con professionalità e che ora rischiano di perdere il lavoro e allo stesso tempo vogliamo impedire che in futuro situazioni analoghe, frutto di norme che l'hanno permesso, non si ripetano più". Nessuna equiparazione dunque con chi è iscritto agli albi, tiene a ricordare il ministero. Resta il fatto però che questa misura finisce per togliere ogni tipo di distinzione fra coloro che si sono iscritti agli albi, mettendosi in regola, e i colleghi che non si sono adeguati alla normativa.

Professioni sanitarie, nasce pure l’ordine dei fisici: costa 300 euro l’anno e pagano tutti, anche i prof, scrive il 20 dicembre 2018 Alessandro Ferretti, Ricercatore universitario, su "Il Fatto Quotidiano". In effetti ci avevano avvisato che questa era l’era del cambiamento, ma non immaginavo così tanto: di fronte a questa novità la mia prima reazione è stata il classico “mi stai prendendo in giro?”. Due settimane fa, un collega universitario mi racconta infatti di un progetto che obbligherà i laureati in Fisica e Chimica che già lavorano in settori attinenti ai loro studi (ovvero, praticamente tutti) a versare la bellezza di 300 (trecento!) euro ogni anno al nuovissimo ordine professionale federato dei fisici e dei chimici, altrimenti…ciao ciao lavoro! Mentre sto ancora ridacchiando per la credulità del collega, accendo il pc e scopro… che è tutto vero! Non solo: c’è addirittura una petizione online con quasi 5mila firme (lanciata da uno che oltretutto fisico non è ma è un ingegnere, il professor Ezio Puppin del Politecnico di Milano) che punta a scongiurare quest’incredibile eventualità. Ho provato a informarmi per comprendere la genesi di questo provvedimento e questo è ciò che ho scoperto. A gennaio di quest’anno viene approvata la legge 3/2018, che riordina le professioni sanitarie che si occupano di “prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione”. Questo riordino coinvolge i fisici che si occupano di medicina, come nel caso delle radioterapie per la cura dei tumori. La legge istituisce quindi l’ordine professionale dei fisici, mettendolo insieme a quello già esistente dei chimici (finora sotto la vigilanza del ministero dalla Giustizia) nella Federazione nazionale degli ordini dei chimici e dei fisici, e affidando la vigilanza al ministero della Salute. Siccome in questa federazione i fisici sono delle new entry, si pone il problema di capire per quali professioni di ambito fisico debba essere necessaria l’iscrizione all’ordine. E qui viene il bello: mentre gli ingenui come me e voi potrebbero pensare che tale obbligo valga solo per chi svolge appunto una professione in ambito sanitario, la neonata Federazione si ispira al principio “meglio abbondare”. Propone quindi un regolamento che obbligherebbe a iscriversi all’ordine praticamente tutti i laureati in Fisica, basta che il loro ambito lavorativo abbia anche lontanamente a che vedere con la fisica: compresi, ad esempio, i dipendenti delle università e degli enti di ricerca e i professori delle scuole, anche se studiano esclusivamente collisioni di buchi neri o il plasma di quark e gluoni. Oltre ai fisici la novità riguarderebbe anche i chimici, i biologi e i biotecnologi: una novità che peraltro, come avrete immaginato, è in totale conflitto con una sfilza di leggi che non finisce più. Di questi tempi, dove l’unica cosa che sembra contare è il denaro, la proposta di regolamento è perfettamente logica: chiedere a un ordine professionale chi, secondo loro, deve essere obbligato a versare allo stesso ordine 300 euro all’anno è un po’ come portare un bambino in un negozio di caramelle e chiedergli quante ne vuole avere in regalo. Molto meno logico, anzi del tutto sorprendente, è invece il comportamento del ministero della Salute: invece di ridere divertito per la sfrontatezza della richiesta, il Ministero sembrerebbe orientato ad adottare la proposta dell’ordine così com’è, senza neanche far notare che il riordino era in realtà limitato alle professioni sanitarie. L’unica traccia di uno scrupolo sta nel fatto che il ministero della Salute, prima di approvare in via definitiva il tutto, chiede un parere al ministero dell’Istruzione, da cui dipendono universitari, dipendenti degli enti di ricerca e professori di scuola. Quest’ultimo, forte del parere assolutamente negativo del Cun (il Consiglio universitario nazionale, l’organo elettivo e di rappresentanza del sistema universitario) ha appena risposto al ministero della Sanità: l’obbligo di iscrizione all’ordine deve riguardare solo, come dice la legge, i professionisti sanitari, che sono quelli che mettono le mani sui pazienti. Di sicuro non quelli che spiegano la teoria della relatività in aula. Ora la palla torna al ministero della Salute, che per ora non ha ancora emanato il regolamento in questione. Come andrà a finire questa appassionante telenovela? Ci toccherà fare ricorso in massa, perdendo del gran tempo e arricchendo uno stuolo di avvocati, oppure lo spirito del Natale scenderà sul ministero della Salute e lo indurrà a più miti consigli? Vi farò sapere, restate sintonizzati.

Bonino: "Pianto in Aula? E' una fake news", scrive il 21/12/2018 Adnkronos. Ma quali lacrime? Emma Bonino smentisce all'Adnkronos di essersi lasciata andare al pianto, al termine del monito lanciato ieri in aula al Senato sulla totale violazione delle regole parlamentari da parte di M5S e Lega sulla manovra economica. "Questa cosa che mi sarei messa a piangere è una vera e propria fake news. Non ho pianto proprio per niente - precisa -. Mi sono semplicemente un po' emozionata e mi sono seduta al mio posto, esausta, al termine di un intervento che è stato così difficile per le continue interruzioni che ho dovuto subire e per le contestazioni irrispettose che ho dovuto sopportare". Anche adesso la leader di +Europa è al suo posto a Palazzo Madama, ancora un po' provata per la giornata di ieri e per l'incertezza che grava su quella di oggi. "Quello che sta succedendo in queste ore è pure peggio delle cose che sono successe ieri. Il maxi emendamento non si vede, non si sa se ci sarà o non ci sarà e a che ora. Lo spettacolo di un parlamento totalmente esautorato si ripete anche oggi". "Ci dicono che ci sono problemi al Mef. Le voci che abbiamo raccolto al Senato ci dicono che forse arriva alle 7 o forse no, alle 9. Ieri sono stata una facile profeta e fin troppo moderata, quando ho detto che questa maggioranza tiene in scacco le istituzioni a proprio uso e consumo". "Non solo noi dell'opposizione ma anche i senatori della maggioranza - continua Bonino - sono in cerca di certezze e sono in balia di questa confusione. Comunque io non mi sono ritirata sull'Aventino. Seguo tutto quello che succede ma ho anche aggiunto che a questo scempio non voglio partecipare. Ieri nel corso del mio intervento in aula ho cercato di rendere più evidente la gravità di quello che sta succedendo".

"Sono qui al Senato e guardo con sgomento, seguo con tristezza quello che ci sta scorrendo davanti agli occhi ma allo stesso tempo dico e ribadisco che io a questa farsa non voglio partecipare, non voglio essere ritenuta complice di una sceneggiata".

Emma, che scoprì la politica per l’errore di un ginecologo…Le lacrime della leader radicale sono il frutto di una vita passata a dare battaglia sui diritti dentro e fuori le istituzioni, la prima fu per la legalizzazione dell’aborto, scrive Paolo Delgado il 22 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Se le chiedono cosa facesse nella primavera del 1974, quando i radicali di Marco Pannella erano impegnati a tempo pieno per la elezioni che avrebbero siglato la loro più importante e incisiva vittoria, il referendum sull’aborto, Emma Bonino, la radicalissima, non saprebbe cosa rispondere. Di politica s’impicciava poco, pur essendosi da poco laureata con una tesi su Malcolm X. I cortei del ’68 li aveva visti dalla finestra. Lei stessa, ragazza borghese e per sua stessa definizione “perfettina”, nata a Bra, provincia di Cuneo, da una famiglia cattolica proprietaria di un’azienda agricola passata poi a un più redditizio commercio di legname, ammette che neppure ricorda bene come votò in quel referendum. La missione politica della sua vita la scoprì per caso. Più precisamente per l’errore di un ginecologo che la aveva diagnosticata sterile. Nessun bisogno di precauzioni, quindi, però il medico sbagliava e nel 1974, a 26 anni, Emma si ritrovò incinta. Lo stesso medico, pur sconsigliando la grave scelta, si offrì di assisterla nell’aborto: «Fa un milioncino tondo». Emma preferì ripiegare sull’Aied, a Firenze, e affidarsi alla rete composta in buona parte da militanti del Partito radicale, che praticavano la disobbedienza civile aiutando le donne che volevano abortire senza battere a cassa. Segnata dall’esperienza personale, iniziò a dare anche lei una mano all’Aied e quando lesse che Adele Faccio, dirigente radicale di prima grandezza, aveva aperto un centro per la sterilizzazione e l’aborto a Roma prese il treno per Roma decisa a conoscerla. Il centro era allocato in via di Torre Argentina, in quella che era allora ed è tuttora la sede del Partito radicale. Per Emma Bonino sarebbe diventata casa. Si lanciò nell’avventura come chi scopre una vocazione. Assunse con la Faccio la gestione del centro nel 1975, nello stesso anno si autodenunciò per l’aborto, l’anno seguente, ventiseienne, fu eletta per la prima volta in Parlamento. In via di Torre Argentina la ragazza di Cuneo aveva conosciuto Giacinto Pannella, detto Marco: l’incontro della vita. Difficile immaginare caratteri più diversi: Emma era schiva, Marco istrionico, Emma era inesperta, Marco navigato già negli anni giovanili della politica universitaria, Emma ordinata e metodica, Marco caotico, torrentizio, irrefrenabile. Eppure, e forse proprio per questo, la coppia funzionò alla perfezione per decenni. Col tempo, Marco continuò a incarnare l’anima movimentista, fragorosa dei radicali, insieme guitto e geniale, primadonna come nessun altro. Emma invece è entrata sempre più nelle parti della “donna delle istituzioni”. La differenza tra i due, negli ultimi anni si riassume in fondo in una formula semplice: Marco Pannella, padre padrone del Partito radicale, non è mai stato e non è mai voluto diventare un uomo di potere. Emma Bonino si è ritrovata, forse suo malgrado, a esserlo. Nel 1994 viene eletta deputata nelle liste del centrodestra, aderisce al gruppo parlamentare di Forza Italia, meno di un anno dopo Berlusconi la indica come commissaria europea per le politiche umanitarie e quelle dei consumatori. Instancabile gira per il mondo. E’ la prima commissaria a mettere piede nella Bosnia dilaniata dalla guerra e al ritorno assume una posizione deflagrante. I radicali sono sempre stati non-violenti. Sia lei che Pannella hanno fatto del Satyagraha del mahatma Gandhi la loro bandiera. Ma di ritorno da Sarajevo assediata Emma la commissaria invoca l’intervento militare contro la Serbia e resterà sulle stesse posizioni quando, quattro anni dopo, l’intervento ci sarà davvero, nella guerra del Kosovo. Dopo le dimissioni della commissione nel 1999, provocate dal rifiuto di dimettersi di una commissaria accusata di frode, Emma torna a ricoprire cariche istituzionali, stavolta in Italia, nel 2006. In mezzo c’era stato un clamoroso successo elettorale con la Lista Bonino nel 1999, quando raggiunse addirittura l’8,5%, dimostratosi però presto effimero ed evanescente. Alle elezioni del 2006 i radicali si trovano sul fronte opposto della barricata rispetto al decennio precedente “berlusconiano: con l’Unione di centrosinistra guidata da Romano Prodi. La Bonino diventa ministro per le Politiche comunitarie ma il governo dura poco, appena 20 mesi. Nella legislatura successiva, eletta con il partito democratico, è vicepresidente del Senato e con Letta è ministro degli Esteri.Il ruolo modella almeno in parte le priorità politiche. Nei radicali hanno sempre convissuto due anime, che per Marco Pannella erano in realtà facce della stessa medaglia: quella libertaria e quella liberista. Don Giacinto detto Marco anche negli ultimi anni della sua vita ha sempre incarnato soprattutto la prima, senza peraltro mai sdegnare la seconda, quella liberale e sempre più marcatamente neoliberista. Emma l’Europea, di casa a Bruxelles, si è imposta sempre più come campionessa di un europeismo centrato sulla piena condivisione delle politiche di bilancio europeo, sino a essere eletta nelle ultime elezioni con il gruppo più omogeneo alle politiche monetarie europee che fosse in campo: Più Europa. Forse anche per questo, oltre che per motivi di protagonismo personale e probabilmente anche per il peso della malattia, entrambi in lotta con il cancro, negli ultimi anni le posizioni di Marco Pannella e di Emma Bonino si erano allontanate molto più di quanto le cronache abbiano voluto registrare. L’assenza di Emma Bonino dalla affollatissima veglia funebre per il gigante del Partito radicale, la notte del 19 maggio 2016 a Roma è stata una delle pagine più tristi nella storia non solo del Partito con la Rosa nel Pugno ma anche della politica italiana in generale. Qualunque cosa si pensi di donna Emma, ognuno, anche i più agguerriti, dovrebbero riconoscerle la capacità di ammettere gli errori. Subito dopo l’elezione alla Camera del 1976 si lanciò, come d’uso tra i radicali, in una raffica di campagne, trasformate quasi tutte in referendum tra i quali quello, vinto e disatteso come nessun altro prima o dopo, sulla responsabilità civile dei giudici oltre che quello sull’aborto. Ma Emma si scagliò a spada sguainata anche contro l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, vittima di una campagna mediatica e politica di linciaggio, perché sospetto di corruzione, tanto violenta quanto infondata. La Bonino fu tra le più battagliere ma si tirò indietro quando capì che la campagna era infondata e segnata dal peggior giustizialismo. Vent’anni più tardi scrisse e consegnò di persona all’ex presidente una lettera di scuse. Per carattere, personalità, convinzione e biografia politica, Emma Bonino vanta un senso delle istituzioni che non ha nulla della vuota retorica che di solito le esaltazioni delle istituzioni democratiche camuffano e neppure la si potrebbe mai accusare di adoperare l’allarmismo a scopo di propaganda spiccia. Le sue lacrime nell’aula del Senato, giovedì sera, a fronte dell’enormità di una legge di bilancio destinata per la prima volta nella storia repubblicana a essere approvata senza che il Parlamento possa neppure leggerla, figurarsi poi modificarla, erano del tutto sincere.

Lascia ch’io pianga: quando Emma Bonino abbandonò le figlie adottive, scrive Eugenio Palazzini il 23 dicembre 2018 su Primato Nazionale. “Voi non avete rispetto delle istituzioni, ci passate sopra come dei rulli compressori, ma un giorno di queste istituzioni avrete bisogno anche voi”. Con queste parole la senatrice Emma Bonino, eletta nelle liste di +Europa, è intervenuta due giorni fa in aula per commentare la manovra economica del governo. Secondo il leader radicale che “il Parlamento sia umiliato, esautorato, ridotto alla farsa non è un trofeo di cui andare orgogliosi”. Si tratta anzi di “una ferita grave a tutti, al paese e alla democrazia, un ulteriore grave attacco alla democrazia rappresentativa”. Un duro attacco culminato con un pianto, poi più o meno smentito dalla Bonino, che ha commosso i guardaspalle liberal del libero pensiero in libero stato di tutto il libero web. Uno sfogo libertario in libertà pur di rimarcare che la libertà finisce là dove governa chi non piace ai liberi pensatori illuminati. Lascia ch’io pianga mia cruda sorte, che sospiri la libertà e che l’istituzione della laica Repubblica possa evangelicamente liberarci dal male, rappresentato da chi è stato democraticamente eletto per rappresentarci. Ma fuor dai giochi di parole e da qualche lacrima sul viso, ci resta latente una sensazione di sfogo ipocrita. Ci scusi dunque la senatrice se noi commentatori distratti non abbiamo saputo cogliere il suo afflato istituzionale. Persi come siamo nelle maglie delle notizie circolanti nel libero web, ci è sfuggito il bandolo della matassa. Perché non sfugga anche alla senatrice, ci siamo allora presi la briga di riannodarlo. Emma Bonino, per sua stessa ammissione, non ha mai voluto diventare madre. Lei, che ha “aiutato” altre donne a non esserlo, non ha avuto figli “perché ci vuole coraggio: e io non l’ho avuto”, confessò a Io Donna l’ex ministro degli affari esteri. Eppure, un giorno all’improvviso, “a un certo punto non ha resistito e ha preso con sé due figlie non sue, due bambine abbandonate che ha cresciuto per qualche anno, riempiendole di affetto e attenzioni e scontando tutto ciò a cui le madri lavoratrici devono far fronte ogni giorno: il doppio lavoro, il tempo che non basta mai, la stanchezza da cancellare, le fiabe da raccontare. Emma che a un certo punto ha detto basta e s’ è separata dalle bambine che amava, perché s’ è ricordata di non aver mai voluto essere madre: le ha allontanate da sé sopportando uno strazio infinito, ha trovato per loro una nuova dimensione, un presente e un futuro, e ancora adesso, quando le sente, quando le vede, ogni tanto, non è mai sicura fino in fondo di aver fatto la cosa giusta”. A raccontarlo è la giornalista di La7 Myrta Merlino, nel suo libro “Madri” edito da Rizzoli, dedicato alle mamme italiane che si sono distinte per coraggio. Ecco, riannodando quel bandolo, capita di imbattersi in cose per cui la senatrice ha dato prova di profonda sensibilità. Ma come direbbe lei, “non sono trofei di cui andare orgogliosi”. 

QUELLI DELLA LEGITTIMA DIFESA...NEL PARADISO DEI RAPINATORI.

LE NORME. Troppe armi nelle case degli italiani. Avevano tutti un regolare porto d'armi agli autori degli ultimi fatti di sangue, dalla sparatoria al Tribunale di Milano a quella di Napoli, scrive Nadia Francalacci il 27 maggio 2015 su "Panorama". Lucida follia oppure pazzia. Resta il fatto che questi uomini che si trasformano in assassini, detengono regolarmente delle armi. E molto spesso per uso sportivo. È il caso di Claudio Giardiello, il killer del Tribunale di Milano che ha ucciso tre persone aveva il porto d'armi per il tiro al volo. E quella mattina usò una Beretta calibro 9 regolarmente detenuta e denunciata. Un amico ascoltato dagli inquirenti dopo la sparatoria, dichiarò di averlo aiutato a comprare l'arma pochi mesi fa. Ma gli investigatori hanno accertato che Giardiello possedeva diverse armi già dal 2011. Un regolare porto d’armi per uso sportivo anche per Andrea Zampi che due anni fa entrò al palazzo della Regione Umbria e al grido “Mi avete rovinato”, uccise due impiegate prima di togliersi la vita. Peccato, però, che Zampi avesse avuto disagi psichici per i quali era stato sottoposto a Tso negli anni precedenti alla strage e coincidenti con il rilascio del porto d’armi. Ma armi per uso sportivo con regolare licenza sono state utilizzate anche da Giulio Murolo pochi giorni fa nel cuore di Napoli dove in una mattina di lucida follia, quella del 18 maggio scorso, ha fatto fuoco e ha ucciso 4 persone e ne ha ferite 6. Un strage. E anche Murolo, secondo quanto ricostruito dai militari, avrebbe utilizzato tre diverse armi- una pistola, un fucile e un fucile a pompa - tutte regolarmente detenute per uso sportivo. È davvero così semplice regolarizzare il possesso di un fucile, un revolver o di una semiautomatica? Panorama.it ha chiesto alla dottoressa Maria Paravati, Primo Dirigente della Polizia di Stato, con quali criteri vengono autorizzati i cittadini italiani a detenere un’arma che sia questa per uso sportivo o per difesa personale e se e quali possono essere gli elementi che “vietano” il rilascio di questa tipologia di autorizzazione. Non solo. Abbiamo chiesto anche quante armi è possibile detenere nella propria abitazione in modo legale.

Dottoressa Paravati, c’è differenza tra il porto d’armi per difesa personale e per uso sportivo?

«“Portare” un’arma significa esercitare il diritto di circolare sul suolo pubblico avendo l’immediata disponibilità di un’arma da fuoco o di un’arma propria da punta e taglio (il cd. “bastone animato”, ovvero un bastone che cela al suo interno una lama di lunghezza non inferiore a cm. 65), con la possibilità quindi di farne uso in caso di bisogno. Non ci sono particolari vincoli alle modalità del porto; di conseguenza il titolare dell’apposita licenza può portare le armi cariche o scariche, con o senza colpo in canna, in qualsiasi tipo di fondina o senza, in una borsa, in un marsupio o nel cruscotto dell’autovettura. La vigente normativa prevede diverse tipologie di licenza di porto d’armi: per difesa personale, per uso di caccia, per il tiro a volo, comunemente detto porto d’armi “uso sportivo”. Con particolare riguardo alle differenze tra il porto d’armi per difesa personale (porto di pistola) e quello per il tiro a volo (porto d’arma lunga ad anima liscia), va considerato, preliminarmente, che la tutela del cittadino è un’attività esercitata dallo Stato per mezzo delle Forze dell’ordine e, pertanto, la concessione della licenza di porto d’armi per difesa personale - diversamente dal tiro a volo - è limitata ad una ristretta tipologia di casistiche, tra le quali, ad esempio, possono figurare: orefici, gioiellieri, ufficiali giudiziari o persone che sono ritenute dall’Autorità giudiziaria ad esempio a rischio sequestro. L’istanza di rilascio o di rinnovo di tale titolo, deve essere, conseguentemente, corredata, oltre che dalla documentazione prevista anche delle motivazioni “serie” che il Prefetto dovrà valutare. Più in generale, va evidenziato che la licenza di porto d’armi consente il porto delle armi oggetto dell’autorizzazione ovvero di pistola o rivoltella se trattasi di licenza di porto di pistola per difesa personale; di fucile ad anima liscia se trattasi di porto d’armi per il tiro a volo. Va sottolineato però che la licenza di porto d’armi per difesa personale ha validità annuale, mentre quella per il tiro a volo ha durata sessennale. La licenza di porto d’arma lunga per il tiro a volo è di competenza del Questore rispetto a quella di arma corta per difesa personale, che, come detto, costituisce licenza prefettizia. In definitiva, per il rilascio del porto d’armi uso tiro a volo, diversamente da quella per difesa personale, non sono richiesti particolari requisiti se non quelli genericamente previsti per le licenze in materia di porto d’armi».

Quanti armi per uso sportivo possono essere detenute legalmente? Sono previsti controlli psicologici per il rilascio dell’autorizzazione?

«In Italia è possibile detenere fino a sei armi sportive, fino a tre armi comuni da sparo (es. le ordinarie pistole) ed un numero illimitato di fucili da caccia. Per numeri superiori è richiesta la licenza di collezione. La detenzione di un’arma, ancorché classificata sportiva, è, comunque, subordinata al possesso di un pregresso titolo autorizzatorio di polizia (licenza di porto d’armi o nulla osta del Questore) che ne ha consentito l’acquisizione e per il cui rilascio è necessario che l’interessato abbia presentato anche la certificazione sanitaria ovvero la certificazione comprovante l'idoneità psico-fisica, rilasciata dall'A.S.L. di residenza oppure dagli Uffici medico-legali e dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato. Tale certificazione, inoltre, è preceduta dal certificato anamnestico (rilasciato dal medico di base), da cui deve risultare che il richiedente non è affetto da malattie mentali, del sistema nervoso, da turbe psichiche, che non assume sostanze psicoattive, che non abusa di alcol e non fa uso di sostanze stupefacenti o psicotrope».

In termini tecnici, vi sono vi sono differenze tra armi sportive e quelle classificate non sportive?

«Non esiste uno specifico criterio tecnico per l’individuazione di un’arma sportiva.

In base alla normativa nazionale, un’arma è oggi classificata “sportiva” quando viene riconosciuta tale dal Banco Nazionale di Prova delle armi».

Quali controlli vengono effettuati a posteriori dopo il rilascio del porto d’armi?

«Il titolare di una licenza di porto d’armi in corso di validità, se anche detentore di un’arma (es. di un fucile ad anima liscia nel caso di un tiravolista o di una pistola nel caso di un titolare di porto d’armi per difesa personale) o, comunque, anche il mero detentore di armi, può sempre essere soggetto al controllo dell’arma denunciata nel luogo ove l’arma stessa è detenuta, anche ai fini di consentire all’Autorità di P.S. di verificarne le adeguate modalità di custodia e di prescrivere misure cautelari ritenute indispensabili per l’ordine pubblico. Inoltre, all’atto del rinnovo del titolo autorizzatorio, è necessario che l’interessato presenti nuovamente tutta la documentazione, ivi compresa quella sanitaria, comprovante la permanenza dei requisiti psicofisici. Con particolare riguardo al mero detentore di armi è stata stabilita una verifica periodica (ogni sei anni) dei previsti requisiti psicofisici, pur se tale accertamento potrà effettuarsi solo a seguito dell’emanazione di un nuovo decreto del Ministro della Salute, secondo quanto previsto decreto legislativo n. 204/2010. Comunque, il Legislatore ha previsto – una tantum - per i detentori di armi, l’obbligo di presentazione del certificato medico qualora i medesimi non lo abbiano già prodotto nei sei anni antecedenti al 5 novembre 2013. La vigente normativa, però, consente all’Autorità di P.S. di revocare qualunque autorizzazione di polizia – compresa la licenza di porto d’armi - quando vengano a mancare le condizioni alle quali il rilascio è stato subordinato».

DALLA PARTE DEI CATTO/COMUNISTI.

«Sono stato rapinato ma la vita resta sacra». Legittima difesa, la testimonianza di Claudio Bises, scrive Simona Musco il 16 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «Se si arriva a considerare il valore della vita umana pari a quello di uno, due, tre pneumatici vuol dire che abbiamo superato il limite che impedisce di cadere nell’abisso». Sono passate meno di 24 ore dalla morte di un ladro nell’azienda di Fredy Pacini, nell’aretino, quando Claudio Bises, agente di commercio di tessuti da generazioni, scrive questo post su Twitter. Pochi caratteri che gli valgono una marea di insulti online, come sempre in questi casi. Con l’augurio, tra gli altri, di poter subire un furto o una rapina, per capire cosa si prova. Ma Bises, 68 anni, un cognome finito nella triste storia delle persecuzioni razziali, quest’esperienza l’ha già provata. E la racconta al Dubbio, assieme alle cose capitate alla sua famiglia. Perché la storia, forse, si ripete, ma come diceva Karl Marx, «la prima volta come tragedia, la seconda come farsa».

Perché ha scritto quel Tweet?

«Sono fortemente contrario alle armi e a come si stanno evolvendo le cose in Italia. Ma sono democratico e se la maggior parte delle persone ha voluto una deriva di questo tipo allora mi tocca accettare e farmi coinvolgere. È un follia lasciare che la gente possa acquistare un’arma per legittima difesa, senza contare che bisogna anche saperla usare. Altrimenti, poi, accadono anche disgrazie irreparabili. Quando ammazzi una persona indietro non si torna. Liberalizzare le armi è un grosso segno di inciviltà, ma fa parte della follia di questo paese».

Come si sentirebbe nei panni di Pacini?

«Non mi metterei mai nei suoi panni. Sicuramente ha sulla coscienza ciò che è successo e con quanto accaduto ci hanno rimesso due persone, una in modo irrecuperabile, una costretta a fare i conti con se stesso per sempre. Qualunque cosa tu abbia messo da parte in anni di lavoro non vale la vita di una persona. Certo, non voglio entrare nel merito, ci saranno delle indagini, ma ho dei dubbi se dice di esser stato derubato 38 volte e di aver denunciato solo quattro. Poi bisogna anche capire come si spara: si punta in aria, per terra, non ad altezza d’uomo. È giusto difendersi, ma mai con le armi e mai sparando addosso. Anche chi è titolato a difenderci, le forze dell’ordine, non lo fanno».

Qualcuno ha risposto al suo Tweet?

«Ho ricevuto messaggi offensivi da chi si augurava che accadesse anche a me. Ma a me è capitato e se capitasse di nuovo non reagirei. Mi hanno dato del buonista, ma non è questione di buonismo, è questione di buon senso. Alla violenza non si risponde con violenza mai, ma con ragionamento e cultura. L’Italia, però, ha perso la memoria di ciò che era e un Paese che perde la memoria del proprio passato non sa che cosa sia il presente e non avrà un futuro».

Può raccontarci le sue esperienze?

«Il primo furto è stato quando avevo 25 anni. Stavo uscendo dal negozio di famiglia in via del Gesù, dove lavoravo a Roma, con la ventiquattrore in mano. Hanno tentato di strapparmela di mano da un motorino. Ma all’epoca ero giovane, avevo più di forza, rabbia e incoscienza. Ho tirato, il ladro è finito per terra e due schiaffi glieli ho pure dati. Poi ho chiamato la polizia ed è finito lì. Un’altra volta ero a Milano, avevo appena lasciato una persona in albergo e una volta rientrato in macchina una persona ben vestita, a modo, mi ha detto che avevo una gomma a terra. Ma appena uscito dall’auto mi sono trovato un coltellino in pancia. Gli ho dato la giacca e i documenti, poi ho chiamato mia moglie per bloccare le carte di credito e ho fatto 50 chilometri in macchina senza patente, che hanno ritrovato il giorno dopo in un cassonetto dell’immondizia a Milano. La terza volta è stato a Roma: controllavo dei tessuti in sala da pranzo con mia moglie per un cliente, quando ho sentito un rumore: i ladri erano saliti con una corda e un arpione al terzo piano, dove c’è il nostro appartamento, avevano svitato le lampadine del balcone e messo un rametto di thuja tra due serrande per vedere se c’era la luce accesa. Poi hanno tirato su la saracinesca, rotto un vetro e sono entrati. Quando ho sentito il rumore sono corso e li ho visti in corridoio. Loro sono scappati, ho provato a colpirli con un vaso, ma non ce l’ho fatta. Ho fatto la denuncia ed è finita qua. L’ultima volta è stata nella mia abitazione provvisoria sul lago di Como, dove ho vissuto per 25 anni. Era il periodo di Natale, non eravamo in casa. I ladri si sono arrampicati sulla grondaia, hanno divelto le saracinesche di metallo con un piede di porco, hanno rotto il vetro e sono entrati in casa, buttando i quadri per terra e svuotando cassetti. Si sono portati via pezzi d’oro e biancheria».

E non ha cambiato idea sulle armi dopo queste esperienze?

«Assolutamente. Anzi, io ho fatto le carte false quando ho fatto il servizio militare per non spa- rare al poligono. Tutte le scuse erano buone. Non che sia un’anima candida, quando ero al liceo ho fatto anche qualche manifestazione. Non ho mai tirato una bottiglia molotov o un sampietrino in faccia ad un poliziotto, ma se c’era da levar le mani lo facevo. Solo con quello che mi ha dato il padreterno, con un fucile mai».

Quali potrebbero essere le conseguenze nel caso in cui la legge sulla legittima difesa venisse approvata, secondo lei?

«Che dei debosciati decidano di armarsi per difendersi da soli, visto che c’è questo mantra che lo Stato non ti difende. Ma la cosa pericolosa è che si tratta di una legge che va a difendere qualcuno che uccide un’altra persona. Poi cerchiamo di ragionare sul fatto che lo Stato debba pagare le spese legali: se io vado a rubare, tendenzialmente, sono un poveraccio, un mezzo morto di fame. Poi c’è furto e furto, è chiaro, ma se ho una villa da tre milioni di euro o in un appartamento con tanto di allarme i soldi, teoricamente, ce li ho. Mi sembra una follia, poi non so se è un gesto dimostrativo che fa parte della politica di questo ministro dell’Interno che vuole essere ministro di tutto. Sono veramente preoccupato, anche perché dall’altra parte non c’è un’opposizione. Si grida, ma gridando non si fa niente. Ci vogliono dei discorsi costruttivi».

Come vede il paese?

«Si sta imbarbarendo e chi ne ha il dovere non ricorda alle persone come vivere. Tutto viene lasciato al caos, che poi porta situazioni alle quali non si può porre riparo. L’Italia è diventata un paese razzista, xenofobo, che non si ricorda cosa è stato 150 anni fa. Ha la memoria corta, anche con chi fino a tre anni fa parlava di Roma o del sud in un certo modo. Certo tutti possono cambiare e maturare, ma mi fa paura un ministro che va a cena con quelli di Casapound, che sono quelli che picchiano i giornalisti e hanno una casa occupata da 15 anni e che tutti i sindaci non sono mai andati a sgomberare».

Cosa ne pensa dell’atteggiamento che si ha nei confronti dei migranti?

«Non capisco perché ci si debba comportare così con gente che vuole solo vivere. Nella mia famiglia ci sono persone che sono finite nei forni, emigrati, gente che ha cominciato da zero e si è fatta una posizione economica. Quello che non sopporto è la mancanza di tolleranza. Non si può fermare la fame della gente. Se io ho fame e non ho soldi e non posso più chiedere l’elemosina, che pure era un valore di tutte le religione monoteiste, allora vado a rubare. E se vedo qualcuno che lo fa che faccio, gli sparo? Bene, allora cominciamo il Far West. Stiamo vivendo in un’epoca di democrazia limitata e questo non soltanto per l’Italia: anche l’Austria, l’Ungheria. L’immigrato è diventato il male assoluto, ma se si va a vedere chi fa certi lavori, anche nelle zone dominate dalla Lega, sono loro. Perché certi lavori un maschietto o una femminuccia italiani non vogliono proprio farli. E queste persone contribuiranno a pagare le nostre pensioni, checché se ne dica. Chi lavora qui per anni e poi va via lascia tutto quello che gli è stato versato e dove va a finire? Nelle nostre pensioni».

La senatrice Liliana Segre ha detto che vede gli stessi segnali d’odio che c’erano all’epoca in cui gli ebrei vennero perseguitati. Secondo lei si rischia di tornare indietro così tanto nella storia dell’umanità?

«Non voglio pensare e non credo che si possa arrivare di nuovo a quello e usare termini di quel genere. Viviamo una democrazia malata, questo mi sento però di dirlo. Oggi non c’è più una classe operaia che potrebbe scendere in piazza per difendere la democrazia e questo è pericoloso. Mi preoccupa questo odio per il diverso, che è molto forte ed è trasversale, purtroppo lo sto notando anche in persone con una certa educazione e cultura. Più che odiare, si prova fastidio nei confronti di qualcuno che viene a mettere i piedi nel nostro orticello. Ma la terra non è mia, quello che abbiamo ce l’abbiamo in prestito e per caso. È un caso che io sia nato in un paese fortunato, perché mio nonno è scappato dalla guerra, mio padre è scappato dalle persecuzioni razziali ed è andato a finire in Argentina e lì sono nato io. Fossi nato nel Sud Africa dell’apartheid e fossi stato un po’ abbronzato, come dice Salvini, avrei avuto dei problemi».

Cosa ha fatto la sua famiglia dopo le leggi razziali?

«Mio nonno paterno, mia nonna paterna e mio nonno materno andarono via. Il primo fu mio nonno materno, all’indomani della prima guerra mondiale. Era ungherese ed andò in Argentina già dopo l’attentato di Sarajevo, seguendo l’onda di tanti ungheresi. I miei nonni paterni e tutta la famiglia di mio nonno paterno, invece, andarono via dall’Italia all’indomani delle leggi razziali. Tutti tranne un fratello, Carlo, e le due sorelle. Mio nonno e un suo fratello andarono in Argentina, uno in Canada. Furono costretti a lasciare tutto: mio nonno dovette chiudere il suo studio di avviatissimo avvocato a Roma. Per farle capire quant’era importante le dico che con lui lavorava Antigono Donati, che poi divenne presidente della Banca nazionale del lavoro. Zio Carlo, in Italia, si nascose con la famiglia in un convento di suore e per ringraziare di averla scampata si convertì. Fu così che lo lasciarono in pace e lui poté aiutare i fratelli, che aprirono delle succursali del negozio di tessuti che avevano a Roma. Così mio nonno, che non aveva mai fatto nulla di tutto ciò, da zero prese a fare il venditore di tessuti».

Suo padre quanti anni aveva?

«Tredici, la stessa età che avevo io quando dall’Argentina la mia famiglia è tornata in Italia. Partirono nel 1939, ma mio nonno aveva lasciato i genitori in Italia, così tornò per cercare di aiutarli, visto che pur avendo i soldi non potevi fare nulla essendo ebreo. Organizzò questo viaggio in prima classe, ma la nave, che doveva partire da Civitavecchia, non partì mai. I genitori di mio nonno, dunque, si trasferirono al Grand’Hotel e morirono lì, prigionieri in un certo senso, perché non potevano fare nulla».

Suo nonno riuscì a tornare in Argentina?

«Sì, ma era dimagrito, malatissimo. Tornò con l’Augustus, ma in terza classe, buttato per terra. Arrivò malatissimo. La stessa “fortuna” è capitata al fratello di mia nonna, un validissimo economista alla facoltà di Bari. Perse la cattedra e andò negli Usa, dove ha lavorato a lungo con il premio nobel per l’economia Modigliani. Negli anni, conobbe un industriale italiano che viveva in Messico, sposato con un’attrice italiana e che poi lo presentò a Rossano Brazzi, il famoso attore dei film dei telefoni bianchi. E poi divenne il consulente economico di parecchie persone, tra cui Conrad Hilton, il fondatore della catena. E quello fu la svolta professionale per zio Bruno. Ricordo che lo vedevamo pochissimo, perché quando arrivava a Roma era sempre preso tra Andreotti, Ciampi, Guido Carli… lui arrivava in albergo e c’era sempre questa trafila di persone».

Suo nonno riuscì a tornare in Italia?

«Nonno Enrico è morto in Argentina, nel 1960. Il fratello più giovane, purtroppo, si tolse la vita, sempre in Argentina. Per i pochi fortunati che son tornati dai campi, non è una cosa rara. Una parente si buttò dalla finestra di casa per non essere presa durante i rastrellamenti: ha preferito il vuoto. Un altro parente è stato rastrellato e c’è una pietra d’inciampo in via Lima. In uno scritto di una mia Zia ho letto di circa 50 membri della famiglia Bises finiti ad Auschwitz…»

Lei ha mai avuto problemi?

«Personalmente no, a parte le battute del tipo: “certo che voi ebrei avete sempre fortuna, vi va sempre bene”. Ed io rispondevo: sei sicuro del sempre?»

LO STUDIO IMPARZIALE.

Più armi in Italia, chi e come si fa richiesta. Ecco chi fa domanda per pistole e fucili, e quanto c'entra la legittima difesa, scrive Eleonora Lorusso il 16 dicembre 2018 su "Panorama". “Tra il 2014 e il 2017 è aumentata la concessione di licenze, eppure gli omicidi legati ad armi legalmente detenute sono diminuiti su scala nazionale mediamente della stessa percentuale”. A dirlo è Paolo De Nardis, ordinario di Sociologia alla Sapienza di Roma, che ha coordinato la prima ricerca in Italia sul possesso legale di armi. Il quadro che emerge è variegato a seconda delle zone del Paese, ma alcuni dati indicano una tendenza: dal Dopoguerra è cambiato il rapporto degli italiani con pistole e fucili, e là dove ce ne sono di più è inferiore il numero di delitti. I dati della ricerca fotografano la situazione, alla vigilia dell’atteso dibattito sulla legittima difesa, che il Governo e in particolare il vicepremier Salvini vorrebbe far approvare a inizio 2019.

I numeri. Dal 2007 al 2017 solo il 5% circa degli omicidi avvenuti in Italia è commesso con armi legalmente detenute. Di questi circa il 12,28%è costituito da atti di eutanasia, con lo scopo di alleviare le sofferenze della vittima, spesso il coniuge o un parente stretto. I dati sono frutto della comparazione tra gli archivi del ministero dell’Interno e le statistiche Istat fino al 2017, anno delle ultime rilevazioni disponibili. Dallo studio Sicurezza e legalità: le armi nelle case degli italiani dell’università La Sapienza emerge anche un altro elemento: “Nonostante le accese polemiche solo il 2,45% degli omicidi oggetto della nostra analisi scientifica si è verificato per eccesso di difesa. Un dato che ridimensiona la discussione sulla difesa legittima e che riguarda in realtà pochissimi casi” spiega a Panorama.it il professore e curatore dello studio. “Questo non significa sminuire il numero delle vittime, perché anche solo un morto è un dato negativo, ma certo mostra come sulla legittima difesa si tende a galvanizzare le rispettive tifoserie. Io non do valutazioni nel merito del disegno di legge, ma da sociologo posso dire che l’incidenza dei fatti di sangue commessi con armi legalmente detenute è minima rispetto al totale” aggiunge il docente. Dalla comparazione dei dati è emerso anche che il 68% degli eventi delittuosi è un omicidio familiare e in quasi la metà dei casi l’uccisore si è suicidato. “Molti casi avvengono in ambito familiare e si tratta nel 6/7% di omicidi di genere, dunque femminicidi” spiega De Nardis.

Più armi, meno delitti? Lo studio, primo nel suo genere nel nostro Paese, mostra una forte differenziazione a livello regionale nella distribuzione delle armi. “Dall’analisi abbiamo notato come ad un certo numero di licenze venatorie o sportive corrisponde un numero di delitti molto basso, mentre in altre zone dove la percentuale di diffusione di licenze per armi è inferiore, si registrano maggiori vittime” spiega De Nardis, che aggiunge: “I nostri studi e grafici indicano che è il nordest la zona col maggior numero di armi legalmente detenute per motivi sportivi o venatori”. Cosa significa? “Le due regioni esemplificative sono Veneto e Calabria. Nella prima ci sono molte licenze, ma meno delitti; nella seconda, invece, il quantitativo di armi che risulta regolarmente in possesso è inferiore, ma il numero di omicidi è maggiore. Questo dicono i dati ufficiali, anche se non va dimenticata una cosiddetta ‘cifra oscura’, ossia quella che riguarda chi possiede un’arma senza denunciarla” dice il sociologo, che punta l’attenzione sul problema dei controlli.

Regione che vai, controlli che trovi. “Al numero di omicidi nel suo complesso vanno sottratti quelli relativi ai casi di eutanasia o suicidio. Su ciò che resta va fatta un’analisi che tenga in considerazione anche le situazioni legalitarie, ossia i controlli, che risultano molto differenti a seconda delle regioni” spiega il professore. “Il maggior monitoraggio avviene senz’altro nel lombardo-veneto, dove pure c’è una maggiore domanda e presenza di licenze per detenzione di armi, che tra l’altro è in aumento per motivi venatori e sportivi. Da questo punto di vista non va escluso che molti si avvicinino all’arma ad uso sportivo a scopo autopedagogico: come un tempo si imparavano le arti marziali per potersi difendere in caso di bisogno, anche oggi più di uno sembra voler imparare a usare le armi non tanto per offesa, quanto per difesa, in caso di necessità” dice De Nardis. Per questo sono importanti i controlli ed è necessario che le visite siano rigorosissime, prima del rilascio di una licenza. A mio avviso andrebbe fatta anche una valutazione psicanalitica, oltre a un controllo psicofisico” aggiunge il sociologo. Nel 45% dei casi di omicidi erano presenti delle criticità che avrebbero potuto far immaginare il rischio: nel 5,6% degli episodi chi ha ucciso era anche stato precedentemente denunciato o diffidato, e nell’1% era stato oggetto di trattamento sanitario obbligatorio. E’ ancora la ricerca a mostrare come 22% dei casi l’omicida ha tenuto dei comportamenti indicativi (maltrattamenti, atti di violenza fisica o verbale, etc.), mentre in oltre il 15% dei casi mostrava problemi psicologici rilevanti (depressione, paranoia, etc.). Un altro fattore spesso scatenante sono anche le difficoltà economiche (in oltre il 15% dei casi).

L’Italia non è l’America. “Il gioielliere che chiede il porto d’arma per una eventuale legittima difesa non è una novità, c’è sempre stato. In questi casi l’arma dovrebbe essere solo un deterrente e la legittima difesa non dovrebbe essere che l’estrema ratio, anche perché l’arma va saputa usare - dice De Nardis - L’idea di potersi difendersi da soli, però, può far venire in mente gli Stati Uniti, dove è sufficiente la maggiore età per poter comprare una pistola o un fucile. In realtà il contesto è molto differente”. La ricerca conferma come in Italia esista una storia venatoria importante, soprattutto in certe regioni dove la caccia rappresenta una tradizione consolidata e tramandata a livello familiare. “A ciò si aggiunga che il rapporto tra l’italianità, intesa come personalità di base dell’italiano, e le armi è molto differente rispetto a quella statunitense. Nel nostro Paese ormai da secondo Dopoguerra le armi non sono più identificate a strumenti di morte, mentre era così ancora fino agli anni ’40 e ‘50” spiega il professore di Sociologia. Ma chi si arma oggi? “E’ un aspetto che vorremmo indagare ulteriormente, ma possiamo dire che si tratta senz’altro soprattutto di giovani. A questi si aggiungono anche 50enni o 60enni che hanno una licenza da tempo” conclude De Nardis.

Difendersi con le armi è legittimo per tutti (tranne che per i dem). Per sei su 10 è giusto sparare ai ladri in casa. Il 33% di no dal Pd, scrive Renato Mannheimer, Lunedì 10/12/2018, su "Il Giornale".  Quello della legittima difesa e della possibilità di reagire efficacemente di fronte ad assalti o intrusioni di malintenzionati in casa propria o nel proprio luogo di lavoro è un tema che resta sempre all'ordine del giorno e trova largo spazio sui mezzi di comunicazione. Ancora nei giorni scorsi, l'episodio del commerciante di gomme e biciclette, costretto dopo una lunga serie di furti a dormire accampandosi nel proprio magazzino per difendersi dai ladri, che ha sorpreso degli uomini nell'ennesimo tentativo di penetrare nella sua proprietà e che, di conseguenza, ha sparato (con la propria arma regolarmente denunciata) uccidendone uno, ha suscitato largo scalpore e molte discussioni. C'è chi (come il ministro Salvini e molti concittadini dello sparatore) si è subito schierato in sua difesa, manifestandogli solidarietà e chi, invece, ha ritenuto che egli abbia esagerato nella reazione. Tanto che è stato denunciato per «eccesso colposo di difesa». Il punto, naturalmente, è stabilire il limite accettabile. Che ne pensano gli italiani? Al riguardo, è interessante esaminare i risultati di un recente sondaggio condotto dall'istituto EumetraMR, intervistando un campione rappresentativo dell'universo della popolazione adulta del nostro paese, per conto della trasmissione «Quarta Repubblica» condotta da Nicola Porro. Nell'ambito della ricerca è stato posto il seguente quesito: «È sempre giusto sparare al ladro che entra nella propria casa?» (Si noti che l'introduzione della parola «sempre» mirava ad escludere dai consensi chi ritenesse che fosse giusto solo in casi eccezionali). La larga maggioranza, quasi sei intervistati su dieci (59%), si è schierata per il sì, ribadendo cioè la liceità di sparare al ladro che si introduca nella propria abitazione. Ma i restanti non sono tutti contrari. Una quota relativamente cospicua (13%) ha espresso i propri dubbi (o il proprio diniego a rispondere alla domanda) scegliendo l'opzione «non so». E meno di tre intervistati su dieci (28%) hanno invece manifestato il proprio dissenso, scegliendo di rispondere «no» al quesito proposto. Non emergono grandi differenze analizzando la distribuzione delle risposte per classi di età, mentre si riscontra una maggiore (62%) propensione tra gli uomini (rispetto alle donne) a legittimare l'uso delle armi in caso di furto. Ancora, l'accordo con la reazione armata cresce al decrescere del titolo di studio. Giunge infatti al 79% tra chi possiede la licenza elementare, assumendo poi valori inferiori, sino a collocarsi al comunque ragguardevole 55% tra quanti detengono una laurea universitaria. Ma le variazioni più interessanti sono forse quelle che si rilevano in relazione all'orientamento politico (misurato chiedendo l'intenzione di voto a prossime eventuali elezioni). Se appare infatti scontato che i valori massimi di consenso all'uso delle armi in reazione ai ladri si manifestino tra gli elettori della Lega (dove raggiunge l'85%), che da anni propugna la liceità di comportamenti siffatti (sui quali, come si è accennato, la stesso leader Salvini ha preso di recente posizione), appare significativo il livello di approvazione relativamente alto che si riscontra tra i votanti per il M5s (58%) e che coinvolge la maggioranza di questi ultimi (alcuni si saranno espressi, forse, per solidarietà di Governo). Alto (68%) è anche il consenso tra gli elettori di Forza Italia. Viceversa, tra i votanti per il Pd, l'accordo all'uso delle armi per l'autodifesa è di gran lunga inferiore (33%): due terzi dell'elettorato lo respinge. Oltre che come presa di posizione politica e culturale, questo dato evidenzia anche una certa problematicità dei dem a gestire la tematica. Nell'insieme, questi dati si inquadrano nel clima di insicurezza e talvolta di paura che caratterizza l'elettorato. Il tema della sicurezza personale è una delle principali priorità (subito dopo il lavoro e l'occupazione) oggi richieste a chi ci governa o vuole assumere questo ruolo.

Fredy, da vittima ad accusato: "Ha detto un sacco di bugie". I carabinieri: «I furti denunciati sono solo 6, non 38» Salvini: «Assurdo colpevolizzare chi si è solo difeso», scrive Nino Materi, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". E così, tanto per non farci mancare nulla, è partito il «toto-denunce». «Trentotto»? No, «sei»; anzi, «quattro». Sulla ruota della sfortuna si danno i numeri: ci sarebbe da giocarseli, se non fosse che qui siamo dinanzi a una storia drammatica: un uomo (il ladro) ammazzato e un altro uomo (la vittima del furto) ora sospettato di aver ecceduto nel difendersi, «percependo un tasso di pericolo superiore a quello reale»; come se, in quei momenti terribili, le vittime pesare emozioni e reazioni col bilancino del codice penale. In Italia il rischio di trasformare la tragedia in commedia è sempre alto, e questa vicenda del gommista «pistolero» Fredy Pacini di Monte San Savino (Arezzo) ne è l'ennesima riprova. I titoloni in prima pagina che qualche giorno fa accompagnarono la notizia li ricordiamo tutto: «Commerciante spara e uccide il ladro. Aveva già subito 38 furti». Ora si scopre che le denunce presentate negli ultimi quattro anni dal signor Pacini sono «appena» sei, di cui «solo» due a seguito di un furto consumato (nelle altre quattro si sarebbe trattato di «semplici» tentati furti). Attenti alle parole: «solo», «appena», «semplici»; termini dietro cui si cela chi guarda il dito e ignora la luna. Ne è convinto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini: «Ma cosa cambia se le denunce sono 38 o 6? La verità è che un onesto lavoratore si è difeso perché si è sentito in pericolo di vita aggredito all'interno della sua proprietà». Ma le inchieste giudiziarie servono anche a questo: ad accertare verità che i titoli di giornali non possono decodificare in tempo reale. Ma la domanda resta? È un elemento decisivo o no che Pacini abbia «mentito» sul numero delle denunce presentate? Cosa cambia questa circostanza rispetto all'episodio specifico in cui un moldavo di 29 anni ha perso la vita? Il comandante del nucleo operativo dei carabinieri di Arezzo, Giovanni Rizzo, precisa all'Agi: «A noi risultano sei denunce da parte di Pacini dal 2014 a oggi, che diventano forse una decina andando più indietro negli anni. Certo, non 38», come invece dichiarato da Pacini che, per sentirsi più sicuro, aveva deciso di restare in azienda anche di notte. Ieri l'esito dell'autopsia sul corpo del moldavo ucciso: «È stato raggiunto da un proiettile alla gamba e da un altro all'altezza di un fianco». Il commerciante toscano, 57 anni, è indagato per eccesso colposo di legittima difesa, ma non ha ancora risposto alle domande del pm. Pacini più volte in passato aveva raccontato di essere «esasperato per i continui furti», e così quando ha visto il moldavo (un pregiudicato, latitante e dalla falsa identità sul passaporto) entrare nella sua ditta «impugnando un piccone», ha fatto fuoco con la sua Glock semiautomatica «mirando alle gambe». Uno dei cinque proiettile esplosi ha però reciso l'arteria femorale, e il moldavo è morto dissanguato mentre il complice è fuggito. L'avvocato del commerciante è sicuro: «È stata legittima difesa». Pacini dice: «Ho il cuore a pezzi, ma sono tranquillo con la coscienza. Ringrazio le migliaia di persone che su Facebook mi sostengono». Ma per lui l'incubo continua.

Legittima difesa: i casi più famosi (e come è andata a finire). Quello del gommista di Arezzo, Fredy Pacini, è solo l’ultimo di una serie di episodi. Come si sono conclusi (e a che prezzo), scrive Eleonora Lorusso il 30 novembre 2018 su Panorama. Il nome di Fredy Pacini è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa, per aver sparato ed ucciso un rapinatore moldavo 29enne, entrato nella sua azienda a Monte San Savino, in provincia di Arezzo. L'uomo da 4 anni dormiva all’interno della sua rivendita di gomme, per difendersi dalle rapine (ben 38) subite in precedenza. Il ministro dell’Interno, Salvini, si è schierato dalla parte del gommista, dicendo la legittima difesa non è mai eccessiva e spiegando: “L’eccesso di legittima difesa è esattamente il reato che vogliamo cancellare: gli ho detto (a Pacini, NdR) di stare tranquillo. Il disegno di legge a inizio gennaio deve arrivare in aula” ha aggiunto il titolare del Viminale. Ma quali sono i casi più famosi che hanno portato alla ribalta delle cronache negozianti, benzinai, ristoratori per aver reagito a tentativi di rapina e poi sono stati processati? Come è andata a finire? I precedenti: da Petrali a Cattaneo.

Giovanni Petrali. E’ il 17 maggio del 2003 quando il tabaccaio Giovanni Petrali, 75 anni, dopo essere stato malmenato e minacciato da alcuni rapinatori, estrae la pistola e spara quattro colpi, andati a vuoto, dentro il suo negozio di piazzale Baracca, a Milano. Ne seguono altri tre, esplosi all’esterno mentre i malviventi fuggono. Uno di loro, Alfredo Merlino, cade a terra e muore; un altro, Andrea Solaro, rimane ferito a un polmone. In primo grado Petrali è condannato per omicidio colposo a un anno e 8 mesi, mentre in secondo grado (nel 2011) il tabaccaio è assolto perché gli viene riconosciuta la “legittima difesa putativa”: all’uomo, in pratica, venne riconosciuto di aver agito perché “sconvolto” e commettendo un “errore di percezione”, ossia di valutazione della situazione.

Graziano Stacchio. Graziano Stacchio è un benzinaio di Ponte di Nanto (Vicenza): il 3 febbraio 2015 spara contro 5 rapinatori che prendono d’assalto una gioielleria vicino al suo distributore. Usa il suo fucile da caccia per difendere Genny, la commessa: dei tre colpi, uno recide l’arteria femorale di Albano Casso, giostraio 41enne, trovato morto dissanguato poco lontano dopo un tentativo di fuga. Uno dei malviventi rimane ucciso. Viene incriminato con l’accusa di eccesso colposo di legittima difesa, ma testimonia di aver aperto il fuoco solo in risposta ai colpi dei malviventi, che avevano un mitra. L’intero paese si mobilita in sua difesa, viene fatta una raccolta fondi per permettere al benzinaio di pagare le spese legali. Il pm chiede l’archiviazione, ottenuta il 16 giugno del 2017. «È stata durissima, anche psicologicamente - disse Stacchio in un’intervista - ci sono voluti 16 mesi e quasi 40mila euro di spese legali, nonostante io non sia mai nemmeno andato a processo». Lo scorso febbraio per l’unico rapinatore catturato, Oriano Derlesi, la Corte d’Appello di Venezia ha confermato 9 anni e 10 mesi di reclusione. Per Roberto Zancan, titolare della gioielleria, si è trattato di una “sentenza giusta, ma dieci anni sono troppo pochi”.

Mario Cattaneo. Più recente è il caso di Mario Cattaneo, il ristoratore di Casaletto lodigiano che col suo fucile la notte del 10 marzo 2017 ha ucciso un ladro romeno che si era introdotto nel locale per rubare, rimanendo a sua volta ferito a un braccio e a una gamba nella colluttazione con il ladro. Il titolare 68enne è stato rinviato a giudizio inizialmente per omicidio volontario, per la morte di Petre Ungureanu, romeno di 23 anni che agì con alcuni complici e che rimase colpito alla schiena da uno dei quattro colpi esplosi. A ottobre la procura ha derubricato l'accusa in eccesso di legittima difesa. Lo scorso ottobre all’osteria dei Amis, il ristorante di Cattaneo, si è riunito un gruppo di commercianti vittime di rapine. Si è trattato di un’iniziativa dell’Unavi, l’Unione Nazionale delle vittime.

Franco Birolo. E’ la notte del 26 aprile del 2012 quando Igor Ursu, moldavo di 23 anni, fa irruzione con alcuni nella tabaccheria di Franco Birolo, a Civé nel padovano. Il titolare, all’epoca 47enne, dorme al piano di sopra, sente i rumori e scende, lasciando moglie e figlia piccola in casa. Ha una pistola e spara, uccidendo il rapinatore. Il tabaccaio viene condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per eccesso colposo di legittima difesa. La famiglia del bandito chiede un risarcimento di 325 mila euro da pagare alla sorella e alla madre del giovane ladro. Il 13 marzo del 2017 la Corte d’Appello ha assolto Birolo. Solo a luglio del 2018 è arrivata anche la decisione della Cassazione, che ha dichiarato inammissibile la richiesta di risarcimento.

Francesco Sicignano. Sicignano è un pensionato che vive nella sua villetta di Vaprio d’Adda, in provincia di Milano. Il 20 ottobre del 2015 si trova in casa Gjergi Gjonj, un rapinatore albanese di 22 anni. Spara e lo uccide. Anche in questo caso la famiglia del ladro chiede un risarcimento danni e ricorre contro l’archiviazione del fascicolo, aperto per legittima difesa. La vicenda giudiziaria si chiude a dicembre del 2017 con l’archiviazione del caso che ha visto coinvolto il pensionato, per il quale la famiglia dell’albanese chiede invece di procedere per omicidio: a far discutere all’epoca era stato il fatto che si era sospettato che l’uomo avesse sparato non all’interno dell’abitazione, ma sulle scale esterne di accesso. Sicignano, invece, aveva sempre ribadito di aver usato l’arma in casa e che solo dopo il rapinatore si fosse trascinato verso l’esterno. Sicignano ha poi raccontato che, dati i tempi relativamente brevi del suo caso, non ha dovuto versare altro che acconti. Ma il rischio della beffa, di dover ripagare la famiglia del ladro, non gli ha fatto dormire sonni tranquilli.

Unione nazionale vittime. “Siamo qui con le varie vittime di reato che hanno avuto ladri in casa e che hanno reagito avendo poi problematiche con la legge” ha spiegato la presidente dell’associazione, Paola Redaelli. L’Unavi, che ha come ambasciatore Alessandro Meluzzi e testimonial Luca Ward, sostiene il disegno di legge sulla legittima difesa. “Si tratta di un gruppo di persone che chiede giustizia, non cerca vendetta e collabora con tutte le istituzioni al fine di ottenere una Legge equa come esiste in molti altri Paesi europei” si legge sul sito.

Quanto costa difendersi?

Uno dei punti più delicati, oltre a quello delle pene, riguarda anche il costo che le vittime devono affrontare per sostenere le spese legali di difesa in tribunale. Se Stacchio ha ammesso di aver pagato 40 mila euro, a anche Franco Birolo ha dovuto sborsare una cifra simile, ma avrebbe potuto andargli peggio: gli erano stati chiesti 325mila euro di risarcimento dalla famiglia del rapinatore. A far lievitare i conti da affrontare sono spesso le perizie che vanno prodotte in aula e che possono costante anche 10mila euro l’una. A Giovanni Petrali è andata bene, perché - come dichiarato dal figlio Nicola - hanno potuto contare su un avvocato di famiglia, altrimenti le stime nel loro caso parlano di un conto finale di circa 100mila euro.

A che punto è la nuova legge e cosa prevede. La nuova legge sulla legittima difese è uno dei cavalli di battaglia del ministro dell’Interno, Salvini, che da tempo si batte per modificare le attuali norme. Il nuovo disegno di legge è stato approvato in prima lettura a ottobre in Senato: modifica quanto previsto dal Codice penale in tema di eccesso colposo. Si esclude la punibilità se chi ha commesso il fatto “per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento derivante derivante dalla situazione di pericolo in atto”. Resta invariato il principio della proporzionalità tra la difesa e l’offesa nei casi di violazione di domicilio. Un’altra novità è però rappresentata dall’estensione del gratuito patrocinio, nei casi nei quali il giudice debba procedere penalmente per fatti commessi in condizioni di legittima difesa. Inasprite anche le pene per furto in casa e scippo, aumentate di un anno: il minimo sale a quattro anni e il massimo a sette. Più severe anche le pene per il reato di rapina, da cinque anni fino a un massimo di dieci.

Vittorio Feltri: Lega sveglia, ora dateci la legittima difesa, scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Fuori dai denti: noi siamo dalla parte del gommista che ha sparato e ucciso il ladro entrato nel suo capannone, con un complice, per rubare pneumatici. Siamo solidali con lui, ne comprendiamo l'esasperazione e la reazione. Dito sul grilletto e pum pum. Il piccolo imprenditore ha subìto 38 razzie e ci ha rimesso di tasca propria. Ovvio che al trentanovesimo tentativo abbia messo mano all'arma e fatto fuoco. Quelli che lo accusano di aver commesso un reato non capiscono nulla, sono fuori dal mondo, incapaci di immedesimarsi in chi, sfinito dai soprusi sopportati, si è cautelato in modo adeguato. Adesso la magistratura lo processerà per eccesso di legittima difesa, appellandosi a una legge assurda, in base alla quale i furfanti meritano più considerazione delle loro vittime. Insisto: 38 rapine non bastano a indurre un onesto cittadino a dire stop, ora esplodo un paio di colpi per salvare il mio modesto patrimonio e la mia personale integrità? Nessun Paese al mondo, tranne il nostro tollera gli aggressori, che talvolta non si puniscono adeguatamente, mentre ci si accanisce su coloro che essi derubano e minacciano. Da anni si discute di legittima difesa senza costrutto. I banditi continuano nelle loro azioni illegittime, raramente finiscono in galera e, se ci finiscono, vengono immediatamente liberati. Viceversa si infierisce sulle persone che giustamente si sono ribellate ricorrendo a fucili e pistole per neutralizzare i pericoli cui andavano incontro. Le norme che dovrebbero regolare in forma equa la materia sono oggetto di interminabili dibattiti, si perde tempo a disquisire di particolari e non si giunge mai a una conclusione. Il Parlamento non è in grado di legiferare perché diviso in fazioni, alcune delle quali fanno il tifo per i delinquenti e denigrano chiunque si opponga ad essi mettendo mano alla fondina. La cosa ci scandalizza. Speravamo che la Lega, oltre a discettare vanamente sui decimali della manovra finanziaria, trovasse un momento per dedicarsi a chi non desidera piegarsi ai criminali. Niente. Non è successo niente. Silenzio assoluto. La difesa non è legittima, ma lo è l'offesa. Siamo di fronte ad un obbrobrio giuridico che grida vendetta. Supplichiamo Salvini di porre termine a questo paradosso. Le nostre case, le nostre attività commerciali, le nostre vite non devono essere in balìa di grassatori che poi la fanno franca. Dateci l'opportunità di proteggerci con qualsiasi mezzo, perfino letale. È da cretini vietare le rivoltelle. Basti pensare che l'80 per cento degli omicidi in Italia si compie con pugnali e coltelli usati da balordi in famiglia, quando i processi per la nostra necessità di non cedere ai malviventi si contano sulla punta delle dita. Pretendiamo una legge in grado di rispettare gli uomini e le donne che non ci stanno a soccombere alla altrui violenza. Vittorio Feltri

Due tragedie: quella di Fredy e quella del Moldavo, scrive Piero Sansonetti il 29 Novembre 2018. Salvini  ha applaudito il commerciante che ha ucciso un ladro. Ha fatto malissimo. Fredy Pacini è colpevole di omicidio? Assolutamente no. MatteoSalvini ha applaudito il commerciante toscano che ha sparato a un ladro e lo ha ucciso. Ha fatto malissimo. Il ministro dell’Interno non dovrebbe mai esultare per l’uccisione di una persona. Specialmente il ministro dell’Interno di un paese dove non esiste la pena di morte. Questo vuol dire che Fredy Pacini è colpevole di omicidio? Assolutamente no. Se ha sparato per difendersi sarà prosciolto, o assolto, per legittima difesa. Come è successo, in passato, in moltissimi casi simili. Sarà prosciolto o assolto sulla base della legge italiana, che esiste, prevede la legittima difesa, ed è abbastanza saggia. Non è una legge sovversiva, di sicuro. La scrisse un certo Alfredo Rocco, ministro della Giustizia del cavalier Benito Mussolini. Negli anni trenta. Poi la legge fu modificata da un ministro della Lega, e resa più favorevole a chi spara. Sicuramente può essere modificata, resa più rigorosa, ma forse non è il momento. Comunque non è una modifica urgente. Certamente non ha molto senso modificarla per renderla meno rigorosa, cioè più favorevole a chi spara. Né il regime fascista né i ministri leghisti sono stati mai molto lassisti verso i ladri e chi entra non invitato in casa altrui. Dobbiamo andare oltre la loro visione giustizialista? Spero di no. Spero anche – come mi capita molto spesso – che l’indagato sia prosciolto o assolto. Perché sia condannato occorrerebbero le prove che ha ucciso perché voleva uccidere, che ha inseguito il ladro quando poteva lasciarlo andare, che ha usato la pistola come un giustiziere. Non sembra il caso di Pacini. Mi pare di avere capito che ha sparato alle gambe, che ha ucciso il giovane moldavo per errore, e per una sfortunata circostanza. E cioè perché uno dei colpi, sparato alla coscia, ha reciso una grossa arteria e ha provocato il dissanguamento. Sarebbe una cosa molto civile se in questi casi si discutesse di legittima difesa o di eccesso di difesa in questi termini. Oggettivi, senza scalmanarsi. Cioè tenendo fermo il diritto, e non scatenando tifoserie che finiscono sempre per incitare alla violenza, alla reazione armata. L’obiettivo di tutti dovrebbe essere quello di ridurre al minimo i furti e le invasioni di domicilio, e contemporaneamente di annullare le uccisioni dei ladri. Diceva De André – musicista che piace anche ai leghisti e ai 5 Stelle “guardate la fine di quel nazareno, e un ladro non muore di meno…”. Già. Subire un furto, spesso, è un dramma. Ma un ragazzo che muore a 29 anni – ladro o Cristo che sia – è una tragedia per tutti, credo, non è una festa. Una persona normale, non accecata dai pregiudizi o dalle ideologie giustizialiste, in una situazione del genere può tranquillamente solidarizzare con il signor Pacini, che probabilmente in queste ora sta soffrendo per quello che è successo, si sta interrogando sulla proporzionalità della sua reazione, si sta chiedendo se poteva evitare quello sparo maledetto. Però una persona normale solidarizza con Pacini ma anche con chi voleva bene al ragazzo ucciso. Che avrà avuto un padre, una madre, forse dei fratelli, degli amici: stava rubando e ci ha lasciato la pelle. Pubblichiamo oggi un racconto scritto da un grandissimo intellettuale italiano negli anni 60. Carlo Levi, pittore, scrittore, militante antifascista finito al confino. Autore del celeberrimo “Cristo si è fermato ad Eboli”. È un pezzo bellissimo, pieno di poesia e di impegno civile. Racconta un episodio di cronaca nera di tanti anni fa, molto diverso da quello di oggi. Quella volta il derubato (anzi: un amico del derubato) non difese certo la sua incolumità ma solo una radio a transistor da 10 mila lire. Inseguì il ladruncolo, lo freddò con una revolverata in fronte, sparata da vicino. È curioso ricordare quell’episodio – io ero bambino, frequentavo Ciampini a piazza Navona, e ricordo benissimo, perché se ne discusse tanto, anche a casa mia, che era una casa di borghesi conservatori. È curioso perché una opinione pubblica che all’epoca era ancora molto arretrata, bigotta, un po ottocentesca, in parte influenzata dal senso comune del fascismo, eppure si schierò tutta con il ragazzo. Oggi non succederebbe mai una cosa del genere. E ora speriamo che le indagini siano rapide e che Pacini sia prosciolto. E speriamo che nessuno esulti, nessuno inciti a sparare. Nessuno racconti la balla di una legge che impedirà di indagare chi spara. Grazie a Dio questo è impossibile. Se un magistrato viene informato che hanno sparato a una persona e l’hanno uccisa non può fare altro che avviare le indagini e spedire gli avvisi di garanzia. Gli avvisi di garanzia una volta erano stati immaginati per proteggere l’indagato. Poi una politica e una informazione che ama molto le forche, li ha trasformati in pre-condanne. Magari invece di fare leggi assurde, che permettono di sparare liberamente, sarebbe meglio applicare le leggi che ci sono e spiegare alla gente che se uno viene indagato non è colpevole. La statistica dice che all’ 80 per cento è innocente.

La pistola che distrugge due vite. Possedere un'arma non è di per sé un diritto, essere protetti dalle forze dell'ordine, invece, lo è, scrive Roberto Saviano il 30 novembre 2018 su "La Repubblica". Ciò che è accaduto a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, è drammatico: nel corso di una rapina muore un uomo, un ragazzo di ventinove anni, Vitalie Tonjoc, ucciso da un piccolo imprenditore che, per difendere la propria attività, che poi coincide con la propria vita, da quattro anni dormiva nell'officina dove si trovano biciclette in fibra di carbonio e treni di gomme, che a rubarli ci si ricavano migliaia di euro e che a perderli si rischia di fallire. La notte della rapina finita in tragedia, il giovane moldavo ha perso la vita e chi lo ha ucciso, nonostante abbia salvaguardato i propri beni, ha perso moltissimo. A Monte San Savino si è consumata una tragedia: la morte violenta non può essere archiviata come prassi di autodifesa e chiunque uccida un uomo muore insieme alla propria vittima. La vicenda di Pacini, dell'ultimo furto, dell'uccisione del ladro, dei post di Salvini è nota, e naturalmente ciascuno ha la sua opinione al riguardo. Salvini dopo conia l'hashtag #iostoconfredy: verrebbe da dirgli, facile ora stare con Fredy, ma prima che la sua vita drammaticamente cambiasse (in peggio) dove erano le istituzioni? La sensazione del pericolo, l'essere effettivamente in pericolo - perché di fronte a un uomo che sostiene di aver subito 38 tentativi di furti, le statistiche sul calo dei reati predatori non si possono tirare fuori - e il reagire al pericolo sono tre fasi distinte di cui dovremmo occuparci con molta cautela e sulle quali non si dovrebbero giocare vili partite politiche. La vita di Fredy Pacini ora è peggiorata e non, come qualcuno banalmente ritiene e riferisce, perché un tribunale dovrà accertare come i fatti si siano svolti durante la rapina e nel momento in cui la sua Glock ha esploso i cinque colpi, di cui due hanno colpito Vitalie Tonjoc. E nessuna modifica all'attuale legge sulla legittima difesa potrà eliminare questo passaggio: chiunque spari, sappia che ci sarà sempre un processo - non fidatevi degli imbonitori al governo - nell'ambito del quale sarà, come tutti, considerato innocente fino a prova contraria. La vita di Fredy Pacini è peggiorata perché ha ucciso, perché si è trovato nella condizione psicologica - il processo stabilirà i dettagli - che lo hanno portato a togliere la vita a un altro uomo. Quello che nessuno vi dice ora è che, anche se hai paura e ti vuoi difendere, anche se sei stato vittima di ripetute ingiustizie, uccidere ti cambia la vita, pensare che sei dovuto arrivare alle estreme conseguenze per difendere ciò che è tuo è un pensiero insopportabile per chiunque. Sono anni che studio e che racconto le storie di chi decide di usare le armi e che fa delle armi il centro della propria vita e di quella che, impropriamente, qui definisco "attività". Sono nato e cresciuto in una terra, in una provincia, in cui il possesso e l'uso di armi da fuoco era considerato normale. Sono cresciuto in una terra dove la prima cosa che ti dicono, quando sei bambino, se non sei uno di "loro", è di stare attento a come rispondi alle persone, ché non sai mai chi ti trovi davanti. La paura è sempre quella di subire un torto e di pensare di poter reagire, anche solo verbalmente, con una persona che a differenza di te è armata. Armata e abituata a sparare. Armata e che mette in conto di poter sparare, anche solo per scrollarsi di dosso l'onta di un "vaffanculo" preso magari per non aver rispettato uno stop. Sono anni che mi occupo di territori violenti e di chi rende violenti quei territori, utilizzando la sola prospettiva interna alle organizzazioni criminali e la prospettiva è quella di chi non teme lo Stato, di chi non teme le forze dell'ordine, di chi non teme le armi degli altri ma che anzi, sentendosi in guerra, non esita a utilizzare le proprie. Che c'entra tutto questo con Fredy Pacini? C'entra. C'entra perché nonostante dormisse da quattro anni nell'officina, nonostante avesse - questo lo dicono persone a lui vicine - già sparato in aria (solo in aria!) e messo in fuga ladri in altre occasioni, nonostante fosse esasperato, nonostante avesse perso fiducia nelle forze dell'ordine, non credo fosse pronto a uccidere. È un imprenditore, non un criminale. È una persona che ha investito in una attività, non uno che con la forza conta di prendersi ciò che vuole. E allora, la vicinanza a Fredy Pacini la capisco, ma le parole dovrebbero essere altre: "Ci dispiace che tu abbia dovuto sparare per difenderti. Ci dispiace che lo Stato non ti abbia dato supporto, ci dispiace che tu abbia dovuto subire trentotto furti, che tu sia stato costretto a dormire in officina per proteggere ciò che possiedi". Lo Stato, nella persona del ministro degli Interni, ovvero il ministro da cui dipendono le forze dell'ordine, dovrebbe usare queste parole, e non altre. Ma Salvini non ha chiesto scusa e con la sua comunicazione social ha offeso chi dipende dal suo Ministero. Chi invita i cittadini a difendersi da soli, dice implicitamente che le forze dell'ordine sono incapaci di svolgere il proprio lavoro. Una tale bestialità la si può tollerare come chiacchiera da bar, ma non se a dirla sono rappresentanti del governo. Oltretutto è una comunicazione criminale: invitare implicitamente o esplicitamente i cittadini ad armarsi e a difendersi da soli è pericolosissimo perché l'esito di un duello tra persone armate è sempre incerto, e tra un cittadino per bene e un malvivente con la pistola, secondo voi chi avrebbe la meglio? Possedere un'arma non è di per sé un diritto, essere protetti dalle forze dell'ordine, invece, lo è. In questo continuo capovolgimento, in questo continuo mescolare, fino a rendere indistinguibile, ciò che è vero con ciò che è verosimile, si sta cercando di convincere i cittadini che debbano fare tutto da sé, anche difendersi. Addirittura difendersi. Qui non si tratta di negare ai cittadini il diritto di possedere un'arma e quello, assai opinabile, di usarla; qui si mette in discussione la nostra sicurezza: più armi in circolazione, anche se legalmente detenute, sono un fattore di destabilizzazione, non rendono le città, le campagne, le attività commerciali, e dunque le persone, più sicure, ma le espongono a rischi maggiori. Tempo fa mi sono imbattuto in una sorta di opera omnia sull'uomo, si tratta di Human, documentario diretto da Yann Arthus-Bertrand e finanziato dalla Bettencourt Schueller Foundation e da GoodPlanet. Se vi capita di vederlo fate caso alle prime interviste: a parlare sono tutti uomini cui l'uso delle armi ha cambiato la vita, in peggio. "Prima non morivamo come oggi", dice un vecchio africano, "vivevamo in pace. Durante i nostri scontri non si moriva. C'era solo un fucile per villaggio. Quello che ci decima è il kalashnikov. \[...\] Quest'arma è cattiva, priva le nuove generazioni e il paese della pace."

La vignetta di Vauro sul gommista Pacini fa infuriare il web. La scenetta proposta dal vignettista toscano ha letteralmente infiammato il web: sulla sua pagina Facebook si moltiplicano gli insulti e le reazioni disgustate degli utenti, scrive Federico Garau, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale". Quando sembra che più in basso di così non possa andare, riecco spuntare Vauro con una delle sue “brillanti” satire monocorde, incurante del fatto di fare ironia spicciola sulle sofferenze altrui nascondendosi dietro il solito pensiero “politically correct”. Tuttavia il web non perdona, e le reazioni registrate nelle ultime ore danno la misura di come il vento che fino ad oggi ha spinto alle spalle delle sue vele stia cambiando. Oggetto delle sue attenzioni che dovrebbero suscitare risa anziché rabbia, come invece accade, Fredy Pacini, il gommista di Arezzo piombato nell’incubo dell’indagine per eccesso di legittima difesa. L’uomo, da troppo tempo vittima di ripetuti furti all’interno della sua rivendita, ben 38, si era trovato costretto a dormire all’interno del locale per tentare di proteggere la sua unica fonte di guadagno. Quando un moldavo pregiudicato, latitante ed armato di piccone ha fatto irruzione per l’ennesima volta, Pacini ha fatto fuoco e lo ha ucciso, ritrovandosi adesso a vivere il dramma dell’infangante incriminazione. Un dramma che non tocca certamente Vauro, il quale anzi propone in chiave “ironica” una vignetta a tema, intitolata “Legittima difesa – Avvertenze”. Un uomo a terra colpito da proiettili guarda verso il gommista in piedi che commenta con “Per le forature da proiettile non rivolgersi al gommista”. Ogni riferimento a Pacini non è puramente casuale, e sulla pagina Facebook di Vauro gli insulti si moltiplicano e si sprecano. “Questo sì che è sciacallaggio, lei è proprio un poveraccio. Posso capire che lei se la prenda con la politica ma una vignetta infame contro un uomo che sicuramente era esasperato e spaventato non la rende migliore ma dimostra semplicemente quanto lei sia un omuncolo che vale zero.”, commenta una donna. “Lei fa vignette anche quando i ladri uccidono i derubati? Oppure lei s'indigna solo e quando il ladro viene ucciso?”, domanda un altro utente. “Che schifo di vignetta...Come molte altre tue Vauro… La tua pochezza d'animo è fin troppo evidente”. Poi c’è anche chi non resta più di tanto sorpreso, visto l’imperante “politically correct” e in modo rassegnato commenta con un “Vabbè dai...la classica vignetta dell’ipocrita buonista di turno”. “Ancora una volta la sinistra conferma di difendere esclusivamente i delinquenti e poi vi domandate perché le persone per bene non vi votano più. Che vergogna.”

. Luca Abete di Striscia la Notizia intervista il titolare del locale in provincia di Napoli: “Rapine violente con i ladri armati fino ai denti”, scrive Tgcom24 il 30 novembre 2018. Un bar tabacchi che ha subito 12 rapine negli ultimi tre anni. La storia di Maurizio, gestore del locale di Afragola - città nel nord della provincia di Napoli - ha del surreale ed è lui stesso che racconta a ‘Striscia la Notizia’ la paura che prova ogni volta: “Sono rapine violente, in cui questi criminali si presentano armati fino ai denti e con le percosse ci obbligano a svuotare la cassa, a dargli i gratta e vinci, a riempire loro borsoni di sigarette”. Criminali del posto secondo Maurizio, intervistato da Luca Abete: “Sono di qui perché hanno il nostro stesso accento”. E la polizia? “Sono arrivati tutte le volte, ma con un’ora e passa di ritardo rispetto all’allarme, quindi i ladri sanno di avere tutto il tempo per derubarci”. E il motivo di questa lentezza? “Non ce lo sappiamo spiegare perché il Commissariato di Polizia è a 200 metri di distanza, come quello dei Carabinieri e quello della Polizia locale”.

Il bar tabacchi che ha subito 12 rapine: "Siamo il bancomat dei criminali". Il titolare a Striscia La Notizia: "Tra beni e denaro ci abbiamo rimesso 150mila euro", scrive il 29 novembre 2018 Today. Il caso di Fredy Pacini, il gommista che ha sparato e ucciso un ladro dopo aver subito 38 furti, ha riportato al centro dell’attenzione il tema della criminalità. Nonostante negli ultimi anni il numero di furti e rapine sia in netto calo, come emerge anche dai report dell’Istat, quello della sicurezza resta un tema molto caldo. E spesso gli italiani non si sentono adeguatamente protetti dallo Stato. Quello del gommista di Fredy Pacini peraltro non sembra un caso isolato. A documentare un altro caso simile è Striscia La Notizia. Nella puntata di questa sera Luca Abete intervista il titolare di un bar tabacchi di Afragola che racconta di aver subito 12 rapine negli ultimi 3 anni, l’ultima venerdì 23 novembre, in pieno giorno. Il proprietario del locale racconta di aver "potenziato il sistema di videosorveglianza (in 80 mq, abbiamo 20 telecamere)" e "diminuito le ore di apertura" mentre le "guardie giurate aprono e chiudono tutti i giorni l’attività". Inoltre, precisa: "Abbiamo tutte le immagini di tutte le rapine subite". E infatti - spiega Striscia - nei filmati si vedono i ladri armati di pistole, fucile a canne mozze e mazze entrare nel locale, prendere in ostaggio i clienti e derubare l’attività di contanti e merce. Abete domanda: "È possibile quantificare il danno subito dopo tutte queste rapine?". La cifra, spiega il proprietario "tra beni e denaro contante, è attorno ai 150mila euro". Anche durante l’ultima rapina, un dipendente è riuscito a chiamare le forze dell’ordine: la chiamata viene fatta alle 12.50, eppure - si legge nel comunicato stampa della trasmissione - l’arrivo delle volanti risulta essere alle 14.15. Il proprietario sottolinea: "Su 12 rapine, 12 volte in ritardo. Siamo diventati il bancomat dei criminali”. E ancora: "Ho pensato di chiudere ma chiudendo vanno via 15 dipendenti". Poi chiosa: "Se noi ci abbiamo rimesso i soldi, lo Stato ci ha rimesso la faccia".

La paradossale storia di Maurizio: 12 rapine in 3 anni e lo Stato è assente, scrive il 30 Novembre 2018 Vesuvio Live. Ha subito 12 rapine in tre anni, ma le Forze dell’Ordine sono state sempre assenti. Questa è la paradossale storia in cui si è ritrovato catapultato Maurizio, proprietario di un Bar Tabacchi ad Afragola. Un record incredibile che finisce al centro di un servizio di Luca Abete che raccoglie la testimonianza dello stesso proprietario dell’esercizio commerciale: “In queste rapine subiamo percosse, vengono armati fino ai denti. Abbiamo paura e non siamo tutelati”. Per Maurizio i rapinatori, anche se sempre a volto coperto, “sono sicuramente del posto perché quando parlano hanno il nostro accento”. Per un caso così eccezionale sono state messe in atto precauzioni eccezionali, anche se sembrano siano servite a poco: “Dalla prima rapina abbiamo potenziato il sistema di videosorveglianza: in 80 mq abbiamo 20 telecamere che registrano in HD. Ma fino ad ora non ci sono servite a niente”. Quindi, Maurizio ha tutte le immagini che vengono mostrate nel servizio di Striscia la Notizia. I ladri, che spesso sequestrano anche i clienti, arrivano quasi sempre in branco, armati (a volte anche di fucile a canne mozze), facendo razzia di tutto: non solo soldi, ma anche altre merci come sigarette, gratta e vinci e una cambia monete. Un danno ingente, in questi anni, che tra beni e soldi ammonta a circa 150mila euro. L’ultima rapina è avvenuta venerdì scorso, intorno alle 13, quando strada e locale erano affollati di persone. Una situazione insostenibile che diventa ancor più pesante per l’assenza dello Stato. Infatti, racconta Maurizio, ogni volta che le Forze dell’Ordine sono state allertate sono sempre arrivate in ritardo (anche un’ora e mezza dopo la rapina), eppure distano a soli 200 metri dall’esercizio commerciale. “Siamo diventati il bancomat di questi criminali – dice sconfortato Maurizio – Ho pensato anche di chiudere, ma così andrebbero in strada 15 dipendenti. Cercheremo di resistere fino a quando ne avremo la forza. Sono, però, sicura di una cosa: se noi ci abbiamo rimesso i soldi, lo Stato ci ha sicuramente rimesso la faccia”.

È l'Italia il paradiso dei rapinatori. Dopo la rapina nella villa di Zavoli: ecco perché, secondo il sindacato di polizia, il nostro Paese è diventato l'El Dorado dei ladri, scrive Nadia Francalacci il 5 dicembre 2012 su Panorama. “L’Italia è l’El Dorado dei rapinatori, il Paese-scuola in Europa per le bande organizzate che vogliono perfezionare le tecniche di rapina”. Franco Maccari, segretario del Coisp, sindacato della Polizia di Stato, commenta così l’ennesima rapina portata a segno nella villa del giornalista Sergio Zavoli alle porte della Capitale.

“Il fatto accaduto a Zavoli è di una violenza incredibile ma è vergognoso parlare delle rapine e delle violenze che sono costretti a subire gli italiani dalle bande specializzate, per la maggior parte di etnia romena, solamente quando si verifica un “colpo” ad un vip, ad un personaggio conosciuto oppure quando le rapine si concludono con un omicidio o una violenza sessuale:  i cittadini italiani sono costretti ogni giorno a subire violenze inaudite che sempre più spesso degenerano in fatti di sangue”.

Ma che cosa rende l’Italia, il “paese perfetto” per le bande di rapinatori?

"Un mix di elementi. Il primo riguarda la facilità con la quale si possono portare a segno i colpi non solo nelle ville isolate ma anche negli appartamenti. Questo è dovuto ad una carenza, per i tagli al personale, di poliziotti e carabinieri sul territorio, in mezzo alla gente. L’altro aspetto è il lunghissimo iter giudiziario e processuale, la poca certezza della pena ed infine le stesse pene molto meno pesanti che nel resto dei Paesi europei. Solamente nel 2011 le rapine portate a segno nelle abitazioni degli italiani sono state 2.858, quasi 800 rapine in più rispetto all’anno precedente". “E il dato di quest’anno sarà destinato a crescere ulteriormente a causa della crisi economica", continua raccontare a Panorama.it, Franco Maccari.

“La Francia che vive la crisi economica come il nostro Paese, ha scelto di non fare tagli sul settore scuola e sicurezza - continua il poliziotto – perché tagliare sulla sicurezza in un momento delicato come quello che stiamo attraversando è una vera follia: aumentano le proteste di piazza e i reati dovuti alla fame e alla necessità di sbarcare il lunario. Ma negli ultimi 6 anni i tre governi che si sono susseguiti hanno distrutto il comparto sicurezza consolidando ancora di più l’idea che l’Italia sia l’El Dorado delle rapine ma anche dei furti. Infatti, nelle strade delle nostre città circolano sempre meno auto della polizia e dei carabinieri”.

Quanto e come sono stati ridotti i turni delle volanti?

"Ad esempio a Roma fino a qualche anno fa un turno della sezione Volanti riusciva a riversare nelle strade della città 30 o 40 auto con a bordo ciascuna 2 poliziotti. Oggi invece che i reati sono in netto aumento, un turno è composto da 5 oppure 6 auto. Livorno, altro esempio, che è una città relativamente tranquilla, considerando anche gli ultimi fatti di cronaca, i poliziotti per ogni turno, compresa la notte, sono 4 su 2 auto".

Ma quando il cittadino chiama il 113 per denunciare un furto o una rapina, dopo quanto tempo, mediamente, arriva sul posto una volante?

"Circa 3 ore se non di più. Riuscite ad immaginare l’impotenza di un operatore di polizia che sente piangere e chiedere aiuto, dall’altra parte del telefono, una donna, un uomo o un bambino e non riesce a far niente per aiutarlo nell’immediato? Quattro uomini come nel caso di Livorno, o 10 o 12 poliziotti in tutta Roma come possono prestare aiuto in modo corretto? La carenza degli uomini delle forze dell’ordine tra i cittadini è una sconfitta dello Stato perché noi rappresentiamo lo Stato e non possiamo presentarci in ritardo quando un cittadino chiede aiuto".

Quanti sono i casi che riuscite a risolvere ovvero quante volte le Forze dell’ordine riescono ad arrestare gli autori delle rapine?

"Riusciamo a risolvere positivamente solamente il 3% dei furti. Non ci dimentichiamo che la rapina è un furto più violento portato a segno con un’arma. La percentuale, invece, è un po’ più alta quando si verifica l’omicidio o la violenza e quindi gli autori del colpo lasciano più tracce sul luogo della rapina che possono aiutarci. Poi dobbiamo dire che una banda colpisce non una sola volta ma più volte. Nel 2011 la polizia ha fatto 1.185 arresti per rapina in abitazione, 342 i malviventi di etnia straniera finiti in cella e 61 arresti hanno riguardato rapinatori con un’età inferiore ai 18 anni".    

I MORALISTI DEL CAZZO. QUELLI CHE NON SAPEVANO.

Il presidente Morra inventa un nuovo clan e confonde vittime e carnefici! Il presidente dell’antimafia commenta il blitz di Gratteri, scrive Davide Varì il 18 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". “Tra pochissimi minuti ci sarà una conferenza stampa di Nicola Gratteri che riferirà in merito all’indagine sul governatore della Calabria, Mario Oliverio, accusato d’abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso». Sono passati pochi minuti dal primo lancio d’agenzia e le notizie che arrivano dalla Calabria sono poche e frammentarie. Insomma, la situazione è assai confusa, ma non per il presidente della commissione parlamentare antimafia, il grillino Nicola Morra, il quale attiva in fretta e furia una diretta facebook nella quale emette la sua personalissima sentenza corredata dalla pena: «Mario Oliverio deve dimettersi dalla carica di presidente della regione». Del resto per Morra non è necessario aspettare una sentenza. E la ragione è semplice: «C’è già un Gip che ha convalidato l’ipotesi accusatoria», spiega infatti presidente antimafia il quale sembra quasi tracciare la sua idea di riforma del processo penale che potrebbe consistere nell’affidare tutto al pm e al Gip eliminando le inutili lungaggini del dibattimento e dei tre gradi di giudizio. Ma non è tutto. Preso dall’eccitazione degli arresti, il presidente dell’antimafia traccia anche la nuova geografia del potere mafioso calabrese e battezza un nuovo clan, il clan Barbieri. «Oliverio – spiega infatti il presidente Morra nella sua diretta facebook ha favorito gli affari del clan Barbieri». Proprio così: clan Barbieri. Ora, il nome di Barbieri nell’indagine di ieri emerge ed è riferito all’imprenditore Giorgio Barbieri che neanche lo zelo del procuratore Nicola Gratteri ha indicato come boss mafioso. Ma evidentemente due mesi da presidente della Commissione antimafia devono aver convinto Morra di saperne più di Gratteri. Ma si dirà: non è la prima volta che il nome di Barbieri finisce in un’indagine di mafia. E’ vero, Giorgio Barbieri era finito in carcere nel 2017 ma pochi mesi dopo era stato scarcerato dalla Cassazione che aveva demolito le accuse contro di lui e “accusato” i magistrati che non erano stati in grado di distinguere un mafioso da una vittima di mafia. E si, secondo i giudici di piazza Cavour, l’imprenditore Barbieri è un «imprenditore vittima perché, soggiogato dall’intimidazione, non tenta di venire a patti con il sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno. Di conseguenza il criterio distintivo tra le due figure sta nel fatto che l’imprenditore colluso, a differenza di quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere venuto in relazione col sodalizio mafioso». Insomma, l’antimafia di Morra scambia carnefici e vittime. Ma qualcuno deve averlo avvertito, perché nel giro di poche ore il video del presidente è sparito da Facebook.

I dolori del senatore Morra: il moralizzatore moralizzato. Il ritratto del presidente dell’antimafia, scrive Davide Varì il 20 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". “Se Mario Oliverio è un uomo d’onore deve dimettersi. Solo così avrà il rispetto mio e dei calabresi». Non appena saputo dei guai giudiziari del governatore calabrese, il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, con voce ferma e lo sguardo terso del grande inquisitore, ha affidato a Facebook tutto il suo sdegno. Del resto da quando frequenta palazzo san Macuto, la ieraticità fa parte del suo stile. Prima del monito contro Oliverio, il senatore Morra aveva infatti ammonito con la stessa pomposità i ragazzi dello spray al peperoncino della discoteca di Corinaldo: «Io dico loro: costituitevi». Ma forse si è trattato di un riflesso condizionato dalla sua vita precedente. Perché prima ancora che senatore e presidente della commissione antimafia, Morra è un insegnante, un pedagogo, un educatore. Nato a Genova ma calabrese d’adozione, il nostro ha passato la vita tra le aule del liceo Bernardino Telesio di Cosenza a insegnare storia e filosofia. Prima da supplente, poi da titolare. E il ricordo degli alunni è tutt’altro che spiacevole. Prima della conversione legalitaria, il professor Morra era persona alla mano e decisamente permissiva. «In gita girava qualche spinello, e lui era di quelli che chiudeva gli occhi», racconta un suo ex studente. Ma la sua vera passione era il basket, tanto che decise di aprire un negozietto di articoli sportivi in una traversa di corso Mazzini, il salotto buono della città calabrese. Pian piano, nell’animo di Morra, si è insinuata la passione per la politica a 5 Stelle e per la giustizia. La giustizia celebrata nelle aule dei tribunali, naturalmente. Dopo il basket, il professore ha infatti scoperto il fascino delle denunce, gran parte delle quali sono finite sulla scrivania dell’Aggiunta della procura: l’irreprensibile dottoressa Marisa Manzini. Compresa quella che a Cosenza è diventata la madre di tutte le querele: la denuncia sulle luminarie colorate installate dal detestatissimo sindaco Occhiuto. E qui nasce il fattaccio. Stanco delle continue accuse del professore, il sindaco Occhiuto lo scorso settembre ha deciso di pubblicare una sorta di pizzino virtuale: «C’è un politico locale che mi dicono sia un esperto spargitore di fango». Poi l’affondo: «Il paradosso è che, da quello che mi dicono (ma io non voglio crederci), un suo stretto congiunto esercita addirittura le sue attività imprenditoriali spesso in società con soggetti in odor di mafia». E il finale in crescendo: «Ognuno ama la giustizia a casa d’altri». Insomma, dicendo e non dicendo, Occhiuto ha lasciato intendere che Morra potrebbe avere un parente molto stretto coinvolto in vicende poco chiare. Ma la questione, almeno fino a oggi, sembra essere finita lì: Occhiuto ha lanciato il suo messaggio e Morra ha preferito soprassedere. Altro punto debole del nostro è la conoscenza della geografia ndranghetista. Il che non sarebbe un problema se non fosse che è stato appena nominato presidente della commissione Antimafia. Pochi minuti dopo la notizia dei guai di Oliverio, Morra si è infatti lanciato in un’incauta diretta facebook nella quale ha battezzato un nuovo e inesistente clan di mafia: il clan Barbieri. Non solo, Morra ha poi spiegato che le accuse a Oliverio erano pressoché “definitive” perché convalidate da un Gip. Insomma, in un solo colpo Morra ha liquidato il dibattimento e i tre gradi di giudizio. Il che restringerebbe le garanzie ma di certo risolverebbe l’annosa questione della lunga durata dei processi. Del resto Morra, come i suo colleghi grillini, è convinto che il ruolo di presidente della Commissione che fu di Chiaromonte sia quello di tifoso dei pm e dell’Anm. Basta leggere la dichiarazione d’amore nei confronti di Gratteri, postata qualche giorno fa, per farsi un’idea del Morra pensiero: «Nicola Gratteri, incubo della ‘ ndrangheta al Sud e non solo, è una fonte di ispirazione per tutti quelli che vogliono operare una forte azione di contrasto alle mafie. Gratteri dice, con amarezza, che fino ad oggi non c’è stato alcun Governo che abbia messo la lotta alla mafia come priorità della sua agenda politica. Ebbene dottor Gratteri, io ce la metterò tutta». A questo punto solo una domanda resta inevasa: Gratteri lo avrà letto il post di Occhiuto?

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

Senato, in 10 anni il governo ha risposto solo al 24% delle interrogazioni. Tempi lunghissimi e domande che restano senza risposta: così si indeboliscono gli "atti di sindacato ispettivo" attraverso i quali il Parlamento controlla l'operato dell'esecutivo. Un fenomeno studiato da uno speciale osservatorio di Palazzo Madama. I chiarimenti dovrebbero essere forniti in 3 settimane, invece la media è di quasi 120 giorni, scrive Lavinia Rivara l'8 agosto 2017 su "La Repubblica". Dovrebbero essere il principale strumento attraverso il quale il Parlamento, ogni singolo deputato e senatore, controlla l'operato del governo. Si tratta delle interrogazioni e delle interpellanze, i cosiddetti atti di sindacato ispettivo che consentono ai parlamentari di chiedere all'esecutivo informazioni su determinate questioni, di sollecitare interventi, di ottenere spiegazioni sull'operato dei ministeri. Eppure in dieci anni, cioè dall'inizio della XV legislatura (aprile 2006) fino a tutto il 2016 i soli senatori hanno presentato 28.360 interpellanze e interrogazioni, ma solo 6.913 (circa il 24%) hanno avuto risposta, con tempi progressivamente sempre più lunghi. Tutte le altre sono ancora in attesa. A mettere nero su bianco questi dati, che certo non gettano una buona luce sull'azione dei nostri governi, è l'Osservatorio sulle politiche pubbliche istituito recentemente a palazzo Madama. I tempi di risposta rappresentano un altro aspetto negativo: in base al regolamento del Senato il governo dovrebbe fornirla entro un termine che va dalle tre alle sei settimane, a seconda dell'urgenza, invece il tempo medio di svolgimento attualmente è di 117 giorni per le interrogazioni orali in Aula e in Commissione, di 118 per le interpellanze e di 220 per le interrogazioni scritte. Il record della rapidità per le interrogazioni scritte si tocca nella XV e nella XVI legislatura: il giorno stesso di presentazione. Ma la XVI ha anche il primato della risposta più lenta: ben 1.338 giorni, circa 4 anni. Il governo Letta ha avuto 2.439 tra interpellanze e interrogazioni e il numero maggiore di atti (277) ha riguardato il ministero dell'Interno che ha risposto in 117 casi con un tempo medio di 164 giorni. Al governo Renzi sono stati indirizzati invece 7.907 atti di sindacato ispettivo e il primato spetta sempre al ministero dell'Interno: 1213 richieste e solo 220 quelle che hanno avuto risposta. Alla presidenza del Consiglio sono toccate invece 796 richieste e le risposte sono state 123. Dal 2001, poi, viene introdotto il question time, cioè le interrogazioni a risposta immediata in aula. Si tratta in genere di questioni urgenti. Al Senato, dove il question time avviene una volta al mese, ci sono state in 16 anni 92 sedute, di cui 44 nella legislatura attuale. Solo una di queste sedute, il 25 luglio del 2013, ha visto l'intervento del presidente del Consiglio. E' chiaro dunque che se si vuole veramente consentire al Parlamento di esercitare la sua funzione di controllo sul governo il sistema degli atti ispettivi deve essere rivisto. Da un lato è necessario trovare gli strumenti per obbligare ministri e Palazzo Chigi a dare risposte più puntuali, come suggerisce lo stesso dossier dei funzionari di palazzo Madama. Dall'altro, gli stessi parlamentari dovrebbero probabilmente limitare il numero interrogazioni e interpellanze, oggi spesso usate come un surrogato dei comunicati stampa, utilizzandoli effettivamente come strumenti per monitorare da vicino l'azione dell'esecutivo.

A mia insaputa": tutti i politici che non sapevano. Da Raggi a Scajola, da Fini a Emiliano, sono tanti, e di ogni partito, i politici che (a torto o a ragione) hanno dichiarato di non sapere, scrive Claudia Daconto il 6 febbraio 2017. Ci sono cascati in molti. Pur di allontanare da sé il sospetto di essere complici di azioni moralmente, politicamente o anche legalmente poco o per nulla trasparenti, o in alcuni casi, come dimostrato dalla giustizia, avendo ragione, politici di ogni schieramento hanno dichiarato di non essersi mai accorti di ciò che avveniva a un palmo del loro naso. Anche quando di mezzo c'erano collaboratori stretti e addirittura amici e familiari. In alcuni casi la giustizia ha dato loro ragione, in altri... no. Ecco una carrellata dei più clamorosi "è successo a mia insaputa".

Virginia Raggi e le polizze vita. È giovedì 3 febbraio 2017. Virginia Raggi siede davanti al procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Francesco Dall'Olio. Assistita dal suo avvocato Alessandro Mancori, il sindaco di Roma sta rispondendo alle accuse di abuso d'ufficio e falso ideologico che la Procura di Roma le contesta in merito alla promozione a capo del dipartimento Turismo del Campidoglio di Renato Marra, fratello di Raffaele Marra, ex capo del Personale dei comunali capitolini arrestato a dicembre con l'accusa di corruzione. L'interrogatorio andrà avanti per diverse ore, ben otto. È durante quelle lunghe ore che il sindaco scopre di essere stata nominata beneficiaria di due polizze vita da 30 mila e 3 mila euro da parte del suo fedelissimo Salvatore Romeo, dipendente del Comune in aspettativa e promosso capo della sua segreteria al triplo dello stipendio. Virginia trasecola. Giura di non saperne nulla. A gennaio e marzo del 2016 Romeo le avrebbe dunque intestato tutti quei soldi a sua insaputa. Benché ciò risulti tecnicamente plausibile, il fatto ha destato comunque molti sospetti e illazioni. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe che fosse presa per buona la causale “relazione sentimentale”, indicata dall'ormai ex capo segreteria del sindaco. L'alternativa, priva finora di qualsiasi riscontro sarebbe invece che Romeo, che negli anni scorsi ha sottoscritto numerose polizze per un totale di 130mila euro a beneficio di colleghi ed esponenti del M5S, abbia utilizzato il sistema delle polizze per mascherare finanziamenti al Movimento oppure per mettere a disposizione della Raggi del denaro in cambio di favori.

Claudio Scajola e la casa al Colosseo. Che il suo nome sia stato affiancato a quello di Virginia Raggi ha molto infastidito l'ex ministro Claudio Scajola. Alla notizia delle polizze “a sua insaputa”, in effetti a molti è venuto in mente il paragone con la vicenda della casa con vista Colosseo acquistata da Scajola per 600mila euro ma in realtà costata 1,7 milioni. “Forse mi hanno fatto un regalo a mia insaputa. Se trovo chi è stato...”, una frase pronunciata in conferenza stampa il 4 maggio 2010 per commentare il dono ricevuto dal faccendiere Diego Anemone, che ha segnato il destino politico di Scajola e dal quale l'allora ministro del governo Berlusconi non si è mai più liberato. In una nota trasmessa alle agenzie nei giorni scorsi, Scajola ha voluto ricordare che egli “si dimise senza aver avuto neppure un avviso di garanzia” dalla procura di Perugia che allora indagò sulla presunta corruzione. Nel processo apertosi in seguito a una nuova inchiesta della Procura di Roma, Scajola è stato assolto in primo grado e il reato prescritto in appello.

Umberto Bossi e la villa restaurata. Claudio Scajola non è stato certo l'unico politico a passare dei guai per una casa. Quando nel 2012 scoppia lo scandalo sull'uso dei fondi della Lega da parte dell'ex tesoriere Francesco Belsito, ad andarci di mezzo fu anche l'allora leader e fondatore Umberto Bossi. Secondo l'accusa, per coprire le spese personali dei suoi familiari, i soldi del partito erano stati utilizzati anche per ristrutturare la loro casa di Gemonio. “Io non so nulla di queste cose” tuonò allora un amareggiato Umberto Bossi minacciando di denunciare i responsabili di tali manovre. Belsito, che all'epoca fu arrestato per associazione a delinquere, truffa aggravata, appropriazione indebita e riciclaggio e che oggi è ancora sotto processo per appropriazione indebita e, insieme anche allo stesso Bossi e ad altre cinque persone, per truffa ai danni dello Stato, oggi si è riciclato nel Movimento Sociale Italiano. Per Umberto Bossi, invece, quella vicenda fu all'origine della fine della sua carriera politica e ai vertici della Lega.

Roberto Maroni e gli investimenti in Tanzania. Anche l'attuale governatore della Lombardia Roberto Maroni nel 2011 dichiarò di non aver mai saputo nulla di come Francesco Belsito gestisse i fondi della Lega. Soprattutto non sapeva che l'ex cassiere leghista avesse trasferito in vari paesi esteri, tra cui la Tanzania, quasi 60 milioni di finanziamento pubblico ottenuti tra il 2008 e il 2010. “Gli investimenti in Tanzania? - trasecolò l'allora ministro dell'Interno. Io non ne sapevo niente”. Un anno dopo, nel gennaio del 2012, Maroni dichiarerà durante un incontro a Somma Lombardo, in provincia di Varese, che gli investimenti della Lega Nord in Tanzania “sono stati un errore sul piano politico, un brutto danno d'immagine al quale dovremo rimediare”. Senza presumere che dietro quelle operazioni ci fosse qualcosa di irregolare, Maroni reclamò dei chiarimenti: “non penso che qualcuno nella Lega faccia delle cose non regolari – disse allora - ma un conto è il rispetto delle leggi e un conto è il rispetto dell'etica della Lega Nord”. Oggi il presidente lombardo è uno dei teste nel processo contro Francesco Belsito.

Francesco Rutelli e Luigi Lusi. Totalmente ignaro di essersi messo in casa un tesoriere infedele si dichiarò anche Francesco Rutelli. Ascoltato dagli inquirenti che indagavano sull'appropriazione di almeno 25 milioni di euro di fondi della Margherita da parte dell'ex cassiere Luigi Lusi, che allora affermava di essere stato spinto a effettuare alcune operazioni proprio dal presidente del partito, nell'aprile 2012 Rutelli ribadiva che le attività di Lusi erano state condotte “solo per il suo tornaconto personale, al di fuori di ogni mandato, e a totale insaputa mia e del gruppo dirigente della Margherita”. Il 31 marzo del 2016 l'ex senatore è stato condannato anche in appello a 7 anni. Una sentenza accolta con grande favore dall'ex sindaco di Roma, perché “riafferma – disse – l'onore della Margherita e mio”. Ma che tuttavia non ha potuto risarcirlo del tutto dell'enorme prezzo politico pagato per essersi fidato, a occhi chiusi, di ciò che faceva uno dei suoi principali collaboratori con il soldi del suo partito.

Gianfranco Fini e la casa di Montecarlo. Gianfranco Fini nel 2010, presidente della Camera, scoprì che una parte del patrimonio immobiliare del suo vecchio partito, Alleanza Nazionale, era finito nelle mani del fratello della sua fidanzata Elisabetta. E puntualmente dichiarò: “non sapevo che la casa di Montecarlo fosse stata ristrutturata e affittata a mio cognato”. La vicenda è nota: nel 2008 An “svende” per 300mila euro un appartamento donato al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni. A comprarlo è una società offshore, la Printemps, che subito lo rivende per 330mila euro a un'altra società caraibica (pare intestata proprio a Elisabetta) che a sua volta lo affitta a Giancarlo Tulliani il quale risulterà proprietario di entrambe. Indagini recenti hanno tirato in ballo anche la figura del cosiddetto “re delle slot” Francesco Corallo, inquisito per vari reati tra cui il riciclaggio di denaro sottratto al fisco. Corallo infatti avrebbe acquistato l'immobile a prezzo pieno, 1 milione e 360 mila euro. Soldi finiti di nuovo a Tulliani che li avrebbe depositati su conti esteri intestati anche a suo padre Sergio. Intervistato nel dicembre scorso, Fini si dichiarò un uomo distrutto: “sono notizie delle quali non ero minimamente a conoscenza. Sono davanti a un bivio: o sono stato talmente fesso oppure ho mentito volutamente. In cuor mio so qual è la verità e non pretendo di essere creduto ma per me questo è un dramma familiare”.

Josefa Idem e l'Ici non pagata. Sempre per una casa ci ha rimesso il posto da ministro delle Pari Opportunità nel governo Letta anche l'ex olimpionica Josefa Idem dimessasi dalla carica il 24 giugno del 2013. “Non sapevo dell'Ici non pagata – dichiarò all'epoca a sua discolpa - Io non mi sono mai occupata personalmente della gestione di queste cose. Nella mia vita ho passato tre settimane al mese in canoa, dodici mesi l'anno. Ho sempre delegato ai tecnici chiedendo loro naturalmente di fare le cose a regola d'arte”. Una fiducia evidentemente mal riposta dal momento che per ben 4 anni la campionessa di canoa avrebbe omesso di versare la tassa sulla casa tentando di far passare una palestra come sua prima abitazione. Nello stesso periodo Idem finì nella bufera anche per un'assunzione sospetta da parte della società sportiva del marito avvenuta poco prima di essere riconfermata assessore a Ravenna. Accusati in concorso di truffa aggravata ai danni del Comune di Ravenna, per 8.642 euro di contributi previdenziali, il processo a carico della senatrice dem e del marito si è concluso con la prescrizione nel novembre del 2016.

Angelino Alfano e il caso Shalabayeva. Buio totale anche da parte dell'ex ministro dell'Interno Angelino Alfano sul cosiddetto “caso Shalabayeva”. Nessun esponente del governo, tantomeno lui, sarebbe stato infatti a conoscenza del fatto che il 28 maggio del 2013, in un blitz della polizia, era stata arrestata in una casa romana a Casal Palocco, la moglie del dissidente kazako, ricercato dal regime di Nazarbaev, Mukhtar Ablyazov, e rispedita il giorno dopo in Kazakistan insieme alla figlioletta di 6 anni. Uno scarico di responsabilità che ha gettato e continua a gettare molte ombre su Alfano, diventato nel frattempo ministro degli Esteri, e che una serie di circostanze hanno teso a smentire quando sosteneva che tutto fosse avvenuto “a sua insaputa”. Alma Shalabayeva e la figlia più piccola poterono tornare in Italia solo il 27 dicembre del 2013 in seguito all'intervento della Ue, all'appello dello stesso Ablyazov al premier Letta, all'apertura di un'inchiesta e all'iscrizione nel registro degli indagati dell'ambasciatore del Kazakistan in Italia e di altre due persone.

Michele Emiliano e le cozze pelose. E chi poteva immaginare che un compagno di partito come Gerardo Degennaro, ex consigliere regionale del Pd, titolare dell'impresa di costruzioni Dec, arrestato insieme ai fratelli e altre persone, nel marzo del 2013 per vari reati tra cui l'associazione a delinquere, che in cambio di soldi e altre utilità avrebbe ottenuto agevolazioni per ottenere appalti pubblici da parte del Comune di Bari guidato allora da Michele Emiliano, potesse essere un personaggio del genere? Non certo l'ex magistrato e attuale governatore della Puglia che alla vigilia di Natale 2012 ricevette, proprio dai Degennaro, un cesto natalizio contenente anche le celeberrime 50 cozze pelose, vanto della gastronomia locale. All'epoca Emiliano si pentì solo di non aver rimandato indietro l'omaggio natalizio ma non si dimise: “se qualcuno pensa di potermi mandare a casa solo per qualche chilo di pesce e cozze pelose, si sbaglia: rimarremo qui consapevoli degli errori commessi ma con la determinazione che solo le persone perbene riescono a mettere insieme”. 

Beppe Grillo, il blog è un caso: non rispondo dei contenuti. Questa la tesi difensiva nei confronti di una querela per diffamazione presentata dal Pd. E i dem attaccano: «Ha un blog a sua insaputa?», scrive Emanuele Buzzi il 15 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Beppe Grillo? «Non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del blog, né degli account Twitter, né dei tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Il Pd pubblica la memoria difensiva che il leader del Movimento ha fornito in una causa intentata dai dem nel 2016 e passa all’attacco. La nota d’accusa — scritta dal tesoriere del Pd Francesco Bonifazi — viene rilanciata da tutti i big del partito. «Ha un blog a sua insaputa?», commenta su Twitter Debora Serracchiani. Colui che ha registrato il dominio nel 2001 e che ne è tuttora detentore si chiama Emanuele Bottaro ed è finito in realtà già negli scorsi anni a processo per questioni relative al sito. Il gestore, ovviamente, si può ricondurre alla Casaleggio associati. Una rete a tutela del leader, già sommerso da diverse cause. Il post «incriminato» dal Pd riguarda il caso lucano che coinvolse il ministro Guidi. Un post non firmato. «La Guidi chiese l’avallo della Boschi che per blindarlo e assicurarsi che tutto andasse come doveva inserì l’emendamento incriminato nel testo del maxiemendamento su cui poi, con il consenso del Bomba, pose la questione di fiducia», si legge. E poi arriva il passaggio che ha scatenato la reazione dem: «Un meccanismo perfetto ai danni dei cittadini. Tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro. Ora si capisce perché il Pd ed il governo incitano illegalmente all’astensione sul referendum delle trivelle».

Il trucco di Grillo: querelato il suo blog, ma non pagherà lui, scrive di Enrico Paoli il 15 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. L' ultima, forse, le batte davvero tutte. Beppe Grillo, comico a tempo perso e leader a corrente alternata del Movimento 5 Stelle, non è responsabile di quanto esce sul suo Blog e dunque le cause pendenti contro di lui vanno discusse non a Genova, ma a Roma. Insomma Grillo, quel Grillo, non esiste. Esiste solo un blog, una rete, un Movimento con deputati e senatori, ma non lui. A dirlo non è uno dei tanti siti che animano il Web con notizie false, vere e verosimili, ma il tribunale di Genova, sulla scorta di una causa civile intentata dal Pd contro il leader dei pentastellati per alcune affermazioni contenute sul Blog relative all' inchiesta sui pozzi petroliferi in Basilicata. A far emergere la vicenda è il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, che ha prontamente raccolto l'invito rivolto da Matteo Renzi in occasione dell'intervento di chiusura del Lingotto di Torino. «Ora vi racconto una storia simpatica, simpatica», scrive sulla sua pagina Facebook l'esponente dem, «un noto comico, che ha costruito la propria fama soprattutto con il suo Blog, i suoi profili Facebook e Twitter, un bel giorno decide di dire a 400mila iscritti e diversi milioni di elettori del Pd che sono "tutti collusi. Tutti complici. Con le mani sporche di petrolio e denaro". Trattandosi di un comico», sottolinea Bonifazi, «ho cercato di leggere tra le pieghe del messaggio la battuta ma, ahimè, ho trovato solo offese. Quindi ho cercato di tutelare la nostra immagine, non tanto per me quanto per la comunità che rappresento, attraverso un'azione legale. Dicono che loro sono per la legalità? Bene, lo dimostrino: si lascino processare». «Poi il comico ha anche una certa esperienza di tribunali...», chiosa sarcasticamente il tesoriere del Pd, riecheggiando le vicende giudiziarie di Grillo, dato che il comico è stato condannato in via definitiva per omicidio colposo. Ma il caso sollevato da Bonifazi, che va ben al di là delle schermaglie politiche, pone una questione seria: se Grillo non risponde di ciò che viene pubblicato sul Blog, chi è il responsabile? «Leggendo la memoria difensiva con cui il comico rispondeva alla denuncia, ho creduto di essere di fronte al copione del suo nuovo spettacolo ma il mio avvocato ha confermato: è la sua memoria difensiva», spiega il parlamentare. «Il comico», scrive ancora Bonifazi riportando la memoria di Grillo, «non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato». Beppe Grillo non è. Il messaggio di Bonifazi viene ritwittato da numerosi dirigenti Dem, da Matteo Renzi, a Maria Elena Boschi, passando per Debora Serracchiani. «La tua difesa è ridicola, se vuoi parlare a milioni di persone abbine rispetto e assumiti la responsabilità delle cose che dici e scrivi di fronte a loro e di fronte alla legge. Noi andremo fino in fondo», annuncia alla fine Bonifazi. E siamo solo all'inizio. Enrico Paoli

Beppe Grillo non deve rispondere dei contenuti pubblicati sul suo blog come sostengono i suoi avvocati? Ecco verità e falsità scritte in proposito, scrive “Il Corriere del Giorno" il 20 marzo 2017. Di chi è il blog di Grillo? 3 cose vere e 5 false dette in questi giorni. Nel tardo pomeriggio del 14 marzo, il tesoriere del Partito Democratico Francesco Bonifazi ha pubblicato su Facebook una pagina della memoria difensiva presentata dagli avvocati di Beppe Grillo in una causa per diffamazione. Nel documento si legge che Grillo “non è responsabile, né gestore, né moderatore, né direttore, né provider, né titolare del dominio, del Blog, né degli account Twitter, né dei Tweet e non ha alcun potere di direzione né di controllo sul Blog, né sugli account Twitter, né sui tweet e tanto meno su ciò che ivi viene postato”. La questione ha avuto molto risalto ed è nato un dibattito su chi scrive i contenuti del blog di Beppe Grillo e su chi è chiamato a risponderne. Abbiamo verificato che cosa c’è di vero e di falso nella vicenda.

1. “Il blog di Grillo non è intestato a Grillo”. Vero. E neppure alla Casaleggio Associati. Una semplice ricerca sul registro italiano dei domini.it mostra che il dominio beppegrillo.it, creato il 15 marzo 2001, è intestato a Emanuele Bottaro,52enne residente a Modena che lavora per una società di comunicazione. Nel 2001 la Casaleggio Associati ancora non esisteva e Gianroberto Casaleggio non aveva ancora incontrato Beppe Grillo: i due si conosceranno nel 2004 e il sito andrà online nel gennaio 2005. Intervistato da Repubblica, Bottaro ha detto di conoscere personalmente Beppe Grillo «da vent’anni», di avere un rapporto di stima e di fiducia con lui e di avere registrato il dominio «per toglierlo dal mercato», prima che venisse creato il blog. Ha aggiunto che tra Grillo e lui non c’è alcun accordo scritto e di non aver mai guadagnato nulla dal suo possesso del dominio.

2. “Niente lega Grillo al blog a suo nome”. Falso. Come ha scritto Matteo G.P. Flora, esperto di reputazione online, esistono comunque diversi legami tra Grillo e il sito. Nell’atto costitutivo del M5S si legge che Beppe Grillo è il «titolare effettivo del blog raggiungibile all’indirizzo beppegrillo.it». In un post del marzo 2012, firmato “Beppe Grillo”, si legge inoltre che «la responsabilità editoriale del blog è esclusivamente mia». Inoltre, il titolare del trattamento dei dati personali ai fini della privacy è indicato in Beppe Grillo dallo stesso sito, mentre il responsabile è la Casaleggio Associati. La questione è ulteriormente complicata dal fatto che la stessa privacy policy indica che i dati vengono condivisi con l’Associazione Rousseau, che è titolare del trattamento per quanto riguarda l’attività del “Blog delle Stelle”. Aspetto più tecnico: il codice sorgente del sito rimanda, nel campo “autore”, all’account verificato di Grillo su Google+.

3. “Il post incriminato è firmato da Grillo”. No, si tratta di un post senza firma né indicazione dell’autore. Pubblicato il 31 marzo 2016, il giorno stesso dell’annuncio delle dimissioni del ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi per lo scandalo Tempa Rossa – dimissioni accettate alcuni giorni dopo – il post si intitolava “#RenzieBoschiACasa”. Il testo chiedeva le dimissioni anche dell’allora presidente del Consiglio e del governo, accusandoli di coinvolgimento nello scandalo e di fare «l’interesse esclusivo dei loro parenti, amici, delle lobby e mai dei cittadini». Conteneva le frasi: «Tutti collusi. Tutti complici. Tutti con le mani sporche di petrolio e denaro». Per i contenuti del post, Francesco Bonifazi ha denunciato Beppe Grillo per diffamazione.

4. Oggi nessun post del blog di Grillo è senza firma. Lo ha detto Luigi Di Maio in un’intervista il 15 marzo (al minuto 38’20’’): è vero nella forma, ma nella sostanza, in molti casi, l’autore non è esplicitato in modo chiaro e univoco. I post sul blog di Beppe Grillo, infatti, appaiono spesso sotto una firma collettiva come “MoVimento 5 Stelle”, “Gruppo di Coordinamento Comuni 5 Stelle” o “MoVimento 5 Stelle Europa”, altre ancora firmati da Beppe Grillo o da altre singole persone esterne al M5S. Beppe Grillo, almeno negli ultimi tempi, firma raramente i post che compaiono sul blog. Tra gli ultimi cento, soltanto sei portano la sua firma. Circa un terzo dei rimanenti compaiono sotto l’autore generico “MoVimento 5 Stelle”.

5. Grillo è l’autore dei suoi post. Ci sono ragioni per dubitare che Beppe Grillo scriva in concreto i post che compaiono con la sua firma, almeno in passato, anche se non è chiaro fin dove si spinga il suo controllo sul contenuto. In un’intervista con Marco Travaglio pubblicata nel 2014, Gianroberto Casaleggio – il cofondatore del Movimento 5 Stelle scomparso nell’aprile 2016 – disse che tutti i post del blog erano «loro», intendendo suoi e di Beppe Grillo: «Ci sentiamo sei-sette volte al giorno per concordarli, poi io o un mio collaboratore li scriviamo, lui li rilegge, e vanno in Rete». Alcune inchieste giornalistiche sul funzionamento della Casaleggio Associati hanno raccontato, nel corso degli anni, che i post sono stati scritti a volte da Pietro Dettori, oggi responsabile editoriale presso l’Associazione Rousseau e già dipendente della Casaleggio Associati.

6. “Non è chiaro di chi sia la responsabilità del post”. Questo è vero, almeno in parte. L’avvocato Caterina Malavenda, esperta di cause sulla stampa, ha spiegato che il responsabile dei contenuti pubblicati da un blog è il gestore, che però non è obbligato a un controllo preventivo su tutti i suoi contenuti. Grillo ha detto di non essere il gestore, lasciando quindi il dubbio su chi effettivamente lo sia, e così facendo ha inoltre «scaricato l’eventuale colpa su un altro», cioè l’autore materiale di quel post pubblicato anonimo. La Polizia Postale dovrà cercare di identificare chi ha scritto il post e lo ha messo online e su di lui (o lei) ricadrà l’eventuale responsabilità in caso di condanna nella causa intentata dal PD.

7. “Non ci sono leggi per i reati commessi attraverso Internet”. Falso. Lo ha dichiarato l’esponente del M5S Paola Taverna ospite di Otto e Mezzo (al minuto 18’35’’). In realtà, diverse sentenze hanno chiarito da anni che, ad esempio, il caso della diffamazione tramite Internet è compreso in quanto previsto dall’art. 595 del codice penale, che punisce in modo più grave la diffamazione se essa è commessa «col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità». Quello su cui discutono i giuristi è invece fin dove si possa spingere la comparazione tra i blog e la stampa, oltre ad alcune situazioni particolari come, ad esempio, se il gestore di un blog debba essere ritenuto responsabile anche per i commenti in fondo ai suoi post. Falso. Lo ha detto Di Maio nell’intervista citata sopra (al min. 37’40’’) e lo ha scritto, anche se in modo più ambiguo, lo stesso post firmato da Grillo a commento di questa vicenda. «I post di cui io sono direttamente responsabile sono quelli, come questo, che riportano la mia firma in calce», ha scritto, aggiungendo che il PD ha «per il momento perso la causa». Tuttavia, il procedimento è ancora in corso e quella pubblicata da Bonifazi è solo la memoria difensiva presentata dai legali di Grillo. La causa non si è conclusa e il PD non ha quindi ancora perso né vinto. 

I loro omessi controlli. Volevano condannarlo a sedici mesi per un articolo del 2012: però il direttore non era lui, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/03/2017, su "Il Giornale". Uno dei giudici che nel 2012 condannò al carcere Alessandro Sallusti fece poi causa al direttore per «omesso controllo» su un articolo che lo riguardava pubblicato nei giorni seguenti all'arresto. Ieri il processo, incardinato al tribunale di Cagliari, doveva arrivare a sentenza. La pubblica accusa aveva chiesto per il direttore una condanna a 16 mesi di carcere. In aula Sallusti, con la memoria che qui riproduciamo, ha dimostrato che in quei giorni non era il direttore del «Giornale», in quanto si era dimesso. Il pm, cioè lo Stato, chiedeva quindi il carcere per un manifesto innocente. L'udienza è stata sospesa, non senza imbarazzo, e la sentenza rinviata. Signor presidente, questo processo è, diciamo così, figlio di un precedente procedimento a mio carico, concluso nell'ottobre del 2012 con la mia condanna a 14 mesi di reclusione e il conseguente arresto, cosa che ovviamente è stata per me un'esperienza non facile da affrontare. Le analogie tra allora e oggi sono diverse. Anche in quel caso un magistrato, il giudice Cocilovo, ritenendosi diffamato da un articolo pubblicato sul quotidiano che allora dirigevo, Libero, mi denunciò per omesso controllo e suoi colleghi pm chiesero per me, con alterne vicende nei vari gradi di giudizio, una condanna alla pena detentiva che alla fine ottennero. Proprio uno di quei magistrati che giudicarono con severità il caso Cocilovo, il dottor Bevere, in quei giorni ormai lontani mi denunciò, sentendosi offeso per un articolo pubblicato dal Giornale all'indomani della mia condanna definitiva. E ora un suo collega pm chiede nuovamente una pesante condanna detentiva, sedici mesi, nei miei confronti. L'articolo di cui si dibatte oggi ricostruiva, attraverso testimonianze dirette e autorevoli (un'ex parlamentare da sempre in prima linea in battaglie in difesa dei diritti civili) una presunta amicizia tra il dottor Cocilovo e il dottor Bevere (cioè tra il denunciante e uno dei giudicanti della prima vicenda) durante la loro permanenza al tribunale di Milano. Nel merito non vedo dove sia l'offesa grave da meritare una così severa richiesta di condanna. Due magistrati sono, se non necessariamente amici come peraltro spesso capita, sicuramente colleghi e come tali si muovono all'interno di rapporti potenzialmente amicali come succede in qualunque categoria professionale. Ma al di là del merito - una lettera di precisazione sarebbe stata probabilmente sufficiente a rimediare un possibile fraintendimento - mi colpisce che a distanza di quasi cinque anni dal mio arresto nessuno ritenga di dovere tenere conto delle motivazioni con cui, dopo circa un mese che ero ai domiciliari, l'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commutò la mia pena da detentiva in pecuniaria. Come si evince chiaramente dal dispositivo del Quirinale che ha accompagnato la commutazione, quello del presidente non fu un gesto di clemenza né certo di simpatia nei miei confronti. Fu il rimedio - deciso anche nella veste di capo della magistratura - a una pena ritenuta oggettivamente sproporzionata per un reato d'opinione e di omesso controllo. L'appello di Napolitano, sia alla classe politica (per quello che compete alla parte normativa) sia a quella togata (per la parte tecnico-esecutiva), di evitare l'arresto di giornalisti per reati compiuti nell'esercizio della professione se non accompagnati da fatti di comprovata e grave malafede, è rimasto evidentemente inascoltato se è vero, com'è vero, che oggi la pubblica accusa, cioè lo Stato, chiede per me e per un mio bravo collega autore materiale dell'articolo in questione, Luca Fazzo, di nuovo il carcere per diffamazione e omesso controllo. L'omesso controllo, signor presidente, è un reato normato da una legge degli anni Trenta, solo leggermente rivista nel decennio successivo. Parliamo di anni in cui i giornali avevano poche pagine, a volte solo quattro, le redazioni erano composte da pochi giornalisti e la velocità delle notizie era, rispetto a oggi, quella di una lumaca rispetto a una gazzella. Oggi produciamo ogni giorno fino a cento pagine, tra le varie edizioni, e lavoriamo in tempo reale. Un altro mondo. Ma c'è ancora, come in questo caso, chi pretende dal direttore di accertare senza ombra di dubbio non solo la correttezza formale degli articoli, ma anche quella sostanziale, nonostante alcune sentenze della Cassazione sostengano che il direttore ha, sì, il dovere di vigilare sul rispetto dei principi etici generali e sui codici professionali, ma non ha potere investigativo sull'operato dei suoi collaboratori. Qui, in quest'aula, si chiede che io vada in carcere perché un'autorevole ex parlamentare - da noi interpellata all'epoca dei fatti - ha sostenuto una cosa assolutamente credibile e possibile (l'amicizia tra due magistrati). Che cosa avrei potuto controllare signor presidente? Quella parlamentare non solo non aveva mai dato segni di squilibrio né era nota per essere una millantatrice. Niente, signor presidente, anche se quel giorno fossi stato il direttore responsabile del Giornale non avrei potuto evitare, pur usando tutta l'attenzione, la pubblicazione di una notizia poi rivelatasi forse non esatta. Uso il condizionale perché in questa vicenda l'omesso controllo non l'ho compiuto io ma il querelante, il giudice Bevere, e il pm. Cioè due magistrati. Come si fa in un caso (Bevere) a denunciare, nell'altro (il pm) a chiedere il carcere per un omesso controllo quando si omette di controllare chi è il presunto colpevole? Il cui nome, per altro, era stampato in evidenza sul corpo del reato, cioè il giornale del giorno in cui è uscito l'articolo incriminato. E quel nome, signor presidente, non era il mio. Perché tre giorni prima di quella pubblicazione avevo rassegnato le dimissioni da direttore e lasciato l'azienda della quale, il giorno del presunto reato, non ero neppure dipendente. Mi ero dimesso, signor presidente, perché penso che un editore abbia diritto di decidere se tenere a capo del suo giornale un direttore privato della sua libertà. Noi, signor presidente, i nostri omessi controlli li paghiamo duramente e ne traiamo le conseguenze. Mi chiedo se anche i giudici che avviano una causa temeraria e i pm che «omettono controllo» subiscono lo stesso destino, diciamo 14 mesi di arresto e dimissioni, nel caso il loro operato danneggi per negligenza grave un cittadino non solo innocente ma che mai avrebbe potuto essere colpevole e quindi mai indagato, mai rinviato a giudizio, e mai processato con tutte le conseguenze e i costi economici per la comunità. La domanda è capziosa, perché è ovvio che non è così e non sarà così neppure questa volta. Come sostiene il loro capo Piercamillo Davigo, i magistrati non sbagliano mai, per definizione. A questo punto lei, signor presidente, potrà rimproverarmi: perché tutto questo non l'ha detto prima? Giusto. Se le dicessi: volevo vedere fino a dove potesse arrivare la sciatteria giudiziaria le mentirei, e quindi non lo faccio. Potrei dirle che sono frastornato dalle decine di atti giudiziari che invadono le redazioni. Ma la verità è che ho peccato di eccesso di fiducia nella serietà e nell'efficienza della magistratura, dando per scontato ciò che era contenuto nelle carte della procura invece di soffermarmi, cinque anni dopo i fatti - e questo già la dice lunga su tante cose - a riflettere sulla verità dei fatti. Una cambiale di fiducia evidentemente, ancora una volta, mal riposta. Spero che qualcuno, nel sistema giudiziario, mai come in questo caso autoreferenziale, avrà almeno la bontà di riconoscere l'errore, scusarsi e risarcire danni e spese - tanto paghiamo noi - che abbiamo dovuto sostenere per questa ingiusta imputazione. Ho già dato mandato ai miei legali di attivarsi in tal senso. La ringrazio per l'attenzione.

Ritratti: Marco Travaglio, scrive il 23 dicembre 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". «La tentazione comune a tutte le intelligenze: il cinismo…», scriveva Albert Camus. Grazie a Dio non sono molto intelligente e questo mi ha permesso di non cadere in tentazione, ma credo ci sia verità in questo epigramma. Come dev’essere difficile vivere da teste pensanti! Quanto deve rivelarsi arduo non cedere al cinismo in un mondo dove gli scaffali Feltrinelli affiancano le opere di Camus a quelle di Gianrico Carofiglio! Marco Travaglio è caduto in tentazione molto tempo fa e oggi, a quasi 55 anni, trasuda sabaudo disprezzo per ciò che lo circonda. In questo spazio mi occupo precipuamente di sberleffi, talvolta disincantati – ma mai cinici! – talvolta moraleggianti. Oggi è venuto il momento di un omaggio, senza eccessi di battimani o salamelecchi, perché anche lui si infila le button-down grigie e le giacchette in cotone délavé come Carofiglio. Di Battista l’ha definito “libero”, aduggiando il formicolare degli sguatteri. Ma non è esatto. Travaglio ha le sue catene: è infatuato della propria probità, mentre la rettitudine deve costare qualche sacrificio per essere autentica. In lui è invece un propellente sospetto, perché ne incendia la vanità. Purtuttavia, Marco è l’unico campione del giornalismo italiano. Non ha la penna del fuoriclasse, si è per anni accompagnato a colleghi disturbanti, ma quel suo eloquio fricativo, quel procedere paratattico, quel desueto piacere di sapere ciò che si dice, lo rendono speciale e oggi indispensabile. Negli ultimi mesi, costretto a dialogare con scoreggine anti-governative e microbi del pensiero, è sembrato gigantesco: un’eminenza grigia, un titano. Anche la sua facondia saputella, schiettamente molesta e antipatica, talvolta nevrastenica, è ormai un contravveleno, un unguento da spalmare sulle piaghe di una verità flagellata. E se in privato si mostra capace di cedevolezza – almeno a giudicare dalle acconciature del figlio – in pubblico si manifesta come impenetrabile frangiflutti di fronte all’inondazione cortigiana. Vi porto allora una recente pagina di televisione che ne rimarca la necessità in un mondo deforme e paradossale, nel quale sono le Gruber, i Giannini e le Marianne Aprile che danno patenti di legittimità ai giudizi intellettuali; una straordinaria performance di autogoverno giocata sempre sul filo del vaffanculo che mi ha fatto salire sul divano alzando il cane per le orecchie come la Coppa delle Coppe. Ma so che Travaglio ci dividerà, quindi sentitevi liberi di esprimere le vostre riserve. Ne approfitto per augurare buon Natale a voi tutti, carissimi. Ci risentiamo dopo la Bonino.

Travajola si difende: non sapevo…Replica del direttore Sansonetti, scrive Rocco Vazzana il 28 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Sabato abbiamo pubblicato un articolo nel quale, un po’ divertiti, raccontavamo di come Marco Travaglio, il Lancillotto della lotta alla prescrizione – male dei mali della nostra giustizia – avesse chiesto anche lui la prescrizione per un suo reato. Figuraccia. Chiuso. Ieri però Travaglio ha risposto con poche righe sul suo giornale. Ha scritto (in terza persona com enel de bello gallico): «Travaglio non ha mai chiesto la prescrizione: l’ha chiesta, in subordine all’assoluzione, l’avvocato dell’Espresso.” In questo modo, Travaglio ci fa sapere due cose. Primo, che lui sarebbe stato anche disposto a rinunciare alla prescrizione se l’avessero assolto, ma i giudici, testoni, l’han-no condannato. Non è colpa sua. Secondo, che la prescrizione non l’ha chiesta lui: l’ha chiesta l’avvocato. Men-tre in genere, credo, gli imputati chiedono la prescrizione tramite l’idraulico di fiducia…Comunque adesso le cose sono chiare. Travaglio si è iscritto al club di quelli che fanno le cose a propria insaputa. Come Scajola. Niente di male, per carità. Noi pensiamo che Travaglio abbia fatto benissimo a chiedere la prescrizione, 12 anni dopo il reato. Magari, per favore, da qui in avanti, quando appare in Tv nella sua striscia quotidiana, parli d’altro. Sulla prescrizione lasci la paro-la a Scanzi…

Sorpresa, Marco Travaglio ha chiesto la prescrizione! Lo strano ricorso del direttore del Fatto Quotidiano che tante volte, insieme a Davigo, ci ha spiegato i “trucchetti” per allungare i processi e “farla franca”, scrive Piero Sansonetti il 24 Novembre 2018 su "Il Dubbio".  Ieri, nel suo editoriale sul “Fatto”, Marco Travaglio ha ripetuto che c’è una lobby di avvocati che si batte contro la riforma della prescrizione, perché gli avvocati, di solito, usano la prescrizione come tecnica difensiva. Travaglio scrive con molto disprezzo la parola lobby: la considera un sinonimo di gang, o banda, o cricca. Gli avvocati – dice – cercano di fare assolvere i propri clienti colpevoli, specie quelli legati a Berlusconi o a Renzi (che di conseguenza sono colpevoli quasi automaticamente…), non smontando le accuse, perché non potrebbero, ma tirandola per le lunghe e puntando a fare scattare la prescrizione. Dunque pensavo io – Travaglio considera una cosa pessima ricorrere alla prescrizione. E più pessima che pessima, considera l’abitudine di tirare per le lunghe i processi. Lui e Davigo ci hanno spiegato tante volte che ci sono degli avvocati che ricorrono in Appello e in Cassazione, sapendo benissimo che non potranno ottenere la cancellazione della condanna, ma con la speranza di ottenere in questo modo – date le “lungaggini” della giustizia – la prescrizione e dunque la non condanna. Beh, mi sbagliavo. Ieri mi è capitata per le mani una vecchia sentenza della Corte di Cassazione che fa un lisciabbusso a Travaglio e ai suoi avvocati per aver presentato un ricorso manifestamente infondato contro una sentenza d’appello per diffamazione. Perché Travaglio allora presentò quel ricorso? L’obiettivo era evidente: quello di ottenere la prescrizione. La sentenza della Cassazione alla quale mi riferisco – che potete trovare online sul sito della Cassazione – è stata emessa dalla quinta sezione penale ed è la numero 14701 del 2014. Presidente Gennaro Marasca, relatore Paolo Micheli. La sentenza si legge nelle primissime righe riguarda il ricorso “proposto nell’interesse di Travaglio Marco, nato a Torino il 13 ottobre del 1964 e di Daniela Hamaui eccetera eccetera…”. La Hamaui era stata condannata per omesso controllo sull’articolo di Travaglio, visto che all’epoca era direttrice dell’Espresso, giornale sul quale scriveva Travaglio ( i direttori, per legge, rispondono di qualunque cosa venga scritta sul giornale del quale sono responsabili).Poche righe dopo questa intestazione, si legge questa frase: “Uditi per gli imputati ricorrenti gli avvocati Enrico Grosso e Mario Geraci, i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata ( in subordine senza rinvio, per intervenuta prescrizione)”. Naturalmente quando ho letto quelle due paroline (“intervenuta prescrizione”) ho fatto un salto sulla sedia. Marco Travaglio chiede di essere assolto per intervenuta prescrizione? Lui che considera la prescrizione il male di mali e la bandiera sporca dei garantisti? Che devo dirvi? E’ così. Travaglio ha chiesto la prescrizione. Ci sono ancora un paio di aspetti di questa sentenza che sono interessanti. Il primo riguarda il merito della condanna. Il secondo il merito della sentenza. Il merito della condanna è presto detto. Pare che Travaglio avesse scritto un articolo corredato dal solito titolo sobrio e ammiccante, che diceva così: “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. Nell’articolo, Travaglio, se ho capito bene, raccontava di un incontro avvenuto nello studio dell’avvocato Taormina nel marzo del 2001 fra lo stesso Taormina, il suo assistito Marcello Dell’Utri e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio; l’incontro – si diceva nell’articolo – sarebbe avvenuto per concordare una testimonianza, e sempre nell’articolo si diceva che nello studio di Taormina, secondo la testimonianza del colonnello, c’era anche Cesare Previti. Però Travaglio – sostengono le varie corti che lo hanno condannato – non diceva che il colonnello aveva dichiarato che sì Previti era in quello studio, ma non si incontrò con Riccio e Dell’Utri e la sua presenza non aveva niente a che fare con quell’incontro, nel quale invece si parlava della accuse a Dell’Utri di concorso esterno in associazione mafiosa. Dunque il nome di Previti era stato messo lì a sproposito – hanno stabilito le Corti, e omettendo un particolare decisivo delle dichiarazioni del colonnello Riccio. Il merito della sentenza della Cassazione è ancora più interessante. La Cassazione considera il ricorso del tutto infondato. E dunque – questo lo aggiungiamo noi – pretestuoso. E per questa ragione rifiuta la prescrizione. Perché – dice la Cassazione – siccome il ricorso è inammissibile è come se non ci fosse stato. E dunque la sentenza di appello vale come sentenza ultima, e la sentenza d’appello fu emessa prima che scattasse la prescrizione. Dunque Travaglio non ne ha diritto. Sembra proprio che la Corte di Cassazione avesse letto, quando decise così, gli articoli che Travaglio avrebbe successivamente scritto. E cioè le sue severe requisitorie contro gli avvocati che ricorrono in Appello o in Cassazione solo per allungare i tempi. La Cassazione dice che in questa occasione fu Travaglio a ricorrere solo per allungare i tempi. Cosa c’è da aggiungere? Niente di speciale. Solo constatare il perfetto funzionamento della solita legge del pendolo. Secondo la quale uno è garantista quando l’accusato è lui o qualche suo amico, e non è garantista se l’accusato è un suo nemico. Travaglio se la prende con le lobby degli avvocati. Fa male. Le lobby degli avvocati, se vogliamo usare questo termine (lobby), hanno come interesse comune la difesa dello Stato di Diritto (le lobby sono organizzazioni che tendono a difendere un interesse comune: i petrolieri il prezzo del petrolio, i commercianti il non aumento dell’Iva, i tabaccai la riduzione delle tasse sulle sigarette, gli ecologisti la riduzione delle automobili che inquinano eccetera eccetera). La difesa dello Stato di Diritto è una battaglia che riguarda lo svolgimento del mestiere di avvocati, gli interessi dei propri clienti, ma anche la saldezza del sistema democratico. Poi esistono altre lobby con interessi opposti. Per esempio la lobby che si raggruppa attorno al “Fatto”, ma anche al movimento di riferimento (cioè i 5 Stelle) e ad alcuni settori della magistratura, la quale si oppone al pieno sviluppo dello Stato di Diritto e ne chiede limitazioni che ritiene necessarie per aumentare le condanne nei processi, visto che questa lobby considera il numero alto delle condanne una garanzia di “pulizia” della società. Io personalmente non riesco a mettere sullo stesso piano le due lobby. Penso che non sia la stessa cosa difendere lo Stato di Diritto o osteggiarlo. Riconosco però la piena legittimità di tutte le battaglie ideali e il diritto di tutti ad avere e difendere le proprie idee. Anche le più reazionarie. Anche il diritto di Davigo. Anche quello di Travaglio, che è l’esponente più in vista ed è il più abile di quella lobby. Mi lascia solo un po’ perplesso questo contrasto tra condanna della prescrizione e suo uso. Sarebbe un po’ come se scoprissimo che Salvini ha un gommone col quale, di nascosto, porta in Italia stranieri clandestini…

Stangata su Travaglio: dovrà versare altri 50mila euro al padre di Renzi. A fine ottobre fu condannato a pagare 95mila euro per aver diffamato Tiziano Renzi. Oggi un'altra sentenza a sfavore: dovrà versargli altri 50mila euro, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo". Ad annunciarlo sul proprio profilo Facebook è stato Matteo Renzi. È la seconda condanna che il giornalista riceve nel giro di un mese. Adesso dovrà pagare altri 50mila euro. "Sono ovviamente contento per mio padre - ha commentato l'ex presidente del Consiglio - bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva". "Il tempo è galantuomo". A guardare il passato Renzi è dispiaciuto. Ma adesso che Travaglio è stato nuovamente condannato non nasconde la propria soddisfazione. "Ci sono dei giudici in Italia - è il commento affidato a Facebook - bisogna solo saper aspettare". E per la seconda volta che un giudice ha dato ragione al padre dell'ex premier piddì. La prima volta era successo il 22 ottobre quando Travaglio, una sua collega e la società del Fatto Quotidiano erano stati condannati a sborsare 95mila euro a Tiziano Renzi. In quell'occasione Matteo aveva avvertito: "È solo l'inizio...". E così è stato. "Non si può diffamare una persona senza essere chiamati a risponderne - commentano ora dal quartier generale del Partito democratico - è una lezione che spero impari anche Marco Travaglio". Mentre Travaglio chiedeva aiuto ai propri lettori lamentando che il pagamento dei 95mila euro avrebbero mandato il giornale in rovina, i giudici hanno portato avanti nuove cause. E oggi è arrivata un'altra sentenza che obbliga il Fatto Quotidiano a pagare altri 50mila euro. "Verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda - ha scritto oggi Matteo Renzi - hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne". Quindi la stoccata: "Adesso sono solo curioso di vedere come i Tg daranno la notizia". Al Nazareno sono in molti ad applaudire alla sentenza. E non manca chi si mette a bacchettare il direttore del Fatto Quotidiano. "Diffamare e raccontare fake news non è giornalismo, non è cronaca e quindi è giusto che abbia un prezzo da pagare - ha detto il senatore dem Dario Stefano - Travaglio inizi a fare economie per onorare la Giustizia".

Abusi, inchiesta sui Di Maio Ma li salverà la prescrizione. La Procura di Nola apre il fascicolo sulle violazioni edilizie e ambientali, ma frena: passato troppo tempo, scrive Stefano Zurlo, Sabato, 01/12/2018, su "Il Giornale".  È il versante giudiziario di un'indagine nata fra il Giornale e le tv e che sui media conoscerà la sua sentenza. Due reati per una coppia di indagati: Antonio e Giovanna Di Maio, rispettivamente padre e zia del vicepremier. L'abuso edilizio e quello ambientale. Grandi titoli, miccia corta sul piano penale. Alla procura di Nola, creata nel '94 per contenere il crimine in una Campania sempre meno felix, hanno letto l'informativa della polizia giudiziaria di Mariglianella e si sono fatti una prima idea della situazione: l'abuso edilizio c'è ma è oltre la soglia molto breve della prescrizione che scatta dopo quattro anni. Un paradosso: il meccanismo demonizzato in ogni modo dal M5s scatterebbe anche nella versione riformata. Così i Di Maio: verranno indagati nei prossimi giorni, ma poi fatalmente la prua dell'inchiesta farà rotta verso il porto dell'archiviazione. E la pratica tornerà all'autorità giudiziaria che stabilirà la strategia e valuterà il da farsi. Sull'altro fronte, un inventario veloce degli inerti sequestrati la dice lunga sullo spessore del filone investigativo: vasche, frigoriferi, tubi, calcinacci. I terreni dove giovedì si è svolto il blitz della polizia municipale erano secondo diverse testimonianze la retrovia dell'azienda di famiglia, l'Ardima, attiva proprio nel settore delle costruzioni. Ma gli oggetti individuati sono piuttosto vecchiotti. Tutto può essere ma al momento il catalogo è molto modesto, anche se si seguirà l'iter del caso. Nelle prossime ore il pm chiederà al gip la convalida del sequestro, che invece non c'è stato per l'illecito edilizio. Contemporaneamente, Antonio e la sorella verranno iscritti nel registro degli indagati una seconda volta. Poi, conclusa questa fase preliminare, il pm, che era di turno quando è arrivata l'informativa dei vigili, passerà gli incartamenti a un collega che svilupperà la notizia di reato. Sbilanciarsi è sempre molto difficile quando si maneggia la cronaca in uscita dalle procure, ma anche su questo versante è immaginabile che si finisca su un binario morto. A meno che non emergano altri elementi che oggi, con tutta franchezza, non si vedono. In ogni caso, l'indagine ha i suoi passi e le sue procedure e sarà il secondo pm a delimitarne il perimetro e a valutare eventuali atti, interrogatori, approfondimenti da delegare alla polizia giudiziaria. La partita dei Di Maio si giocherà a Nola e in piccola parte a Napoli. Qui nel 2020, secondo i tempi biblici della giustizia tricolore, si svolgerà l'appello della causa intentata contro il papà del ministro del lavoro da Mimmo Sposito, uno dei quattro operai che finora hanno dichiarato di aver effettuato prestazioni in nero. Siamo fuori dal recinto del penale ma sempre fra le carte bollate. A Nola, Sposito aveva perso il primo round; tenterà dunque di far valere le proprie ragioni davanti ai giudici della corte d'appello. Gli altri lavoratori non hanno voluto ingaggiare il braccio di ferro, anche se le loro storie sono affiorate nel corso de Le Iene. Non risulta però che la procura abbia disposto accertamenti per episodi che, in ogni caso, risalgono a molti anni fa. Questa volta, a differenza di tanti capitoli della storia patria, la cronaca giudiziaria dovrebbe rimanere periferica. Non saranno, non qui, verbali e intercettazioni a segnare la parabola di Di Maio. Semmai sarà interessante misurare fra qualche settimana l'impatto di tutta questa complessa vicenda sull'opinione pubblica e sul gradimento dei 5 Stelle.

"I grillini e la stampa? Prima l'hanno sfruttata e adesso la attaccano". Il professor Razzante: «Dimenticano che sono al potere grazie a certe penne giustizialiste», scrive Paolo Bracalini, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". Ruben Razzante, docente di Diritto dell'informazione alla Cattolica di Milano. Tanto per cambiare il M5s sul caso dell'azienda di famiglia Di Maio dà la colpa alla stampa che citiamo «non sta facendo libera informazione disinteressata ma un'opera di delegittimazione».

Quindi i giornali non ne dovrebbero parlare?

«L'inchiesta ha smascherato condotte discutibili e probabili reati, quindi si tratta di informazioni di indubbio interesse pubblico. L'interesse è ovviamente potenziato dal fatto che si tratti del papà del ministro del lavoro».

Ma perché ogni volta che il M5s è in difficoltà dà la colpa ai giornalisti?

«Credo sia un difetto della classe politica italiana in generale quello di non riuscire ad accettare le critiche della stampa. La pretesa degli altri poteri di condizionare le scelte editoriali è una regolarità della vita italiana almeno dagli anni sessanta».

Secondo lei c'è un accanimento dei media verso il M5s? Non hanno subito attacchi anche i governi precedenti, quello Berlusconi in particolare?

«L'accanimento contro Berlusconi ha pochi precedenti nella storia dell'informazione forse internazionale. Renzi ha beneficiato, nell'acme del suo potere, dell'appoggio di tutta la stampa più importante, eppure è crollato in breve tempo. I grillini hanno dimostrato, a Roma come in altre realtà territoriali, di non riuscire a gestire le complessità amministrative e quindi è stato giusto che i giornali ne denunciassero le inadempienze. Forse sulla vita privata della Raggi alcune testate hanno esagerato, ma sugli scandali del Campidoglio direi di no».

Il M5s in fondo è nato sull'onda del giornalismo filo procure, oltre che alle inchieste giornalistiche sulla casta politica?

«I grillini sono al potere anche per merito di certa stampa giustizialista che ha alimentato l'odio anti-casta e un nuovismo a tutti i costi, sganciato dalla verifica di competenze e capacità amministrative e governative».

A lei sembra normale avere un ministro e vicepremier che dà ai giornalisti degli «infimi sciacalli»? Coadiuvato da Di Battista che li chiama «puttane»?

«Li trovo attacchi volgari e di cattivo gusto, lanciati per distogliere l'attenzione dalle difficoltà che il Movimento incontra nel patto di governo con la Lega. Va riconosciuto ai pentastellati di aver messo al centro del dibattito politico temi come quello degli editori puri e dei finanziamenti a pioggia all'editoria, che peraltro sono cessati da tempo. Ma i rimedi proposti, se non condivisi con i giornalisti, gli editori, i colossi della Rete e gli altri attori della filiera di produzione e distribuzione delle notizie, rischiano di essere peggiori della situazione attuale».

Il presidente Mattarella è dovuto intervenire per ricordare il ruolo anche costituzionale della libera stampa. C'è secondo lei il rischio che il governo voglia mettere il bavaglio alla stampa?

«Non vedo questo rischio, anche perché la Lega non lo consentirebbe».

Fa parte della storia italiana l'insofferenza del potere politico verso la stampa o è un'anomalia quella che stiamo vivendo con il governo M5s?

«Non vedo grandi differenze con il passato. A parti invertite si ripetono gli stessi comportamenti di sempre. Questa volta, però, la cosa balza maggiormente all'occhio perché a pronunciare questi anatemi contro la stampa è una forza politica che ha fondato le sue battaglie su una diversità morale che spesso non trova riscontro nei comportamenti»

Di Maio e anche Crimi hanno promesso provvedimenti e tagli all'editoria. Non teme siano minacce ad un potere sgradito al governo? Sulla legge sugli «editori puri» annunciata da Di Maio che idea si è fatta?

«Condivido la necessità di una normativa sugli editori puri e sulla libertà della stampa dagli altri poteri. Lo strumento dei finanziamenti all'editoria va usato in modo intelligente e meritocratico. Ora come ora, però, abolire i contributi indiretti senza alimentare i circuiti mediatici in altro modo rischierebbe di impoverire il mondo dell'informazione, anche sul piano occupazionale. Credo che occorrerebbe convocare gli Stati generali dell'editoria per far sì che le misure sull'informazione vengano decise da tutti e non da un governo di parte. L'informazione è un bene neutrale, di tutti, non di chi temporaneamente guida il Paese».

Travaglio ed i Travaglini in sostegno di Di Maio. Pronti a giustificare la sua ipocrisia.

Travaglio: “Il video di Maria Elena Boschi sul padre di Di Maio? Forse lei confida nella smemoratezza generale”, scrive Il Fatto Quotidiano il 28 novembre 2018. “Analogie tra le vicende del padre di Luigi Di Maio e di quello di Maria Elena Boschi? Forse Boschi confida nella smemoratezza generale. In realtà, bisogna ricordare alcune cose, fermo restando che, se il padre di Di Maio ha fatto lavorare in nero uno o più operai nella sua ditta, è un fatto grave, di cui dovrà rispondere”. Così a Otto e Mezzo (La7) il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, commenta il video diffuso dall’ex ministro Maria Elena Boschi sul caso del padre di Di Maio. Travaglio spiega le differenze tra quest’ultima vicenda e quella relativa a Pier Luigi Boschi: “Il caso Etruria riguarda una banca dove il padre della Boschi era un semplice consigliere d’amministrazione. Un mese dopo che la Boschi fu nominata ministro, il padre diventò vicepresidente della banca. Poi venne giù tutto. Il governo Renzi-Boschi legiferò in materia di banche popolari, e cioè anche in materia di Banca Etruria, e successivamente, nella commissione parlamentare di inchiesta dedicata ai crac bancari, si scoprì che la Boschi aveva fatto il giro delle sette chiese per cercare di salvare la banca vicepresieduta dal padre”. E aggiunge: “La Boschi incontrò l’ad di Unicredit Ghizzoni, il presidente di Consob Vegas, il vicedirettore di Bankitalia Panetta, l’ad di Veneto Banca Consoli. Non altrettanto aveva fatto per le altre banche che erano crollate. Riguardo al caso Consip, sappiamo benissimo che ha riguardato il padre di Renzie il suo fedelissimo Carlo Russo fino a quando, dai vertici dell’Arma dei carabinieri, è partita una fuga di notizie verso gli ambienti renziani e alcuni tra i principali collaboratori di Renzi sono indiziati dalla procura di Roma di avere avvertito Tiziano Renzi e l’ad di Consip, che Matteo Renzi aveva nominato, delle indagini e delle intercettazioni, mandando a monte le indagini stesse”. Il direttore del Fatto continua: “Nel caso del padre della Boschi e del padre di Renzi, si trattava di fatti piuttosto pesanti avvenuti mentre Renzi e la Boschi erano al governo, non diversi anni addietro. Nessuno ha mai attribuito ai figli le colpe dei padri. Sono stati tirati in ballo i figli, perché era risultato che la Boschi, da una parte, e i principali collaboratori di Renzi, dall’altra, erano accusati di essersi dati da fare in difesa, rispettivamente, del padre della Boschi e del padre di Renzi”. E chiosa: “Se, ad esempio, Di Maio facesse un condono sul lavoro nero o qualcosa per sanare gli illeciti commessi dal padre, ovviamente sarebbe coinvolto in pieno. Finché non lo fa, di cosa stiamo parlando?”

Luigi Di Maio lavorava in nero col papà? Allora scatenatevi anche su Renzi. In famiglia - La storia lavorativa dell’ex premier è simile a quella del capo M5S, ma non era interessante, scrive Marco Lillo il 30 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il tabulato a fianco è l’estratto degli attivi dell’Inps. Il documento certifica “montanti contributivi” di Matteo Renzi anno per anno con accanto i giorni lavorati, il tipo di contratto e i contributi versati dalle aziende e dagli enti che hanno avuto rapporti con l’ex leader Pd. Il tabulato risale al marzo 2015 e a leggerlo si scopre che Renzi ha un’invidiabile anzianità contributiva. Il Fatto ha raccontato più volte come è riuscito a crearla: alla vigilia della candidatura da parte del Pds e della Margherita a presidente della Provincia fu assunto dalla società della mamma. La Chil Srl lo aveva tenuto fino ad allora come collaboratore coordinato e continuativo, come tanti. Non solo: Matteo era socio al 40 per cento (la sorella Benedetta aveva il 60) della Chil. Proprio quando sta impegnandosi in una campagna elettorale a rischio quasi zero, però la famiglia ha un guizzo: a ottobre 2003 Matteo cede le quote alla mamma e poi la Chil (non più di Matteo) assume Matteo, unico dirigente. Per 7 mesi lo stipendio lo paga la Chil ma quei 30mila euro sono un grande investimento per la famiglia. Dopo l’elezione ad aprile 2004 infatti non è più la famiglia a pagare i contributi ma l’ente Provincia. La stessa cosa si ripeterà nel 2009. Chil lo paga come dipendente solo per tre giorni. Poi, dopo l’elezione, da fine giugno a pagare i contributi è sempre l’ente pubblico, cioè stavolta il Comune. A noi queste sembravano le notizie presenti in questo tabulato e le abbiamo pubblicate allora. Se oggi lo ripubblichiamo è solo per aiutare i colleghi dei grandi quotidiani e delle televisioni. In questi giorni si sono scatenati alla ricerca dei contributi versati a Luigi Di Maio dieci anni fa quando il figlio dava una mano nei cantieri dell’impresa della mamma. Di Maio ha pubblicato i suoi documenti sul Blog M5S. Matteo Renzi non lo ha mai fatto e allora abbiamo deciso di farlo noi, sempre per aiutare i colleghi. A leggere il tabulato certamente i grandi quotidiani si avventeranno su una notizia che a noi sembra inesistente ma che a loro appare evidentemente uno scoop: Matteo ha dato una mano nella società a babbo e mamma Laura senza che all’Inps risultasse nulla nel 1998. Lo racconta al Fatto un ex co.co.co della Chil. Matteo Renzi – secondo la nostra fonte – andava con il furgone a portare i giornali agli strilloni che dovevano vendere le copie della Nazione agli eventi. Il 3 gennaio 1998, per esempio, Matteo è andato ad Assisi a portare i giornali nella giornata in cui Papa Giovanni Paolo II andò a portare solidarietà ai terremotati. Ebbene, secondo i canoni rigidi in voga oggi, dovremmo chiedere conto all’amministratrice, cioè a mamma Laura, perché i primi versamenti all’Inps risultino solo nel 1999. Quell’anno risulta infatti una retribuzione a Matteo di 6mila e 800 euro. Nel 2000 lo stipendio da co.co.co. sale a 10mila. Il Fatto da tre anni sa di questa discrasia ma non ne ha mai scritto. Semplicemente perché non ci sembra una grande notizia che Matteo lavorasse per Tiziano come un figlio che aiuta il babbo senza contratto. Ora però i grandi quotidiani potranno scatenarsi a fare domande simili a quelle poste a Di Maio. Certamente Matteo metterà on line i contributi versati all’Inps nel 1998 come ha fatto Di Maio. Noi non lo abbiamo mai chiesto. Mentre ci piacerebbe tanto che Matteo pubblicasse il bonifico con la cifra esatta del Tfr da lui incassato quando si è dimesso finalmente dalla Chil, nel 2014, dopo essere stato nominato premier. Il Tfr è per noi il frutto del giochino dell’assunzione da parte della Chil nel 2003. E questa ci sembra una notizia.

Tiziano Renzi: "No paragoni con Di Maio sr. Non ho lavoratori in nero". Ma la sua azienda fu condannata a risarcire un dipendente. Il padre dell'ex segretario del Pd, insieme alla Boschi e a tutto il partito, contro il genitore del leader M5s, accusato di aver tenuto in nero tre lavoratori nella sua azienda. Eppure nel 2011 una sua società è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in una delle sue società, licenziato in tronco dopo aver preteso una retribuzione adeguata al posto di 750 euro al mese. In passato altre sue aziende erano state multate per non aver versato contributi Inps, scrive Thomas Mackinson il 27 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Dopo Maria Elena Boschi e tutto il Pd, tocca a Tiziano Renzi scagliarsi contro Luigi di Maio e il caso, sollevato dalle Iene, dell’ex lavoratore al nero nell’azienda del padre del ministro del Lavoro. Su facebook, marca così la distanza: “Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88€ di tasse. Aggiungo che sono agli antipodi dall’esperienza politica missina”.  Dal recente passato di Renzi senior, però, emergono storie di lavoro irregolare che rischiano di pareggiare il conto nella surreale disfida al padre peggiore ingaggiata dal Pd e dal M5s: uno sport che incendia la politica negli ultimi tempi. Nel caso di Di Maio senior, pare fossero i muratori a lavorare in nero. Per Renzi senior sono gli “strilloni”, i venditori ambulanti di giornali ai semafori che sono stati business storico della famiglia dell’ex presidente del consiglio. A parlare sono le sentenze. Nel 2011 un’azienda del padre del futuro premier è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in della società della galassia Renzi (Arturo Srl, poi liquidata) e licenziato in tronco quando aveva preteso una retribuzione adeguata al posto di miseri 750 euro al mese.  La sentenza è stata emessa il 20 settembre 2011 dal Tribunale di Genova in favore di Evans Omoigui, oggi 45 anni, nigeriano di Benin City, che era in Italia dal 1996 e ora è tornato a vivere in Nigeria. Raggiunto dal Fatto, attacca la giustizia italiana e chiama ancora in causa “quel signore padre del premier” che gli deve ancora 90mila euro, in forza di una sentenza dello Stato. Perché? Perché proprio durante il dibattimento la società veniva portata a liquidazione restando già allora – si legge nella sentenza – “contumace”.  “Altrettanto, forse qualcosa di più, spettava alla moglie di Evans, perché lavoravano insieme ma anche qui nessuno ha pagato”, dice Simona Nicatore, che ha assistito il nigeriano nel tentativo di recuperare le somme dovute. Della storia di Evans si occupano le cronache di Genova il 9 febbraio 2013. L’edizione genovese di Repubblica scrive di “lavoro nero”. “Malato e truffato sale sulla gru” titola il quotidiano. L’occhiello spiega: “Vince la causa, ma il datore di lavoro non paga. E lui minaccia il suicidio”. L’imprenditore cui Repubblica fa riferimento, senza mai citarlo, è proprio Tiziano Renzi, padre del futuro premier che in quel momento è sindaco di Firenze. Nel 2015, in  pieno Jobs Act, è Panorama a rispolverare la storia di lavoro nero che lascia un sapore amarissimo e – scopre oggi ilfatto.it- ha epilogo anche peggiore. La Arturo nasce nel 2003 da Renzi senior, che ne detiene il 90 percento, il resto è nelle mani di sua sorella Tiziana. A Genova, all’inizio del 2007, la società organizza i venditori porta a porta del Secolo XIX. Il 7 febbraio 2007 Omoigui viene assunto come co.co.co. dalla Arturo a 750 euro al mese, per un anno. Nonostante gli accordi, viene mandato via due mesi dopo: il 13 aprile 2007 per aver chiesto la regolarizzazione del rapporto, un compenso adeguato e soldi per pagare la benzina. Nel dibattimento si chiarisce il motivo del benservito, legato alle richieste del collaboratore e di altri al seguito. Il giudice chiede a un teste quali fossero le condizioni di lavoro: “Da mezzanotte alle 6 del mattino, da lunedì a domenica. La paga era di 28 euro al giorno. E usavamo sempre la nostra macchina, senza alcun rimborso spese”. La società è condannata nel 2011 dal tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il licenziamento illegittimo di Omoigui: “Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso”, scrive il giudice. Al nigeriano sono riconosciuti altri 3.947 euro per differenze retributive e mancati riposi. La sentenza viene confermata nel 2012 ma all’inizio del 2013, quando ancora aspetta quei 90mila euro che potrebbero raddrizzare la sua vita, gli dicono che il tempo è scaduto: un decreto di espulsione pende sulla sua testa e deve rimpatriare malato, disoccupato, raggirato, senza casa. E Omoigui non regge: il 9 febbraio 2013 si arrampica su una gru di 30 metri del porto antico e minaccia di buttarsi nel vuoto mentre continua a farfugliare confuso: “Il padre del sindaco di Firenze mi deve 90mila euro. Non ce la faccio più. Voglio morire”. Solo dopo tre ore di panico e trattative Omoigui decide di scendere. La Questura prende a cuore il caso. Il nigeriano ottiene di rimanere in Italia per “motivi umanitari” ma ormai ha una vita in frantumi, vaga tra ospedali e cliniche mentre il risarcimento scompare del tutto grazie alla provvidenziale liquidazione della Arturo. Il vizietto del lavoro nero invece resta: nel 2013 la stessa Chil, la più nota delle aziende renziane, viene condannata dai giudici a risarcire 9mila euro ad altri ex distributori. Già nel 1998, del resto, Panorama scoprì che l’Inps dopo una serie di accertamenti multò la Chil per quasi 35 milioni (di vecchie lire) e la Speedy per quasi un milione per non aver pagato contributi, mentre i 500 e più “strilloni” impiegati – scrive il giudice Giovanni Bronzini – avevano un rapporto di palese continuità, a fronte di contratti che definivano la prestazione come autonoma. “La giustizia senza effetto non è giustizia”, ripete oggi Evans Omoigui dalla Nigeria, dove è tornato. Nel suo caso l’ingiustizia è doppia. Il 4 aprile 2017 è in un ospedale genovese per fare degli esami. Va in escandescenza per una questione di ticket e mentre i sanitari cercano di calmarlo qualcuno chiama la polizia. I medici vorrebbero intervenire secondo il loro protocollo, gli agenti agiscono come di fronte a un pericolo pubblico. Il risultato è una colluttazione che provoca l’arresto e la condanna per lesioni a pubblico ufficiale. Toccherà poi al giudice di secondo grado riconoscere, sentiti i testimoni, che non c’era alcuna necessità di misure contenitive di polizia e che perfino il medico ha litigato con gli agenti che intimavano l’arresto contribuendo all’alterazione del soggetto. E che in sostanza l’uomo aveva reagito in assenza di dolo. Viene quindi assolto con formula piena il 7 giugno 2018. Proprio come per quella sentenza che dispone il risarcimento in conto Renzi, ormai se ne fa ben poco. Senza i soldi cui aveva diritto resterà in Nigeria. E da seimila chilometri di distanza, lo raggiunge beffarda la eco della doppia morale.

Di Maio e lavoro nero, Di Battista: “Renzi e Boschi? Hanno la faccia come il culo. Luigi è un signore”, scrive Il Fatto Quotidiano" il 27 novembre 2018. Quella di Luigi Di Maio sulla vicenda di suo padre è stata “una reazione da signore, una reazione da Luigi Di Maio”. Lo afferma Alessandro Di Battista in una diretta facebook dal Guatemala. “Provano a indebolire Luigi perché il sistema teme Di Maio e perché c’è molta invidia nei suoi confronti. Il problema non sono i padri ma sono i figli”, sottolinea attaccando frontalmente Matteo Renzi e Maria Elena Boschi che, a suo dire, avrebbero avuto una reazione ipocrita di fronte all’episodio che ha interessato il padre del ministro dello Sviluppo economico.

Maria Elena Boschi, il videomessaggio per Antonio Di Maio: "Mio padre trascinato nel fango da suo figlio", scrive il 26 Novembre 2018 Libero Quotidiano". "Caro Antonio Di Maio, padre di Luigi Di Maio, ministro del Lavoro nero e della disoccupazione, le auguro di non vivere mai quello che suo figlio e gli amici di suo figlio hanno fatto provare a mio padre e alla mia famiglia". Maria Elena Boschi, in un videomessaggio destinato al padre del vicepremier grillino, attacca pesantemente tutta la loro famiglia e il "metodo" utilizzato sempre dal Movimento 5 stelle contro gli avversari: "Mio padre è stato trascinato nel fango da suo figlio e dagli amici di suo figlio", "le auguro di non sapere mai il fango dell'ingiustizia che ti può essere gettato contro. Perché il fango fa schifo".

Boschi al papà di Di Maio: non le auguro ciò che Luigi fece a me, scrive Lunedì 26 Novembre 2018 Il Messaggero. Grana per Luigi Di Maio dopo che un operaio ha raccontato alla trasmissione tv Le Iene di aver lavorato per anni in nero per il padre del vicepremier. «Da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre», ha detto il leader di M5S. «Il lavoratore ha fatto bene a denunciare. Consegnerò alle Iene tutti i documenti sul caso», ha aggiunto. La vicenda ha però scatenato la reazione del Pd e in particolare di Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, i cui padri sono stati entrambi coinvolti in vicende giudiziarie che in passato avevano scatenato gli attacchi grillini. I senatori del Pd chiedono poi al vice premier di andare in aula a riferire sul caso. «Vorrei poter guardare in faccia il signor Antonio Di Maio, padre di Luigi, e augurargli di non vivere mai quello che suo figlio e i suoi amici hanno fatto vivere a mio padre e alla mia famiglia», dice Maria Elena Boschi in un video pubblicato su Twitter. «Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango da una campagna di odio: caro signor Di Maio, il fango fa schifo», dice ancora riferendosi a Banca Etruria. Boschi, che definisce Luigi Di Maio, «ministro del lavoro nero e della disoccupazione di questo Paese», si rivolge al padre del vicepremier e continua: «lei è sotto i riflettori per storie davvero brutte: lavoro nero, incidenti sul lavoro, sanatorie e condoni edilizi. Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango dalla campagna creata da suo figlio e dagli amici di suo figlio. Caro signor Di Maio le auguro di dormire sonni tranquilli, di non sapere mai che cos'è il sentimento di odio che è stato scaricato addosso a me e ai miei, di non saper mai cos'è il fango dell'ingiustizia che ti può essere gettato contro perché, caro signor Di Maio, il fango fa schifo come fa schifo la campagna di fake news su cui il M5s ha fondato il proprio consenso». «Io - prosegue la deputata - continuo a fare politica solo per la mia nipotina, perché possa sapere che la sua è una famiglia di persone per bene. Le auguro, signor Di Maio, di poter dire lo stesso della sua; anche se mi rendo conto che ogni giorno che passa per voi diventa più difficile». «Sono convinto che la presunta onestà dei Cinque stelle sia una grande fakenews, una bufala come dimostrano tante vicende personali, dall'evasore Beppe Grillo in giù. Ma sono anche convinto che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli e questo lo dico da sempre, a differenza di Di Maio che se ne è accorto adesso», scrive su Facebook Matteo Renzi. «Rivedo il fango gettato addosso a mio padre. Rivedo la sua vita distrutta dalla campagna d'odio dei 5 Stelle e della Lega», continua il senatore del Pd spiegando: «La vita di mio padre è cambiata, per sempre. Non è un mio problema dunque sapere se il padre di Di Maio sia responsabile o no di lavori in nero, evasione fiscale, abusi edilizi. Non m'interessa davvero. Sono però certo che Di Maio figlio sia il capo del partito che è il principale responsabile dello sdoganamento dell'odio. Hanno educato, stimolato e spronato a detestare chi provava sinceramente a fare qualcosa di utile. Hanno ucciso la civiltà del confronto. Hanno insegnato a odiare». «Non dobbiamo ripagarli con la stessa moneta. Ma prima di fare post contriti su Facebook chiedano almeno perdono alla mia famiglia per tutta la violenza verbale di questi anni. Se Di Maio vuole essere credibile nelle sue spiegazioni prima di tutto si scusi con mio padre e con le persone che ha contribuito a rovinare. Troverà il coraggio di farlo?», conclude Renzi. «A proposito di truffe: i grillini hanno detto di essere quelli dell'onestà - insiste Renzi -. E hanno fatto tutta la campagna elettorale spargendo odio in quantità industriale e fango sugli avversari e sulla mia famiglia. Adesso non solo viene condannato due volte Marco Travaglio (senza che la notizia susciti particolare indignazione: i condannati si attaccano solo se sono del Pd, evidentemente) ma emerge una brutta storia sul padre di Luigi Di Maio. Una storia fatta di lavoro nero, incidenti sul lavoro, abusi edilizi e condoni (tanto per cambiare). Volevo evitare di parlarne ma il pensiero dei quintali di fango contro mio padre mi ha portato a scrivere una lunga riflessione su Facebook. Spiego perché se Di Maio è un uomo oggi deve chiedere scusa», aggiunge Renzi. «Il ministro Luigi Di Maio venga subito in Parlamento a dare la sua versione dei fatti su quanto trasmesso ieri dalla trasmissione televisiva le Iene. La prima cosa che l'esponente 5 Stelle deve chiarire è se la denuncia di Salvatore Pizzo è da ritenersi attendibile? In caso positivo Di Maio deve dire alle aule parlamentari se il ricorso al lavoro nero è stata una pratica costante ed è proseguita anche negli anni in cui il vicepremier risultava proprietario al 50% della Ardima srl ovvero l'impresa familiare? Di Maio è inoltre a conoscenza di altre pesanti irregolarità che riguardano l'impresa stessa? Serve che il ministro riferisca prontamente in Aula». Lo chiedono in un'interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al ministro del lavoro, i senatori del Pd, con la prima firma del presidente del gruppo Andrea Marcucci. «L'esponente del M5S è stato nel recente passato - aggiungono i senatori - il principale animatore di campagne d'odio. Chissà cosa ne pensa ora che la sua famiglia è accusata di una condotta discutibile, come il ricorso ad un condono edilizio e l'utilizzo di manodopera a nero?».

Luigi Di Maio, Maria Elena Boschi asfalta Alessandro Di Battista: "Dimostra che fascista non è solo il padre", scrive il 27 Novembre 2018 Libero Quotidiano". Dopo essere intervenuta, ieri 26 novembre, nella vicenda sugli scandali che hanno toccato il padre di Luigi Di Maio, Maria Elena Boschi risponde a stretto giro anche al "sodale" 5 Stelle del vicepremier grillino, Alessandro Di Battista, che dal Messico ha fatto una diretta Facebook per difendere Giggino ("Non contano i padri, ma i figli...") e attaccare allo stesso tempo lei e Matteo Renzi: "Di Battista insulta con toni che dimostrano che il fascista in casa sua non è solo il padre. Contro mio padre hanno fatto una campagna lunga anni. E adesso che non è stato condannato? Dopo le #FakeNews, gli insulti #Vergogna" scrive in un tweet l'ex ministra e sottosegretaria alla presidenza del Consiglio.

Filippo Roma minacciato sui social dai militanti M5s. Svelate le "bufale" costruite dai grillini in rete per delegittimare l'inchiesta, scrive il 30 novembre 2018 Il Corriere del giorno. La denuncia dell’inviato de Le Iene, autore dell’inchiesta sulla famiglia di di Luigi Di Maio. C’è troppa gente che vuole zittire in ogni maniera l’informazione ed impedire a chi fa il onestamente e correttamente il proprio lavoro di poter raccontare notizie. Anche sulle nostre pagine Facebook abbiamo ricevuto offese, insulti e minacce dai soliti “odiatori” seriali che militano nel Movimento Cinque Stelle. L’inviato Filippo Roma, che con l’autore de ‘Le Iene’   Marco Occhipinti sta indagando sul caso dei lavoratori in nero impiegati nella ditta edile del padre del leader del Movimento Cinque Stelle, intervenendo al programma radiofonico “Un Giorno da Pecora” in onda su Rai-Radio1 ha raccontato gli ultimi sviluppi sulla delicata vicenda. Anche il nostro giornale vuole esprimere tutta la nostra solidarietà agli amici e colleghi de “Le Iene” invitando le forze dell’ordine a vigilare ed intervenire in quanto il clima è molto pesante e non solo per il rischio terribile che si passi dalle parole ai fatti. C’è troppa gente che vuole zittire in ogni maniera l’informazione ed impedire a chi fa il onestamente e correttamente il proprio lavoro di poter raccontare notizie. Anche sulle nostre pagine Facebook abbiamo ricevuto offese, insulti e minacce dai soliti “odiatori” seriali che militano nel Movimento Cinque Stelle che non ha gradito i nostri approfondimenti giornalisti che hanno evidenziato una serie di illegalità commesse dalla famiglia del vicepremier Di Maio.

Queste le domande a cui ha risposto Filippo Roma: Ci saranno novità sul caso? “Non lo sappiamo nemmeno noi, siamo in attesa di alcune risposte da parte di Di Maio”. Come le è parso il vicepremier quando lo ha intervistato? “Mi è parso deluso dal papà, nell’intervista è emersa questa cosa del padre e del figlio che non si parlavano, uno storia che affonda le radici in un passato molto lontano e profondo”. Nei prossimi servizi de Le Iene emergeranno anche altri lavoratori in nero? “Non si sa”. Lei che feedback ha avuto su questa inchiesta: più complimenti o più critiche? “Sui social i simpatizzanti del Movimento mi hanno sfondato, riempiendomi di insulti di ogni tipo: da servo di Berlusconi e Renzi a se ti incontro per strada ti ammazzo o ti riempio di botte”. Nessun complimento? “Per strada mi fanno i complimenti invece…”

La bufala sull’operaio in nero di Di Maio per infangare Le Iene. Chi ci conosce e legge sa molto bene che le minacce ed offese hanno un effetto diverso con noi, in quanto non ci fermiamo, anzi andiamo continuamente a caccia di notizie e documenti che possano comprovare che la millantata “onestà” e “legalità” dei grillini, come i fatti documentati hanno dimostrato di giorno in giorno, è la più grossa FAKE NEWS del secolo. Un autentica “bufala” per dirla con parole più semplici per i compaesani di Di Maio. “Salvatore Pizzo, il lavoratore in nero presso la ditta di Antonio Di Maio, è in realtà un candidato del Pd!”.  Ed ecco che nella fake news dei simpatizzanti Cinque stelle viene sostituita la sua foto con quella di un vero candidato! Il povero lavoratore sfruttato dalla famiglia Di Maio senza volerlo è finito in quel tritacarne della fabbrica delle fake news realizzate su misura, nello squallido tentativo di difendere il padre del vicepremier Luigi di Maio, che hanno invaso negli ultimi giorni i socialnetwork.

La falsa notizia è stata diffusa alle ore 19 del 26 novembre. Ed è ormai circolata sotto gli occhi e sulle tastiere avvelenate di tutti i sostenitori del Movimento Cinque Stelle: “Quel Salvatore Pizzo che ha denunciato a Le Iene di aver lavorato in nero per l’azienda del padre di Luigi Di Maio, in realtà, è stato candidato per il Pd nel 2014”. Uno notizia falsa, nello squallido tentativo di sostenere e voler dimostrerebbe che lo avrebbe fatto per motivi puramente politici. E, quindi secondo il “popolino a 5 Stelle”, probabilmente Pizzo starebbe mentendo. C’è qualcosa di falso, ed è grande quanto ma marea di indignazione “grillina” che si è subito scatenata sui social, utilizzando la “menzogna” come uno strumento per “assolvere” l’esponente del M5S sotto accusa di turno, e anticipano l’opera della magistratura mentendo e diffamando altri soggetti.  Ed ecco che Il Giunco, quotidiano locale, ci racconta una di queste storie: un indinniato speciale, evidentemente politicamente schierato, illudendosi nella sua mente di rendere servizio alla sua parte politica (che invece, ricordiamo, ne è stata danneggiata, e certamente possiamo ritenere non avrebbe voluto simili menzogne) ha composto questo “fake” con la foto di un soggetto a caso con dei loghi del PD, alle spalle ed una didascalia indinniata ed indinnante dove si dichiara “Le Iene questo non lo hanno detto!!! L’operaio che ha accusato il padre di Di Maio era candidato nel 2014 col PD!”. Chiaramente tutto falso! A svelarlo è il sito Bufale.net, (e per precisione Claudio Michelizza, detto #LoSbufalatore) che da alcuni anni si occupa di sbugiardare le troppe fake news, che sembrano aver invaso in molti casi anche i media italiani che non sono abituati a fare le necessarie dovute verifiche. Bufale.net ancora una volta mostra quella foto che ha fatto velocissimamente il giro del web (condiviso da quasi 7.000 utenti in poche ore), in cui si indica il presunto “delatore” Salvatore Pizzo (che in realtà non è lui) in compagnia di un uomo e di due donne, posare sorridente davanti a una parete interamente ricoperta dal logo del Partito democratico. “Le Iene questo non lo hanno detto!!! L’operaio che ha accusato il padre di Di Maio era candidato nel 2014 col Pd”, recita il “post” abilmente costruito e diffuso dalla già nota Fanpage M5S che ha pubblicato il messaggio intorno alle ore 19 del 26 Novembre scorso. Come racconta il quotidiano online Il Giunco (che si occupa della maremma toscana) si tratta di una evidente “fakenews” che è stata riconosciuta così da molti in provincia di Grosseto, ma non dal popolo del web. Per dovere di cronaca, va ricordato che l’uomo che ha dichiarato al programma televisivo “Le Iene” di essere stato assunto in nero nell’azienda del padre del vicepremier e ministro del lavoro è Salvatore Pizzo. A denunciare la bufala che ha generato una serie di attacchi molto violenti sui social e che ha generato una falsa verità che sta circolando da alcune ore su Facebook, è lo stesso consigliere regionale toscano Leonardo Marras (Pd) che scrive: “#fakenews Quanto ci vuole per finire nella macchina del fango dei moralisti da tastiera? Giusto il tempo di fare una grafica con informazioni false! Una delle tante pagine fake nate solo per aizzare il ‘popolo del web’ mi ha scambiato per l’operaio protagonista del servizio de Le Iene che dice di aver lavorato in nero per il padre del ministro Di Maio: hanno costruito un post prendendo un’immagine di febbraio 2018 e scrivendo falsità. In poche ore un numero impressionante di condivisioni e di commenti offensivi”. A seguire è arrivata la  pagina Facebook   “Noi con Boldrini“ che si autodefinisce di “svago”  carica di diffamazioni contro l’onorevole Laura Boldrini e a favore dell’attuale maggioranza M5S-Lega (sia pur in realtà  facendo alla stessa un pessimo servizio) che, come accade sempre con gli Indinniatori Seriali, pensa che abusando della funzione “Modifica” dei commenti su Facebook si possano nascondere le diffamazioni ed evitare le denunce e dichiarandosi “di satira” si ritengono legittimati (senza esserlo !)  a potersi inventare di tutto, coinvolgendo  una persona innocente ed estranea ai fatti scatenandole contro l’odio dei social. Ecco come hanno ritoccato il messaggio: La macchina dell’odio “grillino” intanto prosegue indisturbata, colpendo il programma e gli inviati de “Le Iene”, ritenendoli “responsabili” di aver diffuso una notizia contraria agli interessi del loro partito politico. Ecco come appaiono così i post in favore del M5S in cui gli inviati delle Iene vengono accusati in vari modi di aver creato una fake news ad arte su Luigi Di Maio dietro un’inesistente ordine di Silvio Berlusconi. Ma fake news che accusa un giornalista di fake news sostanzialmente, dimostrando come ai sostenitori ed adepti del M5S non piaccia la verità, ritenendo che solo che la loro narrazione è ben composta e confacente al loro pregiudizio. Nel pomeriggio del 27 Novembre scorsoall’improvviso le pagine Noi con Boldrini e M5S si sono auto-oscurate. Nel frattempo la pagina Facebook del Movimento 5 Stelle Notizie ha rilanciato la fake news in favore di Antonio Di Maio, contro il povero Leonardo Marras “spacciato” per Salvatore Pizzo. L’anomalia? Come si vede non trovando più la bufala “originale” hanno scaricato l’immagine dall’articolo del quotidiano toscano che denunciava la bufala stessa. E poi gli “sciacalli”, gli “infami” e le “puttane” dell’informazione sarebbero i giornalisti. Ma Luigi Di Maio con famiglia al seguito, ed Alessandro Di Battista allora cosa sono?

Così è spuntata la casa dei Di Maio, scrive il 30 Novembre 2018 Guglielmo Mastroianni su Il Dubbio.  Sigilli nei terreni di proprietà della famiglia del vicepremier, Luigi Di Maio che prova a difendersi dalle accuse di abuso edilizio. Ma le foto satellitari sembrano smentirlo. «Per quanto ne so, c’è stato un sopralluogo da parte della municipale di Mariglianella, in provincia di Napoli, nella campagna di mio padre. Sono stati posti sotto sequestro dei materiali come secchi, bidoni, una carriola, dei calcinacci e un telo in plexiglass. Si stanno facendo accertamenti sugli edifici, sono terreni di mio padre e di sua sorella che vive al nord. Tutto quello che si dovrà fare lo faranno. Io sono tranquillo». A raccontare quanto accaduto ieri mattina è lo stesso Luigi Di Maio, in trasferta a Bruxelles. Il vice premier ostenta sicurezza, di fronte ad una vicenda che sta coinvolgendo ogni giorno di più la sua famiglia. In particolare papà Antonio, che dopo l’accusa di aver utilizzato, nella sua impresa edile, lavoratori in nero, deve ora anche fare i conti col sequestro di parte del suo terreno, aree su cui erano stati depositati rifiuti inerti. Ma non solo. La polizia municipale del piccolo comune, non molto distante da Pomigliano D’Arco, si è infatti recata nella mattinata di ieri per verificare eventuali abusi edilizi sul terreno di proprietà della famiglia Di Maio, in corso Umberto. E sarebbero proprio i tre edifici che insistono sul lotto, a rischiare di creare più di qualche imbarazzo al vice premier e alla sua famiglia. Il terreno, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato acquistato nel 2000, come risulta dalla visura catastale: una prima incongruenza con quanto sostiene Luigi Di Maio, secondo cui invece quell’appezzamento e gli edifici su di esso costruiti, sarebbero di proprietà della famiglia fin dalla seconda guerra mondiale e sarebbero stati abbandonati dopo il terremoto del 1980. Ed è proprio questo il punto focale della vicenda: quando sono state costruite, realmente, le tre strutture? Per capirlo, si può utilizzare Google Earth. Grazie a al programma, infatti, è possibile risalire alla cronologia delle foto della zona, scattate negli anni dal satellite. La meno recente, risale al 2002, vale a dire due anni dopo l’acquisto del terreno, secondo quanto risulterebbe dalle carte. L’immagine, per quanto non ad altissima definizione, come sono invece le più recenti, è sufficientemente nitida: si nota la presenza di una sola struttura in tutto il terreno, quella centrale. Proseguendo con la cronologia, si salta al 2008: è in questa foto che appaiono nitidamente e per la prima volta gli altri due edifici. Il colore del tetto del manufatto già esistente è invece cambiato, segno di un’avvenuta ristrutturazione. E’ pertanto ipotizzabile che, negli anni fra il 2002 e il 2008, siano state realizzate almeno una ristrutturazione e due nuove costruzioni. Ed è proprio qui che nasce il problema. Al Comune di Mariglianella, infatti, non risulterebbero licenze edilizie, concesse o richieste, relative al terreno in questione, né per nuove costruzioni, né per delle ristrutturazioni. E’ opportuno precisare un aspetto: anche nel momento in cui, nella foto del 2002, fossero presenti dei vecchi ruderi, magari poco visibili in una foto satellitare del tempo, il fatto che vi siano comunque tre edifici, già nel 2008 chiaramente visibili, testimonia la messa in opera dei lavori, per i quali era necessaria una concessione edilizia, quanto meno per curarne la ristrutturazione. Chiaramente l’assenza di un qualsivoglia permesso, certificherebbe l’abuso edilizio. A confermare questa tesi, peraltro, ci sono le mappe catastali, in cui nessuno dei tre edifici risulterebbe accatastato. Tre immobili fantasma, come risulta evidente dalla sovrapposizione della mappa fotografica a quella catastale. In un terreno che, scorrendo le foto degli anni seguenti, risulta chiaro come non fosse una semplice zona di campagna, usata prevalentemente come deposito degli attrezzi. Nelle foto del 2014 e del 2017, infatti, fa bella mostra di sé una piscina semovente, di sette metri per tre, evidentemente montata e smontata per essere utilizzata nei mesi estivi. A mettere un punto esclamativo su tutta la vicenda, le parole del sindaco di Mariglianella, Felice Di Maiolo, arrivate nel pomeriggio di ieri: «Nel sopralluogo di stamattina sono stati accertati dei manufatti abusivi. Inoltre è stato rilevato l’abbandono di rifiuti su tre piazzole e anche su questo è stato fatto un sequestro. Tutto sarà inviato alla Procura della Repubblica».

Inchiesta sui Di Maio. La vicenda del vicepremier evidenzia l'infondatezza della sbandierata superiorità morale dei Cinquestelle, della loro "diversità genetica" rispetto a tutti gli altri, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 30/11/2018, su Il Giornale. Per Luigi Di Maio ora la questione si complica. Il caso delle presunte irregolarità edilizie fatte dalla sua società e svelate dall'inchiesta de Il Giornale, così come il lavoro nero portato in chiaro dalle Iene, non sono esagerazioni giornalistiche o bazzecole come i Cinquestelle hanno tentato di liquidare. Ora sono ipotesi di reato in capo anche in quanto socio - al ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro che si era autoproclamato campione del mondo di onestà e trasparenza. E ancora non ci si è addentrati per capire se per caso ci sia qualche crepa anche nelle denunce dei redditi della famiglia Di Maio, apparentemente incompatibili con il ruolo di imprenditori proprietari di case, fabbricati e terreni. Né si è andati a spulciare il libro paghe e contributi della sua società per accertare se i casi di lavoro nero siano solo quelli emersi o se invece si trattasse di una consuetudine della ditta. Siccome il destino è beffardo, sotto la lente di chi sta accertando i fatti c'è anche una delle cinque stelle dei Cinque Stelle, quella che rappresenta l'ambiente, il cui rispetto è scritto nello statuto del movimento, «va tutelato in ogni sua forma come bene unico e fondamentale per la vita anche per le generazioni future». Precetto che i Di Maio non avrebbero rispettato accatastando, in un terreno di loro proprietà, rifiuti e scarti dell'attività edilizia che avrebbero dovuto essere invece smaltiti a norma di legge in quanto pericolosi per l'ambiente. Luigi Di Maio dice che al più presto uscirà dalla società di famiglia, come se questo potesse in qualche modo salvargli la faccia. A noi il suo destino poco importa, anzi gli auguriamo di uscire indenne da possibili grane giudiziarie. Quello che questa vicenda insegna è l'infondatezza della sbandierata superiorità morale dei Cinquestelle, della loro «diversità genetica» rispetto a tutti gli altri, come ha sostenuto il mitico ministro Toninelli in un memorabile Porta a Porta. La verità ovvia è che parliamo di uomini che difficilmente supererebbero come ognuno di noi un accurato test di verginità. Con una aggravante: oltre che peccatori comuni sono per di più arroganti e incapaci di amministrare e governare. Per questo, più che per gli abusi edilizi, sono davvero pericolosi.

Chi è davvero Luigi Di Maio, spiegato bene dal suo biografo, scrive Francesco Prisco l'1 aprile 2018 su Il Sole 24 ore. Domenica 24 maggio 2009. A Pomigliano d’Arco, città dell’hinterland napoletano a grande tradizione industriale, tra le alterne vicende degli stabilimenti Fiat e Alenia, arriva l’uscente assessore regionale alle Attività produttive Andrea Cozzolino, «colonnello» del Pd campano e delfino del governatore Antonio Bassolino. Il comizio sarebbe un plebiscito se non fosse per l’azione disturbatrice di due ragazzi poco più che ventenni che incalzano il politico di lungo corso con domande trabocchetto su temi quali onestà e questione morale. Domande cui Cozzolino, da politico di lungo corso, non risponde. Finisce che i ragazzi vengono allontanati con modi piuttosto spicci dai militanti democrat ma uno dei due appare piuttosto rigido nell’esercizio della sua resistenza passiva. Ha 22 anni, carnagione di colorito scuro, indossa un paio di jeans scambiati e una Polo Ralph Lauren azzurra che celebra la Nazionale italiana di calcio campione del mondo in carica, con sopra il numero 3 di Fabio Grosso. «Cozzolino non ci ha risposto», si ostina a dire a chi lo mette alla porta. «Cozzolino ci deve rispondere». Si chiama Luigi Di Maio e nel 2009 nessuno, in quella sala popolata da più di una vecchia volpe della politica vesuviana, si sarebbe aspettato che nove anni più tardi sarebbe diventato il candidato premier del primo partito italiano. «E la stessa ostinazione che Luigi mise in quella resistenza passiva al comizio Pd, la stessa caparbietà nel non scendere a compromessi con i “padroni di casa”, la stessa intransigenza ideologica dalla faccia pulita la stiamo vedendo e la vedremo in questi giorni di trattative per la formazione del nuovo governo». A parlare è Paolo Picone, 47 anni, pomiglianese doc come lo stesso Di Maio, giornalista e unico biografo del giovane leader pentastellato «ma biografo not embedded», ci tiene a sottolineare, «perché non sono un militante Cinque Stelle, conosco bene Luigi ma conservo gelosamente la mia indipendenza, non mi interessava fare una biografia autorizzata». Uscirà a metà aprile Di Maio il giovane - Vita, opere e missione del politico più votato d’Italia (Aliberti, euro 12, pp. 150), edizione riveduta e corretta (alla luce dei risultati elettorali del 4 marzo) del libro che Picone un anno fa ha dedicato al «Gigino Nazionale». Biografia not embedded, ok, ma parecchio «informata, informata dei fatti», se consideriamo che l’autore, concittadino di Di Maio, ha frequentato gli stessi posti e la stessa gente, a cominciare dal locale Liceo Classico Imbriani. Per dire: nel 2007, quando a Pomigliano il Grillo-pensiero era poco più che una suggestione, Picone organizzò il primo Meetup cittadino, assistendo all’esordio politico del candidato premier M5S.

La presa del potere da parte di Luigi primo da Pomigliano d’Arco. E veniamo al dunque: quando partiranno le consultazioni con il Quirinale per il nuovo esecutivo, come si è muoverà Di Maio secondo chi lo conosce bene? Picone non ha dubbi: «Salirà al Colle e chiederà a Mattarella il mandato esplorativo per la formazione del governo. Stavolta non assisteremo al film dell’elezione dei presidenti delle Camere, perché Luigi non arretrerà di un centimetro: i Cinque Stelle non appoggeranno un esecutivo con un presidente del Consiglio diverso da Di Maio. Si cercheranno convergenze con la Lega rispetto ai 20 punti proposti dal M5S in campagna elettorale, reddito di cittadinanza in primis, magari ci saranno Salvini vicepremier, qualche ministero importante affidato al Carroccio, significative aperture al programma leghista su temi quali l’immigrazione. Magari si potrebbe guardare anche altrove, a Leu per un appoggio esterno, ma scordiamoci il sostegno pentastellato a un governo guidato da Forza Italia. Parlerà con tutti, tranne che con Berlusconi». E se il tentativo dovesse naufragare? «A quel punto - continua Picone - i Cinque Stelle si chiamerebbero fuori dai giochi. Mattarella incentiva la formazione di un governo del presidente? Di Maio è pronto a una guerra di logoramento con tutto il peso che può avere all’opposizione il primo partito d’Italia». Della serie: volete governare senza di noi? Accomodatevi e tanti auguri.

Gigino e i quattro pregiudizi. Possibile che nel Paese della famigerata Casta, con tutti i politici navigati che ci sono a giro, nessuno riesca a «mettere la museruola» a Gigino? Nessuno lo seduce? Nessuno è capace di ricondurlo a più miti consigli? «Il caso Di Maio», secondo il giornalista campano, «è forse il più clamoroso caso di sottovalutazione politica della storia recente». Il politico, secondo il suo biografo, sarebbe vittima di quattro pregiudizi: «È giovane, non ha la laurea, vendeva bibite al San Paolo, ha fatto il webmaster. Il primo pregiudizio la dice lunga su come siamo messi in Italia: essere giovani qui è quasi una colpa, un peccato originale. Sul secondo punto si potrebbero scomodare numerosissimi protagonisti assoluti della prima e della seconda Repubblica che una laurea non hanno mai provato a prendersela. Di Maio ha interrotto gli studi di giurisprudenza con l’elezione in Parlamento ma, proprio perché è ancora giovane, ci sta benissimo che, archiviati i due mandati parlamentari, torni sui banchi». Gli altri due punti sarebbero riconducibili al tentativo costante di ridurre il politico alla caricatura di sé stesso. «Quando lo scorso autunno - ricorda Picone - si affermò nelle consultazioni online tra i militanti come candidato premier, lo sport nazionale era scherzarci su: Di Maio concorre contro sette nani, si disse, lo sfidano sette carneadi, è tutta una farsa. Si alludeva al fatto che nessuno dei big pentastellati gli si fosse controproposto. Tutti alle prese con la caricatura, nessuno con un serio tentativo di comprensione di un personaggio che viene da lontano. E che, contrariamente a quello che si può pensare, quando serve studia e impara in fretta».

Uno smanettone che «impara in fretta». Il giovane Di Maio, rimarca Picone, «è figlio della buona borghesia pomiglianese. Suo padre è geometra e titolare di un’impresa edile, con trascorsi nel Movimento Sociale e in Alleanza Nazionale». A Pomigliano la politica la masticano un po’ tutti: veniva da queste terre anche Giovanni Leone, il presidente della Repubblica dello scandalo Lockheed, quello che, quando fu eletto, pare abbia salutato così la moglie a telefono: «Vittoria, t’aggio fatto regina». Istantanee del secolo scorso, quando la politica si faceva offline. La madre di Di Maio è «professoressa di italiano e latino, preside all’Istituto comprensivo di Cercola. È vero», continua il giornalista, «la cosa può sorprendere, considerando che Luigi soffre di “congiuntivite”, ma il suo, per come la vedo io, è più un problema di consecutio temporum che di scarsa dimestichezza con l’italiano». Alla faccia dell’esperienza da steward allo stadio San Paolo, il politico grillino «non si interessa minimamente al calcio. Al contrario, è un grande appassionato di Formula 1, tifoso competente della scuderia Ferrari». Al liceo «non era certo un secchione ma, quando puntava un obiettivo, riusciva a raggiungerlo. I professori lo ricordano come uno che lavorava sodo». Proprio all’epoca nacque la sua grande passione per i computer. Un Di Maio «smanettone», insomma, «punto di riferimento di compagni e insegnanti che, quando hanno problemi con il pc, a lui si rivolgono perché li risolva». Soddisfazione garantita.

Ti stai sbagliando di certo perché... non è «Gigino». Inevitabile girare al biografo una domanda che un po’ tutti gli osservatori politici a un certo punto si sono posti: perché proprio Di Maio e non Alessandro Di Battista o magari Roberto Fico? «La persona giusta a cui fare questa domanda», secondo Picone, «sarebbe stato Gianroberto Casaleggio. Aveva una grande stima di Luigi, era consapevole che, più di tutte le altre prime linee pentastellate, era dotato di un profilo istituzionale, quello che serviva per il definitivo salto di qualità del Movimento». Acquisito dove? «Nell’esperienza da vicepresidente della Camera. È lì che Di Maio cambia, lì cresce, si fa talvolta apprezzare anche dai parlamentari di altro colore politico». Come? «Studiando quando serviva e imparando in fretta. È un caso che proprio lui sia stato mandato all’estero dal partito come testimonial dei Cinque Stelle? Non direi». Qualcuno ha detto che Di Maio, con quel bel doppiopetto grigio che sfoggia a Montecitorio, è intimamente democristiano, «se avere un profilo istituzionale significa essere democristiani, - secondo Picone - allora Luigi lo è». Ma si uscirà mai dai pregiudizi anti Gigino? L’autore di Di Maio il giovane ribalta il discorso: «Lo stesso nomignolo Gigino, talvolta addirittura scritto con due “g”, corrisponde sempre al tentativo di ridurre un politico vero a macchietta. Per carità: si tratta di un diminutivo molto popolare al Sud, Napoli compresa, ma nessuno, a casa Di Maio o in giro per Pomigliano, si sognerebbe mai di chiamare così Luigi». E mentre l’opinione pubblica giocava a chiamarlo Gigino, Luigi il giovane «ha messo in fila Renzi, Berlusconi e Salvini, come aveva fatto con i sette nani delle parlamentarie. È andata a finire che adesso è lui quello che dà le carte». Altro che Gigino: questo, semmai, è Luigi primo da Pomigliano d’Arco.

Vizietti grillini: i due Di Battista non pagano debiti e lavoratori. I guai aziendali del dirigente M5s, socio di maggioranza con papà Vittorio della ditta di famiglia Di.Bi.Tec srl. Spettano oltre 400mila euro a lavoratori, fornitori, Inps e banche, scrive Carmelo Caruso, Lunedì 17/12/2018, su "Il Giornale". Cinquantatremila e 370 euro di debiti verso i dipendenti; 151.578 euro di debiti verso le banche; 135.373 euro di debiti verso i fornitori; 60.177 euro di debiti tributari. È quanto emerge dalla visura camerale della Di.Bi Tec. S.r.l., società della famiglia di Alessandro Di Battista, che è uno dei due soci di maggioranza. I dati si riferiscono all'ultimo bilancio presentato e dunque consultabile attraverso un collegamento al registro delle imprese. Costituita il 20/09/2001 dal padre di Alessandro, Vittorio Di Battista (che è presidente del consiglio di amministrazione), la Di.Bi Tec ha sede a Roma, in via Latina numero 20, e ha come oggetto sociale «la produzione industriale, la lavorazione di manufatti in ceramica e affini, di apparecchi igienico sanitari». Tra i prodotti più commercializzati c'è «Sanisplit», una cassetta per la triturazione ed evacuazione delle acque reflue. La società ha un capitale sociale di 15mila euro e a lavorarci sono due dipendenti, almeno al 30/06/2018. I soci della Di.Bi Tec s.r.l sono cinque e si sono così suddivisi le quote: Alessandro Di Battista (30%), Maria Teresa Di Battista (30%), Vittorio Di Battista (20%), Leonardo Salvini (15%), Carmela Traversari (5%). Lo stesso Alessandro, in maniera trasparente, ha in passato dichiarato, durante il mandato parlamentare, di essere membro della società fondata dal sanguigno padre, che lo scorso maggio consigliava, e scriveva, di assaltare il Quirinale come fecero i parigini con la Bastiglia: «Il Quirinale è più di una Bastiglia, ha quadri, arazzi, tappeti e statue. Se il popolo incazzato dovesse assaltarlo, altro che mattoni». La società ha presentato l'ultimo bilancio nel 2016. A mancare è il bilancio del 2017. Disattendendo quanto disciplinato dal codice civile, una delle ragioni della mancata presentazione secondo gli analisti - potrebbe essere la sofferenza della società che in passato aveva raggiunto ottimi risultati in termini di fatturato, ma che oggi è scesa a 426.352 euro. Negli ultimi esercizi, i numeri dimostrano che la Di.Bi Tec è gravata da importanti debiti verso le banche oltre che verso i fornitori. La Di.Bi Tec s.r.l. deve alle banche 151.578 euro mentre i debiti verso i fornitori sono 135.373 euro. Potrebbero essere debiti di un'azienda che tenta coraggiosamente di sconfiggere la crisi proteggendo i dipendenti, ma dalla visura camerale sono proprio i dipendenti i soggetti che vantano dalla famiglia Di Battista importanti crediti. I debiti verso i dipendenti ammontano infatti, nell'ultimo esercizio, a 53.370 e sono cronici. Ad attestarlo è sempre la visura alla voce «Altri debiti». L'anno precedente (2015) il debito era di 38.238 euro. Insomma, in un anno la voce è aumentata nonostante si sia ridotto di quasi il 20% il costo del personale. La Di.Bi Tec S.r.l. è debitrice anche nei confronti dello Stato. A pesare ci sono infatti i mancati versamenti tributari. Si tratta di 60.177 euro (in cui la parte del leone lo fa il debito Iva) e anche questi si sono innalzati rispetto all'esercizio precedente, quando a bilancio erano iscritti 40.550 euro. Oltre ai debiti tributari, la società della famiglia Di Battista ha debiti anche verso «gli istituti di previdenza e sicurezza sociale». I debiti verso l'Inps sono di 7.715 euro e questi - a conferma della buonafede con cui si estrapolano i dati sono leggermente diminuiti: nell'esercizio precedente erano di 8.244 euro. I revisori dei conti, visionati i dati, registrano che la società ha ridotte dimensioni (non ha dirigenti). Un debito di 53.370 euro verso i dipendenti è spia di ritardi notevoli nei pagamenti. Nonostante numeri così compromessi, in realtà la Di.bi Tec srl possiede dei titoli bancari «Carivit» pari a 116.227 euro. In pratica, titoli che potrebbero dare sollievo e ripianare i debiti, ma che, a leggere i bilanci, si è preferito accantonare anziché utilizzare per estinguere e risanare. Lontano dall'Italia, dove intende rientrare prima di Natale, Alessandro Di Battista, solo poche settimane fa, difese il padre di Luigi Di Maio e si scagliò in maniera feroce contro i genitori di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi. Oggi, più che mai, si devono riportare le sue frasi: «Renzi e la Boschi hanno la faccia come il culo».

Dagli yacht alle ceramiche quegli affari che non tornano. L'azienda dei Di Battista si presenta come leader nel settore sanitari. Ma gli operatori non la conoscono, scrive Carmelo Caruso, Martedì 18/12/2018, su "Il Giornale". Ci sono i debiti con i fornitori, ci sono i debiti con le banche ma ci sono soprattutto i debiti con l'Inps, con lo Stato. E non solo. La Di Bi Tec srl, società che fa riferimento alla famiglia di Alessandro Di Battista - di cui, va ricordato, Alessandro è socio di maggioranza nonché membro del Cda - è debitrice anche nei confronti dell'Inail, l'istituto che assicura i lavoratori dagli infortuni (1.753 euro). È quanto ha potuto documentare in un'inchiesta pubblicata ieri il Giornale e che prosegue oggi. Impegnata nella produzione dei sanitari, la Di Bi Tec si presenta sul proprio sito come una «delle prime aziende in Italia nella produzione e nella distribuzione di accessori per il bagno». La sede legale si trova a Roma in via Latina 20, mentre lo stabilimento è situato a Fabrica di Roma in provincia di Viterbo, in uno dei più antichi distretti della ceramica. Ma di cosa si occupa la Di Bi Tec? La risposta è sanitari «in porcellana di primissima qualità» anche se il prodotto di cui va più soddisfatta è «Sanisplit», una scatola intelligente che tritura i residui solidi. Per garantirne il funzionamento, la Di Bi Tec ha perfino predisposto un servizio telefonico nazionale. Ma è a livello territoriale che è sconosciuta del tutto. Chiamando i ceramisti e i rivenditori del viterbese, sono numerosi quelli che non si forniscono dalla Di Bi Tec e che neppure la conoscono. La Ceramica Flaminia, un noto rivenditore con sede a Civita Castellana, dichiara di scoprire solo adesso questa azienda: «Sinceramente non sapevo che i Di Battista operassero in questo settore». Neppure il magazziniere della I.L.C.A, con sede a Fabrica di Roma, conosce i prodotti della Di.Bi Tec. Eppure in quei luoghi, Alessandro Di Battista è di casa. Il 4 novembre del 2014, organizzò a Civita Castellana un comizio per difendere i ceramisti. Alcuni giornali scrissero che l'appuntamento fosse di fronte alla sua azienda. Di Battista andò invece a comiziare alla Ceramica Esedra srl di Civita Castellana. Neppure la Ceramica Civita Castellana si fornisce dai Di Battista ma ne conosce in maniera vaga il «Sanisplit»: «Credo risponde la proprietaria - serva a separare le acque reflue ma non so che mercato la Di.Bi Tec copra e se sia più attiva all'estero che in Italia». In realtà, in un articolo per il magazine Vox Fabbrica fu Vittorio Di Battista a restituire le cifre e raccontare la sua azienda. L'articolo non è datato ma dal contenuto sembra riferirsi al 2012. Ecco cosa si scriveva della Di.Bi Tec: «Siamo specializzati nella produzione e nella distribuzione di accessori tecnologici per il bagno, con un fatturato annuo di 3 milioni di euro». Al giornalista che lo intervistava, Di Battista spiegava che la crisi si era fatta sentire nel 2011: «Dallo scorso novembre registriamo un lieve calo nelle vendite e un parallelo aumento di insoluti. Poiché non siamo esposti con le banche ma operiamo in totale autofinanziamento». Oggi i Di Battista sono esposti con le banche per 151.578 euro. Ma cosa possedevano i Di Battista prima della Di.Bi Tec? Anche in questo caso il protagonista è Alessandro di Battista più del padre Vittorio, a prova che la sua è stata, costantemente, una presenza importante, se non di indirizzo, negli affari di famiglia. Nel 1998, insieme a Maria Teresa Di Battista, Alessandro ha infatti acquistato quote di una società attiva nel comparto dei sanitari per yacht. È la Tecma Srl e le quote appartenevano a Cristiano De Santis e Marco Giovannini. A distanza di pochi anni, nel 2001, le stesse quote di Tecma srl, acquistate da Alessandro Di Battista e da Maria Teresa Di Battista, vengono cedute nuovamente a De Santis e Giovannini. Nel 2004, De Santis e Giovannini cederanno le loro quote alla Thetford. Si tratta di una società olandese.

Alessandro Di Battista demolito da Alessandro Sallusti: "Ecco quanto ha guadagnato, paga e basta minacce", scrive il 18 Dicembre 2018 Libero Quotidiano". Alle difficoltà dell'azienda di famiglia, in ritardo col pagamento dei debiti e ai dipendenti, Alessandro Di Battista ha risposto con le minacce, affermando di essere pronto a tornare ad Arcore. E Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale che ha sollevato la vicenda, risponde al grillino dalle colonne del quotidiano: "Da bullo qual è - scrive -, Di Battista però va oltre e invece che scusarsi con i creditori insulta e minaccia noi e - siccome il senso del ridicolo non ha limiti - Silvio Berlusconi, che con questa storia non c'entra assolutamente nulla". Dunque, Sallusti ricorda all'arrogante Di Battista che "non siamo noi che uccidiamo imprese e lavoro, ma lui e le sue politiche economiche del cavolo, a meno che lo scopo ultimo del reddito di cittadinanza non fosse quello di pagare a noi i suoi dipendenti (e magari anche quelli di papà Di Maio), da mesi senza stipendio". Il direttore, nella conclusione dell'articolo, rimarca come "un leader politico non ha privacy né può - lo ha sostenuto lui - distinguere tra morale pubblica e privata. Per cui, invece di minacciare e ricattare i giornali, si rimbocchi le maniche e paghi, in quota parte, i suoi debiti a chi lavora, alle odiate banche e al fisco". Il punto, conclude Sallusti, è che "con quello che ha guadagnato in cinque anni da parlamentare (circa 700mila euro) i soldi non dovrebbero mancargli". La cifra, in effetti, è impressionante. Ora con quale nuova minaccia risponderà l'improponibile Di Battista, dal suo esilio dorato in Sudamerica?

Di Battista e la sua azienda, Sallusti: "Il bullo ci minaccia". E' scontro aperto tra Di Battista e Il Giornale di Sallusti dopo l'articolo sulle difficoltà finanziarie dell'azienda di famiglia del grillino, scrive Askanews il 18-12-2018. E’ scontro aperto tra Alessandro Di Battista e Il Giornale. Oggi il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti insiste sui guai dell’azienda di famiglia dell’esponente grillino aprendo con il titolo “Di Battista ammette i debiti ma non paga e ci minaccia”. E in un editoriale Sallusti scrive: “Alessandro Di Battista, leader grillino in esilio volontario, conferma le difficoltà – svelate ieri da questo Giornale – in cui si trova l’azienda di famiglia di cui è socio al trenta per cento, un’azienda in forte ritardo con i pagamenti ai dipendenti e piena di debiti con fornitori, banche e agenzie delle entrate. Da bullo qual è, Di Battista però va oltre e invece che scusarsi con i creditori insulta e minaccia noi e – siccome il senso del ridicolo non ha limiti – Silvio Berlusconi, che con questa storia non c’entra assolutamente nulla. ‘Fermatevi o vi faccio un mazzo tanto’, dice in sintesi Di Battista. Il quale, toccato sul vivo, dimentica le sue parole d’ordine sputate in faccia negli ultimi anni a chiunque gli passasse a tiro, politico e no: ‘Trasparenza e onestà, onestà e trasparenza’”.

Lo scoop del Giornale sull’azienda di famiglia di Di Battista. Nell’articolo del Giornale pubblicato ieri si parla di “53.370 euro di debiti verso i dipendenti; 151.578 euro di debiti verso le banche; 135.373 euro di debiti verso i fornitori; 60.177 euro di debiti tributari” secondo “quanto emerge dalla visura camerale della Di.Bi Tec. S.r.l., società della famiglia di Alessandro Di Battista, che è uno dei due soci di maggioranza”. La notizia è stata subito rilanciata dall’ex segretario del Pd Matteo Renzi, il quale non ha perso l’occasione per un commento sferzante: “Ricapitolando. Fico con la colf in nero in casa. Di Maio prestanome di un`azienda che scappa dal fisco. Di Battista che semina debiti come fossero post. Ma con quale faccia questi attaccano noi che su queste cose abbiamo sempre querelato per diffamazione (e spesso vinto)? Ma con quale faccia parlano di onestà? Ma con quale faccia ci fanno la morale?”.

La difesa di Di Battista su Facebook. Anche Di Battista non ha esitato a replicare al Giornale con un post su Facebook: “Ebbene sì, la nostra azienda va avanti, con enormi difficoltà” scrive il grillino. “Mio padre, ad oltre 70 anni, lavora come un matto. Il carico fiscale è enorme. L`azienda ha avuto difficoltà a pagare puntualmente i 3 dipendenti (tra cui mia sorella). Ciononostante l`azienda tira avanti, così come tante altre, sperando che i colpevoli, che oltretutto oggi provano, in modo scomposto, a fare i carnefici, vengano cacciati, una volta per tutte, dalle Istituzioni”.  “Vi dico una cosa: Grazie – prosegue Di Battista -. Pensate di indebolirmi ma ottenete il contrario. Oggi, grazie a voi, ogni piccolo imprenditore italiano sa che un ex-parlamentare, quando era in Parlamento, non si è occupato dell’azienda di famiglia”. Nel post Di Battista ribatte poi a Renzi, andandoci giù pesante: “Caro Matteo, so che ti brucia ancora che uno come me, senza guru della comunicazione, senza TV dalla sua parte, solo con un motorino, ti ha fatto il ‘culo’ al referendum costituzionale. Cerca però di essere più discreto, così si nota troppo”. Il pentastellato ne ha anche per Sallusti e Il Giornale: “Se provocate mi tocca tornare ad Arcore sotto la villa del vostro padrone. Stavolta però per leggere dei pezzi della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia. L’avete voluto voi evidentemente”. E ancora: “Vi ricordate quando B. si burlò di me dicendo, per l’appunto, che non avevo studiato, che ero fuori corso etc etc. L’ho querelato e lui alla fine ha accettato di scrivere la letterina che vi allego qui sotto (e pubblica su fb la lettera firmata Silvio Berlusconi, ndr). Quando torno me la stampo, ci faccio una gigantografia e l’attacco al muro tra il diploma di laurea e quello del master. Ovviamente dopo averne mandata una copia a Sallusti chiedendogli, come sempre, di obbedire al suo padrone e di chiamarmi ‘Illustre Signor Dottor Di Battista'”.

La polemica continua. Intanto la polemica continua. Su Twitter i parlamentari Pd hanno lanciato l’hashtag #dibbafaccisapere. La senatrice Pd Laura Garavini ha scritto: “I Grillini chiedono onestà a tutti tranne che ai loro genitori. Dopo mamma Taverna e papà Di Maio, anche il padre di Di Battista sfrutta i lavoratori. Quelli del Cambiamento #dibbafaccisapere”.  Il senatore Francesco Bonifazi ha aggiunto: “Di Battista, invece di farci la morale dalle Americhe appollaiato su un’amaca, torna in Italia e paga i debiti della tua azienda. Dipendenti, fornitori e Fisco ti aspettano. I piccoli imprenditori italiani vanno avanti tirando la cinghia, non facendosi vacanze spesate ai Caraibi”.

Se la senatrice del Movimento 5 Stelle non paga il condominio: debiti per 45mila euro. Alla 5Stelle Felicia Gaudiano vengono attribuite condominiali non saldate per 45mila euro, scrive Franco Grilli, Lunedì 17/12/2018, su "Il Giornale". Quarantacinque mila euro di spese condominiali non saldate: Felicia Gaudiano, senatrice del Movimento 5 Stelle ha un contenzioso aperto con i vicini e una causa al tribunale di Bologna. La parlamentare grillina morosa, che è anche membro della Commissione di Vigilanza della Rai, è proprietaria infatti di un appartamento nel quartiere popolare della Cirenaica. Il motivo del debito? Un lascito contestato tra parenti per via di un testamento non troppo gradito dagli eredi. Insomma, per anni la Gaudiano ha avuto il possesso dell'immobile felsineo, che però non aveva un proprietario (o un inquilino) stabile in grado di coprire le spese condominiali. Che negli anni si sono accumulate fino ad arrivare, come riporta il Corriere, alla bellezza di 45mila euro. Non poco, ecco. Come si legge, i condòmini tramite l'avvocato hanno ottenuto un decreto ingiuntivo di 25mila euro, al quale però la pentastellata si è opposta in tribunale. La senatrice, dunque, ha offerto 25mila euro, poi 20 e infine 30, da pagare in comode rate mensili da 400 euro: i condòmini avrebbero recuperato il credito praticamente in dieci anni. Troppi. Il condominio, così, ha rifiuto l’offerta, attivandosi per il pignoramento dell'appartamento e dando l'aut-aut: 20mila euro entro il 31 dicembre 2018 e altri 40 entro il 2019. E Felicia Gaudiano ha finalmente accettato di saldare i debiti.

Abusi edilizi, debiti fiscali e case popolari: l'anno nero dei genitori dei leader grillini. Di Maio e Di Battista nei guai per i padri, la Taverna per l'alloggio della madre, scrive Pasquale Napolitano, Domenica 23/12/2018 su "Il Giornale". La maledizione dei padri travolge i figli nel M5s. Dopo Luigi Di Maio e Paola Taverna, tocca ad Alessandro Di Battista. Il leader del futuro (non troppo lontano) non è ancora sbarcato in Italia, dopo la lunga vacanza in Sudamerica, ma già è in preda a una crisi di nervi perché dovrà spiegare ai militanti i tanti silenzi sui guai finanziari della ditta di cui è socio al 30%: debiti con il Fisco e con i lavoratori. Una brutta storia, che il Giornale ha raccontato in un'inchiesta e che mette a nudo la fragilità dell'immagine del politico immacolato e trasparente che il Dibba si è costruita nei cinque anni in Parlamento. La prima risposta è stato il classifico fallo di reazione: Di Battista ha attaccato e insultato il Giornale, confessando però i debiti con i lavoratori e le pendenze con il Fisco della ditta di cui è azionista. Ora per suggellare il comune destino, Di Maio e Di Battista trascorreranno insieme le festività natalizie. Più che parlare di strategie e prospettive politiche, dovranno confrontarsi, magari, sulla difesa da dare in pasto ai militanti che invocano chiarezza. Anche perché, i due leader grillini non possono continuare a far finta di nulla. Sia il Dibba che il vicepremier sono stati (Di Battista lo è ancora) soci delle società di famiglia. Sarebbe un autogol, che confermerebbe di aver avuto semplicemente il ruolo di prestanome. Le ambizioni dei figli rischiano, dunque, di essere affossate dai pasticci dei genitori. Le due vicende sono molto analoghe. Quella del vicepremier si sviluppa in provincia di Napoli, tra Mariglianella e Pomigliano d'Arco: l'Ardima costruzione è una Srl di cui Di Maio è socio al 50 %. È nata dopo un passaggio di proprietà della vecchia ditta di famiglia dalla madre ai figli. Il Giornale in due inchieste ha fatto emergere circostanze sospette. La prima, i debiti di Antonio Di Maio: il papà imprenditore ha una pendenza con il Fisco. 176 mila euro di debiti con l'ex Equitalia. Contenzioso che nel 2010 ha fatto scattare un'ipoteca su due terreni nel Comune di Mariglianella, a un tiro di schioppo da Pomigliano D'Arco. Il sospetto, che per ora resta tale, è pesantissimo: Di Maio senior si è liberato della società, sommersa di debiti con lo Stato, per non pagare il conto con il Fisco? E in questo caso il ministro del Lavoro si è prestato all'operazione? C'è poi una seconda storia, sempre tirata fuori dal Giornale: sui terreni di Mariglianella, su cui Equitalia ha iscritto l'ipoteca, sono stati costruiti quattro immobili che risultano sconosciuti sia per il Comune che per l'ex catasto. Abusivi? Per il Comune sì. Ora Di Maio senior sta provando a impedire l'abbattimento. Nel frattempo, il genitore del vicepremier è stato indagato dalla Procura di Nola per deposito incontrollato di rifiuti: indagine scattata dopo il blitz della polizia municipale nei terreni di Mariglianella. Nel caso del Dibba non c'è alcuna inchiesta della Procura ma passaggi molto simili al fratello gemello: c'è l'ipoteca sui beni di proprietà di Vittorio di Battista nel comune di Civita Castellana, in provincia di Viterbo: il debito con il Fisco è pari a 195.448 euro. C'è una società di famiglia, la DiBi Tec, specializzata nella produzione di ceramiche e apparecchi igienico sanitari, di cui il Dibba è socio al 30 %: società che, come nel caso di Di Maio, ha debiti con Fisco. Ma non c'è due senza tre: ai più famosi Di Maio e Di Battista, si accorda la senatrice Paola Taverna e lo storia dello sfratto intimato dal Comune di Roma alla mamma. Maledette famiglie.

E anche Grillo non rinuncia alla (odiata) prescrizione. Dopo Travaglio, anche il fondatore del Movimento 5 Stelle, scrive Simona Musco il 6 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". Dopo Travaglio, anche Beppe Grillo viene salvato dalla prescrizione. La corte di appello di Torino ha dichiarato infatti estinto il reato per il quale il comico genovese era stato condannato nel 2014 a quattro mesi di reclusione senza condizionale. Grillo era finito a processo per aver partecipato a dicembre 2010 a una manifestazione in Val di Susa contro la Tav, violando i sigilli apposti dalle autorità a una baita nell’area del cantiere della Torino- Lione. Una condanna che avrebbe dovuto scontare, dal momento che per precedenti condanne Grillo non avrebbe potuto usufruire della condizionale. Ma il reato si è estinto per intervenuta prescrizione, essendo il giudizio di appello arrivato solo quattro anni e mezzo dopo la condanna di primo grado e otto anni dopo la contestazione del reato. «Non sussistendo i presupposti per una pronuncia assolutoria per motivi di merito ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale – si legge nella sentenza – dovendosi sul punto richiamare le argomentazioni svolte nella sentenza appellata, si impone, dato atto del parere favorevole espresso dal procuratore generale, la pronuncia di estinzione per intervenuta prescrizione». Il processo si è chiuso con 13 assoluzioni, a vario titolo, «per non aver commesso il fatto» o «perché il fatto non costituisce reato», mentre sono state 11 le sentenze di condanna, tra le quali quella di Grillo, nulle in quanto è trascorso il termine massimo di sette anni e sei mesi dal fatto. Il fondatore del Movimento 5 Stelle, dunque, è stato “graziato” proprio grazie alla norma che il suo partito sta tentando di abolire, con l’inserimento, nel decreto anticorruzione, della sospensione dei termini al raggiungimento della sentenza di primo grado. Se, dunque, così fosse stato, il procedimento a carico di Grillo sarebbe arrivato fino in Cassazione, terminando dopo molti anni dalla commissione del reato. Un paradosso nel quale era incappato anche un altro grande sostenitore dell’abolizione della prescrizione, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, come svelato qualche giorno fa dal Dubbio. I legali del giornalista, infatti, avevano chiesto l’annullamento di una sentenza di condanna per diffamazione, per un articolo pubblicato su l’Espresso, proprio sfruttando l’ «intervenuta prescrizione». Ricorso che la Cassazione ha però ritenuto infondato. Il fatto ha suscitato l’ironia del deputato di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto. «A Di Maio & soci, che tanto si sono spesi nelle scorse settimane per far passare l’equivalenza ideologica tra prescrizione e colpevolezza, chiediamo: ora che Beppe Grillo vede prescritto un reato che gli era stato contestato, entra di diritto nella lista dei “furbetti della prescrizione” che sfuggono alla giustizia? ha affermato – Pur trattandosi di un avversario politico, noi restiamo coerenti: Beppe Grillo è un cittadino che ha goduto dell’applicazione di un diritto costituzionalmente tutelato, quello alla ragionevole durata del processo. Ma questo caso è la prova provata di come il giustizialismo grillino, così carico di paradossi, finisca per rivelarsi un boomerang».

Grillo: “Siamo moralisti del cazzo e ne andiamo fieri. Via i ladri, votiamo subito”. Il leader del Movimento 5 Stelle interviene sul blog a sostegno dei suoi deputati dopo la bagarre alla Camera. Difende le scelte dei suoi e attacca gli altri parlamentari: "Sembrate tonni dentro una tonnara, sapete che il vostro tempo è finito. E' questione di mesi", scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 settembre 2013. “Siamo fieri di essere moralisti del cazzo e soprattutto di starvi sul cazzo”. Il leader del Movimento 5 Stelle interviene sul blog per sostenere i suoi deputati dopo la bagarre alla Camera. Poche ore prima, gli eletti a 5 Stelle avevano protestato con manifesti tricolori e mani in alto con la scritta “No deroga art.138”. A quel punto gli altri parlamentari avevano cominciato a gridare “buffoni, buffoni” e il deputato grillino Alessandro Di Battista era stato ripreso da Laura Boldrini per aver detto: “Il Pd è peggio del Pdl”. “Meraviglioso”, ha commentato Grillo su Twitter, “la presidente della Camera ha detto che quella frase è un’offesa”. Così il leader a 5 Stelle ha deciso di scrivere il post sul blog dove evoca tra le altre cose il ritorno alle urne al più presto: “Il vostro tempo è finito, è questione di mesi e voi lo sapete, per questo reagite come un qualunque ladruncolo sorpreso con le mani nel sacco. Ieri sembravate tonni dentro una tonnara“. E’ il messaggio di Beppe Grillo ai parlamentari degli altri partiti. “Ieri, alla Camera alla richiesta del M5S di espellere i delinquenti, si è levato alto il grido Moralisti del cazzo!. I nominati del pdl e del pdmenoelle si sono indignati. E’ un paradosso che invece di accompagnare alla porta Berlusconi, un delinquente condannato in via definitiva, i nominati dai capibastone del pdmenoelle e dal truffatore fiscale, volessero buttare fuori noi, i cosiddetti moralisti (del cazzo). Noi siamo i moralisti del cazzo, quelli che hanno rifiutato i rimborsi elettorali, che si sono tagliati gli stipendi, che hanno rinunciato alle auto blu – rivendica Grillo – Noi siamo i moralisti del cazzo che non vogliono condannati in Parlamento, che mantengono la parola data agli elettori, gli unici a votare alla Camera per la decadenza del Porcellum. Noi siamo i moralisti del cazzo che vogliono restituire al Parlamento il suo ruolo che è espropriato dal governo con i decreti legge. Noi siamo i moralisti del cazzo e ne siamo fieri – conclude Grillo – E’ vero, siamo moralisti del cazzo e vogliamo moralizzare la vita pubblica, il Parlamento, ogni Comune, ogni istituzione. Al voto subito. Fuori i delinquenti dal Parlamento!”.

La Annunziata contro Di Maio: "Violento con Boschi e Renzi, ma di tuo padre non sapevi?" La giornalista si scaglia contro Luigi Di Maio e lo accusa di doppiopesismo riguardo lo scandalo che ha colpito il padre, scrive Agostino Corneli, Mercoledì 28/11/2018, su "Il Giornale". Lucia Annunziata, ospite di Giovanni Florisi a DiMrtedì, in onda su La 7, colpisce duro Luigi Di Maio. "La questione dell'onestà non è una questione di volumi: si è disonesti solo a partire da una certa quota in poi?", chiede la conduttrice parlando dello scandalo sul padre del vice premier del Movimento 5 Stelle. "La campagna contro Maria Elena Boschi e Matteo Renzi è stata violenta e definitiva, ci avete fatto la campagna elettorale mentre lei si difende dicendo che non sapeva del lavoro a nero di suo padre. Come se questo quindi valesse meno. Ma lei che in questi anni ha corso per fare il premier non pensava di guardare dentro casa sua? Dentro i suoi affari di famiglia?", domanda la Annunziata a Di Maio. E l'idea è che adesso il capo politico dei pentastellati sia sotto assedio. E per Lucia Annunziata, che già a ottobre aveva scritto un editoriale al vetriolo su Di Maio sulle colonne dell'Huffington Post, non poteva esserci occasione migliore per affondare il colpo.

Sindaci, giudici e libertà, scrive l'11 novembre 2018 Lucia Annunziata direttore dell’Huffington Post. Articolo ripreso da Il Corriere del Giorno. Congratulazioni a Virginia, ai giudici e ai cittadini. La parola torna alla politica. Non vedo l’ora che Di Maio e Di Battista rispondano con libertà a quello che hanno promesso e non hanno fatto. E noi giornalisti “puttane” aspettiamo con impazienza la punizione. Congratulazioni alla sindaca Virginia Raggi per la sua assoluzione. È sempre una ottima notizia per i cittadini sapere di essere governati da un politico impeccabile. Congratulazioni anche ai giudici della Procura della Capitale perché la velocità e la equanimità del loro giudizio ha impedito di creare un nuovo percorso giudiziario di polemiche dentro questo paese che ne ha fin troppi. Una condanna avrebbe avviato una contesa politica inquinata dal più vecchio sospetto di ogni azione in Italia – l’uso della giustizia ad orologeria. A Roma, insomma, oggi si è affermato un principio di giustezza (oltre che di giustizia) in base al quale gli amministratori si giudicano per quello che fanno. Una buona notizia che libera un po’ tutti. Libera intanto Virginia Raggi. Senza il peso di questa inchiesta che ha certamente pesato sui suoi umori e sulle sue prospettive di vita politica, il sindaco oggi potrà dunque finalmente rispondere ai suoi cittadini, che, cocciuti loro, continuano a bestemmiare contro le buche, i disservizi, la pessima qualità di vita e la destabilizzazione strisciante della città. E per identico verso, la “liberazione” del Sindaco di Roma forse incoraggerà altri sindaci sotto assedio, come oggi nella città di Torino, o i tanti ministri che non hanno tenuto fede alle loro stesse promesse, a rispondere dei loro doveri e delle loro mancanze senza riversare su chi gliene chiede conto accuse di complotti, collusioni con le elite e il grande capitale. Borsette e cagnolini inclusi. Congratulazioni, dunque, anche a tutti i cittadini che a oggi, forse, possono tornare a mugugnare come è diritto e ruolo dei cittadini fare. Gli unici che perdono in questa partita, ahi noi, sono i soliti giornalisti. Corrotti pennivendoli, puttane, addirittura. Luigi Di Maio che ormai d’abitudine perde ogni freno sia quando ha un successo che quando ha un insuccesso – per dire, sia quando annuncia di aver sconfitto la povertà dal balconcino di Palazzo Chigi, sia quando qualcuno scopre che la Lega gli ha tolto il reddito di cittadinanza dalla finanziaria spostandone l’attuazione all’anno prossimo – ha avuto un’altra crisi ed ha minacciato di fare immediatamente la legge sugli editori impuri. Per punire insomma i padroni dell’editoria che evidentemente frenano il movimento. A parte che Di Maio dovrebbe piuttosto dirci se erano invenzioni le notizie sul caso Raggi. Non è stato considerato un reato, secondo i giudici, l’intervento a favore di Marra, ma non era una fake news, di sicuro. Ed era un fake anche la preoccupazione del quartiere generale pentastellato sulla condanna di Raggi? E le feroci critiche di incompetenza all’operato del sindaco romano non sono state formulate anche da esponenti dello stesso M5s? Ma va bene. Non vediamo l’ora di vedere la proposta di legge con cui M5s ristabilirà la verità (come quando ha sconfitto la povertà?) promuovendo una azione per rendere pura l’editoria. I giornalisti italiani si augurano da tanto tempo che l’editoria evolva in un sistema privo di conflitti di interessi. Questa legge dunque non e’ una minaccia. Ci auguriamo che Luigi ci lavori da subito. Sperando che stavolta almeno questo intervento se lo studi bene in maniera da non fare come con la nazionalizzazione delle Autostrade, con la Tap, forse con la Tav, e con l’Alitalia. Tutti casi in cui dopo tre mesi circa di studi ha denunciato l’impossibilità di fare quel che voleva fare. Personalmente sono curiosa di leggere – via legge, ovviamente – l’elenco dei buoni e dei cattivi editori. E di vedere elencati i conflitti di interessi. Da queste parti, da dove scrivo, sappiamo che il gruppo Gedi (ex Espresso) è nella lista dei cattivi, e poi? Non vedo l’ora di leggere l’elenco, appunto. La curiosità maggiore è quanto campo ha la definizione di conflitto di interessi: include banche, include tv private, intrecci societari, oltre al puro business? E, a proposito di business, come sarà considerata la guida di siti privati, via strumenti di informazione, su un movimento politico da cui si ricava sostegno economico? Chissà, magari alla fine anche in questo caso Luigi di Maio scoprirà che non può farci niente. Infine due righe per Di Battista. Chi scrive ha lavorato per otto anni, come free lance, senza giornali alle spalle, nelle stesse zone dove da alcune settimane gira il leader politico pentastellato. In quei paesi hanno lavorato decine di giornalisti, moltissimi italiani, quando la situazione era grave e difficile lavorare. E alcuni ci sono morti. Di Battista può insultare i giornalisti italiani ma dovrebbe evitare di usare quelle zone del mondo come sfondo fotografico esotico per la sua campagna elettorale. Quando ci lavoravo (dal 1980 al 1988, prego verificare) gente come lui veniva chiamata sandalisti, terzomondisti, neoimperialisti, voyeur del sottosviluppo. Sono sufficienti questi appellativi, Di Battista? Nessuno, di nessuna nazionalità, avrebbe osato fare di quei paesi ragione di autopromozione politica. Che è quello che il pentastellato sta facendo. Torna a casa, Di Battista, mettici la faccia sull’Italia e vieni a darci delle puttane di persona. Magari qualcuno ti prenderà, per una volta, sul serio.

Di Maio e la solita doppia morale dei 5 stelle.

Onestà? Legalità? Ma come fanno Di Maio ed il M5S ad avere il coraggio di invocarla? Scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. All’epoca delle presunte irregolarità la ditta di famiglia era intestata alla mamma del vicepremier, Paolina Esposito che in quanto insegnante e dipendente pubblica, per legge non può ricoprire incarichi aziendali. Il padre del ministro al centro delle polemiche per le denunce di lavoro nero peraltro non era titolare di alcuna azienda. Antonio Di Maio padre di Luigi leader del M5S secondo le accuse delle IENE avrebbe fatto lavorare in nero degli operai. In realtà non è esattamente così. Infatti a voler essere precisi, è stata Paolina Esposito la madre del ministro Di Maio ad averlo fatto. Tutto ciò sarebbe ancora più grave in quanto la donna, è preside in una scuola pubblica napoletana e quindi incarna il ruolo di “pubblico ufficiale”, e facendo lavorare delle persone in “nero” oltre ad aver violato la legge, avrebbe anche omesso una delle regole fondamentali del dipendente pubblico, cioè l’ “esclusività”. Perché, salvo una deroga speciale, “i dipendenti della pubblica amministrazione non possono svolgere alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro” secondo quanto previsto e contenuto dall’articolo 58 del Decreto legislativo 29 del 1993. Cerchiamo quindi ricostruire la complicata storia degli “affari” della famiglia Di Maio. Come ben noto ai nostri lettori tutto è partito da un’inchiesta delle “Iene”, che hanno intervistato un operaio edile, Salvatore Pizzo, il quale ha dichiarato di aver lavorato in nero per l’azienda edile gestita dal padre del ministro, che si chiama Ardima Costruzioni. Circostanza questa che lo stesso Luigi Di Maio ha dovuto ammettere davanti al microfono e la telecamera dell’inviato Filippo Roma. Antonio Di Maio, classe 1950, padre dell’attuale ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, è nato e cresciuto a Pomigliano d’Arco, e non possiede alcuna azienda. Incredibile ma vero!  Dalla visura camerale effettuata da settimanale l’Espresso è venuto alla luce che il padre di Di Maio non ha intestate a suo nome azioni o quote di società. In passato è stato titolare e proprietario della Di Maio Antonio, una ditta individuale di Pomigliano, specializzata nella realizzazione di tetti, che è stata cancellata dal Registro delle imprese delle Camere di Commercio nel 1995.  Successivamente a partire dal 1997, è stato sindaco supplente del Consorzio Regionale di Edilizia Artigiana, che realizzava edifici residenziali, finito in liquidazione. Inoltre il padre del vicepremier a 5 stelle, ha anche qualche conto in sospeso con Equitalia, a cui dovrebbe versare la bellezza di 176 mila euro. La titolare dell’attività di famiglia e di alcuni terreni a Pomigliano d’Arco è infatti Paolina Esposito madre di Luigi Di Maio, la quale nel 2006 ha fondato la ditta individuale Ardima Costruzioni di cui era titolare firmataria, la quale nelle visure camerali viene qualificata come “piccola imprenditrice”. Alla fine del 2013 esattamente il 30 dicembre Paolina Esposito ha donato la proprietà della sua ditta individuale ai figli Luigi e Rosalba. L’Ardima costruzioni, risulta dichiarare soli 2 dipendenti, si occupa della demolizione di edifici e sistemazione del terreno, della posa in opera di coperture e costruzione di tetti, della tinteggiatura, posa in opera di vetri e in generale, di lavori edili di costruzione. Poichè la Ardima Costruzioni   non era una società di capitali, non aveva l’obbligo di depositare bilanci, quindi non è possibile sapere se godesse di buona salute o meno. A meno che Luigi Di Maio voglia esibire i bilanci e le dichiarazioni dei redditi che sinora sono misteriosi. Nello stesso tempo, la “Di Maio family” a marzo del 2012 ha costituito una seconda società, la ARDIMA Srl, di proprietà del ministro Luigi e della sorella Rosalba con quote paritetiche del 50 per cento ciascuno. La nuova società non ha soltanto lo stesso nome della ditta individuale della mamma, ma ha praticamente lo stesso oggetto sociale, cioè si occupa delle stesse identiche attività della ditta individuale Ardima Costruzioni intestata a mamma Esposito. A giugno del 2014 la ARDIMA Srl, cioè la nuova società costituita dal vicepremier e della sorella, acquisisce la ditta Ardima Costruzioni della madre, che così facendo cede ai figli Luigi e Rosalba un patrimonio di 80.200 euro, facendo aumentare il valore complessivo del capitale sociale della neo-costituita ARDIMA srl da 20.000 a 100.200 euro. In un primo momento amministratore unico della nuova società è Rosalba, la sorella di Luigi Di Maio, a cui a nel 2017 subentra, il fratello minore Giuseppe Di Maio (classe 1994). Ma il ruolo da amministratore unico dell’azienda di famiglia non sembra essere remunerativo: come già raccontato e documentato dal CORRIERE DEL GIORNO lo stesso Luigi Di Maio, nella sezione amministrazione trasparente di Palazzo Chigi, ha dichiarato che suo fratello Giuseppe Di Maio non ha percepito redditi nel 2017 ed aggiunto che “sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero”. Forse il 2017 è stato un anno complesso, visto che ad oggi l’azienda non ha ancora depositato il bilancio 2017. Ma come andava l’ARDIMA srl negli anni precedenti? Nel 2016 la società ha dichiarato poco più di 10.000 euro di utili, cioè il 5% su un giro d’affari di poco superiore ai 200 mila euro. Consultando online la documentazione depositata nel 2013 alla Camera dei Deputati, si evince che l’allora deputato Di Maio non aveva segnalato nell’apposita dichiarazione patrimoniale la sua partecipazione al 50 per cento nella Ardima. Omissione colmata però nel 2014. Occupiamoci di Paolina Esposito madre di Luigi di Di Maio. La signora è un dirigente scolastico statale, preside dell’Istituto Comprensivo “Giovanni Bosco” di Volla, provincia di Napoli,  dopo aver fatto dal 1980 la professoressa in Istituti scolastici di primo e secondo grado del circondario. Occorre seguire attentamente le date: dal 2001 al 2015 è stata docente di ruolo al Liceo “Imbriani” di Pomigliano d’Arco e, contestualmente titolare dell’azienda di famiglia. Tutto ciò in violazione della legge italiana che non lo permette. Infatti l’ articolo 60 del Decreto del Presidente della Repubblica del marzo 1957 e l’articolo 53 del Testo Unico del Pubblico Impiego (decreto legislativo n° 29 del 1993) stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere attività imprenditoriale, oppure assumere impieghi presso datori di lavoro privati, assumere cariche in società con scopo di lucro, esercitare attività di carattere commerciale o industriale e svolgere incarichi retribuiti non attribuiti dall’amministrazione di appartenenza. I dipendenti pubblici possono diventare imprenditori esclusivamente a patto di ottenere un’autorizzazione speciale dall’amministrazione di appartenenza. Ma si tratta di casi molto rari ed è assai difficile che la signora Paolina Esposito l’abbia ottenuto a suo tempo. Infatti per i lavoratori pubblici a tempo pieno   come la Esposito si presume che questi non abbiano il tempo necessario per svolgere un doppio lavoro senza compromettere l’efficienza dell’impiego pubblico: in questi casi si è in presenza di incompatibilità assoluta. Ricapitolando il tutto: la signora Paolina Esposito, è un’insegnante, è stata la titolare dell’azienda Ardima Costruzioni nel periodo in cui sarebbe stato denunciato l’abuso di lavoro nero. Se tutto questo trovasse conferma, la mamma del vicepremier Di Maio ha quindi violato le norme di legge in materia fiscale e contributiva, omettendo di versare imposte e contributi all’Erario, all’Inps e all’Inail, e tutto ciò a vantaggio del proprio patrimonio che, successivamente ha donato ai figli Luigi e Rosalba. Quindi Luigi Di Maio e la sorella Rosalba sarebbero di fatto, i reali “beneficiari” del lavoro in nero ed evasione fiscale svolto dall’ex azienda di mamma la quale, tecnicamente e legalmente, non avrebbe potuto ricoprire quell’incarico violando le norme sulla incompatibilità derivante dal suo ruolo di pubblico dipendente. E forse non è ancora finita...

Di Maio, sequestri dei vigili urbani nella proprietà del padre a Mariglianella, scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Un quadro di presunti abusi totalmente ignorato dal Comune di Mariglianella, fino all’accesso dei vigili urbani di questa mattina, suscitato dal clamore mediatico della vicenda guidata. L’amministrazione è guidata da Felice Di Maiolo, sindaco di centrodestra. Che, per inciso, è collega del papà di Di Maio, di cui conosceva anche i cantieri svolti nel suo comune. Questa mattina tre agenti della Polizia municipale accompagnati da responsabili dell’ufficio tecnico comunale e di un rappresentante della famiglia Di Maio, hanno effettuato delle verifiche nello stabile a corso Umberto 69 a Mariglianella (Napoli), dove si trova l’immobile di cui è comproprietario il padre del vicepremier Luigi Di Maio.   Al termine dei controlli i vigili hanno sequestrato le aree dove erano stati depositati illegalmente dei rifiuti abbandonati. Cinque tra immobili e capannoni, più un campetto di calcio. Tutto di proprietà di Antonio Di Maio, padre del leader politico del M5S, e di una sua sorella, Rosalba. Ma almeno su quattro di queste costruzioni gravano fondati sospetti di abusi edilizi. Su questi elementi saranno trasmessi in giornata gli atti e la relazione dalla polizia municipale di Mariglianella alla Procura di Nola, competente per territorio. Il comandante della Polizia municipale di Mariglianella ha riferito che sono ancora in corso gli accertamenti da parte dell’ufficio tecnico sugli immobili di proprietà dei Di Maio. Alla vista dei giornalisti, diverse persone hanno intimato ai cronisti di allontanarsi sostenendo che “Di Maio è l’orgoglio della nostra nazione”. “Fino a ieri nessuno conosceva Mariglianella, adesso siete tutti qua”, ha gridato un uomo all’ingresso della stradina che conduce al terreno, il cui accesso è in questo momento presidiato da una vettura della polizia municipale. Dal video realizzato dai colleghi Dario Del Porto e Conchita Sannino della redazione di Napoli del quotidiano La Repubblica si può notare, in alto a sinistra del cancello principale, l’edificio alto in grigio che dovrebbe essere “la casa dei nonni”, secondo le spiegazioni fornite dal vicepremier Luigi Di Maio in televisione. A destra dello stesso cancello, invece, ecco due costruzioni in muratura: una più piccola ancora molto grezza, l’altra in parte dipinta di rosa, che non risulterebbero censite e che risalgono ad un periodo successivo. In fondo, dietro attrezzi per l’edilizia ed altro materiale di risulta, ecco un altro immobile quasi tutto in lamiera ma non di quelli costruiti in modalità “temporanea”, e dunque anche per questo mancherebbe il titolo per la realizzazione. Ed anche il quinto manufatto, non visibile dalla strada, è stato censito solo oggi dai vigili. Alla destra dei vari immobili sorge poi un campetto di calcio, sempre di proprietà dei due Di Maio, sul quale si allenava la società dei piccoli calciatori del Mariglianella, pare senza corrispondere un canone di affitto. E neanche in quel caso, a qualcuno era venuto in mente di controllare la regolarità dei vari immobili. Un quadro di presunti abusi totalmente ignorato dal Comune di Mariglianella, fino all’accesso dei vigili urbani di questa mattina, suscitato dal clamore mediatico della vicenda guidata. L’amministrazione è guidata da Felice Di Maiolo, sindaco di centrodestra. Che, per inciso, è collega del papà di Di Maio, di cui conosceva anche i cantieri svolti nel suo comune. “Sì, certo è vero, facciamo lo stesso mestiere. In anni passati, ma molto addietro, so che lui ha lavorato qui da noi in zona. Per ristrutturazioni, case, progetti normali. Ma io onestamente non sapevo niente di questi terreni e queste costruzioni. Io ho appreso dai giornalisti che forse era del padre di Di Maio”, ha racconta il sindaco Di Maiolo a Repubblica. Circostanza a dir poco singolare considerato che Mariglianella è un piccolo comune di sole 8mila abitanti e che l’attuale Sindaco è stato a lungo in passato anche vicesindaco. Ora sono scattati i sigilli solo per alcune aree in cui erano stati depositati rifiuti da cantiere edilizio, da smaltire. La parola passa alla Procura. E Di Maio inizia a preoccuparsi.

Durante la causa per lavoro in nero Luigi Di Maio era già socio dell’azienda di famiglia, scrive il 28 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Il vicepresidente del Consiglio, Luigi Di Maio, nel 2014, quando era in corso la causa del dipendente dell’azienda di famiglia alla stessa società per regolarizzare la sua posizione a seguito del lavoro svolto in nero, era già socio dell’azienda di famiglia. Il procedimento in primo grado nel 2016 si è concluso. Ora si attende l’Appello. Il contenzioso tra un dipendente dell’azienda del padre di Luigi Di Maio, Antonio, e l’azienda stessa, era ancora presente nello stesso momento in cui il vicepresidente del Consiglio era diventato socio della stessa società. A renderlo noto questa volta è il Corriere della Sera, che ha messo in luce come un dipendente della Ardima Costruzioni di Antonio Di Maio e Paolina Esposito, genitori del leader politico del M5s, abbia fatto causa all’azienda per farsi riconoscere le ore lavorate in nero. In primo grado il lavoratore ha perso la causa, ma ha fatto ricorso in Appello. Il papà Di Maio a quel punto avrebbe proposto una mediazione per chiudere il contenzioso, ricevendo però il rifiuto da parte del dipendente che ha deciso di andare a giudizio in Appello. Ma per arrivare ad una sentenza si dovrà comunque attendere il 2020. Il contenzioso era ancora in corso nel 2014, quando la società è stata donata alla Ardima srl, i cui comproprietari sono Luigi Di Maio e la sorella Rosalba (entrambi soci al 50%), mentre il fratello Giuseppe ne è l’amministratore senza però stranamente ricevere alcun compendo. Di Maio ospite ieri sera   nel programma “Di Martedì” condotto da Giovanni Floris su La 7, ha spiegato che l’azienda è pronta a chiudere non avendo ormai più dipendenti. Il vicepresidente del Consiglio ha ribadito di non saper nulla dei lavoratori in nero nell’azienda gestita dal padre, ma solo oggi si è scoperto che in realtà era già diventato socio quando il contenzioso era ancora in corso. Resta quindi da verificare ed accertare se Luigi Di Maio sapesse o meno. A verificare la regolarità dei contratti lavorativi dei 4 lavoratori in nero scovati da “Le Iene” sarà l’Ispettorato del Lavoro, che dipende proprio dal ministero guidato da Di Maio. Il quale a questo punto dovrebbe avere il buon gusto di dimettersi e lasciare il Ministero del Lavoro.

Il processo per denuncia del dipendente. Il rapporto di lavoro di Domenico Sposito il dipendente che ha lavorato per la società della famiglia Di Maio è iniziato nel 2008 concludendosi nel 2011. La vicenda processuale dinnanzi al Giudice del lavoro ha avuto inizio, nel 2013 ed ha avuto un primo riscontro giudiziario nel 2016, cioè nello stesso momento in cui Luigi Di Maio era intestatario del 50% delle quote della Ardima srl mentre era anche il vicepresidente della Camera. Sposito ha chiesto di aver lavorato quotidianamente quattro ore con contratto regolare e quattro ore in nero, motivo per cui aveva chiesto la sua regolarizzazione contrattuale ed economica. Nel corso del processo il padre di Di Maio, interrogato dal giudice avrebbe detto, secondo quanto riporta il Corriere della Sera: “Preferiva ricevere un acconto a prodotto delle giornate effettivamente lavorate per 75 euro al giorno entro la prima decade, poi quando il consulente del lavoro ci portava la busta paga aveva il saldo. A lui veniva pagato tutto l’importo della busta paga più una somma in contanti pari alle giornate lavorate per 37 euro al giorno e ciò accadeva per esigenze personali e lavorative”. Affermazioni queste smentite da alcuni testimoni che non hanno confermato questa versione. Ma ciò nonostante questo, Sposito ha perso la causa in primo grado, preferendo ricorrere in secondo gradi in Appello piuttosto che accettare la transazione offertagli da Antonio Di Maio.

Luigi Di Maio ha fatto il pizzaiolo "in nero" per un anno a Pomigliano d'Arco, scrive il 29 novembre 2018 Il Corriere del Giorno. Lo ha scoperto casualmente il Fatto Quotidiano cenando nel nel ristorante dove Di Maio lavorò (in nero) tra il 2011 e il 2012. I gestori: “Tra di noi c’era un rapporto amichevole”. Dopo le polemiche conseguenti all’inchiesta delle Iene – che ha svelato che il padre di Luigi Di Maio avrebbe assunto dei dipendenti in nero – il Fatto Quotidiano ha portato alla luce anche un anno di lavoro da “non inquadrato” del futuro vicepremier alla pizzeria “La Dalila” di Pomigliano d’Arco, dove la scelta di pranzare in quella pizzeria per il giornalista si è rivela fortunata, ricca di sorprese e di notizie. Tra una margherita e una coca cola i colleghi del Fatto hanno scoperto dalla viva voce di chi serve ai tavoli, prepara le pietanze e tiene aperto il locale, che il vicepremier e ministro dello Sviluppo Economico ci ha lavorato per un anno, cioè fino a pochi mesi della sua elezione alla Camera, come cameriere “non inquadrato”, che da queste parti significa in nero. Ma non solo: ha regalato a questo piccolo ristorante la sua precedente attività di web master, aprendone e curandone il sito internet e la pagina Facebook “senza chiedere un euro: lo faceva a livello amichevole: era lui che faceva le foto delle pizze e le pubblicava”. Anche se fosse stato a livello amichevole, per legge, il lavoratore doveva essere regolarmente inquadrato e con una posizione aperta presso l‘INPS. La carriera di Di Maio in pizzeria sarebbe durata dall’estate del 2011 a quella del 2012.

Le Iene, orrore grillino contro Filippo Roma per l'inchiesta sul padre di Luigi Di Maio: "Ti ammazzo", scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. A Un Giorno da Pecora Rai Radio1 Filippo Roma, l'inviato de Le Iene, autore dell'inchiesta sul padre di Luigi Di Maio (che ha dato da lavorare in nero) ha raccontato gli ultimi sviluppi sulla delicata vicenda. Ci saranno novità sul caso? "Non lo sappiamo nemmeno noi, siamo in attesa di alcune risposte da parte di Di Maio". Come le è parso il vicepremier quando lo ha intervistato? "Mi è parso deluso dal papà, nell'intervista è emersa questa cosa del padre e del figlio che non si parlavano, uno storia che affonda le radici in un passato molto lontano e profondo". "Sui social i simpatizzanti del Movimento mi hanno sfondato", dice Roma, "riempiendomi di insulti di ogni tipo: da servo di Berlusconi e Renzi a se ti incontro per strada ti ammazzo o ti riempio di botte". Nessun complimento? "Per strada mi fanno i complimenti invece...". 

I seguaci grillini scatenati in Rete. Minacce all'operaio: "Pediniamolo". Sui social caccia a Salvatore Pizzo: "Quanto ti hanno dato le Iene?" Scrive Camilla Conti, Venerdì 30/11/2018, su Il Giornale. Mannaggia a Facebook. Dopo aver rilasciato l'intervista alle Iene per raccontare di aver lavorato a nero per papà Di Maio il povero Salvatore Pizzo da Pomigliano non ha avuto più pace. Il suo profilo social è stato preso d'assalto da concittadini inferociti, fan scatenati di Giggino che hanno messo l'elmetto da tastiera e sono scesi in trincea al grido «onestà, onestà». Chiesta, però, non a vicepremier che per loro è onesto a prescindere. Ma a Salvatore Pizzo (mannaggia pure ai cognomi) e alla di lui consorte, Antonella. Colpevole di fare biscotti e torte in casa per poi venderle su ordinazione con tanto di profilo Facebook, cancellato qualche giorno fa. «Emana fattura ogni volta che consegna dolci? Paga le tasse per il lavoro che svolge? o lavora a nero?», chiede la signora Silvana. «Bisogna andare al negozio a fare le poste!», risponde Rosanna che vuole addirittura pedinare i coniugi Pizzo. E comunque della pagina Facebook con le torte Rosanna ha «conservato tutto, anche il cellulare per le prenotazioni», perché lei una cosa sola vuole sapere: «ma la partita Iva ce l'ha?». Il sussulto di giustizialismo fiscale scuote il web: tale Silvana chiede il nome della pizzeria dove lavora Salvatore «per vedere se lavora ancora a nero». Ed ecco che torna Rosanna, che ha già trovato l'indirizzo: «Bisogna andare a controllare alla pizzeria La Coccinella di Pomigliano D'Arco per vedere se lavora lì e se è in regola, Non vorrei che facesse le pizze a nero... via Giuseppe Verdi, 51». Ancora più pratica la signora Donatella che esordisce con un «mandiamogli la Finanza!». Intanto il povero Pizzo posta foto di cani abbandonati in cerca di adozione e si ritrova con decine di commenti avvelenati, molti in dialetto campano. Attenzione, non si tratta di «troll» o di «bot» sguinzagliati dall'algoritmo di Casaleggio. L'esercito contro il Pizzo ha nomi e cognomi, sono persone vere. Molte donne. E aspiranti Jessica Fletcher. Le signore in Giallo partono da un indizio: perché Pizzo ha parlato dopo nove anni? «È così disgustato da questa ipocrisia 5 stelle che a maggio faceva campagna elettorale per il Movimento», scrive ancora Rosanna postando anche le prove (una foto di Pizzo con i figli e l'hashtag #ilmiovotoconta) e linkando Selvaggia Lucarelli sperando, forse, di finire citata sul Fatto Quotidiano. Ecco quindi il complotto: «Non è che ha chiesto qualche favore, che come si sa il Movimento non fa, abbia deciso di vendicarsi? E poi che colpa poteva avere Luigi in questa storia ed è palese che si vuole colpire lui. Questa è la bassezza della politica ed è evidente che c'è qualcuno dietro a questo atto», risponde Domenico. Ma c'è anche ci segue altre piste. Pizzo ha preso i soldi dalle Iene? Il signor Giuseppe evoca addirittura il Pacciani e scrive: «Caro operaio in nero pagherai insieme ai tuoi amici di merende, per un briciolo di notorietà del cazzo, per aver accettato di lavorare in nero perché ti faceva comodo anche a te non pagare l'Irpef vero? Quanto ti hanno pagato quelli delle Iene per raccontare le tue stronzate?». Su Facebook, nelle informazioni generali del profilo, Salvatore Pizzo scrive ora di vivere a Los Angeles. Ma l'esercito di Giggino e le Signore in Giallo lo troveranno anche lì. Perché, gli ricorda Luciana, «chi nasce mappina non diventerà mai foulard».

Ecco le buste paga di Di Maio: niente lavoro nero. Il vicepremier e ministro del Lavoro pubblica i documenti dopo lo scoop delle Iene sui lavoratori senza contratto nella ditta del padre. Ma restano dubbi, scrive Eleonora Lorusso il 29 novembre 2018 su Panorama. Il tentativo è quello di mettere a tacere la bufera scatenata dopo il programma Le Iene su presunti lavoratori “in nero” nella ditta del padre di Di Maio. Ora il vicepremier ha pubblicato le proprie buste paga sul Blog delle Stelle, con un link che rimanda ai “documenti che dimostrano” la sua regolare assunzione nella ditta del padre. “Trovate tutto in questo file” ha spiegato il ministro del Lavoro.

Le buste paga. Nel documento al link si trova la lettera di assunzione di Di Maio relativa a un contratto di lavoro a tempo determinato, dal 27/02/2008 al 27/05/2008. Tre mesi di lavoro per la matricola n. 1/00004 presso l’azienda di famiglia con sede in via Ugo Ricci a Napoli. Il vicepremier all’epoca era inquadrato inizialmente come “operaio”, poi come “manovale”, con un livello 1. Si tratta di un contratto di lavoro nel settore EDILIZIA, Piccole e Medie Imprese, con una retribuzione di 632,99 euro (minimo), 513,46 per contingenza, 10,33 (E.D.R), ai quali si sommavano 150, 51 euro per Indennizzo territoriale. Totale: 1.348,81 euro mensili lordi per 40 ore settimanali. Il documento prevede anche ferie e permessi retribuiti come da contratto nazionale di categoria. Compresi in busta paga anche indennità di mensa e di trasporto.

La lettera di Di Maio. Sul Blog delle Stelle, organo “ufficiale” del pentastellati, il vicepremier ha voluto spiegare le proprie ragioni così: “Oggi, come promesso, pubblico i documenti che dimostrano l’assunzione nell’azienda di mio padre e le relative buste paga per il periodo di lavoro. Trovate tutto in questo file. Pubblico nuovamente, viste le menzogne che circolano, le mie dichiarazioni patrimoniali e di reddito da quando sono parlamentare e da quando sono ministro. Per visionarle sarebbe sufficiente accedere al sito della Camera, ma per comodità le carico su un file a parte scaricabile qui. Potrete vedere come la mia quota di partecipazione senza funzioni di amministratore o sindaco nella società Ardima sia sempre stata regolarmente dichiarata a partire dal 2014. A dimostrazione ulteriore che i fatti denunciati non riguardano il periodo in cui sono socio dell’azienda". Di Maio, dunque, punta a fugare anche il dubbio di avere avuto una quota di partecipazione societaria, nella ditta di famiglia non dichiarata, nel curriculum ufficiale.

Caso chiuso? La mossa di Di Maio ha lo scopo di mettere a tacere le polemiche sollevate dal programma tv Le Iene, ai cui microfoni un lavoratore della ditta di Di Maio senior ha dichiarato di aver lavorato per anni senza contratto, aggiungendo che, in occasione di un infortunio, gli sarebbe stato chiesto il silenzio sostenendo di essersi fatto male a casa. Ma la bufera non è finita. Debora Serracchiani (Pd) ha presentato un’interrogazione parlamentare, sottoscritta da altri dem, nella quale chiede se il ministro del Lavoro intenda rendere pubblica l’intera documentazione inerente al suo rapporto di lavoro con la Ardima Costruzioni, "con particolare riguardo all’estratto conto contributivo, nonché chiarire se nel corso degli anni dal 2008 al 2013 sia stato percettore di trattamenti di indennità legati allo stato di disoccupazione”.

Il giallo dell’immobile “fantasma” e l’estratto contro contributivo. Tra le carte pubblicate dal vicepremier manca, infatti, l’estratto contro contributivo. Ma la decisione di pubblicare le buste paga da parte di Di Maio ha lasciato alcuni punti in sospeso, ad esempio la verifica su quanto dichiarato dal lavoratore intervistato dalle Iene, a cui sono seguite altre tre dichiarazioni da parte di altrettanti lavoratori che sarebbero stati impiegati “in nero” nell’azienda del padre di Di Maio. A chiedere chiarezza è stata anche la segretaria della Cgil, Susanna Camusso, secondo cui il ministro del Lavoro ha “il dovere istituzionale di mandare gli ispettori a verificare la situazione, perché solo su quella base potranno essere dati giudizi”. Resta poi il “giallo” del presunto immobile “fantasma”, ossia quello sorto su terreno a Pomigliano di proprietà della famiglia Di Maio. Ad accendere i riflettori è stata un’altra inchiesta della stampa, questa volta firmata da Il Giornale. Secondo il quotidiano l’edificio “non risulta censito nel database dell’Agenzia del Territorio (ex catasto)” e servirebbe come magazzino per la ditta del vicepremier, come dimostrerebbe la presenza di attrezzi in uso in campo edile.

La società di famiglia. Al centro dell’attenzione anche la composizione societaria della Ardima di Paolina Esposito, la ditta di famiglia con sede a Mariglianella (Na). È nata nel 2006, gestita dal padre e intestata alla madre di Di Maio. Il ministro del Lavoro è socio al 50% con la sorella Rosalba della Ardima Srl nata nel 2012 a Pomigliano d’Arco, dunque dopo le presunte irregolarità. Si tratterebbe, quindi, di due società differenti, seppure con un legame dato dai soggetti coinvolti e in particolare dal fatto che la prima azienda è stata donata dalla madre di Di Maio ai figli. Dal 2014 la ditta di Luigi e Rosalba aumenta il capitale fino a 100 mila euro. Avrebbe un parco mezzi che conterebbe su una betoniera, un autocarro, quattro perforatori, due elevatori, un banco sega, trapani, flex, ponteggi e altri attrezzi utili a effettuare lavori edilizi.

Pure mammà in conflitto d'interessi. Titolare dell'azienda, ma insegnava. Da dipendente pubblica non poteva fare anche l'imprenditrice, scrive Francesca Angeli, Venerdì 30/11/2018, su "Il Giornale".  Nell'intricato caso della famiglia Di Maio entra in scena da protagonista un nuovo personaggio ovvero la mamma del vicepremier Luigi, Paolina Esposito. Con un coup de théâtre si scopre che non sarebbe stato papà Antonio a far lavorare in nero alcuni operai perché la titolare dell'azienda edile Ardima in realtà era la mamma, Paolina Esposito. E dunque alla questione del nero se ne aggiungerebbe un'altra, altrettanto imbarazzante, per il ministro dello Sviluppo Economico. La signora Di Maio nello stesso periodo in cui era al timone della società era pure insegnante a tempo pieno presso il liceo Imbriani di Pomigliano d'Arco. E un dipendente pubblico assunto a tempo pieno, come appunto sicuramente è un insegnante di ruolo, è soggetto al vincolo dell'esclusività e dunque ad una serie di divieti relativi all'esercizio di altre attività lavorative. Certamente non può svolgere attività imprenditoriale; non può svolgere impieghi alle dipendenze di privati; non può cumulare impieghi pubblici; non può ricoprire la carica di presidente o amministratore in società di capitali. Si può ipotizzare che sia stata richiesta una deroga che però difficilmente potrebbe essere stata concessa a meno che il dipendente non lavorasse part-time. A sollevare la questione è Anna Ascani, deputata del Partito Democratico che dalla sua pagina Facebook fa notare che nella ricostruzione della vicenda dell'impresa dei Di Maio qualcosa non torna. «La ditta individuale, prima di diventare una Srl, confluendo in quella dei fratelli Luigi e Rosalba - scrive la Ascani sui social - era intestata alla madre Paolina, che infatti firmava i contratti di assunzione, compreso quello di Luigi che, diversamente dagli altri poveretti, era in regola». La Ascani che segue le tematiche del mondo della scuola evidenzia che «la signora Esposito in quegli anni era insegnante di ruolo di Italiano e Latino in una scuola statale come lei stessa scrive nel suo curriculum reperibile online». Nel frattempo la madre di Di Maio si è spostata e ricopre il ruolo di dirigente scolastica presso l'Istituto comprensivo San Giovanni Bosco in provincia di Napoli. Ma la legge è chiarissima sull'incompatibilità. Il decreto legislativo 297 del '94 (che recepisce il Dpr 3 del '57) stabilisce tra l'altro che docenti, direttori didattici e presidi non possono «esercitare attività commerciale, industriale e professionale» né «assumere e mantenere impieghi alle dipendenze dei privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro». Dunque la Ascani chiede al ministro Di Maio «di fare chiarezza anche su questo».

L'azienda Di Maio? È della madre. Che per legge non potrebbe ricoprire incarichi privati. Il padre del ministro al centro delle polemiche per le denunce di lavoro nero non era titolare di alcuna azienda. Lo confermano i documenti ufficiali consultati da L'Espresso. All'epoca delle presunte irregolarità la ditta di famiglia era intestata alla mamma del vicepremier, Paolina Esposito. Che in quanto insegnante e dipendente pubblica, per legge non può ricoprire incarichi aziendali, scrive Gloria Riva il 29 novembre 2018 su "L'Espresso". Il padre di Luigi Di Maio avrebbe fatto lavorare in nero degli operai. Non è vero. A voler essere precisi, è la madre di Di Maio ad averlo fatto. Il fatto sarebbe ancora più grave perché la donna, che è preside in una scuola pubblica napoletana e quindi incarna il ruolo di pubblico ufficiale, oltre ad aver violato la legge facendo lavorare in nero delle persone, avrebbe omesso una delle regole fondamentali del dipendente pubblico, cioè l'esclusività. Perché, salvo una deroga speciale, «i dipendenti della pubblica amministrazione non possono svolgere alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro», dice l'articolo 58 del Decreto legislativo 29 del 1993. Ma andiamo con ordine e ricostruiamo la complicata storia della Di Maio Industry. Tutto è partito da un'inchiesta delle Iene, che hanno intervistato un uomo, Salvatore Pizzo, che ha dichiarato di aver lavorato in nero per l'azienda edile del padre del ministro, che si chiama Ardima. Il padre dell'attuale ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, si chiama Antonio Di Maio, classe 1950, nato e cresciuto a Pomigliano d'Arco, che non possiede alcuna azienda. Proprio così. Dalla visura camerale effettuata da l'Espresso si scopre che Di Maio padre non ha azioni o quote di società. In passato è stato titolare firmatario della Di Maio Antonio, una ditta individuale di Pomigliano, specializzata nella realizzazione di tetti, che è stata cancellata nel 1995. Ed è stato, a partire dal 1997, sindaco supplente del Consorzio Regionale di Edilizia Artigiana, che realizzava edifici residenziali, finito in liquidazione. Inoltre ha un conto in sospeso con Equitalia, a cui dovrebbe versare 176 mila euro. La titolare dell'attività di famiglia e di alcuni terreni a Pomigliano d'Arco è invece Paolina Esposito. Ovvero la madre di Luigi Di Maio, che nel 2006 ha fondato l'impresa individuale Ardima Costruzioni diventandone titolare firmatario, tanto che nelle carte camerali viene qualificata come piccola imprenditrice, Il 30 dicembre 2013 dona la proprietà dell'azienda ai figli Luigi e Rosalba. L'Ardima costruzioni, che ha due soli dipendenti, si occupa della demolizione di edifici e sistemazione del terreno, della posa in opera di coperture e costruzione di tetti, della tinteggiatura, posa in opera di vetri e in generale, di lavori edili di costruzione. Poichè non è una società di capitali, la Ardima non ha l'obbligo di depositare bilanci, quindi non è dato sapere se goda di buona salute o meno. Parallelamente, la Di Maio family crea a marzo 2012 una seconda società, la Ardima Srl, di proprietà del ministro e della sorella Rosalba in egual misura (50 per cento ciascuno). L'azienda non solo ha lo stesso nome, ma ha praticamente lo stesso oggetto sociale, cioè si occupa delle stesse attività della Ardima costruzioni intestata a mamma Esposito. A giugno 2014 la Ardima Srl, quella del vicepremier e della sorella, acquisisce la ditta della madre, che cede un patrimonio di 80.200 euro ai figli, facendo quindi salire il valore complessivo del capitale sociale della nuova Ardima a 100.200 euro. Inizialmente Rosalba è amministratore delegato della nuova società, ma nel 2017 gli subentra Giuseppe, il fratello minore (classe 1994). Tuttavia quel ruolo da amministratore unico dell'azienda di famiglia non sembra essere particolarmente remunerativo: lo stesso Luigi Di Maio, nella sezione amministrazione trasparente, dichiara che il fratello Giuseppe Di Maio nel 2017 non ha percepito redditi e aggiunge che «sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero». Forse il 2017 è stato un anno complesso, visto che ad oggi l'azienda non ha ancora depositato il bilancio 2017. E negli anni precedenti? Nel 2016 l'azienda ha dichiarato poco più di dieci mila euro di utili, per un giro d'affari di poco superiore ai 200 mila euro. Tra l'altro, dalla documentazione depositata alla Camera, si scopre che nel 2013 l'allora deputato Di Maio non ha segnalato nell'apposita dichiarazione patrimoniale la sua partecipazione al 50 per cento nella Ardima. Lacuna colmata l'anno successivo. Ma torniamo alla madre di Di Maio. Paolina Esposito è un dirigente scolastico, preside dell'Istituto Comprensivo Giovanni Bosco di Volla, provincia di Napoli, e fin dal 1980 professoressa in Istituti scolastici di primo e secondo grado del circondario. In particolare dal 2001 al 2015 è stata docente di ruolo al Liceo Imbriani di Pomigliano d'Arco e, nello stesso periodo, è stata titolare dell'azienda di famiglia. Eppure la legge italiana non lo permette. L'articolo 60 del Decreto del Presidente della Repubblica del marzo 1957 e l'articolo 53 del testo unico del pubblico impiego (decreto legislativo 29 del 1993) stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere attività imprenditoriale, oppure assumere impieghi presso datori di lavoro privati, assumere cariche in società con scopo di lucro, esercitare attività di carattere commerciale o industriale e svolgere incarichi retribuiti non attribuiti dall'amministrazione di appartenenza. I dipendenti pubblici possono diventare imprenditori solo a patto di ottenere un'autorizzazione speciale dall'amministrazione di appartenenza. Ma si tratta di casi rari ed è molto difficile che Paolina Esposito l'abbia ottenuto. Infatti per i lavoratori pubblici a tempo pieno – come lo è Esposito - si presume che questi non abbiano il tempo necessario per svolgere un doppio lavoro senza compromettere l'efficienza dell'impiego pubblico: in questi casi si parla infatti di incompatibilità assoluta. Riassumiamo: Paolina Esposito, che è un'insegnante, è stata la titolare dell'azienda Ardima nel periodo in cui sarebbe stato denunciato l'abuso di lavoro nero. Se questo fosse confermato, avrebbe quindi violato le norme di legge in materia fiscale e contributiva, sottraendo imposte e contributi all'Erario, all'Inps e all'Inail a vantaggio del proprio patrimonio che, successivamente, è stato donato ai figli Luigi e Rosalba. Dunque, Luigi di Maio e sorella sarebbero i veri beneficiari del lavoro sporco fatto dall'ex azienda di mamma che, tecnicamente, non avrebbe potuto ricoprire quell'incarico. La docente e madre del ministro, infatti, avrebbe violato le norme sulla incompatibilità derivante dal suo ruolo di pubblico dipendente.

Papà Di Maio scagiona il figlio: "Luigi non sapeva nulla". In una intervista al Corriere della sera ammette i lavoratori in nero, ma aggiunge: "Abbiamo sempre detto ai nostri figli che era tutto in regola", scrive il 30/11/2018 Huffington Post. Il papà a difesa del figlio, conscio del cataclisma politico che lo sta colpendo. "Le mie responsabilità non possono ricadere sui miei figli". In una lunga intervista al Corriere della sera Antonio Di Maio spiega come, a suo dire, sono andate le cose su terreni, lavoratori in nero e altro. "Stanno cercando di colpirlo - dice papà di Maio - ma lui non ha la minima colpa". Sui lavoratori in nero, da lui ammessi dice: "Come papà ho sempre cercato di tutelare la mia famiglia. Sono pronto a rispondere dei miei errori. Ma dovete lasciar stare la mia famiglia, i miei figli che non c'entrano nulla con tutto questo. Quando si commettono degli errori li si nasconde ai propri figli perché si ha paura che possono perdere la stima nei tuoi confronti. Io volevo che i miei figli fossero orgogliosi del loro papà. E ora non so se è così ed è la cosa che mi fa più male. Abbiamo sempre detto ai nostri figli che era tutto in regola". Quanto al contratto di Luigi Di Maio nel 2008 il papà dice: "Ha lavorato per l'azienda di famiglia da febbraio a maggio 2008 regolarmente contrattualizzato: d'estate qualche volta mi accompagnava al cantiere". Ma la cosa principale a cui tiene papà di Maio è la pulizia morale del figlio: "Non si è sottratto alle domande, non ha fatto nulla per favorirmi o nascondere fatti e ha fatto bene. Lo conosco, è mio figlio, non avrebbe potuto avere altro comportamento perché è una persona onesta".

L’ipocrita Di Maio. La colpa dei padri non ricade sui figli, ma vale solo per lui.

Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Non andrò a Corleone". Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Va espulso". Il vicepremier: "Non vado a Corleone. Un ministro, lo Stato, non può partecipare a un comizio dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci, aspirante primo cittadino del M5S: "Sto valutando il ritiro", scrive Daniele Ditta il 23 novembre 2018 su Palermo Today. Il vicepremier Luigi Di Maio stasera non parteciperà al comizio finale del candidato sindaco del M5S di Corleone Maurizio Pascucci, finito nell'occhio del ciclone dopo la foto pubblicata su Facebook col nipote di Provenzano. La rinuncia pochi minuti dopo l'atterraggio a Punta Raisi. Di Maio, con un video diffuso sulla sua fanpage di Facebook, ha comunicato la sua decisione. "Mi dispiace - ha detto rivolgendosi agli elettori del M5S di Corleone - ma stasera non ci sarò. Anche se mi avrebbe fatto piacere. Poco fa ho aperto lo smartphone e tra le news c'era la notizia del nostro candidato sindaco M5S che voleva aprire al dialogo con i parenti dei mafiosi. Questa dichiarazione fa il paio con la foto sua con il nipote del boss Provenzano, uno dei capi della mafia stragista degli anni '80 e '90. Sono sicuro che foto e dichiarazioni siano state fatte in buona fede, ma è il concetto ad essere pericolosissimo. Non posso correre il rischio che un ministro, lo Stato, partecipi ad un comizio elettorale dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci si è lasciato immortalare con Salvatore Provenzano, nipote di Binnu 'u tratturi, nel bar che a Corleone gestisce con la moglie. "Un buon caffè con Salvatore. Delusione per i maldicenti..." questo il commento di accompagnamento. L'istantanea ha sollevato un vespaio di polemiche. Per il ministro Di Maio "se ti fai una foto col nipote di Provenzano stai comunicando qualcosa - anche involontariamente - a quelli lì. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo". Un vero e proprio terremoto politico, tanto da mettere in discussione la candidatura di Pascuccia. "Il ritiro della mia candidatura? Sto valutando. Tra un po' mi incontrerò con il mio staff e decideremo tutti insieme", ha detto Pascucci all'AdnKronos. "Chiedo scusa a Di Maio, ma quella foto con il nipote di Provenzano è stata concordata con lo staff e il deputato di riferimento di Corleone (Giuseppe Chiazzese, ndr). E' stata frutto di una scelta precisa, perché volevamo dare un segnale e non per chiedere i voti dei mafiosi, anzi per evidenziare la presa di distanza del nipote di Provenzano dalla mafia". Pascucci, dopo aver visto il video del vicepremier Di Maio, ha parlato di "incomprensione". E ha ribadito: "Io non li voglio i voti dei mafiosi e lo dirò al comizio stasera. Sono a Corleone da 14 anni e combatto contro la mafia e i mafiosi, quindi mai e poi mai posso pensare di arrivare a un compromesso con loro. Il fatto è molto semplice - ha provato a spiegare Pascucci - ci sono dei parenti di mafiosi condannati che prendono le distanze dai loro congiunti e non è giusto che questi parenti siano esclusi per tutta la loro vita dalla comunità. Solo a questa condizione, se loro prendono le distanze dai loro congiunti che hanno commesso dei reati gravissimi penso che si possa aprire con loro un dialogo per farli uscire da una dinamica che li colpevolizza in quanto i parenti dei mafiosi non hanno commesso dei reati". Pascucci non ha ancora parlato con Di Maio, che stasera incontrerà alcune categorie di lavoratori in difficoltà, mentre domani visiterà lo stabilimento della Fincantieri e farà un meeting con un centinaio di imprenditori. "Spero - ha concluso - di incontrarlo domani a Palermo". Un addio al M5S? "No, nessuna rottura. Io mi scuso con Di Maio e con i cittadini che hanno pensato che io volessi i voti dei mafiosi". Visto che, malgrado le scuse, Pascucci ha organizzato il comizio, Di Maio ha annunciato sanzioni: "Lo denunceremo ai probiviri, va espulso dal M5S. Qualora qualcuno della lista fosse eletto, gli verrà subito ritirato il simbolo. Sulla mafia - ha concluso Di Maio - non è concesso neppure peccare d'ingenuità da parte di chi si candida a ricoprire cariche pubbliche. Non ci aspettavamo questa arroganza. Non è un comportamento da Movimento 5 Stelle e come tale deve essere sanzionato immediatamente". Preoccupazione è espressa dalla Camera del Lavoro di Corleone. "Fermo restando che la lotta alla mafia non si fa emarginando i parenti dei mafiosi ma condividendo con chiunque i valori di giustizia e legalità, la scelta di Pascucci appare preoccupante perché il tema dei rapporti con la mafia doveva essere affrontato sia da lui che dai suoi avversari in modo del tutto diverso e con modalità più serie - dice Cosimo Lo Sciuto, segretario della Camera del Lavoro - La città di Corleone ritorna al voto dopo due anni di commissariamento per mafia. Solo questo avrebbe dovuto spingere chi si è candidato alla guida della città a prendere delle posizioni nette e inequivocabili contro il sistema mafioso ancora presente nella nostra realtà. Purtroppo, si è parlato più di pacchetti di voti che di programmi o di ripudio della mafia. Riteniamo gravissima la scelta del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio di non essere presente a Corleone, ricordandogli che prima di essere capo politico di un partito è uno dei massimi rappresentanti dello Stato. Parlando di mafia, Di Maio avrebbe dovuto dismettere i panni dell’uomo di partito e da uomo delle istituzioni assicurare vicinanza ai cittadini corleonesi, stanchi di essere etichettati come mafiosi, e garantire vigilanza, possibilmente incontrando tutti i candidati. L’antimafia non va fatta solo nelle stanze del governo, ma soprattutto nei territori che questa situazione la vivono. La nostra non può solo essere terra di consensi".  "Ricordiamo al vicepresidente del Consiglio Di Maio che la legalità e l'antimafia non si praticano lasciando spazio ai concetti e alle interpretazioni e riteniamo che con le sue dichiarazioni abbia offeso gente che quotidianamente lotta per scrollarsi di dosso etichette, figlie di una storia triste come quella che riguarda Corleone. Dispiace dover constatare che ancora una volta questo paese, in barba ai proclami elettorali che urlano al cambiamento, risulti essere anche vittima di abbandono di Stato".

Corleone, Di Maio e la morte del garantismo, scrive Domenico Ferrara il 24 novembre 2018 su "Il Giornale". I fatti ormai sono noti. Maurizio Pascucci, candidato sindaco M5s a Corleone, dichiara di voler “aprire un dialogo coi parenti dei mafiosi” perché “spesso un condannato per mafia coinvolge tutta la famiglia e i parenti vengono individuati anche loro come colpevoli”. Poi posta su Facebook una foto che lo ritrae con il nipote di Provenzano. Su di lui scoppia la bufera, Di Maio annulla il comizio nella città de Il Padrino e minaccia l’espulsione di Pascucci dal Movimento. Sul caso però a mio avviso sono stati commessi errori e c’è tanta ipocrisia. E sintetizzo il tutto con delle domande e delle considerazioni.

1) Pascucci ha motivato le sue dichiarazioni basandosi sul fatto che il nipote di Provenzano è incensurato e ha preso le distanze dai fatti sanguinosi commessi dalla mafia. Ma allora perché rimarcare pubblicamente la volontà di dialogare con lui? Se è un cittadino come gli altri, perché evidenziare in una intervista a un quotidiano di voler riaprire il dialogo coi parenti dei mafiosi e non, per esempio, di volerlo riaprire con gli agricoltori over 60? L’errore è stato proprio questo, l’aver riposto maggiore attenzione a una fetta di potenziali elettori, quasi a voler conferire loro una superiorità di considerazione rispetto agli altri, differenziandoli da tutto il resto della popolazione.

2) Di Maio, invece di attaccare la stampa cattiva, dovrebbe ringraziarla perché è stata proprio la stampa cattiva a dargli la possibilità di conoscere l’accaduto. E questa per lui potrebbe essere l’occasione per migliorare dai propri errori.

3) Di Maio, però, piuttosto che scatenare la sua rabbia sui social, avrebbe dovuto, almeno per coerenza, andare al comizio di Corleone e ribadire lì in pubblico la sua dura condanna verso il candidato e verso la mafia e tutto il mondo che le ruota attorno. Quello sì che sarebbe stato un segnale concreto. Invece, rimanendo nell’ambito dei social e non scendendo sul territorio, ha di fatto abbandonato il suo candidato bollandolo come colluso per una dichiarazione e per una foto con un incensurato.

4) Un altro errore è stato quello di criminalizzare ed esporre al pubblico ludibrio una persona, Salvatore Provenzano, che, almeno fino al momento, è un cittadino incensurato che gode degli stessi diritti civili e politici di cui gode il vicepremier. “Sono sicuro che la foto e la dichiarazione sono state fatte in buona fede ma il concetto è pericolosissimo. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo. Faremo piazza pulita dei corrotti e dei mafiosi”, ha dichiarato Di Maio. Ma nella foto incriminata non c’è nessun corrotto e nessun mafioso. Altrimenti bisognerebbe ghettizzare i parenti dei mafiosi (fino al primo, secondo, terzo grado?), privarli di ogni diritto e condannarli a vita solo per il cognome che portano. E sarebbe la morte del garantismo.

5) Tempo fa Di Maio è finito nella bufera per una foto del 2016 scattata a Cesa, in provincia di Caserta, in cui compariva accanto a Salvatore Vassallo, inquisito per traffico illecito di rifiuti e fratello di Gaetano, pentito del clan dei Casalesi. Il grillino si è giustificato dicendo che erano stati gli attivisti a portarlo a cena in quel ristorante e che non sapeva chi fosse quell’uomo. Bene. Ma Di Maio è finito alla gogna lo stesso. Come ci è finito Salvatore Provenzano. Ma come non è colpevole il grillino non lo è nemmeno il parente del boss.

Ma se si seguissero i principi cari all’estremizzazione del giustizialismo pentastellato allora si dovrebbero chiedere le dimissioni anche di Di Maio.

Lavoro nero nella ditta del padre di Di Maio, la denuncia delle Iene. La replica: "E' vero, consegnerò i documenti". La trasmissione Mediaset ricostruisce la vicenda di Salvatore Pizzo, ex dipendente dell'azienda edile del padre del ministro del Lavoro. Il vicepremier: "Mio padre ha fatto degli errori", scrive Carmine Saviano il 25 novembre 2018 su "La Repubblica". Casi di lavoro nero nella ditta del padre del ministro del Lavoro. Emerge tutto in un servizio de Le Iene andato in onda durante la trasmissione di domenica. Parte tutto dalla denuncia di Salvatore Pizzo, di Pomigliano d'Arco, ex dipendente della ditta edile della famiglia di Luigi Di Maio. Che denuncia di aver lavorato in nero per due anni, tra il 2009 e il 2010 e che a pagarlo era Antonio Di Maio. Non solo. Pizzo racconta anche di un suo infortunio sul lavoro "coperto" dal padre del vicepremier. Che gli avrebbe consigliato di non denunciare l'accaduto per non incorrere in sanzioni. E la trasmissione di Mediaset ha anche richiesto un commento al capo politico del Movimento 5 Stelle. Di Maio nega ogni personale coinvolgimento, si dichiara all'oscuro dei fatti e promette di verificare immediatamente la veridicità delle affermazioni di Salvatore Pizzo. I fatti, precisa il programma di approfondimento di Italia 1 nella puntata in onda questa sera, risalgono a un periodo antecedente di due anni a quando Luigi Di Maio è diventato proprietario al 50% dell'azienda di famiglia, impresa in cui lo stesso attuale vicepremier ha lavorato per un periodo come operaio. Subito dopo la messa in onda del servizio arriva la replica del vicepremier. Affidata a un post su Facebook. Ammette l'errore. E prende le distanze dal padre: "Mio padre ha fatto degli errori nella vita e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. Ancora: "A maggior ragione - aggiunge- se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio”.

Luigi Di Maio 25 novembre 2018. "Avrete visto il servizio delle Iene. E avrete visto anche la mia intervista. Come sapete, in tutti questi anni, alle Iene abbiamo sempre dato il massimo della disponibilità, non abbiamo chiesto di non mandare in onda servizi, a differenza di altri; non abbiamo mai chiesto alcun trattamento di favore e quando ci hanno rivelato qualcosa di importante li abbiamo ringraziati. Il caso di stasera riguarda un lavoratore che 8 anni fa ha lavorato in nero per mio padre. Sono contento che Salvatore - l’operaio - abbia trovato il coraggio di denunciare pubblicamente dopo 8 anni. Ho letto dei commenti che lo attaccano per averlo detto pubblicamente solo ora, personalmente non credo lo si debba aggredire, inoltre credo che Salvatore Pizzo abbia anche votato il Movimento alle ultime elezioni, visto che ha aderito alla nostra campagna di maggio #ilmiovotoconta. Salvatore Pizzo all’epoca dei fatti si è rivolto al Sindacato CGIL che gli consigliò di trovare un accordo con mio padre per farsi assumere, e infatti poi ha ottenuto un contratto regolare. Successivamente gli fu corrisposto anche un indennizzo. 8 anni fa, come avrete visto dal servizio io non ero né socio dell’azienda, né mai mi sono occupato delle questioni di mio padre. Mio padre ha fatto degli errori nella sua vita, e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. E capirete anche che sia improbabile che un padre racconti al figlio 24enne un accaduto del genere. A maggior ragione se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio. Buona serata a tutti".

I dubbi sulla ditta di famiglia. Usava il magazzino fantasma? Da cinque anni l'azienda è intestata per metà al capo grillino. E nel cortile dell'edificio ci sono materiali edili, scrive Pasquale Napolitano, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". Nel 2015 il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio ha pubblicamente dichiarato che la sua famiglia ha alle spalle una lunga tradizione nel settore edilizio. Circostanza che pare confermata, visionando i terreni di proprietà (al 50 %) del padre Antonio Di Maio nel Comune di Mariglianella e su cui è spuntato un manufatto fantasma che ad oggi non risulta censito nel database dell'Agenzia del Territorio (ex catasto). Mettendo bene a fuoco le foto si notano infatti a pochi metri dal manufatto fantasma attrezzi in un uso a una ditta edile. Si vedono, tavole in legno che potrebbero servire per l'installazione di impalcature nei cantieri edili. Ma anche mattoni e residui di cemento. Tutto materiale che un'impresa edile utilizza sia per l'allestimento di un cantiere che per la realizzazione di case e altri interventi. La presenza di materiale edile non dimostrerebbe nulla ma ovviamente fa sorgere alcuni sospetti. Che si aggiungono alle domande già poste dal Giornale al ministro del Lavoro sul manufatto realizzato sui terreni di proprietà della famiglia Di Maio. Il primo dubbio che andrebbe chiarito riguarda le attività svolte nel manufatto fantasma. Potrebbe essere stato utilizzato come deposito per le attrezzatture della ditta edile della famiglia Di Maio? La presenza sui terreni e all'interno del manufatto di mattoni e tavole in legno farebbe ipotizzare un uso di quei vani per l'attività edile. Ma potrebbe essere solo una coincidenza. E magari i Di Maio potrebbero aiutare a risolvere l'enigma. C'è un secondo passaggio che andrebbe chiarito: il periodo. In questo caso, la data è importante perché potrebbe scagionare Di Maio da ogni legame (fatta eccezione per quello familiare) con la storia del manufatto fantasma. In caso contrario potrebbe chiamarlo direttamente in causa. Ma bisogna andare indietro nel tempo. Nel 2014, la società di famiglia Ardima Srl viene ceduta al capo politico dei Cinque stelle e alla sorella. Il vicepremier diventa socio al 50% della società di famiglia che ha come principale scopo sociale la costruzione di edifici residenziali. La società, in realtà, è stata costituita nel 2012 mentre nel 2014 passa a Di Maio e la sorella. Il ministro ha sempre chiarito di non essersi mai occupato delle attività della società e di non aver mai versato un euro. Mentre la società è stata sempre attiva. Ma c'è un passaggio da chiarire: se terreni e immobile (fantasma) che si trovano nel Comune di Mariglianella siano stati usati per le attività edilizie. E soprattutto in quali anni. Prima del 2014, il vicepremier non avrebbe alcun legame societario con Ardima Srl. Dopo il 2014 sì. E c'è il rischio che la società, di cui è azionista al 50%, abbia utilizzato come deposito per le attività edilizie un immobile che non risulta censito negli archivi dell'Agenzia del Territorio. I dubbi aumentano. E anche il silenzio. Restano senza risposte alcune domande: perché quell'immobile non risulta censito? C'è una autorizzazione edilizia? Una pratica di condono in corso? Da ieri non solo per il catasto il manufatto è sconosciuto. Ma anche per Equitalia che nel 2010 ha iscritto un'ipoteca solo sui due terreni. E non sull'immobile. Come si spiega?

Il silenzio di Di Maio sull'edificio fantasma intestato a suo papà. L'immobile non risulta al catasto, il Comune avvia accertamenti. Il leader non chiarisce, scrive Pasquale Napolitano, Sabato 24/11/2018, su "Il Giornale". Il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio imbocca la strada del silenzio. Tace dopo l'articolo de il Giornale nel quale vengono sollevati sospetti di irregolarità edilizie su immobile fantasma costruito su un terreno nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli, intestato al padre Antonio Di Maio. Il capo politico dei Cinque stelle parla di Babbo Natale ma non preferisce parola sul proprio Babbo e la storia del manufatto non censito. Eppure, ieri, il ministro del Lavoro ha inondato le agenzie e i seguaci con una raffica di dichiarazioni. Dal summit «Wide opportunities world» di Samsung Italia, il ministro ha parlato di innovazione imprese, reddito di cittadinanza, Europa. Ha elogiato l'abbattimento delle case abusive dei Casamonica a Roma e annullato il comizio elettorale a Corleone. Ma nessun cenno alla storia dell'immobile fantasma beccato con una foto satellitare sul terreno di proprietà di Di Maio senior. Il numero uno dei grillini ha optato per il profilo basso. Per un silenzio sospetto, senza dare spiegazioni sia al Giornale, che aveva provato ad avere un commento attraverso l'ufficio stampa, che agli attivisti dei Cinque stelle. La platea pentastellata è molto sensibile su questi temi. Quando è saltata fuori la storia del condono edilizio, il ministro non ha perso tempo per chiarire la vicenda. Ieri invece nulla: bocche cucite. Il caso crea imbarazzo nel M5S. Sarebbe bastata una diretta Facebook di una cinquanta secondi per fugare i dubbi. Rispondere agli interrogativi posti da il Giornale. Nel 2000 il padre del vicepremier acquista due terreni e un fabbricato a Mariglianella. Ne rileva però solo il 50 per cento, sia dei terreni che del fabbricato. I due appezzamenti ricadono in un'area che il Prg del 1983 del Comune (ancora vigente) destina alla realizzazione di attrezzature sportive ed edifici scolastici. Al momento del passaggio di proprietà non risulterebbero immobili realizzati sui due terreni. Le domande che pone il Giornale sono semplici: nei documenti presenti nel database in dell'Agenzia del Territorio (ex catasto), Di Maio padre è titolare solamente delle due particelle di terreno: la n.1309 e n.811. Ma visionando gli estratti satellitari salterebbe fuori un immobile sulla particella 1309. La struttura in muratura non risulterebbe censita al catasto. E non figurerebbe nemmeno nell'elenco dei fabbricati intestati a Di Maio senior. Quell'immobile è stato costruito sulla base di un'autorizzazione edilizia? C'è una pratica di condono in corso? Ma quale? La Campania non ha aderito all'ultimo condono mentre le altre sanatorie risalgono agli anni antecedenti al passaggio di proprietà dei terreni. E quindi, la richiesta di condono pendente andava inserita nell'atto notarile. Domande semplici alle quali Di Maio non ha risposto. Le risposte potrebbero arrivare, presto, dagli uffici del Comune di Mariglianella. Il caso è finito all'attenzione del settore antiabusivismo che ora predisporrà i controlli per accertare eventuali irregolarità. In attesa dell'iter amministrativo, il Pd incalza il vicepremier, chiedendo di riferire in Aula: «Il vizietto di casa Di Maio. Dopo la casa abusiva, anche le tasse evase. Ma tanto ci pensa il figlio ministro a fargli un altro condono. Di Maio riferisca in Parlamento. Eccola l'onestà dei 5 Stelle», scrive su Twitter la senatrice Laura Garavini. Mentre la deputata Alessia Morani lo stuzzica: «Di Maio perché taci?».

Tutto quello che Di Maio non ci dice, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 25/11/2018, su "Il Giornale". Da tre giorni stiamo raccontando la storia dell'immobile fantasma costruito su un terreno di proprietà della famiglia Di Maio nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli. Il fabbricato esiste nella realtà, ma non risulta al catasto e non ve n'è traccia nelle modeste, anzi modestissime, dichiarazioni dei redditi della famiglia del vicepremier grillino. Questa vicenda non ha nulla a che fare, apparentemente, con i condoni edilizi dei Di Maio, recentemente saliti agli onori della cronaca e sbrigativamente liquidati dagli stessi come «vecchie storie». Qui stiamo parlando di una storia attuale, probabilmente legata all'attività della società di famiglia, la Ardima srl che opera nel campo dell'edilizia e di cui Luigi è proprietario al 50 per cento. La restante metà figura in capo alla sorella Rosalba, di professione architetto e di fatto la persona che si occupa dell'azienda insieme all'altro fratello Giuseppe che, secondo notizie mai smentite, sarebbe l'amministratore unico. Di che cosa si occupi la Ardima non è chiaro. Ammesso che si occupi di qualche cosa perché i Di Maio sono poco più che nullatenenti, almeno stando alle loro dichiarazioni dei redditi. Il padre dichiara un imponibile di 88 euro nonostante risulti proprietario di terreni e fabbricati, il fratello Giuseppe zero, la sorella Rosalba poco più di 11mila. A mandare avanti la famiglia pare essere la madre, con i suoi 52mila euro all'anno. Il fabbricato fantasma c'entra qualcosa con gli apparentemente non floridi affari della società di famiglia? Non lo sappiamo ancora, stiamo lavorando per capirlo anche perché attorno alla vicenda si è alzato un muro di omertà. Abbiamo chiesto spiegazioni a Luigi Di Maio stesso attraverso i canali istituzionali ma niente, nessuno al momento ha intenzione di chiarire. Può essere che la spiegazione dell'anomalia sia il classico uovo di Colombo, ma anche no. Nel dubbio noi insistiamo, non perché siamo «prostitute» come sostiene Di Maio, ma perché è il nostro mestiere. Le case dei politici e dei loro congiunti, come insegna la vicenda Fini-Montecarlo, non sono case come tutte le altre. Sono speciali, soprattutto se di proprietà di chi ha raccolto voti al motto di «onestà» e «trasparenza».

La figuraccia di Di Maio: condoni a gogò a casa. Nell'abitazione di famiglia a Pomigliano sanati 150 mq di abusi nel 2006. Lui s'infuria: «Era di mio nonno», scrive Lodovica Bulian, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Centocinquanta metri quadri di abusi edilizi, su due livelli, condonati con 2mila euro grazie a una legge del governo Craxi del 1985. Dopo il caso Ischia, il Movimento Cinque Stelle scivola, ancora, sul condono. Dopo le polemiche sul caso Ischia Repubblica scova un'istanza di sanatoria della casa di famiglia del vicepremier Luigi Di Maio a Pomigliano D'Arco. Una pratica presentata nel 1986, intestata ad Antonio Di Maio, padre del leader grillino: la richiesta di condono viene esaminata, e accolta, ben vent'anni dopo, nel 2006. Il conto per mettersi in regola e sanare l'abuso è composto da due rate da 594 euro più altri 410 euro di oneri di concessione, per un totale di duemila euro. «Ampliamenti su secondo e terzo piano», recita la domanda presentata da Di Maio senior, che negli anni in quanto geometra avrebbe anche dato una mano agli esaminatori delle tante pratiche di condono confluite nei comuni dopo il terremoto. La ristrutturazione per ricavare camere e bagni genera una superficie fuorilegge pari a 74 metri quadri abitabili, più altri 3 qualificati come «non residente». Questi solo su un piano. Sull'altro piano i metri quadri da sanare con i lavori realizzati fuori norma sono 73. In totale fa 151 metri di abitazione da condonare. «Adesso si capisce perché il ministro abbia un problema anche solo a pronunciare la parola condono», lo attacca il quotidiano, ricordando come l'espulsione della prima sindaca pentastellata, quella di Quarto (Napoli), Rosa Capuozzo, nacque proprio da un abuso edilizio: la prima cittadina viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il vicepremier, che da giorni respinge le accuse sulle norme per Ischia inserite nel decreto Genova, risponde all'attacco frontale con un lungo post su Facebook, in cui rivendica la legalità della pratica, mentre sui social scoppiano le polemiche con l'hashtag #condonodifamiglia. «Stamattina Repubblica si è inventata questo scoop sul condono sulla casa di famiglia di Di Maio - ribatte -. Andiamo a pagina 10 - scusate ma ho dovuto comprarla - dove è sbattuta la foto della mia famiglia, una famiglia che è sempre stata onesta. Allora io questa mattina ho chiamato mio padre e chiesto: ma cosa hai combinato? E lui mi ha detto che nel 2006 ci è arrivata una risposta di una domanda fatta nel 1985 su una casa costruita nel 1966. La casa era stata costruita da mio nonno in base al Regio decreto del 1942». La sua Pomigliano è uno dei tanti comuni dove in passato è dilagato il fenomeno dell'abusivismo: la Campania, secondo Legambiente, ha una quota record di 50,6 immobili fuorilegge ogni 100. Nel 1985, precisa Di Maio, «mio padre chiese la regolarizzazione della casa, presentò la domanda ad aprile 86 e nel 2006 è arrivata la risposta in cui il Comune dice: devi pagare 2000 euro e regolarizzi la casa costruita nel 1966. Così mio padre regolarizza un manufatto costruito da mio nonno quando lui aveva 16 anni, io chiaramente non ero ancora nato ma Repubblica non me la perdonerà, questo è il grande scoop di Repubblica. A queste persone che ogni giorno sputano veleno su di me, sul M5s e forse solo così riescono ad andare sui quotidiani dico: metteteci un po' più di amore e meno rabbia». Il quotidiano risponde a sua volta, e punta il dito sulle «omissioni» del vicepremier: «Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano, sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri».

La supercazzola di Di Maio sull’abuso edilizio del padre, scrive Giovanni Drogo il 7 novembre 2018 su Next Quotidiano. Oggi Repubblica ha raccontato la curiosa vicenda del signor Antonio Di Maio, padre del Capo Politico del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio, che nel 1986 usufruì del condono edilizio varato dal governo Craxi. Per quell’abuso edilizio il signor Di Maio pagò nel 2006 appena 2mila euro, un affarone visto che in totale stiamo parlando di circa 150 metri quadri di superficie abitabile in più creati in maniera abusiva.

Di Maio ammette che suo padre ha usufruito del condono edilizio del 1985. Luigi Di Maio all’epoca del condono aveva vent’anni e non ha nulla a che fare con l’abuso edilizio, commesso prima che lui nascesse. Durante una diretta su Facebook dopo aver ripetuto per l’ennesima volta che a Ischia – dove guarda caso il governo ha deciso di consentire il ricorso a condono edilizio del 1985 per i proprietari di immobili abusivi danneggiati dal terremoto – non c’è nessun condono ci ha tenuto però a smentire le fake news di Repubblica sul condono di cui ha usufruito il padre. Il Capo Politico del M5S spiega che il quotidiano Repubblica «si è inventato questo scoop» relativo al condono dell’abuso edilizio richiesto dal padre.  Di Maio si lamenta che Repubblica ha “sbattuto la foto” della sua famiglia. Foto che però non è stata rubata visto che è stato proprio il vicepremier a pubblicarla il giorno di Pasqua sulla sua pagina Facebook. Il ministro del Lavoro racconta di aver chiamato il padre per chiedere «ma nel 2006 che cosa hai combinato?». Il signor Di Maio ha spiegato al figlio che «nel 2006 è arrivata una risposta del 1985 che riguarda la casa a una casa costruita nel 1966».  Questa risposta conferma quello che è scritto nell’articolo di Repubblica che dice appunto che nel 1986 il signor Di Maio ha presentato una richiesta di sanatoria che è stata concessa vent’anni dopo.

La storia della casa abusiva del papà di Di Maio. Il Capo Politico del M5S la prende alla lontana: «Nel 1966 mio nonno costruisce la casa in cui vivono oggi i miei genitori e vive mio fratello e mia sorella con suo marito. Nel 1966 aveva all’incirca sedici anni. Mio padre costruisce una casa in base ad una legge che era il regio decreto del 1942». Immaginiamo che qui il vicepremier stia facendo riferimento alla legge quadro urbanistica che imponeva l’obbligo di licenza edilizia per chiunque volesse costruire un immobile o fare ampliamenti ad edifici esistenti (legge poi integrata dalla Legge Ponte n. 765/1967 dell’agosto 1967). Non dice però se il nonno avesse ottenuto la licenza edilizia oppure se la licenza era per una metratura inferiore a quella sanata grazie al condono del 1985. Il fatto che il padre del vicepremier abbia chiesto di accedere al condono edilizio varato dai famigerati e cattivissimi governi precedenti però è un chiaro indizio. Scrive Repubblica che nella casa dove ha abitato il vicepremier: «il secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo». Quindi non nel 1966. Gli abusi in questione sono «nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro», in pratica – vista l’entità della metratura condonata – una casa abusiva aggiunta successivamente al “nucleo originario” della dimora Di Maio. «Mio padre nel 1985 da geometra viene a conoscenza della legge che permette di regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza». Quella legge non è una legge qualsiasi, è la legge 47 del 1985 nota anche come condono Craxi. Una legge che permetteva di sanare gli abusi edilizi e a cui ovviamente hanno fatto ricorso molti italiani che erano proprietari di una casa abusiva o di un immobile dove erano stati commessi abusi. Secondo Luigi Di Maio invece il padre ha fatto ricorso a quella legge – di cui parlavano tutti, non stiamo parlando di un codicillo “da geometra” – sostanzialmente “per scrupolo” perché «nell’85 è difficile che esistessero tutte le carte di quella casa» (costruita vent’anni prima, non duecento anni prima). Ora è chiaro anche ad un bambino che le carte possono “non esistere” perché sono andate perse (dove? nei cassetti di casa o al catasto?) ma anche perché quelle carte – essendo stato commesso un abuso – non sono mai esistite. Nel 2006 «diversi decine di anni dopo» (due, per l’esattezza) il padre riceve la risposta da parte del Comune. Di Maio non dice che si tratta – come riporta Repubblica – di un condono per opere di ampliamento fatte in anni diversi che tecnicamente si configurano come “ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano”. Dice invece che il Comune ha risposto: «devi pagare duemila euro e regolarizzi quella casa costruita nel 1966». Ma come è possibile? Se la casa era stata costruita dal nonno rispettando le prescrizioni della legge urbanistica del 1942 allora era già in regola. Viceversa se magari, nel corso degli anni, erano state fatte delle aggiunte – per un totale di 150 metri quadri – significa che dal 1966 al 1985 la casa ha subito qualche ampliamento non autorizzato. Modifiche che in italiano si chiamano abusi edilizi. Proprio come quelli di Ischia.

La stalla? Una casa con piscina Le foto ora incastrano Di Maio. A Le Iene gli scatti che ritraggono il vicepremier grillino a mollo nel cortile di quello che sosteneva fosse un ricovero per animali, scrive Chiara Sarra, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale". "Lì c'è sempre stata una stalla". Luigi Di Maio dice di ricordarselo fin da quando era bimbo. Eppure così non sembra a guardare le foto mostrate questa sera da Le Iene che hanno mandato in onda la terza puntata sul fabbricato abusivo al centro dell'inchiesta del Giornale. Scatti che risalgono al 2013 e che mostrano a Mariglianella (Napoli) esattamente nel punto in cui secondo il vicepremier ci sarebbe da sempre un ricovero per gli animali un villino con patio. Si vede una cucina, si vedono le immagini di una festa. E si vede il giovane Di Maio - allora da poco eletto alla Camera dei deputati e nominato vicepresidente a Montecitorio - a mollo in una piscina sopraelevata. Eppure quando il Giornale ha scoperto gli edifici abusivi - ora in parte sequestrati dalla procura che ha aperto le indagini - il capo politico del M5S ha prima "scaricato" il padre e poi ha negato che si trattasse di fabbricati irregolari. E agli inviati de Le Filippo Roma e Marco Occhipinti ha persino raccontato che il villino apparso "dal nulla" nelle foto satellitari del 2002 era in realtà una stalla sempre esistita fin da quando era piccolo. Ma ora le nuove prove portate dal programma Mediaset lo incastrano: possibile abbia dimenticato cosa ha fatto solo 5 anni fa?

Di Maio: “l'aiuto” nei magazzini abusivi, la stalla che diventa villetta e i prestanome, scrivono Le Iene il 02 dicembre 2018. Terza puntata dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sull’azienda di famiglia di Di Maio. Dopo la storia dei 4 lavoratori al nero, ecco i fabbricati abusivi, una stalla che si trasforma in villa con piscina (anche se il vicepremier non se lo ricorda) e un grande dubbio su chi realmente conduce l’impresa di famiglia senza comparire. Terza puntata dell’inchiesta di Filippo Roma e Marco Occhipinti sull’azienda di famiglia del ministro del Lavoro e vicepremier Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque Stelle. Nel servizio che potete vedere qui sopra, vi mostriamo in esclusiva le immagini delle proprietà del padre di Luigi Di Maio, Antonio: terreni e costruzioni a Mariglianella (Napoli). Parte di queste proprietà sono state sequestrate due giorni fa e la Procura di Nola sta indagando per abusi edilizi e violazioni ambientali. Mostriamo a Di Maio quattro fabbricati abusivi. Non solo, lui stesso, Luigi Di Maio avrebbe dato una mano nella logistica nei terreni sequestrati. A raccontarcelo è Mimmo, che ha fatto causa all'azienda di famiglia per essere stato impiegato in nero e fatto ricorso in Appello nel 2016 quando Luigi Di Maio era già nell'assetto proprietario dell'azienda. Nel primo servizio di quest’inchiesta (clicca qui per vederlo, vi riproponiamo poi entrambi in fondo all'articolo), Salvatore Pizzo ci ha raccontato di aver lavorato in nero per l’impresa edile dei Di Maio. Il ministro del Lavoro, nel secondo servizio (clicca qui per vederlo), come promesso, ha verificato e ha confermato le prime rivelazioni di Pizzo. Sono spuntati però altri tre lavoratori in nero nell’azienda. Tutti gli episodi si riferiscono al periodo tra il 2008 e il 2010, prima comunque che nel 2014 lo stesso Luigi Di Maio entrasse nell’assetto proprietario dell’azienda. L’azienda edile che da trent’anni porta avanti il padre di Luigi, Antonio, infatti, prima era intestata alla madre Paolina Esposito, poi è confluita nel 2014 nell’Ardima srl, di proprietà al 50% del ministro e della sorella Rosalba. Ma torniamo a Mariglianella: abbiamo parlato dei quattro fabbricati che non risultano al catasto e che il sindaco del paese ci ha confermato abusivi e delle sue attività nei magazzini. Luigi Di Maio promette nuove verifiche con il padre. Ci colpisce in particolare una bella casetta con patio e piscina che mostriamo al ministro. Lì secondo i suoi ricordi ci sarebbe stata una stalla, ci dice. In una foto del 2013 si vede però Di Maio che si fa un bel bagno in quella stessa piscina con fabbricato abusivo alle sue spalle ben in evidenza. E, in altre, gran feste in quel patio. Non se ne ricorda più ministro? Tutto in una settimana molto difficile, per carità. Dopo una bufala contro Pizzo che è stata smascherata, Filippo Roma è stato minacciato di morte su Internet: ringraziamo Di Maio per essersi associato alla solidarietà alla Iena dichiarando: “Non attaccate lui né Le Iene”. C’è però un’altra domanda che dobbiamo fare per forza: perché papà Antonio Di Maio non compare mai dal 2006 nell’assetto proprietario dell’azienda, né come socio né come amministratore? Non è che mamma Paolina e poi Luigi Di Maio e la sorella Rosalba sono, ai sensi della legge, dei prestanome?

Dalla casa abusiva al lavoro nero, tutte le grane di Di Maio senior, scrive Andrea Carli su Il Sole 24 ore il 28 novembre 2018. C'è l'inchiesta de «Le Iene» che ha fatto emergere quattro casi di muratori impiegati in nero nell'azienda del padre di Luigi Di Maio, l'Ardima Srl. I casi si sarebbero verificati tra il 2008 e il 2010, quindi prima che suo figlio diventasse socio ed entrasse nell'assetto proprietario dell'azienda. E c'è un altro fronte che chiama in causa il padre del vicepremier dell'esecutivo giallo-verde, Luigi Di Maio: un abuso edilizio della casa dove il capo politico pentastellato risiede ancora, nonostante trascorra gran parte del tempo a Roma per impegni di governo. C’è l’inchiesta de «Le Iene» che ha fatto emergere quattro casi di muratori impiegati in nero nell’azienda edile di famiglia, l’Ardima Srl. I casi si sarebbero verificati tra il 2008 e il 2010, quindi prima che suo figlio diventasse socio ed entrasse nell’assetto proprietario dell’azienda. E c’è un altro fronte che chiama in causa Antonio, il padre del vicepremier dell’esecutivo giallo-verde, Luigi Di Maio. Un abuso edilizio della casa dove il capo politico dei Cinque Stelle tuttora risiede, nonostante trascorra gran parte del tempo a Roma per impegni di governo. La casa a tre piani di Pomigliano d’Arco, dove il vicepremier risiede nonostante trascorra gran parte del suo tempo a Roma, costruita 52 anni fa dal nonno di Luigi, è stata condonata nel 2006 dal padre Antonio. Di Maio senior lo ha ammesso a una troupe di “Stasera Italia”: «l’abuso edilizio c’è stato - ha affermato -, io non le dico che non ci sia stato, perché all’epoca questo era il metodo di costruire in questa zona».

Di Maio senior: «dove sta la notizia?» «Dove sta la notizia?», si è chiesto. «Io ho condonato una casa fatta nel 1966 da mio padre, dove mio figlio risiede ma che all’epoca non stava neppure nei conti di essere concepito», ha continuato Di Maio padre. «Qual è la stranezza? La legge consentiva di regolarizzare alcune case che fossero state fatte abusivamente o che non avessero certificazioni. Si potevano condonare. Visto che la spesa non era immane, ho pensato di sanare il tutto», ha concluso.

C’è poi un altro caso: un terreno di famiglia, un fabbricato che, secondo «Il Giornale», non sarebbe stato registrato al catasto. «C’è un rudere colpito dal terremoto dove mio padre viveva con gli zii, e altri edifici sgarrupati» - ha spiegato il leader politico pentastellato davanti alle telecamere di La7 -. Si vedrà se è accatastato». Dal modello Persone fisiche 2018 (redditi 2017) di Antonio Di Maio emerge che il padre del vicepremier è comproprietario di quattro fabbricati e nove terreni.

Di Maio assicura: ho lavorato per l’azienda di mio padre in maniera regolare. A tenere banco in queste ore è tuttavia il faro acceso dalla trasmissione televisiva sui casi di lavoratori in nero, soprattutto perché questi casi sono riconducibili al padre di Di Maio, nella doppia veste di leader politico di un Movimento che ha fatto del rispetto delle regole e della lotta al sommerso un cavallo di battaglia, e di ministro del Lavoro. Lui, Di Maio, ha garantito di aver lavorato per il padre nell’azienda di famiglia in maniera regolare. «Esibirò le buste paga e tutte le certificazioni», ha assicurato. Fino al 2013 titolare dell’azienda di famiglia è la madre di Di Maio, Paolina Esposito; il padre la gestisce. Dopodiché la società passa ai figlio. Ad oggi le quote sono divise a metà tra Luigi e sua sorella Rosalba, mentre l’altro fratello del vicepremier, Giuseppe Di Maio, è amministratore unico.

Nel 2017 il padre di Di Maio ha dichiarato un reddito imponibile di 88 euro, scrive Andrea Carli su Il Sole 24 ore il 27 novembre 2018. Dopo che la trasmissione Le Iene ha acceso i fari su Antonio Di Maio, padre del capo politico del Movimento 5 Stelle, mettendo in evidenza che, quando gestiva l’impresa edile di famiglia (la Srl Ardima) - tra il 2009 e il 2010 - c’erano persone che prestavano lavoro senza un contratto, l’attenzione si sposta sui redditi dei parenti stretti del vicepremier pentastellato: oltre al padre, la madre Paolina Esposito, il fratello Giuseppe e la sorella Rosalba. Le informazioni più aggiornate possono essere consultate sul sito di palazzo Chigi, nella sezione “amministrazione trasparente”. Il modello Persone fisiche 2018 (redditi 2017) di Antonio Di Maio segnala un imponibile di 88 euro appena. Un valore contenuto, specie se si considera che lo stesso Antonio è comproprietario di quattro fabbricati e nove terreni. La moglie dichiara invece intorno ai 52.403 euro; la sorella di Di Maio sta sui sette mila. Mentre il fratello Giuseppe non ha percepito redditi nel 2007. La situazione patrimoniale del vicepremier e la quota nell'azienda di famiglia. Il vicepremier socio al 50% di Srl Ardima, l’altra metà è della sorella. Quanto al vicepremier, la Certificazione Unica 2018 segnala un reddito di oltre 98mila e 400 euro. Il materiale online consente anche di capire qual è il rapporto tra il leader pentastellato e l’azienda di famiglia. Nell’ “Attestazione situazione patrimoniale 2018”, modello C, alla voce “Azioni e quote di partecipazioni in società”, emerge che Luigi Di Maio detiene, ad oggi, il 50% della Srl. L’altra metà della società è nelle mani della sorella del capo politico di M5s, Rosalba. Amministratore unico: l’altro fratello del vicepremier, Giuseppe. Oggi il padre di Di Maio non ha alcun legame con la srl, la cui attività è dunque seguita dai figli, soprattutto Rosalba e Giuseppe.

Fuga dal fisco in casa Di Maio. Il padre "cancellato" nel 2005. È da 13 anni che non risulta fare impresa in prima persona, eppure è lui che guida la ditta di famiglia, scrive Pasquale Napolitano, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale".  Le tracce dell'imprenditore-contribuente Antonio Di Maio, padre del vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio, si perdono il 31 dicembre del 2005. Dal primo gennaio 2006, per lo Stato italiano Di Maio senior non ha più alcuna attività censita dal Fisco. Nel 2005, il padre del capo politico dei Cinque stelle cancella, infatti, la ditta individuale artigianale che aveva costituito nell'anno 1995. C'è il sospetto che dietro la decisione di rinunciare a fare impresa in prima persona, ci sia il tentativo di scappare dalle maglie del Fisco. Sospetto che potrebbe trovare un'ulteriore conferma in un altro passaggio: il 3 settembre 2010, quattro anni dopo la chiusura della ditta artigianale, Equitalia iscrive un'ipoteca legale su due beni di proprietà di Antonio Di Maio. L'ipoteca scatta su due terreni nel Comune di Mariglianella per un debito di 176mila euro. Un'iscrizione ipotecaria può essere fatta per mille motivi: multe di vario tipo non pagate, bollette, fallimenti, detrazioni fittizie di cui l'Agenzia chiede la restituzione, o ancora tasse e imposte dovute e mai versate all'erario. Il debito potrebbe essere collegato agli anni in cui il genitore del vicepremier svolgeva l'attività imprenditoriale. C'è un altro elemento, che potrebbe fornire la spiegazione sulla lotta contro il Fisco ingaggiata dal genitore del ministro del Lavoro e sviluppo economico: nel 2006, quindi, pochi mesi dopo la decisione di chiudere la ditta individuale, la moglie di Antonio Di Maio costituisce una nuova ditta individuale, Ardima Costruzione. L'attività è identica a quella appena sciolta dal marito: la costruzione di edifici residenziali. Dunque, se la missione imprenditoriale è stessa, perché la famiglia di Maio ha deciso di cambiare la scatola societaria? Sembra un sistema di scatole cinesi. Una delle spiegazioni potrebbe essere il contenzioso con Equitalia. Ma c'è un buco nero. Di quattro anni, che il padre del vicepremier potrebbe aiutare a chiarire: tra il 2006, l'anno di nascita di Ardima (dopo la chiusura della vecchia ditta individuale artigianale) e il 2010 quando Equitalia fa scattare l'ipoteca sui beni di Di Maio senior. Quattro anni in cui in cui sarebbe potuto nascere un contenzioso tra il Fisco e il padre del vicepremier. Fino ad arrivare, nel 2010, all'azione sui beni. Il terzo anello si chiude nel 2013. Quando la ditta individuale, intestata alla moglie insegnante Paolina Esposito, confluisce in Ardima Srl: le quote sono assegnate ai due figli, Luigi Di Maio, all'epoca vicepresidente della Camera, e Rosalba Di Maio, architetto. Mentre Giuseppe Di Maio, terzo figlio, assume l'incarico di amministratore. Le attività di famiglia, nell'arco di un trentennio, cambiano per tre volte società. Nel mezzo, l'inserimento di Equitalia che potrebbe essere la chiave di lettura. Sul filone dei lavoratori in nero, è utile analizzare i costi del personale di Ardima Srl: 103mila euro nel 2016; 48mila nel 2015; 1632 nel 2014; 13mila nel 2013. Prima dell'ingresso in società del ministro i costi per i dipendenti erano bassi. Poi sono schizzati. Quello del Fisco potrebbe essere il nuovo filone che riguarda la famiglia del vicepremier. Mentre si attendono gli esiti del lavoro dei magistrati di Nola: la municipale di Mariglianella venerdì ha consegnato l'informativa su abusi edilizi e reati ambientali. I pm dovranno decidere se confermare il sequestro dei terreni dove sono stati ritrovati rifiuti speciali e soprattutto procedere sul versante dell'abusivismo edilizio.

Di Maio, accuse alla ditta del padre. Quando gli affari di famiglia imbarazzano il leader, scrive Riccardo Ferrazza su Il Sole 24 ore il 26 novembre 2018. Genitori che imbarazzo i figli politici. Rientra nel filone la vicenda raccontata ieri dalla trasmissione Le Iene con protagonista Antonio Di Maio, padre del capo politico del Movimento 5 Stelle: nella sua ditta (Ardima) c’erano persone che prestavano lavoro senza un contratto secondo quanto denunciato dall’operaio Salvatore (detto Sasà) Pizzo di Pomigliano d’Arco (il paese della famiglia Di Maio). Non solo lavoro in nero: lo stesso Pizzo ha raccontato che, quando ebbe un incidente, il padre del vicepremier gli chiese «di non dire che mi ero fatto male nel suo cantiere. Mi consigliò di dire che mi ero fatto male in casa, altrimenti gli avrebbero fatto una multa di 20mila euro». Attualmente le quote societario della Ardima srl sono ripartite al 50% tra il ministro dello Sviluppo economico e sua sorella; i fatti risalgono però a un periodo antecedente di due anni a quando Luigi Di Maio è diventato socio. «Io - ha risposto Di Maio all’inviato della trasmissione Mediaset - non gestisco direttamente l’azienda. E tra il 2009 e il 2010 non ero socio. A me questa cosa non risulta ma il fatto è grave, verificherò». Di Maio ha anche descritto le difficoltà nei rapporti con il proprio genitore: «Io e mio padre per anni non ci siamo neanche parlati, non c'è stato un bel rapporto, adesso è migliorato un po’. A quell’epoca avevo 24-25 anni, io nell’azienda di famiglia ho aiutato mio padre come operaio ma non gestivo le cose di famiglia. Devo verificare questa cosa, verifichiamo tutto assolutamente». Maria Elena Boschi commenta il caso in un video su Twitter. «Vorrei poter guardare in faccia il signor Antonio Di Maio, padre di Luigi, e augurargli di non vivere mai quello che suo figlio e i suoi amici hanno fatto vivere a mio padre e alla mia famiglia» dice riferendosi a Banca Etruria. «Mio padre è stato tirato in mezzo ad una vicenda più grande di lui per il cognome che porta e trascinato nel fango da una campagna di odio: caro signor Di Maio, il fango fa schifo» dice ancora riferendosi al fallimento di Banca Etruria, istituto di cui il padre Pierluigi è stato prima consigliere d’amministrazione e poi vicepresidente. Per il filone del falso in prospetto la Procura di Arezzo ne ha chiesto l’archiviazione. «È giusto che Fico venga in Parlamento a chiarire» disse nei giorni del “caso colf” Matteo Renzi. L’ex presidente del Consiglio e segretario del Pd è un altro protagonista politico che dagli “affari di famiglia” ha avuto qualche intralcio. Il padre Tiziano è finito indagato in uno dei filoni dell’inchiesta su Consip portata avanti dalla Procura di Roma: per Renzi senior i magistrati hanno chiesto l’archiviazione per l’accusa di millantato credito pur sottolineando che nel suo interrogatorio fece «affermazioni non credibili» fornendo una «inverosimile ricostruzione dei fatti». Una vicenda sulla quale uno dei più duri fu proprio Di Maio: «Dobbiamo fare di tutto - disse - per liberare le istituzioni dalla malattia del “renzismo”». Oggi, parlando del caso svelato dalla Iene, è Renzi a dire che Di Maio «deve chiedere scusa» per «una storia fatta di lavoro nero, incidenti sul lavoro, abusi edilizi e condoni». Tiziano Renzi, invece, chiede «cortesemente di non essere accostato a personaggi come il signor Antonio Di Maio». «Io - dice il padre dell’ex presidente del Consiglio - non ho mai avuto incidenti sul lavoro in azienda e se si fossero verificati mi sarei preoccupato di curare il ferito nel miglior ospedale, non di nascondere il problema. Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88 euro di tasse. Sono agli antipodi dall’esperienza politica missina» scrive nel suo intervento sull pagina Facebook. E conclude: «Se avessi fatto io ciò che ha fatto il signor Di Maio, i Cinque Stelle avrebbero già chiesto sui social la reintroduzione della pena di morte». Le vicende casalinghe hanno creato imbarazzo anche a un altro esponente di primo piano del Movimento 5 Stelle, Roberto Fico.Proprio Le Iene, ad aprile, avevano raccontato di presunte irregolarità nella posizione contrattuale di una colf del presidente della Camera nella sua casa di Napoli. Fico smentì spiegando che in quell’abitazione «non ci sono né ci sono mai stati collaboratori domestici a qualunque titolo né con contratto né senza». Poi aggiunse che c’è «una carissima amica della mia compagna Yvonne» e che «si aiutano a vicenda». In casa Movimento 5 Stelle c’è anche il protagonismo di un altro padre: Vittorio Di Battista, genitore di Alessandro, finito sotto inchiesta con l’accusa di offesa al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In un post del 23 maggio scorso pubblicato e poi rimosso su Facebook consigliava minacciosamente al capo dello Stato di andarsi a rileggersi le vicende della Bastiglia e poi scriveva: «Quando il Popolo di Parigi assaltò e distrusse quel gran palazzone, simbolo della perfidia del potere, rimasero gli enormi cumuli di macerie che, vendute successivamente, arricchirono un mastro di provincia. Ecco, il Quirinale è più di una Bastiglia, ha quadri, arazzi, tappeti e statue».

Fioccano denunce: «Dai Di Maio si lavorava in nero». Spuntano nuovi operai senza contratto nell’azienda di famiglia del vicepremier, scrive il 28 novembre 2018 Rocco Vazzana su "Il Dubbio". «I o sono a disposizione per dare tutte le informazioni che servono, ovviamente riguardano un periodo in cui non ero né socio né gestore di quella azienda, come non sono gestore dell’attuale». Luigi Di Maio è costretto a fornire ancora spiegazioni sulla società di famiglia, la Ardima, finita al centro dei riflettori grazie a un servizio delle Iene dedicato a Salvatore Pizzo, ex operaio dell’impresa edile, che sarebbe stato assunto in nero dal padre del vice premier. Ma quello di Pizzo non sarebbe un caso isolato. Il programma televisivo, infatti, ha trovato altri tre vecchi dipendenti dell’azienda di famiglia, chiamati a lavorare senza alcun contratto. E anche se si tratta di episodi avvenuti tra il 2008 e il 2010, dunque almeno due anni prima che l’attuale capo politico del Movimento 5 Stelle acquisisse il 50 per cento dell’impresa, le rivelazioni delle Iene non possono non imbarazzare il ministro del Lavoro. Grillino, per di più, purista dell’onestà a tutti i costi. Da quanto trapela (mentre scriviamo la trasmissione non è ancora andata in onda,ndr) le nuove testimonianze partono dal racconto di un uomo che avrebbe lavorato per almeno tre anni per il signor Antonio Di Maio senza alcun contratto. Ma a differenza di Salvatore Pizzo, questo ex dipendente dell’Ardima avrebbe denunciato il suo datore di lavoro e la causa sarebbe ancora in corso. Un dettaglio che potrebbe minare la solidità dell’autodifesa del ministro Di Maio, fin dal primo momento asserragliato dietro alla linea del «non sapevo». Le altre testimonianze raccolte dal giornalista Filippo Roma sono quelle di un operaio che avrebbe prestato servizio in nero per otto mesi e di un terzo uomo, assunto part-time senza alcun contratto, già impiegato su un altro cantiere per il resto della giornata. La notizia crea parecchio imbarazzo tra gli ortodossi pentastellati, già costretti a mandar giù la complessa convivenza con la Lega, e mette a dura prova la leadership del vice presidente del Consiglio. Per difenderlo deve intervenire persino Alessandro Di Battista dal Sud America. Per le opposizioni, invece, è l’occasione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Soprattutto per la vecchia dirigenza del Pd, a partire da Maria Elena Boschi e Matteo Renzi, in passato bersagliati dai banchi pentastellati proprio per vicende riguardanti i genitori. «Sull’azienda edile di Luigi Di Maio e sulle scelte di suo padre, ho già detto tutto nel post scritto l’altra notte. Per me basta e avanza: adesso toccherà al vice premier venire in Parlamento e spiegare all’Aula ciò che va chiarito», scrive su Facebook il senatore semplice Renzi. «Ma il ragionamento è un altro. Non mi interessa sbirciare dal buco della serratura che cosa ha fatto Di Maio padre», prosegue l’esponente dem. «Mi sconvolge pensare che Di Maio figlio ha voluto un decreto dignità prima e il reddito di cittadinanza poi che per definizione sono due misure che fanno aumentare la piaga del lavoro nero», affonda l’ex segretario del Pd. «Bisogna rendere più facili le assunzioni, non i licenziamenti come invece ha fatto il decreto dignità. Bisogna dare incentivi per assumere, come il JobsAct, non il reddito di cittadinanza. Bisogna combattere chi evade, non rinviare le fatturazioni elettroniche. Bisogna sanzionare chi fa gli abusi edilizi, non votare i condoni», insiste Renzi, prima di mettere definitivamente in dubbio la buona fede del leader grillino: «Noi siamo contro il lavoro nero, contro l’evasione, contro gli abusi edilizi. L’imprenditore Di Maio non può dire altrettanto. Ma il politico Di Maio da che parte sta?». E se il Pd chiede al ministro di riferire in Aula, Forza Italia non è da meno. «Non ci si può fidare di un ministro del Lavoro che risulterebbe socio di un’azienda accusata di aver fatto lavorare in nero uno o più operai», dice la vice presidente dei senatori azzurri, Licia Ronzulli. «Siamo sempre garantisti verso tutte le persone che subiscono un’accusa, ma riteniamo altresì che il ministro del Lavoro farebbe bene, se già non l’ha fatto, a risolvere il suo conflitto di interessi dimettendosi quantomeno da socio dell’azienda incriminata, lui che del conflitto di interessi degli altri ne fa la sua bandiera di vita», prosegue Ronzulli, stuzzicando Di Maio su un altro cavallo di battaglia del Movimento. «Non vorremmo, infatti, che il doppio incarico di ministro del Lavoro e di socio della società facesse desistere l’ispettorato del Lavoro, che opera sotto la vigilanza del ministro del Lavoro, dall’esercitare con serenità quelle funzioni di controllo e accertamento che gli sono proprie.

Dai terreni al lavoro in nero: il racconto di Luigi non torna. La replica del ministro è piena di contraddizioni: "Eredità dei nonni". Ma l'atto di acquisto è del 2000, scrive Pasquale Napolitano, Gioved' 29/11/2018, su "Il Giornale". Il giovane vicepremier Luigi Di Maio ha ricordi vaghi. Tanti non so. Mi sfugge. Ero giovane, non mi occupavo delle attività di famiglia. Eppure è già trascorsa una settimana dal giorno in cui il Giornale ha sollevato sospetti su alcuni manufatti costruiti sui terreni del padre, Antonio Di Maio, nel Comune di Mariglianella. Ad oggi non sono arrivate smentite. Né sono spuntati documenti che potrebbero chiarire il giallo. E, dunque, il mistero si infittisce. Martedì sera, nel salotto di Giovanni Floris, il capo politico dei Cinque stelle ha interrotto il silenzio sul caso degli immobili di Mariglianella, comune in provincia di Napoli a un tiro di schioppo da Pomigliano D'Arco, solo poche parole, insufficienti a dare risposta agli interrogativi posti con gli articoli del Giornale. «I terreni erano dei miei nonni. Che io ricordi ci sono un rudere, una baracca e un deposito per attrezzi. I manufatti risalgono ai tempi della Seconda guerra mondiale. I nonni, mio padre e mia zia hanno lasciato quelle proprietà in seguito al terremoto» - ha spiegato Di Maio, rispondendo alle domande di Floris. Parole su cui è opportuno fare alcune valutazioni. I terreni. Gli appezzamenti di terreno, almeno da quanto risulta sia all'Agenzia del Territorio che nel database del Conservatoria di Santa Maria Capua Vetere, sono stati acquistati con un atto redatto alla presenza di un notaio nel 2000: l'atto di vendita coincide perfettamente con la visura catastale. L'anno di costruzione. Di Maio sostiene che quei manufatti esistano già dal dopoguerra. Potrebbe essere vero. Però risulta strano che gli immobili non siano mai stati censiti né dall'Agenzia del Territorio (ex catasto) né dal Comune in 70 anni. E sembra un'anomalia che gli immobili, già presenti negli anni 50, non siano stati inseriti nell'atto di vendita nel 2000. Altri dubbi riguardano il materiale con cui sono stati costruiti i manufatti; sembrerebbe di recente costruzione. Il silenzio. Il ministro del Lavoro parla dei manufatti ma non fa alcun cenno al campetto di calcetto che ricade nella proprietà della famiglia Di Maio. È una struttura autorizzata o abusiva? Al netto della difesa del vicepremier, il mistero resta. Mentre ieri, nel tentativo di dar prova di non essere stato un lavoratore abusivo nella ditta del padre, Di Maio è caduto in un'altra contraddizione. Il vicepremier ha pubblicato sul Blog delle stelle il contratto di lavoro con la ditta di famiglia: un'assunzione trimestrale, da febbraio a maggio 2008. Peccato che lui stesso abbia, pubblicamente, dichiarato di aver passato l'estate a lavorare come muratore nell'azienda di papà. Oggi, invece, potrebbe esserci la prima svolta: i vigili urbani del Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli, alle 9 hanno un appuntamento. Ai cancelli di via Umberto I si presenterà il padre del vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Di Maio. Dovrà aprire i cancelli perché la polizia locale, inviata dal sindaco Felice Di Maiolo, che è di Forza Italia ma in questa vicenda vuole mantenersi rigorosamente neutrale, da buon amministratore, vuole tecnicamente «conoscere lo stato dei luoghi», vedere cioé se i dati catastali sono conformi a quanto è riscontrabile nella proprietà. Quei terreni sono solo per il 50 per cento di Antonio Di Maio e per metà della sorella e all'interno ci sarebbero dei manufatti, almeno tre, sui quali occorre fare delle verifiche. Se questi risultassero abusivi, tutta l'informativa passerebbe alla Procura di Nola che dovrebbe indagare per abusi edilizi. I vigili erano stati al terreno di via Umberto a Mariglianella già lunedì mattina. Cercavano il proprietario: Antonio Di Maio. Ma c'erano i lucchetti al cancello e non avevano il mandato per entrare in una proprietà privata. Così hanno notificato a Di Maio senior l'invito per oggi.

C'è pure il campo di calcio "spontaneo". Tra abusivismo e generosità: c'è un impianto usato per giocare a pallone, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 29/11/2018, su "Il Giornale". Mariglianella - I ragazzini disegnano slalom sull'erba. Il mister li incita a tenere il pallone incollato al piede. È pomeriggio di allenamenti nel campo del centro sportivo, anzi nell'attiguo campetto spuntato come un fungo fra le erbacce. A voler essere pignoli, chirurgici in un paese slabbrato ed elastico come una fisarmonica, in quel fazzoletto di terra non si potrebbe giocare a pallone, o almeno questo si ricava dalla lettura del rattoppatissimo piano regolatore che il sindaco Felice Di Maiolo mostra ai giornalisti. «In quest'area - spiega - non dovrebbero esserci impianti sportivi. In ogni caso stanno per partire gli accertamenti e chiariremo i dubbi». Franco Cucca, l'allenatore, la vede in un altro modo: «Questo non è un impianto sportivo, anzi non è nemmeno un campo da calcio». Anche se misura a spanne una trentina di metri e le zolle sono abbastanza curate. «Le porte - riprende il mister - possono essere smontate in un attimo. Anzi, devo ringraziare la signora Giovanna che ci permette di utilizzare gratuitamente, senza canone, questa striscia». La signora Giovanna, per la cronaca, è la zia del vicepremier, insomma la sorella del padre Antonio. Si apre dunque un nuovo capitolo nella saga sconcertante dei terreni di famiglia di Mariglianella su cui il Giornale ha posato la lente di ingrandimento. In quelle particelle di terra qualcosa non quadra: i dati catastali non combaciano con le foto satellitari e con una semplice occhiata oltre il cancello. Nel complesso si notano alcuni manufatti, casotti e piccoli edifici, che potrebbero essere irregolari. Ora, in un pozzo senza fondo, spunta pure il rettangolo verde da football. In bilico fra abusivismo e generosità. Una via di mezzo tutta italiana che non si sa come classificare. «Il campo comunale, gestito da privati, è insufficiente - riprende Cucca - i palloni finivano spesso al di là delle rete, nella proprietà dei Di Maio. Cosi quattro o cinque anni fa ci siamo rivolti alla signora Giovanna e lei è stata gentilissima: ci ha concesso quel terreno. Noi l'abbiamo pulito e sistemato, poi abbiamo messo le porte. Ma non è un vero campo, è un appoggio per l'allenamento dei pulcini che utilizzano i servizi e gli spogliatoi del campo principale, come pure i riflettori. Poi che le devo dire, se dovremo andarcene ce ne andremo». Proprio oggi i Di Maio sono attesi in Comune per chiarire la situazione ancora nebulosa. E per capire se ci siano stati abusi edilizi o no. Cucca, dipendente dell'Alenia con la passione per il calcio, si preoccupa: «Lo stato degli impianti a Mariglianella non è dei migliori. C'era un campo a undici, ma è stato chiuso anni fa. Dicevano che l'avrebbero ristrutturato ma non se n'è saputo più nulla. Facciamo come possiamo». Certo, le panchine a bordo campo potrebbero essere pericolose per i baby giocatori ed è difficile immaginare che tutte le norme sulla sicurezza siano rispettate. «Siamo sempre molto attenti - ribatte Cucca - e controlliamo i movimenti dei nostri campioncini. Qui non si svolgono competizioni agonistiche». È l'educazione dei piccoli talenti. Ma oltre la rete ci sono i Di Maio e tutto diventa più complicato.

Di Maio, ispettori e condono Doppio conflitto di interessi. I funzionari che dovrebbero indagare sul lavoro nero nell'azienda di papà dipendono dal suo ministero, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 29/11/2018, su "Il Giornale". Lui continua a promettere spiegazioni che per ora non arrivano e a camminare ignaro sulla storia della propria famiglia. Ma Luigi Di Maio è anche vicepremier e soprattutto ministro del Lavoro e l'orizzonte si fa sempre più oscuro.

La falsa onestà dei sepolcri imbiancati. Ci sono quattro persone che in forma diversa raccontano di aver prestato servizio in nero nell'Ardima, la società di costruzioni di cui il leader dei Cinque stelle e'socio al 50 per cento. Uno dei quattro, Mimmo Sposito, aveva pure fatto causa a Di Maio senior, o meglio all'Ardima, e in quel procedimento un altro lavoratore, Giovanni La Marca, aveva messo a verbale: «Ho lavorato in nero per un anno, per questo me ne sono andato. Guadagnavo 60 euro il giorno, in contanti, non regolari ma non ci sarà un seguito in tribunale. La storia è finita così». Ma potrebbe non essere conclusa per gli ispettori del lavoro che, combinazione, dipendono dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio. Certo, in primo grado, nel 2016, l'Ardima aveva vinto e la richiesta di indennizzo per 40mila euro era stata respinta, ma il risultato potrebbe cambiare, davanti al giudice d'appello che si occuperà del caso, con una sconcertante calma tutta italiana, nel 2020. Ci sono elementi e suggestioni che potrebbero portare gli ispettori a dare un'occhiata dentro il perimetro dell'azienda dei Di Maio. Insomma, gira e rigira, c'è'un potenziale conflitto di interessi che potrebbe esplodere: gli ispettori di Di Maio a casa dei Di Maio per verificare le condizioni dei dipendenti di Di Maio. Sembra una filastrocca, è un cortocircuito perfetto. Torna alla memoria la vicenda di Maria Elena Boschi che, imbarazzatissima, usciva da Palazzo Chigi quando si discuteva di banche e dell'istituto di credito di papa, la tribolatissima Banca Etruria di cui Pier Luigi Boschi era il vicepresidente. Il disastro dell'istituto di credito ha pesato sulle fortune del governo Renzi e le contraddizioni di Maria Elena hanno riempito intere rassegne stampa. Ora la ruota è girata, le spine sono in casa Di Maio. L'altra sera, ospite del salotto televisivo di Floris, il ministro ha sottolineato che in questo momento l'azienda di famiglia non lavora e non ci sono cantieri aperti, anzi ha disegnato un percorso che va verso la chiusura. Può essere, ma gli ispettori, come San Tommaso, potrebbero mettere il dito nella piaga. E sulle loro teste aleggerebbe una presenza a dir poco ingombrante. Un altro ex operaio, Salvatore Pizzo, detto Sasà, ha svelato poi che non solo lavorava in modo irregolare, ma che ebbe un incidente: in quell'occasione andò in ospedale ma Di Maio senior lo convinse a non denunciare l'accaduto. Il silenzio - questa la sua versione - comprato con la miseria di 500 euro, per non buttare in un mare di guai il piccolo imprenditore di Pomigliano. Il figlio Luigi non sa o afferma di non sapere tutte queste cose, ma ci sarebbe più di una ragione, sulla carta, per mettere il naso in quell'azienda, per riaprire gli accertamenti e per risentire i lavoratori. E però sarebbe tutto più faticoso e complicato, per via di quell'incrocio di ruoli, le troppe parti in commedia su un palcoscenico troppo piccolo. E l'onnipresente Di Maio potrebbe trovarsi invischiato, in teoria, in un secondo conflitto: i terreni di famiglia di Mariglianella sono sotto ipoteca, ma il condono fiscale appena varato dal governo gialloverde offre una via d'uscita per evitare che quegli appezzamenti di terra finiscano all'asta, come ha indicato in tv lo stesso vicepremier. L'adesione alla sanatoria fermerebbe, come previsto dall'articolo 3, comma 10, lettera E, la procedura e il patrimonio, peraltro molto modesto, sarebbe salvo. Forse l'adesione non converrebbe nemmeno ai Di Maio, ma questa è un'altra storia. Che non scioglie i nodi sempre più intricati della sua azione politica.

Siamo garantisti ma non fessi. Essere garantisti non significa essere fessi, non al punto da farsi prendere in giro dai Di Maio e dai Di Battista, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 28/11/2018, su "Il Giornale". Essere garantisti non significa essere fessi, non al punto da farsi prendere in giro dai Di Maio e dai Di Battista. E siccome siamo garantisti non chiediamo né manette né dimissioni, almeno non fino a sentenze passate in giudicato. Non le chiediamo per nessuno, neppure per il ministro Di Maio coinvolto con la sua famiglia in episodi più che sospetti di correttezza fiscale ed etica. Non lo facciamo perché siamo diversi da loro, che da anni insorgono, strepitano e infangano i rivali politici alla sola ipotesi che direttamente o per interposto parente siano coinvolti in qualche malaffare. Siamo convinti che le sentenze le debba emettere la Corte di Cassazione, non il Parlamento e neppure i giornali, e prendiamo atto con piacere che da oggi, grazie ai guai della famiglia Di Maio, anche i Cinquestelle la pensano così. Fa sorridere vedere Di Maio e Di Battista prima arrossire e poi strepitare contro chi racconta verità scomode che riguardano loro e i loro famigliari. Sempre rossa, ma di arroganza, era la loro faccia quando chiedevano la testa di Renzi, Boschi, Lupi e Guidi tanto per citare loro colleghi ministri all'apparire di presunti scandali che coinvolgevano loro congiunti, tutti peraltro poi assolti. I princìpi non si contano, si pesano. In questo senso l'ipotesi di aver truffato un lavoratore (caso babbo Di Maio) non è meno grave di quella di aver truffato un risparmiatore (caso babbo Boschi); e un possibile abuso di potere (caso babbo Renzi) non è più sconveniente di un probabile abuso edilizio (caso babbo Di Maio), tanto che i grillini nel 2013 guidarono dall'opposizione la rivolta per ottenere la testa dell'allora ministra Josefa Idem colpevole di un «banale» abuso edilizio nel garage di famiglia. Adesso i grillini scoprono di avere un passato e di tenere famiglia. Ma il loro passato e le loro famiglie non sono più sacre delle altrui per diritto divino. Il rispetto va conquistato, e senza le scuse per le infondate campagne forcaiole, la loro credibilità è pari a zero. Vuoi vedere che scavando si scoprirà che anche i grillini fanno parte di quella «classe dirigente corrotta» di cui parlava e sparlava Piercamillo Davigo, loro guru in fatto di giustizialismo? Chissà. Al momento la migliore l'ha detta l'ex ministro Gianfranco Rotondi, democristiano di lungo corso e uomo di spirito: «I familiari? Noi della Prima Repubblica avevamo il vantaggio che arrivando in età non più giovane alle prime file della politica eravamo quasi tutti orfani».

MANOVRA ECONOMICA. TUTTI CONTRO UNA.

Nemici esterni e traditori guastatori interni. Tutti contro l'Italia.

MANOVRA, ARRIVA LA BOCCIATURA DELL’UNIONE EUROPEA, scrive Mino Tebaldi il 21 novembre 2018 su L’Opinione”. La bocciatura ora è ufficiale. La manovra italiana non è stata accettata dall’Ue. Lo ha stabilito la Commissione europea, rigettando il documento programmatico di Bilancio del governo italiano per il 2019. Il documento prevede “un non rispetto particolarmente grave delle regole di bilancio, in particolare delle raccomandazioni dell’Ecofin dello scorso 13 luglio”. L’aspetto più importante della bocciatura, già stato avanzato a fine ottobre, riguarda il presunto peggioramento del saldo strutturale per il 2019 dello 0,8 per cento del Pil, mentre la Ue ha raccomandato di migliorarlo dello 0,6 per cento. Il governo europeo ha anche adottato il rapporto sul debito, quello che si riferisce all’articolo 126 del Trattato Ue, inaugurando, di fatto, una procedura per deficit eccessivo. Entro qualche settimana, comunque prima della fine dell’anno, prenderà il via l’iter. Secondo fonti vicine a Palazzo Chigi, il M5s non intende modificare la manovra. I pentastellati ritengono sufficiente fornire una puntuale spiegazione degli obiettivi e dei parametri contenuti nella legge di Bilancio. Dovrebbe essere il premier Giuseppe Conte in persona ad esporre i dettagli al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Conte ritiene di essere “convinto della manovra e della solidità del nostro impianto economico”. Sulla bocciatura della manovra da parte dell’Ue è intervenuto anche il vicepremier Matteo Salvini. “Ho sempre detto che – ha dichiarato – fatti salvi i principi guida su pensioni, reddito, lavoro, partite Iva, se si vuole mettere in manovra di più sugli investimenti io sono disponibile a ragionare con tutti”. Secondo il ministro dell’Interno, “il debito è aumentato di 300 miliardi di euro in cinque anni, in base a manovre a cui qualcuno batteva le mani. Se il Paese non cresce il debito sale, se il Paese cresce il debito scende. Sono assolutamente disponibile a confrontarmi con Juncker, Moscovici o chiunque”. La conclusione del leader leghista è ironica: “È arrivata la lettera Ue? Aspettavo anche quella di Babbo Natale”.

Sul ring Ue 18 addosso a uno, scrive il 16 novembre 2018 Andrea Indini su "Il Giornale". Diciotto contro uno. Il governo italiano è avvisato. Nei prossimi giorni l’Unione europea si armerà per fare a pezzi la manovra economica che, come ribadito nella lettera di risposta consegnata da Giuseppe Conte alla Commissione Ue, conferma il rapporto deficit/Pil al 2,4% e le previsioni di crescita all’1,5%. Si parte con l’apertura delle procedura di infrazione e si arriverà (più in là) alle sanzioni economiche. Una morsa a tenaglia che vede i Paesi del Nord Europa addosso al Belpaese per obbligarlo a rispettare le regole imposte da Bruxelles. E, mentre l’Italia si trova sempre più sola, si fa strada il sospetto che qualcuno voglia indebolirci per portarsi a casa i gioielli di Stato a prezzi di saldo. L’assalto al governo gialloverde sarà compatto. “Non sono solo, non sono il "cattivo contro Salvini", come alcuni amano pensare – annuncia il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici – sono il commissario europeo in carica, sostenuto dalla totalità dei ministri delle Finanze, dai diciotto Paesi della zona euro, eccezione fatta per l’Italia”. Diciotto contro uno, appunto. Il prossimo 21 novembre questi diciotto metteranno bene in chiaro che Conte e soci non potranno sforare nuovamente il debito come già fatto nel 2017 dal governo Gentiloni. Questa volta, però, non lo faranno solo a parole. Ma passeranno ai fatti aprendo, appunto, la procedura di infrazione. Che, se dovesse essere per deficit, ci costerà interventi correttivi da 9 ai 12 miliardi di euro; se, invece, dovesse essere per debito, richiederanno misure che peseranno sui nostri conti dai 40 ai 60 miliardi di euro. Una batosta pesantissima, insomma. Tra i diciotto, pronti a scendere in campo al fianco di Moscovici, ci sono sicuramente i Paesi del Nord Europa che, come hanno fatto sapere fonti governative al Messaggero, “hanno costituito un gruppo di ultrà del rispetto dei vincoli di bilancio”. Ovviamente, in prima linea ci sono anche Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Quest’ultimo, in modo particolare, è “il più intransigente” contro l’esecutivo italiano. Oltre a ritenere qualsiasi concessione all’Italia “un favore a Salvini e, di riflesso, alla Le Pen”, il capo dell’Eliseo avrebbe mire sui nostri gioielli di famiglia, come Eni, Enel e Fincantieri. “Gioielli che – assicurano le stesse fonti – se scattasse la procedura per debito, potremmo essere costretti a vendere. E i francesi sono lì, pronti, a fare shopping”. Proprio come hanno fatto i tedeschi con la Grecia quando ricevette gli aiuti di Stato dalla Troika. I commissari continuano ad assicurare che le sanzioni economiche saranno l’extrema ratio. Eppure chiunque salga sul ring europeo, sferra ganci pesantissimi contro l’Italia. Lo ha rifatto oggi l’Austria e lo rifaranno altri Paesi, sempre con più violenza, mano a mano che si avvicina il prossimo 21 novembre, quando la Commissione Ue darà la propria opinione sulle manovre di bilancio di tutti gli stati membri. Una bocciatura (ormai scontata) porterà a un’ingerenza sempre più massiccia fatta di deadline da rispettare, obiettivi di deficit da raggiungere e misure da mettere in cantiere. Bruxelles potrebbe anche arrivare a chiedere l’accantonamento di 3,6 miliardi di euro. “Sono dei pazzi se davvero aprono contro il nostro Paese la procedura d’infrazione – ha sbottato Matteo Salvini in un colloquio col Messaggero – insorgerebbero 60 milioni di italiani”. Secondo alcuni analisti, però, Bruxelles non arriverà mai allo scontro totale. Ma, in vista delle elezioni europee, è piuttosto probabile che l’Italia possa essere trasformata in una sorta di agnello sacrificale sull’altare dell’auterity per dimostrare cosa succede a chi osa sfidare le regole europee.

Dal sogno Ue di Patrie e Popoli, all’incubo Ue di banche e finanza, scrive Mimmo Della Corte il 10 novembre 2018 su "Il Sud siamo Noi". Se vivesse oggi, anziché, com’è stato nella seconda metà del settecento, Sebastien-Roche Nicholas, scrittore francese, meglio noto come Nicholas De Chamfort, certamente scriverebbe dei commissari europei, ciò che ai suoi tempi, scrisse degli economisti ovvero che “sono dei chirurghi che posseggono un ottimo scalpello e un bisturi sbrecciato, lavorano a meraviglia sui morti e martirizzano i vivi”, che non è certo un complimento, anzi. Corrisponde al vero. E l’asservimento ai loro diktat dei “politicanti” italioti, e non solo da quando è ufficialmente nata l’Ue nel 2000, ha indebolito così tanto il Belpaese, costringendolo – per poter far fronte alle continue richieste “unioniste” – a far crescere tasse, gabelle, accise, costo dei servizi – senza, per altro migliorarne, anzi peggiorandolo, il livello qualitativo – e del lavoro, e perchè no, facendo nascere sempre nuovi e più pesanti balzelli. Conseguenze: livello sempre più alto della pressione fiscale, diminuzione del potere d’acquisto dell’euro in Italia, gelata dei consumi, imprese sempre più ingestibili ed ingovernabili, “made in Italy” cannibalizzato dalla concorrenza estera; esplosione della disoccupazione e della povertà, sia relativa che assoluta. gelata dei consumi, aziende in fuga, posti di lavoro in fumo, esplosione della disoccupazione e della povertà, sia relativa che assoluta. E per averne contezza, basta riflettere su quanto si sta verificando, oggi, fra Bruxelles e Roma, a proposito della manovra finanziaria “gialloverde”. Sacrifici per tutti, vantaggi per pochi. Non era davvero questo l’obiettivo dell’Europa sognata dai suoi padri fondatori. Che, in verità, come sa benissimo chi mi legge, non piace neanche al sottoscritto. Ma che è stata bocciata da Moscovici e compagni ancor prima della definizione. E questo, per la fobia tedesca dell’inflazione, in nome dei molok: risanamento dei conti, pareggio in bilancio e riduzione del debito pubblico. Risultato: cancellazione di tutto quanto sapesse anche minimamente di stato sociale, assistenza e previdenza. Il che ha praticamente cancellato il ceto medio, mentre ha allungato le distanze fra i più ricchi ed i meno abbienti. Ma anche fra gli Stati più ricchi e quelli meno “dotati”, scatenando, così, una vera e propria guerra, fra gli uni e gli altri, che arricchisce ulteriormente i ricchi ed impoverisce sempre più i poveri. E certamente non era questo l’obiettivo dell’Europa delle Patrie e dei Popoli che disegnarono De Gaulle, De Gasperi, Schumann ed Adenauer. Decisamente no. Del resto, questa è l’Europa delle banche e della finanza, voluta da Soros, Lehman Brothers, Merkel e Junker. E purtroppo, le conseguenze peggiori continua a pagarle il Mezzogiorno che, anche a causa dei ritardi accumulati nel tempo, mostra sempre maggiori difficoltà a reggere l’impatto con i sacrifici imposti dall’Ue.

Bloomberg si schiera con il governo Conte e contro la Commissione Ue di Junker e Moscovici, scrive Clairemont Ferrand il 27 ottobre 2018 su Silenzi e Falsità. Suscita sorpresa che sul sito di Bloomberg, un gruppo che opera a livello globale nel settore dei mass media con sede a New York e filiali in tutto il mondo, che riflette il pensiero di una parte consistente della finanza globale, si possa leggere un articolo il cui contenuto, a firma di Ashoka Mody (Professore di politica economica internazionale alla Princeton University), è un attacco alle insensate politiche di Junker e Moscovici e un sostegno alla politica economica del Governo Conte. Già di per sé il titolo è di una chiarezza cristallina: “Il bilancio italiano non è così folle come sembra. I funzionari dell’UE devono riconoscere che il paese ha bisogno di stimoli”. Intanto è scritto da uno che prima di fare il professore alla Princeton era vicedirettore dei dipartimenti europei del Fondo monetario internazionale, che si presume debba avere una conoscenza approfondita della UE. E il fatto che la sua analisi e la sua presa di posizione compaia su Bloomberg ne rafforza ulteriormente la credibilità. Vediamo più in dettaglio il pensiero del Prof. Mody. L’incipit è il seguente: “I leader europei hanno messo a dura prova l’Italia per i suoi piani di aumento della spesa con l’obiettivo di stimolare la crescita e aiutare i poveri. Quello che non riescono a riconoscere è che un piccolo stimolo potrebbe essere proprio quello di cui l’economia italiana ha bisogno”. Facilmente saprete riconoscere in queste parole quanto vanno continuamente ripetendo Conte, Di Maio, Salvini e Savona. E in maniera sempre drastica continua sostenendo che la Manovra del Governo Conte “potrebbe essere l’unico modo per evitare una pericolosa recessione, che potrebbe portare l’Italia in una crisi ingestibile. Certamente, l’insistenza della UE affinché il governo italiano onori l’impegno del suo predecessore (Governo Gentiloni, ndr) a ridurre il deficit di bilancio è del tutto irragionevole. L’austerità aggraverà il crollo e, di conseguenza, aumenterà l’onere del debito pubblico (espresso in percentuale del PIL). Questo, a sua volta, aggraverà piuttosto che allentare le tensioni di mercato”. Il professore non manca di evidenziare anche i punti critici della Manovra messa a punto dal nostro Governo, in quanto “l’Italia si trova di fronte a un rapporto debito/PIL, pari a circa il 132%, che è già estremamente elevato. È quindi fondamentale che la spesa aggiuntiva non spinga il deficit di bilancio oltre l’obiettivo del 2,4%” previsto dal governo”. Dopo aver osservato che la posizione pubblica della Commissione UE ha innalzato lo spread, determinando virtualmente un incremento del costo del finanziamento del debito pubblico, mette in guardia chi utilizza “questo come un’utile fonte di pressione” sul Governo italiano, perché “sta giocando con il fuoco in una polveriera”. Spiega poi le conseguenze che potrebbero essere catastrofiche, non solo per l’Italia, di questo folle azzardo. Infine raccomanda un approccio collaborativo da parte della UE, cambiando l’attuale posizione di netta e pregiudiziale chiusura nei confronti del nostro Governo, acconsentendo invece al programmato modesto incremento del deficit, in quanto questo cambiamento “rassicurerà gli investitori e calmerà i mercati”. Conclude in maniera lapidaria: “I funzionari europei dovrebbero riconsiderare rapidamente la loro posizione”. Ma il Prof. Mody non sa che questo richiamo alla ragionevolezza va indirizzato prima di tutto ai guastatori italiani, i quali pur di impedire che il legittimo Governo possa operare nel pieno delle sue prerogative, sono disposti a dar fuoco all’Italia con l’azione terroristica che stanno follemente portando avanti.

MANOVRA BOCCIATA. Gli errori dell’Ue nel verdetto ammazza-Italia. Nel documento che definisce il nostro debito pubblico “allarmante” si imputa all’Italia come le riforme imposte proprio dall’Europa non abbiano favorito la crescita. Marco Biscella il 22.11.2018 intervista Luigi Campiglio su Affari italiani. Bruxelles ha bocciato il Documento programmatico di bilancio del governo italiano per il 2019. Scrive, infatti, la Commissione nel suo rapporto sul debito: “La nostra analisi di oggi – rapporto 126.3 – suggerisce che il criterio del debito deve essere considerato non rispettato. Concludiamo che l’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito è quindi giustificata”, perché la manovra italiana vede un “non rispetto particolarmente grave” delle regole di bilancio, come ha ribadito lo stesso vicepresidente responsabile per l’euro, Valdis Dombrovskis, durante la conferenza stampa. Dombrovskis ha poi aggiunto: “Il debito italiano rimarrà attorno al 131% per i prossimi due anni. Non vedo come perpetrare questa vulnerabilità potrebbe aumentare la sovranità economica. Invece, credo che porterà nuova austerity. Con quello che il Governo italiano ha messo sul tavolo, vediamo un rischio che il Paese cammini come un sonnambulo verso l’instabilità”. E’ davvero così?

“È una motivazione della sentenza – risponde Luigi Campiglio, professore di politica economica all’Università Cattolica di Milano – dove, a differenza di ciò che accade normalmente nella giustizia, pare che l’ultima riga, quando si dice che non mostriamo compliance e che la procedura è giustificata basandosi su debito e deficit, viene posta in cima e non in fondo. Dai toni e dai giudizi espressi dalla Commissione appare una sentenza che contiene un groviglio di contraddizioni, probabilmente dettate molto da motivazioni politiche, visto che a maggio 2019 si voterà in tutti i Paesi Ue”. E commenta: “Con questi giudizi e dichiarazioni incaute la Commissione Ue sta facendo qualcosa che non è nell’interesse dell’Europa. E sì che la Commissione dovrebbe essere sensibile al nobilissimo progetto dell’Europa unita. Sembra invece di vedere lo stesso copione usato con la Grecia: anche se la partita non è ancora chiusa, la voglia di Bruxelles sembra quella di finirla in questo modo”.

Nel mirino della Commissione Ue è finito il nostro debito pubblico. E’ davvero “allarmante” da giustificare l’avvio di una procedura?

Dovendo commentare un documento di questo genere, mi sovviene quel che avviene spesso negli Stati Uniti.

In che senso?

Le persone interpellate, se sono critici verso il governo, esordiscono dicendo: guardate che sono un patriota, amo il mio paese, e intendo fare delle critiche costruttive in nome del mio Paese.

Quali sono le sue critiche costruttive alla Ue dopo questa bocciatura?

Noi siamo un grande Paese dell’Europa, fondatore della Ue. E di fronte a un Paese fondatore il commento della Commissione avrebbe dovuto essere più rispettoso, tenendo oltre tutto conto del fatto che noi abbiamo attraversato dieci anni veramente molto difficili, dei quali si dà scarsamente conto se non in una nota finale, in cui i commissari Ue sì accolgono le giuste considerazioni, che evidentemente il ministro Tria ha portato avanti, ma in modo notarile, tanto che di fatto vengono ignorate. Si parla, per esempio, per la prima volta della delegazione italiana nel gruppo di lavoro sull’output gap, cioè il prodotto potenziale, e si dice che sulla base di queste stime saremmo addirittura in regola con le grandezze di riferimento strutturali. Dopo di che, di queste valutazioni, nel documento finale, non si è tenuto conto nella maniera più assoluta. Vorrei lasciare comunque la porta aperta alla possibilità che possano essere riconsiderate più avanti.

Nel documento si fa riferimento anche al deficit?

Sì, ma in modo molto curioso.

Perché?

Il disavanzo in sé non è l’elemento decisivo, perché altrimenti ci sarebbe una lunga fila di Paesi con deficit fuori posto, a partire dalla Francia. A diventare centrale è, appunto, la questione del debito. Ma su questo punto è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare, andando a vedere come il rapporto debito/Pil dell’Italia si è evoluto negli anni.

Che cosa emerge da questo sguardo retrospettivo?

Nel 2007 il rapporto debito/Pil in Italia era pari al 99,8%, mentre in Germania era il 63,7% e in Francia il 64,5%.

E come si arriva al 131% di oggi?

Arriva la prima crisi, che in Italia viene sentita prima che negli altri Paesi europei, poi nel 2009 un’altra recessione, durissima. A quel punto il rapporto debito/Pil, per la solita storia del numeratore, sale al 115,4%, crescendo di 15 punti, mentre in Germania aumenta di 17 punti e in Francia di 20 punti. Qui subentra una crisi mondiale e arrivano le manovre lacrime e sangue di austerità. E se guardo a quanto è variato il rapporto debito/Pil dal 2010 al 2014, noto che in Germania, Paese che ha continuato a crescere con l’export e tutto il resto, cala di 6 punti, passando dall’81% al 74,5%, mentre in Francia sale di 10 punti e da noi di 16 punti. E’ in quel momento, usciti dalla prima e dalla seconda crisi, che il debito/Pil balza al 131%.

Nel frattempo, l’Europa non resta con le mani in mano, o no?

È vero, vengono varate una quantità esorbitante di regole, di tutto e di più, ma una regola fondamentale, che avrebbe dovuto essere contemplata fin dall’inizio della nascita dell’area euro – e qui abbiamo anche noi le nostre colpe – viene completamente ignorata.

Quale regola?

Dalla notte dei tempi, cioè dalla fine degli anni Cinquanta, da quando Mundell, il padre nobile dell’unione monetaria, dichiarava che l’Europa non era un’area monetaria ottimale e che eventuali crisi, normali, potevano essere assorbite con la mobilità dei fattori, si sottolineava la parola chiave: il rischio che shock asimmetrici fossero un problema per la tenuta complessiva dell’Unione monetaria europea.

Dove sta l’asimmetria dell’Italia?

La nostra principale asimmetria nasce dal fatto di avere ereditato prima dell’ingresso nell’area euro un elevato debito, già nel 1998-99. Questo debito elevato, pari al 105% nel 2000, in condizioni normali dell’economia era sceso al 99,8% del 2007. Dunque, per quanto riguarda ciò che ci imputano, il nostro punto di partenza era particolarmente sfavorevole, e lo si sapeva benissimo. Quando arriva, una crisi senza precedenti dal secondo dopoguerra ha portato a due brevi periodi, il secondo soprattutto, che ha fatto saltare il rapporto debito/Pil dal 115% al 131%.

Questo che cosa dovrebbe farci capire?

Il punto è: esistono regole per tutto, ma una regola che consenta di trattare le conseguenze da shock asimmetrici, che tutti riconoscono, credo anche in documenti ufficiali della Ue, non c’è. È come dire: andiamo tutti in gruppo, stiamo compatti, ma a un certo punto accade un evento imprevisto e nel colpire tutti, come accade per le influenze, alcuni sono più esposti e ne risentono di più. Ecco, c’è qualcosa che possa aiutare chi è più “allergico”? Nelle regole minuziose, e per molti versi poco intelligenti dell’Europa monetaria, questo aspetto non è mai considerato.

Fuor di metafora, visto che noi siamo quelli più “allergici”, che cosa sarebbe necessario fare e non è stato fatto?

Innanzitutto, dare più tempo, a chi ha una crisi allergica, di recuperare e di superare lo shock. Sottolineo: dare più tempo. Se nella normalità si chiede a tutti di essere al massimo livello in ogni momento, è giusto dare quel lasso di tempo utile a far riprendere il respiro. L’Italia si trova nella posizione attuale anche per l’eredità del passato. E’ una situazione che diventa paradossale, se solo ricordiamo che nel 2007 il nostro rapporto debito/Pil era al 99,8%, un livello che oggi ha, per esempio, la Francia. Non bisogna far pesare gli errori del passato su chi c’è oggi.

Perché, secondo lei, diventa paradossale?

C’è un passaggio, a pagina 8 del documento della Commissione, che dice: “Nonostante i progressi passati, realizzati in importanti aree di riforma (mercato del lavoro, riforme dell’amministrazione pubblica, lotta all’evasione…) l’eredita della crisi continua a pesare sulla crescita potenziale dell’Italia. L’Italia è ancora molto sotto al suo livello pre-crisi e questo spiega anche i fattori strutturali che hanno impedito l’efficiente allocazione di risorse, che costituisce un freno alla produttività”. E si nota che ancora un’ampia quota di pensioni di vecchiaia e di servizio del debito frenano i fattori di crescita, come l’educazione e le infrastrutture. Ebbene, che noi si spenda poco per l’education e le infrastrutture è vero, ma questa è una conseguenza delle politiche di austerity del periodo 2011-2013. Con l’austerità noi abbiamo tagliato del 15% in termini reali le spese per l’educazione e abbiamo tagliato violentemente – e ce lo imputano pure! – gli investimenti.

Di quanto?

Gli investimenti pubblici lordi – il numero fa impressione – in Italia tra il 2010 e il 2016 sono caduti del 32%, mentre in Germania sono cresciuti solo del 2%. Come vuole che se ne esca quando tutto opera in direzione contraria? È proprio un passaggio paradossale di questo giudizio della Ue, un passaggio in cui si dice: avete fatto tutto quello che vi abbiamo detto, ma ancora non crescete? Ma come mai? Guardate che avete ancora troppe persone anziane… Ma si dà il caso che giovani e natalità sono crollate anche a causa, se non soprattutto, della crisi economica. Siamo in una situazione neo-malthusiana. E che la Ue ce lo venga a imputare, in questo momento di difficoltà, può essere sì parte del gioco, ma non è certo un atteggiamento particolarmente collaborativo per ridare fiato al Paese.

Sta dicendo che con questi rilievi la stessa Ue, in un certo senso, “riconosce” che la strada dell’austerity non funziona?

Esattamente. Ci accusano di non aver fatto investimenti, e questo è invece uno dei fattori importanti per ritrovare la via della crescita.

Professore, in conclusione, qual è il suo giudizio sulla bocciatura Ue?

È un giudizio non solo scritto con la penna avvelenata, ma anche molto contraddittorio, perché quello che ci viene addebitato è causato dalle politiche che abbiamo dovuto adottare, spinti proprio da valutazioni di questo genere.

Visto che all’inizio parlava di sentenza, il finale è già scritto? Siamo già condannati alla procedura d’infrazione?

Mi auguro che la partita non sia ancora chiusa. Ma ciò che veramente preoccupa è che dichiarazioni ufficiali di tal fatta sono come profezie che si autoavverano. È come gridare sempre “al lupo, al lupo!”: alla fine il lupo arriva davvero. Ora il rischio grosso diventa l’andamento dello spread, che agisce subito sulla sottoscrizione dei titoli pubblici, come abbiamo visto in questi giorni con la faticosa asta dei Btp.

Luigi Campiglio, nato a Milano nel 1947, è professore ordinario di Politica economica all’Università Cattolica di Milano dal 1990. Laureato in Università Cattolica nel 1972, ha completato i suoi studi in Inghilterra e in altre università estere: è stato visiting scholar per diversi anni all’Università di Stanford e fellow del Churchill College dell'Università di Cambridge. È stato direttore dell’Istituto di Politica economica dell’Università Cattolica di Milano e editor della Rivista Internazionale di Scienze Sociali. È stato ed è componente del comitato scientifico di numerosi istituti di ricerca, fra cui l’IReR e il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale. Ha diretto progetti di ricerca a livello nazionale e locale ed ha partecipato a progetti di ricerca di interesse internazionale. È stato componente della Commissione Garanti del Ministero per l’Università per il finanziamento della ricerca in Italia. La sua attività di ricerca ha riguardato temi teorici e applicati dell’economia; in particolare la distribuzione del reddito, lo Stato sociale, l’economia della famiglia, l’inflazione e la misurazione dei prezzi, l’incertezza nelle decisioni economiche, il rapporto fra economia e sistema politico. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali ed estere e libri, sia di testo sia di saggistica.

Borsa, bocciatura Ue già scontata. Piazza Affari rimbalza. Spread giù. Subito dopo l'Ue, lo spread tra Btp e Bund tedeschi si allarga a 320 punti, ma poi ripiega a 313, scrive Mercoledì 21 novembre 2018 Affari italiani. La "letterina" di Bruxelles viene completamente ignorata dai mercati. Dopo la bocciatura da parte della Commissione Ue del documento programmatico di bilancio del governo italiano per il 2019, i mercati hanno solo un momentaneo smarrimento. Lo spread Btp-Bund torna infatti a calare, così pure Piazza Affari che riduce i guadagni solo per un momento e poi torna ad essere il migliore listino del Vecchio Continente.

Bocciatura UE e spread? Armi delle élites. Bifarini: Creare occupazione. Ecco come. La bocciatura Ue è uno spauracchio. L'Italia non cresce e le élites al potere vogliono tenerla nell'austerity. Il perché lo spiega l'economista Ilaria Bifarini, scrive Antonio Amorosi, Mercoledì 21 novembre 2018, su Affari italiani. Dopo che la commissione Ue ha bocciato la manovra del governo italiano (M5S-Lega) abbiamo intervistato l'economista Ilaria Bifarini, fresca del suo nuovo lavoro editoriale “I coloni dell'austerity”: “Le élites europee ed italiane vogliono mantenere lo status quo. Lo fanno per propagandare con il controllo dei media questo modello economico che risulta perdente, sminuendo e ridicolizzando ogni piano alternativo e anche chi la pensa in modo differente. Lo fanno fin nel dettaglio con un macchina del fango sistematica”, spiega ad Affaritaliani.

Il Patto di stabilità, chi lo difende e chi lo vuole violare. Ma com'è nata la regola del 3%? Figlio di un'intuizione di una sera a Parigi, il limite del 3% è stato bollato come "stupido" da chi lo gestiva, Romano Prodi, e violentato per primo dai suoi "genitori", Francia e Germania. Che ora lo difende a spada tratta contro le richieste di flessibilità, scrive il 24 gennaio 2018 Europa Today. Di Maio vuole sforarlo, Berlusconi lo difende in Europa e lo attacca in Italia, Renzi lo difende e basta, pur chiedendo un po' di flessibilità. Tutti a parlare di lui, del limite del 3% tra deficit e Pil, inserito in calce nell'architettura europea tanto da diventare, nei tempi dell'ultima sanguinosa crisi, un vero e proprio dogma, rafforzato dalla necessità per i paesi dell'euro, di fare ancora meglio, ossia di raggiungere la parità di bilancio. Ma com'è nato questo limite del 3%, quella cifra che per i suoi detrattori è 'malefica', strozzando le economie europee, e per i suoi fautori è invece 'magica', assicurando stabilità di fronte alle mareggiate dei mercati?

L'intuizione di una sera a Parigi. Ebbene, chiariamolo subito, il tetto del 3% per il disavanzo dei conti pubblici è una regoletta che non ha nessun fondamento macroeconomico. Anzi, è la creazione di un giovane economista, non ancora trentenne, che una sera del 1981 dovette creare su due piedi uno 'slogan' per l'allora neo-presidente francese François Mitterrand. La storia di Guy Abeille, all'epoca funzionario delle Finanze, ha dell'incredibile: come ha spiegato più volte, una sera del 1981, l'economista, rimasto in ufficio assieme a un collega del ministero, Roland de Villepin, un cugino del futuro primo ministro Dominique de Villepin, ricevette una telefonata dal suo superiore, che riportava una richiesta urgente dell'Eliseo. Dalla presidenza si spiegava che "Mitterrand voleva una norma che fissasse un tetto alla spesa pubblica, una cifra da opporre ai ministri che si presentavano in processione nel suo ufficio a chiedere denaro. Qualcosa di semplice, di pratico, non una teoria economica. Ci è venuto in mente il deficit, abbiamo visto il disavanzo di quell'anno, abbiamo controllato quale fosse il Pil e abbiamo fatto una semplice operazione. Ed è venuto fuori il 3%". "La cosa interessante di questa storia - ha ammesso Abeille - è che a posteriori tutti hanno dovuto legittimare questo parametro e gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche". Che semplicemente non c'erano: il 3% è il frutto dell'intuizione di una sera.

Da Parigi a Bruxelles passando per Maastricht. Dall'Eliseo a Bruxelles il cammino passa per Maastricht. Nel 1991, ossia dieci anni dopo, quando si entrò nel vivo dei negoziati che avrebbero portato alla moneta unica, il “paletto” creato per caso in Francia entrò nei trattati dell'Euro grazie al capo negoziatore di Parigi, Jean-Claude Trichet, guarda caso il futuro presidente della Bce. Per convincere l'allora Ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel - le resistenze tedesche erano fortissime anche nel 1991 - Trichet sottolineò come il tetto fissato dalla Francia "aveva funzionato benissimo" e in una situazione di crescita nominale in Europa di circa il 5%, e un'inflazione al 2% i debiti potevano crescere al massimo del 3 % all'anno, mantenendosi al di sotto del 60% del Pil. Quest'ultimo è l'altro paletto delle politiche fiscali dell'Eurozona, ma assai meno rispettato, basta vedere il caso cronico dell'Italia e quello più recente, ma più acuto, della Grecia, tutti ben oltre il 120%. Che poi la crescita del 5% non si sia quasi mai vista, è un altro discorso, ma se Trichet non avesse fissato quel numero, probabilmente la Germania avrebbe chiesto un Patto al 2% e sarebbero stati ancora più dolori.

Il 3% diventa architettura comunitaria. Il Patto entra così nell'architettura comunitaria, aumentando il suo ruolo mano a mano che si stringono le maglie della zona euro e si fanno più interconnesse le economie europee. L'entrata, nel 2002, dell'euro fisico nelle tasche e nei portafogli degli europei, chiude il primo cerchio, ma il tutto, come ha insegnato l'ultima crisi, quando la costruzione era ancora incompleta e mancavano una serie di norme per rendere più coesa - e quindi più resistente - la zona euro. 

Il Patto "è stupido, ma necessario", parole di Prodi. Il primo attacco lo lancia un ispirato e criticato Romano Prodi in un'intervista a Le Monde di metà ottobre 2001. Al diario parigino l'ex premier affermava che "il Patto di stabilità dell'Unione europea è stupido come tutte le decisioni rigide, ma necessario". Per intenderci all'epoca Prodi era Presidente della Commissione Ue, ossia l'incaricato ultimo di vegliare sull'applicazione del Patto. Un primo attacco che affrontava il tema centrale della governance: "il Patto - diceva ancora Prodi al diario parigino - è imperfetto, è vero, perché bisogna avere uno strumento più intelligente e con maggiore flessibilità, ma sapete bene che se vogliamo flessibilità e intelligenza, serve autorità e nessuno ce l'ha, questo è il problema. Bisogna avere l'unanimità e questo non funziona. Non possiamo - insisteva il guardiano del Patto - avere un'Europa florida, forte, in crescita, senza poter aggiustare le sue decisioni in ogni momento".

La prima imboscata: "il giorno della ribellione dei governi". Quelle di Prodi erano parole, che sollevarono non poche polemiche, ma niente in confronto alla prima imboscata in piena regola che attende il Patto, un agguato architettato da Giulio Tremonti, allora ministro dell'economia del governo Berlusconi, che esercitava la Presidenza di turno della Ue, e perpetrato a favore di chi è ora il guardiano più feroce delle sue regole, la Germania. E di chi l'ha creato, la Francia. Era il 25 novembre 2003, data che nella ricca ma breve storia comunitaria è nota come il 'giorno della ribellione dei governi', anche se in realtà, come ogni intriga degna di questo nome, la ribellione si consumò di notte. In sostanza, Tremonti, dopo ore e ore di riunioni infuocate, sottomise al voto a maggioranza qualificata la proposta della Commissione di sanzionare Germania e Francia, ree di saltare per il terzo anno consecutivo il limite del 3%. E vinse il partito delle non-sanzioni, della linea soft, del dare un altro anno di tempo a Berlino e Parigi per rimettere i conti a posto, in barba alle regole, ma anche per non strozzare l'economia dei due paesi. Votarono contro i falchi di sempre, Finlandia, Olanda ed Austria, più la Spagna. Un anno dopo la Corte di Giustizia della Ue dava ragione ai falchi ed alla Commissione, ma era ormai troppo tardi, lo strappo era stato consumato.  

Il tema della flessibilità è sempre lì. Passato nemmeno un lustro, e con i conti a posto e l'economia rilanciata, la Germania è rientrato a fare comunella con i falchi e ha imposto, dall'inizio della crisi ad oggi, regole ben più dure, inserendo l'obbligo di parità di bilancio nelle economie della zona euro. Al tempo stesso il dogma del 3%, soprattutto da che Jean-Claude Juncker è al timone della Commissione Ue, è applicato non senza un certo margine di discrezionalità, a volte anche politica, per favorire un governo di fronte ai rischi di una scalata considerata populista da Bruxelles.  Ma anche così il tema della flessibilità del Patto di stabilità, di un'intuizione di una notte, bollata come stupida da chi le gestiva e violata per la prima volta dai suoi più strenui difensori e dai suoi ideatori, è ancora lì, puntuale. E non solo a ogni campagna elettorale. 

Ma quale Grecia, fu Prodi a truccare i bilanci, scrive l'8 maggio 2015 Giampaolo Rossi su "Il Giornale".

AMNESIE. Due giorni fa, in un convegno pubblico, l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi ha “rivelato” che la Grecia truccò i conti per entrare nell’euro. In molti hanno sottolineato come sia stupefacente che Prodi sveli questa verità solo di fronte al fallimento dell’euro e ad una crisi generata dagli errori di allora. Eppure nessuno ha fatto notare una cosa ancora più stupefacente: e cioè che Prodi accusa la Grecia di ciò di cui, in Europa, accusano lui.

L’OPERAZIONE AUTOINGANNO. Nel 2011, il settimanale tedesco “Der Spiegel” pubblicò una lunga inchiesta giornalistica sulla cosiddetta “Operazione autoinganno”, quella con la quale il governo tedesco e l’Europa chiusero gli occhi di fronte ai trucchi contabili dell’Italia messi in atto per riuscire a rientrare nei parametri di Maastricht necessari ad aderire alla moneta comune. E chi fu a truccare i conti italiani per far entrare il nostro Paese nell’euro? Un nome a caso: Romano Prodi. L’inchiesta, basata sullo studio di numerosi documenti del governo di Berlino, relativi agli anni 1996-1998, dimostrava che l’allora Cancelliere tedesco Helmut Kohl era pienamente consapevole che l’Italia non aveva alcuna solidità economica per entrare nell’euro; e che solo ragioni politiche lo spinsero a non tenere conto degli avvertimenti dei suoi economisti. Già nel febbraio del 1997, i funzionari della Cancelleria tedesca rimasero sorpresi quando a seguito di un vertice italo-tedesco il governo Prodi presentò dati del deficit di bilancio fin troppo diminuiti rispetto alla stime previste anche da FMI e OCSE. La sensazione fu che si fosse attivato un italianissimo gioco delle tre carte sui conti pubblici italiani. Qualche mese dopo, Jürgen Stark, importante economista tedesco che diventerà capo della Bundesbank, denunciò le pressioni del governo italiano sulla Bce affinché non “prendesse una posizione critica” nei confronti dell’eccessivo debito dell’Italia. Nel marzo del 1998, l’allora capo dei negoziatori tedeschi a Maastricht, Horst Köhler (che poi diventerà direttore del FMI e in seguito Presidente della Germania) scrisse direttamente a Kohl che l’Italia rappresentava “un rischio particolare per l’euro” perché non aveva operato alcuna “riduzione permanente e sostenibile di deficit e debito”.

IL TECNOCRATE, IL BANCHIERE E I COMUNISTI. Nell’inchiesta, Der Spiegel spiegò che Romano Prodi ed il suo ministro del Tesoro, il banchiere Carlo Azeglio Ciampi (definito un “giocoliere finanziario creativo”), adottarono un mix di trucchi contabili (la” tassa per l’Europa” e la vendita delle nostre riserve auree), che si sommarono alla circostanza favorevole di “tassi storicamente bassi”. In questa maniera il tecnocrate a capo di un governo di neo-comunisti e banchieri ottenne il risultato di far apparire i conti italiani a posto, promettendo all’amico Kohl che poi li avrebbe consolidati in seguito. In Europa erano consapevoli di questo inganno ma il Cancelliere fu inamovibile; vi erano considerazioni politiche che imponevano che l’Italia entrasse nell’euro a tutti i costi: non si poteva tenere fuori un paese fondatore dell’Europa. La situazione era talmente pericolosa che il Primo Ministro olandese in un incontro riservato con Kohl spiegò che “l’ingresso dell’Italia era inaccettabile” in assenza di prove aggiuntive che facessero vedere un consolidamento di bilancio “credibile”. Der Spiegel concludeva in maniera netta che l’aver accettato che l’Italia entrasse nell’eurozona “ha creato il precedente per un errore ancora più grande: l’ingresso due anni dopo della Grecia”. Oggi noi paghiamo l’imbroglio di allora costruito sulla pelle degli italiani e della nostra economia. Forse Prodi dovrebbe regalarci un po’ di silenzio.

Tutti contro il governo pentaleghista, tra clown involontari e circo mediatico: siamo alla comica finale, scrive Roberto Ragone il 26 maggio 2018 su "Osservatoreitalia.eu". E il nuovo governo cerca di dispiegare le vele, con Giuseppe Conte al timone. Tranne M5S e Lega, tutti soffiano contro, tanti piccoli Eolo. La televisione ci porta la testimonianza di questo, nei Tiggì e nei Talk Show dedicati alla politica. Di contorno, anche qualche discutibile umorista – tipo Crozza, o involontario anche lui, come Fazio, otto milioni di euro all’anno dalla RAI “servizio pubblico” – in altre trasmissioni, che con la politica non hanno nulla a che fare. Ma tant’è, l’Italiano medio – vorremmo dire mediocre – si occupa di politica quando non dovrebbe, e viceversa, quando sarebbe necessario approfondire per dare un indirizzo al paese, almeno evitando le castronerie che ci ammanniscono senza par condicio – vedi il defunto Renzi – si rifugiano nella plebiscitaria presenza sui canali che trasmettono partite di calcio. Non importa quali, purchè sia calcio. Quelle sono le occasioni in cui si sentono talmente patriottici, da esporre al balcone una bandiera tricolore comprata al mercato. Insomma, siamo messi proprio male.

Dicevamo della TV. È diventata un circo. Qualcosa che ormai è fuori moda, e soltanto pochi tenaci nostalgici continuano in queste imprese, il più delle volte con le toppe al sedere. C’è però uno spettacolo che non passerà mai di moda, ed è quello dei clown, dei pagliacci, per dirla in italiano. Grandi scarpe sformate, viso dipinto con labbra assurde, ciuffi di capelli applicati con una cuffia di gomma, e di solito un simulacro di frack, papillon enorme tutto storto, e poi tanta fantasia in un abbigliamento che deve soltanto provocare ilarità. La TV è diventata un circo, a cui alternativamente s’affacciano vari modelli di clown, – involontari – e le risate che suscitano non sono nelle loro intenzioni. Il nuovo governo – e ancor più il nuovo presidente del Consiglio – hanno suscitato aspre critiche da tutte le parti politiche non coinvolte nel governo.

Ma proprio tutte. Cominciamo con il centrodestra, escluso dalla preclusione di Gigi Di Maio. Un Berlusconi sempre più appannato e malfermo ha tracciato la linea: a morte il governo, ma soprattutto il M5S. E se la prende anche con Mattarella, colpevole, a sentir lui, di non avergli consentito di provare a trovare i voti in parlamento. Come un sol uomo – ah, il dio danaro, cosa fa! – tutti gli azzurri, e purtroppo anche una frastornata Giorgia Meloni (4,2%) si sono accodati compatti a dire le stesse cose. Gasparri è un vero campione di logorrea, la retorica è la sua scienza. Riesce a dire tutto e il contrario di tutto quasi nello stesso momento. È stato perciò delegato a partecipare praticamente in modalità costante ad Agorà il "bel" programma del mattino "leggermente" orientato ancora verso il PD. Poi ci sono Rosato, Maggiore, Romano, Fiano – tutti ‘onorevoli’, – e le varie soubrette Piddine e non solo che si alternano davanti alla telecamera. Il tema è sempre quello. Gli argomenti sempre quelli. Governo delle destre (quante, non era una sola?), governo pericoloso (perché?), attacco ai risparmiatori e alle fatiche annose del loro lavoro (come se Renzi non lo avesse già fatto, con pretesti vari), programma irrealizzabile (a priori? Aspettate un attimo), governo populista (termine oggi assunto al rango di insulto), premier che ha mentito sul curriculum (già fatto anche quello, una regola per un ministro PD: e la Fedeli?), eccetera eccetera.

I clown di Bruxelles. Junker (ma quanto beve a pranzo? O bisogna intervistarlo solo al mattino?), Moscovici, Dombrowski, ora perfino Macron (da che pulpito) criticano un governo "populista", "antieuropeista", "delle destre" e via così. Il tutto sullo sfondo del solito spread (ormai il re è nudo) manovrato ad arte, ma che non va oltre un certo limite, perché c’è gente che ci rimette. È chiaro che preferivano – loro – quello di prima. Siamo arrivati all’assurdo. Ora quando il faccione di uno di questi personaggi appare sullo schermo, scoppiamo a ridere. Ormai la gente li ha relegati al pari dei comici, e neanche bravi. Senza parlare dei “nostri”, dei quali potremmo doppiare gli interventi, togliendo l’audio, tanto sono sempre uguali i loro disgraziati piccoli discorsi. Possiamo dirlo? Smettetela, fate ridere. Forse vorreste portare acqua al mulino di Renzi, Martina e PD – già avevamo dimenticato il buon Martina, il nemico degli uliveti pugliesi – ma sortite esattamente l’effetto contrario. Potremmo reclutarli in blocco e farne uno spettacolo itinerante, magari con un bel tendone variopinto, ma senza tigri e cammelli, e girare per l’Italia; e magari anche a Bruxelles, loro patria di adozione. Ci fermiamo qui.

Savona l’antieuropeista? Intanto il combattuto forse ministro dell’economia Paolo Savona ha rivelato che la nostra attuale condizione dell’Italia in ambito europeo è esattamente quella a cui tendeva il programma di un ministro del governo di Hitler, negli anni ’40. Nel quale si era prevista, come si è realizzata oggi, una ‘gabbia’ tedesca per l’Italia,- IV Reich? – delegata al rango di luogo ameno e di villeggiatura, al pari della Francia, mentre alla Germania sarebbe toccato di gestire industrie di vario genere. Esattamente ciò che si è ottenuto oggi con l’ingresso nell’area euro e nella UE. Pochi sanno che nel convegno di Yalta, a fine conflitto, si decise che all’Italia fossero posti dei paletti sine die, limitandone l’espansione economica e politica. Esattamente quello che invece Aldo Moro riuscì a realizzare. Purtroppo, al pari di Mattei – che voleva dare impulso alla nazione e ci era riuscito, rendendola autonoma sotto il profilo energetico, e surclassando gli Inglesi – fu ucciso. E la spinta propulsiva dell’Italia, in campo economico ed energetico, cessò improvvisamente. Savona, il quasi ministro dell’economia, fa paura, non solo per le sue idee anti-euro, ma anche perché, come ricordava qualcuno, a 82 anni non ha remore a dire fuor dai denti ciò che pensa.

6 Italiani su 10 vorrebbero uscire dall’Unione, e dall’euro. E se pensiamo a come queste condizioni sono state imposte e sfruttate – comprendendo anche inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio operato alla chetichella – possiamo capirli e dar loro tutte le ragioni. Finalmente, aggiungiamo noi, qualcuno ha incominciato ad aprire gli occhi. Se l’Italia dovesse attuare quella che si chiama Italexit, l’Unione Europea traballerebbe, forse senza speranza. E la Germania potrebbe andare a cogliere margherite. Insomma, lo sport nazionale è diventato, anche sui social, criticare la coalizione di governo, criticare il curriculum di Conte, criticare i programmi, e tutti si accodano – è molto ‘trendy’, vuoi vedere che rispuntano i ‘radical chic’? – dietro al pifferaio di Hamelin. Tutte queste reazioni ci dicono una cosa sola: l’Europa, ma soprattutto la Germania, temono l’Italia libera da pastoie europeistiche, fino a rendere concreta, all’opinione pubblica italiana, la possibilità di uscita dall’euro. Il che ci renderebbe tutti più liberi e felici, e finalmente la nostra nazione – ingiustamente sanzionata da Yalta in poi, quando addirittura s’era deciso di dividerla in quattro diverse zone d’influenza, – USA. UK, Francia e URSS – potrebbe rinascere, con una economia sana e veritiera, non pilotata dall’alto. E dettare noi le leggi all’UE, quelle che fanno meglio ai cittadini italiani e alla nazione. Discorso populista, sovranista? Certo. E’ ora di finirla di assimilare questi termini ad insulti. Semmai sono reati d’opinione, e la UE, grazie a Dio, non è ancora arrivata a sanzionare la libertà di pensiero – ma non ci manca molto, se continuiamo così. Il Professor Savona è in rampa di lancio, ma come al solito le banche, lo spread, l’UE, la Merkel e le agenzie di Rating pretendono di scegliere il nostro governo, condizionando pesantemente il parere di Mattarella, – quello di Napolitano era autoprodotto, essendo lui un feroce e interessato propugnatore della nostra sottomissione – e quindi rischiamo di dover tornare a votare. Cosa che noi ci auguriamo. In definitiva, la sorpresa più grossa l’avrebbero tutti gli europeisti e schiavisti che ci vogliono sotto il tallone dell’establishment europeo. Diciamo chiaro a queste gente che siamo stufi delle loro ingerenze in casa nostra. Che rispettino il voto di undici milioni di Italiani. In politica, come altrove, si vince e si perde: loro hanno perso, affidandosi a chi affidabile non era, e non è, tuttora, don Matteo Renzi. Non Tiziano, quello deciderà la magistratura se sia affidabile o meno. Se questo è sovranismo, ben venga. Abbiamo altre tradizioni noi, che quelle europeiste, specialmente di ‘questa’ Europa. Rimane la pena che certi parlamentari aggiogati a questo o a quel carretto, e per caso concordi, ma per ragioni opposte, suscitano in chi davanti al televisore vorrebbe sentirli finalmente pronunciare qualcosa di serio, e non solo buffonate vestite da dichiarazioni politiche. Se ne sono capaci.

Mattarella bacchetta il governo e difende l'Unione europea. Il presidente Mattarella avverte: "No a mercanteggiamenti sul bilancio e nazionalismi. Nessuno può mettere in discussione l'Ue", scrive Andrea Riva, Venerdì 14/09/2018, su "Il Giornale". Per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ci sono dubbi. Il futuro dell'Unione europea sarà migliore senza nazionalismi e mercanteggiamenti. La prima carica dello Stato, parlando al vertice di Arraiolos, che riunisce 13 presidenti di Paesi europei per discutere del futuro dell'Unione, ricorda di essere "nato durante i bombardamenti" e di aver per questo "un'innata diffidenza, e un'innata idiosincrasia verso qualunque pericolo di nazionalismo e di guerre". Per questo motivo - prosegue Mattarella - non si può "riproporre dentro l'Unione un clima che non è soltanto concorrenziale ma è di contrapposizione, che poi diventa contrasto, poi diventa ostilità, diventa non sappiamo cosa". Il riferimento è, ovviamente, ai tragici fatti della Prima e della Seconda guerra mondiale, costati la vita a migliaia di cittadini sia europei che non. La spinta a unirsi nella Comunità europea prima e l'allargamento a est poi ha avuto lo scopo di "abbandonare il passato mettendo in comune il futuro degli europei", ha detto Mattarella. Ora "tutto questo è messo, oggi, in discussione e in crisi. Noi dobbiamo far comprendere, in maniera palese ed evidente, alle nostre pubbliche opinioni, ai nostri concittadini, che anche le realtà attuali, il mercato unico, lo spazio Schengen, l'unione monetaria, rispondono a questo stesso spirito, hanno lo stesso obiettivo: mettere in comune il futuro degli europei". E ancora: "L'Italia è un contributore attivo dell'Unione. Ma mi sono sempre rifiutato di considerare questi rapporti sul piano del dare e avere, anche perché i benefici dell'integrazione non sono quasi mai monetizzabili interamente. Non è attraverso il calcolo contabile che si definisce il vantaggio che l'Unione assicura a tutti i suoi componenti". E poi l'avvertimento: "Non c'è movimento che possa mettere in discussione questo valore storico, però va fatto comprendere con maggiore efficacia". Le parole del presidente colpiscono ancora una volta. Proprio pochi giorni fa, aveva detto, citando Scalfari e tirando una frecciatina al ministro dell'Interno Matteo Salvini: "Nessuno è al di sopra della legge".

Ecco tutti i magheggi di Macron contro l’Italia, scrive Pierluigi Magnaschi su un articolo pubblicato su Italia Oggi e ripreso il 25 giugno 2018 da Startmag. Il commento di Pierluigi Magnaschi, direttore del quotidiano Italia Oggi, sulle posizioni della Francia di Macron in relazione all’Italia. E da almeno due anni che il presidente francese Emmanuel Macron, proseguendo nel tracciato dei suoi predecessori all’Eliseo, dà i numeri nei confronti dell’Italia, con la connivenza, purtroppo, degli ultimi quattro governi italiani che non hanno mai fatto arrabbiare lui né i suoi predecessori (con l’eccezione solo di quello di Gentiloni, grazie al ruolo in esso svolto da Minniti e da Calenda).

GLI ATTEGGIAMENTI DEI PASSATI GOVERNI ITALIANI. L’atteggiamento dei governi italiani passati nei confronti della Francia è stato sempre di supina e incondizionata accettazione delle scelte transalpine. Ma non erano solo i governi italiani a essere supini nei confronti della Francia (in anatomia si parla, se si vuol essere esatti, di posizione genopettorale). Anche i grandi media italiani (di carta ed elettronici) hanno quasi sempre invitato il governo di Roma all’accettazione dei diktat di Parigi e, comunque, all’embrassons-nous, all’abbracciamoci, con i «cugini d’Oltralpe».

LE QUESTIONI LEGATE ALL’IMMIGRAZIONE. Anche ieri c’erano alcuni grandi media che, senza alcun pudore e sfidando il ridicolo, si domandavano, preoccupati, se le proposte lega-pentastellate a proposito di immigrazione ed Europa rischiano di incrinare i buoni rapporti fra l’Italia e la Francia. Pare di capire, in base ai ragionamenti della nostra intellighenzia, che, anche se l’Italia è un paese di 60 milioni di abitanti, con una struttura industriale che è seconda in Europa solo alla Germania, deve stare a cuccia e attendere, per potersi muovere, il cenno di Macron.

IL CONTRASTO FRA INTERESSI. Che questo modo di procedere non sia dignitoso per l’Italia (oltre che dannoso ad essa) se ne sono perfettamente accorti gli elettori italiani, quelli che non hanno frequentato le grandi scuole e che alle volte si impiantano anche nei condizionali, ma che sono in grado di intuire quali sono i loro interessi (individuali e dell’intero paese), mentre le grandi teste magari lo sanno, dove sta l’interesse nazionale, ma fanno finta di dimenticarselo per trarne utilità o per non avere grane.

IL DOSSIER SULLE LEGIONI D’ONORE…Un giorno o l’altro pubblicheremo l’elenco completo dei politici italiani ai quali la Repubblica di Francia ha conferito, in pompa magna, la Legion d’honneur nei sontuosi saloni dipinti da Carracci a Palazzo Farnese. La Legion d’honneur è la massima decorazione conferita dal presidente della Repubblica francese a coloro che si sono segnalati «per gli straordinari meriti resi alla Francia». Negli ultimi anni, il 70% di esse è stato conferito, in Italia, a leader del centro-sinistra perché l’Eliseo aveva capito che era da lì che potevano essere munti i maggiori favori per la Francia.

LE PAROLE DI SALVINI SU LIBIA E NON SOLO. Salvini, a proposito di immigrazione alluvionale e Francia, ha parlato con una lingua schietta, diretta e comprensibile. E con essa ha spiegato le cose come stanno. E cioè che è stata la Francia che, con l’abbattimento del regime di Gheddafi, fatto, ai tempi di Sarkozy, solo per conseguire interessi politici transalpini a danno dell’Italia e delle sue attività sul piano energetico e geostrategico (il controllo del Mediterraneo), ha destabilizzato tutta l’area del Nord Africa, togliendo così ogni limite e controllo ai negrieri delle carrette che trasportavano (e trasportano) i migranti verso l’Italia.

CHE COSA HANNO FATTO I GOVERNI MONTI, LETTA E RENZI. È vero che purtroppo i governi Monti, Letta e Renzi (giustamente e definitivamente puniti nei partiti a loro succeduti in occasione soprattutto delle elezioni del 4 marzo scorso) hanno più volte firmato il contratto capestro dell’Accordo di Dublino (in tutte le sue successive modificazioni) anche se potevano astenersi. Questo accordo prevede che ai migranti si debbono prendere le impronte digitali al momento del loro sbarco (che, per motivi geografici e di rassegnazione politica, avviene quasi sempre solo in Italia). Se poi questi immigrati sono beccati a vagare, o a lavorare, negli altri paesi Ue, essi vengono riconsegnati non ai paesi d’origine (che spesso sono difficili da individuare perché da essi vengono astutamente camuffati) ma al paese d’ingresso, cioè all’Italia.

LA QUESTIONE DEI CONFINI. Fino a che i confini a Nord dell’Italia (e cioè verso la Francia e l’Austria) non erano stati ancora rigidamente blindati, l’abnormità dell’accordo di Dublino era stata attenuata, nei fatti, dai parziali espatri degli sbarcati in Italia verso i paesi del centro Europa e il Regno Unito. La situazione, per quanto già allora inaccettabile, rimaneva sostenibile. Ma da quando la Francia ha blindato i suoi confini e, per disposizione di Macron, getta brutalmente giù dai treni a Mentone anche le donne incinte e respinge tutti subito con la forza a Ventimiglia, il deflusso verso il centro Europa ha cominciato a rigurgitare verso l’Italia.

CHE COSA COMBINANO I FRANCESI. Visto inoltre che in Svizzera (che non fa parte della Ue ma è la nazione più blindata di tutti) non riesce a entrare nemmeno una foglia senza l’autorizzazione del governo, e visto che l’Austria ha minacciato di schierare i carri armati sul confine contro chi, in un modo o nell’altro, volesse forzarli, tutta l’immigrazione dal Nord Africa è costretta a ristagnare in Italia, per cui un problema europeo è stato declassato ad italiano, soprattutto per iniziativa di Macron, dato che i tedeschi si vergognano di imitarlo su questo terreno.

COME RIVEDERE IL TRATTATO DI DUBLINO. In attesa di rivedere il Trattato di Dublino (ma non come vuole la Francia, che sarebbe una ulteriore presa in giro) si può intervenire per ridurre i flussi dei migranti dall’Africa, collaborando con i paesi del Centrafrica per bloccare quelli che arrivano da quest’area e realizzare in Libia e/o in altri paesi del Nord Africa gli hotspot (notiamo che quando c’è da proporre un’insostenibile puttanata, in Europa la si designa in inglese).

IL DOSSIER HOTSPOT. Gli hotspot infatti sono molto semplicemente dei «campi di concentramento», non di tipo nazista come alcuni esagitati vorrebbero designarli, ma come quelli degli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Gli hotspot funzionerebbero da luoghi di identificazione dei profughi (che sono circa solo il 20% degli immigrati) mentre l’80% di migranti economici dovrebbe essere respinto, senza essersi mai allontanati dal continente africano.

CHE COSA PROPONE MACRON. Macron, ma non si capisce con che faccia (e poi ci sono dei grandi columnist italiani che non vogliono farlo arrabbiare!) Macron, dicevo, propone, per non disturbare l’Africa, dove infatti egli ha altri interessi, che gli hotspot vengano realizzati in Italia. È questo il risultato della politica di inossidabile deferenza che i governi italiani hanno riservato a Parigi e segnatamente a Macron.

IL PENSIERO DEGLI ITALIANI. Salvini, come la maggioranza degli elettori italiani, ha detto basta a questo sopruso, non solo senza fine ma anche destinato a crescere, se non viene contrastato da politici italiani che conoscono qual è, in questo caso, l’interesse nazionale e sono disposti a difenderlo anche perché, particolare non indifferente, hanno piena ragione a comportarsi così e a impedire a Macron (che, per fortuna, non è tutta la Francia) di fare il gradasso contro un paese che Parigi avrebbe interesse a considerare come amico.

PERCHE’ LE REAZIONI ITALIANE SONO GIUSTIFICATE. Un paese invece che Macron aizza. Giustificando le reazioni italiane. È sintomatico notare che la troppo lunga acquiescenza dei leader italiani nei confronti della Francia di Macron è venuta meno in occasione dell’ingresso violento a Bardonecchia, come se fosse casa loro e senza avvisare la polizia italiana, dei gendarmi francesi. In quell’occasione, persino un politico illustre e decorato della Legion d’honneur ha criticato pubblicamente il presidente francese. Macron, che insiste nella sua arroganza da primo della classe, peraltro già in corso di ridimensionamento in Francia anche da parte di alcuni dei suoi uomini, non si è accorto che Bardonecchia è stato il punto di non ritorno delle sue relazioni con l’Italia. Peggio per lui.

Corsi e ricorsi (storici nda) della manovra, quando l’Italia rischiava di essere bocciata dall’Europa, scrive Marco Zatterin il 24 Ottobre 2018 su La Stampa. Da Berlusconi a Renzi fino a Gentiloni, tutte le volte che i nostri governi hanno attaccato l’Ue per guadagnare tempo e trattare migliori condizioni. «Se l’Europa boccia la manovra la ripresenteremo uguale». Salvini? Di Maio? No. Matteo Renzi alle 8,25 del mattino di 16 ottobre di tre anni fa sotto l’incerto cielo belga. Furioso, forse anche per aver fatto controvoglia le quattro del mattino a Palazzo Justus Lipsius. «Bruxelles non è il maestro che fa l’esame, non ha i titoli per intervenire – tuonò l’allora presidente del Consiglio – in questi anni c’è stata una subalternità psicologica dell’Italia verso gli eurocrati».

Caro Moscovici, Renzi, Monti e Berlusconi hanno fatto più debito di Conte. Il Commissario UE ci bacchetta sul deficit al 2,4%. Come ministro delle Finanze, però, portò il deficit della Francia nel 2012 al 5%, scrive Andrea Del Monaco, Esperto Fondi Europei, su huffingtonpost.it il 14/11/2018. Nel 2012 l'allora Ministro socialista francese delle finanze Pierre Moscovici spinse il deficit della Francia al 5% del PIL francese, l'allora premier spagnolo popolare Mariano Rajoy portò il deficit della Spagna al 10,5% del PIL spagnolo mentre l'austero presidente italiano Mario Monti conteneva il deficit italiano al 2,9% del nostro PIL. Lo stesso socialista Pierre Moscovici, oggi Commissario Europeo agli Affari economici, boccerà la manovra italiana per disavanzo eccessivo. Quale indebitamento il presidente del Consiglio Giuseppe Conte chiede di poter fare a Bruxelles nel 2019? Il 2,4% del PIL. Nel 2015 quale indebitamento ha fatto Renzi? Il 2,6% del PIL. E il governo Gentiloni nel 2017? Il 2,4%. Quanto debito l'austero Monti ha chiesto di poter fare a Bruxelles sia nel 2012 sia nel 2013? Il suddetto 2,9% del nostro PIL. Addirittura nel 2009, il governo di Silvio Berlusconi, all'acme del suo consenso politico, spinse l'indebitamento al 5,3%. Solo nel 2017, l'allora governo Gentiloni, chiese a Bruxelles di potersi indebitare per l'anno corrente 2018 meno di quanto ha chiesto l'attuale governo Conte: 1,6% del nostro PIL che, nelle previsioni della Commissione Europea, dovrebbe arrivare all'1,8%. In tabella 1 potete vedere il deficit degli ultimi anni per Italia, Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna, USA e Giappone. I numeri sono dedotti dal file "Indicatori economici e finanziari" prodotto dal Servizio Studi-Dipartimento Bilancio della Camera dei Deputati. Si possono trarre quattro conclusioni:

1) ad eccezione del governo Gentiloni nell'ultimo anno, tutti i Governi precedenti si sono indebitati più di questo Governo;

2) ergo quando le opposizioni del Pd e di Forza Italia criticano il governo Conte perché sta lasciando debito sulle spalle dei nostri figli dovrebbero prima di tutto fare autocritica sul debito che hanno lasciato quando erano al governo: nel meraviglioso romanzo "La fattoria degli animali", metafora della rivoluzione bolscevica, George Orwell scrive che al principio "tutti gli animali sono uguali" presto seguì il principio "Ma alcuni sono più uguali degli altri". Usando la figura retorica, non della similitudine, ma dell'analogia, potremmo dire che per Pd e Forza Italia il debito emesso dai loro governi è più uguale del debito emesso da Lega e M5S;

3) il governo Conte, poiché ci indebita meno dei governi precedenti e nel contempo deve finanziare il reddito di cittadinanza e il superamento della riforma Fornero, dovrà tagliare la spesa pubblica in altri settori come sanità e scuola;

4) ultimo, ma non meno importante, Lega e M5S, quando sostengono di fare spesa pubblica per pensionati, disoccupati e imprese, dovrebbero ricordare che, poiché fanno meno spesa pubblica, sono più austeri dei governi Monti e Renzi. Ovviamente Forza Italia e Pd non ammetteranno che hanno fatto più debito del governo Conte. E Lega e M5S non riconosceranno che hanno fatto più austerità dei governi precedenti.

5) Per Bruxelles il deficit di Francia e Spagna è consentito mentre quello dell'Italia non è consentito: Francia e Spagna sono orwellianamente più "uguali" dell'Italia.

Perché il Commissario Europeo agli Affari economici Pierre Moscovici e il Vice presidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis in una lettera al Ministro dell'Economia Tria hanno chiesto di ridurre il deficit per il 2019 allo 0,9% del PIL accusando il governo Italiano di tradire gli impegni presi? Perché il governo Gentiloni, nel Documento Programmatico di Bilancio elaborato alla fine del 2017, aveva concordato con Moscovici e Dombrovskis il seguente percorso di raggiungimento del pareggio di bilancio rappresentato in tabella 2. Per il 2019 il governo Gentiloni aveva assicurato avremmo avuto un deficit pari allo 0,9% del PIL. Al contrario, nel Documento Programmatico di Bilancio inviato alla Commissione Europea, il governo Conte per il 2019 vuole fare un deficit pari al 2,4% del PIL, ovvero l'1,5% in più rispetto a quanto concordato da Gentiloni (2,4-0,9=+1,5). Per tale ragione il 18 ottobre 2018 Moscovici e Dombrovskis hanno scritto al ministro Tria una lettera nella quale lamentavano tale deviazione dell'1,5% rispetto agli impegni presi da Gentiloni sull'indebitamento. Addirittura per il 2020 Gentiloni aveva preso l'impegno di raggiungere quasi il pareggio di bilancio con solamente lo 0,2% di deficit; al contrario il governo Conte ha programmato per il 2020 un deficit pari al 2,1%. In questo caso lo scostamento tra l'impegno preso dal governo Gentiloni e la proposta del governo Conte arriva a quasi il 2%. Ma perché il governo Gentiloni ha preso tale impegno? Semplicemente perché l'Italia, più di tutti gli altri paesi europei a eccezione della Germania, ha deciso di perseguire il pareggio di bilancio a causa del suo alto rapporto Debito/Pil pari al 131% del Pil nel 2017.

Malgrado il governo Conte riduca il suo indebitamento annuale rispetto a governi precedenti, la Commissione Europea minaccia una procedura per disavanzi eccessivi perché la riduzione è insufficiente nel percorso di avvicinamento al pareggio di bilancio. Ma gli altri Stati cosa hanno fatto in questi anni? Nel 2012, mentre noi sotto Monti eravamo al 2,9%, la Gran Bretagna arrivava all'8,2%, gli USA al 7,9% e il Giappone all'8,6%. Nel 2011, quando l'Italia ha un deficit pari al 3,7%, la Francia sfora al 5,1%, la Spagna al 9,6%, il Regno Unito al 7,6%, gli USA hanno un deficit pari al 9,6% del loro PIL e il Giappone arriva al 9,1%. Nel 2013, mentre noi eravamo sempre al 2,9%, la Francia arrivava al 4,1%, la Spagna al 7%, il Regno Unito al 5,6%, gli USA al 4,4% e il Giappone al 7,9%. Nel 2016, mentre noi eravamo al 2,5%, la Francia arrivava al 3,4%, la Spagna al 4,5%, il Regno Unito al 3,3%, gli USA al 4,2%, il Giappone al 3,7%. Questi numeri ci dicono due cose: che fuori dall'Euro, USA e Giappone possono fare quanto deficit vogliono. All'interno dell'Euro Francia e Spagna sono più uguali dell'Italia ricordando la frase di Orwell.

Giampiero Gramaglia per il "Fatto quotidiano" del 9 agosto 2012. Non sono sempre stati i Paesi del Sud gli ultimi della classe dell'euro, gli "untori del contagio", come sono oggi bollate Grecia, Italia e Spagna. Ci fu un tempo, nei primi anni della moneta unica, che a non stare ai patti, anzi al Patto di Stabilità, erano proprio quelli del Nord che ora non tollerano le debolezze altrui: i tedeschi, con i francesi a tenere loro bordone. Quella è una delle pagine nere della storia dell'euro, un decennio e poco più; dal punto di vista delle istituzioni, forse la più nera. Perché per fare fronte alla crisi, oggi, si tratta di prendere decisioni; mentre, allora, si trattava solo di applicare decisioni già prese, cioè di fare rispettare la legge. E, invece, i forti dell'epoca, che sono poi gli stessi di oggi, la fecero franca con una deroga ad hoc. E' un episodio che Mario Monti ama ricordare, come premier, ma anche come professore d'economia ed ex commissario europeo. C'è spazio per rinvangare quel momento, in questi giorni che la crisi dà qualche respiro, nonostante le notizie dell'economia reale, specie quella italiana, ma anche la tedesca e la francese, continuino a non essere incoraggianti: le agenzie di rating, ridotte al ruolo di cassandre, lanciano avvertimenti cui pochi ormai badano. Tra Madrid e Bruxelles, si discute se staccare la prima fetta dell'aiuto europeo di cento miliardi di euro per le banche spagnole, mentre i mercati scommettono che la Spagna dovrà sollecitare, per salvarsi, un intervento di dimensioni maggiori. Le banche più in difficoltà sono, oltre a Bankia, NovaGalicia, CatalunyaCaixa e Banco de Valencia. Per ora, Madrid, non ha formalizzato la sua richiesta, che dovrebbe essere approvata dalla Commissione europea, dalla Banca centrale e dall'Eurogruppo. Si allungano, invece, i tempi di decisione per la Grecia (ieri S&P ha rivisto il giudizio sul debito al ribasso): gli esperti della troika resteranno ad Atene tutto settembre, per presentare a ottobre un piano che eviti al Paese il fallimento e ne consenta la permanenza nell'euro. La calma tesa di questi giorni sui mercati, con borse senza picchi e spread stabili, si contrappone, quasi, alle fibrillazioni politiche. Che evocano quelle del 2003, quando la Commissione europea, presieduta da Romano Prodi, con Monti alla concorrenza, denunciò Francia e Germania per avere sforato i limiti del deficit di bilancio imposti dal Patto di Stabilità. La procedura d'infrazione, però, non fece il suo corso, perché i ministri delle finanze la bloccarono; e l'Italia di Silvio Berlusconi e la Gran Bretagna di Tony Blair appoggiarono questa soluzione "buonista" e "pilatesca", per le serie infinite "la legge non è uguale per tutti" e "il più forte ha sempre ragione". Monti ha evocato quell'episodio nell'intervista a Der Spiegel da poco pubblicata, quella da cui sono scaturite un sacco di polemiche; e lo aveva già fatto al termine del Quadrangolare a Roma del 22 giugno (Italia, Francia, Germania e Spagna), quando rammentò, a chi oggi rimprovera le cicale d'Europa, appunto Grecia, Italia, Spagna, che furono Berlino e Parigi a violare per primi il Patto di Stabilità, senza subirne le conseguenze. In occasione del Quadrangolare, Monti aveva anche ricordato la "complicità" del governo italiano nella deroga a favore di Francia e Germania. Parigi e Berlino, pur avendo sforato per la terza volta il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil, non subirono la prevista procedura per deficit eccessivo. L'Eurogruppo, con i ministri delle Finanze degli allora 12 Paesi della zona euro, lo decise a maggioranza qualificata, al termine d'una riunione fiume burrascosa, con i voti contrari di Spagna -toh!, come cambia il mondo-, Austria, Finlandia e Olanda (Helsinki e l'Aja sono, pure oggi, vestali del rigore). La decisione venne poi ratificata dall'Ecofin, il Consiglio dei Ministri delle Finanze dei Paesi dell'Ue, che s'accontentò dell'impegno di Francia e Germania a mettere in ordine i conti entro il 2005. Su quella decisione, i Grandi d'Europa, allora divisi sulla scena internazionale, furono unanimi. Eppure, Francia e Germania erano la Vecchia Europa, schierati contro l'invasione dell'Iraq; mentre Gran Bretagna e Italia facevano da spalla agli Stati Uniti di George Bush, insieme a quella Spagna che José Maria Aznar tenne però fuori dal pastrocchio sul Patto di Stabilità. All'epoca, la palese forzatura del diritto comunitario non passò inosservata. Euronews, una tv non partigiana, titolava: "L'Europa si spacca sul Patto di Stabilità. Ed è crisi istituzionale: l'Esecutivo, da un lato, a difendere le regole e i parametri stabiliti; Eurogruppo ed Ecofin, dall'altro". Aznar minacciò ripercussioni sui lavori per la ratifica della Costituzione europea, poi abortita. "Il Consiglio - si legge nelle conclusioni dell'Ecofin - ha deciso di sospendere per ora le procedure", pronto, a riaprirle se Parigi e Berlino non avessero rispettato gli impegni assunti. Ovviamente, tutto morì lì: quella fu una sconfitta per la Commissione Prodi/Monti, ma soprattutto per l'Unione.

Quando Francia e Germania sforarono il 3% (senza conseguenze). Nel 2003 Parigi e Berlino furono "salvate" dai ministri delle Finanze dell'Ue, che si accontentarono dei buoni propositi dei governi. Da allora il Patto di stabilità è stato regolarmente violato, scrive il 3 settembre 2018 Lettera 43. Oggi è la pistola puntata contro l'Italia che chiede maggiori margini di spesa, ma il Patto di stabilità e crescita europeo fu violato per la prima volta dalle due maggiori economie europee: dalla Francia e anche dalla Germania, cioè lo Stato che fa oggi di quelle regole un dogma inviolabile. Il Patto fu stipulato dai membri dell'Ue nel 1997 e prevede che i Paesi che hanno deciso di adottare l'euro devono rispettare due parametri relativi al bilancio pubblico: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil (leggi quanto può spendere l'Italia nella legge di bilancio 2019).

LA VIOLAZIONE DEL 2003 DI FRANCIA E GERMANIA. Nel 2003, la Commissione europea, presieduta da Romano Prodi contestò a Parigi e Berlino di avere sforato i limiti del deficit. Ma l'Italia di Silvio Berlusconi e il Regno Unito di Tony Blair appoggiarono i trasgressori e il 25 novembre una riunione dei ministri delle Finanze “salvò” con una votazione Francia e Germania dalla procedura d'infrazione. La decisione venne poi ratificata dall'Ecofin, che si accontentò dell'impegno a mettere in ordine i conti entro il 2005. Un episodio spesso ricordato da Mario Monti, all'epoca commissario europeo alla concorrenza, anche in alcune interviste da premier italiano: «Furono proprio Germania e Francia che minarono buona parte della credibilità del Patto, seppure con la complicità dell'Italia. Nessuno pagò, ma il Patto di Stabilità ne uscì molto indebolito».

PATTO REGOLARMENTE VIOLATO. Con l'avvento della crisi finanziaria ed economica, poi, le norme sul bilancio sono state infrante regolarmente. Secondo un'elaborazione effettuata dall'Ufficio studi della Cieg, tra i 28 Paesi che compongono l'Unione europea poco più di uno su due (per la precisione 16) nel 2016 non ha rispettato le disposizioni previste dai due principali criteri di convergenza. Per altro, tra i dodici Paesi virtuosi si tratta in massima parte di realtà di piccola dimensione: Malta, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, Bulgaria ed Estonia.

PER LA FRANCIA NOVE ANNI DI PROCEDURA. Tra il 2009 e il 2016, solo tre Paesi in Ue (Svezia, Estonia e Lussemburgo) non hanno mai 'sforato' la soglia del 3 per cento del rapporto deficit/Pil; mentre Spagna, Regno Unito e Francia lo hanno fatto ben otto volte (ovvero ogni anno); Grecia, Croazia e Portogallo sette. L'Italia, invece, lo ha fatto in tre occasioni e in questi anni ha mantenuto un'incidenza percentuale media del disavanzo pubblico al -3,3: contro il -7,9 della Spagna, il -6,6 del Regno Unito e il -4,8 della Francia. La procedura di per deficit eccessivo contro la Francia, aperta nel 2009, è stata chiusa dalla Commissione europea solo nel maggio 2018.

LA VERA STORIA DELL’AIUTO ITALIANO A GERMANIA (E FRANCIA) NEL 2003, scrive il 9 luglio 2016 Franco Mostacci. Al termine della riunione informale del Consiglio europeo del 29 giugno, il premier Renzi – dopo il no di Angela Merkel a una revisione del bail-in, ha dichiarato che “le regole sono state cambiate nel 2003 per fare un favore a Francia e Germania”, che superarono il tetto del 3% deficit/Pil, “e Berlusconi, uomo generoso, glielo consentì”. Le cose, però, andarono diversamente, a partire dal fatto che allora non ci fu alcuna modifica dei Trattati. Nei primi anni del secolo, il presidente della Commissione europea era Romano Prodi e il commissario agli affari economici Pedro Solbes, secondo quanto previsto dal Patto di stabilità e crescita, aveva aperto una procedura per deficit eccessivi nei confronti di Francia e Germania. Successivamente, ritenendo inadeguate le misure di rientro intraprese dai due paesi, inviò una raccomandazione al Consiglio per l’adozione di una decisione formale. Nella riunione dell’Ecofin del 25 novembre 2003, con Tremonti presidente, fu invece approvato (con il voto contrario di Olanda, Austria, Finlandia e Spagna) un documento che sospendeva la procedura di rientro dal deficit per Francia e Germania, violando di fatto i Trattati. La decisione causò un forte attrito con la Commissione, che presentò ricorso alla Corte di Giustizia europea. Secondo quanto riportato all’epoca dal quotidiano La Repubblica, il commissario agli affari economici Solbes dichiarò: “Siamo profondamente rammaricati perché la soluzione adottata dal Consiglio non segue le regole stabilite dal Patto, mentre solo l’applicazione delle regole può garantire un uguale trattamento degli Stati membri”. Secondo Tremonti, invece, “E’ una soluzione coerente con la cornice del Trattato e del Patto e ci sembra costituisca una soluzione tecnica politica positiva e coerente con i criteri di funzionamento del Patto”. La Corte di Giustizia europea, con sentenza del 13 luglio 2004, stabilì che “le conclusioni del Consiglio del 25 novembre 2003, adottate nei confronti, rispettivamente, della Repubblica francese e della Repubblica federale di Germania sono annullate in quanto contengono una decisione di sospendere la procedura per i disavanzi eccessivi e una decisione che modifica le raccomandazioni precedentemente adottate dal Consiglio ai sensi dell’art. 104, n. 7, CE”. Perché il governo Berlusconi si prodigò tanto a favore di Francia e Germania? Anche in Italia, tra il 2001 e il 2006, il tetto del 3% fu sistematicamente sforato: 2001 -3,4%; 2002 -3,1%; 2003 -3,4%; 2004 3,6%; 2005 -4,2%; 2006 -3,6% (figura 1). Solo che, allora, circolavano ben altre cifre ufficiali, come già raccontato dal Foglietto. Per il 2001, dopo una visita notturna in via Balbo dell’allora Ragioniere generale dello Stato Monorchio, l’Istat fissò inizialmente il rapporto deficit/Pil all’1,4%; nel 2002 il 2,3%, nel 2003 il 2,4% e nel 2004 il 3% (figura 2). Quando nel 2005 si ammise che superava il 4%, la Commissione aprì la procedura di infrazione, che si concluse con il rientro del deficit all’1,5% del Pil con il governo Prodi nel 2007. Questi i fatti, che non giustificano le recenti affermazioni di Renzi.

Pietro Senaldi, la verità sulla manovra: "L'Europa in realtà ha bocciato Paolo Gentiloni", scrive il 21 Novembre 2018 su Libero Quotidiano. "A leggere le motivazioni la manovra è stata bocciata per l'esercizio del 2016-2017 perché ha gonfiato mostruosamente il debito". Pietro Senaldi, direttore di Libero, spiega perché in realtà il vero "colpevole" è Paolo Gentiloni: "Durante la sua gestione presentò uno sforamento all'1,8 per cento e poi la portò al 2,4, esattamente come hanno fatto Matteo Salvini e Luigi Di Maio". 

Stangati per colpa di Renzi e Gentiloni. L'Ue avvia per l'Italia la procedura di infrazione per eccesso di debito pubblico. Ma contesta i risultati degli anni 2016 e 2017, quando governava il Pd. E accusa i nuovi di non fare meglio, scrive Franco Bechis il 22 Novembre 2018 su Il Tempo. L’Italia è ufficialmente nei guai, perché ieri la commissione europea ha dato il via alla procedura per debito eccessivo. Lo ha fatto scrivendo un report di 21 pagine, che contiene una sorpresa: la base formale della contestazione ha poco o nulla a che vedere con la manovra del governo guidato da Giuseppe Conte, perché è relativa al risultato del debito pubblico negli anni 2016 e 2017. A mettere l'Italia nei guai quindi sono stati Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. La procedura di infrazione è l'ultimo meraviglioso regalo del Pd agli italiani. Ecco il passaggio chiave di quel documento: «Sulla base dei dati notificati e delle previsioni dell'autunno 2018 della Commissione, l'Italia non ha rispettato il parametro di riduzione del debito nel 2016 (gap del 5,2% del PIL) o nel 2017 (gap del 6,6% del PIL)». E ancora: «Complessivamente, la mancanza di conformità dell'Italia con il parametro di riduzione del debito nel 2017 fornisce la prova dell'esistenza prima facie di un disavanzo eccessivo ai sensi del patto di stabilità e crescita, considerando tutti i fattori come di seguito esposti. Inoltre, in base ai piani governativi e alle previsioni dell'autunno 2018 della Commissione, l'Italia non dovrebbe rispettare il parametro di riduzione del debito nel 2018 o nel 2019». Le parole sono chiare, anche se quel che è accaduto ieri è piuttosto fumoso e difficile da spiegare se non ricorrendo ai gargarismi della euroburocrazia. Che l'Italia non vada tanto d'accordo con l'attuale gruppo di comando a Bruxelles è un dato di fatto, e che non sia stata usata molta diplomazia per evitare lo scontro è vero. Di fronte alla bocciatura già da giorni vaticinata negli ambienti della commissione però mi chiedevo: come fanno ad aprire per l'Italia una procedura per avere sfondato il rapporto deficit/pil oltre il 3% se la manovra di bilancio per il 2019 prevede un rapporto del 2,4% quindi ben inferiore a quella soglia? La risposta degli azzeccagarbugli era questa: vero che l'Italia non ha sfondato il 3% ma la procedura per deficit eccessivo nella normativa dell'area dell'euro si può contestare anche ai paesi che non rispettano la regola del debito, che non potrebbe superare il 60% del Pil. Ed è questa la scelta, ma è un po' come avere scoperto l'acqua calda: da quando esiste l'euro l'Italia non è mai stata in regola sul debito, sempre ampiamente sopra il 100% del Pil. Dopo avere chiuso un occhio per venti anni sembra curioso che la commissione Ue li apra tutti e due solo ora. Ed è anche un pizzico rischioso, perché secondo le previsioni per il 2019 il debito medio dei paesi dell'area dell'euro sarà pari all'85% del loro Pil. Sette paesi (oltre all'Italia anche Grecia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio e Cipro) hanno e avranno il debito sopra il 100% del loro Pil, e altri 3 fra il 60 e il 90% del loro Pil: dieci paesi violerebbero quindi la regola, e solo l'Italia verrebbe punita. Per dare quello schiaffone però era necessario posarsi su fatti concreti e non solo su previsioni future. Per questo la contestazione Ue poggia sulla deviazione robusta e sicura dell'Italia dalla regola del debito per due anni consecutivi: il 2016 e il 2017, aggiungendo che secondo le previsioni il rientro dal debito sarà nullo o comunque molto inferiore a quel che era previsto sia nel 2018 che nel 2019, per cui però non ci sono ancora dati certi. Hanno quindi poco da stracciarsi le vesti e da fare appelli struggenti alla coscienza di Conte o di Matteo Salvini e Luigi Di Maio i vari Renzi, Gentiloni e Piercarlo Padoan: perché ad avere creato il danno che la Ue ci contesta sono stati proprio loro...

Adesso lo dice anche la Fedeli: "Negoziammo la flessibilità con i migranti". Dopo la conferma di Emma Bonino, arriva anche quella dell'ex ministra dell’Istruzione: il governo Renzi usò i migranti per negoziare con l'Europa sui conti pubblici, scrive Franco Grilli, Martedì 20/11/2018, su "Il Giornale". "Nel 2014-2016, durante il governo Renzi, si decise che gli sbarchi di migranti avvenissero tutti quanti in Italia. Lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi, violando di fatto Dublino". E ancora: "Renzi ha barattato i soccorsi in cambio della flessibilità sui conti". Così Emma Bonino diceva più di un anno fa – in un’intervista a Il Fatto Quotidiano – confermano lo scellerato accordo dell'allora governo con l'Unione Europea. Accordo che Matteo Renzi ha sempre negato, attaccando nei mesi scorsi Luigi Di Maio e Toninelli che gli rinfacciarono l'intesa. Già, perché su Facebook l'ex premier scrisse: "Due ministri del governo italiano, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, continuano a mentire anche oggi a proposito di flessibilità europea e immigrazione. Quei due o sono bugiardi o sono ignoranti, nel senso che ignorano i fatti". Per l'ex segretario del Partito Democratico la flessibilità sui conti italiani era parte integrante dell'accordo politico per eleggere Jean Claude Junker come presidente del Parlamento Europeo: "Non c' entra nulla con le politiche migratorie. Nulla. Era un accordo politico di risposta all' austerità del Fiscal compact". In pochi gli credettero e negli ultimi giorni lo ha smentito anche un altro ministro del suo governo, nonché membro del suo partito. Chi? Valeria Fedeli. L'ex ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in occasione di un suo intervento come ospite a Tagadà, su La7 – come scrive Francesco Borgonovo per La Verità – è tornata sulla spinosa vicenda. E lo ho fatto dicendo le seguenti parole: "Giustamente abbiamo negoziato la flessibilità, ma perché facevamo un'operazione sugli immigrati. Giusto o sbagliato, noi abbiamo negoziato lì, con un elemento di negoziazione della flessibilità. Ed è una delle cose che diciamo attualmente al governo: negoziate alcuni elementi".

Insomma, il governo Renzi si offrì di accogliere massivamente e indiscriminatamente i migranti in arrivo sulle coste italiche in cambio di flessibilità sui conti pubblici italiani.

Eccolo Junker con una scarpa nera e l’altra marrone. E poi dice che uno…, scrive Tano Canino venerdì 16 novembre 2018 su Secolo d’Italia. Ed eccolo lì il solito Junker! In piedi e con una scarpa marrone e una nera. Dopodichè, ci si può mai meravigliare se qualcuno si pone domande? Sappiamo bene che, Jean Claud Junker, presidente di questa ridicola Commissione europea per volontà della signora Merkel e dell’accordo spartitorio tra popolari e socialisti, non fa nulla, ma proprio nulla, per sembrare simpatico. Il problema è che nulla fa neppure per mostrarsi all’altezza dell’istituzione che presiede. O forse sì? Insomma, dopo averlo visto barcollare reiteratamente e in più occasioni ufficiali, sorretto dalla prontezza dei suoi guardaspalle e persino dalla bonomia di alcuni colleghi, il lussemburghese che non perde mai occasione di bofonchiare contro l’Italia è ancora protagonista assoluto di un’ennesima ridicolaggine. Si presenta infatti (come da foto) con due scarpe ai piedi di diverso colore. Facendo così impazzire il web dove questa carnevalata è già virale. Il problema ovviamente non è il colore diverso delle scarpe di Junker. Il problema è la credibilità di una Unione oramai ai minimi storici anche per colpa di certi atteggiamenti. Con una Commissione di burocrati e politici che, nel mentre si mostra con simili atteggiamenti da circo equestre, a noi italiani non smette di fare la predica e di dirci come e cosa è giusto fare e quanto e dove sbagliamo. La verità è che sono uno peggio dell’altro. E che se ne stanno accorgendo un pò tutti nel Vecchio continente. Anche se, tra uno Junker barcollante che usa un colore di scarpa per ogni piede e un Moscovici saccente che, dopo aver razzolato malissimo in casa sua, vuole imporsi in casa nostra, chi vinca la palma del peggiore francamente non è semplicissimo capirlo. Ma, è questa l’Europa. Almeno fino al prossimo maggio.

Juncker barcolla al vertice Nato. L'affondo di Meloni: "Ubriacone". Junker ripreso mentre cammina con difficoltà al vertice Nato sorretto dai colleghi. L'affondo della Meloni. Ma il portoghese Costa precisa: "È la sciatica", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 13/07/2018 su "Il Giornale". Il video pubblicato su twitter da Giorgia Meloni è un attacco diretto al presidente della Commissione, Jan Cloude Juncker. Le immagini pubblicate dal leader di Fratelli d'Italia arrivano dalla cerimonia del vertice Nato di ieri a Bruxelles. Si notano Angela Merkel, Donald e Melania Trump, Emmanuel Macron e Theresa May. Sullo sfondo la bandiera dell'Alleanza atlantica viene issata durante la cerimonia. A cogliere l'attenzione della Meloni, però, è l'uomo di spalle che viene aiutato da due persone a scendere le scale perché sembra avere difficoltà a camminare. Si tratta, appunto, di Jean Cloude Juncker che cammina zoppicando e in alcuni momenti, mentre parla con le persone che gli sono vicino, rischia anche di cadere all'indietro. Sorretto da alcuni dei colleghi, il presidente della Commissione riesce lentamente a procedere. Il giudizio della Meloni è durissimo: "L’ubriacone sorretto da due persone per evitare che stramazzi al suolo, è il presidente della Commissione europea #Juncker, dal quale dipendono le sorti delle nostre aziende, di milioni di lavoratori italiani e il futuro della nostra Nazione. Vi sentite tranquilli?".

Juncker, il gendarme Ue che crea i paradisi fiscali. Il presidente della Commissione si atteggia a custode dei conti dell'Unione ma da premier del Lussemburgo trasformò il suo Paese nella mecca degli evasori. E fu attaccato dai media, scrive Gian Micalessin, Giovedì 28/01/2016, su "Il Giornale". Alcool, soldi e bugie. Non è un film, ma la vita in tre parole del gendarme Jean-Claude Juncker, il 61enne, ex premier lussemburghese voluto da Angela Merkel come presidente della Commissione europea e trasformato oggi nel castigamatti di Matteo Renzi, dell'Italia e delle sue banche in sofferenza. «Lo sanno tutti il signor Juncker si scola cognac a colazione», titolava nel giugno 2014 il Mail on Sunday citando le indiscrezioni di un diplomatico europeo. In verità del tris di vizietti «junckeriani» quello alcolico, usato a suo tempo dai giornalisti inglesi per comprometterne la nomina ai vertici Ue, è sicuramente il più veniale. Anche perché l'avvocato Jean-Claude, giurano a Bruxelles, dà il meglio di se solo in compagnia d'una bottiglia. E comunque meglio lo Jean-Claude irosamente sbronzo, descritto dagli inglesi, di quello cinicamente lucido che in 18 anni da premier trasformò il Lussemburgo in una Tortuga dell'evasione fiscale. Una Tortuga silenziosa e discreta che inneggiando a Bruxelles è diventata l'unico e ultimo paradiso fiscale di una Ue paladina della trasparenza. Una frode consumata ai danni dei «fratelli» europei garantendo sedi legali esentasse alle multinazionali e conti sicuri agli evasori. Un lavoro oscuro, ma sopraffino grazie al quale un granducato grande meno della metà della provincia di Roma, ha attratto oltre 2.100 miliardi di euro di capitali esteri custoditi in oltre 140 istituti bancari. Tra questo mare di miliardi e fondi grigi fluttuavano anche quelli del defunto dittatore nord coreano Kim Jong Il Sun. Un dittatore sufficientemente scaltro da capire che il Lussemburgo era diventato, grazie a Juncker, una cassaforte ben più impenetrabile della chiacchierata Svizzera. Così mentre la Confederazione inaspriva i controlli 4 miliardi di dollari nord coreani lasciavano le banche elvetiche per quelle lussemburghesi. Una vera e propria «operazione di riciclaggio» - come la definì il direttore di Human Right Asia Ken Kato - che però non intaccò l'autorevolezza di uno Juncker impegnato a quei tempi a presiedere l'Eurogruppo e a mettere a punto il famigerato fiscal compact. Un fiscal compact che se applicato correttamente al Lussemburgo lo retrocederebbe, probabilmente, al rango della Grecia. Nel 2012 una ricerca della Stiftung Marktwirtschaft, fondazione berlinese specializzata nella stima del debito reale, attribuì al Granducato un debito «implicito», frutto di un dissennato sistema pensionistico, pari al 1.115,6 per cento del Pil. Bazzecole per una Bengodi d'Europa il cui mezzo milione di cittadini può contare oggi su un prodotto interno lordo pro capite di 78mila dollari, secondo solo ai 100mila dollari pro-capite vantati dagli abitanti del Qatar. Un benessere basato però non su gas o risorse reali, ma sulla legislazione studiata dai governi Juncker per garantire una sistematica frode fiscale ai danni dei «fratelli» europei.

Secondo Grabriele Zucman, autore di Richesse cachée des nations, best seller francese sulla fuga dei capitali, circa due terzi dei circa 800 miliardi d'euro depositati in Svizzera sono passati attraverso fondi lussemburghesi senza generare un solo euro di tasse. E infatti, oltre ad essere assieme all'Austria il solo Paese dell'Unione Europea dove non è automaticamente garantita la trasparenza fiscale, il Lussemburgo è anche la sede legale preferita da tutte le multinazionali impegnate ad evadere le imposte dei vari paesi europei. Prima fra tutti quell'Amazon che scegliendo come sede europea il Granducato, dove il livello di tassazione non supera il 6 per cento, ha risparmiato centinaia di milioni di imposte. Ma comunque non preoccupatevi: l'avvocato Juncker, nonostante gli undici anni in cui cumulò la carica di ministro delle Finanze a quella di premier lussemburghese, ha sempre negato tutto. Le bugie sono infatti una delle migliori specialità del suo repertorio da grande politico. Un politico definito dalla Suddeutsche Zeitung un autentico «signore della menzogna» quando negò che i ministri delle finanze europei, da lui convocati, stessero discutendo la possibile espulsione della Grecia dalla moneta unica. Juncker del resto non ha mai fatto un mistero della propria amabile propensione alle frottole. Una propensione che il presidente della Commissione ammette di usare al meglio per garantire la sacralità delle decisioni europee. Non a caso nel maggio del 2011, durante una conferenza davanti militanti ai federalisti del Movimento europeo, confidò di esser spesso «costretto a mentire» e aggiunse che le politiche monetarie europee dovrebbero, in verità, esser affrontate in «incontri segreti». O almeno più possibile lontani dagli occhi curiosi ed indiscreti di stampa ed opinione pubblica.

Nuovi leaks imbarazzano Juncker: come premier del Lussemburgo si oppose alla lotta Ue sull'evasione fiscale. Documenti rivelati dal Guardian insieme al Cij e alla Ndr. Ma non ci fu nessun atto illecito da parte del presidente della Commissione, scrive Enrico Franceschini l'1 gennaio 2017 su La Repubblica. Oggi si batte per chiudere le scappatoie fiscali che permettono alle aziende multinazionali di pagare meno o zero tasse, spostando la propria sede legale in qualche paese dell'Unione Europea. Ma Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, si è impegnato per anni in passato, nella posizione che allora occupava di primo ministro del Lussemburgo, per bloccare segretamente le riforme della Ue per combattere l'evasione fiscale legalizzata da parte delle grandi corporation. Lo rivela una gigantesca soffiata di documenti riservati di un poco conosciuto comitato di Bruxelles, pubblicati dal Guardian insieme al Consortium of Investigative Journalists e alla stazione radio tedesca Ndr. Pur non facendo emergere atti illeciti da parte sua, la rivelazione è "altamente imbarazzante" per Juncker, scrive il quotidiano londinese, notando che l'attuale presidente della Commissione in quel periodo ricopriva, oltre all'incarico di premier, anche quello di ministro delle finanze lussemburghese, occupandosi a fondo delle questione relative alle imposte societarie. I documenti, mai resi pubblici in precedenza, illustrano una serie di proposte prese in considerazione dal Comitato di Condotta sulla Tassazione delle Imprese, un organismo creato 19 anni fa dall'Unione Europea per impedire che i giganti del business possano usare uno Stato europeo contro l'altro al fine di trovare la sede più vantaggiosa dal punto di vista fiscale. Almeno tre proposte valutate positivamente dal comitato (per sottoporre le norme sulla tassazione a una revisione esterna; per indagare sulle strategie usate dalle multinazionali per pagare meno tasse; per migliorare la coordinazione e lo scambio di informazioni in materia tra i paesi della Ue) vennero bocciate ogni volta con l'opposizione del Lussemburgo, in virtù del principio che richiedeva un voto unanime, e non a maggioranza, per ogni decisione. Francia, Germania e Svezia proposero più volte di abolire tale principio, ma il Lussemburgo, con il sostegno della sola Olanda, ha sempre ottenuto che fosse confermato. Nei suoi 18 anni alla guida del piccolo stato, con una popolazione di poco più di mezzo milione di persone, Juncker è riuscito a trasformarlo, e ne ha fatto uno dei paesi più ricchi del mondo attirando alcune fra le maggiori aziende del pianeta a portare il proprio quartier generale europeo in Lussemburgo, spesso grazie a imposte dell'1 per cento o meno. Recentemente il nuovo governo lussemburghese sta dimostrando di voler collaborare con il resto della Ue per chiudere le scappatoie che permettono alle multinazionali di approfittare di una politica fiscale non uniforme all'interno della Ue. Nel 2014 una precedente soffiata, denominata Luxleaks, aveva rivelato gli accordi segreti tra il governo lussemburghese e alcune grandi corporation e Juncker ha in seguito ammesso che lo scandalo ha danneggiato la sua reputazione. Ma non al punto da impedirgli di diventare presidente della Commissione Europea. Ora un suo portavoce, interpellato dal Guardian, afferma che non è suo compito commentare questioni riguardanti le posizioni prese in passato dal Lussemburgo in materia fiscale.

Espresso del 29 ottobre 2018. Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto. Ormai ogni giorno il numero uno della Ue deve incrociare i ferri con populisti e sovranisti, pronti a sfidare regole, limiti e vincoli europei. In Italia ad attaccarlo è soprattutto Matteo Salvini, con un avvertimento: «Pensi al suo paradiso fiscale in Lussemburgo». Dove Juncker è stato presidente del Consiglio dal 1995 al 2013 e, già prima, più volte ministro delle Finanze, esordendo con il primo incarico politico nel 1982, ad appena 28 anni. Ed è proprio il Lussemburgo il vero nodo del caso Juncker, di cui ora approfittano i nemici dell’Europa. Il nodo di un paese fondatore della Ue che spinge i ricchissimi a eludere le tasse. L'Espresso, nel numero in edicola con La Repubblica da domenica 28 ottobre, pubblica un'inchiesta sul presidente della Commissione europea e sul problema strutturale dei sistemi fiscali nazionali che favoriscono le grandi aziende danneggiando i cittadini oberati di tasse. L'articolo documenta il ruolo centrale di Juncker nelle politiche che hanno reso il Lussemburgo il primo paradiso fiscale interno all'Unione europea. Uno scandalo svelato a partire dal novembre 2014, proprio mentre Juncker si insediava al vertice della Ue, dall'inchiesta “LuxLeaks”, firmata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), di cui fa parte l’Espresso in esclusiva per l'Italia. Analizzando oltre 28 mila documenti riservati, i giornalisti del consorzio hanno rivelato i contenuti degli accordi fiscali privilegiati (tax rulings) con cui il Lussemburgo di Juncker ha garantito a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse. Ora l'Espresso in edicola pubblica i documenti interni dei lavori delle due commissioni speciali d'indagine istituite dall'Unione europea dopo lo scandalo LuxLeaks. Oltre al Lussemburgo, i commissari hanno esaminato i sistemi fiscali di altri paesi che garantiscono fortissime riduzioni delle tasse per le multinazionali, dall'Olanda al Belgio, dall'Irlanda a Malta. Una concorrenza sleale tra Stati che, secondo le stesse autorità europee, provoca un danno complessivo, tra elusione ed evasione fiscale, quantificato nell'astronomica cifra di «mille miliardi di euro all'anno». L'inchiesta dell'Espresso documenta anche le manovre politiche e le pressioni di singoli governi, tra cui spicca il Lussemburgo, per bloccare tutti i progetti europei di riforma fiscale. E per tenere segreti ai cittadini gli accordi privilegiati che da anni garantiscono enormi vantaggi tributari ai colossi mondiali dell'economia. L'articolo svela anche gli interventi diretti di Juncker, come capo del governo lussemburghese, a favore di multinazionali, come Amazon, che ora sono al centro delle indagini europee sull'elusione fiscale.

Miliardi di debiti ed Europa a pezzi. Così Juncker ha affondato l’Europa, scrive il 31 ottobre 208 Lorenzo Vita su Gli Occhi della guerra. I debiti si ereditano. E quelli che Jean-Claude Juncker lascerà all’Unione europea una volta finito il suo mandato, sono enormi. Economici e politici. I primi, come rivelato da L’Espresso, ammontano a circa mille miliardi di euro all’anno. Perché con il suo Paese, il Lussemburgo, a essere la capitale dell’elusione (o dell’evasione) fiscale nel continente europeo, il bilancio dell’Ue e dei 28 Stati membri è disastroso. Una voragine di tasse non riscosse, multinazionali che fanno miliardi di profitti cercando di non pagare le imposte, con il contributo di Stati membri dell’Unione europea che fanno a gara per diventare il miglior luogo dove spostare i propri capitali. In questo gioco sanguinario per le casse degli Stati più ligi al dovere, Juncker, con il suo Granducato, ha avuto un ruolo fondamentale. Essendo stato per anni il padre-padrone del Lussemburgo, il suo potere ha trasformato il piccolo Paese del Benelux un vero e proprio paradiso fiscale all’interno dell’Unione europea. Tanto è vero che l’inchiesta LuxLeaks del 2014, proprio quando Juncker si insediava a Bruxelles come presidente della Commissione europea, ha svelato 28mila documenti riservati con accordi fiscali fra Lussemburgo e 340 multinazionali che avrebbero pagato meno dell’1% di tasse. Il Lussemburgo è solo la punta dell’iceberg di un sistema di elusione fiscale molto profondo. Un sistema ramificato che ha coinvolto non solo il Granducato di Juncker, ma anche Belgio, Olanda, Irlanda e Malta. Secondo l’Ue, questa concorrenza sleale costa mille miliardi di euro ogni anno di tasse non riscosse. Ma a quanto pare, il presidente della Commissione era più impegnato a dire agli altri come gestire i debiti pubblici piuttosto che a colpire questa vera e propria truffa ai danni di molti Stati membri e ai loro cittadini. Il quadro dipinto dalle inchieste è fatto di manovre politiche, pressioni sui singoli governi, accordi su come evitare riforme fiscali in seno all’Europa e vincoli di segretezza sui patti fra Stati e colossi dell’industria e del commercio. E quello che ne esce, è un vero e proprio incubo che dimostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, l’inadeguatezza (a dir poco) di Juncker come presidente della Commissione. Un vero e proprio impresentabile, soprattutto dopo lo scandalo dei servizi segreti che aveva mostrato come l’allora premier lussemburghese avesse creato un sistema di schedatura illegale di tutti i cittadini del Granducato. E ovviamente l’Europa l’ha premiato con la carica più alta: la presidenza della Commissione. A questi debiti economici, che sono poi la certificazione di una responsabilità, si aggiungono poi gli effetti politici, altrettanto disastrosi, sull’Europa. Come già scritto su questa testata, sembra un paradosso, ma Juncker in questi anni si è rivelato un vero e proprio alleato dei più ferventi euro-scettici. Incapace di comprendere l’Europa e i cittadini europei, impermeabile alle critiche, convinto sostenitore del fatto che l’Ue, così com’è, funziona benissimo, Juncker non ha mai voluto cambiare. Ed è stata proprio questa sua granitica certezza a fare sì che l’Unione europea diventasse intollerabile a molti cittadini dei Paesi membri. Una stanchezza che poi ha condotto all’ascesa di quel mondo sovranista e cosiddetto populista, che adesso minaccia l’establishment europeo. E che ha già dato una sonora lezione all’uomo forte di Bruxelles punendo il suo partito proprio in Lussemburgo. Il voto di alcuni giorni fa nel Granducato ha certificato il risultato peggiore della storia del partito di Juncker (il Csv), con il 28% di consensi. Incredibile a dirsi, oggi è ancora Juncker a decidere le sorti del nostro continente. Ma l’impressione è che le elezioni europee caleranno come una mannaia su questa struttura. E Juncker non sarà solo vittima, ma direttamente complice di questa o addirittura responsabile di questa futura disfatta dei moderati europei. Si è mosso come un vero e proprio sicario, ha ucciso ambizioni, speranze e anche economie dei singoli Stati membri. E ora aspetta, sul trono di Bruxelles, l’arrivo della fine.

Impresentabile Juncker, ecco perché non può guidare l'Europa. Spionaggio, conflitti d’interessi, gaffe. E lo scandalo delle tasse ridicole pagate dalle multinazionali nel Lussemburgo che ha guidato da premier per molti anni. Un caso che potrebbe costargli la poltrona di presidente della Commissione Ue, scrive Vittorio Malagutti il 17 novembre 2014 su "L'Espresso". A Bruxelles si racconta che un giorno Jean-Claude Juncker spiegò così i suoi imbarazzi linguistici. «A volte faccio fatica a farmi capire, perché quando parlo francese penso in tedesco. E viceversa». La battuta viene ricordata come una delle migliori dello sterminato repertorio dell’uomo politico lussemburghese, conosciuto come conversatore arguto, conferenziere brillante, un prestigiatore della parola che ama conquistare l’interlocutore più che convincerlo. Questa volta però Juncker dovrà superare se stesso. Il presidente, appena nominato, della Commissione europea, sarà chiamato a dirigere le indagini sui presunti aiuti di Stato illegali concessi dal Lussemburgo a centinaia di aziende sotto forma di generosi sconti sulle tasse. Insomma, Juncker indagherà su Juncker, perché quel sistema finito ora sotto accusa è stato sapientemente elaborato proprio negli anni in cui il futuro presidente della Commissione di Bruxelles era il dominus del Granducato, capo di governo ininterrottamente dal 1995 al 2013. E adesso che lo scoop dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), a cui “l’Espresso” ha collaborato, ha alzato il velo su quella efficientissima macchina da soldi, il veterano della politica europea, 60 anni il mese prossimo, sopravvissuto a innumerevoli battaglie, si trova sul banco degli imputati. È lui il bersaglio del fuoco incrociato della destra euroscettica, di una parte della sinistra e dei media, in prima fila gli anglosassoni “Financial Times” e “Bloomberg”, che ne chiedono le dimissioni. «Non sono l’architetto del sistema fiscale del mio Paese», ha tentato di giustificarsi Juncker mercoledì 12 novembre, dopo giorni di imbarazzato silenzio. Poche parole per negare ogni conflitto d’interessi e impegnarsi solennemente a promuovere l’armonizzazione fiscale. Promesse, ma per salvare l’onore e possibilmente anche la poltrona, servirà un doppio salto mortale dall’altissimo coefficiente di difficoltà. Qualcosa di molto impegnativo anche per l’inaffondabile tra gli inaffondabili, un mandarino della politica europea che sedeva al tavolo della trattativa per il suo Paese già più di vent’anni fa, quando si discutevano il Trattato di Maastricht e l’Unione monetaria, ai tempi di Helmut Kohl e François Mitterrand. E pensare che una manciata di mesi orsono, la parabola infinita di Juncker sembrava ormai arrivata alla fine. «Non sono interessato a incarichi europei», garantiva ai giornali un affranto Juncker nel luglio del 2013. Poche settimane prima era stato costretto a lasciare la guida del governo del suo Paese per un losco affare di spie e schedature di massa di potenziali sovversivi. Per anni i servizi segreti del Granducato, una sessantina di agenti in tutto, avevano tenuto sotto controllo in modo illegale migliaia di cittadini ritenuti sospetti. E quando la storia venne a galla, il premier prese le distanze sostenendo che tutto si era svolto a sua insaputa. Salvo finire di nuovo sulla graticola di lì a poco, quando Mario Mille, il capo degli 007 lussemburghesi, tirò fuori dal cassetto le registrazioni dei suoi colloqui con Juncker in cui, già nel 2008, informava il capo del governo di quei dossier segreti. Da qui la figuraccia e le dimissioni. Carriera finita? Macché, nel giro di un anno il mandarino era già pronto sulla linea di partenza in vista delle elezioni Europee del 2014, questa volta come candidato del fronte di centro destra, egemonizzato dai Popolari, per la carica di presidente della Commissione Ue. L’obbiettivo è stato raggiunto nel luglio scorso, grazie anche all’appoggio, al Parlamento di Strasburgo, dei liberali e di gran parte gruppo socialdemocratico, compreso il Pd italiano. Le istituzioni europee, assediate da una crisi di credibilità senza precedenti, non hanno saputo fare di meglio che affidarsi all’uomo di sempre, a uno dei protagonisti della stagione politica che tra infiniti compromessi ha consegnato il continente alla recessione e allo scontento di massa. Capitan Rieccolo è tornato in pista e poco importa se alcuni suoi comportamenti disinvolti avevano già attirato le critiche dei giornali nelle settimane precedenti la nomina alla guida della Commissione. In Germania e in Inghilterra la stampa si è occupata dell’attività di Juncker come conferenziere, a pagamento, in alcuni convegni sponsorizzati da lobby tedesche: uno dell’industria degli armamenti e un altro dei produttori di pneumatici. Il governo Renzi non infierisce sul presidente della commissione Ue, al centro dell’inchiesta sull'elusione fiscale nel Granducato di cui è stato premier. Il socialista spagnolo Sanchez chiede però di chiarire. Nicola Danti: "Il Parlamento Ue deve intervenire". Conflitto d’interessi? Chiamato in causa, Juncker non ha voluto fornire ragguagli sui suoi compensi. Si è parlato di 15 mila euro per ogni evento. La polemica si è spenta già prima del voto del Parlamento per la nuova Commissione Ue. Il più longevo, politicamente parlando, dei leader europei si è così preso la rivincita sulle molte delusioni del passato. Nel 2012, Juncker era stato costretto dopo sette anni alle dimissioni dall’incarico di presidente dell’Eurogruppo, l’organismo informale che riunisce i responsabili delle Finanze dei Paesi che aderiscono alla moneta unica. Logorato dalla crisi infinita dell’euro, il politico lussemburghese se la prese con le continue ingerenze di Francia e Germania. Attaccò il governo di Angela Merkel accusato di trattare «l’Eurozona come una sua filiale». Parole grosse. Del resto, già nel 2009, furono proprio Parigi e Berlino a portare il belga Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo, sbarrando la strada alle ambizioni di Juncker. A cinque anni di distanza da quella pesante sconfitta il politico lussemburghese è stato in qualche modo risarcito. Ed è arrivata l’elezione alla carica politicamente più esposta della complessa architettura istituzionale dell’Unione. Tocca al capo dell’esecutivo Ue, infatti, prendersi la responsabilità delle ricette a suon di tagli e rigore finanziario imposte da Bruxelles ai Paesi membri. E le parole pronunciate pochi giorni fa da Matteo Renzi sulla «banda di burocrati» della Commissione danno un’idea della posta in gioco e dei conflitti prossimi venturi. Il fatto è che il tappeto rosso che ha portato Juncker verso il nuovo incarico nascondeva la polvere dei discutibili affari del Granducato, paradiso fiscale nel cuore dell’Europa. Un paradiso sotto gli occhi di tutti, per la verità. Nel 2010 il rapporto sul Granducato elaborato dal “Financial action task force” (Fatf) l’organismo intergovernativo istituito per combattere il riciclaggio aveva disegnato un quadro a tinte fosche del Lussemburgo, considerato inadempiente (del tutto o parzialmente) a 39 dei 44 criteri elaborati per valutare il grado di trasparenza finanziaria del Paese. Nel 2014 quel giudizio è stato parzialmente rivisto dagli analisti del Fatf, sottolineando i progressi del Granducato per adeguarsi ai migliori standard internazionali. Ancora non basta, però. Centinaia di dossier finiti nei giorni scorsi sulle prime pagine di tutti i grandi giornali europei grazie allo scoop del consorzio ICIJ illustrano nei particolari l’eredità di un passato che non finisce. Il Paese più piccolo dell’Unione europea (dopo Malta) fin dagli anni Sessanta si è trasformato in una piattaforma finanziaria offshore nel cuore del continente. Un rifugio a prova di tasse che per molti investitori si fa preferire anche alla Svizzera. A differenza della Confederazione, infatti, il Lussemburgo fa parte della Ue, con tutti i vantaggi che ne conseguono in termini di libera circolazione dei capitali. I privilegi offerti dal Granducato sono da sempre ben conosciuti a tutti i professionisti del Fisco, gli specialisti del ramo “ottimizzazione tributaria” che muovono miliardi sulla mappa del mondo incrociando norme e regolamenti delle varie legislazioni. «In Lussemburgo ci si può accordare con le autorità fiscali nel tempo di una cena», si legge in un rapporto del centro di ricerche internazionale Tax Justice Network, che a sua volta cita le frasi di un blog che circolava in Rete nel 2010. I documenti portati alla luce nei giorni scorsi non fanno quindi che confermare ciò che da tempo fa parte del senso comune di banchieri, imprenditori e manager. Solo che adesso, di fronte ai dossier pubblicati dai giornali, Juncker difficilmente potrà cavarsela con un’alzata di spalle e poche parole di circostanza come ha sempre fatto in passato. «Non si può fare soldi a spese dei propri vicini», dichiarò nel 2008 l’allora premier lussemburghese nonché presidente dell’Eurogruppo. Si riferiva allo scandalo degli evasori tedeschi nelle banche del Liechtenstein, un altro micro-Stato a prova di tasse. «A violare la legge però non è il Liechtenstein, ma i cittadini tedeschi», si affrettò a precisare Juncker. Insomma, la colpa è sempre degli altri. Per anni il Lussemburgo ha fatto muro di fronte alle pressioni della comunità internazionale prendendo come alibi i privilegi fiscali concessi da altri Paesi: Austria, Olanda, Irlanda, le isole britanniche del Canale (Guernsey e Jersey) e, fuori dai confini della Ue, la Svizzera. «Siamo pronti ad adeguarci quando lo faranno tutti», non si stancavano di ripetere i politici del Granducato, Juncker in testa. E gli altri centri offshore rispondevano allo stesso modo. Il gioco delle parti serviva a coprire la convenienza di tutti a non cambiare nulla. Il primo autentico passo avanti nella direzione della trasparenza risale a poche settimane fa quando i Paesi Ue, e quindi anche Austria e Lussemburgo, hanno sottoscritto la convenzione internazionale sullo scambio automatico di informazioni fiscali. È previsto che l’intesa entri in vigore nel 2017. Si vedrà. In passato troppo spesso le dichiarazioni di principio sono state smentite dalla realtà dei fatti. Intanto il Lussemburgo sotto la guida di Juncker e di una efficientissima lobby finanziaria è riuscito a difendere i propri privilegi cavalcando anche l’innovazione. Così, quando pochi anni fa sono apparsi all’orizzonte i nuovi colossi del commercio online tipo iTunes, eBay, Amazon, il Granducato è stato rapidissimo a introdurre nuove norme studiate ad hoc per attirare le multinazionali fondate sul web a caccia, anche loro, di sconti sulle tasse. Strada facendo, il governo lussemburghese ha istituito anche un registro navale. Poco importa se il mare dista centinaia di chilometri. Nel paradiso di Juncker nulla si arrende all’evidenza, tantomeno il Fisco.

Juncker smentito dai suoi discorsi ufficiali. Davanti al Parlamento europeo ha negato di essersi occupato degli accordi fiscali. Ma come premier lussemburghese si era vantato di avere gestito le trattative con Amazon. Sulle quali ora indaga la Commissione Ue: la prova del suo conflitto di interesse, scrive Gianluca Di Feo il 13 novembre 2014 su "L'Espresso". Mercoledì davanti al parlamento europeo Jean-Claude Juncker ha cercato di difendersi dalle accuse per lo scandalo LuxLeaks. Il presidente della Commissione Ue e per 18 anni premier del Lussemburgo ha negato di essersi occupato degli accordi che concedevano tasse minime a centinaia di multinazionali: «Non ho mai dato istruzioni all'amministrazione tributaria». E ai giornalisti ha ribadito: «Non c'è nulla nel mio passato che dimostri che la mia ambizione era di organizzare un'evasione fiscale in Europa». Un'affermazione subito smentita dal “Wall Street Journal” che ha pubblicato un discorso in cui Juncker si vantava di avere preso gestito trattative di questo tipo. Nel maggio 2003 l'allora primo ministro davanti ai deputati del Granducato annunciò che le multinazionali Amazon e Aol avevano deciso di portare i loro quartier generali europei in Lussemburgo. «Abbiamo una nuova prospettiva per il futuro, il risultato di una corretta politica fiscale, di una corretta politica sulle infrastrutture ma anche il risultato di dure trattative con i manager dei due gruppi. Queste trattative sono avvenute in America, sono avvenute qui in patria e io non le ho condotte da solo». Ancora prima delle rivelazioni di LuxLeaks, pubblicate in esclusiva per l'Italia da “l'Espresso”, l'intesa sulle tasse tra il Granducato e Amazon è stata messa sotto inchiesta dalla Commissione europea, ipotizzando una violazione delle regole antitrust. La tassazione di favore concessa dal Lussemburgo sarebbe stato un aiuto di Stato, che si è tradotto in un danno per gli altri membri dell'Unione. Ora i file dell'Intenational Consortium of Investigative Journalists permettono anche di quantificare i vantaggi per Amazon: grazie alle deduzioni sulle royalties per centinaia di milioni di euro nel 2009 il colosso delle vendite online ha pagato per tutte le sue attività nel Continente soltanto 14,8 milioni di tasse. Nel 2003, l'allora premier spiegò: «Amazon incassa una commissione su ogni vendita, sulla quale si pagano tributi, e su tutte le transazioni che avvengono il governo lussemburghese intasca l'Iva lussemburghese qui in Lussemburgo. Voi capite cosa può significare». Infatti ogni acquisto online fatto in Europa su Amazon, anche in Italia, si trasforma in denaro contante per il Granducato. Sottraendo risorse all'erario delle altre nazioni. Davanti al parlamento europeo, Juncker ha dichiarato: «Non mi scuso per quello che ho fatto per il mio paese. Le autorità fiscali lussemburghesi hanno agito su base autonoma. Ma ovviamente sono responsabile dal punto di vista politico per quello che è successo». Invece undici anni fa era stato lui stesso, davanti ai deputati del Granducato, ad attribuirsi il merito dell'accordo con Amazon. Quello che ha determinato l'inchiesta della Commissione europea e che oggi dimostra il suo conflitto di interesse diretto.

Lussemburgo, il buco nero delle tasse. Per la prima volta svelati gli accordi riservati tra aziende e governo del Granducato per ottenere risparmi fiscali. Documenti su oltre 300 società, anche italiane, che trasferiscono lì risorse colossali. Un sistema che toglie denaro alla nostra economia. Proliferato nel Granducato sotto la guida di Juncker, ora presidente della Commissione Ue, scrivono Paolo Biondani, Vittorio Malagutti e Leo Sisti il 6 novembre 2014 su "L'Espresso". C'è un buco nero nel cuore dell’Europa, un piccolo Stato grande come la provincia di Bergamo, ma con la metà degli abitanti, appena 550 mila. È il Lussemburgo, membro fondatore dell’Unione europea, stretto tra Francia, Germania e Belgio. È un Paese ricco, ricchissimo. La sua fortuna sono le tasse. Quelle degli altri. Nel senso che da almeno mezzo secolo è diventato la meta preferita delle aziende alla ricerca di un trattamento fiscale di favore. Dalle multinazionali alle banche, dalle imprese famigliari ai grandi marchi della moda, migliaia di società hanno trovato rifugio all’ombra del fisco leggero dell’unico Granducato superstite sulla carta geografica del mondo. Un sistema cresciuto anche grazie al lungo governo di Jean-Claude Juncker, premier per diciotto anni e ora alla guida della Commissione europea. I documenti che “l’Espresso” pubblica in esclusiva per l’Italia raccontano nei particolari il funzionamento di una macchina che ha consentito al più piccolo Stato dell’Ue di accumulare una ricchezza straordinaria, con reddito pro capite di oltre 100 mila dollari, il più alto del mondo, quasi il triplo di quello italiano. Sono 28 mila pagine di dossier confidenziali che descrivono gli accordi siglati da oltre 300 società di tutto il mondo, tra cui molte italiane, con le autorità lussemburghesi. Grazie a queste intese, il peso delle tasse è stato ridotto in misura sostanziale, se non azzerato. Il materiale presentato nell’inchiesta de “l’Espresso” è stato raccolto da un network giornalistico americano, The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), e viene pubblicato in contemporanea da 26 testate di diversi Paesi. I contratti sono tutti siglati Pricewaterhouse (Pwc), la multinazionale della revisione di bilancio e della consulenza che ha assistito le aziende nel negoziato con il governo del Lussemburgo. Nei file troviamo alcuni dei marchi più conosciuti del business mondiale: da Amazon a Ikea, da Deutsche Bank a Procter & Gamble, da Pepsi a Gazprom, fino alle italiane Finmeccanica e Intesa e ai fondi di Deutsche Bank e di Hines che nel nostro Paese hanno realizzato affari miliardari transitando dal Lussemburgo per risparmiare sulle tasse. Il sistema funzionava, e ancora funziona, secondo un tacito, reciproco accordo. Le aziende spostano nel Granducato flussi finanziari per centinaia di miliardi di dollari e in cambio hanno la possibilità di un trattamento tributario d’eccezione. A farne le spese sono i Paesi d’origine delle società, costretti a rinunciare al gettito sugli affari dirottati nel paradiso fiscale. Secondo ICIJ, sui 95 miliardi di dollari di profitti che le grandi società americane hanno realizzato oltremare nel 2012, passando per il Granducato, hanno lasciato al Fisco del Lussemburgo poco più di un miliardo di dollari, appena l’1,1 per cento.

IL JOLLY VINCENTE. La carta jolly del Lussemburgo, il cuore del reticolo di norme che giocano a suo favore, sono i “tax ruling”, altrimenti definiti anche “advanced tax agreement” (ATA). I contratti che “l’Espresso” ha potuto consultare riguardano solo una parte delle migliaia e migliaia di ruling siglati. I testi ottenuti dal network giornalistico ICIJ sono relativi alle transazioni preliminari presentate, per l’approvazione, dalla Pricewaterhouse, a nome dei propri clienti, al “bureau d’imposition”, conosciuto in gergo come “sociétés 6”. In genere vanno da 20 a 100 pagine, a volte molte di più, specialmente quando vengono riportate, come promemoria, precedenti richieste. I protocolli descrivono architetture finanziarie molto complicate, con rimandi a testi di legge e intese internazionali. Molto spesso si fa ricorso a strumenti finanziari ibridi - è il caso dei prestiti infragruppo - che in sostanza permettono di schivare le tasse sia nel Paese di origine di chi li utilizza, sia, in pratica, in Lussemburgo.

RIFUGIO SOTTO ASSEDIO. I ricchi affari della piazza finanziaria del Lussemburgo, cresciuta anche negli ultimi anni nonostante la crisi internazionale, hanno finito per provocare la reazione dei suoi grandi vicini. E sono partiti gli attacchi, soprattutto dall’interno della Ue. Il Granducato è sotto assedio. Paesi europei come Francia, Germania, Italia e anche gli Stati Uniti, sembrano decisi a chiudere le falle dell’evasione e dell’elusione fiscale internazionale. D’altra parte le cifre parlano chiaro. Ogni anno dai conti dell’Unione spariscono 1.400 miliardi di euro. Pochi mesi fa la Commissione di Bruxelles si è scagliata contro il meccanismo dei “tax ruling” mettendo sotto inchiesta Amazon e Fiat Finance, accusate di aver spuntato un aiuto di Stato illegale. Il mese scorso, poco prima di lasciare l’incarico, il responsabile Ue della concorrenza, lo spagnolo Joaquin Almunia, ha voluto mettere in chiaro che «con bilanci pubblici così striminziti è importante che le grandi multinazionali versino la loro giusta quota di tasse». Sotto tiro sono entrati così anche i già citati strumenti finanziari ibridi. Entro il 2015 il trattamento fiscale di questi titoli dovrà essere uniforme in tutti i Paesi dell’Unione europea, Lussemburgo incluso. Del resto Algirdas Semeta, commissario uscente alla tassazione, è stato chiaro: «Quando si abusa di regole per evitare di pagare qualunque tassa, allora dobbiamo cambiarle». Fin qui le dichiarazioni d’intenti e i primi, ancora parziali, interventi concreti. Certo è che per un paradossale scherzo della storia, alla presidenza della Commissione europea, chiamata a serrare le fila nella lotta ai paradisi fiscali, è approdato all’inizio di novembre Jean Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo dal 1995 al 2013, dominus e in parte artefice di un sistema fiscale che ha consentito al Granducato di arricchirsi alle spalle del resto del mondo.

LA DIFESA DUCALE. Nel marzo scorso Juncker aveva rilasciato un’intervista dai toni accesi al settimanale tedesco “Der Spiegel”, in cui respingeva sospetti e attacchi. «L’affermazione dei socialisti francesi che io favorisco attivamente l’evasione fiscale è un insulto contro il mio Paese e la mia persona», ha scandito il politico più potente del Lussemburgo, designato al vertice della Commissione dai capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione e poi confermato dal Parlamento con i voti dei popolari e di gran parte dei socialisti. A luglio, però, mentre si avvicinava il voto per la nomina al vertice della Commissione, i toni di Juncker si sono addolciti e in un discorso tenuto a Bruxelles ha promesso di «combattere evasione ed elusione fiscale (…) per introdurre principi etici nello scenario fiscale europeo». Il pressing ai confini del Lussemburgo ha però già portato risultati fino a qualche tempo fa impensabili. A metà ottobre, i ministri delle Finanze dei 28 Paesi Ue hanno trovato un compromesso sullo scambio automatico di informazioni fiscali. E per la prima volta anche il Lussemburgo si è impegnato a collaborare con le autorità degli altri Stati membri impegnati in indagini sull’evasione tributaria. L’accordo non entrerà in vigore prima del 2017 e alcuni esperti nutrono dubbi sulle modalità con cui l’intesa di massima raggiunta a livello politico sarà poi tradotta in norme concrete. È la prima volta, però, che il segreto bancario viene messo in discussione dai Paesi, come anche l’Austria, che all’interno della Ue avevano fin qui trovato ogni scappatoia legale per non allinearsi alla posizione comune. I politici del Granducato si stanno preparando ai tempi nuovi. Si spiega anche così l’offensiva di pubbliche relazioni lanciata dal ministro delle Finanze lussemburghese Pierre Gramegna, che il prossimo 2 dicembre sarà in Italia, a Milano, per illustrare alla comunità finanziaria i numeri e le occasioni d’affari del suo Paese. Il mese scorso però lo stesso Gramegna ha ribadito: «Il Lussemburgo non è un paradiso fiscale. Lo dico forte e chiaro».

ITALIAN CONNECTION. Questione di punti di vista. L’Unione europea sembra decisa a metter fine alla disparità di trattamento che hanno fin qui consentito al Paese di Juncker di attirare enormi flussi capitali in fuga dalle tasse. Moltissime le società italiane, anche se di recente la pressione della nostra Agenzia delle Entrate ha convinto molti imprenditori, alcuni grandi nomi come Prada e Dolce & Gabbana, a fare marcia indietro verso l’Italia. Nei documenti riservati della Price compare una folta rappresentanza tricolore. Oltre alle società già indicate, l’elenco comprende altre banche, come Unicredit e Sella. Ma soprattutto la Hines, il grande gruppo Usa che a Milano ha realizzato investimenti miliardari per ridisegnare un intero quartiere del centro città. C’è anche la N&W Global Vending di Valbrembo, citata con il “Project Neptune”. È l’operazione che ha portato nel 2008 la numero uno nelle macchine di distribuzione di cibo e bevande ad essere acquistata da Barclays e Investcorp, una finanziaria del Bahrein, con interessi negli Stati del Golfo. Menzionato anche il gruppo Rinascente Upim finanziato nel 2009 dal braccio immobiliare della Deutsche Bank, la Deutsche Bank Real Estate Global Opportunities IB Fund. Incursioni in campo immobiliare sono state fatte in Italia anche dal gruppo inglese European Property Investors. Un altro business del 2010 in Lussemburgo riguarda Sportfive Group, leader mondiale delle agenzie di diritti per il calcio, legato a 250 club e a una decina di campionati nazionali. In Italia cura i diritti di marketing e commerciali di Sampdoria, Atalanta e Juventus. Nei file ottenuti da “l’Espresso” ci sono operazioni che riguardano il nostro Paese condotte da trentuno società di tutti i settori: una parte viene descritta nell’articolo a seguire, le altre saranno pubblicate nelle prossime settimane.

MULTINAZIONALE CHE PASSIONE. La crema dei più grandi gruppi mondiali è di casa in Lussemburgo, dove si mettono a punto piani per cospicui finanziamenti. La palma va a Procter & Gamble (Gillette, prodotti di bellezza, igiene orale, profumi): quasi 80 miliardi di dollari a suon di certificati che coinvolgono anche la filiale italiana di Roma. Segue l’americana Abbott Laboratories (prodotti farmaceutici): oltre 50 miliardi di dollari. E, ancora, tra i tanti protagonisti, Bayerische Landesbank (l’ottava banca tedesca): 500 milioni di euro; Carlyle Group (private equity): 240 milioni di sterline e 150 milioni di dollari; Eon Group (tedesco, energia, gas): 2,55 miliardi di euro; Gazprom (la più grande compagnia russa, gas): 4 miliardi di dollari; Glaxo Smith Kline (farmaceutica): 6,25 miliardi di sterline; Heinz (Usa, food company): 5,7 miliardi di dollari; il fondo Permira, che controlla Hugo Boss insieme ad alcuni membri della famiglia Marzotto: 284 milioni di sterline. Ma gli accordi sono relativi anche ad altri colossi, come il fondo Blackstone, Accenture e Burberry. Un esempio? Stando ai file esaminati dal network, nel 2009 Amazon grazie alla deduzione di royalties per molte centinaia di milioni ha dichiarato per le sue attività europee profitti per soli 14,8 milioni di euro, limitandosi a pagare 4,1 milioni di tasse nel Granducato.

PRICE WATERHOUSE. Il colosso della revisione scrive nel suo sito di essere il più grosso fornitore di servizi professionali del Lussemburgo. E giorno dopo giorno continua a crescere. Attualmente è forte di 2.455 dipendenti, ma l’anno scorso aveva previsto di assumere ancora entro la fine del 2014.  In risposta alla richiesta di commenti ricevuta da ICIJ, Pricewaterhouse ha ribattuto che la documentazione utilizzata è «datata», composta di informazioni «rubate»: inoltre, «il furto è all’esame delle competenti autorità». La multinazionale ha poi ribadito che le sue consulenze fiscali rispettano «le leggi internazionali, europee e locali». E che, nella sua attività si attiene al «codice di condotta della società».

“MONSIEUR RULING". “Sociétés 6” è, come s’è visto, l’ufficio delle imposte familiare ai manager della Pricewaterhouse. Che qui entrano per discutere delle loro proposte fiscali. Ed è qui che per più di vent’anni ha regnato Marius Kohl, 61 anni, arbitro e giudice unico, soprannominato “monsieur ruling”, in pensione dal 2013. Di recente l’ha intervistato il “Wall Street Journal”. Dipingendolo così: porta capelli raccolti con un codino, occupava una stanza modesta, ingentilita da un calendario Pirelli, dono dell’azienda di pneumatici che a lui si era rivolta per alcune questioni. Al giornale Usa ha dichiarato: «Il lavoro che ho fatto ha certamente portato benefici al Paese, per quanto forse non in termini d’immagine». È stato definito «il guardiano dell’unica porta attraverso cui le società possono entrare nel paradiso fiscale del Lussemburgo». Aveva la mano rapida, monsieur Kohl. In un solo giorno, è riuscito a firmare ben 39 pareri positivi, lui che sovrintendeva alla gestione di migliaia di “tax agreement”.  Una velocità costante, tradotta in 548 “comfort letters”, ovvero il timbro ufficiale dell’approvazione finale, in otto anni: una ogni cinque giorni. Per la gioia della finanza mondiale in cerca di risparmi fiscali.

Scanzi: “Moscovici? Prova godimento nell’attaccare sempre l’Italia ma in Francia ha fatto più danni della grandine”, scrive di Gisella Ruccia il 25 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Manovra e bocciatura della Commissione Europea? Secondo me, il dialogo con la Ue, di fatto, non ci può essere anche perché dall’altra parte c’è una commissione che aveva bocciato questa manovra prima ancora che fosse partorita”. Sono le parole del giornalista de Il Fatto Quotidiano, Andrea Scanzi, ospite di Coffee Break, su La7. E aggiunge: “C’è questo Moscovici che evidentemente prova una sorta di perversione e di godimento nell’attaccare sistematicamente l’Italia. Poi bisognerebbe anche raccontare chi sia questo Moscovivi. E’ uno che quando era ministro delle Finanze in Francia ha fatto più danni della grandine, è uno che ha confuso fascismo con comunismo quando se l’è presa con l’europarlamentare leghista Ciocca. Non c’entra niente col fascismo, l’unico precedente della scarpa fu di Kruscev. La vera risposta al problema, in realtà, è data dalle agenzie di rating, dallo spread, dai mercati, perché il governo può anche dire di tirare dritto per rispettare le promesse della campagna elettorale. Ma se lo spread va a 320, poi a 350, poi a 400, ne devi prende atto”. Scanzi si sofferma poi sulle forze politiche di governo: ““Populista” non vuol dire niente, perché ha un’accezione negativa. Significa parlare alla pancia del Paese, ma vuol dire anche una cosa che deve caratterizzare un politico: avere il contatto con la realtà, sentire veramente cosa pensano le persone, mischiarsi a esse, parlare nelle piazze. E questo lo hanno sempre fatto Lega e M5s e guarda un po’ adesso sono al potere. Orfini e Gasparri attaccano il governo, ma loro sono due politici per cui, se facessero oggi un comizio, andrebbero a sentirli 7 persone. Forse loro stessi non si ascolterebbero da soli. Quindi, centrodestra e centrosinistra devono capire che ci sono due forze, come Lega e M5s, che sentono l’umore del Paese, ed esistono altre forze che, al massimo, parlano a se stesse”. E sui dem osserva: “E’ vero che parte del Pd ha cercato anche di ascoltare le periferie, però soprattutto da Renzi in poi il Pd è stato ipervotato al Parioli di Roma, ma le periferie le ha completamente schifate. Anche a Milano è votato nei quartieri bene, ma viene schifato nella periferia”. Nel finale, il giornalista rivolge una domanda a Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista: “Rizzo ha ragione nell’insistere sulla necessità di una forza di sinistra, ma io domando: perché abbiamo Salvini al Viminale, un governo che sembra spostarsi a destra, nonostante il M5s abbia raccolto i voti di delusi dalla sinistra, e non c’è niente di niente della sinistra radicale? LeU è praticamente scomparso, Potere al Popolo non va oltre il 2% e riesce anche a litigare con Rifondazione Comunista. Cosa aspetta la sinistra per rinascere se ha pure Salvini al Viminale? O son morti del tutto, e allora stacchiamo la spina, oppure forse è un problema di persone”. E il politico risponde: “Non nasce nulla perché purtroppo mancano proprio i fondamentali della sinistra”.

Sforare il 3%? Moscovici se ne intende, scrive Carlo Clericetti il 17 gennaio 2018 su “La Repubblica”. Il commissario europeo agli Affari economici gliele ha cantate, a Di Maio, che vuole finanziare i progetti dei 5 Stelle anche superando il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil. "Il tetto del 3% al deficit ha un senso, questo senso è evitare che il debito slitti ulteriormente e il debito italiano non può slittare ulteriormente; deve, anzi, ridursi nel corso del tempo: quindi è un controsenso assoluto per l'Italia ma anche per il resto dell'Unione europea". Il commissario si chiama Pierre Moscovici, pronuncia Moscovisì, quindi sembrerebbe un francese. Ma non può essere: è mai possibile che un francese richiami tutti all’ordine per il rispetto del limite al deficit pubblico e per la riduzione del debito? Però, se uno va a controllare, è proprio così: Moscovici è francese. Non solo: è stato pure ministro dell’Economia, dal 2012 al 2014. Allora uno pensa: chissà che deficit basso avrà la Francia, o magari sarà già arrivata al pareggio di bilancio come prescrive il Fiscal compact. Andiamo a vedere i dati Eurostat. Ma guarda: negli ultimi dieci anni la Francia sotto il 3% non c’è mai stata. E Moscovici, quando ha smesso di fare il ministro dell’Economia per andare alla Commissione, si è lasciato alle spalle un deficit del 3,9%. “Ma il deficit l’ho ridotto”, potrebbe replicare lui. Sì, ma restando circa il 25% al di sopra della soglia stabilita. E forse solo quest’anno (2018) si riuscirà a rientrarci. Forse. Ma il debito pubblico, sarà certo al 60% come prescritto, o magari, visto che c’è stata la crisi, forse era salito, ma starà calando a tappe forzate. Vediamo che ci dice Eurostat. Toh! Il debito non solo non è al 60%, ma è salito per tutti questi anni, e continua a crescere. Non è tanto lontano dal 100%: coraggio, ancora un po’ e pure la Francia entrerà nel club. Chissà come gliele canta, Moscovici, al suo capo del governo Macron. Sicuramente non in pubblico, altrimenti i media lo riporterebbero. Ma a quattrocchi, di certo lo rimprovera duramente. Mica se la prenderà solo con Di Maio. Però, caro commissario, se lei è tanto convinto che il suo compito sia far rispettare quelle regole, non dovrebbe limitarsi a censurare le intenzioni. Con ben altra costanza e vigore dovrebbe prendersela con chi da dieci anni quelle regole non le rispetta. Che poi siano regole stupide (copyright Prodi) è un altro discorso. Ma per essere credibili, il minimo è guardare prima in casa propria.

Francesco Russo per Agi il 27 ottobre 2018. "Bruxelles è una istituzione a cui diamo 20 miliardi di euro ogni anno e ne prendiamo indietro 11. Ogni anno, quindi, diamo 9 miliardi all'Ue. Non ci può dire quali tasse tagliare. Se Bruxelles ti boccia la legge di Stabilità tu gliela restituisci tale e quale e fa uno pari". E ancora: "Bruxelles non ha nessun titolo per intervenire nel merito delle misure, Bruxelles non è il nostro maestro, la subalternità italiana in questi anni è stata particolarmente sviluppata nei confronti dei burocrati di Bruxelles". Parola di Matteo. No, non Salvini che, anzi, negli ultimi tempi pare pure orientato a utilizzare toni più distensivi nei confronti della Commissione Europea. A pronunciare queste frasi, che oggi appaiono perfettamente in linea con la retorica del governo gialloblu, fu l'allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in un'intervista a Radio 24 del 16 ottobre 2015. Anche allora il motivo del contendere era la manovra, con Roma che cercava di guadagnare spazi di flessibilità rispetto agli odiati parametri di Maastricht. La storia, quindi, si ripete. Sulla Stampa di mercoledì, Marco Zatterin ricordava come quasi ogni legge di bilancio presentata dall'Italia negli ultimi anni abbia portato a un duro confronto con le istituzioni comunitarie, persino quando a Palazzo Chigi c'era il tecnico Mario Monti. Solo Renzi, forte di un mandato popolare allora robustissimo (il famoso 40% alle elezioni europee del 2014), utilizzava però parole, argomenti e accenti paragonabili, se non sovrapponibili, a quelli utilizzati oggi dai capi di Lega e Movimento 5 stelle. L'Europa come club di grigi tecnocrati che soffoca le legittime ambizioni di crescita dell'Italia, che ci volta le spalle di fronte all'emergenza migratoria, che ci danneggia con le sanzioni alla Russia, che fa figli e figliastri, adottando doppi standard dei quali beneficia l'eterna rivale: Parigi. Tutto già sentito, quindi. Sovranismo ante litteram, seppure con l'obiettivo di cambiare la Ue dall'interno. Non deve perciò stupire l'aplomb con il quale Jean-Claude Juncker e Pierre Moscovici stanno reagendo a certe intemperanze verbali dei due attuali vicepremier. A Bruxelles, oltre ad avere parecchie cose da rimproverarsi, ci sono abituati.

Volontà di potenza. La differenza, sottolinea Zatterin, era che "mentre Renzi attaccava la Commissione, Pier Carlo Padoan con lo staff del Tesoro trattava dietro le quinte con gli uomini della direzione Ecofin. Così, un mese più tardi, l'Italia guadagnava ancora ossigeno nonostante il debito mostruoso e i conti che tornavano a metà". Un'altra differenza, aggiungiamo, è che Padoan era inattaccabile, era il pilastro sul quale si reggeva la credibilità in Europa dei governi a guida Pd. Una posizione solida della quale il suo successore, Giovanni Tria, non gode affatto, considerando quante volte, da quando è a via XX settembre, è stato dato prossimo alle dimissioni. Tornando alle analogie, va però detto che gli scontri di Renzi con Bruxelles non furono limitati alla manovra, ma furono una costante del suo mandato, teso a far guadagnare all'Italia quel ruolo di potenza di primo piano che in Europa non era mai riuscita a conquistarsi. Emblematico fu quel vertice di Ventotene con Angela Merkel e Francois Hollande. Era il 22 agosto del 2016. La Gran Bretagna aveva appena votato a favore della Brexit, lasciando libero uno spazio che, per l'ex sindaco di Firenze, doveva essere riempito dall'Italia. Un progetto mai portato a termine a causa della debacle del referendum costituzionale di dicembre, che concluse due anni, nove mesi e venti giorni segnati da polemiche con Bruxelles che toccarono livelli di virulenza elevatissimi.

Lo scontro con Juncker (sul 2,4%). Uno degli scontri più clamorosi risale al 14 novembre 2016, poco prima delle dimissioni. Renzi si era visto negare la richiesta di maggiore spazio di manovra per finanziare la ricostruzione delle aree terremotate. Nello specifico l'Italia aveva portato il deficit previsto in manovra dall'1,7% al 2,4% (a proposito di corsi e ricorsi storici), incontrando una durissima opposizione da parte di Juncker, i cui rapporti con Renzi toccarono allora i minimi storici. Ricordando i 19 miliardi di flessibilità aggiuntiva che gli erano già stati concessi, il presidente della Commissione aveva accusato l'ex premier di essere "litigioso" e di cercare a tutti i costi la polemica con Bruxelles. "L'Italia deve obbedire", tuonò. Per tutta risposta, in conferenza stampa, l'allora inquilino di Palazzo Chigi compì un gesto senza precedenti: eliminò la bandiera della Ue. Alle sue spalle solo sei drappi tricolori. Romano Prodi, padre nobile del suo partito, parlò di un "colpo al cuore". In compenso, arrivarono dalla Francia i complimenti del Front National.

Lo schiaffo di Bratislava. Gli ultimi mesi del mandato di Renzi furono forse quelli caratterizzati dalle polemiche più violente con la Ue. Lo spirito di Ventotene si sarebbe infatti guastato in fretta. Renzi sperava che il vertice sull'isola dove Altiero Spinelli fu mandato al confino avrebbe inaugurato una nuova governance europea a tre. Nemmeno un mese dopo, al Consiglio Europeo di Bratislava, il 16 settembre, la conferenza stampa finale resterà invece nel tradizionale formato a due: la cancelliera tedesca e il presidente francese. Renzi non nascose affatto l'ira per l'esclusione. Bocciò le conclusioni del vertice (pur avendole firmate), che non accoglievano le richieste dell'Italia in materia di crescita e immigrazione, e arrivò a liquidare il summit come una "bella crociera sul Danubio". Merkel evocò comunque uno "spirito di Bratislava". "Altro che spirito di Bratislava, se si va avanti così, presto parleremo del fantasma dell'Europa", replicò, profetico, in un'intervista al Corriere nella quale attaccò in un colpo solo Francia, Germania e Spagna per la violazione sistematica delle regole europee su bilancio e surplus commerciale.

Con Berlino un rapporto difficile. Con Angela Merkel i rapporti erano particolarmente complicati, come lo sono ora, per motivi non troppo dissimili, quelli tra la cancelliera e Macron. Merkel non ama le personalità troppo esuberanti e, soprattutto, non ama che la sua leadership venga messa in discussione (Hollande, debole e remissivo, era invece uno sparring partner perfetto). Lo scontro più duro risale a un bilaterale di Bruxelles il 15 dicembre 2015. Nei circoli europei, Renzi si era già fatto la fama di interlocutore brusco ed egocentrico, scrisse Politico, e "spesso difficile" era stata definita la sua relazione con il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, che aveva accusato di "non aver rispettato il popolo italiano" quando aveva accostato Roma all'Ungheria di Orban in un appello perché tutti i Paesi Ue facessero la loro parte nel controllo dei flussi migratori. "Non puoi certo sostenere di star dando il tuo sangue per l'Europa" fu la frase di Renzi che gelò Merkel. Il casus belli era stato il rifiuto tedesco di una garanzia per i depositi comune. Renzi si tolse però parecchi sassolini dalle scarpe, accusando Merkel di aver lucrato sulla crisi della Grecia accaparrandosi gli aeroporti ellenici privatizzati. I motivi di frizione con Berlino erano del resto numerosi. Alla polemica contro la dottrina dell'austerità e a quel surplus commerciale tedesco fuori ogni regola si è già accennato. Una questione quasi personale riguardava però le sanzioni alla Russia, Paese che, nonostante lo scontro sull'annessione della Crimea, continua a vantare in Berlino e Roma i partner europei più stretti. Proprio sull'onda di quelle sanzioni (che Berlino spesso aggira), l'Italia era stata costretta a rinunciare al progetto di gasdotto South Stream, che l'avrebbe unita ai giacimenti russi senza passare per l'Ucraina. Un analogo progetto con approdo in Germania, il North Stream II, non ha invece avuto la stessa sorte. Proprio i rapporti con la Russia erano stati un altro importante punto di scontro con i partner. Renzi non aveva mai nascosto la sua opposizione alle sanzioni contro Mosca, per il loro impatto sull'economia italiana e sugli storici rapporti tra i due Paesi. Una delle sue ultime battaglie in Europa fu il tentativo di farle saltare o, quantomeno, non renderne più automatico il rinnovo. Una battaglia ora ereditata da Di Maio e Salvini. Chissà, data la virulenza con la quale lo ha smentito durante l'ultima Leopolda, forse è vero che il leader del Carroccio ogni tanto lo chiama per chiedergli consigli.

Estratto dell’intervista di Leonardo Martinelli per “la Stampa” del 22 novembre 2018. Marine Le Pen non ci sta. La bocciatura del budget italiano da parte di Bruxelles, un affronto al suo amico Matteo Salvini, non le va giù. «Non è una decisione di tipo economico ma solo politica: per questo mi fa ancora più rabbia».

[…] Perché politica? L' Italia non rispetta i parametri di Maastricht, tutto qui.

«La Francia per anni ha superato per il deficit pubblico il 3% del Pil, mentre l'Italia restava sotto. Il nostro debito è salito più velocemente del vostro e, anche se minore, è ormai pari al 100% del Prodotto interno lordo, senza contare l'enorme deficit nella bilancia commerciale mentre l'Italia assicura sempre un surplus. Nonostante questo la Commissione europea tratta Emmanuel Macron con i guanti di velluto e gli concede ampi margini di flessibilità, mentre fa prova di una severità spropositata con l'Italia».

Per quale motivo?

«Perché a Roma i sovranisti sono al potere. E se il governo italiano dimostrerà che, mettendo fine alla politica di austerità, si rilancia l'economia e si riduce la disoccupazione, alla Commissione crollerà un mondo. Vuol dire che loro, a Bruxelles, avranno perso».

[…] Viktor Orban e Sebastian Kurz sono favorevoli al rigore nei budget pubblici.

«Ungheria e Austria fanno parte dell'"area marco". L' euro è stato concepito dai tedeschi e per i loro interessi. E quei due Paesi dipendono economicamente dalla Germania […]». 

Manovra bocciata, missione compiuta: la guerra con l’Europa farà volare Lega e Cinque Stelle, scrive il 22 novembre 2018 L’Inkiesta. Se siete tra quelli che esultano per la bocciatura definitiva della legge di bilancio e per la procedura d’infrazione abbiamo una brutta notizia: non siamo più nel 2011. Lo scontro con la Commissione è un punto a favore dei sovranisti. Che volevano la guerra per usarla in campagna elettorale. Eccola qui, la bocciatura. Definitiva. Eccola qui: la bomba che rischia di far saltare l'Italia. In molti l'avevano prevista: i mercati, per esempio. Molti l'avevano temuta: Confindustria. Qualcuno, forse se l'era augurata: vediamo chi. Lo scontro con l'Europa torna ai livelli del 2011. Ma a sette anni da quella crisi, molte cose sono cambiate. All'epoca la tempesta finanziaria, gli allarmi lanciati dalle istituzioni comunitarie - ricordate la lettera di Trichet? -, il biasimo dei partner europei - ricordate il sorrisetto Merkel-Sarkozy? - prepararono il terreno per un cambio di governo e Mario Monti poté insediarsi in un clima di grande preoccupazione e con un larghissimo consenso, anche se oggi in tanti fingano di non ricordare. O di non aver condiviso. Le cose infatti ora sono molto diverse. Come insegna Eraclito, non si può fare il bagno due volte nello stesso fiume e messi di fronte a un nuovo scontro Italia-Europa, gli italiani reagiranno in un altro modo. Oggi paragonare la lettera della Commissione a quella di Babbo Natale scatena l'applauso. Oggi associare di continuo il nome di Juncker a quello di qualche super alcolico è diventato un tormentone gustoso come nemmeno più i cinepanettoni. Oggi a far vacillare un governo sarebbe l'approvazione della Merkel e non il suo biasimo. E anche il temuto spread, vessillo che impropriamente l'opposizione ha sempre issato per mettere in guardia dagli errori del governo, è una bandiera che sventola sfilacciata. Non perché effettivamente non sia preoccupante il balzo di 100 punti che ha fatto registrare negli ultimi nove mesi o perché non siano condivisibili gli allarmi di Confindustria e delle banche, ma per il semplice motivo che vista dalla prospettiva immediata dell'elettore pentastellato o leghista, la tanto temuta tempesta finanziaria è poco più che un bicchier d'acqua. Eccola qui infatti la bocciatura e che cosa è successo? Niente. Questa mattina la maggioranza degli italiani è andata a fare la spesa, ha pagato gli stessi prezzi, ha pagato in euro. La previsione di enormi difficoltà future non può competere con la promessa di un aiuto oggi. Eccola qui infatti la bocciatura e che cosa è successo? Niente. Questa mattina la maggioranza degli italiani è andata a fare la spesa, ha pagato gli stessi prezzi, ha pagato in euro. La previsione di enormi difficoltà future non può competere con la promessa di un aiuto oggi (vedi reddito di cittadinanza o pensione anticipata). E persino l'esempio dei mutui, grande classico della letteratura anti spread, non ha più l'appeal di un tempo. «Cambiano quelli che abbiamo o quelli che faremo?», ci hanno chiesto in molti. «No, solo quelli del futuro», gli abbiamo risposto. «Allora ciao. Viva Salvini, viva Di Maio, abbasso l'Europa.» La sintesi brutale forse non coglie tante sfumature ma intercetta la forza con la quale questa bocciatura spingerà tanti elettori tra le braccia dei sovranisti. Il fatto che arrivi da 18 partner su 18, il fatto che l'Italia non sia riuscita a convincere nessuno, che non abbia alleanze, che non possa contare neppure sui nuovi amici alla Orban non preoccupa. Anzi: la bocciatura totale è la controprova di quel “cambiamento” che si intitolano Salvini e Di Maio. Al punto che se fossimo consulenti cinici e spietati di quei due, avremmo consigliato mille volte di andarsela a cercare. Con questa bocciatura, alle prossime Europee il governo può puntare al trionfo. All'Europa, alle opposizioni e soprattutto alla sinistra, serve invece un vocabolario nuovo. Finché resteranno bloccate nel perimetro dello “spread”, delle “banche” e degli “investitori” non ci sarà partita.

Rovesciare Juncker e Moscovici. Il piano dei sovranisti in Europa, scrive il 10 ottobre 2018 Lorenzo Vita su Gli Occhi della Guerra. Creare un fronte compatto che rovesci l’attuale leadership dell’Unione europea. Prendersi la Commissione e riuscire a costruire un fronte da destra che cambi l’Europa, trasformandola in una realtà confederale. Sono questi gli obiettivi del blocco sovranista per le elezioni europee ma non solo, come dimostrato da Matteo Salvini e Marine Le Pen al convegno dell’Ugl a Roma. La strategia del fronte sovranista è molto più complessa e articolata di quanto possa apparire. Non c’è solo una campagna elettorale da portare a termine ma cambiare l’Europa. Per farlo il fronte sovranista parte da una certezza: non può fare tutto da solo. C’è bisogno anche del Ppe e di quel vento di destra che sta animando anche parte del movimento moderato dell’Unione europea. Il blocco nato dai movimenti più radicali” non vuole tagliare i ponti con il centro: vuole che il centro si riequilibri a destra. E per farlo, ha al suo interno alleati utilissimi alla causa: Viktor Orban ad esempio, il cui Fidesz rimane nel Ppe, ma anche la Csu di Horst Seehofer e i popolari dell’austriaco Sebastian Kurz. Nel mirino dei sovranisti non c’è solo quello di strappare consensi, ma c’è anche quello di diventare una presenza costante e necessaria all’interno dell’Europarlamento. Primo step sarà quello delle elezioni europee del 26 maggio 2019 e cercare di diventare la seconda forza politica superando il Partito socialista. Come riporta Il Tempo, il fronte sovranista è “un nucleo in grande espansione come conferma la rilevazione del sito specializzato ‘pollofpolls.eu’ che lo dà oggi a 160 seggi, nettamente avanti ai socialisti (crollati a 138) e a un passo dai 179 seggi dei popolari”. Nel caso in cui le elezioni rendessero concreto questo scenario, il blocco a destra otterrebbe quanto voluto: diventare indispensabile e rendere soprattutto difficile, se non impossibile, la riproposizione della Grande Coalizione in salsa europea. Niente più alleanza Ppe- Pse e Alde per spartirsi i posti di comando in Europa. Ma qualcosa di diverso, che potrebbe anche vedere di nuovo il Ppe fra i protagonisti, ma senza la sinistra e con i sovranisti a fare da ago della bilancia. E in questo modo, decidere insieme la nuova Commissione europea. L’obiettivo di Salvini & co. non è quello di rivoluzionare l’Europa con un voto. La strategia è più a lungo termine e bisogna partire da mosse pragmatiche. Intanto riuscendo a creare un’alleanza politica che rovesci la nomenklatura che ha dettato finora legge in tutto il continente. Nel mirino ci sono i vari Jean-Claude Juncker, Pierre Moscovici e tutti i rappresentanti della Commissione che ha scatenato la ribellione degli elettori europei. E che rappresentano il vero obiettivo del blocco sovranista di cui il ministro dell’Interno e la leader francese rappresentano gli alfieri. A questo punto, una volta ottenuto un blocco di voti di grande peso e che rappresentino la seconda forza del Parlamento europeo, c’è il secondo step: iniziare a proporre una propria idea di Europa. E in questo senso, l’idea del fronte sovranista è quella di ripensare l’Ue in termini confederali. Non un’unione politica, ma un’alleanza di Stati che abbia a cuore solo alcuni punti, come la protezione dei confini, e che lascia ai singoli governi libertà di movimento sulla società che vuole costruire nel proprio Paese. Un’Europa minimalista, soft, senza una potenza leader né un sistema di funzionari che controlli la vita dei singoli Stati membri. Un obiettivo arduo, ma non impossibile. E dalla loro parte, i sovranisti hanno alleati forti non solo in Europa, ma anche al di fuori: Russia e Stati Uniti.

EI FU...LA MODA ITALIANA.

Ombre sulla moda pugliese: inchiesta del New York Times, scrive il 21 21 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Secondo il quotidiano americano, a causa di un mercato del lavoro in difficoltà, migliaia di lavoratori a domicilio a basso reddito creano abiti di lusso senza contratti o assicurazioni. Non è questa la prima volta che il The New York Times indaga sul Made in Italy. E l’inchiesta apparsa ieri, proprio durante la Milano Fashion Week organizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana sull’autorevole e temuto quotidiano americano, non è certo passato inosservato. Anche perchè realizzata da Elizabeth Paton reporter per la sezione “Styles”, che segue i settori della moda e del lusso in Europa. La Pathon prima di entrare a lavorare nel 2015 al New York Times, lavorava come una giornalista al Financial Times a Londra ed a New York. Nell’ articolo si parla una donna di mezza età che passato la sua estate seduta su sedia imbottita di nero, al lavoro sul tavolo della sua cucina, in un appartamento al secondo piano nella città meridionale di Santeramo in Colle. La donna – secondo il New York Times    era intenta a cucire con cura un sofisticato cappotto di lana, un capo che quando arriverà nei negozi questo mese come parte della collezione autunno-inverno di MaxMara, il noto marchio di moda italiano di proprietà della famiglia Maramotti, verrebbe venduto da 800 a 2.000 euro ($ 935 a $ 2.340). La donna, si legge nell’articolo, ha chiesto di non essere nominata per paura di perdere il proprio compenso, ricevendo dal committente che la impiega, soltanto 1 €uro per ogni metro di tessuto che completa. “Mi ci vuole circa un’ora per cucire un metro, quindi circa quattro o cinque ore per completare un intero cappotto”, ha dichiarato al New York Times la donna, la quale lavora senza alcun contratto, o assicurazione, e viene pagata in contanti su base mensile. “Cerco di fare due mani al giorno” dice.  Il lavoro in nero che realizza nel suo appartamento le sarebbe stato affidato da una ditta locale che produce anche capispalla per alcuni dei nomi più noti nel settore del lusso, tra cui Louis Vuitton e Fendi. Il massimo che abbia mai guadagnato, ha raccontato, è stato di 24 €uro per un cappotto intero! Ma non è stata soltanto l’anonima sarta di Santeramo a parlare. Il fenomeno di sfruttamento dalla manodopera pugliese viene confermato al quotidiano americano anche da Maria Colamita, 53 anni, di Ginosa, un’altra cittadina in provincia di Taranto, la quale ha raccontato che dieci anni fa, quando i suoi due figli erano più giovani, aveva lavorato da casa con abiti da sposa prodotti da fabbriche locali, abiti da ricamo con paillettes di perle e appliques, percependo da 1,50 a 2,00 €uro per ora di lavoro.  Per completare ogni abito ci volevano dalle 10 alle 50 ore di lavoro e la signora Colamita ha riferito di aver lavorato dalle 16 alle 18 ore al giorno, venendo pagata soltanto quando un capo era completo. “Vorrei solo fare delle pause per prendermi cura dei miei figli e dei miei familiari” e così è stato ha raccontato, aggiungendo che attualmente lavora come addetta alle pulizie e guadagna 7 €uro l’ora. “Ora i miei figli sono cresciuti, posso accettare un lavoro dove posso ottenere un salario reale“. Entrambe le donne intervistate dal New York Times   hanno raccontato di aver conosciuto almeno altre 15 cucitrici che lavoravano nella loro zona producendo dalle loro case capi di abbigliamento di lusso su base forfettaria per le fabbriche locali. In poche persone erano disposte a rischiare il loro sostentamento per raccontare le loro storie al quotidiano newyorkese, perché per loro la flessibilità e l’opportunità di prendersi cura delle loro famiglie mentre lavoravano valeva la misera paga e la mancanza di protezioni. “So di non essere pagato quello che merito, ma qui in Puglia i salari sono molto bassi e alla fine mi piace quello che faccio”, avrebbe dichiarato un’altra cucitrice, che lavora dal laboratorio nel suo appartamento. “L’ho fatto per tutta la vita e non potevo fare nient’altro.” Anche se ha un lavoro in fabbrica che le ha pagato 5 euro all’ora, ha raccontato di aver lavorato tre ore al giorno in più sui libri da casa, in gran parte su capi campione di alta qualità per designer italiani a circa 50 €uro ciascuno. “Accettiamo tutti che è così,” ha riferito la donna circondata da rotoli di stoffa e misure a nastro sulla sua macchina da cucire-"Made in Italy", ma a quale costo? Il New York Times parla di un business sulla miriade di piccole e medie imprese manifatturiere orientate all’esportazione che costituiscono la spina dorsale della quarta economia europea, le fondamenta secolari della leggenda del “Made in Italy” si sono scosse negli ultimi anni sotto il peso della burocrazia, aumento dei costi e aumento della disoccupazione. Le imprese del nord, dove generalmente ci sono più opportunità di lavoro e salari più alti, hanno sofferto meno di quelle del sud, che sono state duramente colpite dal boom della manodopera straniera a basso costo che ha indotto molte aziende a spostare all’estero le attività produttive. Secondo i dati dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica), nel 2015 3,7 milioni di lavoratori in tutti i settori hanno lavorato senza contratto in Italia. Più recentemente, nel 2017, l’Istat ha censito 7.216 lavoratori a domicilio, 3.647 nel settore manifatturiero, che lavorano con contratti regolari. Non ci sono dati ufficiali su coloro che invece operano con contratti irregolari e nessuno ha tentato di scoprirlo per decenni. Nel 1973, l’economista Sebastiano Brusco stimava che l’Italia aveva un milione di lavoratori a domicilio a contratto nella produzione di abbigliamento, con una cifra approssimativamente uguale che lavora senza contratti. Successivamente, da allora, non sono stati fatti grandi sforzi per accertare e verificare i numeri. Pochi settori dipendono dal cachet di produzione del paese come il lusso, a lungo fulcro della crescita economica dell’Italia, che realizza il 5% del prodotto interno lordo italiano ed ha impiegato direttamente ed indirettamente circa 500.000 persone nel settore dei beni di lusso in Italia nel 2017, secondo i dati di una ricerca realizzata dell’Università Bocconi e da Altagamma, associazione che riunisce diverse società del lusso made in Italy. Numeri che sono stati rafforzati dalle rosee fortune del mercato globale del lusso, per i quali Bain & Company prevede una crescita oscillante fra il 6 e l’8%, per un valore da 276 a 281 miliardi di euro nel 2018, spinti prevalentemente dall’ attrattività dei brand “made in Italy” nei mercati consolidati ed emergenti. Ma i millantati sforzi compiuti da alcuni marchi di lusso e dai loro principali fornitori per abbassare i costi – racconta Il New York Times –senza compromettere la qualità hanno messo a dura prova coloro che operano nel profondo del settore. Solo quanti sono interessati è difficile da quantificare. Per realizzare questa inchiesta, il New York Times racconta di aver raccolto prove di circa 60 donne nella sola regione Puglia, che lavorano da casa senza un regolare contratto nel settore dell’abbigliamento. Tania Toffanin, l’autrice di “Fabbriche Invisibili”, un libro sulla storia del lavoro a domicilio in Italia, ha stimato che attualmente ci sono dai 2000 ai 4000 lavoratori domestici irregolari nella produzione di abbigliamento. “Più in basso andiamo nella supply chain, maggiore è l’abuso”, ha dichiarato Deborah Lucchetti, di Abiti Puliti, il braccio italiano della Clean Clothes Campaign, un gruppo di difesa anti-sweatshop. Secondo la Lucchetti, la struttura frammentata del settore manifatturiero globale, composta da migliaia di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, è una ragione chiave per cui le pratiche come il lavoro domestico non regolamentato possono rimanere prevalenti anche in un Paese come l’Italia. A suo parere il fatto che molti marchi di lusso italiani esternalizzino la maggior parte della produzione, piuttosto che utilizzare le proprie fabbriche, ha creato uno “status quo” in cui lo sfruttamento può facilmente infastidire, specialmente per coloro che non conoscono il sindacato. Una gran parte dei marchi assume un fornitore locale in una regione, che a sua volta negozierà i contratti con le fabbriche nell’area per loro conto. E le mani sono “pulite”. “I marchi commissionano i primi appaltatori a capo della catena di fornitura, che poi commissionano ai subfornitori, che a loro volta spostano parte della produzione in fabbriche più piccole sotto la pressione di tempi di consegna ridotti e prezzi ridotti”, ha dichiarato la Lucchetti. “Ciò rende molto difficile che ci sia sufficiente trasparenza o responsabilità. Sappiamo che il lavoro a casa esiste. Ma è così nascosto che ci saranno marchi che non hanno idea che gli ordini siano fatti da lavoratori irregolari al di fuori delle fabbriche contrattate “. Questi problemi sono di comune conoscenza, e “alcune aziende e griffe devono sapere che potrebbero essere complici”. Molti dirigenti delle fabbriche pugliesi sottolineavano che aderivano ai regolamenti sindacali, trattavano i lavoratori in modo equo e pagavano loro un salario di sussistenza. Molti proprietari di fabbriche locali hanno aggiunto che quasi tutti i nomi di lusso – come Gucci, di proprietà della holding francese Kering, per esempio, o Louis Vuitton, il brand di proprietà del Gruppo LVMH (Louis Vuitton-Moët Hennessy) inviavano regolarmente ispettori per verificare condizioni di lavoro e standard di qualità. Il Gruppo LVMH contattato dal New York Times ha rifiutato di commentare questa storia. Un portavoce di MaxMara ha inviato una e-mail contenente la seguente dichiarazione: “MaxMara considera una catena di approvvigionamento etica una componente chiave dei valori fondamentali della società che si riflette nelle nostre pratiche commerciali”, ed aggiunto che la società non era a conoscenza di comportamenti illegali dei suoi fornitori che usavano i lavoratori a domicilio, annunciando che avrebbero avviato un’indagine ispettiva proprio questa settimana.

Il “metodo salentino”. Nell’inchiesta appare e viene pubblicato il punto di vista di Eugenio Romano, un ex avvocato sindacalista che ha trascorso gli ultimi cinque anni in rappresentanza della Carla Ventura, una fabbrica finita in bancarotta, proprietaria della Keope Srl (già CRI), facendo causa al colosso di lusso della calzatura italiana Tod’sed alla Euroshoes, una società che la Tod’s ha utilizzato come fornitore leader per la produzione di calzature pugliesi. Inizialmente, nel 2011, la signora Ventura aveva iniziato un’azione legale soltanto nei confronti della Euroshoes, affermando che i consistenti pagamenti incassati in ritardo, le riduzioni delle tariffe per gli ordini e le fatture in sospeso dovute a tale società avevano di fatto conseguentemente reso impossibile mantenere redditizia la fabbrica e pagare ai suoi lavoratori un salario soddisfacente. Il Tribunale competente si è pronunciato in suo favore ed ha ordinato alla Euroshoes di pagare i suoi debiti, anche perchè il ricorso in appello della società salentina si è concluso senza successo, in linea alla sentenza di primo grado. Conseguentemente a causa dei procedimenti giudiziari intrapresi dalla Carla Ventura, gli ordini di lavorazione non sono più arrivati ed alla fine, nel 2014, la Keope Srl è finita in bancarotta. Adesso, in un secondo processo, che si è protratto per anni senza arrivare ad una sentenza significativa, la signora Ventura ha avviato un’altra azione contro Euroshoes e Tod’s, che ha avuto conoscenza diretta delle pratiche commerciali illecite di Euroshoes. La Tod’s di proprietà della famiglia Della Valle ha sempre evidenziato di non aver avuto alcun ruolo né ha avuto conoscenza dei contenziosi contrattuali della Keope con la Euroshoes, che correttamente contattata dal New York Times, ha rifiutato tramite il proprio avvocato di Euroshoes di rilasciare dichiarazioni sulla loro inchiesta giornalistica. “Parte del problema qui è che i dipendenti accettano di rinunciare ai loro diritti per lavorare”, ha spiegato Romano nel suo ufficio di Casarano (Lecce), prima della prossima udienza, che è prevista per il 26 settembre, parlando del “metodo Salento”, utilizzando un detto salentino popolare in Puglia che essenzialmente significa: “Sii flessibile, usa i tuoi metodi, sai come farlo qui.”. L’aera del Salento ha un alto tasso di disoccupazione, che rende quindi vulnerabile la sua forza lavoro produttiva. E anche se ufficialmente i grandi brand del “made in Italy” non suggerirebbero mai di sfruttare i loro dipendenti, alcuni proprietari di fabbriche hanno riferito al Romano che esiste un invito-accordo tacito per usare una serie di mezzi, tra cui sottopagare i dipendenti e pagarli per lavorare a casa. L’area del Salento nella provincia di Lecce è stata a lungo un centro di produttori di scarpedi terze parti per marchi di lusso come Gucci, Prada, Salvatore Ferragamo e Tod’s. Nel 2008, la Keope Srl società della signora Ventura aveva stipulato un accordo esclusivo con Euroshoes per diventare un sub-fornitore di tomaie per calzature destinate a Tod’s. Secondo quanto compare nei documenti di causa prodotti dalla signora Ventura, la Euroshoes è passata a pagamenti con ritardo consistenti, conclusasi a una riduzione inspiegabile dal 2009 al 2012 dei prezzi unitari per tomaia di scarpe scesi da €uro 13,48 a €uro 10,73. Mentre molte fabbriche locali hanno cercato di adattarsi, pur di non perdere le commesse di lavoro, utilizzando delle dipendenti che lavorano da casa, invece la signora Ventura ha dichiarato di aver sempre pagato gli stipendi in regola anche con i contributi previdenziali. Poiché il contratto richiedeva l’esclusività, altri potenziali accordi di produzione con marchi concorrenti come Armani e Gucci, che avrebbero potuto risanare i bilanci della Keope Srl, non potevano essere fatti. Conseguentemente i costi di produzione non erano più sostenibili, e le promesse di un aumento del numero di ordini da Tod’s attraverso la Euroshoes non sono mai arrivati, come compare dai documenti legali depositati nella causa intrapresa dalla signora Ventura. Nel 2012 un anno dopo che la signora Ventura aveva portato in tribunale la Euroshoes per non averle pagato le proprie fatture emesse, gli ordini della Tod’s via Euroshoes si sono interrotti completamente, una decisione che secondo i documenti legali, alla fine ha spinto la società Keopedella signora Ventura sulla via della bancarotta, venendo dichiarata insolvente nel 2014. Una portavoce di Tod’s ha dichiarato, quando le è stato chiesto un commento sulla vicenda dal New York Times: “Keope ha intentato una causa contro uno dei nostri fornitori, Euroshoes e Tod’s, per recuperare i danni relativi alle presunte azioni o omissioni di Euroshoes. Tod’s non ha nulla a che fare con i fatti addotti nel caso e non ha mai avuto un rapporto commerciale diretto con Keope. Keope è un subappaltatore di Euroshoes, e Tod’s è completamente estraneo alla loro relazione “. La dichiarazione aggiungeva anche che Tod’s aveva pagato Euroshoes per tutte le somme fatturate in modo tempestivo e regolare, e non era quindi responsabile se Euroshoes non avesse pagato un subappaltatore. Tod’s ha affermato che ha insistito affinché tutti i fornitori eseguissero i loro servizi in linea con la legge e che lo stesso standard fosse applicato ai subappaltatori. “Tod’s si riserva il diritto di difendere la sua reputazione dal tentativo diffamatorio di Keope di coinvolgerlo in questioni che non riguardano Tod’s”, ha detto la portavoce. Ma non ha detto però come si è protratto il proprio rapporto con la Euroshoes. Infatti, un rapporto di “Abiti Puliti” ha rilevato che altre aziende della Puglia cucivano a mano tomaie se le donne facevano il lavoro irregolarmente dalle loro case. Quella retribuzione sarebbe da 70 a 90 euro a coppia, il che significa che un lavoratore in 12 ore guadagnerebbe da 7 a 9 euro.  Molti osservatori del settore ritengono che la mancanza di un salario minimo nazionale stabilito dal Governo italiano abbia reso possibile e più semplice per molti lavoratori lavorare da casa ed essere pagati una miseria ed in “nero”. I salari sono generalmente negoziati per i lavoratori dai rappresentanti sindacali, che come noto, variano per settore e per unione. Secondo lo Studio Rota Porta, una società italiana di consulenza sul lavoro, il salario minimo nel settore tessile dovrebbe aggirarsi intorno ai 7,08 euro all’ora, inferiore a quello di altri settori tra cui quello alimentare (8,70 euro), la costruzione (8 euro) e la finanza (11,51 euro). Sono molti però i lavoratori che non sono iscritti e rappresentati dai sindacati, lavorando al di fuori del sistema occupazionale legale, e diventando quindi vulnerabili ed inclini allo sfruttamento, circostanza che crea rabbia e frustrazione per molti rappresentanti sindacali. “Sappiamo che le cucitrici lavorano senza contratto da casa in Puglia, specialmente quelle specializzate in cucito, ma nessuno di loro vuole avvicinarsi a noi per parlare delle loro condizioni, e il subappalto le mantiene in gran parte invisibili”, ha dichiarato Pietro Fiorella, un rappresentante del sindacato CGIL. “Molti di loro sono in pensione”, ha detto Fiorella, “o vogliono la flessibilità del lavoro a tempo parziale per occuparsi dei membri della famiglia o vogliono integrare le loro entrate, e hanno paura di perdere i soldi aggiuntivi”. Nonostante i tassi di disoccupazione in Puglia sono scesi recentemente al 19,5% nel primo trimestre del 2018 rispetto a quasi il 21,5% nello stesso periodo del 2017, i posti di lavoro “regolari” rimangono sempre più difficili da trovare. Un altro esponente sindacale, Giordano Fumarola, ha evidenziato un altro motivo per cui le retribuzioni per la produzione di abiti e lavorazione di tessuti in Puglia sono rimaste così basse per così tanto tempo: la delocalizzazione della produzione in Asia e nell’Europa dell’Est negli ultimi due decenni, che ha intensificato la concorrenza locale per un minor numero di ordini, costringendo i proprietari di fabbrica a ridurre i prezzi. “Negli ultimi anni, alcune società di lusso hanno iniziato a riportare la produzione in Puglia”, ha aggiunto Fumarola. Ma il potere ancora saldamente nelle mani dei marchi del lusso, ha consentito dei margini di guadagno bassissimo per i fornitori che già lavoravano con loro. Era quindi molto difficile per i proprietari delle “griffes” poter resistere alla tentazione di chiudere un occhio su chi utilizzava subfornitori o lavoratori a domicilio, risparmiando denaro frodando i loro lavoratori o il Fisco. Le ultime elezioni politiche dello scorso marzo hanno portato al potere in Italia “un nuovo governo populista” scrive il New York Times –, mettendo il potere nelle mani di due partiti   il Movimento a cinque stelle e la Lega, e un proposto “decreto di dignità” mira a limitare la prevalenza dei contratti di lavoro a breve termine e di aziende che spostano i posti di lavoro all’estero semplificando al contempo alcune regole fiscali. Per ora, tuttavia, la legislazione relativa a un salario minimo non sembra essere all’ordine del giorno”. Una riforma di qualsiasi tipo sembra molto lontana, per le donne come la sarta di Santeramo in Colle, che lavora dal tavolo della sua cucina, la quale sarebbe devastata per perdere questo “reddito aggiuntivo”, ha detto “ed il lavoro le ha permesso di trascorrere del tempo con i miei figli”. “Cosa vuoi che ti dica?” ha aggiunto la sarta con un sospiro, chiudendo gli occhi e sollevando i palmi delle mani al New York Times. “È quello che è. Questa è l’Italia”. Durissima e fuori luogo la reazione di Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italia (controllata e finanziata da alcuni marchi italiani), che ha commentato l’inchiesta di Elizabeth Paton “un attacco vergognoso e strumentale. Hanno attaccato questi marchi in maniera indegna e per questo prepareremo una nota congiunta insieme agli avvocati” e continua “Se hanno trovato un reato c’è obbligo di denuncia, perché non l’hanno fatto?”. Capasa però dimentica più di qualcosa, e cioè che la libertà di stampa in America è sacra ed inviolabile tutelata dal Primo emendamento della Costituzione statunitense. Ed inoltre che un giornalista non è un ufficiale della Guardia di Finanza, e l’unico suo dovere è quello di raccontare e documentare. Non quello di andare a fare delle denunce. Questa non è la prima inchiesta giornalistica sulla moda italiana. Infatti anche in Italia il noto programma Report (RAI) , condotto all’epoca dalla bravissima collega Milena Gabbanelli, ha realizzato ben due inchieste: la prima nel gennaio 2007 dal titolo emblematico “Schiavi del lusso” che faceva emergere come la produzione di Prada spacciata per Made in Italy, veniva realizzata da maestranze cinesi sottopagate, mentre la seconda nel dicembre 2014  dal titolo “Va di lusso” (vedi QUI)   in cui Report tornò ad occuparsi dei grandi marchi del lusso, affrontando in particolare la questione che ha distrutto e sta distruggendo un patrimonio importante per il Made in Italy: l’artigiano in regola che viene sostituito con i più concorrenziali cinesi. Parte della responsabilità di questo patrimonio dilapidato tocca a chi gestisce i marchi del lusso, in modo sempre più famelico e cercando di aumentare i propri fatturati a scapito di valori (anche economici) importanti. Al centro dell’ultima inchiesta di “Report” era finito questa volta il marchio italiano Gucci, di proprietà del gruppo francese Kering che da dieci anni garantisce una filiera etica e controllata grazie alla certificazione SA8000 sulla responsabilità sociale. Report è riuscita ad entrare “dentro” il sistema e osservarlo per 5 mesi. Grazie alla denuncia di un artigiano e alle informazioni raccolte dal suo “socio” cinese, Sabrina Giannini giornalista di Report   svelava per la prima volta come funzionano realmente le ispezioni di Gucci. Gucci quest’anno non ha partecipato alla fashion week milanese, infatti: la sfilata P-E 2019 della maison, si svolgerà, infatti, a Parigi il prossimo 24 settembre “come parte di una serie di tre omaggi alla Francia”, si legge in un comunicato diffuso dalla maison, i cui natali sono italianissimi ( a Firenze, nel 1921), ma la cui proprietà è orami radicata oltralpe nella Ville Lumière. Evidentemente Carlo Capasa, non deve conoscere molto bene il lavoro del giornalismo d’inchiesta che è ben diverso da quello del giornalismo “modaiolo” notoriamente il più corrotto dell’informazione italiana, che viene fortemente condizionato dal potere della pubblicità che mantiene di fatto tutti i magazines di moda in Italia, che spesso sembrano più dei cataloghi che dei veri e propri giornali. “Quello del New York Times è un attacco strumentale che nasce senza aver fatto una vera indagine” – sostiene in maniera più imbarazzante il presidente della Camera Nazionale della Moda –” Io sono pugliese e la Puglia non è il Bangladesh. Citano fonti sconosciute e dicono anche che in Italia non abbiamo una legge sul salario minimo e questo è grave”. E continua: “Le nostre sono aziende serie, se i subcontratti hanno fatto delle stupidaggini questo va perseguito, ma condividiamo tutti lo stesso contratto per la tutela dei lavoratori. Se poi volevano demonizzare il lavoro domestico trovo che sia sbagliato, ha un senso purché sia ben pagato”. Lo scontro chiaramente non finisce qui: “Replicheremo al New York Times in modo pesante” annuncia Capasa. Il quale evidentemente non conosce molto bene il “peso” e l’autorevolezza del quotidiano americano, dove probabilmente davanti ad un annuncio del genere si faranno una gran risata! Il lettore per completezza d’informazione deve sapere che Carlo Capasa e suo fratello Ennio, avevano una casa di moda, Costume National finita nel marzo del 2016 nelle mani di Sequedge, il partner giapponese che era entrato con loro in società nel 2009 e che ha rilevato tutte le quote dell’azienda firmando un accordo con i due fratelli per la loro uscita definitiva. Suo fratello Ennio, rispettivamente ex direttore creativo del brand, dichiarò:  “Io e Carlo vogliamo metterci in discussione. E guardiamo alle prossime sfide con la passione di sempre”. Quali siano state queste sfide, aspettiamo ancora tutti di vederle…

Versace diventa americana, raggiunto accordo con Michael Kors, scrive il 25 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". La società americana che di recente ha acquistato anche Jimmy Choo avrà il controllo del gruppo. Donatella Versace resta con quota minoranza, Esce invece il fondo Blackstone che dal 2014 deteneva il 20% del capitale. Il valore della operazione sarebbe valutato in una cifra prossima ai 2 miliardi di dollari. Accordo raggiunto tra Michael Kors e Versace spa. Il gruppo americano di abbigliamento ha raggiunto un’intesa con la società fondata da Gianni Versace per rilevarne il controllo. Dopo la firma dei documenti è attesa l’ufficializzazione, stasera o domani al più tardi. Nel frattempo Versace “non può confermare nulla”. Dopo aver recentemente acquistato il marchio di scarpe di lusso Jimmy Choo per 1,2 miliardi di dollari, Michael Kors punta con decisione a diventare un polo internazionale del lusso attirando nella sua orbita uno dei marchi italiani che più hanno rappresentato la moda italiana nel mondo, anche dopo la morte tragica del suo fondatore, ucciso a colpi di pistola a Miami nel 1997. Stando all’accordo, la famiglia Versace, che attraverso la holding Givi ha l’80% della società, manterrà un ruolo di minoranza in azienda. Esce invece il fondo Blackstone che dal 2014 deteneva il 20% del capitale. Il valore della operazione sarebbe valutato in una cifra prossima ai 2 miliardi di dollari. La Casa della Medusa è nata ufficialmente nel 1978 dal sodalizio tra Gianni Versace e il fratello Santo. Ma forse era nata ancora prima, durante l’infanzia a Reggio Calabria di Gianni che il mestiere dello stilista l’aveva appreso usando ago e filo nella sartoria della madre. Poi, col trasferimento a Milano, erano arrivati anni di successi. L’apice negli anni ’90, immortalato dagli scatti dei più grandi fotografi del mondo: Richard Avedon, Helmut Newton e Herbie Ritts. Ma soprattutto portato in passerella dalle modelle, che con Gianni divennero top model: Cindy Crawford, Carla Bruni, Naomi Campbell, Claudia Schiffer o Helena Christensen. Nel luglio del 1997 il dramma: Gianni Versace venne ucciso nella sua villa sul lungomare di Miami Beach da Andrew Cunanan, un “serial killer” responsabile di altri quattro omicidi. Da quel momento la società Versace spa è passata nelle mani dei fratelli: Santo, presidente col 30% della holding di controllo, Donatella che di Versace è stato dopo la morte del fratello la anima creativa, al 20% della holding, e la figlia di Donatella, Allegra Versace Beck che ha eredito dallo zio il 50%. Negli anni successivi alla morte del fondatore la Versace è andata in sofferenza, ma grazie al piano di rilancio portato avanti dall’allora Ceo Gian Giacomo Ferraris il marchio si è risollevato, ed è arrivato il nuovo socio di minoranza Blackstone. I segni di miglioramento alla fine sono arrivati. Versace l’anno scorso ha registrato ricavi per 668 milioni di euro, ritornando in utile per quasi 15 milioni, dopo la precedente una perdita di 7,9 milioni nel 2016.

Da Gucci a Valentino, i big del Made in Italy volati all'estero. Mentre Versace si prepara alla cessione sono moltissimi i marchi finiti fuori dai confini italiani: da Bulgari a Loro Piana fino all'addio di Ynap(Yoox), scrive il 24 Settembre 2018 "La Repubblica". L'ultima in ordine di tempo potrebbe essere Versace, ma la lista dei big dell'alta moda italiana finiti in mani straniere da tempo è già molto lunga. Nel 2004 il gigante francese Kering ha ultimato la sua scalata a Gucci, che a sua volta alcuni anni dopo ha rilevato il marchio della ceramica fiorentino Richard Ginori. Il gruppo controllato dalla famiglia Pinault ha poi messo le mani anche su Brioni e sulla gioielleria di Pomellato. Hanno trovato casa Oltralpe, all'interno del colosso del lusso Lvmh, altri grandi marchi storici del lusso. Prima Fendi, nel 1999, poi il marchio Emilio Pucci, quindi i profumi di Acqua di Parma (2001), i gioielli di Bulgari (2011) e i filati di Loro Piana (2013). Nell'orbita del fondo della famiglia reale del Qatar Mayhoola for Investments sono invece finiti Valentino per 700 milioni di euro, e la vicentina Pal Zileri, la cui acquisizione è stata completata nel 2016. Parla cinese invece Krizia, ceduta nel 2014 alla la società di Shenzhen Marisfrolg Fashion co.

Versace: la storia del sogno di un sarto bambino. Donatella Versace annuncerà nelle prossime ore la vendita dell'azienda. Probabilmente al desginer Michael Kors, scrive Barbara Massaro il 24 settembre 2018 su Panorama. È stata la sua prima mini-modella Donatella Versace. Quando Gianni, appena adolescente, iniziava a giocare con fili e tessuti cercando di dare forma al suo universo creativo, era proprio la sorella minore, con i suoi lunghi capelli biondi e il corpo magrissimo, a indossare gonne e corpetti. Una simbiosi creativa, umana e artistica durata tutta la vita quella tra Gianni e Donatella Versace e proprio lei, la bambolina bionda che giocava a fare la modella, è stata chiamata a prendere le redini della maison di moda nel luglio 1997 quando Gianni venne ucciso a sangue freddo sui gradini della sua villa a Miami Beach dal pluriomicida Andrew Cunanan. Ora, 21 anni dopo, Donatella è pronta a mettere in vendita il sogno di quel sarto bambino che è diventato una delle più grandi case di moda che l'Italia abbia mai avuto.

Il sogno del sarto bambino. Del resto la casa di moda Versace è nata così. Erano gli anni '50 quando Gianni, classe 1946, passava i suoi pomeriggi nel laboratorio di sartoria di sua mamma, "La migliore sarta di Reggio Calabria" ricorderà poi. In quel contesto di donne del sud maestose, dalle scollature prominenti e dalle forme sensuali che si cambiavano nella bottega materna dietro il paravento Gianni getterà le basi per il suo universo femminile fatto di donne sexy e glamour, intelligenti e spudorate. A 25 anni Versace arriva a Milano e diventa direttore creativo di una serie di maison facendo gavetta ed esperienza e arrivando nel 1978 a fondare la Gianni Versace che debutta con la prima collezione femminile il 28 marzo.

L'universo creativo firmato Versace. Maestro di colore e sensualità Versace unisce le linee del gotico alle suggestioni classiche, sposa arte, storia e cultura dando luogo ad abiti manifesto di un modo di intendere la vita e l'amore estremo tra lacci, spille da balia e richiami al bondage. Da subito Versace dimostra di puntare in alto e apre boutique nel cuore di Milano e New York da via della Spiga alla Fifth Avenue. Punta al massimo e funziona. Per le sue collezioni sceglie di migliori fotografi al mondo da Richard Avedon a Helmut Newton (storica la frase pronunciata dal fotografo dopo essere entrato in contatto con la moda secondo Versace: "Le signore come puttane e le puttane come signore, finalmente!").

Il mito delle super top. Da allora l'ascesa è costante. Viene amato dal jet-set e i suoi front-row sono dei red carpet. E' lui che crea il mito delle super top-model trasformate in icone di se stesse. Porta in Italia Stephanie Seymour, poi Naomi Campbell, Cindy Crawford, Claudia Schiffer e Elle MacPherson. Sono loro l'iconica manifestazione della bellezza secondo Versace e le sfilate diventano eventi mondiali dove bellezza, lusso e glamour sono i fili che intessono la trama degli stessi abiti prodotti dalla mente geniale di Gianni. Con lui il made in Italy diventa mito e accanto al collega e rivale Giorgio Armani portano l'Italia nell'Olimpo dell'arte di vestirsi. Dopo i trionfi degli anni '80 arrivano i '90 dove la Gianni Versace diventa brand anche di oggetti per la casa che portano l'icona della Medusa ovunque tra prêt-à-porter, couture, accessori, profumi.

Il passaggio di testimone. Quando nel 1997 la vita del fondatore della maison viene spezzata tocca a Donatella prendere le redini del brand e dopo i primi anni incerti Versace ritrova la sua identità dove il glam diventa rock e le star fanno a gara per vestire gli abiti di Donatella. Chi pensava che Donatella non fosse in grado di sostenere il peso del genio del fratello è rimasto deluso e il sogno del bambino che voleva fare il sarto è andato oltre la sua morte. Quello che, però, ha sempre connotato la Versace, fino a oggi, è che si trattava di una "cosa di famiglia" dove la cifra stilistica del brand era garantita dall'artigianalità del pensiero della famiglia cresciuta in Calabria. Cosa succederà quando anche questo pezzo di storia del made in Italy lascerà la penisola?

5 cose che (forse) non sai sull'omicidio Versace. La serie tv di Fox ha riportato a galla i misteri legati alla morte del grande stilista. Ma la famiglia..., scrive Eugenio Spagnuolo il 27 febbraio 2018 su "Panorama". Il 15 luglio 1997 veniva brutalmente ucciso a Miami Gianni Versace, mito assoluto della moda e ambasciatore dello stile italiano nel mondo: a sparargli il serial killer Andrew Cunanan, che sarebbe morto dopo qualche giorno. Come tutti i crimini impregnati di celebrità anche l’omicidio Versace si sarebbe presto ammantato di mistero, col suo grosso carico di depistaggi, colpi di scena e speculazioni più o meno riuscite. L’ultima in ordine di tempo è la serie tv prodotta da Ryan Murphy, in onda in questi giorni su Fox, che prevedibilmente non è piaciuta alla famiglia Versace e ha riaperto quello che ha tutte le caratteristiche del “caso”. Ma polemiche a parte, a vent’anni di distanza da quei tragici fatti perché se ne continua a parlare?

Il libro. Nel 1999, a due anni dal delitto, la giornalista Maureen Orth diede alle stampe il libro Vulgar Favors (pubblicato in Italia con il titolo Il caso Versace, da Tre60), dove ricostruiva il mistero dell’omicidio Versace, l’incontro dello stilista con il suo killer e quelli che secondo lei erano gli errori macroscopici della polizia di Miami. Il libro non passò inosservato, perché la Orth era (ed è ancora) firma di punta di giornali come il New York Times e Vanity Fair Usa, e si era fatta le ossa su inchieste importanti come quella sul divorzio tra Woody Allen e Mia Farrow e il traffico di droga in Afghanistan. Non era una turista del giornalismo, insomma. La serie tv prende spunto dal suo libro ed è bastato questo a ottenere una sconfessione della famiglia Versace, che ha diramato una nota ufficiale: “Ci rattrista vedere che tra i tutti i possibili ritratti della vita e della storia di Gianni, i produttori abbiano scelto di rappresentare la versione distorta creata da Maureen Orth”. La terza parte del libro è infatti interamente dedicata al privato dello stilista e alla sua famiglia, con un bel po’ aneddoti più o meno scioccanti (smentiti categoricamente dai Versace, ndr). 

I sospetti. In realtà la Orth non è stata neppure la sola a mettere in discussione il modus operandi della polizia americana dopo l’omicidio. Basta rileggersi le cronache del tempo, per capirlo. A mettere in moto la fabbrica dei sospetti ha contribuito anche il fatto che l’assassino Cunanan di mestiere facesse l’escort, con clienti facoltosi e con molti contatti nei giri giusti: il mondo in cui si muoveva Versace non era poi così lontano dal suo. 

La versione di D’Amico. Pur non approvando il contenuto dell’inchiesta di Maureen Orth e della serie tv, Antonio D’Amico, all’epoca compagno di Gianni Versace, ha più volte ribadito di non credere alla versione ufficiale della morte dello stilista. Così in un’intervista concessa al Giornale nel 2009: «…(il caso) è stato chiuso troppo velocemente. Non credo a niente di quello che hanno detto i giornali, a partire dalla teoria della mafia. Sono convinto che ci sia dietro altro. Qualcosa che però io non posso dimostrare, e di cui non voglio parlare. Io continuo ad avere questo dubbio: finché avrò vita, aspetterò che la verità venga a galla».

Il mistero Cunanan. Cunanan venne ritrovato morto suicida 10 giorni dopo il delitto in una casa galleggiante, ad appena due isolati dalla casa di Versace. Tutta la dinamica del ritrovamento fu messa in discussione. Perché uno scaltro serial killer, che era riuscito a far perdere diverse volte le sue tracce all’FBI sceglieva di rintanarsi per alcuni giorni in un luogo senza via di fuga, dove non sarebbero stati trovati neppure avanzi di cibo né tracce sul pavimento del colpo di pistola deflagrato da una potente calibro 40? È solo una delle mille domande che si rincorrono tra il libro della Orth e un documentario…

Il documentario di Chico Forti. Proprio così: a complicare ancora di più la vicenda, c’è la storia dell’imprenditore italiano Chico Forti, in carcere negli Usa dal 1998, per un omicidio che dice di non aver commesso. Della vicenda si sono interessati molti giornali italiani e la tesi innocentista è stata sposata anche dalla criminologa Roberta Bruzzone. Che c’entra tutto questo col caso Versace? Poco prima dell’arresto, Forti aveva prodotto e girato un documentario che metteva in luce diverse incongruenze della versione ufficiale della polizia di Miami. Lo ha raccontato lui stesso in un’intervista al quotidiano Libero, nel 2015, «Quando, finito di girare il filmato, ho visto che le reazioni erano forse un po’ più forti di quello che immaginavo, ho subito pensato che avrei rischiato qualcosa. Quello che mi è successo non è stata una sorpresa: non è che da un momento all’altro hanno scelto me tra mille, così a caso. Il mio rompere le scatole, il mio andare a cercare la verità in un momento in cui tutti volevano metterla sotto il tappeto è stato determinante. È stata una vendetta».

Versace: da Gianni a Donatella fino alla probabile vendita. Dal 1978, anno di fondazione del marchio Gianni Versace, al passaggio di consegne alla sorella Donatella, dopo la tragica scomparsa dello stilista, fino all'ingresso del fondo americano Blackstone. Storia di una maison che fa gola ai fondi d'investimento: il suo potenziale, infatti, resta grandissimo, scrive Simone Marchetti il 24 Settembre 2018 su La Repubblica. Il potere della Medusa, il fascino di Versace: il marchio fondato da Gianni Versace, oggi nelle mani della sorella Donatella, torna a far parlare di sé a livello finanziario. La sua allure e il suo potenziale, infatti, sono uno dei piatti più ghiotti presenti sul tavolo dei fondi di investimento in cerca di maison del lusso da acquistare. Questo brand, infatti, ha un fatturato sotto la fatidica soglia del miliardo di euro (nel 2016, si attestava intorno ai 700 milioni): la sua fama, però, è di gran lunga superiore ai numeri ed è per questo che tutti vogliono da sempre sfruttare al meglio il suo potenziale. Nata nel 1978 con una sfilata alla Permanente di Milano, la linea Gianni Versace è negli anni Ottanta e Novanta un piccolo miracolo della storia della moda italiana: l’abilità del fondatore è creare un’estetica e un mondo di riferimento, non solo collezioni di abiti, capaci di contagiare un’epoca intera e di diventarne lo specchio. Il barocco, le stampe, i riferimenti alla Magna Grecia: l’universo estetico della Medusa, divinità scelta come simbolo del brand, spazia dall’abbigliamento agli accessori, dall’arredamento al lifestyle. L'invenzione poi del fenomeno delle top model, poi, dà un impulso globale all'immagine di Versace, diventando un caso internazionale del costume e della cultura pop. Con l'assassinio dello stilista, avvenuto a Miami nel 1997 per mano di Andrew Cunanan, tutto sembra finire: è proprio in questo momento che avviene la prima mutazione societaria, con la sorella Donatella passata da un ruolo secondario a numero uno dell'azienda. Da sempre al fianco di Gianni nei processi creativi e decisionali, Donatella Versace diventa il nuovo direttore creativo della maison. Muta la compagine societaria e alla figlia di Donatella, Allegra Versace, passa la maggioranza delle quote del marchio. Il momento è difficile e doloroso: la designer stessa ha spesso ribadito nelle interviste quanto fosse stato difficile prendere le redini del business e di come nei primi anni tutto sembrava non andare per il verso giusto. Nel tempo, le banche finanziano parte della ristrutturazione del debito accumulato mentre in circa dieci anni, occorre ammetterlo, Donatella prova a rimettere in pista il business. Tanti gli amministratori delegati che si sono succeduti al timone in tandem con la designer: prima Giangiacomo Ferrari; oggi, invece, Jonathan Akeroyd. Nel frattempo, il fondo americano Blackstone acquista il 20% delle quote della maison per una cifra che si aggirerebbe intorno al miliardo di euro, portando nuova linfa nell’attività e nello sviluppo del brand. E a metà 2018, Akeroyd fa sapere che il giro d’affari cresce del 18% e che il margine operativo lordo balza a un +50%. Una piccola ma significativa crescita, quindi, e il primo ritorno all’utile. Dati che ovviamente rendono il business ancora più appetibile da parte dei fondi d’investimento. Ma chi sarebbe il potenziale compratore? Al momento sembrano passare in secondo piano i grandi gruppi del lusso come LVMH e Kering. E si parla di Michael Kors come del più probabile acquirente.

Da Gianni a Donatella il grande stile di una dinastia. Fratelli, complici, amici hanno creato dal nulla un impero che ha conquistato tutto il mondo, scrive Daniela Fedi, Martedì 25/09/2018, su "Il Giornale".  In principio era Gianni e Gianni era presso Apollo, dio delle arti, della musica e della conoscenza. Gianni era e sempre rimarrà l'Apollo della moda italiana. La storia della famiglia Versace si può raccontare anche così, parafrasando senza alcun intento blasfemo il primo bellissimo verso del Vangelo di San Giovanni. Non esiste infatti libro, film e tantomeno l'orrenda serie televisiva di American Crime Story che abbia potuto spiegare l'impatto estetico travolgente di quest'uomo e del suo entourage. Gianni nasce nel dicembre 1946 a Reggio Calabria. E' il terzo dei quattro figli di Antonio e Francesca Versace. La prima figlia, Tina, muore per un tragico caso di malasanità ad appena 12 anni. Poi c'è Santo, il più solido e posato dei fratelli, quello che smette di studiare giusto il tempo per andare a tirare giù la saracinesca del negozio materno in via Tommaso Gulli 13. Poi torna sui libri e in men che non si dica prende una laurea in economia e commercio. Donatella nasce nel 1955 ed è la piccola di casa ma anche un gigante di coraggio fin dalla più tenera età. Si ribella alla madre che non le permette di andare a scuola con gli occhi truccati, la minigonna e le scarpe con la zeppa altissima. Gianni è il suo complice perfetto: distrae la mamma mentre la sorella sgattaiola fuori di casa. Nessuno lo può fare meglio di lui che sta prendendo un prudente diploma da geometra ma ha come un fuoco dentro e quel fuoco si chiama moda. Fin da bambino Gianni Versace disegna abiti bellissimi ma un po' troppo corti e scollati per i gusti della maestra che convoca la madre chiedendole di rimproverarlo a dovere. Francesca se ne guarda bene: quei disegni affascinano anche lei che di vestiti se ne intende. Gianni diventa il suo braccio destro, si occupa degli acquisti per la boutique e in questa veste comincia a frequentare Milano. Qui incontra Arnaldo Girombelli, un imprenditore illuminato che gli chiede una consulenza stilistica per due linee prodotte dalla sua azienda: Genny, Complice e Callaghan. Siamo nel 1975, i famigerati anni di Piombo. Al Pitti bisogna chiudere lo stand per l'eccessivo numero di visitatori: la gente letteralmente impazzisce per quelle strepitose creazioni. E' un momento bellissimo per la famiglia Verace. Donatella sta studiando lingue all'università di Firenze, Santo e Gianni sono a Milano a lavorare, Francesca continua la sua vita di sempre a Reggio Calabria. Per fare degli accertamenti medici si fa ricoverare in una clinica di Modena. L'accompagna Santo. Gianni arriva da Milano con un grande mazzo di fiori per lei e uno per Donatella che giusto quella mattina ha dato con successo un difficile esame. I tre fratelli si ritrovano a piangere quella madre formidabile ed è la seconda grande tragedia che superano insieme, uniti e diversi come le dita di una mano. Siamo agli inizi del 1978, l'anno del delitto Moro, un anno pesantissimo per tutti. Gianni decide comunque di fondare un brand che porta il suo nome e i due fratelli lo affiancano. Sceglie un logo che ad altri avrebbe fatto paura: il volto di Medusa, l'unica delle Gorgoni a non essere immortale. Secondo le leggende viene infatti decapitata da Perseo, ma è la più efficace delle tre nel trasformare in pietra chi la guarda. Ecco lo stile di Gianni Versace ha pietrificato il mondo della moda per anni. Certe sfilate sono indelebilmente incise nella memoria di chi lavora in questo settore, fanno parte come certe opere d'arte del nostro patrimonio culturale. Poi c'è il rapporto con Donatella che è molto più di una sorella: amica, musa, complice, braccio destro, pungolo continuo e inesorabile di un'inesauribile creatività. All'inizio tra di loro i fratelli usano qualche parola in calabrese. Mintace i tappinedde è una frase che gli abbiamo sentito dire in un backstage e per fortuna con noi c'era un ragazzo di Cosenza che ha tradotto alla vestiarista inginocchiata davanti alla modella Han detto di metterle le scarpe basse. Poi Donatella comincia a lavorare duramente su se stessa diventando quel che è oggi: un'icona internazionale. Conosce e frequenta le star di tutto il mondo, ha un successo pazzesco accanto al fratello e per conto suo. Si sposa con Paul Beck, un aitante modello americano. Hanno due figli, Allegra e Daniel. La primogenita, bionda e bellissima, è la cocca dello zio che arriva a farle fare una mini Kelly da Hermès per il primo giorno di scuola. La griffe della Medusa miete successi incredibili compreso quello di trasformare la goffa principessa del Galles in Lady Diana. Siamo nel 1997, manca solo un anno al ventennale del brand. Gianni ha lottato e superato una rara forma di tumore all'orecchio. Santo sta trattando cose grossissime: una fusione a caldo con la Gucci di Domenico De Sole e Tom Ford oltre alla quotazione in Borsa. Arriva l'estate e in quel luglio bollente succedono due cose che in seguito faranno parlare di premonizione. A Firenze nella scena finale di Barocco Belcanto spettacolo-sfilata con la regia di Maurice Bejart. Naomi Campbell si volta per errore verso il punto da cui sta uscendo Gianni per raccogliere gli applausi. Ha una pistola in mano perché deve fingere di sparare a un ballerino. In tutte le inquadrature televisive del mondo sembra stia sparando al grande stilista. Una settimana dopo a Parigi lui presenta la sua ultima fantasmagorica collezione di alta moda. Su ogni modello c'è una croce dipinta, ricamata, intarsiata: una meraviglia da rivedere proprio in questi giorni nella mostra Heavenly Bodies in corso al Metropolitan Museum di New York. Nella foto finale le modelle assiepate intorno a lui sembrano un bellissimo e scintillante cimitero. Una settimana dopo, la mattina del 15 luglio, Andrew Cunanan lo uccide. E' uno shock e un dolore senza precedenti tranne solo la morte di John Lennon davanti al Dakota Residence di New York. Da quel momento in poi succede di tutto. Donatella prende in mano le redini creative della maison. Lotta contro l'anoressia che ha colpito la sua bellissima bambina che ha saputo della morte dello zio adorato dalla televisione. Lotta contro la paura di sbagliare perchè il confronto con il fratello schiaccerebbe chiunque. Lotta contro la dipendenza dalla cocaina. Lotta con le banche e gli amministratori delegati che si susseguono perchè nel frattempo viene aperto il testamento e si scopre che l'erede universale di Gianni è Allegra. Santo ha il 30 per cento. E Donatella il 20. Da ieri lo scenario è totalmente cambiato. Pare che Donatella resti e noi lo speriamo con tutto il cuore. Ma prima durante e dopo tutta questa storia resta una grande e solida famiglia italiana.

Chi è Michael Kors, l’uomo che ha comprato Versace: ama la mamma, il pop e Ysl. Ex strartupper, non è un inventore di stile. È un businessman della moda: accessori portabili, tanti negozi, belle campagne, scrive Matteo Persivale il 25 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Cinquantanove anni portati sportivamente, Michael Kors fa lo stilista da quando ne aveva cinque: la (da lui adorata: vanno da sempre a teatro e alle mostre insieme, in coppia) mamma Joan si stava risposando e lo portò con sé a scegliere l’abito. «Quello no, ha troppi fiocchi!», sentenziò serissimo lui indicando le abbondanti ruches e ignorando la nonna, gelida, che ribatteva «ma cosa vuoi che ne sappia, è solo un bambino». Mamma Joan Hamburger, bellissima ex modella, ascoltò lui, battezzandone la carriera nel mondo della moda. Michael Kors, nuovo proprietario di Versace con la sua Michael Kors Holdings Ltd, ha il talento per la moda ma soprattutto per il restyling. Anche qui, il primo restyling lo fece a stesso, sempre nell’anno delle seconde nozze di mamma Joan, prima ancora di arrivare alle scuole elementari. Quel bambino brillantissimo con una insolita sensibilità per il colore e i tessuti era nato, all’anagrafe, come Karl Anderson junior in onore di suo padre. Al momento delle seconde nozze, il nuovo marito di mamma Joan adottò il bambino dandogli il suo cognome, Kors. «Karl Kors» non gli piaceva, troppe kappa, troppo secco. E allora chiese a mamma Joan, con la massima tranquillità, di cambiare anche il nome oltre al cognome. Così venne archiviato Karl Anderson junior, come un abito fuori moda, ed ecco nascere Michael Kors. L’infanzia serena da «nice Jewish boy», bravo ragazzo di famiglia ebraica di Long Island, in una casa di donne: la mamma e la nonna, indipendenti e spiritose, che lo educano all’amore per l’arte, il teatro, i bei vestiti. Mamma Joan sua prima icona e sua prima modella, che lui crescendo vede passare da una moda all’altra, dama della suburbia abbiente e poi ragazza hippie in jeans a zampa d’elefante, una stagione dopo l’altra come se fossero i costumi del serial «Mad Men», ma nella vita vera. Agli studi regolari nelle aule del Fashion Institute of Technology preferisce la pratica di bottega, come si faceva una volta, vetrinista di immediato successo per il gusto così sintonizzato su quei tardi anni Settanta, quelli pazzi e sensuali dello Studio 54. Un’altra delle donne della sua vita, Dawn Mello, direttore moda dei grandi magazzini di lusso Bloomingdale’s che allora erano una potenza assoluta nel womenswear, lo scopre e lo lancia. Nel 1981, a soli 22 anni, apre la sua azienda, la stessa di oggi. La multinazionale che nel 2018 compra Versace per due miliardi (l’anno scorso è toccato a Jimmy Choo) nei primissimi anni Ottanta è una startup, ma diretta da un ragazzo con le idee chiarissime (allora aveva dei fluenti riccioloni dorati, la stempiatura con l’età l’ha portato a un tranquillo taglio corto di grande sobrietà). Il giovane Michael si affida alle supermodelle anni Ottanta, con un già sicurissimo talento per la comunicazione: i suoi idoli erano — e restano — Halston e Saint Laurent, la bellezza (notturna, nel caso di Halston) della loro moda ma soprattutto la loro straordinaria capacità di produrre uno stile memorabile e immediatamente riconoscibile. Kors non a caso è diventato ancora più famoso grazie alla tv, nove stagioni di Project Runway talent sulla moda al fianco di Heidi Klum: non è un caso perché l’elemento pop è un elemento centrale della sua strategia. Non è un inventore di stile. È un businessman della moda, di assoluto valore e efficienza ammirevole. Capi e accessori portabilissimi, negozi ovunque, ottime campagne. E amiche-testimonial di primissima qualità, da Michelle Obama a Catherine Zeta-Jones.

TRA CASTA ED ELITE CON CONCORSO TRUCCATO.

Il test di medicina e il picco di clic su Google: «Qualcuno ha barato». Almeno mille candidati avrebbero avuto libero accesso alle ricerche su internet durante il test: è la tesi di uno studio di avvocati di Palermo pronto a intentare una class action e presentare un esposto alla Procura per tutelare il diritto allo studio, scrive Valentina Santarpia il 20 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il 4 settembre, nelle ore clou del test di Medicina, Google ha ricevuto una mole incredibile di richieste su argomenti specifici, quelli delle domande del test: il 12,33% in più. Il che dimostrerebbe, secondo gli avvocati Francesco Leone e Simona Fell, che almeno mille candidati avrebbero avuto libero accesso a dispositivi connessi a internet per cercare le risposte al test. «Riteniamo – hanno sottolineato i due avvocati, sostenuti dal penalista Andrea Merlo – che sia a rischio la validità dell’intera procedura e il futuro di migliaia di studenti che resteranno fuori dalla selezione per errori non loro. Essendo una selezione nazionale, infatti, quello che succede in una singola sede si ripercuote inevitabilmente anche su tutte le altre, falsando risultati e graduatoria». Gli avvocati, in collaborazione con l’associazione studentesca Rete universitaria nazionale, hanno dato l’incarico di analizzare i dati ad Antony Russo, esperto di analisi della rete che lavora a Londra: Russo, insieme ai suoi collaboratori, ha scoperto che nel momento in cui si svolgeva il test, molto delle richieste poste ai motori di ricerca riguardavano proprio gli argomenti della selezione. E da qui hanno deciso di presentare un esposto alla Procura della Repubblica e si sono detti pronti ad una class action per tutelare il diritto allo studio. Qualche esempio? Nella nona domanda si chiedeva di inserire i due ultimi numeri nella sequenza 2-3-7-13-27. Il 4 settembre le ricerche su questa specifica sequenza sono cominciate alle 11 e 33 e secondo gli esperti di statistica la probabilità che venisse richiesta quella specifica serie di numeri è di una su 622 milioni. Più facile vincere al Superenalotto. La domanda numero 21, sul significato del termine «frattale», rappresenta un altro esempio significativo: rispetto alla media giornaliera degli ultimi anni il numero di ricerche registrato durante il test è stato esattamente del 12.423% in più. Secondo i dati diffusi dal Ministero, nelle prove del 4 settembre per i Test d’ingresso in Medicina, si è avuto un drastico calo degli idonei, con uno studente escluso ogni tre candidati. Ad affrontare il questionario 59.743 candidati sui 67.005 inizialmente iscritti alle prove. Tra loro, è risultato «idoneo» il 67,7% del totale (40.447 studenti), cioè chi ha totalizzato i venti punti minimi necessari per concorrere alla graduatoria nazionale e alla distribuzione dei posti disponibili. Un rendimento nettamente peggiore rispetto agli anni passati: nel 2017 risultò sufficiente l’87,26% dei candidati, nel 2016 addirittura il 93,7%. Altri dati significativi riguardano Catania, che è stata la città italiana con il maggior numero di candidati tra i primi cento, Verona, dove si è avuto il punteggio più alto, e Pavia dove è stato registrato il miglior rendimento percentuale.

Università: "licenza spagnola" per fare l'avvocato in Italia, 500 laureati sotto inchiesta. Il giudice istruttore di Madrid indaga sui titoli falsi che sarebbero stati concessi dall'università Rey Juan Carlos dietro pagamento di 11.000 euro, scrive Alessandro Ziniti il 20 settembre 2018 su "La Repubblica". Undicimila euro per ottenere la "validazione" della laurea in legge ottenuta in Italia, un esame per test, e l'iscrizione all'albo degli avvocati in Spagna. Quanto basta per evitare i diciotto mesi di pratica e soprattutto il difficile esame di abilitazione alla professione e potere esercitare in tutta Europa e dunque anche in Italia. Sarebbero cinquecento gli italiani che avrebbero fatto ricorso all'università pubblica spagnola Rey Juan Carlos per ottenere fraudolentemente il titolo che avrebbe aperto loro le porte della professione anche nel nostro Paese. Sulla "vendita" del titolo in diritto indaga il giudice istruttore del tribunale di Madrid che ha affidato l'inchiesta all'unità di criminalità economica e finanziaria della polizia. A sollevare il caso, nel 2016, la denuncia dell'osservatorio per la corruzione che ha raccolto diversi ricorsi contro i titoli ottenuti dai 500 italiani che avrebbero svolto tutti insieme la presunta prova nel maggio di due anni fa. L'ipotesi di reato è frode nella validazione del titolo di diritto. I 500 laureati in legge italiani avrebbero avuto indicato questo percorso "facile" da una società italiana che avrebbe proposto loro questo percorso di " convalida ed integrazione" per ottenere la cosiddetta "licenza spagnola" riconosciuta in tutta Europa. Già negli anni scorsi l'università Rey Juan carlos era stata al centro di alcuni scandali per titoli falsi concessi ad alcuni uomini politici spagnoli che erano poi stati costretti a dimettersi.

Io, che ho raccontato la casta, vi spiego la differenza dalle élite, scrive il 19 settembre 2018 Sergio Rizzo su "La Repubblica". Serve una classe dirigente onesta, capace e consapevole del proprio ruolo di tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. Non serve l’ondata di epurazioni e nomine eseguite dal nuovo Governo seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Il manifesto della rivoluzione sovranista è la seguente frase attribuita a Matteo Salvini: “Non esistono destra e sinistra, esiste il popolo contro le élite”. Dice molto, al proposito, il curriculum del perito elettronico Simone Valente, sottosegretario grillino alla Presidenza incaricato di gestire il dossier Olimpiadi, che si definisce “dipendente pubblico” (in quanto parlamentare?). Eccolo: uno stage alla Virgin active, un secondo stage alla scuola calcio della Juve, tre mesi da venditore a Decathlon. Valente contro il sindaco milanese Giuseppe Sala, già dirigente della Pirelli, direttore generale di Telecom Italia, direttore generale del Comune di Milano, amministratore delegato dell’Expo 2015. L’immagine plastica del popolo (Valente) contro le élite (Sala). La tesi che i Paesi sviluppati non soltanto possano ormai fare a meno delle “élite intellettualoidi” (formula coniata da Luigi Di Maio), ma che le stesse élite vadano necessariamente spazzate via in quanto nemiche del popolo e amiche dello spread, ormai dilaga ovunque. Anche se qui la guerra si serve di un’arma ancor più micidiale. L’idea che si va affermando è che le élite si identifichino con ciò che viene ormai comunemente definita la casta. Ovvero, quella consorteria politica ingorda, autoreferenziale e incapace di risolvere i problemi della società, ripiegata sui propri interessi personali e di bottega e concentrata sulla difesa di inaccettabili privilegi. Che è cosa, però, ben diversa dalle vere élite, le quali dovrebbero coincidere con l’intera classe dirigente. Burocrati, imprenditori, professionisti, manager, medici, artisti, politici: indipendentemente dalle colorazioni, ciascun Paese democratico ha le proprie élite. E la storia dimostra che la crescita e lo sviluppo di ogni società civile è direttamente proporzionale alla loro qualità. Per questo ci sono nazioni, come la Francia, che hanno sempre dedicato risorse importantissime alla formazione delle classi dirigenti. Anche durante le rivoluzioni, quando una élite sostituiva quella precedente, rivelandosi spesso più efficiente. L’Europa ha dato il meglio di sé nei momenti in cui le oggi tanto vituperate élite erano formate da veri statisti, peggiorando poi in modo radicale quando il loro posto è stato occupato da personaggi via via sempre più modesti. Un processo lungo ma inesorabile, rivelato dai politologi Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, che nel 2007 hanno sviluppato la teoria della mediocrazia: il meccanismo che ha determinato il degrado delle nostre classi dirigenti politiche, dove il processo di selezione meritocratica è stato sempre più rapidamente soppiantato dalla cooptazione. Al posto dei capaci, i fedeli. Nella politica, nella burocrazia, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche, perfino nelle istituzioni in teoria più impermeabili, come le autorità indipendenti. Fermando l’ascensore del merito, si è fermato anche l’ascensore sociale e il ricambio di sangue. Il risultato è stato il calo verticale delle competenze in tutti i gangli cruciali, dall’amministrazione alle professioni. Gran parte dei problemi del nostro Paese sono strettamente legati al fallimento delle élite. Ma per tentare di risolverli in modo strutturale non c’è che una strada: ricostruire una classe dirigente, onesta, capace e consapevole del proprio ruolo nella tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. La missione spetta ora a chi occupa la stanza dei bottoni e fa parte, volente o nolente, proprio di una élite. Anche se questa è diversa da tutte le altre: una élite che ha l’obiettivo di distruggere il concetto stesso di élite. L’argomento dunque non è all’ordine del giorno della maggioranza gialloverde, né è previsto dal contratto di governo. Emerge invece una preoccupante avversione ideologica per la scienza, dimostrata in modo plateale dal caso vaccini. Con la verità della Rete che sovrasta quella della competenza, dello studio faticoso e della preparazione. Coerentemente, stiamo assistendo a un ulteriore impoverimento della qualità di chi è investito del compito di decidere. Abbiamo avuto un primo assaggio con la formazione del governo, dove accanto a residui della seconda Repubblica e figure improvvisate non manca un sottosegretario agli Esteri convinto che l’uomo non sia mai andato sulla Luna. Quindi un secondo assaggio con l’ondata di epurazioni e nomine eseguite seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Esattamente come la politica italiana ha sempre fatto, con rare eccezioni. Senza verificare qualità e attitudini, ma solo appartenenza e fedeltà. E sorvoliamo, per carità di patria, sul curriculum.

Rocco Casalino, Luca Morisi e gli altri: ecco chi gestisce il "ministero della Propaganda". Una gigantesca macchina acchiappa consenso. Anzi, due: quella di Salvini e quella di Di Maio. Che lavorano divise per colpire unite. Vi raccontiamo chi c’è dietro e quali strategie mediatiche usa. «Oggi noi costruiamo la realtà più credibile», scrive Emiliano Fittipaldi il 3 settembre 2018 su "L'Espresso". Dopo la tragedia di Genova, anche coloro che hanno in antipatia Lega e M5S non possono più negare che nel governo c’è un ministero che funziona bene. L’unico che porta a casa risultati eccellenti e in tempi rapidi. Un dicastero modello che dà linfa quotidiana all’esecutivo. Ecco: il ministero della Propaganda, seppure non ha un vero e proprio titolare, è il fiore all’occhiello del gabinetto grilloleghista, con un obiettivo prioritario: quello di accrescere il più possibile i consensi da raccogliere poi nelle urne. In questo senso, l’ovazione riservata ai due vicepremier da parte della folla che assisteva ai funerali di Stato delle vittime del crollo del Ponte Morandi e le bordate di fischi contro il mite segretario del Pd Maurizio Martina segna uno spartiacque, anche politico, della Terza Repubblica appena cominciata. Piaccia o meno, la compagine governativa s’è mossa davanti alla catastrofe come mai nessun governo aveva fatto prima: promettendo di colpire duramente - prima ancora che magistratura o i tecnici imbastissero un’indagine sulle cause del crollo - Autostrade per l’Italia e i Benetton (assurti a simbolo di tutte le odiate élite che si sono ingrassate ai danni del popolo); indicando gli avversari politici (il Pd su tutti) come complici dei potenti, e dunque correi della sciagura. Una strategia comunicativa forte, un mix di prese di posizione sensate, di forzature ipocrite e anche dichiarazioni del tutto irrazionali, che ha però efficacemente trasformato il governo, agli occhi della maggioranza degli italiani, in un “giustiziere” senza macchia e senza paura. Un disegno mediatico collaudato durante la campagna elettorale, che stavolta s’è avvantaggiato delle mosse scriteriate dei Benetton (incredibili i comunicati in burocratese con cui la società ha ricordato che in caso di revoca della concessione lo Stato avrebbe dovuto risarcire gli azionisti con miliardi di euro, surreali le grigliate ferragostane della casata) e degli esponenti del Pd e di Forza Italia, che non possono negare di aver concesso a Ponzano Veneto la gestione della rete autostradale con contratti che hanno favorito enormemente la famiglia veneta a danno dei veri proprietari dell’infrastruttura. Cioè i cittadini. Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista. Ma, al netto degli eventi genovesi, come funzionano gli ingranaggi dell’organismo pentaleghista? Innanzitutto il Ministero della Propaganda, come tutti gli altri, ha capi, luogotenenti e sottoposti; ma è l’unico che non chiude mai i battenti. Quelli che contano davvero si contano su una mano, ma gli addetti e i collaboratori esterni sono centinaia e lavorano 24 ore su 24 senza concedersi pause. Sabati e domeniche compresi. Anche se diviso in due direzioni teoricamente concorrenti (quella affidata agli architetti della comunicazione leghista Luca Morisi, Andrea Paganella e Ida Garibaldi; l’altra capeggiata dai grillini Pietro Dettori e Rocco Casalino), al ministero fantasma M5S e Lega lavorano per ora di comune accordo, spalla a spalla, monitor a monitor. La strategia è basata su diversi campi d’azione. In primis sullo sfruttamento capillare di Facebook, di Twitter, di YouTube, piattaforme conquistate con software sofisticati che moltiplicano i messaggi promozionali e monitorano minuto per minuto il “sentiment” degli utenti, in modo da capire cosa vuole la gente e cosa darle per accontentarla. Il ministero, dunque, sforna a getto continuo campagne e video su Internet che muovano indignazione verso i nemici del “cambiamento”, oltre a tonnellate di news (vere, verosimili o fasulle poco importa) in grado di esaltare i leader. Le tecniche di Morisi e di Dettori, potenti social manager di Lega e M5S, sono diverse, ma sulla personalizzazione del messaggio propagandistico hanno idee simili: se Salvini s’è posto fin dall’inizio come capo indiscusso del partito, da un po’ anche la Casaleggio Associati ha abbandonato “l’uno vale uno”, e investe ogni sforzo strategico su pochissimi soggetti politici. Oltre al web, al ministero presidiano militarmente anche le televisioni: deputati e senatori della maggioranza vengono indottrinati in modo da usare, nei tg e nei talk, solo slogan semplici e comprensibili a tutti, studiati per smuovere emozioni basiche come rabbia, rivalsa, paura. Nessun sottoposto può rilasciare dichiarazioni senza il permesso dei due “sottosegretari” in pectore del ministero, in cui imperano Rocco Casalino - portavoce di Conte e gran visir di tutta la comunicazione del Movimento, e Iva Garibaldi, la zarina di Matteo. Loro compito è pure quello di convincere - con le buone o le cattive - conduttori e giornalisti a trattare gli ospiti spediti negli studi con il guanto di velluto, in modo da fare sempre bella figura. Chi non sta alle regole, rischia di andare in onda senza i politici che fanno share. I risultati del lavoro indefesso del ministero sono evidenti: lo strano governo ircocervo vive con il Paese una luna di miele senza precedenti, con sondaggi che oggi regalano ai due partiti percentuali di consenso bulgare (a metà agosto tutti gli istituti di ricerca davano a M5S e Lega circa il 65 per cento delle preferenze totali, equamente divise). Dati mostruosi, soprattutto se confrontati con l’immobilismo dell’esecutivo, che nei primi cento giorni ha fatto in verità poco o nulla di concreto. A parte il “decreto dignità” ed escludendo la guerra ai migranti e l’abolizione dei vitalizi (operazioni gestite sempre dal ministero della Propaganda), sfogliando il registro delle cose fatte dal gabinetto Conte ci si imbatte in pagine immacolate. «Non siamo affatto preoccupati dall’arrivo dell’autunno e dai lavori sulla Finanziaria. Sappiamo che difficilmente potremo realizzare subito le promesse su flat tax e reddito di cittadinanza», dice un alto dirigente del ministero, sponda Salvini. «Ma al tempo della post-verità e dei fatti alternativi (copyright Donald Trump, ndr) il principio di realtà è un paradigma sopravvalutato. La realtà è una “percezione”, un “racconto” ben fatto. Oggi noi e quelli della Casaleggio siamo quelli che costruiscono le realtà più credibili. Renzi e Berlusconi, che pure sono stati due maestri dello storytelling, sono rimasti indietro. Le loro tecniche sono antidiluviane. Non hanno nemmeno capito che ormai le campagne elettorali non finiscono mai. Se non stai sul pezzo 24 ore su 24, scompari». Andiamo con ordine, partendo da una delle stanze più segrete del ministero virtuale. È il regno di Luca Morisi, che se per molti è un perfetto sconosciuto, in realtà è oggi uno degli uomini più influenti d’Italia. Insieme a uno staff di una decina di persone, è lui ad aver condotto le operazioni mediatiche che hanno portato in tre mesi Salvini dal 17 per cento dei voti al 30 per cento delle preferenze segnalato in questi giorni dai sondaggi. Mantovano, laurea e dottorato in filosofia, 44 anni ma faccia da eterno ragazzino, Morisi è una via di mezzo tra Casaleggio e Steve Bannon, ed è la mente (o l’anima nera, secondo i critici) dietro le mosse comunicative (e dunque politiche) del capo del Carroccio. Ex consigliere provinciale della Lega nella sua città, ideatore nel lontano 2004 di un sito che solidarizzava con il ministro Giulio Tremonti appena cacciato dal secondo governo Berlusconi, Morisi ha conosciuto Salvini tra il 2012 e il 2013, e ne ha di fatto accompagnato tutta la scalata a via Bellerio. Morisi dal 2009 è titolare della srl Sistema Intranet, una srl che ha firmato un contratto da 170 mila euro l’anno con la Lega; in passato ha fatturato centinaia di migliaia di euro con le Asl di mezza Lombardia, secondo i malpensanti grazie alle entrature con i direttori sanitari in quota Lega. Inizialmente s’offre a Matteo solo come esperto del web. Ma ben presto Salvini ne intuisce il talento e lo promuove a suo principale consigliere mediatico. Oggi Luca analizza il flusso dei dati sulla rete, attraverso un sistema informatico personalizzato che lui stesso chiama «la Bestia», e imbecca il frontman del Carroccio sulla polemica o la dichiarazione che può diventare virale sui social. È lui ad inventare il nomignolo “Il Capitano”, con cui tutti i leghisti chiamano oggi il capo, ed è sempre lui a spingerlo a mettersi felpe e a posare a torso nudo per “Oggi”, vendendo poi le foto originali su eBay. È ancora lui a ordinare con una email, nel settembre del 2015, ai parlamentari leghisti di non fare auguri pubblici di compleanno a Bossi, grande rivale di Salvini. Il guru è il primo a spiegare al Capitano che deve concentrare tutte le sue energie non solo in tv e sul territorio, ma soprattutto girando video da diffondere sui social. Non solo su Twitter, il social per addetti ai lavori amato anche da Matteo Renzi, ma soprattutto su Facebook, dove gran parte degli italiani passa intere giornate guardando filmati e condividendo messaggi e informazioni. «In cassa non c’è un euro, come facciamo con le sponsorizzazioni?», gli chiede Matteo. «Nessun problema, con “La Bestia” moltiplicheremo i tuoi contatti a dismisura spendendo poco o nulla», gli risponde Morisi. Detto fatto: a dicembre 2014 i like di Salvini sono già 518 mila, ma in tre anni e mezzo Luca li porta a quasi 3 milioni, quintuplicandoli. Morisi “forza” l’algoritmo di Facebook per far apparire la faccia e le ruspe di Salvini anche sulle pagine di persone che mai avrebbero visitato la sua. Inventa concorsi come il “VinciSalvini” promettendo che con un like veloce a un post del Capitano si può vincere una foto, una telefonata o un incontro con il leader, e adesso qualcuno teme che Morisi sia riuscito a creare un enorme database di informazioni sensibili di tutti coloro che si sono iscritti al concorso. «Nulla di illegale», spiegano dalla Lega. È un fatto che oggi nessun politico in Europa abbia un seguito social paragonabile a quello del leader leghista, che può ostentare anche un impressionante “engagement”, ossia il tasso che misura l’interazione online dei seguaci. Su Facebook Salvini ha quasi tre milioni di fan, Di Maio è sui due milioni (ma negli ultimi sei mesi è cresciuto di ben 800 mila follower), mentre Renzi e Berlusconi sono bloccati a poco più di un milione, con tassi di crescita ridicoli: 13 mila fan in più per l’ex segretario del Pd, 23 mila per il Cavaliere di Arcore, che probabilmente avrebbe dovuto seguire prima i consigli che gli imbeccava il suo media manager, Antonio Palmieri. Morisi però non è solo uno smanettone. Anche se lo nega con vigore, il “digital philosopher” e “social megafono”, come si autodefinisce, suggerisce a Salvini anche qual è il contenuto politico migliore da veicolare: dai cartelloni sessisti contro Alessandra Moretti alle dirette Facebook sui tetti del Parlamento, fino al cambio di colore del partito (dal “verde” padano al più moderato “blu” fregato ai presunti alleati di Forza Italia), Luca tutti i santi giorni dice a Salvini quali sono i messaggi politici che funzionano meglio. Analizzando i video sulla pagina Fb di Salvini dal 4 marzo a oggi, con decine di milioni di visualizzazioni complessive, lo schema è ancora più chiaro. Morisi propaganda soprattutto filmati di reati commessi dagli immigrati (da quando è ministro dell’Interno abbiamo contato oltre una decina di “video choc” su neri e clandestini, contro appena due dedicati a criminali italiani), esalta il corpo del capo (il film di Salvini che fa il bagno nella piscina della villa sequestrata ad un boss è stato visto da quasi un milione di persone, i selfie a torso nudo a Milano Marittima da oltre 1,6 milioni), ridicolizza avversari politici, come Renzi, Boldrini, finanche il disegnatore Vauro o i «radical chic buonisti di Capalbio che non portano i migranti a casa loro». Milioni di like e visualizzazioni premiano anche fake news, come quella che due settimane fa raccontava come a Vicenza fosse scattata una protesta di alcuni richiedenti asilo arrabbiati perché «volevano vedere Sky». Una balla già smentita dalla prefettura, ma che la coppia Salvini-Morisi ha cavalcato ugualmente. Sperando forse di rinnovare il successo di un filmato dello scorso febbraio intitolato «Spero che questo video lo veda Renzi», in cui Salvini, tornato giornalista, affermava che alcuni immigrati avevano organizzato un picchetto davanti a un centro profughi perché pretendevano di vedere le partite di calcio sulla tv satellitare. Il video era finito per settimane sulla homepage di YouTube. Altri pezzi forti sono stati postati da Morisi nella giornata campale del 4 marzo, nelle ore in cui bisognava convincere gli ultimi indecisi. Ci sono le immagini di una donna a Siena sfrattata dalla sua casa («prima gli italiani!», dice il sottopancia del video da 12 milioni di visualizzazioni; la notizia era vecchia di quattro mesi), o quelle su presunti clandestini «che buttano il cibo e distruggono il centro». Cronache locali del lontano 2016, ma ottime per la propaganda anche due anni dopo: ad oggi contano la bellezza di 30 milioni di visualizzazioni. Al dipartimento leghista del ministero della Propaganda i dati della “Bestia” e i modi per usare al meglio l’algoritmo di Mark Zuckerberg vengono esaminati anche dalla Garibaldi (i due vivono di alti e bassi), dal socio di una vita Paganella, da big come Giorgetti e Siri, dai ragazzi dello staff di Morisi come Andrea Zanella, Daniele Bertana e Leonardo Foa. Quest’ultimo è il figlio di Marcello, il giornalista sovranista e putiniano che i leghisti vorrebbero senza se e senza ma come nuovo presidente Rai o, in second’ordine, come direttore di un tg. Ma alla fine della fiera è Salvini che decide la sintesi finale. Nel piano occupato dal Minculpop grillino, invece, non sempre è il capo politico ad avere l’ultima parola. I “sottosegretari” alla Propaganda Dettori e Casalino hanno infatti un rapporto strettissimo anche con Davide Casaleggio, presidente della società omonima e dell’associazione Rousseau, la piattaforma operativa del M5S. Figlio di Gianroberto, l’uomo che prima di tutti aveva compreso le enormi potenzialità della rete, è proprio Davide a dare l’ok definitivo alle strategie propagandistiche del “grillo magico” di Di Maio. Dettori, unico dipendente di Rousseau, è un ragazzo schivo e silenzioso, e meno esuberante dell’ex Grande Fratello Casalino, beccato a fare spin a favore del movimento persino durante i funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi. Ma in realtà è Pietro l’artefice principale del successo mediatico del M5S: ha curato per anni il blog di Grillo, ha realizzato i siti moltiplicatori di notizie (e di bufale) come “La Fucina” e “Tze-Tze”, ha scritto lui stesso post non firmati che davano la linea su decisioni legate alle votazioni o alle espulsioni. Mentre Beppe Grillo faceva il “passo di lato” aprendo un nuovo blog sganciato dai Cinque Stelle, Dettori ha costruito quasi da solo il nuovo hub del partito sui social, lavorando sugli algoritmi per diffondere il verbo attraverso decine di siti ufficiali e ufficiosi, e realizzando, dal nulla, il successo delle pagine social delle star del movimento, come quelle di Di Maio, di Di Battista, di Virginia Raggie, più di recente, del premier Giuseppe Conte (già seguito da 800 mila persone). Se Morisi lavora verticalmente quasi solo per i profili di Salvini, Dettori e la Casaleggio preferiscono una rete con più siti e pagine che si rimandano l’un l’altra. Qualcuno racconta persino che sia stato proprio Dettori - dopo il gran rifiuto di Sergio Mattarella a nominare il no euro Paolo Savona come ministro dell’Economia - a suggerire ai vertici l’ipotesi da fine mondo, quella dell’avvio dell’iter di impeachment del presidente della Repubblica. Al ministero della Propaganda giurano invece sia stato Di Maio in persona, aiutato dal fido Casalino, a realizzare l’operazione finora più fruttuosa messa in piedi dal dipartimento grillino, quella che aveva al centro la cancellazione del contratto da 150 milioni di euro per il cosiddetto “Air Force Renzi”. Per annunciare la notizia urbi et orbi Di Maio ha deciso di girare lo spot direttamente dentro la carlinga dell’aereo da 300 posti (voluto dal vecchio esecutivo Pd per scarrozzare ministri e imprenditori nelle missioni istituzionali all’estero, il veicolo è stato sfruttato pochissimo, uno spreco evidente anche al piddino più sfegatato). Ebbene, il video ha ottenuto in pochi giorni oltre 5 milioni e mezzo di visualizzazioni sulla pagina di Di Maio, ma - come segnala Luca Ferlaino di SocialcomItalia - «prendendo in esame tutte le pagine grilline si superano ormai i 10 milioni di spettatori. Sono numeri da finale di coppa del Mondo». La risposta di Renzi, messa a punto insieme al social media manager del partito Alessio De Giorgi, evidenzia bene la differenza tra la capacità di fuoco dell’apparato propagandistico del governo e quello dell’opposizione: nel video, che conta su un flusso di visualizzazioni dieci volte minore rispetto a quello di Di Maio e Toninelli, il leader dem si difende assiso dietro a una scrivania, mostrando in bella vista proprio il modellino dell’Airbus: l’effetto finale è quello di un autogol, di una pilotina contro un incrociatore. Dettori e Casalino sono anche gli uomini che hanno spinto di più per far approvare subito l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari, festeggiata dal vicepremier con un live-Facebook seguito e applaudito da milioni di italiani. «Noi attacchiamo i giornali per creare una contrapposizione funzionale, ma sappiamo che non contate più nulla nella formazione del consenso», concludono dalle stanze del ministero. «Di Maio e Salvini, Dettori e Morisi, hanno capito che la gente le notizie, vere o fasulle che siano, ormai non le vuole più “leggere”, ma le vuole solo “vedere”. In tv, certo, ma ancor di più sullo smartphone. Quanti pensano che leggeranno l’articolo che stai scrivendo? Se sei fortunato qualcuno si soffermerà sul titolo, al massimo sulle prime righe. E se metti questa mia dichiarazione alla fine del pezzo, puoi stare sicuro che non la leggerà quasi nessuno».

Il super stipendio di Rocco Casalino: guadagna più di Conte. I costi dello staff di Palazzo Chigi. In ritardo rispetto a quanto prescritto dalla legge sulla trasparenza (e dopo varie richieste dell'Espresso), il governo pubblica finalmente i nomi e gli emolumenti dei collaboratori della Presidenza del Consiglio. I più fortunati? Il capo della comunicazione 5 Stelle e tutti i Casaleggio boys, scrive Mauro Munafò il 20 settembre 2018 su "L'Espresso". Meglio fare il portavoce che fare il premier. Si potrebbero riassumere così i dati sugli stipendi dello staff della presidenza del Consiglio del governo Conte che l'Espresso è ora in grado di rivelare. Sì, perché il portavoce e capo ufficio stampa del presidente del Consiglio Rocco Casalino, già numero uno della comunicazione dei 5 Stelle e partecipante alla prima edizione del reality show “Grande Fratello”, con i suoi 169mila euro lordi annui è di gran lunga il dipendente più pagato tra quelli che lavorano negli “uffici di diretta collaborazione” di Palazzo Chigi. Lo stipendio di Rocco Casalino si compone di tre voci: 91mila euro di trattamento economico fondamentale a cui si aggiungono 59mila euro di emolumenti accessori e 18mila di indennità. Per un totale, appunto, di poco inferiore ai 170mila euro annui. Una cifra assai più alta di quella che spetta allo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il quale, non essendo deputato, deve accontentarsi di 114mila euro lordi all'anno. Una gigantesca macchina acchiappa consenso. Anzi, due: quella di Salvini e quella di Di Maio. Che lavorano divise per colpire unite. Vi raccontiamo chi c’è dietro e quali strategie mediatiche usa. «Oggi noi costruiamo la realtà più credibile». Questa curiosa disparità di trattamento non è però un inedito. Anche nel caso del governo Renzi infatti l'allora presidente del Consiglio, non ancora parlamentare, si ritrovò a guadagnare meno del suo portavoce, e oggi deputato del Pd, Filippo Sensi. Anche in quella circostanza le cifre erano le stesse previste dal governo Conte: 114mila euro per Renzi e 169mila per Sensi. Il "governo del Cambiamento" spende però di più per il totale degli addetti alla comunicazione, come spiegheremo più avanti.

I Casaleggio boys all'incasso. Secondo solo a Casalino, ma comunque meglio remunerato di Conte, è Pietro Dettori, altro big della comunicazione 5 Stelle e fedelissimo di Davide Casaleggio. Per lui, assunto nella segreteria del vicepremier Luigi Di Maio come “responsabile della comunicazione social ed eventi” ci sono 130 mila euro annui. Vicecapo di quella stessa segreteria è Massimo Bugani, 80 mila euro all'anno, altro nome di rilievo della galassia pentastellata. I due sono infatti tra i quattro soci dell'associazione Rousseau che gestisce le piattaforme del Movimento 5 Stelle ed è diretta emanazione della Casaleggio associati (il fondatore è Gianroberto Casaleggio e l'attuale presidente è il figlio Davide). Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista. Non mancano nell'elenco altri nomi di ex dipendenti della Casaleggio che da anni compongono gli staff dei deputati e senatori 5 stelle: uno tra tutti Dario Adamo, responsabile editoriale del sito e dei social di Conte, pagato 115mila euro l'anno. Quanto conta la comunicazione. La pubblicazione degli stipendi permette di fare anche un primo confronto tra le spese di questo governo e quelli precedenti quando si parla di staff. Un confronto che tuttavia, è importate specificare, può essere solo parziale per due ragioni: non sono ancora noti tutti gli stipendi dei collaboratori (alcuni sono ancora in fase di definizione, come quelli della segreteria di Salvini) e va inoltre precisato che ogni governo tende sempre con il passare dei mesi e degli anni ad aggiungere ulteriore personale e relativi costi. Detto questo, le cifre più interessanti e significative sono quelle alla voce comunicazione, su cui questo governo sta spendendo più di tutti gli altri esecutivi di cui sono reperibili i dati. L'ufficio stampa e del portavoce di Giuseppe Conte ha in organico 7 persone per un costo complessivo di 662 mila annui, di cui 169 mila vanno come già detto al portavoce Rocco Casalino. Secondo in classifica il governo Letta, che contava 7 persone nello staff comunicazione per un costo totale di 629mila euro annui e con il portavoce pagato 140mila euro. L'esecutivo di Paolo Gentiloni poteva invece contare su una struttura di sette persone per un costo di 525 mila euro. Più complesso il calcolo per il governo di Matteo Renzi: appena insidiato il team dell'ufficio stampa si basava su 4 persone tra cui il già citato Filippo Sensi come portavoce e un costo complessivo di 335mila euro. Ma alla fine del mandato i costi erano saliti fino ai 605mila euro per un organico di sette persone. Trasparenza a passo di lumaca. La pubblicazione dei dati sui collaboratori della presidenza del Consiglio si è fatta attendere ben oltre i limiti previsti dalla normativa. La legge sulla trasparenza 33/2013 prevede infatti che le pubbliche amministrazioni aggiornino le informazioni sui titolari di incarichi dirigenziali o di collaborazione entro 3 mesi dal loro insediamento, termine rispettato da quasi tutti i ministeri dell'attuale esecutivo. A dare il cattivo esempio è stata proprio la presidenza del Consiglio, che ha invece impiegato 110 giorni e nell'ultima settimana è stata "pungolata" da due richieste di accesso civico avanzate dall'Espresso affinché venissero pubblicati i dati in questione.

In difesa di Rocco Casalino (ma il M5S e lui stesso si facciano un esame di coscienza), scrive il 21 settembre 2018 Mauro Muunafò su "L’Espresso". Sono l'autore dello scoop pubblicato dall'Espresso sui costi dello staff di Palazzo Chigi, che includono anche la retribuzione del portavoce del premier Conte e capo ufficio stampa Rocco Casalino. E oggi, il giorno dopo, mi ritrovo incredibile ma vero a dover difendere lo stesso Casalino. L'articolo in questione ha avuto infatti un'enorme eco mediatica ed è finito anche su altri siti, giornali e nelle trasmissioni tv. L'indignazione di molti lettori per le cifre percepite da Casalino è stato il sentimento principale emerso dai commenti sui social e dalle chiacchierate in giro. Casalino oggi, in un'intervista sul Corriere della Sera, difende il suo stipendio: «Ho una paga alta ma è una questione di merito dice». Se la prende ovviamente con i giornali che hanno riportato la notizia («stanno giocando sporco») e prova ad abbozzare una debole linea di difesa: «Sono ingegnere elettronico e giornalista professionista, parlo 4 lingue. Ho diretto per 4 anni l'ufficio comunicazione M5S del Senato e sono stato il capo comunicazione di una campagna elettorale al termine della quale il Movimento ha preso quasi il 33%. Se parliamo di merito e lo confrontiamo con lo stipendio dei miei predecessori non ho nulla di cui vergognarmi...anzi». Tra gli altri spunti interessanti dichiara anche: «Dopo 20 anni - aggiunge - ancora si parla di me come di quello che ha partecipato a un reality (il Grande Fratello ndr), come se nella mia vita non avessi fatto altro. E invece per arrivare dove sono ho sempre studiato e lavorato tanto e onestamente». Lo dico senza tanti giri di parole: Rocco Casalino ha ragione su tutta la linea. E, visto che sono quello che gli è andato a fare i conti in tasca, lo posso dire senza che a nessuno venga il sospetto che lo faccio per ingraziarmi le simpatie del potente di turno (se cercate sul blog o sull'Espresso troverete tanti miei articoli molto critici nei confronti dei 5 Stelle). Casalino si porta dietro chiaramente il pregiudizio legato alla sua partecipazione al Grande Fratello e certe sue uscite folli dette in quel periodo della sua vita (tipo che i poveri hanno un odore da poveri). Tuttavia si tratta di un'esperienza del passato: nel frattempo ha contribuito non poco al successo di quello che oggi è, piaccia o non piaccia, il primo o secondo partito italiano. Lo stipendio che oggi percepisce per il suo lavoro alla presidenza del Consiglio secondo me è davvero meritato e non mi scandalizza affatto che si tratti dello stesso emolumento percepito in passato da chi lavorava per altri esecutivi (cosa che ho scritto io stesso nell'articolo diventato virale, riportando cifre e facendo confronti che a oggi nessuno ha ancora smentito). Trovo inoltre surreale che a cavalcare la protesta e l'indignazione per il suo stipendio ci siano esponenti di quegli stessi partiti che retribuivano allo stesso modo i loro collaboratori. Ma... E arriviamo al sodo della questione...Davvero Rocco Casalino e il partito per cui lavora credono di essere innocenti di fronte alla gazzarra che si è scatenata alla notizia del suo stipendio? Fanno finta o non si rendono davvero conto che le folle urlanti e indignate a comando che oggi si lanciano sul suo portafoglio sono le stesse che negli ultimi anni hanno cavalcato e fatto crescere con le loro campagne ad alzo zero contro chiunque non la pensasse come loro? Urlare continuamente contro la Casta fino a far credere che tutto è Casta, additare sempre gli oppositori come "servi di qualcuno" prezzolati per esprimere il loro dissenso, svilire qualsiasi tipo di professionalità buttando sempre tutto sul piano economico (certo con la complicità del mondo dell'informazione di cui io stesso faccio parte). Scegliere come unica stella polare il pauperismo, parlare solo di scontrini, biglietti in economy, autobus e pizze al posto dei ristoranti. Ecco, alla fine si arriva qua, alla totale e generica incapacità di capire che le competenze si devono pagare perché sono frutto di lavoro e fatica. Benvenuto nella Casta, Rocco. 

Casalino minaccia i funzionari del Mef: “Trovino i soldi o li cacciamo…”. Il Pd insorge: “Conte lo cacci”, scrive il 22 Settembre 2018 "Il Dubbio". Bufera sull’audio del portavoce del premier: “Il problema non è Tria ma i pezzi di m… che lo circondano”. Il Movimento lo difende. “Se non tirano fuori i soldi, al ministero dell’economia salteranno molte teste”. Parole e musica di Rocco Casalino, il potente portavoce del Movimento 5Stelle che è stato registrato da un giornalista mentre si sfogava contro i burocrati del Mef. E si perché secondo Casalino il problema non è il ministro Tria: “Lui c’entra il giusto”, spiega al suo interlocutore. Il vero problema sarebbe il sottobosco di funzionari e burocrati che, sempre secondo Casalino, “bloccano il reddito di cittadinanza perché vogliono bloccare il cambiamento, vogliono proteggere il vecchio sistema”. Ma poi Casalino promette: “Se non si trovano 10 miliardi, che in una manovra da 30 miliardi non sono nulla, passeremo il 2019 a cacciare tutti questi pezzi di m…”. Inutile dire che l’audio di Casalino ha mandato in fibrillazione l’opposizione. A cominciare dal segretario del Pd, Maurizio: “Le parole del portavoce del premier Casalino sono inaudite. Se Conte ha un minimo di senso delle istituzioni lo allontani immediatamente. Decenza”. “Da Casalino l’arroganza del potere contro le persone, a difesa di un partito e non dei cittadini. Vergognatevi, chiedete scusa e andate a casa perché non vi permetteremo di uccidere l’Italia”, aggiunge il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Ma i 5Stelle fanno quadrato. Alcuni esponenti M5S di peso contattati dall’Adnkronos difendono a spada tratta il portavoce del presidente del Consiglio, spiegando che l’obiettivo del suo sfogo erano i dirigenti del ministero “che si oppongono al cambiamento”. Casalino, è il commento che trapela dai parlamentari interpellati, “stava semplicemente facendo dello spin per difendere il ministro Tria”. Serafico il sottosegretario leghista Giorgetti: “Non credo che il portavoce abbia il potere di cacciare i tecnici. E poi basta non avere il portavoce, come non ce l’ho io”. Le dichiarazioni arrivano dopo giorni di scontri e polemiche proprio sul reddito di cittadinanza. Più volte il vicepremier Di Maio ha infatti chiesto al ministero del Tesoro di trovare i fondi necessari per far partire il reddito di cittadinanza, vero e proprio cavallo di battaglia del Movimento fondato da grillo, tema sul quale hanno impostato la scorsa campagna elettorale e sul quale, oggi, si giocano la credibilità davanti a chi li ha votati. Di qui il crescente nervosismo di Di Maio, che ha esplicitamente chiesto a Tria di lavorare in deficit, e oggi di Casalino che ha individuato “il vero nemico”: i funzionari del ministero dell’economia.

Casalino, audio contro i tecnici Mef. Tria: "Al ministero lavorano per il governo". Ma Di Maio: "C’è chi rema contro". Il messaggio vocale registrato il 18 settembre è stato pubblicato da Repubblica. All'interno si parla della posizione dei 5 stelle sul ministro Tria e i dipendenti del dicastero. "Megavendetta" se non trovano le risorse per il reddito di cittadinanza. Il portavoce del premier si difende: "Violata la mia privacy, nessun proposito concreto". Fonti vicine ai dirigenti del dicastero: "I tagli sono decisi dalla politica". Mistero sui destinatari del messaggio: accuse ai giornalisti dell'Huffington post che negano. Il vicepremier: "Strategia contro i nostri dipendenti della comunicazione". Conte: "Fiducia in Casalino", scrive il 22 settembre 2018 "Il Fatto Quotidiano". Meno di due minuti di audio diffuso via Whatsapp in cui il portavoce del premier Giuseppe Conte parla di “una mega vendetta” contro i tecnici del Mef se non si dovessero trovare i soldi per il reddito di cittadinanza. È polemica per le parole di Rocco Casalino contenute in una registrazione diffusa da Repubblica: nella nota vocale inviata ad alcuni giornalisti, l’ex capo della comunicazione grillina al Senato e ora nello staff del presidente del Consiglio parla dei rapporti con il ministro dell’Economia Giovanni Tria e con lo staff del dicastero. “Si tratta di una conversazione privata”, è la difesa di Casalino, “non c’era nessun proposito concreto. È stata violata la mia privacy”. In suo sostegno è intervenuto il presidente del Consiglio Conte: “La diffusione dell’audio è una violazione gravemente illegittima che tradisce fondamentali principi costituzionali e deontologici. Chiarito che trattasi di un messaggio privato, mi rifiuto finanche di entrare nel merito dei suoi contenuti. Ribadisco la piena fiducia nel mio portavoce”. Sul fronte opposto, fonti del ministero dell’Economia hanno confermato la fiducia di Giovanni Tria “ai dirigenti e alle strutture tecniche del Mef e apprezzamento per il lavoro che stanno svolgendo a sostegno dell’attuazione del programma di governo, come peraltro evidenziato dal presidente del Consiglio”. I tecnici avevano poco prima specificato che “stanno lavorando attivamente per valutare costi e effetti delle varie proposte politiche, comprese le possibili modalità di copertura degli interventi. Ma le decisioni sulla scelta delle soluzioni competono alla politica”.

In serata il vicepremier Luigi Di Maio ha pubblicato sul Blog delle stelle il contenuto di una lettera inviata a tutti i parlamentari M5s. Un testo in cui non solo difende Casalino, ma ascrive l’intera vicenda della pubblicazione di questo audio a una strategia per colpire gli uomini della comunicazione M5s più ancora degli eletti: “Ciò che ritengo inaccettabile – scrive Di Maio – è che adesso il bersaglio siano diventati i nostri dipendenti della comunicazione. Chiunque vive il Movimento conosce bene l’importanza delle nostre strutture di comunicazione. Sono i migliori perché, in tutti questi anni, si sono inventati ogni giorno metodi alternativi alle tecniche tradizionali per far arrivare i nostri contenuti a milioni di italiani. Qualcuno dice che diamo troppa importanza agli uffici comunicazione e ai loro dipendenti. Qualcuno ci critica dicendo che li paghiamo troppo, (poi quegli stessi sono pronti a massacrarci se li paghiamo poco)”. Di Maio poi è entrato nel merito dell’audio di Casalino, che risale proprio ai giorni della polemica tra il vicepremier e il ministro dell’Economia sulle risorse per la manovra economica. E anche in questo caso la linea non cambia: “C’è chi rema contro, ovvero una parte della burocrazia dei ministeri. Ogni volta che facciamo provvedimenti dobbiamo riguardarci sempre bene il testo, perché a volte tra un passaggio e un altro viene cambiato, si modifica, viene stravolto. Quando vi dico che c’è da preoccuparsi, credetemi. Abbiamo vinto le elezioni del 4 marzo, ma il sistema è vivo e vegeto e combatte contro di noi. Al Governo ci siamo noi e c’è la Lega. Ma se partiti, lobby e burocrati devono scegliere chi combattere, sono tutti d’accordo con il “dagli addosso al Movimento 5 Stelle sempre e comunque”. Chi ha chiesto che Casalino lasci l’incarico sono le opposizioni, dal Pd a Forza Italia. I 5 stelle compatti lo hanno invece difeso: “È la nostra linea”. Prudente la posizione del presidente della Camera Roberto Fico: “Assurdo che i giornalisti facciano uscire le proprie fonti”. E Alessandro Di Battista, su Facebook, è andato oltre: “Casalino ha sbagliato. Non si mandano audio del genere in privato ai giornalisti, certe cose vanno dette pubblicamente e con orgoglio. Se i tecnici nei ministeri ci mettono i bastoni tra le ruote prendendosi poteri che non gli competono vanno cacciati all’istante”. Del governo è intervenuto il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti: “Non credo abbia il potere di cacciare nessuno”, ha detto.

I destinatari dell’audio messaggio. Rimane il mistero su chi fossero effettivamente i destinatari della conversazione: i 5 stelle sul blog per primi hanno messo sotto accusa due giornalisti dell’Huffington post, Pietro Salvatori e Alessandro De Angelis. Che però hanno replicato poco dopo: “Noi non lo abbiamo diffuso. Il problema non siamo noi, ma i metodi di lavoro di Casalino”, hanno scritto. E in serata la direttrice Lucia Annunziata ha ribadito la posizione e difeso i due cronisti, dicendo che la stessa versione era su tutti i giornali la scorsa settimana. Ad ogni modo, ha concluso: “Portiamo il tutto davanti a un giudice, o all’ordine dei giornalisti se volete, e vediamo. Basta acquisire i tabulati di un po’ di telefonini e avremo chiarito tutto”. Casalino era finito al centro delle polemiche il 20 settembre scorso, dopo la diffusione dei dettagli sullo stipendio dello staff del premier che è rimasto invariato rispetto a quello del governo Renzi.

Audio: “Se non dovessero uscire i soldi, il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef”. L’audio messo sotto accusa oggi risale a martedì 18 settembre, anche se Repubblica non specifica la data. “Nessuno mette in dubbio che il ministro Tria non sia serio”, si sente nella nota vocale probabilmente in riferimento alle parole di Luigi Di Maio che aveva detto “un ministro serio deve trovare le risorse”. “Domani se vuoi uscire su una cosa simpatica”, continua Casalino, “è che nel Movimento 5 stelle è pronta una megavendetta, lo metti come fonte parlamentare però. C’è chi giura che se poi non dovessero all’ultimo uscire i soldi per il reddito di cittadinanza tutto il 2019 sarà dedicato a far fuori una marea di gente del Mef. Non ce ne fregherà veramente niente, ci sarà veramente una cosa ai coltelli. Nel senso che… Ormai abbiamo capito che Tria c’entra il giusto, c’entra relativamente, ma il problema è che ci sono lì al ministero dell’Economia una serie di persone al ministero dell’Economia che stanno lì da anni, da decenni, hanno in mano tutto il meccanismo e proteggono il solito sistema e non ti fanno capire tutte le voci di bilancio nel dettaglio e in modo che si possa tagliare. Non è accettabile che non si trovano 10 miliardi del cazzo. Non è che stiamo parlando di 200 miliardi, stiamo parlando di 10 miliardi. Quindi. Una manovra di 10, 20 miliardi la fanno tutti i governi. Non è niente di straordinario. Il fatto che c’è questa resistenza fa capire che c’è qualcosa che non va. Se per caso. Noi crediamo che andrà tutto liscio, ma se dovesse venire fuori all’ultimo ‘ah i soldi non li abbiamo trovati’, nel 2019 ci concentreremo soltanto a far fuori tutti questi pezzi di merda del Mef”. Inoltre dà indicazioni sul clima politico specificando: “Metti però che sono fonti parlamentari”. Un dettaglio importante perché Casalino ora cura la comunicazione di Palazzo Chigi e non quella degli eletti.

La replica di Casalino: “Violata la mia privacy”. Il portavoce del premier, dopo che per tutta la mattina si sono susseguiti attacchi e tentativi di difesa da parte dei suoi, ha deciso di diffondere una nota ufficiale sul caso. “Sta circolando un messaggio-audio che riproduce la mia voce”, si legge. “Una mia conversazione assolutamente privata avuta con due giornalisti. La pubblicazione viola il principio costituzionale di tutela della riservatezza delle comunicazioni e, se fosse accertato che sia stata volontariamente diffusa ad opera dei destinatari del messaggio, viola le più elementari regole deontologiche che impongono riserbo in questa tipologia di scambi di opinioni”. Casalino quindi ha specificato che la minaccia contro i tecnici del Mef non nasce da nessun provvedimento concreto, ma sarebbe semplicemente l’interpretazione di un clima all’interno del Movimento 5 stelle: “Il delicato incarico che ricopro mi impone di chiarire che i contenuti della conversazione“, il cui audio è stato diffuso dai media, “sono da considerare alla stregua di una libera esternazione espressa in termini certamente coloriti, ma che pure si spiegano in ragione della natura riservata della conversazione, che non c’era nessun proposito da perseguire in concreto ma più una sensibilità presente all’interno dei 5 Stelle e che era mia premura rappresentare”.

La difesa dei 5 stelle: “C’è chi ci rema pesantemente contro”. Ma la senatrice Fattori: “Parole orribili, il problema è il suo strapotere”. Poche ore dopo la pubblicazione dell’audio su Repubblica, i 5 stelle sono intervenuti per difendere l’operato del portavoce del premier: “Quello che è stato ripetuto per l’ennesima volta ai giornalisti De Angelis e Salvatori da Rocco Casalino, e che oggi campeggia su tutti i giornali, era la linea del Movimento 5 stelle detta e ridetta in tutte le salse”, si legge. La nota fa riferimento a due giornalisti dell’Huffington post che sarebbero stati i destinatari del messaggio vocale. “Siamo assolutamente convinti (ed è sotto gli occhi di tutti)”, continua il post sul blog, “che nei ministeri c’è chi ci rema pesantemente contro: uomini del Pd e di Berlusconi messi nei vari ingranaggi per contrastare il cambiamento, in particolare il reddito di cittadinanza che disintegrerà una volta per tutte il voto di scambio. La spalla di questi uomini del sistema sono i giornali del sistema. Difendono tutti gli stessi interessi: i loro. Il Movimento 5 stelle difende quelli dei cittadini”. Ma non tutti dentro il Movimento condividono la posizione ufficiale esposta sul Blog delle Stelle. “Io personalmente da libera cittadina trovo orribili le sue parole, ma sono le sue”, ha scritto in un lungo blog pubblicato sull’Huffington post la senatrice Elena Fattori. “Il problema dello strapotere di chi si occupa di comunicazione nel Movimento 5 stelle non è di Rocco Casalino o chi per lui, è di chi questo grande potere glielo lascia. E su questo occorrerebbe interrogarsi come molti di noi stanno chiedendo da anni senza risultati apprezzabili”. Prudente è stata invece la posizione di Roberto Fico, presidente della Camera: “A me sembra assurdo che i giornalisti che ricevono un messaggio facciano uscire le proprie fonti. E’ decontestualizzato, io non conosco la questione, contesto soltanto il fatto. Voi chiamate sempre anche me e, se io vi mando un messaggio, credo che voi non dobbiate farlo uscire”.

Le opposizioni: “Se ne vada”. L’opposizione chiede ora che Casalino sia allontanato e non svolga più il ruolo di portavoce. Il segretario Pd Maurizio Martina su Twitter ha scritto: “Le parole del portavoce del premier, Rocco Casalino, sono inaudite. Se Conte ha un minimo di senso delle istituzioni lo allontani immediatamente”. Mentre l’ex premier Matteo Renzi, sempre in rete, ha attaccato la difesa di Fico: “Il problema per lui non è Casalino che minaccia vendette, il problema sono i giornalisti. E questo sarebbe quello bravo dei 5 stelle”. Per Forza Italia è intervenuto il presidente del Parlamento Ue Antonio Tajani: “I Cinque Stelle stanno facendo di tutto per avere il reddito di cittadinanza. Avete sentito cosa sono disposti a fare… avete sentito il portavoce del governo? Purghe per tutti i funzionari che osassero non trovare i dieci miliardi voluti da Di Maio. Le purghe mi fanno pensare a Stalin, mi ricordano il comunismo. Mi preoccupo se la Lega non riesce a fermare questa avanzata degli eredi di Renzi. Lui aveva gli 80 euro, loro il reddito di cittadinanza”. In replica alla rinnovata fiducia di Conte per Casalino, ha parlato invece il deputato Fi Giorgio Mulè: “Insultare l’intelligenza degli italiani è un crimine che un premier, per giunta non eletto, non può permettersi. L’avvocato – ahinoi presidente del Consiglio – Giuseppe Conte sprofonda nel ridicolo quando derubrica a messaggio privato le minacce del suo ‘portacroce’ Rocco Casalino. Quelle parole costituiscono un’indicazione precisa a due giornalisti, da pubblicare col metodo dell’indiscrezione non attribuita a una persona fisica. Non è affatto un messaggio ‘privato’, ma un’indicazione precisa fatta da Casalino per conto dei grillini. Il ‘portacroce’ dei 5 Stelle Casalino – pagato dagli italiani 169mila euro cioè con l’equivalente di oltre 200 redditi di cittadinanza – abbia dunque almeno il coraggio delle sue azioni perché Conte si è dimostrato ciò che è: un avvocaticchio che pensa di poter prendere giro il popolo”.

Rocco, dalla "puzza dei poveri" all'odore dei soldi. Quell'intervista choc alle «Iene» contro indigenti e immigrati: anche se si lavano sono diversi, scrive Patricia Tagliaferri, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". Non è solo questione di soldi, ma anche di naso. Perché se sei povero, c'è poco da fare, hai un odore diverso da chi se la passa bene. Almeno così la pensa (o almeno la pensava) il grillino Rocco Casalino, portavoce del premier Conte, che prima ancora dell'audio choc con le minacce al ministro Tria e al suo staff, regalava ai suoi fan pillole di saggezza in un'intervista alle Iene che continua a rimbalzare sul web e adesso aiuta ad inquadrare il personaggio di uno che da allora ne ha fatta di strada, fino a diventare il boss della comunicazione di Palazzo Chigi con stipendio più alto del premier. Era uscito da poco dal Grande Fratello quando, in mutande e stravaccato su un divano con i piedi in mano, Casalino rispondeva alle domande della iena Marco Berry senza filtri, con toni più da militante di estrema destra che di uno in procinto di cominciare la sua ascesa nel Movimento Cinque Stelle. «Il povero ha un odore molto più forte del ricco, più vicino a quello del nero», diceva, chiedendo all'intervistatore se avesse mai provato a portarsi a letto un romeno o uno dell'Est: «Anche se si lava o si fa dieci docce continua ad avere un odore agrodolce, non so che cavolo di odore è, però lo senti». Toni decisamente lontani dal politicamente corretto. Parlando dei migranti, poi, il portavoce del premier diceva che il «loro vero problema è quello dei meno ambienti (testuale, ndr) che vivono in zone invase dagli extracomunitari». Per concludere con il Casalino-pensiero sull'immigrazione: «Investiamo tantissimi soldi per rendere gli italiani civili e invece poi abbiamo sta gente che non ha questo tipo di preparazione di base, sta gente è tutta gente senza istruzione. Noi li stiamo facendo entrare, è un pericolo». Dismessi gli abiti del concorrente di reality e cominciata la sua scalata al potere, Casalino ha sentito l'esigenza di spiegarlo il contenuto di quella vecchia intervista divenuto nel frattempo imbarazzante. E lo ha fatto pubblicando la sua versione dei fatti sul blog di Beppe Grillo. Una spiegazione decisamente creativa, la sua: in quell'intervista, in pratica, stava recitando. Interpretava un personaggio snob, classista, xenofobo e omofobo che gli era stato affidato dal corso di recitazione che stava frequentando. «Per sbeffeggiare l'ipocrisia di molti personaggi pubblici - spiegò - interpretai questo ruolo politicamente scorretto utilizzando lo studio fatto nel corso».

Era una finzione, dunque, o almeno così Casalino ha cercato di metterci una toppa adesso che certe affermazioni sarebbero decisamente inappropriate per il portavoce del presidente del Consiglio.

Mal di pancia grillino: "È un sopravvalutato e anche strapagato". I colleghi contro Casalino: non è il primo errore che commette. La paura di ritorsioni, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 23/09/2018 su "Il Giornale". Casalino contro tutti. Tutti contro Casalino. Nel giorno in cui salta fuori un audio del portavoce del Presidente del Consiglio che minaccia ritorsioni nei confronti dei tecnici del ministero dell'Economia, evocando scenari da notte dei lunghi coltelli, il M5s si riscopre meno monolitico del solito. In chiaro la posizione ufficiale dei pentastellati, espressa in un post sul Blog delle Stelle, è di rivendicazione della linea Rocco Casalino. «La linea del MoVimento non è mai cambiata - scrive lo Staff - siamo assolutamente convinti che nei ministeri c'è chi rema pesantemente contro: uomini del Pd e di Berlusconi messi nei vari ingranaggi per contrastare il cambiamento». Sottotraccia, l'ennesima «forzatura» dell'ex concorrente del Grande Fratello, ha scatenato mal di pancia sopiti da tempo. Soprattutto tra i colleghi di Casalino, dislocati nelle varie strutture che si occupano della comunicazione M5s. Sia nei gruppi parlamentari, sia nei ministeri. Il portavoce di Conte, nonostante l'incarico istituzionale, è ancora il dominus della comunicazione politica dei Cinque Stelle. E l'atteggiamento mostrato nella conversazione «rubata» e consegnata ai cronisti da una «manina» sconosciuta ne è la prova. Proprio quel «mettetela come fonte parlamentare» che si ascolta nell'audio, ha fatto saltare sulla sedia più di qualche collaboratore dei grillini. Il concetto espresso dagli spin doctor malpancisti suona più o meno così: «Casalino è un accentratore, guadagna una cifra spropositata, viene considerato più bravo di come è in realtà e non è la prima volta che commette degli errori gravissimi». Non tutti, nello stesso staff parlamentare grillino, condividono i metodi «muscolari» di Rocco. Chi, invece, sfugge alle domande, è imbarazzato e lascia trasparire la paura di ritorsioni da parte dei massimi vertici politici del Movimento, tutti compatti intorno a Casalino, a partire dal vicepremier Luigi Di Maio. Mentre nelle chat dei parlamentari, non mancano le voci critiche. L'unica a metterci la faccia è la senatrice Elena Fattori, con un articolo sul suo blog ospitato dall'Huffington Post. La Fattori parla di Casalino come di «un professionista della comunicazione eccezionalmente brillante», salvo poi dire che «personalmente da libera cittadina trovo orribili le sue parole». In conclusione una stilettata a Di Maio: «Il problema dello strapotere di chi si occupa di comunicazione nel M5s non è di Rocco Casalino o chi per lui, è di chi questo grande potere glielo lascia. E su questo occorrerebbe interrogarsi, come molti di noi stanno chiedendo da anni senza risultati apprezzabili». Ma, a quanto pare, tra i comunicatori non tutti hanno lo stesso strapotere di Casalino. Giudicato «sopravvalutato» e super pagato dai colleghi critici. Con le obiezioni che si concentrano su tre episodi specifici, avvenuti negli ultimi mesi. La pubblicazione del video in cui il portavoce di Conte invia un sms a Enrico Mentana, dandogli la notizia in diretta tv del raggiungimento dell'accordo di governo tra Lega e M5s. Con annesso sberleffo al direttore del Tg di La7, un po' lento nel leggere l'importante velina. A giugno, al G7 in Canada, c'è stato lo strattonamento del premier Conte, portato via quasi di forza da Casalino durante un punto stampa con i giornalisti. Un mese dopo, la frase al cronista del Foglio Salvatore Merlo: «Adesso che il tuo giornale chiude, che fai?». Così Rocco è finito in nomination.

Dall'ufficio piccolo alle minacce al "Foglio". Gaffe e incidenti del manipolatore Rocco. Già nel 2014 polemiche sul suo stipendio e sulla casa pagata dal gruppo M5s Quando regalò in anteprima lo scoop a Mentana e poi lo bacchettò: «Lento», scrive Domenico Ferrara, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". La meritocrazia si paga cara. Soprattutto se riguarda Rocco Casalino. I tagli alla casta? Un mantra che vale per gli altri. E che smette di valere quando l'anticasta sale al potere. Perché, al netto delle giustificazioni che il portavoce del premier ha sciorinato in merito ai 169mila euro lordi all'anno che incassa, c'è poco da fare: se hai tuonato contro i privilegi, ci sarà sempre qualcuno che storcerà il naso quando passi dall'altra parte della barricata. Rocco Casalino, dall'alto della sua esperienza e del suo curriculum (laurea in Ingegneria elettronica, giornalista professionista, conoscenza di 4 lingue) dovrebbe saperlo. Anche perché ormai dovrebbe essere abituato alle critiche. E non solo per i trascorsi nella casa del Grande Fratello, sulla cui esperienza ha dichiarato: «Ho gestito tutte le nomination, infatti non sono mai stato nominato fino all'ultimo giorno. Spiegavo agli altri concorrenti come votare e loro eseguivano». Insomma, era già un «manipolatore». Già nell'ottobre del 2014, alcuni senatori chiesero maggiori lumi sullo stipendio del capo della Comunicazione pentastellata e l'allora capogruppo in Senato Vito Petrocelli provò a fare chiarezza: «Rocco Casalino come responsabile comunicazione percepiva 2100 euro netti. Quando è stato nominato Capo Comunicazione ha avuto un aumento di 800 euro sullo stipendio. La cifra di 8mila euro lordi, riportata da agenzie di stampa, include anche tutti i rimborsi spese su taxi, viaggio Roma-Milano-Roma, e le spese per il vitto su cui ovviamente si pagano le tasse. Ma lo stipendio reale che mette in tasca Rocco Casalino corrisponde a circa 2900 euro netti». Adesso ha praticamente raddoppiato il suo stipendio, non male per Rocco. A proposito di spese poi, un anno dopo, venne fuori la polemica sull'affitto della casa di Casalino pagato dal M5s. L'Espresso sollevò il caso scatenando l'ira di Beppe Grillo che scese in campo: «Il contributo erogato dal gruppo parlamentare del M5s per gli appartamenti dei dipendenti della Comunicazione è un beneficio accessorio previsto dal contratto di lavoro del singolo dipendente e con oneri fiscali a suo carico». Polemica che non cessò di esistere e che anche il Pd utilizzò tempo dopo per attaccare i grillini. Nel novembre 2016, il comitato Basta un Sì tuonava: «Grillo e il M5s usano i fondi di Palazzo Madama per pagare l'affitto dell'ex concorrente del Grande Fratello. Caro Beppe, che ne dici se anziché pagare la casa di Casalino, i soldi non li ridiamo agli italiani? Non è difficile, basta un Sì». C'è poi il capitolo che dovrebbe stargli più a cuore: quello della comunicazione. E anche qui, lui che è considerato il deus ex machina, il regista di tutte le esternazioni, le comparsate tv e persino l'abbigliamento, la dizione e le cure dentistiche degli esponenti del M5s spesso non ha brillato in efficacia, soprattutto nel rapporto con la stampa. Come non ricordare la frase intimidatoria che rivolse al giornalista del Foglio Salvatore Merlo: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Non conta nulla...perché esiste?". Ne scaturì una bufera che lo portò a minimizzare e a chiedere scusa: «Era una semplice battuta». Stessa motivazione usata con Enrico Mentana dopo averlo prima bacchettato perché «colpevole» di aver dato con eccessiva lentezza la notizia dell'accordo raggiunto tra Salvini e Di Maio, notizia che lui aveva dato a Mentana in anteprima. Nel video si vedeva Casalino «costruire» uno scoop, scegliere il giornalista cui regalare la notizia e compiacersi della riuscita dell'operazione. «Era un video goliardico che doveva rimanere privato» e nel quale «non c'era nessun intento offensivo». Scuse accettate da Mentana e pace fatta. Nella lista degli "incidenti" di Rocco c'è poi il caso del finto master americano finito (per colpa di un hacker dirà Casalino) nel suo profilo Linkedin e le chat con i giornalisti su WhatsApp. Come quella volta in cui ai cronisti che gli chiedevano un parere del premier sulla proposta di hotspot avanzati fatta da Macron lui rispose con una emoticon abbastanza chiara: il dito medio (cancellato quando ormai era troppo tardi). In pieno stile Vaffa. D'altronde Rocco può permettersi tutto, anche lamentarsi perché la stanza del portavoce del premier è «un po' piccolina». Perché uno vale uno, a patto che l'uno non si chiami Rocco.

Professione portavoce. Che dolori…, scrive Francesco Damato il 25 Settembre 2018 su "Il Dubbio". IL RACCONTO. Non ditelo, per favore, a Rocco Casalino perché potrebbe montarsi la testa, e fare chissà quali altri bizzarrie o provocare chissà quali altre polemiche come portavoce del presidente del Consiglio. O potrebbe cadere in depressione sapendo di quanti lo hanno preceduto senza riuscire a cambiare il corso degli eventi politici, sviluppatisi nel bene e nel male a prescindere dal suo omologo di turno. Direttamente o indirettamente di portavoce di governo e oltre, e di segretari di partito, arrivati o non a Palazzo Chigi o al Quirinale, o passativi solo come interlocutori, ne ho conosciuti e sperimentati un centinaio. Il più influente di tutti è stato anche il più lontano dallo stile e dalle tentazioni di Casalino, non foss’altro per ragioni scientifiche, diciamo così. Mancavano ai tempi di Nino Valentino, il portavoce del presidente della Repubblica Giovanni Leone, i maledetti telefonini e varianti di oggi, a usare i quali la tua voce e i tuoi sfoghi, insulti, minacce e quant’altro finiscono in rete e ti fanno rischiare la destituzione, magari dopo una prima solidarietà o copertura, come quella non mancata a Casalino. Che Conte e il capo formale dei grillini, Luigi Di Maio, hanno difeso dagli attacchi procuratigli dal proposito imprudentemente confessato di farla pagare cara, quando verrà il momento, ai dirigenti del Ministero dell’Economia contrari, sino al sabotaggio, al programma di spese in deficit datosi dal governo gialloverde. Giovanni Leone si fidava a tal punto di Nino Valentino, un funzionario erudito e riservato di Montecitorio conosciuto quando il giurista napoletano era presidente della Camera, da delegargli compiti politici che sorpresero, a dir poco, la delegazione democristiana recatasi nella sua abitazione nel dicembre del 1971 per comunicargli la candidatura al Quirinale. Era ormai fallita la lunga corsa del presidente del Senato Amintore Fanfani ed era sopraggiunto anche il no opposto per pochi voti, a scrutinio segreto, dai parlamentari dello scudo crociato ad Aldo Moro, allora ministro degli Esteri e già segretario del partito e presidente del Consiglio. “Parlatene pure col buon Valentino”, disse Leone ai dirigenti della Dc che lo invitavano a prepararsi agli effetti politici della sua elezione, largamente prevedibili per la rottura intervenuta proprio sulla successione al Quirinale col partito socialista guidato da Giacomo Mancini. Bisognava mettere nel conto una crisi di governo e un turno di elezioni anticipate, utile anche a rinviare non di uno ma di due anni lo scomodissimo referendum contro la legge sul divorzio. Che la Dc avrebbe perduto nel 1974 compromettendo il ruolo centrale conquistato nelle elezioni storiche del 18 aprile 1948.I fatti furono più forti della buona volontà e delle relazioni di cui era capace Valentino. Che nel 1977 preferì farsi assegnare la segreteria generale del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro piuttosto che rimanere nell’ultimo anno del mandato del Quirinale, peraltro interrotto anticipatamente di sei mesi con le dimissioni imposte a Leone dai due partiti maggiori – la Dc e il Pci – e dal governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti che ne dipendeva in Parlamento. Il povero Valentino si era speso inutilmente dietro e davanti alle quinte per difendere il suo presidente dal fango di una campagna denigratoria conclusasi nei tribunali a suo vantaggio, ma dopo ch’egli era stato sfrattato dal Quirinale, una volta venutagli a mancare con la morte per mano delle brigate rosse la difesa di Moro. Per la cui liberazione dalla prigione dei terroristi, peraltro, Leone aveva deciso di sfidare la linea della cosiddetta fermezza predisponendosi alla grazia per una dei tredici detenuti con i quali i sequestratori del presidente della Dc avevano reclamato di scambiare l’ostaggio. Tutt’altro profilo, quello di un semplice passa parola, ebbe il portavoce del successore di Leone al Quirinale: il simpatico Antonio Ghirelli, scelto d’istinto, proprio per la sua simpatia e per la colleganza professionale di giornalista, da Sandro Pertini. Che però, molto più realista o meno sensibile di quanto non lasciasse trasparire pubblicamente, non esitò a sacrificarlo due anni dopo, destituendolo durante una visita ufficiale a Madrid. Ai giornalisti che si erano radunati davanti all’albergo per chiedergli clemenza per il collega, appena invitato a rientrare a Roma coi propri mezzi, Pertini rispose con il pollice verso, come se fosse al Colosseo nei panni di un imperatore romano. Il povero Ghirelli aveva fatto le spese di una intemerata romana dell’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli. Che aveva protestato contro l’opinione di Pertini, espressa dalla Spagna e riferita da Ghirelli ai colleghi, che il presidente del Consiglio Francesco Cossiga dovesse dimettersi per il procedimento d’incolpazione in corso in Parlamento con l’accusa di avere favorito la latitanza di un figlio terrorista del collega di partito Carlo Donat– Cattin. Al quale invece Cossiga riteneva di avere solo consigliato di indurre il figlio Marco, se avesse avuto modo di contattarlo, a consegnarsi spontaneamente alla polizia per l’uccisione del magistrato Emilio Alessandrini, avvenuta a Milano l’anno prima. Consapevole di avere addebitato a torto a Ghirelli il suo giudizio su Cossiga, il presidente Pertini colse la prima occasione che gli capitò per ripararvi, ma solo dopo tre anni, nel 1983. Quando Bettino Craxi formò il suo primo governo, fallito il tentativo compiuto nel 1979 di approdare a Palazzo Chigi, fu proprio Pertini a raccomandargli come portavoce Ghirelli. Che si rivelò con Bettino tanto leale quanto efficace nel segnalargli tempestivamente agguati, come quello che stava compiendo silenziosamente la sinistra democristiana nel 1985 boicottando la campagna referendaria sui tagli alla scala mobile contestati dal Pci. Per rianimare un appuntamento con le urne che rischiava l’indifferenza Ghirelli improvvisò a pochi giorni dal voto a Palazzo Chigi una conferenza stampa in cui Craxi rialzò la posta in gioco avvertendo che avrebbe aperto la crisi di governo, con le dimissioni, “un minuto dopo” l’eventuale sconfitta. Che non arrivò anche per effetto di quel monito. Per tornare al Quirinale, dopo Pertini fu la volta di Francesco Cossiga. Che, anziché richiamare Luigi Zanda, suo portavoce negli anni tragici trascorsi al Viminale, e sfociati nel sequestro di Moro, scelse come portavoce il diplomatico Ludovico Ortona, rimasto afono per un bel po’ di tempo, al pari del presidente, sino alla svolta improvvisa e profonda delle picconate. Una svolta gestita interamente dal capo dello Stato, che telefonava di persona a giornalisti e a redazioni sconvolgendo le prime pagine già confezionate in tipografia. Fu una stagione pirotecnica che Ortona visse con una sofferenza, a dir poco, di cui fui testimone e anche partecipe, avendo più volte tentato, su sua richiesta, e sempre inutilmente, di fermare il presidente sulla strada di un attacco al presidente del Consiglio in carica Andreotti, o al capo dell’opposizione comunista Achille Occhetto o al troppo timido, secondo lui, segretario della Dc e mio amico personale Arnaldo Forlani. Quest’ultimo aveva allora come portavoce Enzo Carra, abbastanza allineato alla sua forte alleanza di governo con i socialisti, contrariamente alla precedente esperienza come segretario del partito di maggioranza, fra il 1969 e il 1973. Allora Forlani, costretto dagli eventi a sospendere il centrosinistra e a riesumare il centrismo con la formula della “centralità”, si era curiosamente tenuto come portavoce un giornalista per niente convinto di quella linea: Mimmo Scarano. Di cui molti sospettavano nella Dc che fosse addirittura iscritto al Pci. Il fatto è che Forlani sapeva fare benissimo, quando occorreva, il portavoce di se stesso smentendo la pigrizia attribuitagli dai fanfaniani di più stretta osservanza, che ripetevano la rappresentazione fatta di lui da Fanfani in persona: “una mammoletta che non vuole essere colta per non appassire”. Arnaldo invece a tempo debito gli si sarebbe rivoltato contro dimostrando di sapere camminare bene sulle proprie gambe. Anche Moro e Andreotti, pur così diversi fra loro, facevano uso molto parco dei loro portavoce. I quali non a caso scherzavano con chi li assillava di richieste e chiarimenti dicendo di essere piuttosto dei portasilenzio. Il portavoce storico di Moro fu Corrado Guerzoni. Andreotti ne avvicendò nei sette governi presieduti nella sua lunga carriera almeno tre: l’amico Giorgio Ceccherini, che aveva a lungo confezionato con lui la rivista quindicinale “Concretezza”, Stefano Andreani e Pio Mastrobuoni. Che, ancora convinto nella primavera del 1992 che Andreotti potesse essere eletto al Quirinale dopo la strage di Capaci, rientrando come presidente del Consiglio fra le soluzioni “istituzionali” imposte dall’urgenza dell’attacco terroristico– mafioso allo Stato, si sentì annunciare da lui con voce sommessa: “Guarda che domani eleggeranno Scalfaro”. Il quale si portò sul colle come portavoce Tanino Scelba, nipote dell’uomo alla cui scuola il capo dello Stato era cresciuto nella Dc, facendone da giovane il sottosegretario al Ministero dell’Interno: Mario Scelba. Ne avrebbe poi preso anche il posto, nel 1983. Tanino, pace all’anima sua, era di una tale disciplina e devozione come portavoce da interrompere anche vecchi rapporti di amicizia personale con giornalisti ed altri che entrassero in polemica con Scalfaro, peraltro in un momento in cui era facile che ciò accadesse per l’eccezionalità degli avvenimenti. Erano, in particolare, gli anni terribili di “Mani pulite”, quando il Quirinale tutelava come santuari le Procure di Milano e di Palermo, di punta nell’offensiva, rispettivamente, contro tutto ciò che sapeva, prima ancora di essere davvero, corruzione e mafia. In materia di disciplina e devozione Tanino Scelba riuscì a superare anche Giampaolo Cresci, che da portavoce di Fanfani una volta lo tolse d’impaccio in auto assumendosi la responsabilità di un soffietto d’aria che era sfuggito al capo, e scusandosene. Ma un ricordo particolare merita, da parte di un vecchio cronista politico, Antonio Tatò, Tonino per gli amici, portavoce del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Lo chiamavamo ironicamente “fra Pasqualino”, versione maschile della storica suor Pasqualina di Papa Pacelli, Pio XII. Lui, Tonino, ne rideva, ammettendo di svolgere un ruolo ben più ampio e solido di quello ufficiale. Con quella stazza fisica che aveva, il doppio quasi di Berlinguer, che era timido quanto Tonino spavaldo, più che il portavoce Tatò sembrava il pretoriano del segretario comunista. Al quale non si accedeva se non si superava l’esame preventivo del portavoce, fosse pure in attesa di incontro o di intervista il più orgoglioso o prestigioso giornalista su piazza. Lo raccontò con dovizia felice di particolare Giampaolo Pansa, mandato dal “Corriere della Sera” alle Botteghe Oscure per una intervista che avrebbe terremotato la politica con la confessione di Berlinguer di sentirsi “più sicuro”, per l’autonomia del suo partito da Mosca, sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica. Di tutt’altra pasta si sarebbe rivelato nell’ormai ex Pci Fabrizio Rondolino, che da portavoce di Massimo D’Alema ne divenne uno dei critici più acuminati, al pari di Claudio Velardi, anche lui dello staff dalemiano nella breve esperienza di “Max” a Palazzo Chigi. Una menzione a parte, infine, e forse allettante per Casalino, è dovuta ai portavoce destinati a diventare anch’essi politici: Francesco Storace per Gianfranco Fini e Paolo Bonaiuti, ormai ex anche come deputato, ma soprattutto Antonio Tajani per Silvio Berlusconi. Che lo ha appena promosso delfino anche per la posizione apicale assunta nel Parlamento europeo.

Chi è Pietro Dettori, l'uomo simbolo del governo Casaleggio. Non c'è solo Rocco Casalino nella squadra dell'esecutivo Conte. Sbarca a Palazzo Chigi anche il dipendente (e fedelissimo) di Davide che ha le chiavi dell'Associazione Rousseau. E che scriveva i post per conto di Grillo, scrive Susanna Turco l'11 giugno 2018 su "L'Espresso". Il suo mestiere è fare da tramite. La sua ascesa è avvenuta tutta nell’ombra. Lenta, costante. Nel segno della continuità assoluta, senza ripensamenti. Da un appartamentino sui Navigli fino alle porte di Palazzo Chigi. Sempre alle spalle del leader, mai davanti. Dai post di Beppe Grillo, comico e frontman di M5S, ai discorsi di Giuseppe Conte, premier-frontman dell’alleanza tra Cinque stelle e Lega. Dalla Casaleggio Associati al governo. Pietro Dettori è il talentuoso e spregiudicato simbolo della compenetrazione opaca tra azienda, partito e, adesso, governo. Occhi e orecchie di Davide Casaleggio a Roma, decisivo nel consolidamento del figlio del fondatore di M5S così come nell’ascesa di Luigi Di Maio al suo interno, pronto a lavorare accanto al presidente del Consiglio a 32 anni appena compiuti - classe 1986, come il capo M5S - è l’altra faccia dell’universo che adesso sbarca al governo sfoderando perenni sorrisi alle telecamere. L’anima riservata e spregiudicata che giocherà direttamente dalle stanze della presidenza del Consiglio. Quella più lontana dai riflettori, per istinto e per calcolo, amica della riservatezza, indifferente al lisergico dilagare dei conflitti di interessi e, anzi, persino irritata verso chi lo ricorda. Quella che la popolarità non interpreta come un attore, bensì costruisce come un suggeritore. Giorno dopo giorno, mossa dopo mossa, post dopo post. Limatura dopo limatura. Prima ancora che si spalancassero le porte di Palazzo Chigi è stato Pietro Dettori ad aver scelto le parole del neo premier, sin dalla dichiarazione dopo il primo incontro con il capo dello Stato Sergio Mattarella. All’inizio della girandola, Giuseppe Conte si era addirittura recato nel suo appartamento, stesso indirizzo della sede romana della Casaleggio associati, di fronte a Castel Sant’Angelo, per «buttare giù nero su bianco il discorsetto». Una circostanza che ha lasciato «molto perplesso» l’ex senatore di Forza Italia Augusto Minzolini che l’ha rivelata. E che, in realtà, è terribilmente fisiologica nel sistema pentastellato. Dove è consuetudine che ci sia qualcun altro a occuparsi delle cose che devi dire: anche per un incastro non casuale tra le attitudini degli eletti e il controllo della comunicazione, infatti, spesso e volentieri la parola pubblica - dai profili social alle dichiarazioni - è affidata a staff e ghostwriter. In blocco, strafalcioni compresi. Pressoché senza il controllo finale dell’interessato. Tanto che, a seconda degli errori, si è persino in grado di risalire al ghost di turno. La faccenda, nel caso di Dettori, è alla sua apoteosi. Al livello massimo: prima di diventare presenza fissa alle spalle di Di Maio, lui era il ghostwriter di Beppe Grillo ed era l’unico che avesse accesso diretto al Sacro Blog quando ancora Gianroberto Casaleggio trattava il sito come una sua esclusiva creatura, di cui era gelosissimo. Non è un caso che una parlamentare di peso come Laura Castelli, ai tempi in cui con Roberto Fico faceva ancora la guerra interna a Di Maio, lo avesse descritto come un «servo d’oro di Milano». Nato a Cagliari, laureato in comunicazione a Bologna, assunto dalla Casaleggio nel 2011 e social media manager dal 2012, Dettori è stato colui che faceva da filtro attorno a Grillo durante tutto lo Tsunami Tour, e (dopo Marco Canestrari) ha ricoperto il ruolo di cinghia di trasmissione tra i Meet up e Gianroberto Casaleggio. Significa che aveva potere di vita e di morte su tutti gli «uno vale uno» d’Italia: bastava pubblicare su www. beppegrillo.it lo status di Facebook di uno sconosciuto, per farne un eroe - o magari un eletto. È stato per anni, Dettori, colui che scriveva - tutt’altro che di rado - i post di Grillo. Quelli del blog, ma anche quelli dei profili social Facebook e Twitter. Profili dei quali aveva le chiavi d’accesso, un altro potere assoluto. Tanto da esibirsi, come ricorda chi ci ha avuto a che fare nella scorsa legislatura, in gelidi scherzi del tipo: guarda cosa ho scritto, se lo invio adesso diventiamo la prima notizia sui siti. Modalità piuttosto aggressive e abbastanza simili a quelle viste nel video diffuso da M5S nei giorni scorsi, in cui Rocco Casalino, responsabile della comunicazione, si atteggia a imperatore della notizia e sultano della sua diffusione: «L’accordo c’è, giro adesso il messaggio a Mentana, e poi anche alle agenzie, vediamo che succede», dice mostrando alla telecamera lo schermo del telefono (si intravede il dialogo, la prima riga è, per l’appunto: «PietroDettori»). Intendiamoci: Casalino resta il semidio della comunicazione stellata, con la conseguente promozione a portavoce del presidente del Consiglio, ora che si sta al governo. Però nel caso di Dettori il passo - meno visibile - è persino ulteriore. Casalino, con tutta la sua mole di potere, di arbitrio, di visibilità, il fidanzato cubano portato al ricevimento del Quirinale e la mamma portata all’ispezione nella nuova (per lui deludente) stanza a Chigi è - almeno questo - sempre stato un dipendente dei gruppi parlamentari dei Cinque stelle: il suo rapporto con i Casaleggio passa per relazioni personali, così come quello con Grillo, provenendo dal vasto mondo di Lele Mora. Dettori, al contrario, è una pura creatura di via Morone 6. Un dipendente di aziende private: la Casaleggio Associati prima, l’associazione Rousseau poi, entrambe allocate allo stesso indirizzo e guidate dallo stesso capo. Con lui sbarca quindi al governo direttamente una società privata. Una filiazione senza intermediari, di cui peraltro Dettori ha tutte le chiavi, avendo ricoperto l’intero cursus: quando tutti i dati di simpatizzanti ed eletti M5S erano custoditi dalla Casaleggio Associati, e adesso che sono nella Associazione Rousseau - associazione di cui Dettori è responsabile editoriale oltreché socio. Un sapere e una sapienza che con lui traslocano al governo. Con tutte le ambivalenze del caso. Il rafforzamento dell’osmosi, bisogna dire, era già nel programma. Ora fa un passo in più, e non da poco: dal Parlamento al Governo. Dettori, infatti all’indomani del voto del 4 marzo, aveva lasciato l’appartamento a Milano per sbarcare a Roma. Nel programma di riordino pensato da Davide Casaleggio, infatti, era già destinato a diventare in pianta stabile il suo uomo di riferimento per Camera e Senato. L’idea era quella di farlo assumere dai gruppi parlamentari, come responsabile del Blog delle stelle (che è il nome del Blog del movimento dopo il divorzio da Grillo) che a sua volta adesso è finanziato dai 331 parlamentari pentastellati a botte di 300 euro ciascuno da versare a Casaleggio ogni mese (fa circa 6 milioni di euro per l’intera legislatura). Non era ancora chiaro se lui sarebbe stato pagato attraverso l’Associazione Rousseau, o direttamente coi soldi dei contributi pubblici versati ogni anno ai gruppi di Camera e Senato (come appunto il caso di Casalino). Preoccupazioni a quanto pare ormai alle spalle. Resta invece intatta la domanda circa l’orizzonte entro cui ci si muove. Anche lasciando perdere lo straordinario pezzo di teatro dell’assurdo che avvenne quando Grillo spiegò ai giudici che non era lui l’autore del post sull’ex ministro Federica Guidi pubblicato sul sito beppegrillo.it (il post non era firmato, quindi non era «riconducibile al sottoscritto»: questo il geniale argomento del comico) a Dettori, infatti, fanno capo alcuni episodi che nel Movimento nessuno ha dimenticato. È ad esempio suo il tremendo titolo al video sull’allora presidente della Camera, che recitava «Cosa fareste in macchina con la Boldrini?» che nel 2014 scatenò i peggiori istinti della rete. Ancora prima, e sempre a proposito di alte cariche. Di suo pugno è il post in cui Beppe Grillo parlava di «golpe» a proposito della rielezione di Napolitano nel 2013: il frontman M5S in quel momento dormiva nel suo camper, si limitò a un assenso assonnato a quelle poche righe, in ore nelle quali la tensione era altissima - come è ben raccontato in “Supernova” da Nicola Biondo, che allora era il capo della comunicazione M5S, e Marco Canestrari che lavorava nella Casaleggio Associati. Adesso, sempre per la serie presidenti della Repubblica, nel lungo travaglio prima della nascita del governo c’è ancora Dettori, con Casalino che segue a ruota, dietro la scelta sconsiderata di agitare il fantasma dell’impeachment contro il capo dello Stato Sergio Mattarella dopo che le trattative tra i legastellati e il Quirinale, si erano bloccate sul nome di Paolo Savona per l’Economia. Di Maio, in quel momento, si ritrova sospinto nell’ombra, stretto tra la rinuncia di Conte e la rapidità killer di Matteo Salvini. Non sa come fare, gli arriva il suggerimento per rientrare nel dibattito, lui lo cavalca. Una operazione per lo meno spregiudicata, nella quale il capo M5S brucia i buoni rapporti coltivati con il Colle e rischia, per un momento, di finire stritolato per sempre. Ma è proprio questo in realtà uno dei tratti di Dettori: la spregiudicatezza. Che supera persino quella dell’ambizioso Di Maio, e porta il tutto a un indescrivibile livello in cui il rilancio è continuo, instancabile, implacabile. Descritto da chi lo conosce come intelligente, furbo, riservato, Dettori è il tipo che dice: che ti frega cosa sia, l’importante è che tiri sul web. Si tratti dei giornalisti da «masticare e vomitare» oppure dei pannelli fotovoltaici. Pare che abbia fatto lo stesso ragionamento su Vladimir Putin, discusso oggetto del desiderio della politica pentastellata. Comunque, è un tipo capace di stare giorni interi a studiare i trend di viralità dei post. Ed è, in questo, del tutto simile a Marcello Dettori, fratello con 4 anni in meno, anche lui specialista del web marketing, anche lui per un paio d’anni alla Casaleggio associati, una esperienza di lavoro persino a Praga - città per così dire all’avanguardia nel genere, dove peraltro vive il presidente di Publy, concessionaria di pubblicità per la Casaleggio. Marcello, comunque, da gennaio è amministratore unico di una società, la Moving fast Media srl con sede a Cagliari, diecimila euro il capitale sociale, che fra l’altro gestisce il sito Silenzi e falsità, già filoputiniano e adesso concentrato soprattutto sulla propaganda pro M5S e governo. Tutta questa sapienza - quasi un tratto familiare: si dice che il padre di Dettori fosse amico del padre di Casaleggio - la grande capacità di profilazione degli utenti della rete mescolata ad una accurata riservatezza, si riversa sul web nel suo esatto opposto: è Pietro Dettori che inventa ad esempio «ebetino», è lui a portare nel blog e quindi nel movimento il costante eccitamento verbale, come anche il dilagare del click-baiting, ossia la pubblicazione di notizie civetta, che fino al suo arrivo servivano soprattutto a fini commerciali, e invece poi diventano un genere a parte. Questo modo di fare, una volta, faceva anche imbestialire gli onorevoli a Cinque stelle, che si ritrovavano magari la mozione parlamentare faticosamente studiata e scritta, che finiva pubblicata sul blog accanto al telefonino che frigge l’uovo. Adesso, al contrario, nessuno ha più niente da ridire: in quanto maggioranza, M5S interpellanze e interrogazioni quasi nemmeno le farà più.

La propaganda social di Matteo Salvini ora la paghi tu: e ci costa mille euro al giorno. Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista, scrive Mauro Munafò il 23 agosto 2018 su "L'Espresso". I post contro i migranti e le ong, le dirette Facebook per attaccare a destra e a manca, gli sfottò nei confronti di chiunque lo critichi, le bufale razziste rilanciate a milioni di follower e fan: la comunicazione di Matteo Salvini non è diventata più istituzionale da quando è seduto nella poltrona di ministro dell'Interno. Ma qualcosa in realtà è cambiato: ora la propaganda sulle sue pagine Facebook personali non la paga più lui, ma direttamente il suo dicastero. E quindi tutti gli italiani. Nulla di illecito o illegale sia chiaro. Si tratta dei contratti di collaborazione che ogni ministro, una volta insediatosi, utilizza per formare la sua squadra. Dai documenti del ministero dell'Interno si scopre così che già il primo di giugno, primo giorno con il governo Conte insediato, Salvini ha firmato il decreto ministeriale per assumere i suoi fedelissimi strateghi social, con stipendi di tutto rispetto. Primi a passare a libro paga del Viminale sono stati Morisi e Paganella, i fondatori della “Sistema Intranet” che da anni gestisce le pagine social di Matteo Salvini e tra i principali artefici del successo digitale del leghista. Per Luca Morisi, assunto nel ruolo di “consigliere strategico della comunicazione”, lo stipendio è di 65mila euro lordi l'anno. Meglio ancora va al suo socio Andrea Paganella, capo della segreteria di Salvini, che percepirà invece 86mila euro l'anno fino alla durata del governo. Non finisce qui. Passano due settimane e la squadra di Salvini si allarga: il 13 giugno vengono assunti direttamente dal Viminale anche altri quattro membri del team social già al lavoro per la propaganda social salviniana. Passano a libro paga del governo anche Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana, tutti con lo stesso stipendio: 41mila euro lordi, circa 2mila euro netti al mese. Stessa cifra e carica, “collaborazione con l'ufficio stampa”, anche per Leonardo Foa, il figlio del candidato alla presidenza Rai del governo gialloverde Marcello Foa che già l'Espresso aveva raccontato essere al servizio del segretario della Lega. Il conto totale dello staff di Salvini passato a libro paga delle casse statali è presto fatto: 314mila euro l'anno per lo staff social, a cui vanno aggiunti i 90mila euro l'anno garantiti al capo ufficio stampa Matteo Pandini, ex giornalista di Libero e autore di una biografia di Salvini, assunto il primo luglio scorso. Insomma, più o meno mille euro al giorno pagati da tutti per ricevere tweet, dirette Facebook e selfie da campagna elettorale permanente. Un dettaglio interessante che emerge dagli stipendi del team social è quello della generosità di Matteo Salvini: generosità con i soldi pubblici però. In una dichiarazione del maggio scorso Luca Morisi, rispondendo agli articoli della stampa, aveva affermato che la Lega aveva stipulato con la sua “Sistemi Intranet” un contratto da 170mila euro annuali per i vari servizi di comunicazione che richiedevano il lavoro di 4 persone: fatta la divisione, significa 42mila euro a persona. A un solo anno di distanza, e una volta conquistata la poltrona di ministro, Salvini ha deciso di dare a tutti un aumento: il team social, come abbiamo scritto, si compone ora di sei persone per un totale di 314mila euro annui. In media sono 52mila euro a testa, 10mila in più rispetto a quando gli assegni li firmava via Bellerio. La pacchia è iniziata.

L'esperto dell'editoria? Un senatore trombato che riparava i televisori. Marton è stato ripescato al dipartimento dal sottosegretario Crimi per 73mila euro, scrive Domenico Di Sanzo, Venerdì 21/09/2018, su "Il Giornale". Uscito dalla porta principale delle elezioni del 4 marzo, rientrato dalla finestra con un incarico nella segreteria di Vito Crimi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'Informazione e all'Editoria. La storia di Bruno Marton somiglia molto a quella dell'ex inviato de Le Iene Dino Giarrusso. Entrambi bocciati dagli elettori, ma ripescati nei posti di «sottogoverno» dell'esecutivo gialloverde. Se Giarrusso è diventato collaboratore di Lorenzo Fioramonti, sottosegretario all'Istruzione, Marton è stato nominato segretario particolare di Crimi nel dipartimento di Palazzo Chigi. Marton, 49 anni, ha molta più esperienza politica di Giarrusso. È stato eletto al Senato nel 2013 e, insieme al suo nuovo datore di lavoro, ha fatto parte del Copasir, occupandosi di vigilare sulla sicurezza della Repubblica e sull'operato dei servizi segreti. I due condividono anche la provenienza geografica. Crimi è nato a Palermo, ma vive a Brescia da diciotto anni, Marton viene da Varedo, un paese della provincia di Monza e Brianza. Grillini, lombardi, colleghi a Palazzo Madama nella scorsa legislatura. Poi, per poco, le strade si sono divise: Crimi è diventato sottosegretario a Palazzo Chigi, Marton non è riuscito a bissare il seggio al Senato, battuto dall'azzurro Paolo Romani nel collegio di Sesto San Giovanni-Limbiate. Ed ecco il premio di consolazione: segretario particolare di Vito Crimi negli uffici del Dipartimento per l'informazione e l'editoria. Con un compenso di 45.900 euro lordi all'anno più 27.540 euro di indennità di diretta collaborazione: totale oltre 73mila euro. Sul sito internet del Dipartimento ancora non si trova nulla, ma incarico e stipendio sono stati pubblicati nella sezione «Amministrazione trasparente» del portale della Presidenza del consiglio. Sulla stessa pagina web manca però qualsiasi informazione relativa al curriculum. C'è scritto soltanto di «ottime» capacità nell'uso delle tecnologie. La circostanza è confermata dallo stesso Marton nel cv pubblicato su Rousseau: «Da sempre artigiano nel campo degli elettrodomestici, appassionato di informatica e di libri - scrive l'ex senatore - Ho creato uno dei primi e-commerce in Italia nel 2003». Il segretario di Crimi è un tecnico e titolare di un negozio di assistenza e vendita di elettrodomestici a Desio, in Brianza. E il suo titolo di studio è quello di diploma da perito elettronico. L'ex senatore ha fatto tutto il cursus honorum pentastellato: animatore della prima cellula lombarda del M5s nel 2009, candidato non eletto alle Regionali nel 2010, in prima linea contro il progetto dell'ampliamento dell'inceneritore di Desio, banchetti e raccolte firme per il Forum nazionale acqua bene comune, l'elezione al Senato nel 2013. All'epoca si era discusso sulle liste in Lombardia, dove i candidati di Monza e provincia, tra cui Marton, avevano ottenuto posti migliori rispetto ai candidati milanesi.

Concorsi truccati, baroni tremate: il governo manda la “Iena”, scrive Ernesto Ciecaquaglia martedì 4 settembre 2018 su Secolo D’Italia. L’incredibile storia di Dino Giarrusso dalle “Iene” al governo. Il sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti lo ha infatti scelto come collaboratore per aiutarlo a scovare i concorsi truccati. Giarrusso è stato candidato con il M5S alle elezioni politiche, ma non ce l’ha fatta a diventare parlamentare. L’annuncio è arrivato direttamente dal profilo Facebook di Fioramonti e sta già suscitando varie polemiche. In un post il sottosegretario elenca comunque le competenze di Giarrusso: “Dino è laureato in Scienze della comunicazione e ha insegnato per vari anni all’Università di Catania, prima di diventare noto in tutto il Paese come giornalista investigativo per lo show televisivo Le Iene. Oltre che svolgere il ruolo di manager della comunicazione e mantenere i rapporti istituzionali tra il mio ufficio, il Parlamento e gli altri ministeri, Dino dirigerà il nostro osservatorio sui concorsi nell’università e negli enti di ricerca”. In sostanza dunque, Giarrusso dovrà dare la caccia ai concorsi truccati, come spiegato sempre dal sottosegretario all’Istruzione: “Da quando sono entrato in servizio, meno di due mesi fa, ho ricevuto oltre trenta segnalazioni di concorsi sospetti. Chi meglio di una ex Iena per farlo”.

Riuscirà la competenza da giornalista investigativo a contribuire alla fine di una delle peggiori forme di malcostume italiano? Noi ce lo auguriamo. Speriamo solo che il buon Giarrusso riesca ad aver ragione del peggiore del più duro dei poter: quello della burocrazia.

M5S, Giarrusso e il nuovo incarico a caccia di concorsi truccati: «Ma io con la tv guadagnavo di più», scrive Stefania Piras Mercoledì 5 Settembre 2018 si Il Messaggero.

Giarrusso porta fortuna non vincere le elezioni?

«Io ho rifiutato la candidatura, ho continuato a fare le Iene girando tre servizi mai andati in onda, poi c'è stato quell'ammiraglio che era incompatibile e quindi si è liberato un posto, mi sono candidato in un collegio tra l'altro impossibile dove abbiamo perso 39 a 18. Ho preso 37 mila voti ma non sono stato eletto. Tutto qui.»

E ora dopo non essere entrato in Parlamento, dopo aver fatto il capo comunicazione nella Regione Lazio per il M5S, ora un altro ruolo ancora. 

«Mi sono dimesso dalla Regione perché sono stato chiamato da Lorenzo Fioramonti a svolgere questo ruolo molto importante. Che è un ruolo previsto per legge. Ci ho pensato molto prima di decidere. Quello dell'Osservatorio sui concorsi e i baroni è uno dei ruoli che ho, sono segretario particolare, non è un ruolo per cui sono previsti concorsi ma fiduciario».

Ha letto i commenti che la chiamano "trombato riciclato"?

«Ci sono anche molti commenti positivi. Li legga

Buon lavoro, sono felicissima, buon lavoro, ecco guardi: pure Dino deve campare, ci voleva un magistrato...

«Pure questo è vero. Fa parte del gioco. Io sono stato docente a contratto a Catania, Wikipedia non lo dice. E poi da Iena mi sono occupato di concorsi truccati anche con minacce, ricercatori minacciati dai baroni. Vogliamo evitare la fuga di cervelli. Vogliamo che non ci sia il professore che dice ti faccio il concorso per te».

A lei però l'hanno chiamata dicendo che c'era un posto per lei.

«Per legge ogni sottosegretario si sceglie i suoi collaboratori, non serviva un concorso. Guardate che noi facciamo tutto in regola. Io ho lavorato tanto in televisione eppure non sono stato nominato nel cda Rai».

Le ha portato fortuna non vincere le elezioni però.

«Io non ero disoccupato, potevo continuare a fare tv, guadagnavo di più facendo Le Iene».

Nel Movimento una regola sacra è non abbandonare un ruolo per assumerne un altro.

«Questo vale per gli eletti, io non sono stato eletto».

Concorsi universitari, rettore La Sapienza: "Nomina Giarrusso? Serve gente competente", scrive il 5 settembre 2018 Tiscali. Fonte: Radio Capital. "Un'iniziativa fumosa. Per fare queste cose ci vuole gente competente", così il rettore dell’università La Sapienza Eugenio Gaudio, intervistato da radio Capital, sull'idea del sottosegretario all’Istruzione Lorenzo Fioramonti di ingaggiare l’ex iena Dino Giarrusso per scovare i concorsi truccati negli atenei. “Ci sono già il Tar e il consiglio di Stato”, ha detto Gaudio.

Il responsabile scuola della Lega ha la terza media. Ed è capo della Commissione Istruzione. Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri", scrive Elena Testi il 10 settembre 2018 su "L'Espresso". Il presidente della commissione istruzione al Senato, l'uomo che dovrebbe vigilare su abbandono, formazione e precariato, ha la terza media. A confermarlo, dopo mesi di voci sul suo conto, è lui stesso, il senatore Mario Pittoni, "l’uomo istruzione" della Lega di Matteo Salvini. E proprio Pittoni, al telefono con l'Espresso, spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". Si sente una risata dall’altro capo: "Sa, sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione". Pausa. "Ripeto, preparatissimo. Ma questo non lo scriva che lodarsi non è bello". Per il Carroccio ha scritto il programma che rivoluzionerà la scuola italiana. Ed è per questo che è stato nominato presidente della Commissione Istruzione Pubblica al Senato. Mario Pittoni, classe ‘50, leghista di ferro, ha un curriculum vitae facilmente consultabile sul portale web del Comune di Udine. Poche voci, scritte in uno stampatello stentato e una calligrafia incomprensibile (sì, è compilato a mano). Tra le voci degne di nota ci sono: addetto stampa di Edi Orioli, campione della Parigi-Dakar e direttore responsabile di una rivista di annunci. Sempre nel cv si trova "nel 1991 ha creato Lega Nord Flash, opuscolo d’informazione di carattere nazionale". Tra le capacità e le competenze personali annovera "Senatore della repubblica nella XVI legislazione. Capogruppo Lega Nord in commissione istruzione". Alla voce "patente o patenti" ha inserito "X auto e moto". La "X" in questo caso dovrebbe essere la traduzione di "per". Ma è a "tipo di istruzione o formazione" che il senatore ha scritto "iscrizione albo dei giornalisti pubblicisti dal 1981", come se il titolo di studi, quello per cui lavora in commissione Senato, non abbia alcuna importanza e possa essere sostituito con altre diciture. Ma eccole le grandi rivoluzione proposte da Mario Pittoni in campagna elettorale e rese note, il 14 marzo scorso, da Matteo Salvini in una conferenza a Strasburgo: unificazione del ciclo di studi di elementari e medie (in poche parole diventeranno una cosa sola). Ritorno al "professore prevalente" che insegnerà le materie principali, seguendo gli alunni per tutto il percorso. Riavvicinare i docenti al proprio territorio e concorsi su base regionale, via alla chiamata diretta e infine ripristino del "valore educativo delle bocciature". Nel contratto di Governo qualcosa è stato mantenuto: chiamata diretta e trasferimenti. Aggiunti: l’abolizione delle classi "pollaio" e l’intensificazione delle ore di ginnastica. Lo stesso senatore ammette: «Stiamo lavorando per mantenere le promesse fatte e abbiamo già depositato due disegni di legge importanti che riguardano gli insegnanti». Il primo per l’eliminazione della chiamata diretta e l’altro per i posti vacanti. L’unificazione di medie ed elementari «è un progetto che stiamo portando avanti, perché se ne parla da anni ma ci vuole tempo, è solo due mesi che siamo al Governo». L’obiettivo è semplice «smontare la Buona Scuola punto per punto». La Buona scuola figlia, difficile dimenticare, di una ministra anch’essa al centro delle polemiche per il titolo di studio dichiarato. Quando la verità venne a galla, Movimento 5 Stelle e Lega (all’epoca Nord) chiesero le dimissioni immediate di Valeria Fedeli. Ma alla fine come dice il presidente della commissione "Istruzione Pubblica" del Senato quello che «c'è da sapere non si impara su polverosi libri». Vuole aggiungere altro? «Dovevo dirle qualcosa di importante, ma l’ho dimenticato». Qualche minuto dopo, via messaggio, il senatore ci comunica cosa si era dimenticato di aggiungere. «Quando, come nel mio caso, a spingerti è un'infinita passione, sei portato a studiare e approfondire ben più di quanto normalmente chiesto agli studenti. Di conseguenza sei facilitato nel trovare soluzioni». Prima di chiudere la telefonata, l’ostinata raccomandazione: «Mi metto nelle sua mani, mi raccomando». Alla faccia del "valore educativo delle bocciature".

Pittoni furioso con l'Espresso: "Mamma e fratello insegnanti, cresciuto a pane e scuola". Il senatore leghista con la terza media e capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama non ha preso bene l'articolo in cui segnalavamo la sua storia. E su Facebook si sfoga (con l'aiuto del team social di Salvini), scrive L'Espresso" l'11 settembre 2018. A Mario Pittoni il nostro articolo proprio non è piaciuto. Nella giornata di ieri l'Espresso, con un'intervista a firma di Elena Testi, raccontava il curioso caso del senatore del Carroccio, a capo della Commissione Istruzione di Palazzo Madama e responsabile per la scuola per la Lega che alla voce titolo di studio può annoverare solo la licenza media. Con un post su Facebook, Pittoni attacca l'Espresso segnalando che, avendo madre e fratello insegnanti, è "praticamente cresciuto a pane e scuola" e va avanti con un'enigmatica confessione: "I miei cinque anni di medie superiori li ho fatti, anche se in due scuole diverse". Il senatore Mario Pittoni ha scritto per il Carroccio la riforma che dovrebbe archiviare la Buona scuola. Ma nel curriculum, scritto a penna, non ha mai chiarito quale fosse il suo titolo di studio. E ora spiega: "Quello che c'è da sapere non si impara sui polverosi libri". Pittoni chiude definendo il Curriculum vitae formato europeo, scritto a penna, che ha presentato al comune di Udine come una "noticina buttata lì in 3 minuti su richiesta dell'impiegata comunale". Con tanti saluti all'importanza della trasparenza per chi riveste ruoli di responsabilità pubblica. La replica di Pittoni all'Espresso ha ricevuto anche un aiutino da parte di Luca Morisi, capo del team social al lavoro per Matteo Salvini, che oltre a mettere like al post lo ha condiviso su uno dei gruppi ufficiali della propaganda salviniana. Purtroppo, per Pittoni, senza ottenere grande eco.

Il curriculum scritto a penna del senatore leghista. Il senatore Mario Pittoni, capo della commissione Istruzione, ha come titolo di studio la licenza di terza media. A L'Espresso spiega di essere stato fino ad oggi reticente per "paura della guerra social". E aggiunge: "Sono figlio della contestazione globale, erano tempi in cui ci si opponeva. Ho un padre insegnante e un fratello professore, quindi ho sempre respirato scuola e per questo sono preparatissimo. Non mi sono diplomato per ribellione".

E Giorgetti manda il broker all’Istruzione. Gli affari di Marco Lo Nero, segretario particolare del ministro Bussetti, ex promotore finanziario e amico del braccio destro di Salvini, scrive Vittorio Malagutti il 15 luglio 2018 su "L'Espresso". Si chiama Marco Lo Nero, viene da Varese, ed è un uomo d’affari molto noto in città. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti lo ha portato con sé a Roma come segretario particolare. La nomina, formalizzata a fine giugno, è stata accolta con una certa sorpresa anche negli ambienti della Lega, il partito che ha sponsorizzato la velocissima e inaspettata ascesa di Bussetti, ex direttore dell’ufficio scolastico regionale di Milano. La regia dell’operazione viene attribuita all’onnipresente Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (nonché braccio destro di Matteo Salvini) che amministra il patrimonio di voti e potere leghista nella provincia di Varese, storica roccaforte del Carroccio da cui proviene anche Bussetti. È fuori discussione la preparazione del neoministro, 56 anni, che lavora da sempre nel mondo della scuola. Di Lo Nero invece non si conoscono competenze di sorta nel campo della formazione, così come in generale, nella pubblica amministrazione. Più noti, invece, sono i rapporti di Lo Nero con Giorgetti. Entrambi appassionati di sport, calcio e pallacanestro in particolare, condividono il tifo per la squadra di basket di Varese. Negli anni scorsi è capitato spesso di incontrare i due amici seduti fianco a fianco, nei posti di parterre, in occasione delle partite casalinghe del quintetto varesino. Pure Bussetti se ne intende di pallacanestro. Il ministro dell’Istruzione, che è un professore di educazione fisica, ha anche allenato alcune squadre giovanili della provincia di Varese. Sport a parte, Lo Nero, 47 anni, vanta esperienze da broker finanziario. Ha lavorato come promotore in forza a Fideuram del gruppo Intesa e nel recente passato, proprio a causa di questa sua attività, ha dovuto far fronte a qualche grana giudiziaria. Nel luglio del 2017 il segretario del ministro è stato assolto in un processo che lo vedeva imputato per truffa aggravata. Ad accusarlo erano due clienti che gli avevano affidato due milioni di euro. Un patrimonio in gran parte andato in fumo per via di una serie di investimenti sbagliati. A carico dell’allora promotore Fideuram gravava il sospetto di aver fornito documentazione falsa per nascondere le perdite. La vicenda penale si è chiusa con un’assoluzione, ma resta aperta una richiesta di risarcimento in sede civile. Carte alla mano, non sembra finita granché bene neppure l’esperienza di Lo Nero nel gruppo immobiliare della famiglia Monferini, molto attivo a Varese e dintorni negli anni scorsi. Dopo un’ascesa velocissima, sostenuta da generosi prestiti delle banche (in prima fila gruppo Intesa e Popolare Bari) la holding Fim dei Monferini ha dichiarato fallimento nel 2017. Un crack da oltre 60 milioni di euro, che ha coinvolto altre imprese minori del gruppo. Il nome di Lo Nero ricorre anche in società con base a Praga legate ai Monferini, come la Misenska sro. Un’altra sigla della repubblica Ceca, la M 5 management, è stata invece utilizzata dall’ex promotore finanziario per incassare i compensi di consulenze a favore di aziende italiane. Risale a qualche anno fa, invece, un’altra iniziativa dell’attivissimo uomo d’affari varesino. Una sua società, la Retail & co, gestiva un ristorante e un bar all’aeroporto bergamasco di Orio al serio. L’estate scorsa le azioni della Retail & co sono state cedute a Piero Galparoli, per dieci anni fino al 2015 consigliere comunale di Forza Italia a Varese. Lo stesso Galparoli che per alcuni mesi, prima della chiusura a dicembre 2017, rilevò il controllo del quotidiano varesino “La Provincia”. Acqua passata. Per Lo Nero, sponsorizzato dall’amico Giorgetti, era pronta una poltrona a Roma, a fianco del ministro Bussetti.

Più migliore e più peggiore.  Sarà un segno dei tempi, la diffusione crescente del «più deteriore»? A scuola ci si insegnava che è un comparativo, come «peggiore»; e dunque anche «più peggiore» è uno sbaglio di grammatica. Ma per dare un filo di speranza agli italiani, non si potrebbe tentare qualche «più migliore»? Scrive Alberto Arbasino il 18 dicembre 2010 su "La Repubblica”.

Fedeli, la ministra dell’Istruzione più migliore di sempre. Ecco la nuova perla grammaticale, scrive il 21 dicembre 2017 "Il Fatto Quotidiano". Stati Generali dell’Alternanza Scuola-Lavoro, a parlare è il capo del Miur, la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli. Che cade nuovamente sulla grammatica, regalando un “sempre più migliori” alla platea riunita a Roma per parlare della tanto contestata alternanza. Lo strafalcione non è passato inosservato, e ha contribuito a rilanciare le polemiche sul curriculum della ministra.

2017. Annus horribilis, tutti gli strafalcioni della ministra Valeria Fedeli, scrive il 21 dicembre 2017 "Corriere Universitario". Siamo agli sgoccioli di questa XVII legislatura e anche in questo quinquennio la politica nostrana non si è risparmiata nella consueta collezione di strafalcioni da manuale. Quest’ultimo anno, poi, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca ha collezionato una serie interminabile di gaffe: dalle clamorose “traccie” invece che tracce della maturità2017, al “battere” al posto di batterio. Dopo la storia dei titoli di studio mancanti alla Valeria Fedeli, la scorsa settimana abbiamo assistito all’ennesima caduta di stile del capo di Viale Trastevere: il congiuntivo errato nella lettera spedita al Corriere della Sera, fino all’ultimo “più migliori” durante un discorso agli insegnanti. Sul congiuntivo sbagliato nella lettera al Corriere due giorni fa era intervenuto il suo portavoce, spiegando che il tutto era sorto dalla fretta nel tagliare una parte della missiva. “La ‘gaffe’ da voi segnalata – aveva scritto il portavoce Simone Collini a questo giornale – è in verità frutto di un mio errore nel tagliare il testo scritto dalla Ministra per renderlo compatibile con gli spazi previsti ai fini della pubblicazione. Così, due proposizioni originariamente indipendenti sul piano grammaticale, sono diventate una principale («sarebbe opportuno») e due subordinate («che lo studio della Storia non si fermasse tra le pareti delle aule scolastiche ma prosegua anche lungo tutti i percorsi professionali»)”. Insomma una imprecisione del portavoce e non della Fedeli. Stavolta, però, non sembrano esserci scuse: nel video compare proprio la ministra. E la figura non è “più migliore”. “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti – si vede in un video che sta facendo il giro della Rete – che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza. Perché offrano percorsi di assistenza sempre più migliori a studenti e studentesse”. E quel “sempre più migliori” non è sfuggito alle orecchie degli internauti, che si sono catapultati a condividere il filmato con l’errore da penna rossa del ministro dell’Istruzione.

COSA NON C'ERA 10 ANNI FA.

10 cose incredibili che non esistevano dieci anni fa. Sembra che facciano parte delle nostra quotidianità da sempre, ma abbiamo vissuto senza, scrive Stefania Medetti il 29 agosto 2018 su "Panorama". Il nostro mondo è molto diverso da dieci anni fa. Lo ricorda Business Insider con una carrellata di prodotti e servizi che sono nati nell’ultima manciata di anni e di cui non potremmo più fare a meno. Ecco le dieci innovazioni più utili che ci hanno cambiato la vita.

1 - iPad. Quando Steve Jobs ha presentato il primo iPad nel gennaio del 2010, l’ha descritto come la “migliore esperienza di navigazione online, meglio di un laptop e di uno smarphone”. I primi prodotti costavano fra 499 e 829 dollari, oggi l’ultimo modello misura 9,7 pollici e si può portare a casa per 329 dollari.

2 - Google Chrome. Era 1° settembre del 2008, quando Google Chrome venne annunciato con un fumetto di Scott McCloud. A proposito del browser, Sundar Pichai, all’epoca vice president of product management, ha dichiarato: “Come la classica homepage di Google, Google Chrome è veloce e pulito, non si frappone fra quello che dovete fare e vi porta dove avete bisogno di andare”. Dall’aprile 2016, è il browser più popolare, usato dal 41,8% degli navigatori.

3 - Snapchat. Chiamato originariamente Pictaboo, Snapchat ha fatto la sua prima comparsa nell’estate del 2011 e ha iniziato la sua scalata al successo partendo dai teenager di Los Angeles. Sei anni più tardi, è una società quotata da 15,8 miliardi di dollari che ha siglato partnership con editori, tv show e realtà aumentata.

4 - Airbnb. Nato nel 2008 come servizio per affittare un posto dove dormire, Airbnb si sta trasformando in un servizio di viaggio a tutti gli effetti, con esperienze tematizzate e accomodation di alto livello. A nove anni dal lancio, l’azienda è in attivo e ha una capitalizzazione da 38 miliardi di dollari che ne fa una fra la start-up di maggior valore.

5 - Spotify. Ideata nel 2005, lanciata in beta nel 2007 e varata nel 2008 a Stoccolma, Spotify ha siglato una serie di accordi di licensing con le principali case discografiche come Sony, Universal e Bmg e oggi fornisce musica a 170 milioni di utenti attivi nel mondo.

6 - Instagram. Lanciata nell’ottobre del 2010, ha raccolto 25mila iscrizioni il primo giorno. Due anni più tardi, Facebook l’ha portata a casa per un miliardo di dollari. Attualmente, l’app conta un miliardo di utenti attivi e ha via via aggiunto nuovi servizi come video live, sticker e filtri. A giugno, infine, è arrivato un servizio video di lungo formato chiamato Igtv. 

7 - Kickstarter. La piattaforma che sostiene nuove idee imprenditoriali è nata nell’aprile del 2009, quando il co-fondatore Perry Chen cercava un modo di finanziare l’invito ad alcuni musicisti per partecipare a un festival jazz di New Orleans. Il primo prodotto pubblicizzato è stato una t-shirt di Grace Jones disegnata dallo stesso Chen che, però, non ha raggiunto il target di finanziamento. A oggi, oltre 15 milioni di persone hanno sostenuto progetti per un totale di 3,8 miliardi di dollari raccolti.

8 - Gps sul cellulare. Inventato nel 1978, entrato in commercio nel 1993, diventa un’applicazione disponibile sugli iPhone 3G nel 2008. Mentre TomTom propone un app da cento dollari per i cellulari per guidare nella navigazione, Google crea un software dedicato per i suoi cellulari Android.

9 - Uber. Fondata nel 2009 come servizio di auto con conducente con il nome UberCab, si è trasformata in  una formula di car pooling, ride sharing e servizi premium. Dopo aver attraversato una serie di scandali, con 62 miliardi di dollari di valore, continua a mantenere il record di start-up di maggior valore al mondo.

10 - Whatsapp. Nata nel 2009, la app ideata da Jan Koum ha conquistato consensi soprattutto nei paesi che usavano fortemente la messaggistica. Nel 2014, è passata a Facebook che ha staccato un assegno da 19 miliardi di dollari.

I LIBERTINI.

I libertini, amanti senza limiti. Da Ovidio a Don Giovanni, da lord Byron a George Best, da Saffo a Sexton: l’odissea di uomini e donne che “amano troppo”, scrive Corrado Ocone il 12 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La figura del libertino attraversa la storia umana, sin dall’antichità classica, anche se essa viene a consapevolezza di sé solo con il movimento eretico tardo- medievale dei “Libertini spirituali” e poi con il “Libertinismo filosofico” o “erudito” dell’età moderna. Movimenti molto vari e soprattutto personalità spesso distanti tra loro sono state definite nel tempo libertini, per lo più in un senso dispregiativo che la parola ha conservato per secoli (anche se non credo che abbia più oggi). Proporre un’antologia dei loro scritti, una selezione dei loro nomi, non è facile, pur tenendo bene in conto l’arbitrarietà e non esaustività che ogni scelta, a maggior ragione questa, porta sempre con sé. Cesare Catà, giovane studioso marchigiano, ci ha provato, dandone poi una giustificazione nella lunga introduzione che ha premesso all’interessante e raffinato libretto che ha curato per le Liberilibri: Libertini libertine. Avventure e filosofie del libero amore da Lord Byron a George Best (pagine 221, euro 17). Il primo passo è stato quello di cercare, come egli dice, un “archetipo dell’immagine del libertino”. Ciò che è proprio del libertino, secondo l’immagine anche corrente, è «l’atteggiamento di chi, dimentico delle norme morali condivise o riottoso rispetto ad esse, indulge colpevolmente in modalità amorose- affettive ponendo in primo piano i propri desideri rispetto al decoro comunitario. Una sorta di sovversione valoriale, cioè, per la quale la libertà d’amare diventa preminente nei confronti della norma stabilita. Il libertino è colui che ama fuori dagli schemi. Uno che ama troppo». I contemporanei odiavano, ad esempio, infatti Lord Byron, sommo poeta romantico, «per come faceva l’amore. Per le sue innumerevoli relazioni con uomini e donne. Lo odiavano perché amava in modo intollerabile. Lo odiavano perché era un libertino». Anzi perché del libertinismo «incarnava, propriamente, un archetipo. L’archetipo, atavico, di colui che ama al di là dei confini morali condivisi perché travalica la comune paura in base a cui tali confini sono stati posti. Di qui l’odio. L’odio per colui che, vivendo la libertà d’amore in un modo che la comunità ha rimosso in quanto invisibile, infrange apertamente un tabù. E, così facendo, scuote il totem della morale». Le radici del libertinismo sono quindi, osserva Catà, culturali e filosofiche, tanto che il libertino è per lo più un fine intellettuale che vive la sua filosofia facendone abito di vita. Se però così stanno le cose, e se è giusta l’immagine archetipica delineata, bisogna ammettere che, lungi dall’essere esterno alla modernità, il libertinismo, almeno per come si è venuto delineando fra Cinque e Settecento, ne rappresenta e radicalizza la tendenza profonda e più propria, se così fosse lecito dire. Che è quella della critica dei valori tradizionali della morale e della civiltà umana (e direi occidentale). Il libertino è, rispetto all’uomo moderno, solo uno che ha più coraggio, o anche, se si crede, più visionario. Vede prima degli altri la fine del processo, dove esso porta: all’abbattimento di ogni totem o tabù in campo sessuale (e non solo) e di ogni identità di genere e persino individuale. Che nella nostra società non ci siano più libertini dipende dal fatto che oggi il libertinismo domina, almeno qui in Occidente, l’immaginario comune o comunque non genera più una condanna morale. La stessa etica, per lo più “buonista”, viene fatta coincidere con l’amore infinito e senza limiti a cui tendevano i libertini. Quante volte sentiamo ripetere, in modo irriflesso e perciò ancora più significativo, la frase: «basta che c’è l’amore»? Il quale amore però, rincorso nella sua purezza e assolutezza, diventa sempre più ideale e, di conseguenza, nella realtà, non è mai realizzato nella pratica. L’amore concreto e reale, e istituzionalizzato della civiltà giudaico- cristiano e “borghese”, diventa così il tranquillo “amore liquido” dell’oggi. Esso, per natura, è disindividualizzante: non ne è forse la “teoria del gender” la più compiuta realizzazione? Non occorre accettare la concezione etica del tradizionalismo cattolico e antimoderno (“reazionario”) di uno dei più profondi pensatori del secolo passato, Augusto Del Noce, per considerare il “libertinismo di massa” come la cifra della nostra società, della sua tendenza dominante. Il mio non è o non vuole essere un giudizio di valore, né di disvalore: è un fatto, indipendentemente dal giudizio di valore che ne diamo, e su di esso va posta l’attenzione per portare il discorso al livello di radicalità, cioè filosofico, che merita. Certo, anche la nostra società “emancipata” è piena di miti e tabù, come riconosce lo stesso Catà, ma essi non consistono nella persistenza del vecchio, ma soprattutto nel fatto che essa non riconosce come tali i propri pregiudizi. C’è a mio avviso una persistenza di mentalità illuministica, con connesso supporto nell’ideologia del Progresso, che inficiano molte letture “progressive” odierno del libertinismo, compresa questa pur colta e affascinante di Catà. Non si può non riconoscere, certo, l’importanza del libertinismo, ma nel considerarlo semplicemente come una “rivolta” a un mondo codificato, e non una sua intima espressione, si può finire per perdere, come accade quando esso diventa come oggi “di massa”, proprio quella sua “irregolarità” e quella capacità di guardare in modo laterale, e raffinato, alle convenzioni morali, ed ai mille, complessi e non riducibili giochi della seduzione amorosa, che come dimostra questa raccolta, i grandi libertini, ognuno dal suo punto di vista, hanno sempre avuto. Catà divide la sua antologia in sette parti. Nella prima e nella terza, egli, a mostrare la continuità dell’archetipo nella storia occidentale, accosta passi classici de l’Iliade su Zeus e dell’Ars amatoria di Ovidio a passi del Don Giovanni di Byron e delle Memorie di Casanova. È proprio la figura di Casanova che permette a Catà di introdurre una prima distinzione: quella fra la seduzione à la Casanova e quella à la Don Giovanni: da una parte, egli dice, solo il primo è un «vero libertino»; dall’altra, però, è costretto a tenere giustamente larga la sua antologia, spingendosi non solo ad includere Don Giovanni ma anche il porno- squatter marchese De Sade. «Il libertino non è un playboy, uno sciupafemmine, un latin- lover, un “rimorchiatore seriale” o, con una definizione più colta, un lothario». Don Giovanni ama e conquista tutte le donne che incontra, di qualsiasi età o condizione sociale, ma è narcisisticamente interessato solo al proprio picere, a incrementare il “catalogo” di quante sono cadute ai propri piedi. Per realizzare il suo scopo, per agguantare la “preda”, egli usa anche l’inganno e la prevaricazione, mentre l’arte della seduzione e della parola che mette in campo Casanova è altra cosa. Il vero libertino, anche quando “pettina” la realtà, lo fa con la raffinatezza, l’arguzia e l’innata cortesia del gentiluomo. Soprattutto, Casanova vuole essere amato dalle donne che ama, ama il loro piacere prima e forse più del proprio. Anche l’amore di Casanova è sconfinato: anch’egli ama tutte le donne, ma non esaurisce il suo amore perché le ama ognuna secondo la propria specificità, in modo diverso. La varietà del suo amore è la varietà e la pluralità dell’universo femminile: egli fa sentire unica ogni donna, perché veramente ogni donna è un cosmo a sé. E la ama in senso totale, fisico e spirituale insieme, in una fusione totale e paritaria di menti e corpi. La qualità qui soppianta la quantità matematica, il cui trionfo pure è, come sappiamo, la cifra fondante della modernità e della sua comprensione (scientifica) del mondo. Il passo da Casanova a Sade è inevitabile, anche se nel “divino marchese” la serialità superficiale, persino parodistica di un Don Giovanni sfocia in una serialità meccanica e standardizzata che mostra d’un tratto la tragicità e il nichilismo di fondo sottesi anche alle prassi e alle idee dell’emancipazione. Nella quarta parte dell’antologia troviamo così brani tratti da Justine, affiancati ad altri che, nella citata ottica nichilistica, ne sono solo apparentemente l’opposto: quelli dello Specchio in cui la religiosa e teologa francese Marguerite Porete, vissuta a cavallo fra Due e Trecento, registra le sue visioni mistiche. Ella, nella sua tensione verso Dio, non può che attingerlo conquistandolo e facendosene conquistare completamente, in un abbraccio estatico, orgiastico e panico, che mostra anch’esso il nulla di senso e l’infondatezza su cui è poggiato il nostro mondo finito, contraddistinto dalle distinzioni, e segnato dal “peccato originale”. L’originalità dell’antologia è anche, infatti, nel porre in primo piano, accanto ai libertini, le libertine, prestando grande attenzione a quello che è stato da sempre l’aspetto più scabroso per la morale sessuale tradizionale: il piacere femminile. La seconda parte propone così un percorso tutto al femminile che da Saffo giunge alla veneziana “cortigiana onesta” Veronica Franco, alla seicentesca poetessa inglese Aphra Behn, alla novecentesca scrittrice americana Anne Sexton. Il quinto capitolo dell’antologia è dedicato completamente a Oscar Wilde, mentre il sesto mette a oggetto il libertinismo storico sei- settecentesco di lord Rochestor, Julien Offray de la Mettrie e Giulio Cesare Vanini. Chiude il libro una “breve fanta – intervista a George Best”, l’eccentrico calciatore irlandese morto per alcolismo, che, secondo Catà, «in campo, come i libertini sulla pagina, declinava la propria ribellione in creatività; e così giocate mai concepite prima diventavano la forma del suo rifiuto luminoso del mondo, quell’adorazione ardente per la vita che la rende invivibile per alcuni spiriti di genio». È sempre Catà che, concludendo la sua densa introduzione, giudica la situazione del libertinismo al giorno d’oggi: «nel Novecento e negli anni Duemila – scrive – non mancano certo eccelsi casanova, sia nell’universo maschile che in quello femminile, noti alle cronache – ma ciò, in sé, non basta per farne dei libertini, se questa essenza non si manifesta entro una dimensione letteraria in cui vita e scrittura non divengono tutt’uno». Non sarà, più semplicemente, che l’ “irregolarità” e il vero anticonformismo vanno oggi cercati altrove, ad esempio in chi ha la capacità, pagandone spesso pegno come i vecchi libertini, di mettere in discussione le certezze e i pregiudizi del “pensiero unico” e di una libertà che, mai come oggi, si presenta ampia e aperta ma non tollera chi ne mette in discussione i nuovi totem e tabù?  

LA MORTE DEGLI GLI ATEI, SENZA PATRIA E SENZA RE.

“La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re. Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi?”, scrive il 15 luglio 2018 Antonio Socci. Da “Libero”, 15 luglio 2018. “E’ il ritorno dei morti viventi”, mi dice un avvilito e impietoso militante del PD. L’uragano renziano – prima vincente, poi schiantato e vinto – se n’è andato e infine sulla spiaggia ha lasciato un deposito di detriti, relitti e rottami risucchiati dai fondali del tempo: è la “nuova vecchissima” segreteria del PD allestita dallo spaurito Maurizio Martin pescatore, appena eletto segretario. Naufraghi disperati, verbosi perdenti di tutte le guerre, luogocomunisti che – in attesa di riciclare pure D’Alema e Bersani – hanno come unica prospettiva quella di stare a mendicare sull’uscio del M5S e implorare, col cappello in mano, di scaricare la Lega ed essere riammessi nel palazzo del potere fuori del quale non sanno vivere. Il mondo infatti è cattivo, buio, populista e tempestoso per queste anime belle e le poltrone ministeriali sono l’unico rifugio sicuro alla loro innocenza. La “sinistra dei Parioli” rappresentata da Carlo Calenda – al momento – è concentrata a non far bruciare le aragoste e non far cadere l’oliva dall’aperitivo. Ieri – fra una tartina e l’altra – Calenda ha twittato contro Martina: “Oramai siamo alla farsa. Prima vanno dietro a Emiliano e nominano Boccia e poi si fanno dire di no da Emiliano. Che però promette eterna lealtà. L’unica cosa seria da fare è azzerare la segreteria e chiamare un congresso subito”. Forse anche chiamare il 118 sarebbe utile. La classe dirigente (per mancanza di prove) e la base residua del PD sono comprensibilmente frastornate come erano i passeggeri dell’aereo più pazzo del mondo all’ennesimo giro della morte dopo innumerevoli picchiate e folli risalite. Nel giro di dieci anni sono passati, a velocità supersonica, dal veltronismo al franceschinismo (qualunque cosa voglia dire), poi virando al bersanismo quindi tuffandosi nel lettismo, di colpo precipitando nel renzismo e infine sprofondando nel gentilonismo e ora nel martinismo, ma sempre dovendo sputare (o vomitare) sulle posizioni precedenti. Come una comitiva stralunata che viene sballottata ogni giorno su uno schieramento contrapposto a quello di ieri. Alla fine, in questa baraonda, tutto quello sputare (e vomitare) torna in faccia agli sputatori e si può capire che i poveretti, malridotti, siano alquanto confusi e si chiedano – come il pastore errante dell’Asia – “e io che sono?”. La risposta alla domanda esistenziale è semplice: loro sono il “partito straniero”. Il partito dell’Euro e di Maastricht, la rappresentanza in Italia della tecnocrazia di Bruxelles (cioè di Germania e Francia). Un partito anti italiano. Ma questo non possono dirselo e soprattutto non lo ammettono davanti agli italiani (che tuttavia lo hanno capito bene). Perciò menano il can per l’aia paventando il fascismo montante in Italia che minaccia la civiltà. Quanto la gente comune creda a queste baggianate lo si è visto il 4 marzo scorso (li ha licenziati), ma c’è un colossale problema: i perdenti delle elezioni, sprofondati sotto al 20 per cento, sono pressoché monopolisti della scena mediatica (e pure in tante istituzioni, come la scuola). Il discorso pubblico è pieno dei luoghi comuni della sinistra, delle sue demonizzazioni, del suo politically correct che tracima dappertutto…. E coloro che sono al governo, avendo la maggioranza dei voti, sembrano in realtà forze di opposizione. E’ un pensiero unico, una cappa di conformismo, che porta al divorzio fra gente comune e (cosiddette) élite. Lo stesso PD finirà per esserne danneggiato, perché la gente, stremata e insofferente, alla fine sarà sempre più incazzata. Del resto anche perché il PD così continuerà a credere alla propria propaganda e non farà mai una seria revisione autocritica. Eppure c’è vita oltre la Sinistra. C’è un’aria nuova nel Paese, in Europa e nel mondo. Sta avvenendo un sorprendente risveglio dei popoli (reso possibile soprattutto dalla presidenza Trump e dalla Brexit) ed è salutare per tutti confrontarsi con pensieri differenti smettendola di lanciare sciocche scomuniche contro populismi, sovranismi e altri ismi. C’è bisogno sulla scena pubblica di un bagno di pluralismo, di libero mercato delle idee, un irrompere di volti, intelligenze, libri e storie diverse dalla solita solfa e dai soliti parrucconi. C’è tutto un mondo da scoprire. La Lega di Matteo Salvini, in Italia (come anche il gruppo della Meloni), ha intercettato – nell’agone politico – questo sentimento nuovo dei popoli che sta dilagando in tutto il mondo. Alle astrazioni ideologiche delle élite, che hanno combinato disastri enormi in questi decenni, si contrappongono popoli che vogliono riprendersi la sovranità, l’identità e ritrovare lavoro, dignità e libertà. In fondo è l’eterno scontro fra gli ideologi e i popoli. Tra chi vuole spazzare via la storia e le identità in nome di nuove divinità pagane (“i mercati”, “i parametri di Maastricht”, la UE, il cosmopolitismo, il migrazionismo) e i popoli che amano la loro terra, il loro lavoro, la loro identità e non vogliono farsi sradicare ed espropriare. Ieri era il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia. A opporsi alla follia ideologica giacobina fu il popolo contadino e cattolico della Vandea che pagò un duro prezzo di sangue. Un giovane e valoroso generale vandeano, François-Athanase de Charette de La Contrie, ebbe parole lucidissime contro gli ideologi giacobini e rileggerle oggi è molto suggestivo: “La nostra Patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re. Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi? Vogliono distruggere i costumi, l’ordine, la Tradizione. Allora, che cos’è questa patria che sfida il passato, senza fedeltà, senz’amore? Questa patria di disordine e irreligione? Per loro sembra che la patria non sia che un’idea; per noi è una terra. Loro ce l’hanno nel cervello; noi la sentiamo sotto i nostri piedi, è più solida. E’ vecchio come il diavolo il loro mondo che dicono nuovo e che vogliono fondare sull’assenza di Dio… Si dice che noi saremmo i fautori delle vecchie superstizioni… Fanno ridere! Ma di fronte a questi demoni che rinascono di secolo in secolo, noi siamo la gioventù, signori! Siamo la gioventù di Dio. La gioventù della fedeltà”. Il generale fu fucilato nel 1796, a 33 anni, e i vandeani furono sconfitti e massacrati. Ma dalla vittoria degli ideologi rivoluzionari venne prima il Terrore e poi l’Impero napoleonico che esportò devastazioni e morte in tutta Europa, saccheggiando i paesi conquistati (come l’Italia) e diventando il modello di tutti i totalitarismi del Novecento e di tutti i progetti imperialistici sull’Europa: dopo Napoleone ci provò Hitler a schiacciare e sottomettere i popoli europei. Oggi le ideologie astratte del Novecento stanno dando gli ultimi colpi di coda. Ma i popoli resistono e stanno rinascendo. Dimostrando la loro giovinezza, contro la vecchiaia dell’ideologia. Antonio Socci Da “Libero”, 15 luglio 2018.

L'egemonia rossa è morta, ma la nevrosi resta, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 07/07/2018, su "Il Giornale". Ci fu un tempo in cui la sinistra comunista era veramente egemone nella cultura italiana. L'egemonia era nata col fascismo che, incredibile ma vero, conteneva quel che poi sarebbe stato il Pci di Palmiro Togliatti. Il partito egemone di sinistra stabilì per decenni quali fossero i film, i romanzi, i poeti, i pittori, gli attori degni del certificato di esistenza in vita. Tutti gli altri erano sdegnosamente confinati in un cono d'ombra e di disprezzo. Da questa supremazia, in parte giustificata dalla qualità, nacque e si sviluppò la grandissima spocchia, anzi il razzismo ariano degli intellettuali di sinistra. Poi, così come del gatto di Cheashire nelle avventure di Alice rimase soltanto una dentiera, dell'egemonia culturale di sinistra rimase soltanto la spocchia genetica. Non si deve mai dimenticare che Stalin cominciò la seconda guerra mondiale dalla parte di Hitler, sostenuto dallo spudorato consenso degli intellettuali comunisti di tutto il mondo, salvo quelli americani. L'egemonia è morta ma restano ridicole eruzioni di rabbia psicosomatica. Gli ex egemoni vivono come una nevrosi post traumatica la marcia trionfale di Salvini fingendo di non sapere che musica e arrangiamento di quella marcia è opera loro. È il frutto della paura che hanno inoculato negli italiani pur di saziare il proprio narcisismo di falsi buoni, mentre sono ormai solo scarti, cassonetto giallo della differenziata tossica.

Gaber si burlava delle star buoniste, scrive Alessandro Gnocchi, Sabato 07/07/2018, su "Il Giornale". Nei social network, dall'altroieri, impazza una canzone di Giorgio Gaber, Il potere dei più buoni, tratta da Un'idiozia conquistata a fatica, album frutto del Teatro Canzone portato in tour tra il 1997 e il 1999. È stato Antonio Socci a postare il brano, lamentando la perdita di un artista fuori da ogni schema come Gaber. Il potere dei più buoni non è saltata fuori per caso. Socci, e chi ha contribuito a rilanciare il suo messaggio, ha rispolverato questo Gaber in contrasto al manifesto contro Matteo Salvini, pubblicato dalla rivista Rolling Stone, e firmato da artisti (o sedicenti tali). Manifesto, per altro, ridicolizzato dalla scoperta che alcuni «aderenti» sono stati inclusi a loro insaputa: Enrico Mentana, Michele Serra, Fiorella Mannoia, Alessandro Robecchi, Gipi, Zerocalcare e Valentina Petrini. Che autogol. Riascoltare e rileggere Gaber ci fa apprezzare, una volta in più, il carattere iconoclasta, e quindi rivoluzionario, della sua musica, dove le false certezze degli intellettuali sono messe alla gogna. Mentre il manifesto esalta la logica del guitto intruppato, Gaber esalta la logica dell'artista libero. I sottoscrittori del manifesto rischiano nulla, essendo conformi alla cultura «ufficiale», sempre premiata dai media e dal mondo delle spettacolo. Gaber invece rischiò tutto e, infatti, perse il saluto di alcuni ex compagni di strada, Dario Fo a esempio. Ma si guadagnò l'amore infinito del suo pubblico, disposto a seguirlo in ogni evoluzione musicale. Il potere dei più buoni, al di là dell'occasione, ha valore profetico più che polemico. Non è solo una rampogna contro l'ipocrisia dei cantanti impegnati (a farsi pubblicità). È piuttosto la denuncia dell'appiattimento culturale dovuto al conformismo. Gaber sconfessa alcuni dei miti ai quali gli intellettuali di oggi si sottomettono volontariamente, convinti di avere ragione solo perché raccolgono facile approvazione tra i sodali. Gaber abbatte così il multiculturalismo: «Penso ad un popolo multirazziale / ad uno stato molto solidale / che stanzi fondi in abbondanza / perché il mio motto è l'accoglienza». Oggi questo passo sarebbe sufficiente per essere additato come xenofobo, razzista e in ultima analisi fascista. Ma Gaber va oltre: «Penso al problema degli albanesi / dei marocchini dei senegalesi / bisogna dare appartamenti / ai clandestini e anche ai parenti / e per gli zingari degli albergoni / coi frigobar e le televisioni / È il potere dei più buoni / è il potere dei più buoni / son già iscritto a più di mille associazioni / è il potere dei più buoni / e organizzo dovunque manifestazioni». Poi Gaber fa a pezzi la moda ambientalista-animalista: «Ho una passione travolgente / per gli animali e per l'ambiente / Penso alle vipere sempre più rare / e anche al rispetto per le zanzare / In questi tempi così immorali / io penso agli habitat naturali / penso alla cosa più importante / che è abbracciare le piante». Il colpo finale è riservato a chi sfrutta le tragedie per tornaconto personale: «Penso alle nuove povertà / che danno molta visibilità / penso che è bello sentirsi buoni / usando i soldi degli italiani / È il potere dei più buoni / è il potere dei più buoni / costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni / è il potere dei più buoni / che un domani può venir buono per le elezioni». Come ci manca Giorgio Gaber...

Retweet a Rolling Stone: anche alla Rai cavalcano la crociata contro Salvini. L'ultima follia della tv pubblica (ma politicizzata). Su Twitter Rai5 aderisce all'appello dei radical chic per cacciare il leader leghista, scrive Sergio Rame, Venerdì 06/07/2018, su "Il Giornale". "Noi non stiamo con Matteo Salvini". La copertina del nuovo numero della rivista Rolling Stone ha scatenato gran fermento tra i radical chic italiani in cerca di una crociata buonista da sostenere. "Da adesso chi tace è complice", è il messaggio del mensile, che ha chiesto di prendere posizione a musicisti, attori, scrittori, figure legate al mondo dello spettacolo. E tra i tanti progressisti malati di "appellite" ha strappato anche un retweet, con tanto di cuoricino, da Rai5. Ad accorgersene è stato Dagospia prima che la condivisione venisse cancellata. Resta il fatto che per l'ennesima volta la tivù pubblica (ma sempre più politicizzata) mette il cappello su una crociata contro un esponente di centrodestra. Il ministro dell'Interno risponde con un'alzata di spalle: "Appelli radical chic". Nel giro di pochi giorni, infatti, l'iniziativa di Rolling Stone finirà nel dimenticatoio e andrà a ingrossare la lista degli appelli lanciati dalla solita sinistra. Fa comunque discutere il retweet di Rai5, la rete "culturale" di viale Mazzini, in supporto alla crociata anti Salvini. "Chi è il social media manager che in nome del canale culturale del servizio pubblico ha messo quel like su Twitter? - si chiede Dagospia - ah, saperlo...". Il senso dell'appello lanciato ieri è stata spiegato in un lungo editoriale: "Fa male vedere, giorno dopo giorno, un'Italia sempre più cattiva, lacerata, incapace di sperare e di avere fiducia negli altri e nel futuro". E ancora: "Non vogliamo che il nostro Paese debba trovare un nemico per sentirsi forte e unito. Per questo non possiamo tacere", si legge. "I valori sui quali abbiamo costruito la civiltà, la convivenza, sono messi in discussione - è la preoccupazione di Rolling Stone - ci troviamo costretti a battaglie di retroguardia, su temi che consideravamo ormai patrimonio condiviso e indiscutibile. I sedicenti 'nuovi' sono in realtà antichi e pericolosi, cinicamente pronti a sfruttare paure ancestrali e spinte irrazionali". E, dunque, Rolling Stone invita tutti a opporsi "a chi ci porta indietro, a chi ci costringe a diventare conservatori. Not in my name, non nel mio nome, nel nostro nome". Adesso not in my name potrebbe dirlo qualche abbonato ai vertici di viale Mazzini. Perché, sebbene il retweet sia stato cancellato dopo che Dagospia lo aveva scoperto, resta lo screenshot del sostegno del canale culturale della Rai alla crociata di Rolling Stone sottoscritta dai vari Fabio Fazio e Daria Bignardi. E così la direzione di Rai5 si affretta a esprimere "la totale estraneità" al post. "Si è trattato di una iniziativa a titolo personale dalla quale Rai5 si dissocia completamente", fanno sapere da viale Mazzini al sito diretto da Roberto D'Agostino. "Sono strani questi attacchi ad personam, ma alcuni di questi cantanti e registi mi piacciono e continuerò a seguirli", taglia corto Salvini. Che, poi, attacca: "Gli appelli non vengono dagli operai, dagli studenti, dai pensionati e da chi vive nelle case popolari. Qualcuno di questi multimilionari, firmatari di appelli radical chic, spalancasse le porte della propria megavilla e accogliesse a sue spese chi ritiene. Io tiro dritto nel nome della sicurezza, dell'ordine, del controllo dei confini, della chiusura dei porti e all'apertura degli aeroporti per chi scappa davvero dalla guerra. Dopodiché - conclude - se c'è qualcuno che se la vuol cantare e suonare hashtag 'canta che ti passa' e divertiamoci, perché la musica è sempre bella".

Svincolata dai partiti, doveva decollare tre anni fa. Invece la più grande azienda culturale del Paese è rimasta nel parcheggio, invischiata nelle clientele e nelle inefficienze di sempre. «Mamma Rai» impiega 13.058 dipendenti, di cui 1760 giornalisti, suddivisi in 8 diverse testate: Tg1, Tg2, Tg3, TgR, Rainews24, Il Giornale Radio, Rai Parlamento e Rai Sport, scrive Milena Gabanelli il 15 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Il contratto giornalistico Rai è il più «blindato» d’Italia: il costo azienda medio annuo è di 200.000 euro per ciascuno dei 210 capiredattori, 140.000 euro per i 300 capiservizio, 70.000 euro per i neoassunti.

Nessuna tv pubblica europea ha tanti tg. Nel mondo nessuna Tv pubblica ha tanti telegiornali nazionali. Un’anomalia che risale ai tempi della «lottizzazione»: ad ogni partito la sua area di influenza. Negli anni ha generato costi enormi poiché ogni testata ha un direttore, i vicedirettori, i tecnici, i giornalisti. E tutte le testate a coprire lo stesso evento. Che senso ha, visto che ogni rete ha già gli spazi dedicati agli approfondimenti e ai talk, proprio per rappresentare le diverse letture dei fatti? La BBC, una delle più grandi e influenti istituzioni giornalistiche al mondo, diffonde in Gran Bretagna un solo Tg: “BBC news”. La Rai, con le tre testate nazionali, realizza ogni giorno oltre 25 edizioni di TG; in Francia e in Germania le edizioni quotidiane sono 7, nel Regno Unito e in Spagna 6. All’offerta ipertrofica si aggiunge il canale Rainews 24, che trasmette notizie 24 ore al giorno. Abbiamo la più grande copertura informativa d’Europa e un esercito di giornalisti, eppure, nonostante i telespettatori siano inesorabilmente in calo, perché si informano sul mondo digitale, la Rai non ha un sito di news online. Chi si informa online va clicca sui siti dei quotidiani o TgCom. Anche questa è un’anomalia tutta italiana.

22 sedi regionali e interi piani vuoti. Poi c’è il tema delle sedi regionali: i 660 giornalisti fanno capo alla direzione Tgr, mentre le 22 sedi — con altrettanti direttori — che si occupano solo dei muri e dei tecnici, fanno capo a una fantomatica Direzione per il Coordinamento delle Sedi Regionali ed Estere. Gli edifici sono faraonici, con interi piani inutilizzati, ma la qualità della cronaca locale non è sempre brillante: potenzialità enormi, inefficienza cronica. Ma, essendo i tg regionali luoghi in cui sindaci e governatori esercitano la loro influenza, oltre che bacino di consenso per il potente sindacato Usigrai, si tira a campare.

Le inefficienze più vistose e quelle pittoresche. Qualche esempio. In Emilia Romagna non c’è una buona copertura del segnale e, in alcune zone, si vede il Tgr Veneto o il Tgr Marche; è presente una obsoleta «esterna 1» per le dirette, un mastodonte costoso usato solo per la messa della domenica, con una squadra di 5 persone che, per ragioni sindacali, non può fare altro quando il mezzo è fermo. Al Tgr Lazio regna il degrado: dalle luci al neon fulminate alle cuffie della radiofonia fuori uso; tutti i giornalisti stanno a Saxa Rubra, nessun corrispondente dalle province. A Torino, per poter usare un mezzo satellitare leggero adatto alle dirette, la Tgr deve chiedere l’assenso a 4 diversi responsabili: una procedura che non si adatta ai tempi delle news. In Puglia i due redattori territoriali hanno la telecamerina in dotazione, ma non la usano perché il sindacato non vuole. A Sassari, 4 specializzati di ripresa non escono con la troupe, non guidano la macchina e stanno in studio, per quei due movimenti di camera che potrebbero anche fare i tecnici. Il caporedattore non può decidere sul loro utilizzo perché dipendono dal direttore di sede. In Sicilia, gli impiegati di segreteria sarebbero disponibili e qualificati per archiviare e «metadatare» le immagini, ma non hanno accesso al sistema. La Tgr Lombardia (con 50 giornalisti) è quella che collabora di più con i Tg nazionali; però Tg1, Tg2, Tg3, Rainews e Rai Sport hanno comunque tutti i propri giornalisti a Milano. Il materiale grezzo viene buttato, perché nessuno lo cataloga. Poi c’è un aspetto che la dice lunga sulle competenze dei dirigenti: le testate nazionali e quelle regionali sono state digitalizzate con sistemi che non comunicano fra loro, per cui è difficile lo scambio di immagini.

Un esercito di giornalisti, ma non c’è un sito news online. Il consiglio d’amministrazione insediato nel 2015 è partito in quarta dando vita a Ray Play, ma la mission era proprio quella di rendere più efficiente la TgR, riorganizzare l’offerta informativa nazionale e colmare il gap digitale. In questi 3 anni il Cda è riuscito a far naufragare tutti i progetti. Incluso quello per la nascita del sito unico di news online, già sviluppato dalla Direzione Digital e con la formazione presso le redazioni regionali già avviata (oggi sei regioni hanno il loro sito). Il motivo? Prima di dar vita ad una nuova testata, bisognava ridurre il numero di quelle già esistenti. Sta di fatto che il sito nazionale esistente è dentro a Rainews 24 e produce un traffico irrilevante. Questa è la classifica Audiweb degli utenti unici giornalieri, nella prima settimana di luglio: RaiNews 180.000, TgCom 2.597.000, il Corriere della Sera 2.519.000, Repubblica 3.058.000. In sostanza tutti i cittadini sono obbligati a pagare il canone (1 miliardo e 700 milioni l’incasso del 2017), ma chi si informa soltanto online non ha un servizio pubblico degno di questo nome. In compenso, lo stesso Cda ha portato avanti uno studio di fattibilità di un nuovo canale tradizionale in lingua inglese. Ad occuparsene in prima persona la Presidente Monica Maggioni, a fine mandato e quindi in cerca di una futura direzione.

Nomine: Tria sceglierà un manager di esperienza? Questa è la Rai, che attende il prossimo giro di giostra. Il capitale umano che lavora ai piani bassi, dove si realizza il prodotto, ha bisogno di una forte spinta; speriamo che la giostra sia un «calcinculo». Con un management esperto e libero dai condizionamenti della politica, potrebbe uscirne un’azienda leader in Europa. Alitalia è stata sventrata da decisioni scellerate, poi è arrivato un Commissario capace che la sta rianimando. La responsabilità di indicare il nuovo Amministratore Delegato è nelle mani del Ministro Tria: potrà reclutarlo in base alla lunghezza del curriculum o in base ai risultati prodotti nella gestione di aziende complesse. Le due cose non coincidono quasi mai.

IL CROLLO E LA CRISI DEL PD E DELLA SINISTRA? TUTTO PREVISTO DA DEL NOCE E PASOLINI. ECCO PERCHE’, scrive Antonio Socci. Da “Libero”, 8 luglio 2018. Concordo con Vittorio Feltri: la Sinistra è morta. Quella che oggi si definisce “Sinistra” abita ai Parioli e bolla come populisti i poveri delle periferie che un tempo furono la base sociale del Pci. Per capire quando e perché si è prodotta la sostituzione (o il tradimento) bisogna risalire agli anni Settanta e rileggere due intellettuali eretici: Pier Paolo Pasolini e Augusto del Noce. Nei giorni scorsi Davide Rondoni, su “Avvenire”, riportava queste parole che attribuiva a Pier Paolo Pasolini, dal discorso (letto dopo la sua morte) per il Congresso del Partito Radicale del 1975: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra”. E’ facile constatare che quella “profezia” si è totalmente realizzata oggi: basti ricordare il recente “linciaggio” mediatico del ministro Fontana e quello quotidiano di Salvini. La frase virgolettata da Rondoni in realtà dev’essere una parafrasi del discorso di Pasolini ai radicali che nel 1975 esprimeva proprio quei concetti. Qual è il suo contesto storico? Nel 1974 in Italia si era svolto il referendum sul divorzio che aveva visto prevalere la nuova ideologia radicale sulla mentalità cattolica. Il Pci – che era inizialmente diffidente e ostile verso quella battaglia radicale, che riteneva borghese – alla fine aveva deciso di cavalcarla in chiave anti-Dc e sull’onda della clamorosa vittoria divorzista conseguì, nel 1975, uno strepitoso successo elettorale, puntando ormai a strappare alla Dc il primato politico. Da quel momento il Pci – che era conservatore sui temi di costume – pur detestando i Radicali si tuffò nelle loro battaglie, come l’aborto. Così il filosofo cattolico Augusto del Noce preconizzò la trasformazione del Partito comunista italiano in un “partito radicale di massa”. Per portare a compimento tale trasformazione occorrerà però il crollo del comunismo nell’Est europeo. Il Pci si dissolse subito nel 1989, ma i comunisti italiani no e – per far dimenticare il loro passato – cambiarono nome nascondendosi dietro la foglia di fico della sinistra Dc tecnocratica di Romano Prodi. Così passarono dall’obbedienza moscovita a quella clintoniana e soprattutto, con l’invenzione dell’Ulivo, abbracciarono la nuova ideologia dell’Euro e di Maastricht, vera identità fondativa del futuro PD. Del Noce aveva scritto già nel 1978: “Il comunismo di Gramsci è divenuto l’ideologia del consenso comunista all’ordine tecnocratico neocapitalistico”. In effetti con Maastricht (che implicava la sudditanza a Germania e Francia) gli ex-Pci fecero propria la bandiera del grande capitale: il mercatismo. Perciò in questi anni è stato il PD a gestire in Italia la demolizione dello “stato sociale” (e dello stato nazionale) nascondendo questa operazione antipopolare, di vero massacro sociale, dietro la nuova bandiera dei “diritti civili”. Hanno fatto esplodere povertà e disoccupazione, hanno annichilito la sanità, affondato migliaia di partite Iva e i ceti medi, ma rivendicando con orgoglio di aver fatto le “unioni gay”. Ecco, Pasolini, in quel discorso del 1975, aveva intuito che proprio la bandiera dei “diritti civili” sarebbe stata usata per rottamare i “diritti sociali” (e quindi la stessa base popolare della Sinistra). E avvertiva che l’“ideologia edonistica” è un “contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo”. Ecco la sua profezia laica: “In questa massa di intellettuali (progressisti, ndr), attraverso i vostri successi (radicali, ndr), la vostra passione irregolare per la libertà si è codificata, ha acquistato la certezza del conformismo”, “io vi prospetto il peggiore pericolo… un nuovo regime… Tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera”. Oggi è il potere invisibile delle élite che si oppone al voto popolare. Antonio Socci. Da “Libero”, 8 luglio 2018

DA SIENA A NEW YORK (PASSANDO PER ROMA, LONDRA E BRUXELLES) IL CROLLO DELLA SINISTRA COME UNO CHOC STORICO, scrive Antonio Socci. Da “Libero”, 3 luglio 2018. Fra le allegre e colorate vie di Siena, in festa per il Palio della Madonna di Provenzano, a una settimana dallo tsunami elettorale, si aggirano come naufraghi certi notabili e intellettuali della Sinistra cittadina che, interpellati dai giornali nazionali, si dicono “sotto choc” e sbigottiti per il crollo di un dominio rosso durato 70 anni. Anche negli altri capoluoghi toscani il PD è diventato l’acronimo di Perde Dappertutto. E non può nemmeno dar la colpa ai fantomatici hacker russi per la sua sconfitta a Massa, Pisa e Siena (MPS), dopo aver perso le altre città toscane. Gli esponenti della Sinistra si aggirano come fantasmi sulle pagine dei giornali senza capacitarsi. Trovano inspiegabile che gli elettori licenzino loro che sono “il meglio”, i civili, gli illuminati e scelgano invece i cattivi, i barbari. Perciò, pur dilaniandosi nelle liti intestine, non fanno mai nessuna autocritica (anche il caso Monte dei Paschi – a sentir loro – è stato colpa “degli altri”). Era – quello toscano – l’ultimo impero rosso in Europa. E’ crollato per la ventata fresca di un popolo che si è stufato e ha mandato a quel paese una Sinistra che ha dimenticato i bisogni e le sofferenze della gente comune e ha fatto disastri. Il nostro era un Pci ormai trasformatosi in establishment “politically correct”, che in Toscana continuava a dominare il territorio con il suo soffocante blocco di potere, ma – nella sua patinata immagine pubblica – da anni aveva sostituito l’amore per l’Urss e per i “socialismi reali” con la sudditanza psicologica e politica verso l’America irreale: la Casa Bianca dei Clinton e di Obama, i mercati e la tecnocrazia europea. Oggi da Siena e Pisa a New York, passando per Roma, Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles, nelle nomenklature “progressiste” domina lo stesso choc e lo stesso sbigottimento. Si chiedono tutti: com’è possibile che abbiano vinto i barbari? Perché il popolo ha scelto gli “incivili”, preferendoli a noi che siamo – per definizione – “la civiltà” e la luce del mondo? Nei ricchi attici di Manhattan – quelli immortalati da Tom Wolfe come “radical chic” – ancora si domandano perché gli americani abbiano votato il mostro Trump e – addirittura – come egli sia ancora in sella (rafforzato da un consenso crescente). Nelle sale da thè londinesi tutt’oggi si domandano come sia stato possibile permettere alla plebe britannica di far vincere la Brexit. Mentre sulle terrazze romane, sotto choc per la disfatta del 4 marzo, inorridiscono vedendo il barbaro Salvini che ha conquistato il governo e – sempre più – il consenso degli italiani. Lo sconcerto di queste élite riesce a malapena a nascondere il loro sprezzante malumore verso il popolo. Non a caso – dopo la Brexit e dopo Trump – qualcuno di questi illuminati arrivò a mettere in discussione il suffragio universale. Non potendo – almeno per ora – imporre un governo delle aristocrazie che abolisca la democrazia (anche se hanno imposto governi tecnici in Italia o governi telecomandati dalla troika altrove) provano almeno a imbavagliare la rete che non riescono a controllare e che ha permesso alla gente di scavalcare il muro di piombo dei media, schierati con le élite. Ormai l’establishment si sente assediato dai populisti: alla Casa Bianca c’è il capo mondiale del populismo barbarico, al Cremlino ha stravinto ancora l’altra faccia (quella orientale) del populismo. Poi vedono immerso nel populismo tutto l’est europeo, Austria compresa (citano “i paesi di Visegrad” con il disgusto che dovrebbero avere – e non hanno – verso certe dittature). In Gran Bretagna hanno vinto i populisti della Brexit.

E’ comico vedere la Sinistra italiana aggrapparsi disperatamente a Macron e Merkel che certo non sono di sinistra. Oltretutto perché in Francia Macron, che vinse con percentuali minoritarie, ha i suoi grossi problemi. E in Germania la Merkel – che già fu azzoppata dalle elezioni – è ora destabilizzata dai bavaresi del suo partito, anch’essi populisti. Nella UE – ultima ridotta delle élite – i cosiddetti “populisti” hanno il vento in poppa e alle elezioni europee della prossima primavera puntano alla vittoria. Per la narrazione oggi dominante dei media si diventa populisti quando si ascolta il popolo (con i suoi bisogni) anziché obbedire alle élite. In Italia alla sinistra è rimasta, perché ce l’ha nel Dna, l’abitudine di degradare e “marchiare” l’avversario: fascista, razzista, populista. Come osservava Luca Ricolfi quelli di sinistra sono convinti “di rappresentare la parte migliore del paese, di essere titolari di una superiorità etica, culturale e politica” e “guardando alla parte avversa come a dei barbari da educare o da tenere alle porte ne sottovalutano anche le buone ragioni”. Non riconosceranno mai i loro errori. In America come in Italia, non avendo più il popolo e avendo verificato l’inutilità del monopolio dei media, sperano in qualche rovesciamento di potere provocato dal Deep State Usa, dalla magistratura, dalla Bce, dai mercati o dall’Unione Europea. Per farsi assegnare la vittoria a tavolino dopo aver perso sul campo. Antonio Socci. Da “Libero”, 3 luglio 2018

L’IGNORANZA SACCENTE. I MITI DA SFATARE.

L'ignoranza? Grazie al web è diventata saccenza. Il web ha distrutto il concetto di autorità: liberi tutti…di sparare pericolose idiozie, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 20/06/2018, su "Il Giornale". Cosa significa essere ignoranti? In teoria l'ignorante è chi dice «non so», in realtà oggi l'ignorante è quello che non sa una cosa e la spiega a chi la sa. Insomma, chiunque sa qualcosa per sentito dire, e la tragedia è che anche colui dal quale l'ha sentita dire lo sa per sentito dire. D'altra parte basta andare cinque minuti su Google e si capisce cosa intendeva Doctor House quando disse a una paziente che contestava una sua diagnosi perché aveva letto un parere diverso su internet: «Già, perché prendere una laurea in Medicina quando c'è il wi-fi?». Attenzione, non si tratta dell'impossibilità di sapere tutto, ciascuno di noi è ignorante, e perfino gli scienziati. Un biologo è ignorante in astrofisica, un astrofisico è ignorante in chimica, la differenza è che ciascuno di loro sa cosa non sa. Non è tanto il discorso di opporre all'ignoranza l'enciclopedismo ingenuo, il vano tentativo di Bouvard e Pécuchet, o quello dell'autodidatta di Sartre. Tanto meno lo spaesamento di fronte al «mare dell'oggettività» di cui parlava Italo Calvino. Casomai il problema è il mare della soggettività. Ciascuno dice la sua, su tutto, e le opinioni si rispettano. Colpa di internet? Forse. A proposito, Il Saggiatore ha organizzato un incontro sull'ignoranza alla Triennale di Milano, domani. Il punto di partenza è il libro di Antonio Sgobba Il paradosso dell'ignoranza da Socrate a Google (Il Saggiatore), dove si arriva proprio alle aspettative disattese da internet. O meglio, più che da internet, da chi utilizza internet. Negli anni Novanta si vedeva internet come una formidabile risorsa di cultura globale, e al massimo si temeva solo che si creasse «una fascia di esclusi, troppo poveri o troppo pigri per accedere alle nuove tecnologie disponibili». Non è avvenuta nessuna delle due cose: oggi chiunque ha accesso a qualsiasi informazione, perfino un immigrato appena sbarcato ha già uno smartphone in mano, e non è cresciuta la qualità della conoscenza media. È aumentato vertiginosamente l'accesso alle fonti, certo, ma quali fonti? Questo è il punto. L'ignorante odierno ha sempre delle fonti da citare, fonti di ignoranza, ma le ha. E ecco quindi il moltiplicarsi di No-vax, di rimedi alternativi alla medicina ufficiale, di santoni e influencer che vendono sostanze bruciagrassi (come un tempo Wanna Marchi) «scientificamente provate», di bufale e fake news in ogni campo, e la scomparsa di qualsiasi autorevolezza. L'ignorante di oggi non sa di non sapere, sa tutto perché ha sempre un link disponibile dove ha letto qualcosa. Il Sessantotto voleva l'immaginazione al potere, grazie alla tecnologia c'è arrivata l'ignoranza, motivo per cui non si leggono più neppure i giornali. Perché mai devo spendere un euro e mezzo per leggere un pensiero di Angelo Panebianco sulla politica internazionale, quando ne ho già uno mio per conto mio, e già che ci sono lo metto su Facebook? È la democrazia dell'ignoranza, sarà per questo che la scienza per fortuna non è democratica, altrimenti il Sole girerebbe ancora intorno alla Terra (eppure, dopo millenni, grazie a internet sono tornati perfino i Terrapiattisti). Non per altro il chimico Dario Bressanini, che vuole smentire una serie di bufale su presunti cibi «cancerogeni» diffusi da uno youtuber che si chiama Infinito, ha centomila iscritti, mentre questo signor Infinito ne ha un milione. Se andassimo alle elezioni, Infinito sarebbe ministro. È ignoranza mista ad arroganza, come ha sintetizzato Roberto Burioni (tacciato a sua volta di arroganza da questi nuovi saccenti ignoranti): «In questo mondo incredibile chi studia trent'anni prima di parlare è un arrogante, chi consulta internet per 5 minuti è un cittadino informato». Che è poi quello che aveva detto Doctor House. Ma forse, la nuova ignoranza saccente non è solo disinformazione, o informazione sbagliata. Richard Dawkins, per esempio, era molto ottimista, ed era convinto che quella gran parte della popolazione che ancora non crede alla teoria dell'evoluzione (non c'è bisogno di crederci, è un fatto, e il più vasto programma di ricerca scientifico mai realizzato, da Darwin al Dna), fosse semplicemente ignorante. Dopo due anni di convegni e incontri con il pubblico cambiò radicalmente idea: «Non è solo ignoranza, è anche stupidità».

10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dalla scienza. Un professore americano di sesso e psicologia, grazie a un blog di successo, demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie, scrive Emma Desai il 29 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". A conclusione del mese dedicato all’apertura e al dialogo legato ai vari Gay Pride, in tutto il mondo, resta ancora una questione aperta, incompresa, e oggetto di fantasiose leggende e incredibili miti: la sessualità LGBT. Justin J. Lehmiller, professore americano di psicologia, specializzato in sessualità e docente al Kinsey Institute dell’Università dell’Indiana ha iniziato nel 2011 un blog di grande successo, chiamato semplicemente Sex & Psychology (sesso e psicologia) con queste esatte premesse: eliminare gli stereotipi legati alla sessualità, anche e soprattutto di genere. «Volevo creare uno spazio digitale dove le persone potessero imparare qualcosa sugli ultimi risultati scientifici riguardanti sesso, amore e relazioni», ci racconta il dottore Lehmiller, che in questi giorni sta per pubblicare il suo prossimo libro Tell me what you want: the science of sexual desire and how it can help you improve your sex life (Dimmi quello che vuoi: la scienza del desidero come migliorare la propria vita sessuale).

Il professore e il blog. «La ricerca in ambito sessuale è spesso mal rappresentata e oggetto di sensazionalismo sui media, per questo motivo volevo stabilire uno spazio nel quale il pubblico potesse accedere a informazioni scientifiche in modo responsabile, e mediate da un uomo di scienza» aggiunge. Le sue ricerche spaziano dalle fantasie da letto al sesso occasionale, fino al tema delle relazioni extraconiugali. «Ho capito nel tempo che i blog sono molto utili ed efficaci per tradurre la ricerca per il grande pubblico che può realmente usare per migliorare la propria vita sessuale e le proprie relazioni».

Sfatare i miti. Lo scienziato, fin dall’inizio della sua avventura digitale, ha scelto in particolare di lavorare su miti e leggende legate all’orientamento sessuale, sfatandoli a suon di ricerche scientifiche. «Basandomi sulle domande che mi sono state poste dagli studenti nel corso delle mie lezioni universitarie, ma anche sui quesiti che mi sono arrivati via email dai lettori, mi sono reso conto che quella dell’orientamento sessuale è un’area dove le persone hanno ancora in mente una serie di stereotipi straordinariamente approssimativi, oppure una serie di false credenze» ci racconta Lehmiller. «Per fortuna, d’altro canto, cresce il numero di studi scientifici legati proprio a quest’area, studi che possono essere usati per aiutare a correggere una serie di luoghi comuni e fraintendimenti che, oltretutto, possono essere pericolosi».

Ecco quindi nella nostra gallery, i 10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dal dottor Lehmiller sul suo blog.

10 miti sull’orientamento sessuale (sfatati dalla scienza). Lo psicosessuologo americano Justin J. Lehmiller sul suo blog di successo demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie di Justin J. Lehmiller

1. L’omosessualità è contagiosa. Justin J. Lehmiller, professore americano di sesso e psicologia, nel suo blog di successo Sex & Psychology cerca di demolire pregiudizi e luoghi comuni nei confronti dei diversi orientamenti sessuali usando studi scientifici e ricerche universitarie. Ecco il primo dei 10 miti che raccolto in occasione del mese del Gay Pride: Le ricerche non hanno mai avuto successo nel provare che l’attrazione per lo stesso sesso si trasmetta tramite contatto sociale. Al contrario, un recente studio condotto su larga scala ha provato che l’attrazione per lo stesso sesso non si “diffonde” all’interno di un gruppo di adolescenti coetanei. Allo stesso modo un’altra ricerca ha provato che una coppia di genitori gay non ha più probabilità di crescere figli gay di una coppia eterosessuale.

2. Si può “guarire” dall’omosessualità. Le ricerche su soggetti adulti che hanno tentato di cambiare il loro orientamento (tramite pratiche religiose o di altro tipo) hanno dimostrato che questo tipo di trattamenti non sono solo inefficaci ma, spesso, anche potenzialmente dannosi.

3. Se fai “crossdressing” sei gay. Uomini che si vestono con abiti da donna? Gli studi suggeriscono che la maggior parte di loro sono uomini eterosessuali sposati e, nonostante ci siano uomini gay che amino il cosiddetto “crossdressing”, non c’è nessuna relazione tra questa preferenza e l’essere gay.

4. Le lesbiche fanno poco sesso. Questo luogo comune gira da qualche tempo, è arrivato il momento di aggiustarne il tiro. È vero che gli studi condotti sulle coppie lesbiche dimostrano che c’è una tendenza ad avere meno rapporti sessuali rispetto ad altre tipologie di coppie, ma si tratta di un dato che può trarre in errore: è infatti provato che le coppie al femminile dedicano un lasso di tempo più lungo e il livello generale di soddisfazione sessuale, sempre secondo questi studi, non è inferiore a quello di altre coppie.

5. I bisessuali sono gay. Un altro mito da sfatare è quello che vuole i bisessuali come gay che non hanno ancora fatto il loro coming out. Non è così: in alcuni casi potrebbe trattarsi di una bisessualità di transizione, ma questo fatto non annulla l’identità sessuale della persona che si ritiene bisessuale. Inoltre un numero crescente di studi (qui e qui alcune ricerche sul tema) supporta il fatto che la bisessualità sia un orientamento sessuale distinto.

6. I bisessuali sono attratti da tutti. Essere bisessuale significa avere la capacità di sentirsi attratti da uomini e donne, ma non significa che questa attrazione sia ugualmente forte per ciascun sesso. Ad esempio una ricerca sugli uomini bisex ha scoperto che in genere dimostrano maggiore eccitazione nei confronti di un sesso, alcuni nei confronti delle donne, altri degli uomini. Allo stesso modi studi sulle donne bisessuali hanno dimostrato che non ci sono eguali livelli di eccitazione nei confronti di uomini o di donne.

7. Uno fa la moglie, l’altro il marito. Sulle coppie dello stesso sesso, vige lo stereotipo secondo il quale uno dei due partner è necessariamente il “marito”, l’altro la “moglie”. Nonostante questa sia una descrizione diffusa e riproposta dai media per descrivere le coppie dello stesso sesso, la realtà è che le coppie delle stesso sesso sono meno propense delle coppie eterosessuali ad adottare dei ruoli rigidi all’interno della coppia. Gli studi al contrario ci dicono che tendono a condividere potere e responsabilità in modo più equo.

8. I gay fanno soprattutto sesso anale. Un pregiudizio vuole che il sesso anale sia più comune tra gli uomini gay. Eppure questo non si avvicina alla realtà: una ricerca ha infatti evidenziato che sesso orale e masturbazione reciproca sono di gran lunga pratiche più comuni, viceversa gli ultimi dati ci mostrano come il sesso anale sia ormai abbastanza comune tra gli eterosessuali. 

9. Alle lesbiche piacciono le forbici. La posizione delle “forbici”, favorendo una frizione vulvare, è qualcosa che alcune coppie lesbiche praticano, ma gli studi sul tema ci dimostrano che, come in tutte le altre coppie, ci sono una varietà di comportamenti sessuali che appaiono altrettanto comuni tra lesbiche e donne bisessuali, compresi sesso orale e masturbazione reciproca.

10. I genitori gay non sono bravi come gli etero. Un’ampia produzione scientifica ha dimostrato che i bambini crescono bene indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori, inoltre uno studio recente (oltre a provare che il coming out di un ragazzo adottato non abbia alcuna relazione con l’orientamento dei suoi genitori adottivi) ha evidenziato che le coppie dello stesso sesso sono più propense ad adottare anche bambini problematici e con disabilità, rispetto alle coppie etero.

Sesso, ecco le bufale più comuni. Smascherate le bufale più comuni sul sesso, che si diffondono facilmente anche grazie ai social: ecco quali sono le leggende a cui non credere, scrive Maria Rizzo, Martedì 19/06/2018, su "Il Giornale". Di bufale sul sesso, o meglio false credenze e miti da sfatare che non aiutano a vivere appieno la sessualità, ne sono nate parecchie sin dalle origini dell'uomo. Eppure negli ultimi tempi il Web, complici anche i social network, ha contribuito a diffonderle in maniera incontrollata. Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha quindi smascherato le falsità più comuni, spiegando esattamente quali siano i fattori a cui credere e quali, invece, dimenticare. La luna, il calendario e la temperatura possono influire sul sesso del nascituro. Nulla di più sbagliato:

Non si può favorire la nascita di un maschio o di una femmina ricorrendo a tecniche non scientifiche;

La masturbazione fa diventare ciechi. Si tratta di un'informazione non veritiera, seppur molto popolare, che trae origine da un opuscolo anonimo del 1712;

L'uso degli assorbenti interni fa perdere la verginità. Il ricorso a normali tamponi igienici non equivale né a un rapporto sessuale, né a una penetrazione: non si corrono quindi rischi sul fronte della verginità;

La sterilità è un problema che interessa principalmente le donne. È una bufala fra le più diffuse, poiché può colpire tanto il genere femminile quanto quello maschile;

Le visite dall'andrologo da giovani sono inutili, se non ci sono sintomi. Dato che gran parte delle patologie che riducono la fertilità non hanno sintomi, la convinzione che non vi sia bisogno di una visita specialistica a qualsiasi età è errata;

Una pillola può porre rimedio all'impotenza in poco tempo. Non è così, occorre una visita specialistica per indagare l'origine e le cause dell'impotenza, così da avviare un trattamento mirato.

Non si può rimanere incinta durante il ciclo mestruale. Un mito fra i più diffusi, tuttavia gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino a una settimana dopo il rapporto, rendendo possibile la fecondazione;

Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. Falso: la perdita della verginità non influisce assolutamente sulla capacità di concepire;

Il coito interrotto previene la gravidanza. Anche in questo caso si tratta un falso mito, perché il liquido pre-eiaculatorio può ugualmente contenere spermatozoi capaci di fecondare l'ovulo;

Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. Il contatto tra sperma o liquidi vaginali e la mucosa della bocca, in realtà, può favorire il contagio;

L'HIV è un problema solo degli omosessuali e di chi si apparta con le prostitute. Il contagio da HIV può colpire tutti, senza adeguate protezioni come il condom. Secondo i dati dell'ISS, negli ultimi 25 anni i casi di infezione tra gli eterosessuali sono infatti notevolmente aumentati. Queste dunque le bufale più comuni sul sesso, a cui è bene non credere, come sottolineato dall'Istituto Superiore di Sanità.

La sterilità riguarda solo le donne: i 10 miti da sfatare sul sesso. «È vero che se ho rapporti sessuali durante il ciclo non posso restare incinta? E che il papilloma virus infetta solo le donne?». Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha smascherato le bufale più diffuse sul web che riguardano la sessualità fornendo spiegazioni scientifiche per capire che cosa è vero e che cosa è falso, scrive Cristina Marrone il 19 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

La sterilità interessa principalmente le donne. FALSO - La sterilità non è un problema solo femminile, ma può colpire tanto l’uomo quanto la donna e riguarda, complessivamente, circa il 15% delle coppie. La sterilità maschile è un importante problema medico e sociale ed è alla base di circa la metà delle cause di sterilità di coppia. Secondo i dati raccolti dalla Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità, in Italia circa 1 uomo su 3 è a rischio di sterilità. Il Registro Nazionale sulla Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto Superiore di Sanità riporta che, tra le coppie che si rivolgono alla procreazione assistita, nel 29,3% dei casi si tratta di sterilità maschile, nel 37,1% di sterilità o infertilità femminile, nel 17,6% di sterilità di entrambi. Bisogna distinguere tra sterilità ed infertilità; la prima indica l’incapacità di concepire, la seconda l’impossibilità di portare a termine la gravidanza. Ma quand’è che si parla di sterilità? L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di sterilità in caso di mancato concepimento dopo un periodo di almeno 12 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti. Le cause, sia maschili che femminili, possono essere molteplici. Tra i principali fattori di rischio comportamentali per entrambi si annoverano il fumo, l’obesità o l’eccessiva magrezza, la sedentarietà o l’eccessiva attività fisica e il doping. Tra le malattie che possono impedire la procreazione, in entrambi i generi, abbiamo in primis le malattie infettive sessualmente trasmissibili. Altre cause patologiche nella donna possono essere le alterazioni tubariche, le malattie infiammatorie pelviche, i fibromi uterini, l’endometriosi e le alterazioni ormonali e ovulatorie, mentre negli uomini abbiamo condizioni che alterano la produzione ormonale e/o la struttura e la funzione del testicolo e le patologie prostatiche.

Ho il flusso mestruale, non posso rimanere incinta. FALSO - È possibile rimanere incinta, anche se non è molto probabile, se si hanno rapporti sessuali durante le mestruazioni. Infatti, gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino ad 1 settimana dopo il rapporto, mantenendo per tutto questo tempo la capacità di fecondare l’ovulo al momento dell’ovulazione. Molte donne sono convinte che praticare sesso durante le mestruazioni le protegga da gravidanze indesiderate. Questa credenza va sfatata. Infatti è possibile concepire anche durante o subito dopo le mestruazioni se si hanno rapporti senza l’uso di metodi anticoncezionali. Ciò è dovuto alla sopravvivenza dello sperma maschile fino a 7 giorni dopo il rapporto sessuale nelle vie genitali femminili. Questo significa che è possibile rimanere incinta se si hanno rapporti sessuali durante il ciclo mestruale e anche poco dopo la fine delle mestruazioni, soprattutto quando il ciclo è breve e l’ovulazione avviene precocemente. È, quindi, essenziale utilizzare metodi anticoncezionali in ogni fase del ciclo mestruale, in modo da scongiurare gravidanze non volute. Inoltre, durante le mestruazioni è più che mai presente il rischio di contrarre infezioni trasmesse per via sessuale per cui è fondamentale avere rapporti protetti utilizzando il preservativo.

Nei giovani la visita dall’andrologo è inutile se non ci sono sintomi. FALSO - Gran parte delle patologie che riducono la fertilità sono asintomatiche; questa assenza di segnali da parte del proprio organismo porta molti giovani ragazzi alla convinzione che non sia importante verificare la propria fertilità prima che emerga qualche problema evidente. Questo ritardo nella diagnosi può far perdere tempo prezioso durante il quale si potrebbero curare, con successo, molte delle condizioni che causano sterilità. Le malattie del testicolo sono le più frequenti cause di sterilità. In particolare, il ben noto varicocele colpisce 1 uomo su 5 nel nostro Paese ed è diagnosticato in quasi la metà degli uomini infertili. Altre problematiche che si riscontrano con frequenza crescente sono il criptorchidismo, cioè la mancata discesa del testicolo nello scroto durante lo sviluppo fetale, i tumori testicolari e le infiammazioni delle vie genitali. Visti i crescenti problemi di fertilità in Italia (circa 1 coppia su 5 ha difficoltà a concepire un figlio), è importante che i giovani uomini superino il timore di sottoporsi alla visita andrologica che permette di identificare e risolvere molte delle problematiche citate. Durante la visita, il medico andrologo approfondisce la storia della persona focalizzandosi sulle abitudini di vita, la storia familiare e le eventuali malattie già presenti; se lo ritiene opportuno procede con alcuni esami di approfondimento come lo spermiogramma (che studia la quantità e il funzionamento degli spermatozoi) o l’ecografia ed, infine, imposta un percorso di cura. La fertilità va costruita fin da giovani!

Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. FALSO - Anche se è alla sua prima volta una donna può rimanere incinta; infatti, la condizione di “prima volta” non influisce assolutamente sulla capacità di concepire un figlio. Una volta che una donna ha iniziato ad ovulare (mese precedente alla prima mestruazione) ogni rapporto sessuale può finire in una gravidanza. Soprattutto tra gli adolescenti è diffusa la falsa credenza che una donna non possa rimanere incinta la prima volta che ha un rapporto sessuale. Lo conferma anche il National Health Service inglese che ribadisce la possibilità per una donna, che abbia già iniziato ad avere mestruazioni, di poter concepire un bambino anche se è la prima volta che fa sesso. Se si vogliono evitare gravidanze indesiderate è importante usare, fin dal primo rapporto, metodi anticoncezionali; è fondamentale parlarne con il proprio partner ed assicurarsi di utilizzarli correttamente. Inoltre, è essenziale, fin dalla prima volta, proteggersi contro le infezioni sessualmente trasmesse, avendo sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo. È fondamentale, anche, che ogni donna, prima di iniziare ad avere rapporti sessuali, si rivolga ad un ginecologo che le comunicherà tutte le informazioni di cui ha bisogno.

Il papilloma virus infetta solo le donne. FALSO - Attualmente si stima che fino al 65-70% dei maschi contrae un’infezione da papilloma virus durante la vita. Nelle donne il picco di infezioni si ha verso i 20-25 anni, mentre negli uomini non c’è un’età maggiormente colpita. Molti ragazzi pensano che l’infezione da papilloma virus (HPV) non li riguardi e che sia un problema solo delle loro coetanee. Non è così! Questo falso mito è stato alimentato dal fatto che in molti paesi l’attenzione si è focalizzata sulla popolazione femminile in quanto l’HPV causa il tumore della cervice uterina; ma l’HPV causa anche i condilomi ano-genitali, i tumori ano-genitali e i tumori della testa-collo, sia negli uomini che nelle donne, trasmettendosi generalmente attraverso rapporti sessuali non protetti. In Italia, uno dei sistemi di sorveglianza sentinella dell’Istituto Superiore di Sanità per le infezioni sessualmente trasmesse mostra la grande diffusione di condilomi ano-genitali nei maschi, soprattutto tra i giovani con meno di 25 anni, con un aumento preoccupante negli ultimi anni (il numero di casi è duplicato tra il 2004 e il 2015) . Negli uomini i condilomi ano-genitali sono la manifestazione più frequente dell’infezione da HPV; tuttavia, anche se più rari, l’80-95% dei tumori anali, almeno il 50% dei tumori del pene e il 45-90% dei tumori della testa e del collo, nell’uomo sono associati all’HPV. Spesso le persone con un’infezione da HPV non mostrano sintomi particolari ma possono trasmettere il virus HPV al proprio partner. Per questo è indispensabile proteggersi attraverso l’uso del preservativo nei rapporti sessuali con un partner che non abbia fatto il test per HPV. Nel nostro paese l’offerta pubblica gratuita della vaccinazione contro l’HPV è rivolta sia alle femmine che ai maschi di 12 anni.

Il varicocele non serve trattarlo da piccoli. FALSO - Il varicocele ha una influenza negativa sia sulla crescita che sulla futura funzione del testicolo per cui, anche quando non ci sono le indicazioni al trattamento chirurgico, è opportuno effettuare controlli andrologici periodici. Con il termine varicocele si intende la dilatazione delle vene del testicolo. Essa è una delle più frequenti patologie dell’apparato genitale maschile e si osserva, quasi esclusivamente, nel periodo prepuberale e puberale (11-19 anni). Il trattamento di questa patologia è chirurgico e viene eseguito solo in particolari condizioni quali: presenza di dolore e/o senso di peso, ridotte dimensioni del testicolo colpito, varicocele palpabile o visibile (3° e 4° grado) o quando, terminato lo sviluppo puberale, si accerta un’alterazione della fertilità. L’incidenza del varicocele varia dal 2 al 15% nei bambini in età scolare e nel 93% dei casi interessa il testicolo sinistro, per struttura anatomica del sistema venoso. Le cause del varicocele sono molteplici: nelle forme primarie, probabilmente una debolezza congenita delle pareti venose associata ad incontinenza delle valvole, mentre, più raramente come accade nel varicocele secondario, una compressione della vena renale. Questa patologia è una causa importante, ma reversibile di ipofertilità o infertilità. Probabilmente il danno cellulare è dovuto alla lunga stasi venosa a cui conseguono accumulo di sostanze tossiche, riduzione dell’ossigeno disponibile e aumento della temperatura locale.

Sono impotente...ho bisogno della «pillolina»! Le cause dell’impotenza possono essere molto diverse: di tipo fisico (malattie endocrine, vascolari, neurologiche, diabete etc.) o psicologico (ansia, depressione, stress etc.) o di ambedue i tipi. È questa la motivazione per cui l’uso dei farmaci non è sempre la soluzione migliore; va, invece, identificata la terapia giusta eliminando anche eventuali fattori di rischio. Molti uomini pensano che, facendosi prescrivere un farmaco o addirittura prendendolo senza aver consultato un medico, possano porre rimedio alla propria impotenza in poco tempo, senza modificare il proprio stile di vita e senza sottoporsi ad accertamenti ulteriori: questo mito è falso. Nell’impotenza di origine psicologica è, infatti, indicata la psicoterapia, utile a identificare ansie personali o conflitti della coppia che possono aver causato questo deficit. In questo caso l’uso dei farmaci è richiesto solo se il disturbo è associato a specifiche condizioni, per esempio in presenza di depressione. Nei casi di impotenza di origine fisica o legata a problemi endocrini, invece, è indicato l’uso di farmaci. Oltre a questo, però, è importantissimo modificare anche alcuni fattori di rischio come il fumo, l’abuso di alcol, l’uso di droghe, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’obesità. È fondamentale, quindi, che ogni uomo con impotenza si rivolga al proprio medico prima di iniziare a prendere qualsiasi tipo di «pillolina» che, come ogni farmaco, può presentare effetti collaterali e provocare disturbi di vario tipo, soprattutto cardiaci.

Ormai non ci si ammala più di Aids. FALSO - I dati del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) mostrano come, nel 2016, si siano registrati circa 800 nuovi casi di AIDS e 4000 nuove infezioni da HIV che, aggiunti a quelli già presenti, portano a circa 130.000 il numero totale delle persone sieropositive in Italia. Da qualche anno, complici anche i media che ne parlano poco o in maniera sbagliata, si è diffusa la falsa credenza che nessuno si ammali più della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS). L’ultimo rapporto dell’ISS demolisce questo mito: l’HIV (virus che causa l’AIDS) è molto diffuso in Italia, principalmente attraverso rapporti sessuali (sia eterosessuali che omosessuali) non protetti. Infatti, i tempi in cui l’AIDS era dovuto allo scambio di siringhe tra tossicodipendenti è finito (erano gli anni ‘80 e ‘90): oggi il vero rischio si corre quando si ha un rapporto sessuale senza usare il preservativo. Oggi ci sono dei farmaci (antiretrovirali) che fortunatamente rallentano il progredire della malattia ma non la guariscono: l’AIDS rimane una malattia letale. Per evitare di ammalarsi di AIDS, malattia che indebolisce il sistema immunitario provocando gravi infezioni, polmoniti, meningiti e tumori, è importantissimo scongiurare di infettarsi con l’HIV avendo sempre rapporti sessuali protetti ed evitando comportamenti a rischio, come lo scambio di siringhe con altre persone. Prima di sviluppare i sintomi dell’AIDS, una persona sieropositiva rimane asintomatica per molti anni e quindi non è possibile capire se è infetta. Per questo molte persone che sono sieropositive non hanno ancora scoperto d esserlo perché non hanno fatto un test per l’HIV. Ecco perché è così importante usare sempre il preservativo quando si hanno rapporti sessuali con partner di cui non conosciamo il risultato del test HIV. In caso di rapporto sessuale senza preservativo o di altri comportamenti a rischio, è indispensabile sottoporsi al test specifico per l’HIV che si effettua attraverso un normale prelievo di sangue. Per eseguire il test, nella strutture pubbliche, non serve ricetta medica. Il test è gratuito e anonimo Il Servizio Sanitario Nazionale, per le persone positive al test HIV, prevede un’assistenza medica gratuita e una tempestiva terapia farmacologica che permette, oggi, di vivere meglio e più a lungo.

Non posso rimanere incinta con il coito interrotto. FALSO - Anche con il coito interrotto è possibile rimanere incinta poiché il liquido pre-eiaculatorio, emesso prima dell’orgasmo, può ugualmente fecondare l’ovulo femminile; inoltre, è bene ricordare che questa pratica non protegge dalle infezioni sessualmente trasmesse. Ancora oggi molte coppie sono convinte che interrompere la penetrazione poco prima dell’eiaculazione sia un metodo efficace per evitare una gravidanza: questa convinzione non ha riscontri su base scientifica. In questi casi il rischio di una gravidanza è legato alla presenza di spermatozoi nelle secrezioni che precedono l’eiaculazione durante un rapporto sessuale. Questa piccola quantità di spermatozoi è in grado di fecondare un ovocita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che la percentuale di donne che ha avuto una gravidanza indesiderata impiegando il metodo del coito interrotto durante il primo anno di utilizzo, varia dal 4 al 27% a seconda dell’attenzione che si ha nel praticarlo. Inoltre, questo tipo di pratica anticoncezionale non evita la trasmissione di batteri e virus per via sessuale che sono contenuti nel liquido pre-eiaculatorio. È, quindi, importante avere sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo invece di affidarsi al coito interrotto.

Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. FALSO - Anche i rapporti orali presentano un rischio di trasmissione di malattie sessuali a causa del contatto tra lo sperma o i liquidi vaginali e la mucosa della bocca. Molte persone sono convinte che, avendo solo rapporti orali, siano protette dalle infezioni trasmesse per via sessuale: questo è un altro falso mito! È vero che questo tipo di rapporto presenta un rischio di contagio inferiore rispetto a quello vaginale o anale, ma l’HIV o la sifilide, per esempio, possono essere trasmessi attraverso il contatto della mucosa della bocca con lo sperma o i liquidi vaginali. Questo rischio aumenta se ci sono delle piccole ferite o lesioni (anche non visibili a occhio nudo) sui genitali o nella bocca, oppure se ci sono alterazioni gengivali o sanguinamento gengivale: in questi casi lo sperma o il liquido vaginale (infetti) entrano in contatto diretto con le ferite aperte presenti in bocca ed i microrganismi possono così infettare chi ha praticato il rapporto orale. Anche le altre infezioni sessualmente trasmesse, come la gonorrea, l’epatite B, l’herpes genitale e l’infezione da papilloma virus, possono diffondersi attraverso il sesso orale mediante gli stessi meccanismi. In particolare, se il papilloma virus infetta la bocca o la gola può causare delle lesioni che possono evolvere in cancro della bocca, del collo o della faringe. Per tutti questi motivi, tale pratica sessuale non è certamente da considerarsi sicura, soprattutto se compiuta con partner che non abbiano effettuato uno screening completo per le infezioni sessualmente trasmesse. Anche durante questa pratica è, quindi, importante utilizzare metodi di protezione, come il preservativo o i dental dam (sottilissimi fogli in lattice) che impediscono il contatto tra lo sperma, i liquidi vaginali, il sangue e la mucosa della bocca.

Mal di testa: dieci miti da sfatare, scrive Laura Cuppini il 9 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Esistono vari tipi di mal di testa, con manifestazioni e terapie diverse. La prima distinzione è tra cefalee primarie e cefalee secondarie. Nelle primarie (emicrania, cefalea tensiva e cefalea a grappolo) il dolore alla testa è esso stesso malattia; nelle secondarie, invece, è uno dei sintomi con cui si manifestano altre malattie (per esempio l’influenza o patologie gravi come le encefaliti). La forma di cefalea primaria più diffusa tra i bambini è l’emicrania, che in Italia colpisce oltre 8 bambini e ragazzi su 100. Ecco dieci leggende (false) che circolano sul mal di testa.

«Il mal di testa riguarda solo gli adulti». Falso: può presentarsi a qualsiasi età. Anche nei primi mesi di vita si possono manifestare dei sintomi - come le coliche infantili - riferibili all’emicrania. In Italia un bambino/adolescente su dieci è colpito da una qualche forma di mal di testa.

«Ha origine psicologica». Il mal di testa, quando è espressione di una cefalea primaria, è legato a una predisposizione costituzionale. I fattori psicologici devono essere presi nella dovuta considerazione, soprattutto nei casi particolarmente gravi (perché possono peggiorare i sintomi) ma le cause dell’emicrania o della cefalea tensiva, è fondamentale ricordarlo, sono di tipo organico.

«Dipende da problemi alla vista». Il mal di testa non è sintomo di difetti della vista, non ci sono legami diretti. In ogni caso la visita oculistica viene fatta per la valutazione del fondo oculare: un esame necessario per individuare un’eventuale ipertensione endocranica.

«È un effetto della sinusite». La sinusite non è un problema che riguarda i bambini più piccoli di 8 anni, perché i seni nasali non sono ancora anatomicamente sviluppati. Eventuali diagnosi di sinusite associata a mal di testa (e conseguenti cure con aerosol) prima di questa età rischiano quindi di essere errate. Anche dopo gli 8 anni, i casi di cefalea associata in maniera esclusiva alla sinusite sono pochissimi (1-2%).

«Non serve uno specialista». Il mal di testa non è una cosa “innocua”, anzi può essere un campanello di allarme per altre patologie. In molti casi il problema può essere gestito dal pediatra, ma - se è bene non allarmarsi per un singolo episodio - bisogna affrontare correttamente le cefalee che, per assiduità e intensità, interferiscono con la vita quotidiana. I bambini con mal di testa frequenti che rispondono poco alle terapie antidolorifiche devono essere visitati in un Centro specializzato.

«Bisogna abituarsi al dolore». Le cefalee si possono e si devono curare per alleviare il dolore e ridurre l’effetto disabilitante. Mal di testa non adeguatamente trattati possono comportare la sensibilizzazione delle aree del cervello deputate all’elaborazione del dolore, che in questo modo cominceranno a interpretare come dolore anche i segnali di tipo non doloroso. Di conseguenza può aumentare la frequenza degli attacchi e il disturbo rischia di diventare cronico.

«Puoi curarlo da solo». Le terapie devono essere sempre impostate e seguite sotto controllo medico. Sbagliare il dosaggio degli antidolorifici o assumerne più di 15 dosi mensili può portare alla cronicizzazione del mal di testa. È sbagliato anche dare ai bambini una quantità ridotta di farmaco rispetto a quella adeguata al peso e prescritta dal medico: il rischio è che l’antidolorifico non risulti efficace e che il genitore sia costretto, al ripresentarsi del dolore, a somministrare più dosi del dovuto.

«Bastano gli integratori». Vengono spesso prescritti al posto dei farmaci, ma ad oggi non esistono evidenze scientifiche sull’efficacia degli integratori a base di erbe per la cura del mal di testa. Ci sono invece studi che confermano l’elevata efficacia dell’effetto placebo in età pediatrica (fino al 60% tra i bambini con cefalea). Effetto placebo non significa “ingannare”, bensì stimolare con un meccanismo psicologico la produzione di sostanze con proprietà analgesiche: le endorfine. In molti casi, alla somministrazione di una sostanza inerte (senza principio attivo), il corpo dei bambini risponde producendo naturalmente sostanze antidolorifiche.

«Un farmaco vale l’altro». Gli antidolorifici hanno effetti diversi a seconda del principio attivo di cui sono composti. In Italia è molto comune l’uso del paracetamolo, tuttavia il farmaco di prima scelta per tenere sotto controllo il mal di testa è l’ibuprofene, molecola con maggiori evidenze di efficacia documentate in letteratura scientifica.

«Il mal di testa non si può prevenire». Falso: le possibilità di prevenzione esistono, sia di tipo farmacologico che non farmacologico (stili di vita). Condurre una vita regolare evitando l’esposizione a temperature estreme, sovraccarichi di stress, alterazioni del ritmo sonno-veglia e dormendo un adeguato numero di ore, tiene sotto controllo la frequenza degli attacchi di mal di testa.

Ictus, i dieci miti da sfatare, scrive Paola Arosio il 27 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Ictus è una parola latina, che significa «colpo». Perché arriva proprio così, senza preavviso. «Si tratta di un danno cerebrale che si verifica quando l’afflusso di sangue diretto al cervello si interrompe improvvisamente per la chiusura di un’arteria o quando un’arteria cerebrale si rompe determinando un’emorragia», spiega Gianfranco Parati, direttore dell’Unità operativa di Cardiologia all’ospedale San Luca - Istituto auxologico italiano di Milano, professore ordinario di Malattie cardiovascolari all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Società italiana dell’ipertensione arteriosa (Siia). In Italia, la malattia interessa ogni anno oltre 200mila persone e costituisce la terza causa di morte dopo le patologie del cuore e i tumori. Nonostante ciò, continuano a circolare sul suo conto leggende metropolitane infondate, che hanno il nefasto effetto di ostacolare la prevenzione, il trattamento, la riabilitazione. In occasione della Giornata mondiale contro l’ictus, che si celebra il 29 ottobre ed è promossa dalla World stroke organization, ecco le dieci leggende da sfatare.

Esiste un solo tipo di ictus. Falso. Ce ne sono due tipi:

ictus ischemico: si verifica in circa l’80% dei casi. Si genera quando, all’interno di un’arteria cerebrale, si forma un coagulo di sangue, il trombo, che restringe il vaso sanguigno, limitando, e in alcuni casi impedendo, la circolazione del sangue;

ictus emorragico: è la forma più grave, potenzialmente fatale. In questo caso, si rompe la parete di un vaso sanguigno «debole» e il sangue si diffonde nelle zone del cervello circostanti.

L’ictus colpisce solo gli anziani. Falso. Pur essendo una malattia più frequente negli over 65, può colpire anche i giovani e, a volte, i bambini. Annualmente si verifica un caso di ictus giovanile (sotto i 45 anni) ogni 10mila persone e, secondo i dati più recenti, queste cifre risultano in costante aumento, soprattutto a causa di comportamenti errati come fumo, alimentazione ricca di cibi grassi e salati, scarsa attività fisica, abuso di alcol.

Le donne che assumono la pillola contraccettiva sono ad alto rischio. Questo è solo parzialmente vero. «Secondo i ricercatori della Loyola University, che hanno pubblicato un rapporto su MedLink Neurology, ogni 100mila donne in età fertile si registrano 4,4 ictus ischemici. La pillola aumenta il rischio di 1,9 volte, facendo salire l’incidenza a 8,5 ictus ogni 100mila donne: cioè una donna ogni 24mila che prendono la pillola. Si tratta dunque di un rischio abbastanza basso - chiarisce Parati -. Il rischio aumenta però in maniera significativa nelle donne con età maggiore di 35 anni, fumatrici, con ipertensione arteriosa o con emicrania, che assumono una pillola ad alto contenuto di estrogeni. Secondo gli autori dello studio, queste donne dovrebbero essere dissuase dall’utilizzo dei contraccettivi orali. La pillola non sembra, invece, in grado di aumentare il rischio di ictus emorragico».

La terapia ormonale sostitutiva dopo la menopausa protegge dall’ictus. Falso. «Contrariamente a quanto si pensava alcuni anni fa, la terapia ormonale sostitutiva post menopausale non ha un effetto protettivo sul rischio di ictus, ma può addirittura avere un effetto peggiorativo - specifica Parati -. È quindi importante che queste terapie vengano personalizzate, valutando il profilo complessivo di rischio della donna che le deve assumere».

Fare il pieno di vitamina D tiene alla larga l’ictus. Falso. Ad avere un effetto protettivo sono soprattutto omega 3, fibre, vitamine B6 e B12, calcio e potassio, che, attraverso la regolazione della pressione arteriosa, diminuiscono il rischio di ictus. Ciò che conta è comunque avere un’alimentazione varia ed equilibrata e in particolare:

1) mangiare pesce almeno due volte alla settimana, soprattutto salmone, pesce spada, pesce azzurro, trota;

2) portare in tavola almeno cinque porzioni di verdura/frutta al giorno;

3) limitare il consumo di sale;

4) ridurre l’assunzione di grassi e di condimenti di origine animale, preferendo quelli di origine vegetale, come l’olio di oliva;

5) bere non più di un paio di bicchieri di vino al giorno.

Il sintomo più comune dell’ictus è il mal di testa. Falso. Il dolore al capo contraddistingue il 30% circa degli episodi. Nel restante 70% dei casi, può succedere di non riuscire più a muovere un braccio, una gamba o entrambi gli arti dello stesso lato del corpo, avere la bocca storta, non vedere bene, far fatica a parlare e camminare, non essere in grado di coordinare i movimenti e stare in equilibrio.

In caso di sospetto ictus si può chiamare la guardia medica o il medico di famiglia. Falso, perché si perde tempo. Occorre invece contattare subito il 118, spiegando con chiarezza cosa sta accadendo. «L’ictus è un’emergenza - avverte Parati -, perciò la persona con sospetto attacco deve essere trasportata con urgenza in ospedale, precisamente nei centri organizzati per contrastare con efficacia l’evento, in quanto dotati di Unità di emergenza per ictus, chiamate anche Stroke Unit. In questi reparti è disponibile un team di professionisti (medici, infermieri, fisioterapisti) che conoscono bene il problema e sono in grado di trattare il paziente nel miglior modo possibile».

Per curare l’ictus non ci sono farmaci. Falso. Le cure, anche farmacologiche, esistono. «È importante innanzitutto verificare, tramite una Tac, se si tratta di un ictus ischemico o emorragico perché l’approccio terapeutico è diverso - spiega Parati -. Nel primo caso si somministrano, in genere per via endovenosa, farmaci trombolitici (o fibrinolitici), che permettono la dissoluzione del trombo che ostruisce l’arteria, ripristinando il circolo sanguigno. Una terapia efficace, che deve, però, essere somministrata entro quattro ore e mezza dalla comparsa dei sintomi. Da qui l’importanza della tempestività dei soccorsi. Inoltre, da circa un anno è stata introdotta una nuova procedura, la trombectomia meccanica, ovvero l’aspirazione o la rimozione del trombo dall’arteria attraverso micro-cateteri e altri piccolissimi strumenti. Il trattamento dell’ictus emorragico è più complesso: si punta innanzitutto a controllare la pressione arteriosa, l’emorragia e l’ematoma cerebrale. Solo in alcuni casi è necessario un intervento chirurgico».

Dopo il primo ictus ne arriva spesso un altro. Falso. Il secondo ictus si verifica solo nel 10% dei casi, ma ciò non significa che si può abbassare la guardia. Per evitare una recidiva è fondamentale, oltre ad adottare corretti stili di vita, effettuare almeno due volte all’anno le visite di controllo dal neurologo e da altri specialisti, come il cardiologo, ed eseguire gli esami richiesti, come ecocolordoppler dei vasi del collo, doppler transcranico, ecocardiogramma. «In caso di ipertensione arteriosa - aggiunge Parati -, occorre verificare il raggiungimento di un regolare controllo della pressione con una terapia che copra in modo omogeneo le 24 ore, riducendo anche la variabilità dei valori pressori».

Dopo tre mesi non è più possibile il recupero. Falso. Il recupero dopo un ictus è un processo lungo e impegnativo, che può dare risultati anche a distanza di sei-otto mesi. Perciò, da un lato, è importante non scoraggiarsi, dall’altro avere la consapevolezza che non sempre è possibile “tornare come prima”. «Il grado di recupero dipende da vari fattori, come l’area cerebrale colpita, la gravità del danno, l’età e lo stato di salute del malato - avverte Parati -. Alcuni pazienti arriveranno perciò a una completa guarigione, altri dovranno invece fare i conti con un deficit residuo». In ogni caso è utile effettuare con costanza la riabilitazione che, in un primo momento, si svolgerà in ospedale con il supporto di fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, e poi dovrà continuare a casa.

Cecità: 8 falsi miti da sfatare, scrive "Il Corriere della Sera" il 13 dicembre 2017. Il 13 dicembre è la Giornata Nazionale del Cieco, un’occasione per evidenziare la difficile quotidianità che oltre 300 mila ciechi e 1,5 milioni di ipovedenti devono affrontare. L’Unione Ciechi sfata 8 falsi miti.

Il linguaggio: qual è il termine corretto? «Cieco» o «non vedente» o «privo della vista»? Meglio dire «cieco» che «non vedente». I termini utilizzati non cambiano la realtà di chi vive una situazione di minorazione sensoriale, né contribuiscono a ridurre lo svantaggio potenziale. MA può integrare. È per questo che l’associazione che riunisce le persone che convivono con questo handicap, da sempre, si chiama «Unione Italiana Ciechi (e ipovedenti)». Venne fondata a Genova il 26 ottobre 1920 da Aurelio Nicolodi, il primo ufficiale che perse la vista durante la Grande Guerra. Più che ricorrere ai giri di parole è fondamentale garantire a tutti uguali diritti e pari opportunità.

A scuola. Capita ancora oggi di leggere la celebrazione del successo di una studentessa non vedente che si è laureata. La laurea di una persona non vedente fa ancora notizia? Uno studente con disabilità visiva, se messo nelle condizioni giuste, può seguire un normale iter scolastico senza per questo essere considerato «un fenomeno».

Tecnologia. Le nuove tecnologie hanno decisamente migliorato la vita delle persone con disabilità visiva. Un cieco può facilmente leggere e inviare un sms, scrivere una mail, navigare su internet, e molto altro. E lo può fare in totale autonomia, grazie all’utilizzo di software accessibili che permettono per esempio, la riproduzione vocale dello schermo. Se il criterio per individuare un falso cieco è l'uso di uno smartphone, la strada da percorrere per riconoscere a tutti uguali diritti è ancora lunga.

Sport. L’attività sportiva è ancora più importante per una persona con disabilità visiva. È fondamentale per accrescere l’autostima e le relazioni sociali, per orientarsi e muoversi nello spazio. Oltre agli sport dedicati (torball, calcio a 5...), i ciechi praticano molte altre attività fisiche: atletica leggera, judo, nuoto, sci di fondo e talvolta anche alpino, tiro con l'arco, potendo annoverare anche atleti paralimpici in alcune di queste discipline.

L'affettività. Se l’uomo che sposa una non vedente è un santo, la donna che sposa un cieco è la sua badante. Passerà la sua vita nuziale nella paziente cura del marito non vedente. Di fronte a questi matrimoni, il gossip è alimentato dalla domanda: ma perché avrà sposato proprio un non vedente? Si amano. Quest’affermazione non è ancora fra le risposte.

La vita di tutti i giorni. Una persona non vedente può anche occuparsi, pressoché in autonomia, della cura delle persone e della casa, dei figli seguendoli nei compiti e nei giochi, cucinare e svolgere molte altre attività tra le mura domestiche. Non diciamo nulla di nuovo quando ricordiamo l’episodio di una persona non vedente che è stata tacciata come falsa invalida perché «sorpresa» a stendere i panni sul balcone. Non è un falso cieco chi tira fuori la chiave e apre la porta di casa, come non lo è chi pianta un ombrellone sulla spiaggia o stende i panni sul balcone.

Lavoro. Il lavoro come diritto e come opportunità è l’unica strada da percorrere per una vera emancipazione civile e per un’effettiva indipendenza delle persone con disabilità visiva. Ma oggi in Italia per i ciechi e gli ipovedenti il lavoro è diventato un’emergenza assoluta: sono oltre il 75 per cento le persone con disabilità visiva disoccupate o in cerca di occupazione, una percentuale che aumenta ulteriormente se si parla di giovani. Le professioni che i ciechi possono praticare non sono solo quelle di centralinista o massofisioterapista, ma se un lavoratore con disabilità visiva ha a disposizione gli strumenti necessari, può svolgere molte più professioni qualificate di quelle che ci si immagina.

L'opinione dell'Uici. «Per chi non ha contatti con persone cieche o ipovedenti risulta ancora difficile pensare a loro come soggetti che lavorano, vanno al cinema e a teatro, hanno famiglia, accudiscono casa - sottolinea Mario Barbuto, presidente Uici -. In questa ricorrenza diventa importante sottolineare che i diritti dei ciechi sono uguali a quelli di tutti, cambiano solo le modalità con cui vengono esercitate, come per esempio nello studio, che necessita della presenza di determinati ausili affinché questo diritto sia praticabile. Lo stile di vita delle persone cieche e ipovedenti è cambiato significativamente negli ultimi anni soprattutto grazie allo sviluppo della tecnologia, ma questo non è sufficiente a garantire la loro inclusione sociale; per questo è necessaria una trasformazione culturale, che renda la nostra società davvero accessibile a tutti».

Donazione di sangue. Cinque miti da sfatare, scrive Luigi Ripamonti il 14 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Un buon modo per celebrare la giornata nazionale della donazione di sangue può essere quella di smentire alcune fake-news (come si dice adesso) che circolano da quando esiste questa civilissima pratica.

Mito 1: Prendono il sangue anche a chi non dovrebbero. Se qualcuno ha paura che gli vogliano “succhiare il sangue” a suo detrimento si rassicuri: diventare donatori di sangue non è facilissimo, è necessario avere precise caratteristiche corporee (età, peso, altezza), quindi nessuno viene privato di plasma e globuli rossi se il suo fisico non è in grado di sopportarlo. Senza contare che bisogna anche avere esami “a posto” e abitudini di vita adeguate. Quindi, già il fatto che ci si debba sottoporre a una specie di check-up gratuito significa che nessuno si approfitta dei donatori, e anzi, si preoccupa che siano sani e di mantenerli tali il più a lungo possibile.

Mito 2: Dopo la donazione si rimane deboli. Quanto all’indebolimento chiariamo subito che a nessuno viene tolto “troppo” sangue. Quello che viene estratto si rigenera in poco tempo: dopo la donazione la concentrazione di globuli bianchi e delle piastrine non è sostanzialmente diversa rispetto a prima. Il corpo può avvertire la perdita della parte liquida del sangue, che però è molto esigua rispetto al totale. E comunque il rimedio scatta in tempo reale. Prima ancora di sfilare l’ago, l’organismo ha già organizzato una strategia di compensazione per cui fluidi che sono fuori della circolazione vengono fatti confluire nei vasi. Intanto il calibro dei vasi si restringe per riflesso e quindi scatta un altro sistema di adattamento. Infine, dopo il prelievo si beve e si comincia a contribuire attivamente al “recupero”. Senza contare che, poco dopo, si attivano meccanismi a livello renale e del midollo osseo che fanno aumentare notevolmente la produzione di sangue e dei suoi componenti.

Mito 3: Donando sangue si mette a rischio la salute. È provato che chi compie questo gesto con regolarità gode di buona salute perché viene controllato periodicamente (e quindi avvertito in tempo di eventuali problemi senza pericolo che li trascuri). Non solo, per essere accettati tra i donatori (e “passare” l’esame rappresentato dai controlli periodici prima di stendersi sulla poltrona dei prelievi) si è invogliati a mantenere uno stile di vita sano, e anche questo “fa stare meglio”. Infine, donare sangue è un bel gesto, che accresce l’autostima.

Mito 4: Sui fa allarmismo sulla carenza. Di sangue c’è molto bisogno perché la richiesta non cessa mai, sostenuta com’è, solo per fare qualche esempio, dall’aumento dell’età media della popolazione (col relativo corredo di patologie), dall’incremento del numero di trapianti e di altri interventi chirurgici importanti (che possono facilmente richiedere trasfusioni), dagli incidenti stradali eccetera. La raccolta di sangue riveste quindi un ruolo cardinale per l’efficienza di un sistema sanitario.

Mito 5: Sarebbe meglio pagare i donatori. La raccolta di sangue salva molte vite, ma non “solo”. Pensare infatti che la donazione sia soltanto un nobile gesto che esaurisce la propria funzione subito dopo che la “sacca” è stata stoccata dal centro trasfusionale è un errore. Questa azione ha un impatto sociale che va molto al di la della già vitale importanza rappresentata dai centilitri di liquido biologico messi a disposizione di chi ne ha più bisogno. Visto che i donatori godono di un livello di benessere superiore alla media della popolazione, per la collettività avere molti donatori non significa solo poter far fronte alle emergenze e alle richieste di unità rosse, ma anche poter contare su molti cittadini dalla vita più sana. In termini sociali questo significa disporre di una massa critica di salute che fa sentire il suo peso sull’intero sistema. Anche sotto il mero profilo economico. Insomma chi dona il sangue migliora la propria esistenza e quella degli altri (e non solo di quelli che riceveranno il suo sangue). l nostro è uno dei Paesi dove il sangue non si compra: può essere dato e ricevuto solo gratuitamente (plasma compreso, a differenza di alcuni Stati europei). Si tratta di un segno e di un patrimonio di civiltà da conservare e proteggere, con un senso civico che ne sia all’altezza. In caso contrario all’orizzonte ci sarebbero ad aspettarci le “leggi del mercato”. E in questo caso sarebbe meglio, molto meglio, non invitarle a nessun vampiresco banchetto. Per prevenire questa deriva può fare molto l’impegno delle associazioni che si occupano della raccolta di sangue e della promozione della donazione. Ma quello che funziona di più è l’esempio, soprattutto per i giovani, cioè la fetta di popolazione che più manca all’appello della donazione. Conoscere un donatore conta più di mille parole. È il modo migliore per capire che donare sangue è un vero affare, che conviene a tutti.

Vino, ecco i 5 falsi miti da sfatare, scrive il 4 gennaio 2018 Luciano Ferraro su "Il Corriere della Sera". Del vino non si sa mai tutto. “Ciò che vi farà sentire a vostro agio in materia di vino è accettare il fatto che non saprete mai tutto, e come voi praticamente chiunque”. Ed Mc Carthy e Mary Ewing-Mulligan 17 anni fa elencarono in un libro le nozioni base per non sfigurare davanti a un calice (“Vino per negati”, Oscar Mondadori). Invitando a vivere il vino come fonte di piacere più che come motivo d’ansia. Esperti, enosnob, cultori duri e puri della materia sono però sempre in agguato, pronti a indignarsi per la pronuncia sbagliata di un vitigno raro della Val d’Aosta. Le certezze granitiche (“con il pesce si deve bere solo il bianco”) vanno di pari passo agli errori. Ne esistono a decine, ed è normale: perché il vino è una materia vasta, complessa e spesso incomprensibile quando divulgata da professionisti che parlano con linguaggio tecnico. I sommelier di Daniel Boulud, chef con 13 ristoranti negli Stati Uniti, hanno organizzato una cena per sfatare cinque falsi miti, servendo vini che dimostrano il contrario di quanto comunemente si pensa. A una di queste cene c’era il critico Eric Asimov, che sul New York Times ha raccontato il test. Ecco i 5 errori relativi a “convinzioni che possono aver avuto origine nel costume, magari con un atomo di verità, diventando ortodossia nel tempo”.

Mai vini dolci con piatti. Molti ritengono che i vini dolci siano da servire solo al momento del dessert. Errore, se il vino dolce è anche fresco, ovvero possiede un buon grado di acidità, può essere associato anche a cibi salati, hanno dimostrato i sommelier di Daniel. “Il risultato - scrive Asimov - è come un emozionante percorso di un funambolo mentre il vino sta in equilibrio tra dolce e secco. I vini sono indiscutibilmente dolci, ma l’acidità pulisce ogni sensazione stucchevole, lasciando una sensazione secca e rinfrescante”. Esempi: alcuni Riesling tedeschi, come quelli di Wehlener Sonnenuhr, un Dr. LooSen spätlese del 2015 e un kabinett JJ Prüm 2007. Per vincere l’avversione ai vini dolci a pasto è stato servito foie gras, tradizionalmente accostato al Sauternes. “Anche così, molti dei commensali sembravano non persuasi”, ha notato Asimov.

Bianchi gelidi, rossi caldi. Quello della temperatura di servizio è uno degli errori più comuni soprattutto nei ristoranti. Con il passare degli anni i bianchi arrivano a tavola sempre più gelidi. Per i rossi c’è un frainteso: la “temperatura ambiente” alla quale ci si riferisce, non è quella delle case e dei locali di oggi, surriscaldati. Consiglia Asimov: togliete i bianchi di qualità dal frigo mezz’ora prima di servirli, fate in modo che la bottiglia di rosso sia fresca al tatto. “La temperatura ambiente moderna può spesso far sembrare flaccido un buon rosso”. Un consiglio: se la bottiglia sembra calda, fatele fare un passaggio in frigo di 15 minuti prima di stappare o immergetela in un secchiello con il ghiaccio per 10 minuti.

Bianco con il pesce, rosso con la carne. Luigi Veronelli li chiamava “matrimoni d’amore”, perché un piatto e un vino per stare assieme devono trovare la loro armonia. Per scegliere gli abbinamenti la tecnica migliore è quella di affidarsi più al gusto che ai canoni tradizionali. Alla cena di Daniel è stato dimostrato, ad esempio, che salmone, tonno e polpo si abbinano bene con i rossi leggeri. E’ stato servito un piatto di salmone con una salsa di fichi e finocchio, assieme a due rossi californiani, dei quali si celebra più la potenza che l’agilità: un Cabernet sauvignon 2014 e un Merlot 2014 di Iconnu Wine, dalla contea di Sonoma. Sono stati convincenti. “Ma avrei preferito un Pinot nero”, ha chiosato Asimov.

Prima di tutto l’annata. Ci sono appassionati di vino che prima di acquistare una bottiglia in enoteca controllano le recensioni sulle annate. Asimov avverte che questa può essere una idea che funziona per chi vuole investire, ovvero non bere la bottiglia ma rivenderla dopo qualche tempo. Ma per chi vuole solo gustare un vino, può essere uno spreco di soldi. Un esempio: “Gli amanti di Bordeaux che si sono concentrati sulle annate 2000 e 2010 avrebbero potuto trovare vini simili anche nel 2001 e 2011. Ciò che costituisce una grande annata è spesso una questione di opinione”. La prova è stata fatta con due francesi della Côte-Rôties, Domaine Ogier 2010, super annata, e Domaine Jamet 2011, inferiore alla precedente. Sorpresa: “Il 2011 è risultato più generoso, il 2010 era rigido e reticente”.

Vino rosso con il formaggio. E’ vero, ma non sempre. I sommelier di Daniel hanno provato con due formaggi di capra, uno francese, l’altro del Vermont. Hanno scelto un bianco, l’Etoile 2013 di Domaine de Montbourgeau, nello Jura, a base di Chardonnay e Savagnin. E una birra americana, la Sakura di Carton Brewing. Asimov è un convinto sostenitore del matrimonio birra-formaggio, anche se la Sakura gli è sembrata troppo acida, mentre il bianco era perfetto. La cena degli errori e dei falsi miti sul vino si è chiusa così, ma avrebbe potuto continuare a lungo.

Pesce, otto miti da sfatare: dal prezzo alle calorie, fino all’inquinamento, scrive Carlotta Garancini il 15 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Informazioni fuorvianti. Siamo una penisola e il pesce non è mai mancato sulle nostre tavole. Ci hanno sempre detto che fa bene alla salute e, con l'arrivo del caldo, lo consumiamo ancora più volentieri perché è leggero e fresco. Riguardo al pesce però non sappiamo tutto, anzi, in molti casi le informazioni che riceviamo sono sbagliate e fuorvianti. Per questo, in occasione di Slow Fish 2017 (dal 18 al 21 maggio al Porto Antico di Genova), Slow Food ha stilato, insieme a ricercatori e dietisti, una lista di otto miti da sfatare sul pesce. Scopriamo quali sono e perché essere informati correttamente aiuta a salvaguardare la nostra salute (e anche il nostro portafoglio).

Il sushi si fa con il pesce fresco. Quando mangiamo pesce crudo il rischio che corriamo è quello di ingerire l'anisakis, un parassita che provoca infiammazioni allo stomaco e all'intestino e che può causare reazioni allergiche anche gravi. Per essere mangiato crudo, come nel caso del sushi, il pesce deve essere sì fresco, ma abbattuto. I ristoranti, come prevede la legge, devono congelarlo in un abbattitore che lo porta velocemente a una temperatura di -18 gradi; in casa occorre, invece, conservarlo per almeno 96 ore in un freezer contrassegnato con tre o più stelle.

Il salmone è il re della dieta. Spesso il salmone è il pesce più consigliato nelle diete, anche quelle ipocaloriche. Niente da dire su quello selvaggio, ma secondo Slow Food, invece, ci sarebbero tante ragioni per non mangiare quello di allevamento. Qualche esempio? I salmoni di allevamento sono rosa perché nei loro mangimi è presente una sostanza colorante, inoltre i pesci vengono nutriti anche con farine derivanti da scarti di macellazione (e se pensiamo al caso "mucca pazza" non è rassicurante) o con altri pesci (per 1 chilo di salmone allevato si uccidono 5 chili di pesci pescati), un aspetto che non li rende sostenibili. In ultimo, le loro calorie: in 100 gr di salmone fresco ci sono circa 180 calorie, mentre nelle alici 96, nei calamari 70, nelle cozze 60.

Il pesce bistecca è più caro e quindi più di qualità. Per "pesce bistecca" si intende il pesce che non ha spine e si cucina e consuma al pari di una fetta di carne, come il pesce spada o il tonno. Non si tratta di un pesce più di qualità, ma di un pesce solo più comodo da mangiare. E in realtà è vero proprio il contrario: sono specie dal ciclo vitale lungo più di una stagione, che attraversano diversi mari prima di essere catturati e che, attraverso le loro carni, ci trasmettono tutto il loro carico di contaminanti e metalli pesanti. La pesca intensiva del pesce spada e del tonno, quello rosso in particolare, inoltre ha messo a dura prova gli stock ittici, non lasciando ai giovani esemplari la possibilità di crescere e diffondersi al di sopra della soglia di rischio.

Il pesce fresco è pesce locale. Il pesce fresco che troviamo sui banchi del pesce ogni giorno in Italia? Proviene da 40 Paesi, non solo da quelli affacciati sul Mediterraneo dunque, ma anche su Pacifico e Atlantico. Se vogliamo essere sicuri di acquistare pesce locale dobbiamo leggere l'etichetta che deve riportare per obbligo di legge: la denominazione commerciale della specie (es. “orata”); il metodo di produzione (che può essere “pescato”, “pescato in acque dolci”, “allevato”); la zona di cattura Fao (es. “Area 47: Atlantico, Sudest”) o il Paese in cui è stato allevato; lo stato fisico (decongelato o scongelato); la presenza di additivi (che possono essere, ad esempio, solfiti).

Non esiste una stagionalità dei pesci. Se si rispettano i tempi di riproduzione (e dunque il fermo pesca) e se si scelgono specie provenienti dai mari più vicini a noi (il Mediterraneo, il Mar Nero, l'Atlantico nord-orientale), esistono le stagioni giuste anche per i pesci. Cosa possiamo cucinare, ad esempio d'estate, di italiano e locale? Alici, gallinelle, lampughe, orate, ricciole, saraghi, sardine, spigole...

Le sogliole sono tutte uguali anche se i prezzi sono diversi. Il taglio del filetto o le dimensioni dell'esemplare non sempre giustificano il costo. Trovare prezzi molto diversi di pesci della stessa specie (sogliola, polpo, baccalà) è sempre più dovuto purtroppo al fenomeno della sostituzione di specie. A dispetto di cosa riporta l’etichetta, possiamo acquistare una lenguata senegalese (valore 4 euro/kg) al posto della sogliola, il brosme (valore 7 euro/kg) al posto di stoccafisso e baccalà, i moscardini al posto dei polpi (valore 4 euro/kg) e rimanere così vittime di frodi commerciali. Come difenderci? Non c'è altro modo che conoscere l'anatomia del pesce ed essere preparati quando andiamo a fare la spesa.

Vongole e cozze sono inquinate. Scegliere di mangiare vongole e cozze aiuta a non consumare (e stressare) sempre i soliti pesci. Questi molluschi sono inoltre gustosi e ricchi di proprietà e la mitilicoltura è una delle forme di allevamento più sostenibili. Vongole e cozze si nutrono dei microrganismi presenti nell'acqua e non hanno bisogno di mangimi, ma l'ambiente in cui vengono allevate deve essere sicuro. Per questo gli allevamenti di qualità privilegiano basse densità e favoriscono adeguati ricambi delle acque. Come per tutti i molluschi, quando le acquistate assicuratevi che siano contenute in reti sigillate con un’etichetta che ne indichi varietà, scadenza e provenienza.

Mangiare più pesce fa bene alla salute. Carni pregiate, alto contenuto di omega 3: sono tanti i motivi per cui ci hanno sempre detto di mangiare tanto pesce. Molti degli stock in commercio però, avvisa Slow Food, sono ormai al collasso. La soluzione? Scegliere fonti alternative di omega 3 (come i semi oleosi ad esempio), o quando vogliamo mangiarlo, optare per pesce stagionale e a ciclo vitale breve, magari le specie meno conosciute e meno costose. E poi anche tutto il resto che offre il mare: meduse, alghe, molluschi e crostacei.

QUEI PERSONAGGI DEGNI DI ESSERE RICORDATI: FERDINANDO IMPOSIMATO, MARINA E CARLO RIPA DI MEANA, PIERO OSTELLINO, STEPHEN HAWKING, FABRIZIO FRIZZI, EMILIANO MONDONICO, LUIGI DE FILIPPO, ARRIGO PETACCO, FABRIZIO QUATTROCCHI, CARLO VANZINA, SERGIO MARCHIONNE, RITA BORSELLINO, VINCINO.

Morto Ferdinando Imposimato giudice del caso Moro, poi vicino al M5S. Aveva 81 anni: oltre dell’inchiesta sulla morte del segretario Dc si era occupato anche di quella sull’attentato a papa Wojtyla. I grillini lo volevano candidare al Quirinale, scrive Claudio Del Frate il 2 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". È morto stamattina al Policlinico Gemelli di Roma Ferdinando Imposimato. Era nato a Maddaloni (Caserta) il 9 aprile 1936. Magistrato, fu giudice istruttore di alcuni tra i più importanti processi di terrorismo, come quello per il caso Moro e quello per l’attentato al Papa. Nel 1987 venne eletto al Senato come indipendente di sinistra nelle liste del Pci, nel 1992 fu eletto Camera e poi nel 1994 nuovamente al Senato. Nel 2013 il Movimento Cinquestelle lo aveva indicato, assieme ad altri nomi, per l’elezione a Presidente della Repubblica. Nella sua carriera di magistrato si era occupato anche di criminalità organizzata, impegno pagato a caro prezzo: nel 1983 suo fratello era stato ucciso per una vendetta trasversale dalla camorra.

Le «verità alternative». Imposimato era stato autore anche di numerosi libri sul terrorismo e sulle stragi. In particolare era convinto che esistesse un legame su tutta una serie di delitti politici avvenuti in Italia, a partire dalla strage di Portella della Ginestra per arrivare agli omicidi di Falcone e Borsellino; il giudice aveva puntato il dito sul ruolo ricoperto dai servizi segreti stranieri ma le sue tesi (ad esempio quella sul ruolo degli Usa nel rapimento di Moro) non avevano trovato riscontro. Su diversi casi si era fatto portavoce di «verità alternative»: ad esempio aveva dichiarato che il governo degli Stati Uniti sarebbe stato a conoscenza in anticipo della strage delle Torri Gemelle ma non avrebbe fatto nulla per impedirla; aveva denunciato anche un presunto ruolo del gruppo Bilderberg nella strategia della tensione italiana, in particolare quello di mandante degli attentati. Pochi mesi fa aveva assunto posizioni critiche anche sui vaccini, arrivando ad adombrare un peso di questi ultimi nella morte di una bimba per malaria avvenuto all’ospedale di Trento.

Il cordoglio del M5S. Il primo messaggio di cordoglio per la scomparsa del magistrato è arrivato proprio dal Movimento Cinque Stelle: «Con Ferdinando Imposimato non sparisce soltanto un magistrato integerrimo e un grande giurista. Ma va via anche una persona splendida, di grande umanità e sensibilità. Per tutto il M5S sono momenti di enorme dolore, perché Imposimato ha rappresentato una luce vivida, una guida sicura sul percorso che abbiamo da anni intrapreso nella lotta alla corruzione, al malaffare e alle mafie. Esprimiamo il nostro cordoglio più profondo e la vicinanza ai suoi familiari» afferma in una nota il gruppo parlamentare del M5S della Camera. A seguire sono giunti anche i messaggi di Luigi Di Maio e della sindaca di Torino Chiara Appendino.

È morto Ferdinando Imposimato, giudice del processo Moro che il M5s voleva al Quirinale. Nell'ultimo post su Facebook il suo testamento politico: "Un Paese si salva dalla rovina solo se tutti i cittadini vivono in una condizione di dignità". Eletto negli anni Ottanta e Novanta al Senato come indipendente di sinistra nelle liste del Pci, era stato votato alle 'Quirinarie' del M5s. Aveva istruito i processi sull'attentato a papa Giovanni Paolo II e sull'omicidio del vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet, scrive il 2 gennaio 2018 "La Repubblica". È morto a Roma Ferdinando Imposimato. Ex magistrato, politico e avvocato italiano, è stato presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Era stato ricoverato domenica 31 dicembre al Policlinico 'Gemelli' di Roma, nel reparto rianimazione. Nell'ultimo video postato sul suo profilo Facebook il suo testamento politico. "Gli obiettivi che un Paese civile deve perseguire - sono le sue parole - sono l'eguaglianza dei diritti sociali e la solidarietà, compito non solo della Repubblica ma di tutti i cittadini verso i più bisognosi". "Tutti - sosteneva Imposimato - devono poter accedere ai principali diritti sociali, fra questi il diritto a fare politica, ad accedere al Parlamento come avveniva in passato quando i vari Di Vittorio e Lama portavano avanti la politica di riscatto dei lavoratori". Nato a Maddaloni, in provincia di Caserta, aveva 81 anni. Tra il 1987 e il 1992 era stato senatore prima nelle liste del Pci poi diventato Pds. Nel gennaio del 2013 e nel 2015 il suo nome era stato scelto dai grillini nelle 'Quirinarie' come candidato presidente della Repubblica. Il candidato premier dei 5 Stelle, Luigi Di Maio, lo ricorda così: "Grande tristezza per la sua scomparsa, magistrato simbolo della lotta alle mafie e alla corruzione, uomo che ha sempre combattuto per la giustizia. Ci mancherà tanto". È stato giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro del 1978, l'attentato a papa Giovanni Paolo II del 1981, l'omicidio del vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Grand’ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana, ha ricevuto diverse onorificenze in patria e all’estero per il suo impegno civile. È stato autore di numerosi saggi, tra cui "Vaticano. Un affare di Stato" e "La Repubblica delle stragi impunite". Attualmente si occupava della difesa dei diritti umani, ed era impegnato nel sociale. È stato inoltre scelto per il riconoscimento di "simbolo della giustizia" dall'Onu in occasione dell'Anno della Gioventù. Dopo alcuni anni trascorsi come vice commissario della Polizia di Stato, nel 1964 divenne magistrato. Come giudice istruttore, il suo nome è legato ad alcuni tra i più importanti processi che hanno segnato la storia dell'Italia negli anni del terrorismo, quali quello per la morte di Aldo Moro, quello per l'attentato a Papa Giovanni Paolo II, quello per l'omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet, e quello la strage di piazza Nicosia. A lungo Imposimato si è occupato anche di mafia e camorra, istruendo il processo contro Michele Sindona, il banchiere legato alla mafia, e quello contro la banda della Magliana. L'11 ottobre 1983 il magistrato viene colpito da un grave lutto, perchè viene ucciso dalla camorra il fratello Franco, sindacalista. Franco Imposimato era in macchina con la moglie e il cane, era appena uscito dalla fabbrica in cui lavorava, la Face Standard di Maddaloni, e stava tornando a casa dopo il lavoro. Tre sicari a bordo di una Ritmo 105 sbarrarono la strada alla sua vettura a 300 metri dall'opificio e fecero fuoco, colpendo il fratello del giudice con 11 proiettili. Nell'agguato riuscì a salvarsi sua moglie, benchè gravemente ferita da due proiettili sparati da Antonio Abbate, il killer riconosciuto dalla donna anni dopo in sede processuale. Per veder riconoscere la matrice mafiosa e camorristica del delitto si è dovuto attendere fino al 2000 e il processo Spartacus. Nel 1986 Ferdinando Imposimato diviene consulente legale delle Nazioni Unite nella lotta alla droga, recandosi più volte per incarico dell'Onu in America Latina. Non è mancato un suo impegno politico, prima con il Partito Comunista Italiano nelle cui liste viene eletto al Senato e poi nel 1992 alla Camera. Per tre legislature fu componente della Commissione Antimafia. Successivamente passa al Partito Democratico di Sinistra dove diventa responsabile alla Giustizia dei Socialisti Democratici. Della Corte di Cassazione, viene nominato Presidente onorario aggiunto. Nel 2013 era nella lista dei nomi scelti dal M5s per l'elezione a Presidente della Repubblica, e i grillini che lo hanno votato anche nella successiva elezione del 2015.

Ferdinando Imposimato e quell’ossessione per le mani sporche, scrive il 3 gennaio 2018 Arnaldo Capezzuto, Giornalista, su "Il Fatto Quotidiano". “So solo che in questo paese ci sono verità che qualcuno non vorrebbe far conoscere. Io però non mi rassegno, e fino a quando avrò fiato e forza andrò avanti. I segreti non si possono nascondere a vita. Prima o poi questo non sarà più il paese dei misteri. Questa è una mia certezza, granitica e incrollabile”. Ferdinando Imposimato è in ascensore. Ha appena concluso una conferenza in difesa della Costituzione. Ne approfitto per fare quattro chiacchiere sulla vicenda di Pasquale Scotti, l’ex super latitante della Nuova camorra organizzata, vissuto alla luce del sole per oltre 31 anni in Brasile, e poi sbucato all’improvviso dalle tenebre con la “promessa” di raccontare roboanti verità. Un caso emblematico avvolto da silenzi e segreti inconfessabili. Volevo un suo parere, un’opinione da parte di un giudice istruttore che si è occupato in carriera di alcuni tra i più importanti processi di terrorismo: dall’omicidio Bachelet al caso Moro e quello per l’attentato al Papa fino alle strane storie di camorra come appunto quella di Scotti con un tesserino dei servizi segreti in tasca. Ricordo come se fosse oggi, il suo sguardo attento e penetrante dietro quei particolarissimi occhiali spessi. La cosa che mi colpì fu la sua conoscenza approfondita, minuziosa e zelante dei fatti. Non era scontato. Conosceva la vicenda, e aveva una sua precisa opinione che forse era più una lettura di eventi concatenati, inediti, nascosti nelle pieghe di indagini giudiziarie lasciate – come spesso accade – nel limbo del non riscontrabile. Ferdinando Imposimato è stato un uomo caparbio con la toga tatuata sull’anima, magistrato controcorrente, giudice istruttore e presidente emerito della Cassazione. Non tutti però hanno accolto bene la sua vicinanza al Movimento 5 Stelle che addirittura lo voleva presidente della Repubblica. Armato di megafono ha arringato le folle. La sua serietà e autorevolezza era universalmente riconosciuta da tutti, in questa strana Italia di Guelfi e Ghibellini. Non sono mancate le “picconate” al sistema e allo stesso Movimento di Grillo. Forse la sua ultima disperata battaglia è stata in piazza contro la legge sull’obbligo vaccinale. Imposimato si è sempre mosso nel solco della Carta costituzionale e della sua difesa ad oltranza. Il giudice era convinto e persuaso – su youtube ci sono i suoi ragionamenti – che esistesse un filo rosso che univa tutta una serie di delitti politici avvenuti in Italia, a partire dalla strage di Portella della Ginestra per arrivare alle stragi di Stato dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da anni, Imposimato sosteneva che i fatti clamorosi che hanno sconvolto la vita del nostro Paese fossero telecomandati a livello internazionale. Qualcuno lo accusava di un eccessivo complottismo, di una deriva poco oggettiva e sbilanciata sui grandi teoremi. Sta di fatto che il giudice Imposimato è stato un grande testimone e protagonista di battaglie civili, un attivismo commovente e d’impegno concreto accanto ai “suoi” giovani. Da alcune settimane non mostrava la sua solita serenità e piglio battagliero. Chi ha avuto modo di parlargli rivela che spesso – negli ultimi tempi – diceva che era stanco e si sentiva dimenticato e messo da parte. E di frequente evocava la storia di suo fratello Franco, il sindacalista ammazzato, colpito da 11 proiettili, da un commando l’11 ottobre 1983, all’uscita dalla fabbrica. Una ferita sempre aperta che non gli ha impedito di perseguire imperterrito le sue grandi battaglie contro il malaffare e la collusione con il mondo istituzionale e politico. Ecco, Ferdinando Imposimato è stato un esempio lucido di come le mani non bisogna tenerle in tasca ma sporcarsele sempre.

Addio a Imposimato, il giudice rosso ammaliato e poi deluso dai grillini. Il magistrato ha indagato sui misteri italiani, poi è stato eletto al Senato col Pci prima dell'ultimo breve flirt coi Cinque stelle, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 03/01/2018, su "Il Giornale". Magistrato per un ventennio, alle prese con processi importantissimi negli anni '70 e '80, poi senatore con il Pci e con il Pds, ma da indipendente. E infine assoldato suo malgrado dai grillini, verso i quali aveva mostrato qualche simpatia, prima di prenderne le distanze non lesinando critiche severe. Ferdinando Imposimato è morto ieri mattina a Roma, al Policlinico Gemelli, dove era ricoverato in rianimazione già dallo scorso 31 dicembre. Imposimato era nato a Maddaloni, in provincia di Caserta, 81 anni fa. Entrato in magistratura a metà degli anni '60, è stato giudice istruttore - tra gli altri - dei processi per il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, per l'omicidio di Vittorio Bachelet, per l'attentato a papa Giovanni Paolo II. Istruì anche il primo processo alla Banda della Magliana, e proprio quel lavoro sulla gang criminale romana e sui legami con la mafia avrebbe innescato la vendetta trasversale di Cosa nostra, che sfociò nell'omicidio del fratello del magistrato, Franco, ucciso l'11 ottobre 1983 mentre lasciava la fabbrica in cui lavorava in auto con la moglie, ferita anch'essa. Imposimato, lasciata la magistratura, come detto sbarcò in Parlamento, come indipendente per il Pci Pds al Senato (X e XII legislatura) e alla Camera (XI). Restando sempre nella commissione Antimafia, e continuando a occuparsi di giustizia e delle connessioni internazionali delle reti terroristiche, tanto da essere nominato consulente dell'Onu per la lotta al narcotraffico, lavorando soprattutto nei Paesi dell'America Latina. Più recentemente, nel 2013 e di nuovo nel 2015, era stato il Movimento 5 Stelle a scegliere l'ex magistrato come uomo-simbolo, candidandolo tra i papabili per le «Quirinarie», le primarie dei grillini per scegliere il nome da votare per la presidenza della Repubblica. Nel 2013, ad aprile, Imposimato arrivò quinto su otto candidati, alle spalle di Milena Gabanelli, Gino Strada, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. A gennaio di due anni fa, invece, l'ex magistrato vinse le quirinarie - si votava tra nove papabili - con il 32 per cento dei voti, piazzandosi davanti a Romano Prodi (fermo al 20 per cento dei consensi) e al pm Nino Di Matteo. E infatti, ieri, proprio il gruppo Parlamentare M5s è stato tra i primi a esprimere cordoglio per la scomparsa di Imposimato con una nota: «Per tutto il M5s sono momenti di enorme dolore, perché Imposimato ha rappresentato una luce vivida, una guida sicura sul percorso che abbiamo da anni intrapreso nella lotta alla corruzione, al malaffare e alle mafie». L'amore, però, era ricambiato fino a un certo punto. Se l'apprezzamento dei grillini aveva infatti sollevato l'interesse dell'ex magistrato, che aveva per esempio plaudito alle denunce di Grillo contro «la paralisi e l'impotenza del Parlamento», qualche mese fa, pur considerandosi un simpatizzante del movimento, non aveva lesinato critiche. Soprattutto a Di Maio, bollato come «non capace».

Ferdinando Imposimato il giudice dei complotti e di un’Italia scomparsa, scrive Errico Novi il 3 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Oggi è possibile un altro Ferdinando Imposimato? A poche ore dalla sua morte ecco cosa dobbiamo chiederci: un giudice istruttore così, che fa anche il politico, lo scrittore di libri, l’inviato dell’Onu, che prova persino a scrivere soggetti cinematografici, potrebbe di nuovo comparire sulla scena? È la domanda che si intreccia al commiato per la fine del magistrato del caso Moro, e dell’attentato a papa Wojtyla, dei processi alla banda della Magliana, a Michele Sindona, e di molti altri ancora. Se n’è andato a 81 anni, Imposimato, nella Roma in cui viveva da tempo, salutato da note e tweet di cordoglio soprattutto dei cinquestelle che avrebbero voluto vederlo al Quirinale. C’è pure chi, come il pd Gero Grassi, lascia un’ombra nel ricordo e si dice certo che «sul caso Moro il giudice si porti via qualche segreto, come fu con Cossiga e Pecchioli». Sembra proprio un’affermazione alla Imposimato, in fondo, che nella sua carriera di magistrato fece cose mirabili, ma non trascurò mai una certa tentazione per il dietrologismo, per la virata complottista, che a volte lo mise anche sulla strada giusta, in altri momenti lo condusse a esiti paradossali, come quando arrivò a sostenere che dietro le stragi di Capaci e via D’Amelio non c’era la rabbia di Cosa nostra per il maxiprocesso e il 41 bis ma gli appalti della Tav. O come in uno dei suoi pamphlet denuncia, L’Italia delle stragi impunite, in cui raggiunse il massimo della vertigine complottista e mise il gruppo Bilderberg dietro gli anni di piombo e le stragi del terrorismo, su alcune delle quali pure aveva lavorato come giudice istruttore. Ecco, uno così forse non nascerà più. O per meglio dire: a un magistrato, lo stesso Csm non consentirebbe più di spaziare con tanto agio dalla toga allo scranno parlamentare, dall’invettiva ai libri. Anche se molte delle attività extragiurisdizionali risalgono a un’epoca in cui Imposimato aveva lasciato la magistratura, è difficile proprio immaginarlo, oggi, un procuratore capo con le suggestioni visionarie e la forza provocatoria del giudice di Maddaloni. E forse non può che essere così perché Imposimato appartiene proprio a un’altra epoca, non solo della giustizia, a un’Italia che non esiste più, e sono tanti segni a ricordarlo, due in partico- lare: in termini di funzione, è stato appunto giudice istruttore, figura non più prevista dall’ordinamento da quando è stato introdotto il rito “accusatorio”, nel 1988; così come non si può tacere del fatto che anche la vicenda politica di Imposimato sarebbe oggi tecnicamente irripetibile, nel senso che lui è stato l’ “indipendente di sinistra” per antonomasia, archetipo parlamentare ormai scomparso. Eletto con il Pci, e poi con il Pds, alla Camera e al Senato, secondo quello schema che preservava un’alterità rispettosa per certe figure nonostante il sostegno assicurato loro da una ben precisa forza politica. Giudice istruttore e indipendente di sinistra: nessuno potrà più esserlo, e se pure Nino Di Matteo, come si dice, finisse per cedere al richiamo del Movimento grillino, non lo si potrebbe paragonare a Imposimato, nessuno crederebbe a quell’integrità inscalfibile dall’avventura politica. Ci mancherà, il giudice di Maddaloni, l’uomo segnato nella sua vita dalla barbara uccisione del fratello Franco, operaio e sindacalista trucidato dalla camorra? È vero che oggi ne abbiamo eccome di pm che debordano, basti pensare a quanto ha fatto parlare di sé Piercamillo Davigo, allo stesso Di Matteo, ad altri protagonisti dell’inquisizione palermitana come Roberto Scarpinato. Ma è vero pure che quel modello di magistrato trasversale e poliedrico, capace di istruire il processo sulla strage di Piazza Nicosia come di scrivere un libro sulla “Corruzione ad alta velocità”, non sarebbe più tollerato dal sistema. Non sarebbe più possibile veder imperversare una toga da un campo all’altro, impunemente per così dire, senza che lo si censuri o che si acceleri ad approvare la sospirata legge su toghe e politica. Eppure un uomo temerario ma instancabile, dietrologo ma appassionato, ci mancherà sul serio proprio perché magistrati così non se ne vedono più. Non ci sono figure dotate di quella stessa totalizzante passione civile, a cui si è sempre perdonato qualche eccesso, non c’è forse più nell’intera classe dirigente italiana la sensibilità per le grandi questioni che ci riguardano, la rabbia nel combattere i fantasmi che infettano il Paese eppure lo costringono a essere unito. È avvenuto anche negli anni più bui della Repubblica con il terrorismo e la mafia, veleni capaci di risvegliare una coscienza. Rischia di mancarci davvero Imposimato, tanto che la divinizzazione di cui è stato oggetto da parte del Movimento cinquestelle, per una volta, non pare stralunata, inspiegabile, tanto più se si ha la pazienza di soffermarsi sulle dichiarazioni diffuse ieri dai deputati grillini, da Luigi Di Maio, dalla pasionaria Roberta Lombardi come dalla sua avversaria Virginia Raggi. A parte la retorica inevitabile del «baluardo nella lotta alle mafie», in tutti quei comunicati di cordoglio ricorrono puntuali le espressioni «splendida persona», «uomo di grande umanità». Stavolta con il paladino scelto per l’occorrenza i grillini avevano stabilito un rapporto persino di affetto, di vicinanza umana, e anche questo non può creare sorpresa. Perché con la sua passione e i suoi teoremi eccessivi, tutto si può dire tranne che Imposimato disumanizzasse la funzione di magistrato, che vestisse la toga o occupasse lo scranno in Parlamento con il cipiglio sussiegoso e freddo del censore disgustato. Si sporcava le mani, a volte sbagliava, ma ci metteva tutto se stesso. E, se non di magistrati, oggi di uomini così ce ne vorrebbero eccome.

  Marina Ripa di Meana, la cronaca dei suoi ultimi giorni di vita, scrive il 10 gennaio 2018 "Oggi". L’atroce scherzo del destino al marito Carlo. L’ultimo viaggio della speranza. Lo sfogo con gli amici più cari. Fino al video testamento delle polemiche. Il settimanale Oggi svela dettagli inediti sull’addio alla regina del jet-set. Marina Ripa di Meana ha lasciato il suo adorato jet-set a 76 anni. E dopo il commovente saluto dei suoi tanti amici vip, il settimanale Oggi in edicola è in grado di ricostruire minuziosamente i suoi ultimi giorni di vita. Comprese le polemiche sul suo testamento che ha dato così scandalo. Carlo Ripa di Meana ha appreso la tragica notizia della morte della moglie Marina ascoltando il telegiornale di Sky. Lo racconta il settimanale Oggi nel numero in edicola da domani. Che ricostruisce gli ultimi giorni di vita di Marina. E di quello che le accaduto intorno, polemiche comprese. «Marina se n’è andata esattamente come ha voluto e deciso, da gran dama quale era», scrive il settimanale Oggi, «ma il destino le ha voluto però giocare l’ultimo atroce scherzo. Negli ultimi giorni di insopportabile dolore, il suo pensiero è sempre stato per l’amato marito Carlo Ripa di Meana. Lui, molto malato da tempo, chiuso nel suo mondo che ha i confini di una comoda camera con bagno ricavata nel grande appartamento romano in zona Cola di Rienzo, non doveva sapere, non doveva essere turbato e scosso da tanta sofferenza… Marina è morta a pochi metri di distanza, in un’atmosfera ovattata costruita minuziosamente perché lui non si accorgesse di nulla e fosse poi informato col dovuto tatto e garbo. Invece Carlo ha acceso il televisore e un telegiornale gli ha sparato in faccia la notizia come un calcio di mulo». Il settimanale Oggi ricostruisce minuziosamente la cronaca degli ultimi giorni della regina del jet set. «Nell’ottobre scorso c’era stato l’ultimo viaggio della speranza, a Parigi, al celebre istituto dei tumori Gustave Roussy», scrive il settimanale. «Dottori di gran nome e fama avevano sfogliato quasi con distacco i fogli della sua cartella clinica. “Mi hanno fatto pagare 500 euro per la visita solo per dirmi che dovevo continuare coi protocolli terapeutici che già stavo seguendo”, si è lamentata Marina con gli amici più cari». E poi, l’addio. Con strascico di polemiche…

Morte Marina Ripa di Meana, il marito ha saputo la notizia dalla tv. Secondo quanto racconta il settimanale «Oggi» la scrittrice ha tenute nascoste le sue sofferenze fino all'ultimo al marito Carlo, anche lui gravemente malato, scrive il 10 gennaio 2018 "Il Corriere della Sera". Carlo Ripa di Meana ha appreso la tragica notizia della morte della moglie Marina ascoltando il telegiornale di Sky. Lo racconta il settimanale «Oggi», nel numero in edicola giovedì. «Marina se n’è andata esattamente come ha voluto e deciso, da gran dama quale era», scrive la rivista, «ma il destino le ha voluto però giocare l’ultimo atroce scherzo. Negli ultimi giorni di insopportabile dolore, il suo pensiero è sempre stato per l’amato marito Carlo Ripa di Meana. Lui, molto malato da tempo, chiuso nel suo mondo che ha i confini di una comoda camera con bagno ricavata nel grande appartamento romano in zona Cola di Rienzo, non doveva sapere, non doveva essere turbato e scosso da tanta sofferenza». Come spiega dunque il settimanale «Marina è morta a pochi metri di distanza, in un’atmosfera ovattata costruita minuziosamente perché lui non si accorgesse di nulla e fosse poi informato col dovuto tatto e garbo. Invece Carlo ha acceso il televisore e un telegiornale gli ha sparato in faccia la notizia come un calcio di mulo». «Oggi» ricostruisce minuziosamente la cronaca degli ultimi giorni della regina del jet set. «Nell'ottobre scorso c’era stato l’ultimo viaggio della speranza, a Parigi, al celebre istituto dei tumori Gustave Roussy», scrive il settimanale. «Dottori di gran nome e fama avevano sfogliato quasi con distacco i fogli della sua cartella clinica. “Mi hanno fatto pagare 500 euro per la visita solo per dirmi che dovevo continuare coi protocolli terapeutici che già stavo seguendo”, si è lamentata Marina con gli amici più cari».

Marina Ripa di Meana, quanti vip a darle l’ultimo addio. E sulla bara… le corna, scrive il 9 gennaio 2018 "Oggi". È parata di vip per dare l'addio a Marina Ripa di Meana. Da Milly Carlucci a Sandra Milo (inconsolabile). E poi tanti uomini politici e personaggi dello spettacolo. Ma anche tanta gente comune. Per l’ultimo saluto a Marina Ripa di Meana, tanti vip si sono recati alla camera ardente allestita nella sua casa romana del quartiere Prati. Da Sandra Milo (inconsolabile – VIDEO) a Milly Carlucci, a tantissimi altri. Fino a quando il feretro di Marina Ripa di Meana è uscito dall’abitazione: sulla bara, un cappello con le corna…Tanti i personaggi del mondo della politica e del cinema andati a darle l’ultimo saluto, a partire dalle amiche Sandra Milo e Milly Carlucci. E ancora Giuliano Amato, Fausto e Lella Bertinotti, Giovanna Melandri, Bobo Craxi, Alessio Boni e la fidanzata Nina Verdelli, Daniela Poggi, Carlo ed Enrico Vanzina, Giovanni Malagò e Giampiero Mughini, tra i primi ad essere giunti. Non sono mancati amici e gente comune. Il feretro è stato portato al cimitero romano di Prima Porta, dove la salma sarà cremata.

Morta Marina Ripa di Meana. Libera, sfrontata, provocatoria. Il videotestamento: «Ho pensato anche al suicidio assistito». La lunga lotta con il cancro raccontata anche in tv e la scelta di una dolce morte. Una vita sotto i riflettori tra mondanità e impegno politico. L’addio con un videomessaggio. L’ultima lettera al Corriere: «Il caso Weinstein? Vi racconto cosa è successo a me», scrive Candida Morvillo il 5 gennaio 2018. Alberto Moravia diceva di Marina Ripa di Meana, morta ieri a 76 anni, che non era un’artista, ma molto di più. Una volta, le scrisse: «Sei volubile come colui che segue il proprio “particulare” e questo è anche il tipico procedimento dell’arte: scansare come la peste le idee generali e tenersi al dettaglio». La lettera uscì su Playmen, anno 1980. Le avevano offerto molti soldi per posare nuda e lei era certa che sua madre ne sarebbe morta, al che Moravia e Goffredo Parise, che lei chiamava «i miei Dioscuri» come i figli di Zeus, si offrirono di nobilitare l’operazione accompagnando le foto con due scritti da intellettuale. Per anni, i tre pranzavano insieme al Grand Hotel di Roma. L’unica regola era non parlare di letteratura, Marina sosteneva di non aver mai letto un libro, ma loro vedevano in lei, ai tempi stilista, «l’intenditrice di vita, l’annusatrice dell’aria», così raccontava alla Digital Edition del Corriere, un anno fa, già perseguitata da un cancro che l’aveva costretta a chemio, a tre operazioni al polmone, all’asportazione di un rene.

L’incontro con Veronesi. Quando, sessantenne, scoprì di essere malata, voleva gettarsi nel Tevere. Ma forse anche no, anche chi sa. La teatralizzazione era il «particulare» della sua arte e il dettaglio del Tevere l’utile spunto per narrare che la salvò Umberto Veronesi: «Mi telefonò mentre uscivo a buttarmi e mi disse che potevo farcela e l’idea di me che galleggiavo cadavere fra le carogne dei gatti era insopportabile. Forse, non mi sono suicidata per vanità». Ora, stavolta sul serio, aveva pensato al suicidio assistito in Svizzera. L’ha raccontato in un video testamento affidato a Radio Radicale e registrato pochi giorni prima di morire con Maria Antonietta Farina, la presidente dell’Istituto Luca Coscioni. Con lei ha capito che poteva invece percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda. «Fatelo sapere, le persone devono sapere», ha detto.

Gli amori. Era sofferente, ma ancora bella. Gianni Agnelli diceva che era la donna più bella del mondo. Se la contessa e amica Marta Marzotto era nei quadri di Renato Guttuso, lei fu la musa di Franco Angeli, suo grande, adultero, amore, fra il ’67 e il ‘75. Per Angeli, provò due volte l’eroina: voleva capire perché gli piaceva, voleva salvarlo. La foto che lui le scattò, sfolgorante in hot pants a San Pietroburgo, è ancora oggi l’immagine stessa della libertà e della sfrontatezza. Marina Elide Punturieri aveva sposato prima Alessandro dei duchi Lante della Rovere nel 1964, da cui aveva avuto Lucrezia, poi nel 1982, il marchese Carlo Ripa di Meana, che le è stato vicino sino alla fine. Con lui, già eurodeputato e senatore, ha combattuto tante battaglie ambientaliste, comparendo anche nuda su manifesti contro le pellicce. La provocazione era la sua arte. Una volta, rovesciò della pipì addosso a Vittorio Sgarbi, reo di non aver voluto esporre una sua foto. «Piscio d’artista», poi fecero pace.

Il libro e il film. Il libro I miei primi 40 anni— e il film che ne trassero i Vanzina, protagonista Carol Alt — fece epoca. Della libertà, specie sessuale, Marina era portabandiera. Raccontava con allegria di quando stava sia con Roman Polanski sia con il produttore Bob Evans, che la voleva in Love Story, o di quando Agnelli la trovò a letto con lo scultore Eliseo Mattiacci e il pittore Gino De Dominicis, di quando l’industriale Roberto Gancia la manteneva al Grand Hotel e lei lo chiamava «sgancia» e di quando con Angeli non avevano una lira, lei vendeva un vestito, lui un quadro e passavano a saldare i conti.

Controcorrente su Weinstein. Sino all’ultimo, è stata sotto i riflettori fra apparizioni tv e prese di posizione controcorrente, l’ultima sulla 27esima ora, a favore di Harvey Weinstein. In tv, a maggio, era stata da Barbara D’Urso con una veletta e il volto devastato da un’allergia ai farmaci, realizzando a suo modo una profezia di Moravia, che concludeva la lettera su Playmen scrivendo: «Poco importa se domani con un altro capriccio, un altro estro, distruggerai alla fine il tuo stesso ritratto. L’autodistruzione è il colmo del particulare». Ieri se n’è andata una donna che, se non era un’artista, ha però vissuto la vita come un’opera d’arte.

Marina Ripa di Meana. Il ricordo della storica dell’arte e curatrice Laura Cherubini su "artribune.com" il 12 gennaio 2018. Un bellissimo, appassionato, personale e commovente ricordo di Marina Ripa di Meana firmato dall’amica Laura Cherubini. Nella storia di Marina, grande protagonista del nostro tempo, si intrecciano le vicende di Moravia, Parise, Angeli, Kerouac, Gian Maria Volonté e molti altri indimenticabili alfieri della cultura. Che Marina fosse straordinariamente bella è un segreto di Pulcinella. Che una tale bellezza mozzafiato, così naturalmente seducente (non seduttiva che è cosa abbastanza diversa), abbia collezionato tanti corteggiatori e grandi amori è quasi un’ovvietà. Ma come tutte le donne veramente molto amate e desiderate Marina non parlava di uomini. Ricordo quando l’ho conosciuta a Venezia nel ’78. Carlo Ripa di Meana era Presidente della Biennale di Venezia e aveva incaricato Achille Bonito Oliva di curare (con Amman, Del Guercio e Menna) la grande mostra internazionale, che allora si chiamava storico-critica, così Achille e io andammo a cena da lui a Venezia, c’erano l’amico fotografo Lorenzo Capellini e Marina. Lei era molto più bella che in qualunque fotografia, era elegantissima con una semplice camicia di seta color champagne e larghi pantaloni color tabacco. Rimasi incantata dalla sua intelligenza, dalla sua delicatezza, dal garbo e dall’arguzia con cui parlava di arte. Sono pienamente d’accordo con quanto ha scritto l’amico Giampiero Mughini che l’ha definita “la donna più intelligente che io abbia conosciuto… un’amica di grandissima affidabilità, sottigliezza, generosità”.

MARINA HA SEMPRE LAVORATO. A Dorsoduro, dietro alla chiesa della Salute, nella casa della Wally Toscanini, Carlo non viveva nel lusso, si era addirittura autoridotto lo stipendio di Presidente della Biennale. Ho sentito molte sciocchezze in questi giorni su Marina, persino un giornalista che ha detto che si è potuta permettere una vita di provocazioni perché ha avuto due mariti ricchi! Dalla moda alla comunicazione Marina ha sempre lavorato. Ma forse non conta che siano state dette cose inesatte, colpisce l’ondata di emozione che la scomparsa di Marina ha suscitato, era personaggio “popolare” nel senso migliore del termine, a Roma ne parlano tutti, dai tassisti agli ambulanti, aveva saputo toccare le corde di tanti cuori. Carlo, il grande amore della sua vita, da Presidente della Biennale aveva fatto cose veramente importanti, dalla Biennale del ’74, dedicata al Cile, cui ha reso omaggio nel 2015 Okwui Enwezor, alla Biennale del Dissenso del ’76 (Mughini ha detto che ci vorrebbe la medaglia d’oro al merito civile per questo) per la quale subì attacchi e minacce e Marina era lì al suo fianco nella battaglia, a sostenerlo a spada tratta. È stata Marina a raccontarmi, come una favola, la storia di un quadro fatto insieme nel 1966 da Franco Angeli (con il quale aveva vissuto una importante, passionale e tempestosa storia d’amore) pittore e protagonista della cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo” e da Jack Kerouac, scrittore americano on the road, ispirandosi a La conversione di San Paolo il dipinto di Caravaggio in Santa Maria del Popolo. Siamo sempre lì, piazza del Popolo… Jack Kerouc era il poeta della beat generation. Era stato buttato fuori da un bar della zona di piazza del Popolo perché, ubriaco, straparlava e i frequentatori dicevano che era fascista.

FRANCO ANGELI E JACK KEROUAC. Franco l’aveva soccorso e l’aveva portato in studio da lui, a via Oslavia, dove il poeta aveva dormito per un paio di giorni. Marina (allora Lante della Rovere) ricordava “quel quadro buttato lì, con quella tipica nonchalance che Franco aveva, nello studio di via de’ Prefetti dove si era trasferito da poco da via Oslavia e lo sentivo dire: ‘Che ignoranti! Buttano fuori Kerouac, non sanno manco chi è!’… poco tempo prima ricordo che Schifano, nella sua casa di Piazza in Piscinula, rideva a crepapelle del fatto che Angeli e Kerouac avessero fatto un quadro insieme senza parlare una parola nella lingua l’uno dell’altro. Mario parlava sempre in modo iperbolico e diceva: ‘…tutti i piccolo borghesi parlano bene l’inglese, Franco invece è un figlio del popolo, ma è meglio di tutti loro e Kerouac il quadro l’ha fatto con lui…’.”. Il quadro dipinto con Kerouac lo comprò Gian Maria Volonté, l’attore, il grande protagonista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri e di tanti film impegnati. Era amico di Franco e assiduo frequentatore dello studio. Un quadro venduto all’amico attore, quasi un fatto privato, come la vicenda da cui è nato, un’amicizia tra un pittore italiano che non parlava l’inglese e un poeta americano che non parlava l’italiano, però s’intesero a fondo. “Franco i quadri non voleva venderli e ogni volta che ne vendeva uno si disperava per tre giorni” proseguiva Marina (il quadro riappariva in una mostra di foto di Angeli curata da Carlo e Marina ai Mercati Traianei, Il sogno fotografico di Franco Angeli 1967-1975). Il soggetto del quadro è un’iconografia religiosa, è l’immagine della Deposizione dalla Croce, il momento della pietas, in cui al Cristo rimangono vicine le figure femminili e l’apostolo Giovanni. Si tratta di una grande tela cosparsa da una tempera celeste a spruzzo, una materia aspra e scabra. Si sa che Kerouac riempiva i suoi taccuini di schizzi. L’ispirazione mistica deve essere stata suggerita da Kerouac che per tutta la vita cercò nella religione come nell’alcol, nelle droghe e nelle fughe senza via d’uscita dei viaggi (quasi sempre con esiti disastrosi) una ribellione alle convenzioni e una dimensione esistenziale.

LA STORIA D’AMORE CON FRANCO ANGELI. Angeli percorse un’analoga ricerca anche attraverso la dimensione politica. Da laico probabilmente era più attratto dall’ispirazione caravaggesca di quella cappella a cui condusse Kerouac il giorno dopo averlo salvato dell’ennesima rissa della sua vita. E in quel quadro che fecero tornando allo studio di via Oslavia c’è una religiosità, o meglio un senso del sacro quasi pasoliniano. In quella stessa chiesa di Santa Maria del Popolo nel 1988 ci sarà il funerale di Franco Angeli e sarà proprio Carlo Ripa di Meana a tenere, con voce commossa, una struggente e appassionata orazione funebre (ricordo Marina uscire dalla cerimonia tenendo la manina di Maria, la figlia di Franco e Livia Lancellotti). Jack Kerouac era già morto di cirrosi nel 1969 a 47 anni in seguito all’ennesima sbronza. Si incontrarono in una Roma bella e maledetta, povera, ma bella. Lo studio successivo per Angeli è in via de’ Prefetti, ed è lì che nasce la storia d’amore con Marina che mi ha descritto l’appartamento: “Un grande attico, in angolo su piazza Firenze, con una bellissima luce e mattonelle bordeaux romboidali, sempre lucidissime. Per il resto praticamente vuoto, c’era solo un divano letto, dove Franco dormiva vestito. Portava sempre pantaloni di velluto”. Quel divano Marina ce l’aveva ancora. Quando aveva conosciuto Franco nello studio di Schifano l’aveva giudicato “un uomo bellissimo, ma male in arnese… tutto abbottato”. In estate, quando vanno al mare a Fregene o ad Ansedonia, dove ci sono amici artisti come Mario Schifano (che per un periodo vive lì) o intellettuali come Bernardo Bertolucci, Franco indossa pantaloni a righe “tipo carcerato”. Vanno da Rosati, al Bolognese, al Toulà e anche spesso a cena con Renato Guttuso e Mimise alla Fontanella. Di quegli anni Marina ricorda lunghe passeggiate a piedi tra via Borgognona, dove abita, e via de’ Prefetti. Poi c’è il trasferimento a piazza Farnese, per andare ad abitare insieme (in realtà Marina aveva tenuto l’atelier in piazza di Spagna e la casa in via Borgognona). L’appartamento è al primo piano e a volte dalle finestre calano un cestino per farsi mandare il cibo dalla trattoria sottostante. “Franco però cucinava molto bene, soprattutto l’abbacchio, e invitava gli amici. Ospite fisso a casa era Marco Bellocchio: aveva già fatto I pugni in tasca e La Cina è vicina ed era molto famoso, però era tristissimo, seduto all’indiana, con la faccia tra le ginocchia… Per fare contento Franco avevo portato tutti i miei vestiti lì, in una stanzetta che dava sul vicolo, li acchiappavo da terra… per fortuna c’era la moda hippy…” raccontava Marina ridendo. Anche questa casa è comunque molto vuota: un divano, un tavolo, tanti quadri e una macchina da scrivere. Poi ci saranno lo studio di via Monte della Farina e la casa sull’Appia Antica (dove ci sarà la grande festa in rosso per la vittoria del PCI, cui partecipano Antonioni, Monica Vitti, Tinto Brass…). Tra i loro amici c’erano anche scrittori come Sandro Penna, Alberto Moravia e Goffredo Parise (alla sua amicizia con gli ultimi due Marina ha dedicato il suo ultimo delizioso libro, Colazione al Grand Hotel, ma ne aveva in preparazione altri due, uno sulla malattia, con il suo coraggio mi aveva detto che voleva intitolarlo Ho preso il cancro per le corna; l’altro sui cani, amava moltissimo gli animali).

LA LUCE DI ROMA. Pare che lo scrittore Dudù La Capria dopo la scomparsa di Marina abbia esclamato: “Roma è spenta, perché lei era la luce!”, è una sensazione che ho provato anch’io. Marina era luminosa, usava spesso l’aggettivo “brillante”. Era l’ultima protagonista di una vita che a Roma era stata dolce. Una città dove essere divertenti era quasi un dovere e a nessuno questo riusciva meglio che a Marina, spiritosissima, dotata di grande senso dell’ironia e di allegra vitalità. Avevo avuto due gravi operazioni e il mio primo viaggio dopo la convalescenza fu andare a Bologna per Artefiera. Lei (veniva sempre a Bologna per la fiera, spesso con gli amici Christian e Miria Maretti) era nello stand di Pio Monti e mi accolse con un abbraccio al grido di: “Anche tu tumorata di Dio!”. La ricordo in uno splendido abito da sera ballare con l’amico Giulio Turcato con un maglione tutto sdrucito e anche scatenata in un ritmo afro mentre Giovanna Portoghesi si esibiva in una danza del ventre e io in un pezzo di balletto classico. La domenica sera con Gino De Dominicis andavamo spesso con Carlo e Marina alle Colline Emiliane, Gino adorava il piccioncino. “È difficile dire chi dei due fosse il più squinternato” ha detto Mughini di Carlo e Marina. Carlo era un politico diverso da tutti, non aggressivo, non carrierista, ma raffinato e coltissimo. Due persone a loro modo bizzarre e non convenzionali, libertarie, anticonformiste.

IL SUO MESSAGGIO. Insieme hanno combattuto battaglie animaliste ed ecologiste. Poi Marina si è battuta come una leonessa contro i ciarlatani che illudono i malati di tumore, per la legge sul fine vita e infine con l’ultimo fortissimo messaggio video: “Fate sapere ai malati terminali che c’è un’alternativa al suicidio in Svizzera”. Indomita, con un incredibile coraggio, dopo anni passati a combattere la malattia con l’energia che sempre metteva in tutte le cose. C’era bellezza e grandezza in tutto quello che faceva e diceva. Mai competitiva con le altre donne, anzi, sempre la prima a dire alle amiche: quanto sei bella, che bel vestito… ma se qualcosa la faceva infuriare Marina era inarrestabile. Aveva iniziato a 13 anni quando al cinema un tale aveva avuto la malaugurata idea di masturbarsi sul suo montgomery giallo e lei aveva tanto urlato e scalciato che lo aveva (giustamente) fatto arrestare. Aveva proseguito con lanci di torte e scarpe rosse dal vertiginoso tacco. Ma c’era un’altra Marina. Quella che una sera che ero andata da lei perché mi aveva invitato con amici in un locale, vedendo la sua piccola bellissima Lucrezia che aveva allora 7-8 anni, aveva detto: “Ma si può uscire quando c’è a casa una simile meraviglia?”. Quella che quando la nostra amica Carlotta de Guevara morì in un incidente di macchina in cui rimase gravemente ferita la figlia piccolissima mi chiamò per dirmi che lei e Carlo avrebbero voluto sostenere le spese mediche per la bambina. Quella che ho accompagnato a portare salmone e mango a Carlo in ospedale. Quella a cui nessuno aveva il coraggio di dire che la sua amica di una vita, la grande fotografa Elisabetta Catalano, era scomparsa, e fui io ad avvisarla. Ora smetto perché se no Marina mi dice: “Non diventare melensa…”. La sera della vigilia di Natale aveva invitato pochi amici stretti, ma all’ultimo momento aveva dovuto disdire: Carlo aveva la febbre, ma anche lei (mi aveva bisbigliato al telefono il figlio adottivo Andrea) non stava tanto bene. Mi aveva chiamato mortificata per scusarsi. “Che peccato, ti avevo preso le ostriche!” è l’ultima cosa che mi ha detto… Se penso a lei e alla sua leggerezza mi viene in mente una frase di von Hofmannsthal: “Bisogna nascondere la profondità: Dove? Nella superficie”. Laura Cherubini

«E Marina mi disse: il corpo è un lavoro», il ricordo dell'amica Barbara Palombelli, scrive il 5 gennaio 2018 Lavinia Farnese su "Vanityfair.it". La giornalista romana ricorda Ripa di Meana: «La sua forza? Truccarsi e uscire dalle case meravigliose che aveva, sempre». «Quello che più colpiva di lei, era la bellezza unica delle sue gambe, del suo corpo, del suo viso, che accompagnava un’intelligenza unica». Barbara Palombelli, amica di Marina Ripa di Meana dagli anni Ottanta («quando lei si mise con Carlo Ripa di Meana, e si stava sempre tutti insieme») la ricorda appena scomparsa a 76 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. «Una delle lezioni più grandi me l’ha data quando è venuta ospite da me a Forum in Tv, in quella che è stata una delle sue ultime apparizioni: ho avuto paura, già non si reggeva in piedi. Poi si è accesa la telecamera, ed è stato come nulla fosse. “Guarda che il corpo è un lavoro”, mi ha detto dopo. “Te lo puoi, te lo devi fabbricare”. “Io così ho fatto: mi sono fabbricata, costruita”. Proprio così. Ha messo un’energia pazzesca dentro il suo personaggio. Con la malattia, ancora di più. Indossava parrucche meravigliose. “Hai un taglio bellissimo”, le dicevo. E lei rideva. Voleva la truccatrice, la sua, che era sempre in grado di ridarle il volto dei vent’anni». Dopo l’ultimo Festival di Venezia – in cui come di consueto non si era persa il red carpet d’apertura – «I fotografi e tutti aspettavano soltanto lei, con i suoi cappellini» – mi ha chiamata e ha detto: “Barbara, a ottobre do una festa a casa, e stavolta devi venire: è il mio ultimo compleanno”. Sono andata. Lì mi ha guardata, sempre senza lamentarsi, e ha detto: “Sai, vado avanti, ma non so se arriverò a Natale. Vorrei vedere nascere il mio pronipote, sarà maschio, ma non credo ci riuscirò”». Va indietro nel tempo: «Marina era molto amica di Bettino Craxi. Ricordo che abitava in via della Croce, un quinto o sesto piano senza ascensore quando lo convocò lassù perché convincesse Giovanni Malagò a sposare sua figlia Lucrezia Lante della Rovere». Ci riuscì. «A Marina nessuno sapeva dire di no. Piaceva persino a Fulvia Ripa di Meana, mamma di Carlo, grande protagonista snob della resistenza romana, mentre nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla loro unione, perché Marina appariva nuda ovunque un giorno sì e l’altro pure. Ma affascinava con la sua vitalità: ogni mattina passeggiava per due ore con i cani a Villa Borghese, perché la sua forza era tutta questa: truccarsi e uscire da queste case meravigliose che aveva. Anche quando fuori e dentro ha iniziato a piovere. Anche quando ha interrotto le terapie, e il viso era gonfiato dalle medicine. È rimasta gentile: con l’autista, con l’operatore, con la truccatrice, con l’uomo alla guardiola, con le persone che incontrava ogni giorno per strada. Si è fatta guidare tutta la vita dall’amore, anche quando l’amore portava litigate, scenate, borsettate, tragedie. Le è sempre piaciuto essere teatrale e trasgressiva, salvo poi fermarsi a 40 anni, quando in Carlo ha trovato il suo porto sicuro, quello che aspettava. E lui l’ha lasciata fare. Comprarono una casa a Parigi, con mutuo a 50 anni. Presi al suo atelier in piazza di Spagna un vestito che mi lasciava nuda, a 17 anni, e il mio fidanzato di allora non mi permise mai di indossarlo. Marina Ripa di Meana ha insegnato a tutte le donne che si può essere trasgressive rimanendo brillanti, alla faccia delle oche. Perché si innamorava – e faceva innamorare – di tutto».

Addio Marina Ripa di Meana, una vita da ribelle, scrive il 5 gennaio 2018 Ginevra Borghese su "Vanityfair.it". È morta il 5 gennaio nella sua casa di Roma. Aveva 76 anni. Lo aveva detto ai familiari, agli amici: «Questo sarà il mio ultimo Natale». E così è stato. È morta il 5 gennaio nella sua casa di Roma, e a 76 anni, Marina Ripa di Meana. Circondata dall’affetto dei suoi cari. Moglie prima del duca Alessandro Lante della Rovere, e poi del marchese Carlo Ripa di Meana (testimoni della sposa: Alberto Moravia e Goffredo Parise, testimone dello sposo il leader socialista Bettino Craxi), per oltre 16 anni ha cercato di sconfiggere quel cancro che poi alla fine ha avuto la meglio. Nata il 21 ottobre 1941, amante di salotti culturali e appassionata di moda, convinta animalista, le ultime feste le ha trascorse con la figlia (le foto proprio sul profilo Instagram di Lucrezia Lante della Rovere), le nipoti, i parenti più stretti. Cresce a Reggio Calabria, con il cognome Punturieri, si trasferisce poi a Roma. Dopo gli studi, inizia a lavorare come stilista aprendo un atelier di alta moda in piazza di Spagna, frequentando sempre gli ambienti più altolocati della nobiltà capitolina, esistenza da Dolce vita di Federico Fellini. Da sempre trasgressiva e provocatrice, molto amica tra gli altri di Pierpaolo Pasolini, Mario Schifano e Tano Festa, in una delle sue memorabili apparizioni in Tv (da Barbara D’Urso a Pomeriggio 5), aveva confessato la sua lotta contro il tumore. Autrice di molti libri autobiografici (tra cui I miei primi quarant’anni – Mondadori, 1984: ne è stato tratto un film diretto da Carlo Vanzina -, La più bella del reame – Sperling & Kupfer 1988, il film è di Cesare Ferrario – Cocaina e colazione, del 2005, sulla relazione extraconiugale con il pittore Franco Angeli -, e Invecchierò ma con calma – Mondadori 2012, sui suoi 70 anni) è stata «valletta» di Maurizio Costanzo, concorrente del reality show La Fattoria condotto da Paola Perego con Mara Venier). E sempre attenta al tema della tutela: del paesaggio, degli animali, del bello. Si è esposta in prima linea contro l’uso delle pellicce, dei cuccioli di foche, contro le corride e contro gli esperimenti nucleari. A quanto si apprende da Dagospia, che per primo ha dato la notizia della morte, non sono previste cerimonie funebri.

[Il ritratto] Da Pasolini alla scalata alla nobiltà e poi Craxi. Addio a Marina Ripa di Meana, l’indomabile che ha cercato di sconfiggere il cancro. Coraggiosa, forte, agguerrita, diceva che avrebbe vinto lei. Purtroppo dal novembre scorso non ci credeva più. "Può succedere da un momento all'altro" confidava agli intimi. È successo dopo le feste, lei se lo aspettava. Noi, meno. Lei che rideva di tutto, penserà che é stata comunque una straordinaria avventura. Noi, invece, piangeremo l'amica che non avremo più. Ciao Marina, scrive Monica Setta, giornalista e conduttrice tv, il 5 gennaio 2018 su "Tiscali Notizie". "Sarà il mio ultimo Natale, lo sento. Voglio viverlo con i miei affetti, pienamente come ho fatto sempre". Indomabile Marina, testarda, capricciosa, voluttuosa nei confronti dell'esistenza, aveva già capito tutto i primi di dicembre quando, incontrando le amiche, spiegava con una linearità esemplare che il suo viaggio dentro il cancro - lungo sedici, sofferti anni- stava per finire. Marina Elide Punturieri sposata in prime nozze Lante della Rovere quindi Ripa di Meana (titolo acquisito con il secondo matrimonio) si é spenta oggi come previsto dai medici che sapevano, ormai da settimane, l'infausto esito del male. Nata il 21 ottobre 1941, la donna che incantava i potenti, rossa di capelli ma anche di cuore, ha vissuto in modo assoluto, non transitorio, mai a metà, senza luci né ombre. "Sono un'integralista, me ne vanto" diceva di sé quasi a giustificare quell'estro a tratti surreale, enfatico che la poneva irrimediabilmente al centro degli eventi, perfino quando - erano davvero rare quelle volte - lei voleva stare in disparte. Marina comincia con la moda aprendo un atelier di Haute couture in piazza di Spagna a Roma, insieme con l'amica Paola Ruffo di Calabria diventata più tardi principessa di Liegi e ancora più avanti, dal 1993 al 2013, regina del Belgio. Bella, disinvolta, la futura marchesa Lante della Rovere conquista un posto da numero uno nella vita mondana della Roma degli anni sessanta. Sale alla ribalta della cronaca sposando il 10 giugno 1964 Alessandro Lante della Rovere, appartenente all'importante famiglia aristocratica romana, da cui ha una figlia, Lucrezia. Frequenta gli ambienti altolocati della nobiltà capitolina, le cui vicende in quegli anni si intrecciano con quelle raccontate nel film La dolce vita di Federico Fellini.

Dal marchese Lante a Franco Angeli. Marina conosce in quegli anni Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini, è vicina agli artisti della Scuola di piazza del Popolo, amica di Mario Schifano o Tano Festa. Ma il dato eclatante di quel periodo che si snoda verso gli anni settanta ē la sua tormentata relazione extraconiugale con il pittore Franco Angeli. Amore tempestoso, quello con Franco che ispirerà il suo libro, Cocaina a colazione (2005). Marina non si fa scrupoli a descrivere minuziosamente in modo drammatico le conseguenze di quella passione dannosa raccontando di essere arrivata a prostituirsi per poter comprare la cocaina al suo amante. Troppo vivace questa giovane donna che attraversa la città ed i suoi umori caracollando su tacchi rigorosamente troppo alti indossando minigonne di sapiente aderenza. Il suo primo matrimonio con il marchese Alessandro Lante della Rovere si conclude con un divorzio. Da quel momento, Marina Punturieri vive, per sua stessa, successiva ammissione, un'esistenza amorosa movimentata, disordinata inanellando una serie di relazioni sentimentali, non ultima quella con il giornalista Lino Jannuzzi, di cui dà conto nel suo best seller I miei primi quarant'anni. Difficile, lo rivelerà lei quando la figlia sarà adulta, anche il rapporto con la figlia Lucrezia. "Non sono stata la mamma tradizionale ma ho amato moltissimo la mia bambina" mi confidó alla metà degli anni Duemila, intervistata da me nel mio salotto rosa a Domenica in. Il punto di svolta della sua vita, amava dire, è stato il secondo marito che lei strappò all'architetto Gae Aulenti. Si erano conosciuti a Venezia Marina & Carlo Ripa di Meana ed erano diventati immediatamente amanti. Ma accanto a lui c'era appunto Gae che non sembrava essersi accorta del tradimento. Marina chiese al suo uomo di scegliere, la Aulenti venne a saperlo finché il ménage a trois si risolse con l'uscita di scena del famoso architetto.  

Le nozze con Carlo Ripa di Meana. Nel 1982 Marina si sposa in seconde nozze con il marchese Carlo Ripa di Meana, testimoni della sposa erano gli scrittori Moravia e Goffredo Parise, mentre testimone dello sposo era il leader socialista Bettino Craxi. Anche dopo il secondo matrimonio, per alcuni anni Marina continuerà a farsi chiamare Lante della Rovere, fino a proibizione del Tribunale di Roma su istanza mossa dello stesso ex marito, papà della unica figlia Lucrezia. Marina amava raccontare del suo rapporto con Craxi un episodio che la faceva sempre ridere. "Quando Lucrezia ebbe la certezza di essere incinta di Giovanni Malagò in casa si discusse sul da farsi" mi sveló Marina "io ne parlai subito a Bettino che era prima di tutto un mio caro amico. Sai che cosa fece Craxi? Venne da noi un giorno, lasciando tutti gli impegni politici perché voleva parlare con i due ragazzi. Eravamo in salotto, sentimmo suonare alla porta. Lucrezia aprì trovandosi davanti Bettino che le disse: andiamo a pranzo, dobbiamo parlare del vostro futuro". Da quell'unione nacquero le due gemelle, le amatissime nipoti di Marina che, se era stata poco mamma, aveva recuperato alla grande come nonna. Intenso fu poi il suo legame con la tv. Dalla fine degli anni settanta comincia sempre più spesso ad apparire in televisione e nello stesso periodo prende parte con un piccolo ruolo al film Assassinio sul Tevere (in cui è accreditata con il cognome del primo marito) di cui ē protagonista Tomas Milian. Per un po' di tempo fa da valletta a Maurizio Costanzo ma il sodalizio che pareva eterno si interromperà bruscamente quando la Ripa di Meana tirerà una torta in faccia allo stesso giornalista durante una puntata della trasmissione Grand'Italia. Più avanti la Ripa di Meana partecipa come opinionista o protagonista di trasmissioni in cui mette in risalto il carattere esuberante e la sua natura anticonformista, e dibatte politica sui temi della natura, della tutela del paesaggio, dell'esaltazione del bello e della difesa degli animali.

Il mio amico Bettino & dintorni. Il forte legame con Bettino Craxi durerà anche durante la latitanza del leader socialista ad Hammamet, in Tunisia. Marina era sull'aereo che portó nel 1986 Craxi in Cina per una visita ufficiale: quel viaggio scatenò lunghe polemiche per il costo elevato dovuto alla presenza nel volo di Stato di numerosi familiari e amici dell'allora Presidente del consiglio. Nel 1987 dalla sua biografia viene tratto il film I miei primi 40 anni diretto da Carlo Vanzina con Carol Alt che vede la Ripa di Meana tra gli sceneggiatori. Nel 1989 anche il suo secondo best seller La più bella del reame viene portato sul grande schermo in una pellicola diretta da Cesare Ferrario (anche qui con Carol Alt nella parte della protagonista). Svariate le sue attività in campo professionale: ha scritto una decina di libri spesso a sfondo autobiografico (ma anche romanzi gialli e sentimentali), e ha diretto un film, il thriller Cattive ragazze (1992) con Eva Grimaldi. Fu sollevata all'epoca un'aspra polemica sulla pellicola, che ricevette fondi pubblici secondo alcuni grazie all'amicizia tra la Ripa di Meana e Bettino Craxi; a ogni modo il film risultò un flop, sia di critica sia di pubblico. Nel 1990 lancia e dirige per due anni il mensile Elite. Nel 1995 diventa ambasciatrice dell'IFAW (International Fund for Animal Welfare - USA) per cui realizza una campagna pubblicitaria completamente nuda, con una folta peluria sul pube. Lo slogan è chiarissimo: questa è L'unica pelliccia che non mi vergogno di indossare. Sempre nella metà degli anni novanta ha anche condotto la trasmissione Casa vip trasmessa sulla syndication nazionale Cinquestelle. Dagli anni novanta in poi ha inoltre preso parte, in Italia e in altri paesi, a svariate campagne contro lo sterminio dei cuccioli delle foche, contro l'uso per moda e vanità delle pelli e delle pellicce, contro le corride, contro gli esperimenti nucleari francesi nell'atollo di Mururoa. Marina si é battuta contro la chiusura dell'Ospedale San Giacomo di Roma. Molte sono state le battaglie a favore dell'ambiente, della legalità o dei diritti delle minoranze che l'hanno vista sempre, comunque in prima fila. Scopre di avere un cancro nel 2002, lo affronta come una leonessa sicura, all'inizio, di vincere. Chemioterapia, capelli rasati a zero, il fisico un tempo stupendo che si modifica per le cure con il cortisone: non c'è nulla che faccia venir meno in lei la voglia pazza di vivere. Per alcuni anni sembra tutto tornare normale, i controlli sono regolari, Marina riprende a respirare. Appare in tv, partecipa ad un reality, scrive ancora, disegna, fa collezione di cappelli o monili. A casa sua, nel cuore del quartiere Prati, ci sono gli amati cagnolini ed una sconfinata quantità di collane, orecchini, scarpe, borse. Lentamente, smaltito il peso delle cure, Marina ritorna ad essere la splendida donna che fu, dirompente, provocatrice, seduttiva. Intervistata da me per un programma su Agon Channel, disse - eravamo nel 2015 - di sentirsi ancora profondamente femmina. Ma il cancro era arrivato ancora, stavolta in modo drastico, drammatico, inevitabile. A Barbara D'Urso aveva mostrato su canale 5 i segni delle terapie che le avevano temporaneamente sfigurato il bel viso costringendola ad usare una veletta. Coraggiosa, forte, agguerrita, diceva che avrebbe vinto lei. Purtroppo dal novembre scorso non ci credeva più. "Può succedere da un momento all'altro" confidava agli intimi. È successo dopo le feste, lei se lo aspettava. Noi, meno. Lei che rideva di tutto, penserà che é stata comunque una straordinaria avventura. Noi, invece, piangeremo l'amica che non avremo più. Ciao Marina. 

Marina Ripa Di Meana e quella volta che tirò le torte in faccia a Baudo e Costanzo, scrive il 05/01/2018 Gaia Cavalluzzo su "velvetmag.it". Ci ha lasciati con immenso dolore una delle donne dello spettacolo, attrici, scrittrice, conduttrice e stilista più amata dagli italiani, Maria Ripa Di Meana. Dopo una lunga lotta contro il cancro al rene, all’età di 76 anni è morta nella sua residenza romana. La Ripa Di Meana, personaggio da sempre eclettico, nel 1980 durante una puntata di un programma di Maurizio Costanzo riservò una bella torta in faccia al marito di Maria De Filippi; la reazione dello sgomento conduttore? Maurizio asserì che non è mai il caso di invitare le contesse in trasmissione.

"Mi sono prostituita, ho lanciato pipì su Sgarbi e una torta in faccia a Maurizio Costanzo". Tutti gli eccessi di Marina Ripa di Meana. La stilista e scrittrice è morta a 76 anni. Per le causa animalista ha posato nuda, scrive il 05/01/2018 su "Huffingtonpost.it" Francesco Caligaris, Giornalista. La regina degli eccessi. Marina Ripa di Meana ha sempre fatto parlare di sé, anzi: ne ha sempre parlato lei stessa. Ha raccontato tutto, i suoi scandali e le sue avventure, fin dall'autobiografia "I miei primi quarant'anni" uscita nel 1984. È morta a 76 dopo che da 16 era malata di tumore. Due mariti, tanti uomini (anche più di uno alla volta), droga, battaglie e gesti oltre le righe. "Ho fatto di tutto. Compreso prostituirmi - aveva rivelato al Corriere della Sera - Mi sono fatta pagare, ma era un ragazzo giovane e bello. Siamo stati insieme due volte e, facendo la spiritosa, gli ho detto a brutto grugno 'mo' mi paghi'. E lui pagò: cinque milioni di lire". Ha lanciato pipì contro Vittorio Sgarbi e una torta in faccia a Maurizio Costanzo. Presenza fissa sul red carpet della Mostra del Cinema di Venezia, era celebre per i suoi stravaganti cappelli. Una volta si mise in testa un ragno, un'altra si presentò con il volto dentro una gabbia per pappagalli. Era così.

Trash-chic, quando Marina Ripa di Meana mi tirò una cappellata in faccia. Racconto di un incontro ravvicinato a Cortina Incontra. Prima di salire sul palco Marina mi aveva suggerito a freddo: “Sei pronta a fare una mezza sceneggiata?". Solo dopo capii a cosa alludesse ma la situazione le era sfuggita di mano, scrive Januaria Piromallo il 6 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Cortina Incontra, la rassegna cultural/chic ideata da Iole eEnrico Cisnetto che attirava i poteri forti in trasferta ampezzana. Io presentavo il mio libro Bella e d’annata (Cairo editore), lei Lettere a Marina.  Dato il parterre bisognava assolutamente farsi notare, bucare con un exploit. E lei di questo era Gran Maestra. Quando presi la parola citai I miei primi quarant’anni (cioè i suoi, quelli della signora Ripa). Il mio concetto era semplice: mentre lo leggevo, una ventina d’anni prima, consideravo l’autrice una signora di mezz’età. Oggi certi riferimenti anagrafici/generazionali si sono spostati e nessun ventenne preso a caso vedrebbe una quarantenne come na’ vecchia.  Mentre parlavo fui aggredita da una furia che mi insultava: “Come ti permetti di darmi della signora di una certa età. Perchè far notare al pubblico la più che evidente differenza d’età?” E pensare che prima di salire sul palco Marina mi aveva suggerito a freddo: “Sei pronta a fare una mezza sceneggiata?”. Solo dopo capii a cosa alludesse ma la situazione le era sfuggita di mano: agli urli passò ai fatti, si tolse il basco nero (che le stava delizioso poggiato alle 23) e me lo tirò addosso. Elegantemente Nicoletta Picchio, brillante firma del Sole 24 Ore e moderatrice del dibattito sulla seduzione raccoglieva il cappello, il guanto della sfida.  Sorrideva in prima fila il regista Carlo Vanzina, sonnecchiava in quarta il marito Carlo Ripa di Meana, risvegliato solo dagli acuti della moglie. Ai lanci fuori programma Marina aveva una certa dimestichezza, al Maurizio Costanzo Show andò peggio e si beccò una torta in faccia. Quando Marina smise di strillare, si diede un’aggiustatina al trucco. Calato il sipario mi offrì la mano in segno di pace. In fondo una certa età era un bel traguardo, o no? E gli anni meglio amarli che nasconderli.  L’incidente era bello e dimenticato, se non fosse stato per Antonio Ricci che inserì la baruffa nella categoria “Nuovi mostri” e ci mandò in onda su Striscia la notizia. Come Marina nessuno mai, ha rivoluzionato la storia del costume che le andava troppo stretto, fu anche attivista di buone cause e fino all’ultimo ha dimostrato una forza che eclissava le più giovani e trendy. Una battaglia contro il tumore durata 16 anni (“Il più grande tradimento subito. A tradirmi è stato il mio corpo”). E una frase diventata il suo testamento: “Se tornassi a nascere, vorrei essere un fiume. Straripante”.

Sgarbi: "Vi racconto la vera Marina Ripa di Meana, femminista seduttrice". "Mi lanciò la pipì d'artista, poi fummo amici", scrive Vittorio Sgarbi il 7 gennaio 2018 su "Il Quotidiano.net". C'era, in Marina Ripa di Meana, una naturale vocazione artistica, a metà strada fra Oscar Wilde e Andy Warhol. Le era toccato di vivere in un’epoca difficile. Figlia della guerra, si era sposata quando ancora ci si univa in chiesa, ben prima dell’introduzione del divorzio, e con un esponente dell’aristocrazia nera romana. Il primo matrimonio, con Alessandro Lante della Rovere, avvenne nel 1964, molto prima che divampasse il femminismo militante. Così Marina ebbe un’educazione tradizionale, inserita nel mondo aristocratico, nella Roma che si concedeva gli ultimi fasti di tante stagioni felici con la ‘dolce vita’. Quella della fantasia di Marina negli anni in cui le donne sono come Kim Novak e Anita Ekberg e gli uomini sono come Marcello Mastroianni. Uomini e donne nuovi ma, per così dire, premoderni. Non ancora come quelli della mia generazione, la più fortunata, dei nati nel secondo dopoguerra e giovani negli anni del movimento studentesco. Sarebbero bastati dieci anni per passare dalla ‘gioventù bruciata’ alla ‘gioventù liberata’, al 1968. Ci furono entusiasmo, fantasia e immaginazione al potere in quegli anni. Ma Marina era una donna che si era formata nel mito tardivo della femme fatale: era bellissima e seduttrice, e attraverso queste arti riusciva a rovinare gli uomini. Io ero bambino, ma sono certo che, in quegli anni, Marina aveva sontuose pellicce di visone, mentre, molti anni dopo si sarebbe schierata contro l’uso per moda di pelli e pellicce, lo sterminio dei cuccioli delle foche, contro le corride, diventata animalista. Allo stesso modo, la sua capacità di seduzione felina si rovesciò in femminismo quando i tempi consentirono alle donne di manifestare le loro superiorità. È stata certamente il personaggio più notevole di quel passaggio d’epoca, da un piccolo mondo antico a un piccolo mondo moderno. Un caso interessante di femminismo non classico, non provocatorio, non urticante (e spesse volte, invece, intrigante e seduttivo), e comunque non antagonista al maschio. Il modo migliore per umiliare un uomo è sottometterlo sessualmente, sedurlo fino a fargli perdere la testa, mantenendo la propria. Marina è stata femminista, sottomettendo i maschi al suo dominio. La sua natura era provocatoria, divertente, smodata, sempre pronta al colpo di scena, come quando lanciò la torta in faccia a Costanzo o la “pipì d’artista” a me. Erano reazioni indispettite, indignate, come per rivendicare diritti lesi. Ma lo faceva sorridendo, convinta di giocare in un mondo di eterni bambini, fulminei nell’incazzarsi e altrettanto nel perdonarsi. Le sue trovate, con un retrogusto artistico, erano espressione di individualismo, di antagonismo, di esibizionismo, e non alteravano il suo temperamento giocoso e divertente. Era una donna voluttuosa e decadente, una interprete femminile del Don Giovanni. In questo è stata certamente anticipatrice, una figura all’avanguardia tanto più dirompente nel contesto delle regole tradizionali. E proprio a lei è toccato rappresentare una fase evolutiva della donna seduttrice. Anche dopo i dispetti io, che la conoscevo da tanti anni e le ero stato vicino anche per il suo compiacimento del mio carattere affine, avevo ripreso a vederla con il consueto affetto e tranquillità. Era bella, era stata bellissima, sempre interessante. Ha rappresentato la fase evolutiva della seduttrice in donna che rivendica la propria autonomia e primato. Ma lei era riuscita a rovesciare le parti uomo/donna in un momento in cui la parità era molto difficile, affermando, paradossalmente, il primato della donna. Adesso le donne ci hanno abituato a fare quello che vogliono. Lei è stata una delle prime.

“Quando Agnelli mi trovò a letto con due uomini...”, scrive il 05/01/2018 Domenico Marcella su Il Giornale. Ci ha appena lasciati Marina Ripa di Meana: sapevamo, per avercelo raccontato la scorsa primavera, che combatteva contro il cancro da più di sedici anni. Per volere dei suoi cari, i funerali si svolgeranno in forma riservata. Amica di Alberto Moravia e degli artisti della “scuola romana” Mario Schifano e Tano Festa, è stata sposata prima con Alessandro Lante della Rovere -da cui ha avuto Lucrezia- e poi con Carlo Ripa di Meana. Sempre all’insegna della trasgressione e della provocazione, è stata un personaggio della tv (conosciutissimo il suo impegno per la tutela del paesaggio, l’esaltazione del bello e della difesa degli animali) e una scrittrice. Fra i suoi libri ricordiamo il celeberrimo “I miei primi quarant’anni”, del 1984, cui ha fatto da controcanto nel 2012 “Invecchierò ma con calma”, sui suoi settant’anni. Noi di OFF desideriamo ricordarla con questa sua intervista cult. Ciao Marina. Marina Ripa di Meana, profetessa dei decenni turbolenti. Intervistata da gay.it – come riporta Il Giornale -, Ripa di Meana ha parlato della sua malattia, del suo passato, di Virginia Raggi (“Ha peccato di presunzione – continua -. Pensava che con il suo arrivo avrebbe rimesso a posto tutto. Poverina. Spero che resti ancora molto, così da far cattiva pubblicità, una volta che si tornerà alle politiche, ai grillini”), di utero in affitto (“Io non sono d’accordo alla procreazione in generale, tanto più quella gay. Siamo già tanti e non capisco questa voglia matta di fare figli in provetta, uteri in affitto e quant’altro. A me tutte queste cose fanno orrore!”) e degli omosessuali, su cui confessa: “Non capisco perché si sentano ancora discriminati”. Proponiamo qui l’intervista Cult alla Ripa di Meana.

Marina, ci racconta un episodio OFF?

«La fuga da La Fattoria. Per me i reality sono da sempre un orrido fumo negli occhi, ma ero in un momento in cui mi faceva molto comodo accettare la cifra che mi avevano offerto. Pensavo di andare lì ad affrontare questioni ambientali e invece, giunta in Brasile, mi sono resa conto di essere circondata da una sgangherata mandria di buzzurri. L’unica simpatica era Barbara Guerra, che mi deliziava con gran massaggi. Ho organizzato a freddo la litigata con Fabrizio Corona – lasciandomi andare anche a dichiarazioni estremamente pesanti – fingendo un malore. Ho messo in atto una sceneggiata per fuggire via».

Credevo che avresti citato il bicchiere pieno di pipì su Vittorio Sgarbi...

«Rivendico la grandezza di quel gesto perché era ispirato a Piero Manzoni: dopo la Merda d’artista, ecco il Piscio d’artista. A qualcuno, che malignamente ha messo in discussione le mie doti artistiche, ho risposto che l’arte è anche inventare una cosa simile».

Sei creativa come una piccola azienda familiare.

«Non è stato difficile auto-crearsi, è stato naturale come il cacio sui maccheroni. Non avrei saputo fare altro. Tutto quel che è nato da un istinto naturale, è proseguito con una ferrea e seria disciplina. Sono da una vita concentrata sul mio circuito».

Sei alla ricerca del denaro a ogni costo?

«Considero il denaro un elemento importantissimo, ma non perché ne sia assetata o schiava. I soldi sono importanti perché rappresentano il superfluo».

E infatti chiedi sempre lo sconto in ogni negozio in cui fai acquisti…

«Certo che lo chiedo sempre. Pensa che l’altro giorno mi hanno telefonato da Venezia, dicendo che dei signori avevano chiesto lo sconto su un paio di Hogan spacciandosi per miei parenti».

Hai una collezione d’arte composta solo da opere avute in dono dagli artisti: pare che tu non ne abbia acquistato nemmeno una…

«No, dài: qualcosina l’ho anche acquistata. In effetti, quello che ho avuto l’ho ricevuto dagli amici artisti e molto di più – purtroppo – l’ho anche venduto. Per esempio: in un momento in cui avevo bisogno di denaro, ho venduto un Fontana a 13 tagli; un pezzo bello e unico che – durante la permanenza a casa mia – destò la curiosità e l’interesse di molta gente. Oggi varrebbe oltre un milione di euro. Non sono mai stata ricca, povera semmai».

Sei mai stata con un uomo per soldi?

«Una volta, per cinque milioni di lire. Mi sono dovuta prostituire per procurare la droga a Franco Angeli, il mio compagno dell’epoca».

Hai vissuto libera e senza pudore, eh?

«Ho vissuto bene perché sono sempre andata incontro alle mie necessità, alle mie debolezze e ai miei desideri.

Nei tuoi primissimi libri a sfondo autobiografico, lasci abbondantemente intendere senza far nomi. Giovanni Agnelli, per esempio.

«Arrivò a casa mia sull’Appia Antica, si affacciò alla porta della mia camera da letto e trovandomi a letto con Eliseo Mattiacci e Gino De Dominicis disse: «Siamo già in troppi», e se ne andò via».

Ti parlò mai di sua moglie Marella?

«Una volta, in un ristorante a Parigi, mi venne incontro dicendo di aver visto in televisione La più bella del Reame. Mi disse che Marella, molto infastidita, lo invitò a non guardare più quelle stupidaggini. Effettivamente, va detto, non era un film d’autore».

Oltre alla moda, per cui hai lavorato per trentacinque anni, hai partecipato anche alle proteste animaliste: dal balcone di Palazzo Farnese contro Jaques Chirac, ai manifesti di nudo integrale.

«Tutto è nato dalla fantasia e dalla creatività di una persona che non si è mai tirata indietro. Quella del nudo fu studiata da una grande agenzia che mi propose una serie di possibilità. Scelsi, tranquilla e impavida, la più vincente. Mio padre diceva sempre: «Marina non è coraggiosa, ma incosciente». Sposo la causa, senza chiedermi gli effetti. L’istinto non tradisce mai».

Lo rifaresti?

«In parte l’ho fatto: qualche anno fa, in una trasmissione di Chiambretti, attraverso un fotoritocco che ha imbiancato tutto il contesto».

Non hai mai temuto i benpensanti dell’alta società.

«Mai. Mi hanno sempre giudicato come qualcosa di orripilante. O forse peggio: come qualcosa che non si giudica perché non esiste. I benpensanti ti scaraventano nel cono d’ombra, ma tra me e loro non c’è mai stato feeling: «Non ti curar di loro, ma guarda e passa»».

Marta Mazotto e Renato Guttuso. Marina Lante della Rovere e Franco Angeli.

«Siamo stati molto amici e ci siamo molto frequentati. Guttuso ogni mattina andava a casa di amici per poter amoreggiare telefonicamente con Marta senza essere spiato da sua moglie Mimise. Un giorno, giungendo nello studio di Franco, lo trovò intossicato dall’eroina. Lo portò in ospedale e gli salvò la vita. Quella era una Roma irripetibile, piena di menti illuminate come quelle di Pierpaolo Pasolini, Tano Festa, Mario Schifano, Alberto Moravia.  Una Roma diversa da quella che passa oggi il convento».

Tipo quella di Ignazio Marino?

«Non parliamone. Marino fu un disastro. È stato un succedersi di gestioni amministrative non brillanti ma quella ci ha scaraventato proprio alla frutta. Non so dove andremo a finire. Peggio di così…»

Sostenesti il ritorno dei Marò...

«Ecco, l’unico segnale positivo di questa Era è Papa Bergoglio, che sta contribuendo instancabilmente a farci uscire dalla mediocrità. Ci appellammo a lui affinché ci desse una mano afar tornare a casa quei due ragazzi. Grandi chiacchiere sia da Emma Bonino che da Roberta Pinotti, ma senza alcuna forza e autorità per imporsi. E il Paese fa la figura del peracottaro».

Emma Bonino, dopo essere stata defenestrata dagli esteri, è sparita. 

«E certo, spera nella presidenza della Repubblica. S’è defilata per pensare al suo intento. Non sarebbe male. Potrebbe essere una svolta».

Prima o Seconda Repubblica?

«Non mi piace entrare nella categoria di quelli che rimpiangono il passato dicendo che era migliore. Ma effettivamente è così. Speriamo bene, anche se c’è poco da sperare».

C’erano meno bigottismi. Vogliamo parlare delle “senonoraquandiste”?

«Anche le mignotte hanno la loro dignità».

E ti adorano tanto.

«Quando abitavo in via Borgognona, c’era sempre un gruppo di donne sotto casa. Spesso capitava che mi fermassi a chiacchierare con loro perché erano simpatiche. A volte ci davamo anche un tacito appuntamento come si fa con le amiche. Avevo trovato più umanità e sincerità in loro che nelle tante signore benpensanti scese in piazza. Nell’ascensore del palazzo scrissero con ammirazione “Marina la regina delle mignotte”».

Cosa possiedi di più caro?

«I miei cani».

Sei favorevole alla grazia per Corona? 

«Favorevolissima. Sono in contatto diretto con la madre. È ingiusto che abbia sulla testa tutti quegli anni da scontare. Pensiamo ai troppi delinquenti artefici di delitti efferati che sono già fuori».

Non sei stronza come vuoi far intendere in televisione. Lo diciamo? 

«Sono stronzissima con gli stronzi, ma anche un essere normale con le persone corrette e sensibili. In televisione si tende a tagliar corto, e siccome mai indoro la pillola mi lascio andare a riflessioni taglienti».

Il momento in cui sei stata più felice?

«Non c’è. La vita è fatta di tanti momenti e quando cominci a essere felice c’è sempre l’attimo in cui non lo sei più. La felicità scappa e ce ne rendiamo conto soltanto quando ci ripensiamo».

Marina, una volta hai detto che “invecchierai ma con calma”. Come?

«Riuscendo sempre a essere creativa per curare bene il cervello. Il segreto è questo. Non è facile, ma bisogna mettercela tutta».

[Il ritratto] Addio all’Italia nuda di Marina Ripa di Meana, contava solo fare soldi e comandare. Marina Ripa di Meana è stata il volto di quegli anni dell’abbondanza e dello spreco, il volto bello ma anche vuoto, perché aveva paura del dolore e del suo significato, l’icona di un’illusione acerba, quando anche la ricchezza era di sinistra ci facevano credere che potevamo esserlo tutti, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore, su Tiscali Notizie il 6 gennaio 2018. Marina Ripa di Meana è stata come l’urlo di Tardelli, la fotografia di un tempo che gridava alla luna e aveva colori più accesi, senza rifiniture, con le discoteche da sballare aperte tutta la notte e solo un tempo delle partite di calcio sul secondo canale della Rai, con i Duran Duran e i Righeira, Lucio Dalla e De Gregori, l’Italia metà giardino e metà galera, l’Italia nuda come sempre, con gli occhi asciutti nella notte scura.

Un’Italia diversa. Tutto era così diverso, allora, e pure le vittorie nello sport avevano un sapore strano perché erano le vittorie di chi era diventato forte per davvero, l’Italia di Pertini e della sua pipa, della Fiat padrona e di Craxi che diceva no a Reagan per Sigonella a muso duro. E una mattina alle 6 c’è Gelindo Bordin da Longare che corre più forte degli uomini degli altipiani e più forte di tutti, che rimonta uno a uno, come birilli, andando a vincere la maratona delle Olimpiadi di Seul in lacrime come un bambino, «perché la dedico a tutti quelli che non sono mai arrivati primi nella vita, ma che possono farcela col sudore e la forza della volontà».

Il volto di Marina era di quell’Italia. Era quella l’Italia di allora. Gli odi degli anni 70, il piombo e il terrorismo, li avevamo chiusi in un cassetto. Contava far soldi ed essere belli, contava vincere. Comandava la Milano da bere. E Marina Ripa di Meana è stata il volto di quegli anni dell’abbondanza e dello spreco, il volto bello ma anche vuoto, perché aveva paura del dolore e del suo significato, l’icona di un’illusione acerba, quando anche la ricchezza era di sinistra, e in quel caleidoscopio di luci e splendori ci facevano credere che potevamo esserlo tutti. Lei ha attraversato tutta quell’Italia che non c’è più, da Pasolini a Craxi, da Pannella all’Avvocato, con la sua figura elettrizzata, simbolo statuario dello yuppismo dominante, ma anche della sua nostalgia canaglia. E alla fine se n’è andata come se ne sono andati quegli anni, distrutta dal male che l’ha corrosa dentro, come quello stesso tumore che ha divorato la prima Repubblica dalle sue viscere.

Il suo album. Persone e luoghi di quell’epoca hanno riempito il suo album come pagine di storia. Così aveva cominciato a Roma, in Piazza di Spagna, nell’atelier di alta moda che divideva assieme all’amica Paola Ruffo di Calabria. Già prima che arrivassero gli Anni 80 era amica di Mario Schifano e di Tano Festa, frequentava Pasolini e diventò amante di Roman Polanski e di Bob Evans. Quando il Ciao si accendeva pedalando, il ghiacciolo costava 150 lire e con 500 facevi 5 partite a flipper o andavi sull’autoscontro al luna park, quando c’era il cubo di Rubrik e portavamo dei blazer blu doppiopetto con i bottoni dorati in quelle notti che non finivano mai, lei sembrava uscire da un film della dolce vita catapultato come per incanto nell’era di Craxi. Ma perché quel tempo è stato davvero una riedizione della dolce vita.

La cantava pure Mino Reitano. C’era la Fiat Panda, la 126 e la Ritmo, ma andavano di moda le Volvo, dei grandi cassoni che davano un senso di resistenza ad oltranza, prima che arrivasse il lusso teutonico delle Mercedes e delle Bmw. Non c’era facebook, non c’erano playstation, e per telefonare bisognava fermarsi alle cabine telefoniche. Non era roba da Marina, che era persino finita in una canzone di Rino Gaetano, Jet Set, «ma è Marina Lante, è bella e blu e qualche volta anche elegante», tutta dedicata a lei. Niente cabine. I suoi luoghi sono altri. E anche le frequentazioni. Gianni Agnelli le fa il filo («Ma non mi piaceva, mi faceva orrore il suo cinismo») e una volta capita a casa sua e la vede a letto con altri due, lo scultore Eliseo Mattiacci e l’artista Gino De Dominicis: «Siamo già in troppi», dice, e se ne va.

Inseguita da tanti. La insegue Vittorio Gassman. Le chiede di recitare Alberto Sordi (ma senza pagarla). Il grande amico, di lei e di suo marito, Carlo Ripa di Meana, esponente dei Verdi e ministro dell’Ambiente, è Bettino Craxi, che la chiama tutti i giorni dicendo che forse passa per pranzo, e passa tutte le volte. Invece quello che le piace è Marco Pannella che lei tampina una sera sì e una no sotto l’albergo, fino a quando lui scende arrabbiato: «Ma vedi di andartene a quel paese!».

Le nozze. I suoi testimoni di nozze sono Alberto Moravia e Goffredo Parise, fa la valletta di Maurizio Costanzo, conosce bene Guttuso e Lucio Magri, ma soprattutto Marta Marzotto: «Ci siamo volute bene e abbiamo tanto litigato». Degli Anni 80 ci sono le persone, ma anche i luoghi. A Cortina, quando sventa un duello fra Carmelo Bene e Lillo Ruspoli, la rissa naturalmente avviene al Posta. E a Parigi quando litiga con Carlo Ripa di Meana, che non è ancora suo marito, prendendolo a calci negli stinchi, è al Beaubourg davanti a Jacques Chirac. Of course. E’ sull’aereo della polemica, nel 1986, il volo di Stato per la visita ufficiale di Craxi in Cina, contestato per gli alti costi e per la corte al seguito. Tanto che Andreotti commenta acido: «Andiamo in Cina con Craxi e i suoi cari».

L’autobiografia. Scrive libri, racconta di se stessa, e finisce nei film di Carlo Vanzina, tra un cinepanettone e l’altro. La sua parte nei Miei primi 40 anni la fa Carol Alt, che guarda caso è una bellissima attrice americana che ha attraversato solo quel periodo. Ma Craxi quando guarda il film la boccia: «Preferisco l’originale».

La parabola discendente. Quando i favolosi Anni 80 volgono al termine, gli anni degli yuppies, della grande evasione fiscale, degli statali in pensione a 39 anni, degli sprechi assurdi a tutti i livelli come se non ci fosse mai un fondo, anche la sua parabola si spegne lentamente. Dagli eccessi della Dolce vita passa alle campagne contro lo sterminio di cuccioli delle foche, contro l’uso delle pellicce, le corride, gli esperimenti nucleari nell’atollo di Mururoa. Hanno chiuso a chiave il passato, dietro quella porta. L’ha fatto anche lei, perché ci pensa il tempo, che non si ferma mai e cambia gli uomini e i nostri cuori. Eravamo diventati più ricchi, è vero. Eravamo più forti. Toto Cutugno cantava «sono un italiano e sono fiero». Comunque sia andata, è stata l’immagine di un bel tempo. Come ha confessato lei: «Lo rimpiango non perché ero più giovane. Ma perché era migliore».

Carlo, addio al comunista nobile. I Ripa di Meana riposano insieme. Marchese e ministro. L'inizio nel Pci, fu vicino a Craxi e poi ecologista. Il suo lungo (e appassionato) amore con Marina, scrive Tony Damascelli, Sabato 03/03/2018, su "Il Giornale". Due mesi dopo Marina, se ne è andato anche Carlo, il marito. I Ripa di Meana riposano, infine, a conclusione di una vita lunga e davvero vissuta, senza farsi mancare nulla, nel pubblico e nel privato. Carlo non aveva mai abbandonato i titoli nobiliari che si portava appresso dalla nascita in Pietrasanta, dal padre Giulio e dalla madre Fulvia Schanzer. Era dunque, marchese di Meana e di Giglione, signore di Alteretto e Losa, nobile dei signori del marchesato di Ceva. L'araldica venne messa da parte, per ovvi motivi di bandiera, quando il ragazzo si diede alla politica e a quella dura e pura del partito comunista che lo incaricò di dirigere a Praga, negli anni belli della falce e del martello prima dei carri armati che avrebbero invaso Budapest, l'Unione Internazionale degli studenti, fucina di intelligenze pronte alla rivoluzione ma con il cachemire. Carlo Ripa di Meana, tra le mille cose belle del marchese non posso e non voglio trascurare la sua firma, insieme con altri ottocento illustri signori e signore, al manifesto con il quale l'Espresso accusava il commissario Calabresi dell'omicidio dell'anarchico Pinelli. Passati quasi quarant'anni lo stesso Ripa di Meana, bravo ma lento, decise di scusarsi con i famigliari di Calabresi per quella firma ignobile. Non posso nemmeno evitare di ricordare l'amore passionale per Gianna che era rossa di capelli, gambe forti e vocione profondo, tanga amaranto e frequentatrice del parco Ravizza. La succitata Gianna era un transessuale e il marchese ha narrato quella passione lunga, nell'autobiografia Cane Sciolto: «La feci salire sulla mia Giulia una notte del 1970, tornando da un giro elettorale tra Mantova e Cremona, digiuno, stanco e sudato. Appena mi toccò esplose la passione». Bizzarro, dunque, originale, imprevedibile come la sua futura moglie, femmina totale, bellissima, affascinante, di uguale stramba ma libera esistenza. Andarono a nozze nell'Ottantadue e i testimoni furono quattro teste pesanti e pensanti, Bettino Craxi, Alberto Moravia, Goffredo Parise e Antonio Giolitti. Amici e soprattutto compagni del garofano rosso, perché il giovane comunista era passato al piessei, vicinissimo a Bettino per poi aderire al movimento ambientalista dei Verdi, dunque restando nell'area di sinistra ma rivista e corretta. Ministro, presidente di Italia Nostra, commissario europeo, parlamentare, presidente della Biennale e, con Marina, presenzialista a prescindere di una Roma della grande bellezza e dei favolosi anni Settanta Ottanta, la stessa Roma poi deturpata che Carlo di Meana non poteva tollerare e accettare e contro la quale si batteva, contro la candidatura all'Olimpiade, contro la cricca del cemento, una battaglia per difendere i valori antichi, della natura e dell'uomo. L'uomo era rimasto solo quel giorno di gennaio in cui Marina se ne era andata, in silenzio, senza dirgli nulla del male atroce che l'aveva ormai vinta. Lucrezia e Andrea, quest'ultimo il figlio che avevano deciso di adottare, avevano aperto la porta della stanza da letto per avvisare Carlo di quella fine, ma in quello stesso momento, il televisore acceso aveva annunciato la notizia. Improvviso, il silenzio e, immediate, le lacrime disperate di un uomo definitivamente solo con la sua malattia e una vita ormai logorata e di assenze, senza più il sorriso e la voce stridula di Marina. E presero a sfilare, come un treno in corsa, i fotogrammi e le memorie mille, dell'amore fortissimo e dei litigi grandiosi, quella volta a Parigi quando lei, gelosa ai massimi di ombre e di voci, gettò dal balcone dell'hotel gli indumenti tutti, pigiama e mobilia compresi, perché il marito si era permesso una visita ad una amica, forse una tresca clandestina chissà e i poliziotti cercarono di capire perché quella signora bella desse di matto. E altri coriandoli coloratissimi di una coppia unica, per l'eleganza eccentrica e mai conformista, negli abiti e nel portamento. Carlo aveva scritto poche parole, un preannuncio: «Quando ci incontreremo dall'altra parte ci rimetteremo insieme». L'attesa è durata due mesi soltanto.

Ripa di Meana, sua la Biennale sul dissenso nell’Est che “svelò” il legame tra Pci e Mosca. Nel 1977 Ripa promosse una grande rassegna sulla cultura dissidente nei Paesi comunisti che incontrò la forte ostilità del partito di Berlinguer e di intellettuali vicini al partito. La dimostrazione di un rapporto che era più forte di quel che sembrava, scrive il 03/03/2018 Fabio Martini su "La Stampa". Tra le tante imprese della vita di Carlo Ripa di Meana la più rilevante dal punto di vista politico-culturale fu la Biennale sul dissenso nell’Europa dell’Est che svelò quanto forte fosse ancora, nel 1977, il legame tra il Pci e Mosca e quanto fossero sensibili al fascino delle dittature comuniste alcuni degli intellettuali vicini al partito di Berlinguer.  Negli anni Cinquanta Ripa di Meana aveva fatto parte della mitica redazione dell’Unità dei primissimi anni Cinquanta al numero 149 di via Quattro Novembre, a Roma, il quotidiano diretto da Pietro Ingrao e nel quale lavoravano Alfredo Reichlin, Luigi Pintor, Maurizio Ferrara. Ingrao offrì a Ripa di andare a lavorare a Praga, una delle capitali dell’impero sovietico, per dirigere il mensile in otto lingue degli studenti comunisti. Ripa di Meana accetta e un giorno arriva uno studente milanese allampanato. Si chiama Bettino Craxi, ha simpatia istintiva per i regimi comunisti e chiede a Ripa la sua opinione, che gli svela il suo giudizio profondamente negativo. Nel 1976 Craxi diventa segretario del Psi e appoggia l’idea di Ripa, nel frattempo diventato socialista, di dedicare la Biennale del 1977 al dissenso nell’Est europeo. L’ambasciatore di Mosca a Roma considera l’iniziativa alla stregua di una provocazione e il Pci, che nove anni prima aveva condannato i carri armati sovietici a Praga, torna ad accodarsi ai desiderata dei comunisti russi.  Si tratta della più vasta e organica documentazione sulla cultura alternativa nell’Urss e nei Paesi dell’Est ma si impegnano subito nella demolizione della rassegna intellettuali come Luigi Nono, Pier Paolo Pasolini, Cesare Zavattini, Emilio Vedova, Vittorio Gregotti, Luca Ronconi, Giulio Carlo Argan. Un’ostilità che diventerà ancora più evidente due anni dopo: Jiri Pelikan, uno degli intellettuali cecoslovacchi vicini ad Alexander Dubcek, dopo essere stato aiutato materialmente da Craxi, sarà eletto europarlamentare nelle liste del Psi nel 1979. 

Il figlio di Marina e Carlo Ripa di Meana ricorda gli ultimi istanti di vita del padre. Intervistato dal settimanale Oggi, Andrea Cardella ha raccontato come suo padre ha passato i 56 giorni dopo la morte di Marina Ripa Di Meana: "Era lacerato da un grande cruccio", scrive Anna Rossi, Mercoledì 07/03/2018, su "Il Giornale". Solo dopo 56 giorni dalla scomparsa della moglie Marina Ripa Di Meana, anche Carlo ha chiuso gli occhi. Il 5 marzo scorso Carlo Ripa di Meana se ne è andato, dopo anni passati a lottare contro la malattia. Ora, intervistato dal settimanale Oggi, a parlare è il figlio adottivo della coppia, Andrea Cardella. Andrea, nonostante i 30 anni passati con la famiglia Ripa di Meana e i 5 di adozione, ha sempre avuto un grosso rispetto per Carlo, tanto che gli ha sempre dato del lei e "dell'onorevole".

Così Andrea Cardella ha voluto ricordare gli ultimi istanti di vita di suo padre. "L’onorevole ha trascorso le settimane lacerato da un grande cruccio - ha confessato Andrea Cardella a Oggi -. 'Come ho fatto a non capire che Marina stava così male?', ripeteva. 'Marina non voleva che lei sapesse, che lei soffrisse', gli spiegavo. Speravo di avere più tempo da trascorrere con mio padre. Lo spronavo: 'Onorevole, si rimetta presto e ritorni a casa: ho bisogno del suo aiuto per organizzare il trasloco'. Si era infatti deciso di lasciare la grande casa di via Ovidio a Prati, dove è morta Marina, per trasferirsi in un appartamento più piccolo, ma luminosissimo in via Gorizia, quartiere Trieste… Era speranzoso e non vedeva l’ora di iniziare questo nuovo capitolo della sua vita, il capitolo di padre e figlio. Ma con Marina sempre nel cuore e nella mente. Aveva chiesto all’architetto Aldo Ponis di preparare una gigantografia da una foto di Marina coi pattini, un’immagine che tenevano incorniciata vicino al tavolo da pranzo. La voleva a grandezza naturale, per immaginarla sempre vicino a sé".

«Carlo, un figlio di prìncipi che faceva i picchetti». Il ricordo di Francesco Rutelli. Intellettuale, politico, ambientalista, un riformista ma soprattutto «una persona perbene». Francesco Rutelli ricorda Carlo Ripa di Meana, «gentiluomo all'antica», scrive il 4 marzo 2018 Alessia Arcolacci su "Vanityfair.it". «Una lunga vita, densa di novità e di sorprese, non conformista, innanzitutto una persona perbene». Sono queste le prime parole di Francesco Rutelli in ricordo dell’amico e compagno di battaglie Carlo Ripa di Meana, scomparso, il 2 marzo, all’età di 89 anni. Solo due mesi fa aveva detto addio alla sua Marina, morta il 4 gennaio scorso, dopo 42 anni di vita fianco a fianco, uniti da un amore troppo forte per farli sopravvivere l’uno all’altra. «Un gentiluomo all’antica – continua Francesco Rutelli che con Carlo Ripa di Meana ha vissuto importanti momenti di riforme politiche e d’impronta ambientalista -. Anche se nell’ultimo tratto della sua vita aveva espresso posizioni antitutto, da cui io ho dissentito pubblicamente e lui lo sapeva. Ma a mio avviso la vita di una persona dev’essere giudicata per il suo lascito e la visione d’insieme». Parole che lo stesso Rutelli ha condiviso con Ripa di Meana in occasione del suo ultimo compleanno. «Sono andato a fargli gli auguri a casa, insieme a Barbara, accanto a lui c’era ancora Marina. Gli ho ripetuto quanto tutto questo suo straordinario impegno fuori dalle righe convenzionali fosse stato prezioso. In particolare quella sua visione dell’ambientalismo e la Biennale del dissenso, sono due diamanti nel panorama abbastanza grigio e declinante della vicenda politica italiana degli anni ottanta e novanta. Gli ho dato un abbraccio e penso che ne sia stato contento, così mi ha detto. È stata l’ultima volta in cui ci siamo incontrati». Carlo Ripa di Meana è stato un uomo politico, un intellettuale, un ambientalista, che è impossibile classificare e rinchiudere in una categoria, proprio come la sua amata Marina. «È stato soprattutto un riformista, ha portato molti cambiamenti. Mi sento di sottolineare due aspetti in particolare – continua Rutelli -. La Biennale del dissenso, ovvero un’apertura da sinistra, perché lui è stato comunista poi socialista, al grande popolo sotterraneo non solo di intellettuali che reclamava libertà nei paesi dominati dall’Unione Sovietica. La Biennale ha aperto la strada a personalità che poi avrebbero accompagnato la difficile trasformazione in stati e nazioni con una condizione di economia e di mercato e anche una certa apertura allo stato di diritto. Un cammino aperto da un dialogo fecondo con intellettuali e politici di orientamento democratico e riformista occidentali». Poi l’ambientalismo. «Era combattuto tra una posizione astratta, utopica e un sentimento troppo pragmatico. Lui ha certamente rappresentato nelle diverse posizioni che ha occupato da Commissario Europeo, ministro dell’ambiente in Italia, portavoce dei Verdi e poi nella prima fase con Italia Nostra un approccio moderno dell’ambientalismo e la preoccupazione verso tutte le deformazioni della civiltà dei consumi. La sua posizione è stata sicuramente originale perché era propria di un intellettuale, di un uomo di cultura, non di un tecnico o di un ecologista della prima ora». Ed è soprattutto su questi temi che Rutelli e Carlo Ripa di Meana si sono più spesso battuti fianco a fianco. «Quando è stato al governo e anche io ero un militante dei Verdi e delle forze ambientaliste, sono state tante le misure a cui abbiamo lavorato insieme. Lui era già allora in qualche misura un ministro a metà tra governo e opposizione. Ascoltava moltissimo gli argomenti legati alla tutela dei parchi nazionali, ha seguito i primi passi della tutela del paesaggio, le misure per contrastare l’inquinamento urbano. Su tutto questo ci sentivamo quotidianamente. Quella vissuta con lui è stata la fase nascente un po’ al crocevia tra una visione di ecologia resa dozzinale da piccoli interessi e un’altra che rimaneva troppo nell’empireo e non scendeva mai sul terreno. Lui aveva una rarissima competenza, anche dal punto di vista delle relazioni internazionali». Una figura che Rutelli accosta ai grandi aristocratici che hanno portato i più grandi cambiamenti nella cultura rispetto ai temi dell’ambiente, coloro che «hanno fatto dell’ecologia un fatto democratico».  Sono il francese Jean-Jacques Servan – Schreiber, l’anglo-francese Edward Goldsmith ma anche l’italiano Carlo Caracciolo, «rampollo di una famiglia di principi che con i cartelli è andato a bloccare i cancelli delle centrali nucleari e non è un fatto di snobismo bensì intellettualità, formazione politico-culturale, curiosità verso la vita. Tutto questo in Ripa di Meana si è tradotto poi nel suo rapporto con Marina, donna mai incasellabile e sempre generosa. Io credo che loro abbiano finito la vita tutt’altro che ricchi e questo gli fa maggiore onore».

Addio Ostellino. Ha fatto del liberalismo una bandiera. Il grande giornalista contribuì a fondare il Centro Luigi Einaudi. Ha esercitato lo spirito critico su tutto, dall'economia alla Costituzione, scrive Dino Cofrancesco, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Piero Ostellino sarà ricordato non solo come un grande giornalista - della razza di Giovanni Ansaldo, Indro Montanelli, Enzo Bettiza, Alberto Ronchey - ma, altresì, come una delle figure più eminenti del liberalismo italiano dell'ultimo Novecento. Non a caso nel 2009, a Santa Margherita Ligure, gli fu assegnato dal Centro Internazionale di Studi Italiani dell'Università di Genova, il Premio Isaiah Berlin che era stato conferito a prestigiose personalità della cultura come Amartya Sen, Giuseppe Galasso, Ralf Dahrendorf, Benedetta Craveri, Mario Vargas Llosa. Non perse mai di vista il faro liberale. Ad assicurare a Ostellino un capitolo importante nella storia dei difensori della società aperta non sono soltanto i suoi libri, dai reportage sulla Russia e sulla Cina, dove era stato corrispondente del Corriere della Sera dal '73 all'80 - vedi soprattutto Vivere in Russia, del '77, e Vivere in Cina, dell'81, entrambi editi da Rizzoli, che nulla hanno da invidiare alle analisi classiche di Michel Tatu, di Arrigo Levi, di Hélène Carrère d'Encausse - ai due ultimi, Il dubbio. Politica e società in Italia nelle riflessioni di un liberale scomodo (Rizzoli, 2003) e Lo Stato canaglia. Come la cattiva politica continua a soffocare l'Italia (Rizzoli, 2009) - ma, soprattutto, una particolare cifra pubblicistica che potrebbe definirsi «liberalismo quotidiano». Con tale espressione mi riferisco alla vocazione più autentica di Piero che era quella di mostrare come i liberali classici - da Montesquieu all'amatissimo David Hume, da Luigi Einaudi a Friedrich von Hayek - fossero, anche nella società tecnologica di massa, delle guide imprescindibili per comprendere i vizi e le virtù non degli uomini, ma dei sistemi politici e degli assetti economici che condizionano, in positivo o in negativo, la loro vita. In questo era davvero figlio del vecchio Piemonte. Ricordo con quanto compiacimento mi diceva che, passando da Torino, si era fermato al Ristorante del Cambio, a Piazza Carignano, quello preferito dal Gran Conte. Quel luogo era il simbolo dei suoi grandi amori, il Risorgimento - nel quale, a differenza di tanti suoi amici liberisti, trovava le sue radici - e l'Italia liberale, appunto, quella che ci aveva ricongiunto, per dirla con Carlo Cattaneo, all'Europa vivente. Einaudi aveva spiegato che cos'è il liberalismo in economia in articoli, esemplari per la loro chiarezza, che partivano dal mercatino di Dogliani per illustrare la complessità dello scambio di beni e di servizi in una società complessa. Ostellino è andato oltre, ha insegnato a vedere, in una prospettiva liberale, le più diverse esperienze del vissuto quotidiano. Non c'è campo, dalla politica al diritto, dall'economia all'etica sociale, dallo sport al mondo dello spettacolo, dalla religione alla scienza, che non abbia attivato la sua attenzione e la sua inesausta curiosità e voglia di capire e di far capire. Col risultato di iscriversi d'autorità tra gli implacabili dissacratori dei costumi di casa degli italiani, del senso comune costruito ad arte dagli ingegneri delle anime, dei miti che hanno segnato la political culture della Repubblica nata dalla Resistenza e dall'antifascismo. Ostellino non è mai stato tenero con la Costituzione più bella del mondo. Soprattutto ne Lo Stato canaglia, l'ha definita un «papocchio» nato da un compromesso tra le due Resistenze, quella democratica e quella comunista. «Una Costituzione che riconosce i diritti individuali ma li subordina all'utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere giuridico». Si tratta di rilievi non nuovi, ma Ostellino, sempre controcorrente, ha accompagnato alla critica liberale della Costituzione la difesa intransigente di un liberalismo inteso come teorica delle libertà e non dei diritti, a cominciare dalla libertà d'impresa impensabile senza la proprietà privata. «La libertà individuale non può sopravvivere senza la proprietà protettiva, ma può sopravvivere senza la proprietà produttiva (capitalistica e di investimento). (...) E ai fini della libertà politica non occorre il benessere: si può essere liberi in povertà». Sono tesi di Giovanni Sartori che Ostellino non avrebbe mai potuto condividere. Così come non avrebbe mai potuto condividere la parola d'ordine «più Europa». La Costituzione proposta dagli europeisti che «auspicano una severa governance dell'Unione europea che rimetta in rigo i poco virtuosi stati membri», scriveva otto anni fa, «ripropone il modello delle Costituzioni programmatiche del Novecento, che non regolavano proceduralmente poteri e compiti dello Stato, ma si proponevano di cambiare gli uomini». E cambiare gli uomini era per lui, come per Croce, un «peccato contro lo Spirito».

Addio Ostellino. Argine liberale al marxismo. Ostellino era come la sua storica rubrica: dubbioso, un pensatore senza ideologie, un uomo che metteva sempre in discussione e in verifica le proprie convinzioni. Coltivava il dubbio, come solo una persona libera può e sa fare, scrive Nicola Porro, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". L'attitudine più straordinaria di Piero Ostellino era la sua capacità di non farsi contaminare. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di conoscerlo, come il sottoscritto, è stato sempre affascinato da questa sua caratteristica: se ne infischiava di ciò che si diceva intorno a lui. Se ne infischiava dei salotti che frequentava; pochi peraltro. Se ne infischiava di essere uno dei pochi liberali in circolazione nel «Corrierone» normalizzato. Ostellino era come la sua storica rubrica: dubbioso, un pensatore senza ideologie, un uomo che metteva sempre in discussione e in verifica le proprie convinzioni. Coltivava il dubbio, come solo una persona libera può e sa fare. Se ne è infischiato dell'influenza marxista, sinistra e sovietica della Russia dove giovanissimo fu spedito dal Corriere. Non è mai stato vittima del pregiudizio. Difese Berlusconi, proprio lui che non lo amava più di tanto, sulla vicenda Ruby. Ma in realtà non difendeva Berlusconi, difendeva Locke, Montesquieu, il pensiero liberale. In più di un'occasione, senza grandi accenti polemici, ci confidava la frustrazione di essere visto dai suoi colleghi di banco come un berlusconiano, per il solo fatto di aver voluto difendere un principio. «Io non scrivo a gettone - ci diceva - e chi pensa così, evidentemente così si comporta. A me non interessano i dettagli - aggiungeva - importano i principi». Ovviamente delle critiche se ne infischiava. E per quel principio avrebbe difeso anche il suo peggior nemico. Aveva un timore folle del ruolo della magistratura nella nostra democrazia. E lo scriveva senza sosta. Il complimento più bello che potesse fare era: «Sei di buone letture». Amava i liberali classici, gli inglesi e poi gli austriaci. Diffidava degli illuministi, così come degli egalitari della rivoluzione francese. Eppure appena poteva scappava in campagna proprio in Francia, a due passi da Saint Tropez, in quelle colline isolate ma bellissime che precedono e vedono la Costa Azzurra. Ha fatto per tre anni il direttore del Corriere della Sera, ma fingeva di essersene dimenticato. Cosa che riusciva benissimo anche ai colleghi di casa sua. È stato Alessandro Sallusti che con abilità lo ha corteggiato e lo ha portato nel nostro Giornale. Che è stata la sua casa: quando è arrivato tre anni fa, ma anche quando era a via Solferino. Amava il Corriere e si disperò, a modo suo si intende, quando i nuovi proprietari vendettero il palazzo. Cambia nulla per voi, qualcuno di noi provò ad obiettare. «Le nostre radici contano» fu la sua risposta secca. Una magnifica sintesi di pragmatismo e libertà, tradizioni e progresso. Era il suo liberalismo. Quello che lo ha sempre contraddistinto. Uno dei pochi giornalisti che ha sempre mantenuto intatto il suo pensiero, non è sceso a compromessi sui principi, ha trattato solo sui dettagli. Ha conquistato la sua libertà ogni giorno. L'ha rosicchiata pezzo per pezzo. L'ha rivendicata anche quando là fuori tutto cospirava contro di lui. È stato un grande giornalista, un suggeritore prezioso, una lettura indispensabile. È un orgoglio pensare che la nostra modesta firma sia comparsa con la sua nella medesima pagina di un Giornale.

Quando al "Corriere" eresse un argine allo strapotere rosso. Si è sempre battuto contro i salotti radical chic. Anche dalle pagine del "Giornale", scrive Dario Fertilio, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Quando, il 16 giugno 1984 a mezzogiorno, Piero Ostellino si presentò alla redazione del Corriere da candidato direttore, attorno a lui spirava un'aria strana. In un'altra via di Milano si festeggiavano i dieci anni di vita del Giornale fondato da Indro Montanelli. Da dieci mesi l'ascesa di Craxi al governo aveva spezzato la strategia del Pci chiamata «compromesso storico». Il Corriere, traumatizzato dallo scandalo P2, aveva vissuto come un incubo la doppia realtà di via Solferino: all'esterno il direttore Alberto Cavallari veniva presentato dai media e dai salotti radical chic come il salvatore della patria, all'interno si praticava l'intimidazione nei confronti dei dissidenti e dei liberali. Ne aveva fatto le spese lo stesso Ostellino, boicottato e sollevato senza avvertirlo dall'inchiesta sul Pci che avrebbe dovuto condurre. I giovani che si erano opposti, me incluso, dopo anni di invisibilità avevano l'impressione di tornare dall'esilio dopo la caduta di un regime. Sognavamo la rivincita. E quando Ostellino illustrò il suo programma anti ideologico, pragmatico, senza risentimenti neppure verso Cavallari, ne fummo quasi delusi. Avremmo voluto sventolare le bandiere, invece al discorso seguì soltanto un tiepido applauso. Ma sbagliavamo, perché con lo stile della direzione era cambiata la sostanza. La redazione politica non allineata - che Cavallari aveva soppresso su indicazione del sindacato interno - venne ricostituita e noi tornammo ai nostri posti. L'autonomia dei desk, prima ridotti a passacarte ideologici, apparve per la prima volta in via Solferino. Una sensazione di libertà quasi intossicante coincise con l'arrivo di menti libere come quelle di Renato Mieli e Leonardo Sciascia. Ma c'era un «ma», che non poteva sfuggire ai più attenti. Una buona parte delle redazione filocomunista, che negli anni precedenti si era trasformata quasi in un giornale nel giornale, si ritirò sull'Aventino e avviò la campagna di denigrazione del direttore. L'asse che si saldò rapidamente fra Pci e alleati, intellettuali di sinistra, Repubblica e L'Espresso, salotti radicali, sindacato interno dei giornalisti e dei poligrafici, iniziò metodicamente a minare la sua direzione. A tutto questo Piero Ostellino oppose un disarmante disprezzo e nervi d'acciaio. Chiamò ad uno ad uno i giovani (a me chiese senza giri di parole che cosa volessi fare da grande) e li mise all'opera. Espose la sua idea di giornale dinastico, di cui si riteneva il naturale continuatore (famosa la frase: «dopo essere stato direttore del Corriere non c'è nient'altro all'altezza»). Un quotidiano, sostenne, non dev'essere né «istituzione» (come l'aveva definito Cesare Merzagora) né «servizio pubblico», e tanto meno «partito». Soltanto spirito critico. Si raccomandò più volte, nelle riunioni di redazione, di non raccontare niente «dal buco della serratura», poiché il vero «salotto buono» era quello di via Solferino. I vari Bernardo Valli, Lietta Tornabuoni, Ezio Mauro e tanti altri non potevano perdonarglielo. Il suo blasone aristocratico, che gli proibiva di contaminare il Corriere con giochi a premi e lotterie e gli imponeva di difendere il giornale da qualsiasi ingerenza politica esterna, non lo premiò in fatto di vendite. E cogliendo il suo lato debole, l'amministratore delegato della Rizzoli, Giorgio Fattori, poi destinato a diventare presidente, iniziò contro di lui una resistenza sotterranea. Il salotto della moglie, la stilista Pupi Solari, contribuì sul lato mondano. L'avventura di un liberale in via Solferino si chiuse nel 1987. Ma la carta dei principî, che Ostellino aveva voluto, risuonò ancora un'ultima volta, senza varianti né pentimenti, nel suo discorso di commiato.

Addio a Stephen Hawking, lo scienziato dell'Universo. Malato di Sla da quando aveva 21 anni, è stato autore di alcune delle scoperte più rilevanti dell'astrofisica moderna, scrive il 14 marzo 2018 "Panorama". L'astrofisico di fama mondiale Stephen Hawking è morto all'età di 76 anni nella sua abitazione a Cambridge. "Siamo profondamente addolorati nell'annunciare che nostro padre è morto - affermano Lucy, Robert e Tim, i figli di Hawking -. E' stato un grande scienziato e un uomo straordinario il cui lavoro continuerà a vivere per anni. Il suo coraggio e la sua perseveranza, insieme al suo brillante humor, hanno ispirato molti nel mondo". Hawking soffriva di sclerosi laterale amiotrofica che lo ha costretto sulla sedia a rotelle per la maggior parte della sua vita da adulto: la malattia gli era stata infatti diagnosticata all'età di 21 anni. Professore dell'Università di Cambridge, Hawking ha ridefinito la cosmologia proponendo l'idea che i buchi neri emettono radiazioni e poi evaporano. Lo scienziato ha infatti attuato la teoria quantistica ai buchi neri, che emettono radiazioni che li fanno poi evaporare. Questo processo aiuta a spiegare la nozione che i buchi neri sono esistiti a livello micro fin dal Big Bang e che più piccoli sono più velocemente evaporati. Il suo libro Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, pubblicato nel 1988, gli ha assicurato fama mondiale, con 10 milioni di copie vendute in 40 diverse lingue.

Stephen Hawking, ecco perché il suo lavoro è importante. Le sue teorie cosmologiche hanno aiutato a svelare i misteri dell’universo e la loro divulgazione ha affascinato il grande pubblico, scrive Angelo Piemontese il 14 marzo 2018 su "Panorama". Non ha mai vinto il premio Nobel per la fisica e nemmeno le sue teorie, per certi versi rivoluzionarie, compaiono nei libri di testo accademici tradotte in formule matematiche. Eppure Stephen Hawking, scomparso a 76 anni, è considerato il più famoso scienziato dell’era moderna. Spesso, infatti, per definirlo è stata usata la parola “icona”: la sua figura ha travalicato gli angusti confini delle grigie aule universitarie ed è diventata un simbolo della cultura dei giorni nostri. La sua popolarità, soprattutto al di fuori del ristretto mondo dei fisici teorici, è frutto della sua grande opera come comunicatore e divulgatore. È riuscito infatti a far conoscere al grande pubblico concetti complicati, come il Big Bang (la teoria sulla nascita dell’universo) e come funzionano i buchi neri, divoratori cosmici nati dal collasso di enormi stelle.

Un grandissimo comunicatore. Nel 1988 pubblica Dal Big Bang ai buchi neri, breve storia del tempo, in cui espone, in maniera chiara e comprensibile, le teorie da lui elaborate nel corso degli anni ’60 e ’70 proprio in questo ambito. Il libro diventa in breve tempo un best seller ed è ad oggi considerato uno, se non il principale, pilastro della divulgazione sulla cosmologia. In seguito, benché paralizzato dalla malattia (un’atrofia muscolare degenerativa) che lo ha costretto sulla sedia a rotelle fin dagli anni ‘70 e dal 1985 a parlare con un sintetizzatore vocale (per l’asportazione delle corde vocali), ha continuato a lavorare assiduamente, pubblicando altri due libri e soprattutto intervenendo spesso in questioni importanti sulla deontologia della scienza. Ha infatti ammonito diverse volte i colleghi, e soprattutto i capi dei Paesi di tutto il pianeta, a collaborare per creare un governo mondiale per proteggere l’umanità dalla tecnologia da noi stessi creata. Le sue posizioni, spesso radicali e pessimistiche nei confronti della scienza, si manifestano anche sulla possibilità di vita extraterrestre: secondo il fisico inglese, se ne capitasse l’opportunità, non bisognerebbe entrare in contatto con civiltà aliene.

Breve storia di un genio. Hawking si laurea brillantemente (e a tempo da record) all’University College di Oxford, ma in seguito, dal 1978 al 2009, occupa la prestigiosa cattedra di matematica presso la rivale università di Cambridge: tra gli illustri predecessori di quel posto si annovera Isaac Newton. Subito si mise in luce per il suo talento e per le sue idee, all’epoca considerate anche un po’ azzardate, sulla fisica dei buchi neri. Dopo la diagnosi della malattia, nel 1965 sposa la collega di studi Jane Wilde, dalla quale ebbe tre figli, e nel 1991 si separa per sposare Elaine Mason, la badante che lo assisteva quotidianamente.

Perché la sua opera è importante. Si è dedicato esclusivamente alla cosmologia teorica, un ambito che negli anni 60-70 era considerato pionieristico, data la mancanza di prove osservative (non esistevano i potenti telescopi di oggi) che potessero supportare con certezza le ipotesi varate in questo campo. Dimostra però, dalle leggi della relatività generale, che subito dopo il Big Bang si formarono buchi neri di massa enorme ma grandi un miliardesimo di miliardesimo di una capocchia di spillo. In seguito, sempre studiando questi misteriosi oggetti, riesce a sfatare la loro sinistra fama di mostri che ingoiano inesorabilmente ogni cosa che precipita verso di loro, luce compresa, senza mai più restituirla. Hawking sostiene che questi buchi non sono poi così “neri” e che “evaporano” lentamente emettendo una radiazione, battezzata poi col suo nome, che è il residuo di tutto quello che si sono "mangiati". La teoria è importantissima, perché riesce a conciliare le leggi della meccanica quantistica con quelle della fisica relativistica, impresa che, eccezion fatta appunto per i buchi neri, non è ancora riuscita a nessun altro scienziato, sebbene siano in corso da decenni esperimenti (come quelli al Cern di Ginevra) per trovare particelle che unifichino le due branche della fisica: quella che descrive l’infinitamente piccolo (quantistica) e quella per l’infinitamente grande (relatività).

L’ultimo genio. Difficilmente la nostra era partorirà un altro scienziato come lui. Intendiamoci: ci sono talenti e studiosi dall’intelletto sopraffino, ma non riusciranno a emergere e a guadagnarsi la sua fama e popolarità. Il motivo è semplice: per portare avanti le conoscenze nella fisica e progredire nella ricerca di nuovi modelli teorici per spiegare la teoria del tutto (tra l’altro titolo del film sulla biografia di Hawking) è necessaria la cooperazione di centinaia di scienziati. Nella cosmologia, e in generale in tutta la fisica, si sono raggiunti livelli di complessità così elevati che non basta più l’intuizione di un singolo genio, per quanto brillante possa essere, per risolvere i puzzle che ancora arrovellano gli scienziati. Solo il lavoro di congiunto di molti ricercatori e teorici può portare a dei progressi. L’esempio più lampante, e recente, è la rilevazione delle onde gravitazionali: non è stata l’opera di un singolo, ma il frutto di anni di lavoro di migliaia di scienziati.

La filosofia non è Star Trek: quando Umberto Eco criticò Stephen Hawking, scrive "L'Espresso il 15 marzo 2018. Il grande intellettuale italiano commentava il 15 aprile 2011 un libro sulle domande essenziali che l'uomo si pone da sempre realizzato dal fisico scomparso nel 2018. Dove sosteneva che oggi, per spiegare tutto, basta la fisica. Sulla "Repubblica" del 6 aprile 2017 scorso era apparsa un'anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, "il grande disegno" (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, "la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo". "La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c'era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che "Repubblica" non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti. Il libro appare come scritto a due mani, salvo che nel caso di Hawking l'espressione è dolorosamente metaforica perché sappiamo che i suoi arti non rispondono ai comandi del suo eccezionale cervello. Dunque il libro è fondamentalmente opera del secondo autore, che il risvolto di copertina qualifica come eccellente divulgatore e sceneggiatore di alcuni episodi di "Star Trek" (e lo si vede anche dalle bellissime illustrazioni che sembrano concepite per una enciclopedia dei ragazzi d'altri tempi, perché sono colorate e affascinanti, ma non spiegano proprio niente dei complessi teoremi fisico-matematico-cosmologici che dovrebbero illustrare). Forse non era prudente affidare il destino della filosofia a personaggi con le orecchie da leprotto. L'opera si apre proprio con l'affermazione perentoria che la filosofia ormai non ha più nulla da dire e solo la fisica può spiegarci (1) come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo, (2) quale sia la natura della realtà, (3) se l'universo abbia bisogno di un creatore, (4) perché c'è qualcosa invece che nulla, (5) perché esistiamo e (6) perché esiste questo particolare insieme di leggi e non qualche altro. Come si vede sono tipiche domande filosofiche, ma occorre dire che il libro mostra come la fisica possa in qualche modo rispondere proprio alle ultime quattro, che sembrano le più filosofiche di tutte. Solo che per tentare le ultime quattro risposte occorre avere risposto alle prime due domande e cioè, grosso modo, che cosa vuol dire che qualche cosa è reale e se noi conosciamo il mondo proprio così come è. Ve lo ricorderete dalla filosofia studiata a scuola: noi conosciamo per adeguazione della mente alla cosa? c'è qualcosa fuori di noi (Woody Allen aggiungeva: "E se sì, perché fanno tutto quel chiasso?") oppure siamo esseri berkeleiani o, come diceva Putnam, cervelli in una vasca? Ebbene, le risposte fondamentali che questo libro propone sono squisitamente filosofiche e se non ci fossero queste risposte filosofiche neppure il fisico potrebbe dire perché conosce e che cosa conosce. Infatti gli autori parlano di "un realismo dipendente dai modelli", ovvero assumono che "non esiste alcun concetto di realtà indipendente dalle descrizioni e dalle teorie". Pertanto "differenti teorie possono descrivere in modo soddisfacente lo stesso fenomeno mediante strutture concettuali disparate" e tutto quello che possiamo percepire, conoscere e dire della realtà dipende dalla interazione tra i nostri modelli e quel qualcosa che sta al di fuori ma che conosciamo solo grazie alla forma dei nostri organi percettivi e del nostro cervello. I più sospettosi tra i lettori avranno persino riconosciuto un fantasma kantiano, ma certamente i due autori stanno proponendo quello che in filosofia si chiama "olismo" e per alcuni "realismo interno". Come si vede non si tratta di scoperte fisiche bensì di assunzioni filosofiche, che stanno a sostenere e a legittimare la ricerca del fisico - il quale, quando è un bravo fisico, non può che porsi il problema dei fondamenti filosofici dei propri metodi. Cosa che sapevamo già, così come conoscevamo già qualcosa delle straordinarie rivelazioni (evidentemente dovute a Mlodinow e alla ciurma di Star Trek), per cui "nell'antichità era istintivo attribuire le azioni violente della natura a un Olimpo di divinità dispettose o malevole". Perdinci e poi perbacco".

Il genio che solcava l'universo a bordo di una sedia a rotelle. Ha rivoluzionato la scienza ed è stato un'icona popolare. Il miracolo: comunicare come nessuno. Anche senza voce, scrive Matteo Sacchi, Giovedì 15/03/2018, su "Il Giornale". Una mente capace di percorrere distanze siderali, di indagare i meandri dello spazio tempo, di provare a unificare teorie scientifiche inconciliabili. Un corpo inchiodato dalla malattia, membra che diventano sempre più pesanti, una prigione di carne in cui, però, continuano a guizzare due occhi vivacissimi, occhi che si ribellano a un destino (ma in fisica il destino non esiste) bizzarro e crudele. Basterebbe questa dicotomia feroce a spiegare perché Stephen Hawking (1942-2018) è diventato l'icona della scienza contemporanea, un ricercatore-simbolo che, come riconoscibilità, è secondo solo a Einstein. Hawking ha incarnato tutte le caratteristiche del genio declinato per una società mediatica. Sia chiaro, era capace di una visione d'insieme, di una capacità di analisi, anche matematica, che influenzerà la ricerca per decenni. Entrato all'University College di Oxford, a 17 anni (1959), trovò «ridicolmente facile» ottenere la laurea in Fisica con lode, per tre anni non studiò mai più di un'ora al giorno. Ma gli fu più che sufficiente per accedere al corso di cosmologia a Cambridge. E fu proprio lì che, nel 1963, si manifestarono i primi sintomi della malattia degenerativa dei moto neuroni. I medici gli predissero due anni di vita, fornendo l'ennesima prova della fallibilità della scienza. Ma la sensazione della morte incombente si trasformò in una molla propulsiva. Hawking passo dall'essere un intelligentissimo indolente all'essere il genio stacanovista che è rimasto per il resto della vita. Tema del resto su cui ha sempre scherzato: «Si dice che scienziati e prostitute vengano pagati per fare quello che loro piace». Entro il 1971 aveva già scritto uno dei più importanti teoremi sulle singolarità gravitazionali (leggasi buchi neri) e lo spazio tempo. Da lì le sue intuizioni (sviluppate collaborando con Brandon Carter e James Barden) portarono, rapidamente, alla nascita di quella rivoluzionaria branca della scienza che è la Termodinamica dei buchi neri. Lavori che hanno fatto fare un salto in avanti (ma che non gli hanno mai valso il Nobel) alla cosmologia quantistica. Ma su questa grande capacità teoretica si è innestata un'altra dote di Hawking, la capacità divulgativa. Altri validi scienziati, come i sopra citati Carter e Barden, o James Hartle, o Roger Penrose o l'italiano Gabriele Veneziano non sono entrati nel cuore del grande pubblico. Hawking, a partire dalla pubblicazione nel 1988 del suo bestseller, Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (di cui nelle pagine seguenti vi presentiamo un estratto), è entrato nel cuore della gente per la sua capacità di spiegare con parole semplici concetti difficilissimi. E non solo i concetti, la passione dietro i concetti. Questo anche a colpi di battute rimaste nell'immaginario collettivo. Come quando liquidò così la concezione dell'universo di Einstein: «Sbagliò quando disse: Dio non gioca a dadi. La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte ci confonda gettandoli dove non li si può vedere». Risultato? Hawking, inteso come icona, è finito citato in serie televisive come Big Bang Theory - «Stephen Hawking è un genio, in più parla come un robot. Un amico migliore non potrebbe esistere» - o I Simpson e gli è stato dedicato addirittura un film, La teoria del tutto (dove è interpretato da Eddie Redmayne). E qualche volta è anche stato tirato per la giacchetta. Per molti, a esempio, era un simbolo dell'ateismo, a partire da affermazioni come questa: «Poiché esistono leggi come quella della gravità, l'universo può crearsi e si crea dal nulla... Non è necessario invocare Dio...». Eppure Hawking era membro della Pontificia accademia delle scienze, tanto che ieri è intervenuto Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della medesima: «Tutti dicono che era ateo ma io posso affermare che non lo era».

Quando lo scienziato diventa icona pop viene banalizzato come qualunque altra icona pop. E ci vuole del tempo prima che il glamour si depositi, lasciandoci discernere il vero lascito culturale.

Stephen Hawking: «Vidi un ragazzo morire e smisi di commiserarmi». Scrive il 14 marzo 2018 "Il Corriere della Sera". Per me fu un trauma quando seppi di avere la malattia dei motoneuroni. Ma io cerco di condurre una vita il più possibile normale e di non pensare alla mia condizione di Stephen Hawking. Questo testo è tratto da «Buchi neri e universi neonati» pubblicato per Bur Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A., proprietà letteraria riservata Stephen Hawking. Sempre nella collana «Le scoperte e le invenzioni», Bur ha pubblicato «La teoria del tutto» e «Dal Big Bang ai buchi neri». Mi capita spesso di sentirmi domandare: come ci si sente ad avere la sclerosi laterale amiotrofica? La risposta è: non molto bene. Io cerco di condurre una vita il più possibile normale e di non pensare alla mia condizione, o di non rimpiangere le cose che essa non mi permette di fare, che non sono poi così tante. Per me fu un trauma molto grave quando seppi di avere la malattia dei motoneuroni. Da bambino non ho mai avuto una grande coordinazione motoria. Non ero bravo nei giochi con la palla, e forse fu proprio questa la ragione della mia mancanza di interesse per lo sport o per le attività fisiche. Le cose parvero però cambiare quando andai a Oxford. Cominciai a fare il timoniere nel canottaggio. Non ero certamente a un livello di gare ufficiali, ma me la cavavo a quello delle gare fra college. Nel mio terzo anno a Oxford, però, notai che mi sembrava di diventare più impacciato nei movimenti, e un paio di volte caddi senza alcuna ragione apparente. Solo dopo il mio passaggio a Cambridge, l’anno seguente, mia madre se ne accorse e mi condusse dal medico di famiglia. Egli mi mandò da uno specialista e, poco dopo il mio ventunesimo compleanno, mi ricoverarono in ospedale per esami. Vi rimasi un paio di settimane, durante le quali fui sottoposto a una grande varietà di analisi. Mi prelevarono un campione di muscolo da un braccio, mi applicarono elettrodi, mi iniettarono nella spina dorsale un liquido radio-opaco e lo osservarono ai raggi X andare su e giù mentre inclinavano variamente il letto. Alla fine non mi dissero che cosa avevo, tranne che non era una sclerosi multipla, e che ero un caso atipico. Mi resi conto però che si attendevano che continuassi a peggiorare, e che non potevano fare altro che somministrarmi vitamine. Era chiaro anche che non si aspettavano che le vitamine potessero fare granché. Non mi sentii di domandare altri particolari, essendo già chiaro che erano decisamente sfavorevoli. La consapevolezza di avere una malattia incurabile che mi avrebbe probabilmente ucciso in pochi anni fu per me un trauma. Com’era possibile che una cosa del genere fosse accaduta proprio a me? Perché dovevo essere stroncato in quel modo? Mentre ero in ospedale, però, avevo visto un ragazzo che conoscevo vagamente morire di leucemia nel letto di fronte al mio. Non era stato certamente un bello spettacolo. Era chiaro che c’erano persone che stavano peggio di me. Almeno, la mia condizione non mi faceva soffrire fisicamente. Ogni volta che sono incline a commiserarmi mi viene in mente quel ragazzo. Non sapendo che cosa mi sarebbe accaduto, o quanto rapidamente avrebbe progredito la malattia, non stavo facendo nulla. I medici mi dissero di tornare a Cambridge e di proseguire la ricerca che avevo appena iniziato sulla relatività generale e la cosmologia. Io, però, non stavo facendo molti progressi perché non avevo una grande preparazione matematica, e in ogni caso non sarei vissuto abbastanza per terminare la mia tesi di dottorato. Mi vedevo come un personaggio da tragedia. Cominciai ad ascoltare Wagner, mentre è un’esagerazione che mi fossi dato al bere. A quel tempo facevo molti brutti sogni. Prima che mi fosse diagnosticata la malattia ero piuttosto annoiato della vita. Mi sembrava che non ci fosse niente che valesse la pena di fare. Poco dopo essere uscito dall’ospedale, però, sognai che stavo per essere giustiziato. D’improvviso mi resi conto che c’era una quantità di cose importanti che avrei potuto fare se la mia condanna fosse stata sospesa. Un altro sogno che feci varie volte fu quello che sacrificavo la mia vita per salvare altri. Dopo tutto, se dovevo morire comunque, la mia vicenda poteva avere anche qualche aspetto positivo. Ma non morii. Anzi, benché una grossa nube nera incombesse sul mio futuro, trovai, non senza stupirmi, che stavo apprezzando la vita più di prima. Cominciai a fare progressi nella mia ricerca, mi fidanzai e mi sposai e ottenni una borsa di studio di ricerca al Caius College di Cambridge. La borsa di studio al Caius risolse il mio problema immediato dell’impiego. Fu una fortuna che avessi scelto di lavorare in fisica teorica perché questa era una delle poche aree in cui la mia condizione non mi avrebbe gravemente svantaggiato. E fu una fortuna che la mia reputazione scientifica crescesse al peggiorare della mia invalidità.

L'ex sposa Jane Wilde: "Aveva 23 anni e il suo destino era già segnato. Ma io lo amavo", scrive Eleonora Barbieri, Giovedì 15/03/2018, su "Il Giornale". Qualcuno ricorderà Jane e Stephen come la coppia meravigliosa della Teoria del tutto, il film che è valso l'Oscar a Eddie Redmayne. Però la realtà a casa Hawking era un pochino diversa. Almeno per come l'ha racconta Jane, nata Wilde, che sposò il giovane fisico di Cambridge nel 1965, quando lui aveva 23 anni; due anni prima gli avevano pronosticato un paio di anni di vita, a causa della sclerosi laterale amiotrofica. La malattia ha segnato la vita al grande fisico, ma non gli ha impedito di avere una famiglia. In certi momenti una famiglia anche molto felice, come ricorda Jane nella sua autobiografia, Verso l'infinito (Piemme), sulla quale è basato il film. Ma vivere con Hawking, ha spiegato lei una volta, era «come stare sulle montagne russe». Perché l'unica divinità, l'unica preoccupazione, per Stephen era la fisica: «La dea della fisica era la mia rivale» ha detto Jane, che si considera una delle tante «vedove della scienza». Anche se, nonostante il pensiero e il cervello geniale di Hawking fossero sempre rivolti al cosmo e ai suoi misteri, la stessa ex moglie ha ammesso che lo scienziato era un padre «devoto», che amava davvero i loro tre figli, Robert, Lucy e Tim. Jane e Stephen si sono separati nel 1990 e hanno divorziato cinque anni dopo. Entrambi si sono risposati; lui con una delle sue infermiere, Elaine Mason, una delle tante donne che avevano cominciato ad assisterlo da quando la malattia era degenerata e gli aveva impedito di muoversi e badare a se stesso. Ricorda Jane Hawking che tutto cambiò nel 1985, dopo una crisi a Ginevra e una operazione di tracheotomia: «Stephen aveva bisogno di attenzione ventiquattr'ore su ventiquattro. Però le infermiere passavano il tempo a dirgli quanto fosse meraviglioso, e lui ha iniziato a dimenticarsi di noi». È a quel punto che Jane non regge: ha dedicato venticinque anni a quel genio che ama, ha sacrificato tutta la sua vita per lui; si è sentita spesso «una schiava», è stata così disperata da pensare al suicidio. Dopo undici anni di matrimonio, Hawking si è separato anche da Elaine Mason (che era già stata sposata, a sua volta, con un ingegnere, fan dello scienziato, che lo aveva aiutato a sviluppare il sintetizzatore vocale che usava per esprimersi), che è stata accusata di abusi. Con gli anni, Jane e Stephen si sono riavvicinati. Complici i tre figli, e anche i tanti riconoscimenti e premi ricevuti da Hawking; occasioni nelle quali spesso Jane lo ha comunque accompagnato, come per esempio alla Royal Society nel 2006, per la prestigiosa Medaglia Copley.

Fabrizio Frizzi è morto a Roma, aveva 60 anni.  L’annuncio della famiglia del conduttore. Era stato ricoverato in ospedale al Sant’Andrea per un’emorragia cerebrale, scrivono Paolo Foschi e Annalisa Grandi il 26 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Fabrizio Frizzi è morto. A dare l’annuncio è la famiglia del conduttore in una nota. «Grazie Fabrizio per tutto l’amore che ci hai donato». Così la moglie Carlotta, il fratello Fabio ed i familiari. Frizzi, 60 anni, si è spento nella notte all’ospedale Sant’Andrea di Roma, in seguito ad una emorragia cerebrale.

La malattia. Il 23 ottobre scorso Fabrizio Frizzi era stato colto da un malore, una ischemia, durante la registrazione di una puntata del programma «L’Eredità». Venne ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma dove fu dimesso alcuni giorni dopo. Il conduttore tornò in tv a dicembre, sempre alla guida del programma di RaiUno. «L’Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico - scherzò con Vincenzo Mollica annunciando il suo ritorno sugli schermi -. L’adrenalina sento che mi aiuta a stare meglio». Lo scorso 5 febbraio aveva compiuto 60 anni. Parlando della malattia disse: «Non è ancora finita. Se guarirò, racconterò tutto nei dettagli, perché diventerò testimone della ricerca. Ora è la ricerca che mi sta aiutando».

Il cordoglio della Rai. «Con Fabrizio se ne va un pezzo di noi, della nostra storia, del nostro quotidiano»: questo il commento della Rai in una nota. «Non scompare solo un grande artista e uomo di spettacolo, con Fabrizio se ne va un caro amico, una persona che ci ha insegnato l’amore per il lavoro e per l’essere squadra, sempre attento e rispettoso verso il pubblico. Se ne va l’uomo dei sorrisi e degli abbracci per tutti. L’interprete straordinario del coraggio e della voglia di vivere. È impossibile in questo momento esprimere tutto quello che la scomparsa di Fabrizio suscita in ognuno di noi. Così la Rai tutta, con la presidente Monica Maggioni e il direttore generale Mario Orfeo, può solo stringersi attorno a Carlotta e alla sua famiglia in questo momento di immenso dolore».

Fabrizio e Carlotta. Fabrizio Frizzi nel 2014 aveva sposato Carlotta Mantovan, dopo dodici anni di fidanzamento, nel 2013 la nascita della loro bambina Stella. I due hanno 25 anni di differenza. «Con Fabrizio è stato amore al primo sguardo, un amore travolgente» aveva raccontato proprio lei, poche settimane fa, in tv. I due si erano conosciuti quando lei aveva solo 17 anni, e partecipava come concorrente a «Miss Italia», trasmissione che lui ha condotto per diversi anni.

Baudo: «Nel Paradiso degli artisti un posto per lui». «Con Fabrizio si scacciava la tristezza, gli piaceva stare insieme agli altri, sempre allegramente quasi come se presagisse che un giorno avrebbe dovuto soffrire tanto - ha detto Pippo Baudo - Mi auguro che nel Paradiso degli artisti ci sia un posto speciale per lui e che gli angeli lo abbraccino per tutto il bene che ha fatto. Non mi ha mai deluso. Aveva questa sua capacità: di essere assolutamente lo stesso, sempre, in ogni occasione».

Fabrizio Frizzi è morto. Lutto in Rai e nel mondo televisione, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Fabrizio Frizzi è morto nella notte all'ospedale Sant'Andrea di Roma, in seguito ad una emorragia cerebrale. A dare l'annuncio una nota firmata dalla moglie Carlotta, dal fratello Fabio e dai familiari: "Grazie Fabrizio per tutto l'amore che ci hai donato". "Con Fabrizio se ne va un pezzo di noi, della nostra storia, del nostro quotidiano": così la Rai commenta la notizia. Fabrizio Frizzi morto. La Rai: "Con Fabrizio se ne va un pezzo di noi, della nostra storia, del nostro quotidiano". Il 23 ottobre scorso Frizzi era stato colpito da ischemia durante la registrazione di una puntata del programma "L'Eredità". Ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma dove fu dimesso alcuni giorni dopo. Il conduttore tornò in tv a dicembre, sempre alla guida del programma di RaiUno. Lo scorso 5 febbraio ha compiuto 60 anni. Parlando della malattia disse: "Non è ancora finita. Se guarirò, racconterò tutto nei dettagli, perché diventerò testimone della ricerca. Ora è la ricerca che mi sta aiutando".

Fabrizio Frizzi morto. Il malore del 23 ottobre a L'Eredità. L'artista era stato colpito da un malore durante le registrazioni de L'Eredità. Il 23 ottobre scorso, una ischemia. Venne ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma, dove fu dimesso alcuni giorni dopo. Non passò molto tempo e il conduttore decise di tornare in tv a dicembre, sempre alla guida del programma di RaiUno. "L'Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico. L'adrenalina sento che mi aiuta a stare meglio": aveva scherzato Frizzi con Vincenzo Mollica a 'La Vita in Diretta', poco prima di tornare in tv nel programma di Rai1 in tandem con Carlo Conti. Il 10 novembre Frizzi aveva posta un tweet in cui scriveva. "Combatto per riprendermi" e ringraziava i medici dell'Umberto I "che mi hanno ripreso per i capelli" e i medici del Sant'Andrea "che mi hanno rimesso in piedi e rapidamente sono stati capaci di capire da cosa il guaio era stato generato". Poi il ringraziamento a Carlo Conte, ai familiari e agli amici: "che mi hanno supportato in maniera incredibile".

È morto Fabrizio Frizzi. Frizzi è morto a 60 anni in seguito a una emorragia cerebrale. La moglie: "Grazie per tutto l'amore che hai donato". La Rai: "Se ne va parte della nostra storia", scrive Sergio Rame, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". È morto, a sessant'anni, Fabrizio Frizzi. A dare il triste annuncio è stata la famiglia stessa del conduttore in una nota pubblicata dal sito della Rai. "Grazie Fabrizio per tutto l'amore che ci hai donato", hanno scritto la moglie Carlotta, il fratello Fabio ed i familiari. "Con Fabrizio - fanno sapere da viale Mazzini - se ne va un pezzo di noi, della nostra storia, del nostro quotidiano". Frizzi si è spento nella notte all'ospedale Sant'Andrea di Roma, in seguito a una emorragia cerebrale. Il 23 ottobre scorso Frizzi era già stato colto da un malore, una ischemia, che lo aveva colpito durante la registrazione di una puntata del programma L'Eredità. In quell'occasione era stato ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma da cui era poi stato dimesso alcuni giorni dopo. Nel giro di un paio di mesi era tornato in televisione, sempre alla guida del programma di RaiUno. "L'Eredità è una gioia, fa bene anche al fisico. L'adrenalina sento che mi aiuta a stare meglio", aveva scherzato Frizzi con Vincenzo Mollica alla Vita in diretta, poco prima di tornare in tivù in tandem con Carlo Conti. "Combatto per riprendermi", aveva poi twittato il 10 novembre ringraziando i medici dell'Umberto I "che mi hanno ripreso per i capelli" e quelli del Sant'Andrea "che mi hanno rimesso in piedi e rapidamente sono stati capaci di capire da cosa il guaio era stato generato". Dalla Tv dei ragazzi all'Eredità, passando per Scommettiamo che e Miss Italia, Frizzi è stato sicuramente uno dei volti più noti e amati della televisione italiana. Sempre educato, elegante e cordiale, ha segnato, a partire dal Barattolo nel 1980, una pagina indelebile della storia del piccolo schermo. "Non scompare solo un grande artista e uomo di spettacolo, con Fabrizio se ne va un caro amico, una persona che ci ha insegnato l'amore per il lavoro e per l'essere squadra, sempre attento e rispettoso verso il pubblico - si legge in una nota della Rai - se ne va l'uomo dei sorrisi e degli abbracci per tutti. L'interprete straordinario del coraggio e della voglia di vivere. È impossibile in questo momento esprimere tutto quello che la scomparsa di Fabrizio suscita in ognuno di noi". Il suo modello di conduttore televisivo era Corrado. E a lui si è ispirato in tutti questi anni, tanti anni, da protagonista della televisione, pubblica e privata e infine nuovamente pubblica, quella Rai che è stata la sua "casa".

Fabrizio Frizzi morto. Rai: tributi e cambi programmazione. Speciale Porta a porta, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Tutta la Rai, compatta, ricorda Fabrizio Frizzi e lo fa con un impegno immediato e corposo, quasi impressionante per la sua portata, a conferma del profondo legame che c'era tra il servizio pubblico radiotelevisivo e il grande conduttore. Sono infatti tantissimi i tributi e i cambi di programmazione predisposti da subito dall'azienda e per l'intera giornata. Azienda che domani ospiterà per l'ultima volta il suo Frizzi: dalle 10 alle 18 sarà allestita la camera ardente nella sala A di viale Mazzini, mentre i funerali - con la partecipazione dei vertici Rai e di numerosi altri dirigenti e figure professionali del servizio pubblico radiotelevisivo - si svolgeranno mercoledì alle 12 nella chiesa degli Artisti, a piazza del Popolo, a Roma. Tutti i programmi in diretta, i telegiornali e i giornali radio, sin dal primo mattino, hanno dedicato ampio spazio al ricordo del popolare personaggio televisivo. Su Rai1 la lunga diretta di Unomattina ha proposto commenti e collegamenti in diretta fino alle 11, mentre sono stati sospesi i programmi "Storie Italiane", "Buono a sapersi" e "La prova del cuoco". Anticipata alle 14 la messa in onda de "La Vita in Diretta", al posto di “Zero e Lode”, per dedicare un pensiero alla vita e alla carriera di Fabrizio. Alle 14.30 il programma del daytime sarà interrotto dal film "La mia vita è uno zoo", per poi riprendere alle 16.50 con la seconda parte. Sospesi "L'Eredità" e "I Soliti Ignoti": alle 18.50 andrà in onda uno speciale Techetechetè dal titolo "Ciao Fabrizio, l'amico della porta accanto". In seconda serata, speciale Porta a Porta in onda alle 22.50: una puntata con tanti filmati dei suoi programmi e ricordi di amici e colleghi. A seguire, sarà proposto uno speciale Sottovoce "Ricordo Fabrizio Frizzi". Su Rai2 sospeso il programma mattutino "I Fatti Vostri" (al suo posto puntate di "Voyager" e "Dream Hotel"). Rinviato anche "Detto Fatto", sostituito da due episodi di "Crociere di nozze". In access prime time sospeso "Quelli che dopo il tg". In seconda serata andrà in onda una puntata in diretta di Night Tabloid: all'interno del programma un ricordo del conduttore scomparso. Rai3 proporrà alle 15.15 la replica della puntata del programma "Ieri e Oggi" con Frizzi e Antonella Clerici. Alle 20 sulla stessa rete puntata di "Blob" interamente dedicata a Fabrizio. Anche Rai Premium ricorderà il conduttore Rai alle 21.20 con una puntata in replica di "Mister premium" che lo ha visto protagonista. Rai Storia proporrà alle 23 "Visioni Private": una lunga intervista al conduttore realizzata nel 2007 da Cinzia Tani, in cui Frizzi ripercorre la sua carriera nel mondo dello spettacolo. Speciale Fabrizio Frizzi anche su Rai Radio Techete': in sua memoria il canale radio a partire dalle 15 riproporrà "Mezzogiorno con Fabrizio Frizzi" - programma di Rai Radio2 del 1997 - con le interviste del conduttore, da Via Asiago, ai grandi nomi dello spettacolo e della musica italiani in una versione inedita e originale.

Fabrizio Frizzi morto, Mediaset cambia programmazione tv. Mediaset cambia la programmazione in seguito alla scomparsa di Fabrizio Frizzi. Le principali variazioni: · su Canale 5 rimandate le puntate di “Uomini e donne”, “Amici” e “Avanti un altro”; · su Retequattro rinviato l’appuntamento in seconda serata con “Ieri, oggi italiani”, condotto da Rita dalla Chiesa; · su Mediaset Extra, dalle ore 18.00, speciale “Dedicato a Fabrizio Frizzi” con lo show “Come sorelle” (in onda su Canale 5 nel 2003) e, a seguire, le più belle immagini del presentatore scomparso alla serata dei “Telegatti” del 1992.

Addio Fabrizio Frizzi, una settimana fa il momento commovente a L'Eredità, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Fabrizio Frizzi è morto per una emorragia cerebrale nella notte tra domenica 25 e lunedì 26 marzo. Il conduttore aveva 60 anni e lo scorso ottobre era rimasto vittima di una ischemia prima di una puntata dell'Eredità. Le sue condizioni erano sembrate subito gravissime ma era riuscito con forza e coraggio a riprendersi discretamente, tanto da tornare in tv dopo appena una manciata di settimane. In tutti questi mesi, nonostante le cure e le terapie a cui si sottoponeva, aveva scelto di continuare a lavorare a L'Eredità, "anche se spesso sento le gambe fiacche", scherzava con la consueta autoironia. Ai telespettatori dispensava gentilezza, educazione e simpatia. E tanta emozione, come quando poco più di una settimana fa salutò con un abbraccio commosso il campione più longevo della trasmissione, il 18enne Andrea Saccone, uscito di scena dopo 14 puntate consecutive. Un'altra testimonianza della immensa umanità di Fabrizio. 

Frizzi, dalla tv dei ragazzi a re dei quiz: una vita sul piccolo schermo. Il mondo dello spettacolo piange la morte di Fabrizio Frizzi, volto noto dei programmi Rai sin dagli anni '80 quando esordito con la tivù dei ragazzi. Indimenticabile conduttore di Miss Italia, scrive Francesco Curridori, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". Il mondo dello spettacolo piange la morte di Fabrizio Frizzi, volto noto dei programmi Rai sin dagli anni '80 quando esordito con la tivù dei ragazzi.

Dall'infanzia agli esordi. Nato a Roma il 5 febbraio 1958, figlio di Fulvio, ex direttore commerciale dell'Euro International Film e fratello di Fabio, musicista, che ha lavorato alla colonna sonora di molti film e alla sigla di vari programmi televisivi. Frequenta le scuole elementari Cesare Nobili e consegue il diploma di liceo classico all'Istituto San Giuseppe Calasanzio ma, poi, abbandona gli studi per dedicarsi alla tivù. Ha le sue prime esperienze lavorative nelle tv e nelle radio private, ma arriva in Rai ad appena 22 anni e conduce programma per ragazzi come Il Barattolo (1980-1982) e affianca Enza Sampò in Tandem ('82 - '87) dove, da comprimario, aveva il compito di realizzare giochi con le scolaresche. In seguito viene scelto per condurre Pane e marmellata ('84-'85), insieme a Rita Dalla Chiesa, sua futura moglie per 15 anni. La svolta per Fabrizio arriva nel 1988, quando Michele Guardì lo vuole per condurre il programma del sabato sera Europa Europa accanto a Elisabetta Gardini.

I programmi di maggior successo di Frizzi. Nello stesso anno presenta per la prima volta Miss Italia, concorso di bellezza che condurrà per 15 anni consecutivi (fino al 2003). Due anni dopo arriva la consacrazione e la fama con la trasmissione di successo Scommettiamo che??, presentato dal 1991 al 1995 insieme a Milly Carlucci. Nel 1999, invece, lo affianca la modella tunisina Afef Jnifen e nel 2001 con l'argentina Valeria Mazza. Il programma, tratto dal format tedesco 'Wetten, dass??', va in onda il sabato sera in diretta dal Teatro delle Vittorie di Roma e il suo successo induce gli autori a ideare anche uno spin-off, Prove e provini a Scommettiamo che? ('92-'96). Frizzi viene, poi, scelto anche per avvenimenti più istituzionali come il Festival Disney del 1995 e per molte edizioni della Partita del Cuore. Nel 1994 si alterna con Mara Venier, Pippo Baudo, Rosanna Lambertucci e Milly Carlucci per la conduzione del preserale di Raiuno Luna Park e dei suoi spin-off. Dall'anno seguente si dedica anche al doppiaggio prestando la voce a Woody, protagonista della serie Toy story. Nel 1997 Frizzi fa parte del cast di Domenica In, ed esordisce con Per tutta la vita, programma che ottiene ottimi ascolti. Due anni dopo recita al fianco di Deborah Caprioglio nella fiction Non lasciamoci più e, nello stesso periodo, rifiuta il ruolo da protagonista della serie Un medico in famiglia. Nel 2003 lascia la conduzione di Miss Italia e, dopo una breve esperienza a Canale 5, torna in Rai per Piazza Grande, un programma di Michele Guardì con cui aveva già lavorato negli anni '90 con I fatti vostri e I fatti vostri - Piazza Italia di sera.

Gli ultimi anni di vita. Dopo essere stato concorrente di Ballando con le stelle, nel 2005 approda su Raitre e conduce per cinque stagioni la trasmissione matturina Cominciamo bene, mentre altri programmi su Raiuno non riscuotono il successo sperato. Nel frattempo, però, diventa il volto fisso di Telethon e nel 2007 dà il via su Raiuno al game show, I soliti ignoti - Identità nascoste, programma grazie al quale Frizzi torna alla ribalta. Nel 2009 conduce L'anno che verrà, il programma con cui Raiuno celebra il passaggio all'anno nuovo. Si cimenta nella musica cantando il brano Tortadinonna o gonnacorta, presente nel disco 'Q.P.G.A.' di Claudio Baglioni, testa Mettiamoci all'opera, talent show sulla musica lirica, e Attenti a quei due - La sfida, in coppia con Max Giusti. Nel 2012 è il conduttore dell'evento benefico Concerto per l'Emilia, nato per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto. Dopo essere stato sposato con Rita Dalla Chiesa, Fabrizio Frizzi sposa l'ex modella e giornalista Sky Carlotta Mantovan, conosciuta durante un'edizione di Miss Italia. Simpatizzante del Bologna, nel 2008 è stato nominato Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica. L'Eredità resta il suo ultimo programma tivù di successo.

Addio Fabrizio Frizzi, il conduttore gentile in una tv che urla. Il presentatore è scomparso all'età di 60 anni. Protagonista di un tv sempre elegante e che mai rincorreva le volgarità, scrive Beatrice Dondi il 26 marzo 2018 su "L'Espresso". Non urlava mai Fabrizio Frizzi, e cercava di scappare a gambe levate da quelle trasmissioni che sull'urlaccio ci hanno sempre campato. Non gli apparteneva, non era il suo modo di fare televisione, un modo gentile, educato, a volte un po' inutile ma sempre di livello. Dal Paroliamo che ha formato parecchi cinquantenni di oggi, gioco pomeridiano che richiedeva persino l'utilizzo del cervello, alla conduzione plurincensata di Scommettiamo che, in cui brave persone presentavano i loro azzardi fatti di piccole cose e il massimo della tv sguaiata era una doccia come penitenza. Partite del cuore, Telethon, tanta beneficenza mai sbandierata, Fabrizio Frizzi ha sempre sorriso davanti alle telecamere, non ha scatenato inutili polemiche per un pugno di ascolti, è accorso quando mamma Rai gli ha chiesto di salvare un programma pronto ad affondare e si è fatto da parte quando l'aria che tirava non soffiava più in suo favore. Persino nella vita privata non ha mai dato adito a copertine sguaiate, su quei giornali che pendono dalle urla dei personaggi televisivi. La sua lunga storia d'amore con Rita Dalla Chiesa, una signora più adulta di lui, è stata trattata in quanto tale, e la separazione e il divorzio non sono riusciti e sfociare in pettegolezzi di bassa lega. Così come la relazione con Carlotta, concorrente di Miss Italia, con cui nacque “Un amore travolgente”, un matrimonio romantico, una bambina e una storia solida al punto da non riuscire a farsi sporcare dal gossip. Un signore, un po' goffo, che inciampava con simpatia, e con quella pronuncia inconfondibile, sembrava esattamente il vicino di casa simpatico a cui andare a chiedere il prestito il cognac per sfumare l'arrosto. Nel giorno in cui il cordoglio straziante dell'opinione pubblica dà una vaga misura dell'affetto che il pubblico gli ha tributato in una carriera cominciata nel lontano 1980, ci piace ricordarlo con la maschera di Piero Pelù a Tale e Quale show. Una partecipazione in cui dimostro che la lezione elegante di Alighiero Noschese si poteva usare, digerire e regalare. E al contrario di molti, senza urlare mai.

Fabrizio Frizzi, il presentatore della porta accanto che ha tenuto compagnia a tutti noi. Per tutti gli addetti ai lavori era «Frizzolone»: un modo per porre l’accento sulla sua simpatia. Credeva alla solidarietà, quella vera; non si è mai atteggiato a fenomeno; ha saputo, più di ogni altra cosa, tenere compagnia, scrive Aldo Grasso il 26 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Frizzolone», per tutti gli addetti ai lavori era Frizzolone, un modo per porre l’accento sulla sua simpatia, sull’aria da eterno ragazzo, sui modi da bravo presentatore sempre sorridente, bonario. In tv ha fatto un po’ di tutto, lungo la scala che va dalla «tv dei ragazzi» (Il barattolo, Tandem e Pane e Marmellata, che condusse insieme a Rita dalla Chiesa che poi diventò la sua prima moglie) al varietà del sabato sera. Alcuni l’hanno considerato l’erede di Pippo Baudo per quella sua indubbia capacità di impersonare con naturalezza e convinzione il ruolo del intrattenitore nazional-popolare, adatto a grandi e piccini. In realtà il suo maestro è stato Michele Guardì, un’eredità da cui non è mai riuscito a liberarsi completamente. Il ricordo più vivido (e più sincero) riguarda un suo litigio con l’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce (era il 2002) che pubblicamente aveva sconfessato il conduttore al termine di Miss Italia. Frizzi reagì con orgoglio: «Se fossi io un direttore di rete non andrei in giro a raccontare quanto un programma è noioso. Io non l’avrei detto. Non esistono solo serial killer, esiste la gente normale che non possiamo sopprimere solo perché a Del Noce non piace». Ma restò solo, nessuno dei suoi colleghi, nessuno dei grandi ospiti che per anni aveva invitato a Salsomaggiore disse una sola parola di solidarietà. Lui, invece, credeva alla solidarietà, quella vera, e ha condotto per anni La partita del cuore. Raccontò pubblicamente di aver donato il midollo a una bambina, invitando gli italiani a seguire il suo esempio. Di errori, Frizzi ne ha commessi (come tutti noi). Quando le cose andavano bene non ha pensato a rinnovarsi, a capire che la tv attorno a lui stava mutando. Ha tentato altre vie (teatro, fiction, doppiaggio) scoprendo che comunque sono più difficili e meno gratificanti della tv generalista. È rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo e soprattutto dei format con cui ha dovuto fare i conti. Anzi, con un unico dignitoso format: l’«intrattenimento consolatorio», il cui compito principale consiste nell’«ammazzare il tempo». I suoi show hanno sempre desiderato, sopra ogni cosa, tenere compagnia, rallegrare, svagare. A suo onore, da gentiluomo della tv, va detto che non si è mai atteggiato a «fenomeno», ma ha preferito incarnare il presentatore della porta accanto: molto determinato, amicale, quasi un vicino di casa. E, alla lunga, questa sua semplicità è sempre stata premiata.

Morto Frizzi: malore e ritorno, fino ultimo giorno in tv. Il 23 ottobre si sentì male in studio, poi il ritorno il 15 dicembre, scrive il 26 marzo 2018 "Ansa". All'ANSA aveva raccontato che stava combattendo con tenacia "anche se non è ancora finita. Ogni tanto come è normale, qualche momento di sconforto può esserci, ma l'affetto della famiglia, del pubblico e degli amici è una luce che illumina tutto. La vita è meravigliosa". E Fabrizio Frizzi l'ha vissuta fino all'ultimo secondo dei suoi 60 anni, compiuti appena il 5 febbraio scorso, e l'ha vissuta in Rai dove lavorava dal 1980 e dove l'aveva colpito il primo malore il 23 ottobre scorso. Quel giorno si era sentito male durante la registrazione dell'Eredità negli studi, una lieve ischemia si era detto, poi subito il ricovero. ''Se guarirò racconterò tutto nei dettagli, perchè diventerò testimone della ricerca'', aveva detto Frizzi quando si era sentito di parlare dopo un lungo periodo di silenzio. La notizia del malore del conduttore si era sparsa il giorno successivo, da inizio giornata, sui social e sui titoli dei siti online che hanno allarmato i suoi fan. Grave, si continuava a leggere su Twitter, mentre l'hashtag #FabrizioFrizzi volava in cima alle tendenze del giorno e si diffondevano ipotesi preoccupanti. Pochi minuti dopo la notizia, Rai1 ha cambiato il palinsesto della fascia preserale: L'Eredità sospesa e al suo posto trasmessa la prima puntata della serie Don Matteo 9. Così era stata direttamente una nota ufficiale nel pomeriggio di Viale Mazzini a fare chiarezza e ad annunciare che il direttore generale della Rai, Mario Orfeo, gli aveva fatto visita. "Abbiamo parlato e scherzato", aveva detto Orfeo all'uscita dall'ospedale. E dopo il ritorno a casa aveva voluto rassicurare il suo pubblico con un post su Fb. "Combatto per guarire", aveva scritto Frizzi rompendo il silenzio per salutare gli amici, i fan e le tante persone che gli erano state vicine nel momento della grande paura, "mi date la forza per superare questa brutta avventura". L'amico Carlo Conti aveva preso il timone dell'Eredità al suo posto, fino al suo ritorno il 6 dicembre. L'annuncio a sorpresa alla Prova del Cuoco, nel giorno del compleanno di Antonella Clerici e insieme a Carlo Conti, nella grande commozione generale ma lui era tornato come sempre, con la sua dirompente e irresistibile risata. Era tornato al suo posto, in tv, su Rai1, dal 15 dicembre, prima insieme a Conti, poi da solo, fino a stanotte e il programma ancora in palinsesto per oggi.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Fan Vincenzo primo a entrare, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Vincenzo si è' messo in fila davanti ai cancelli della Rai di viale Mazzini alle 6 di questa mattina ed è' stato il primo ad entrare nella camera ardente di Fabrizio Frizzi. "Ci tenevo ad esserci - racconta ai giornalisti - perchè Fabrizio ha fatto parte della mia vita fin da quando ero bambino. Non eravamo amici, ma io l'ho sempre seguito in tv e l'ho incrociato qualche volta. In quelle occasioni abbiamo scambiato delle battute su alcuni professori che avevamo avuto in comune. Sono un po' più giovane di lui, ma abbiamo frequentato lo stesso liceo, il San Giuseppe Calasanzio in via Cortina D'Ampezzo a Roma. Sono cresciuto - ha continuato - a pane e Frizzi, espressione che ricorda anche il suo programma Pane e marmellata, e l'ho seguito fino all'altra sera nell'ultima puntata dell''Eredita''. Vincenzo ha poi raccontato che quando è entrato nella camera ardente per salutare Fabrizio ha voluto lasciare un messaggio sul libro messo a disposizione dei visitatori dove ha scritto: "Lui era quello che noi tutti vorremmo e dovremmo essere".

Fabrizio Frizzi camera ardente nella sede Rai di viale Mazzini, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. E' cominciato l'afflusso di pubblico nella sede Rai di viale Mazzini per l'ultimo saluto a Fabrizio Frizzi: la camera ardente è stata aperta e lo sarà fino alle ore 18. Moltissimi i dirigenti, funzionari e dipendenti del servizio pubblico radiotelevisivo che stanno rendendo omaggio al feretro del popolare conduttore scomparso prematuramente nella notte tra domenica e ieri, vittima di una emorragia cerebrale. Già diversi personaggi noti hanno reso omaggio alla salma di Frizzi. Tra loro, Beppe e Rosario Fiorello, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, Flavio Insinna, Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fondazione Telethon di cui Frizzi è stato sempre un protagonista di primo piano, se non l'"anima" della campagna. E ancora: il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, l'attore Alessandro Haber.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Mimum: "Quella pizza della pace dopo la lite", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Una volta ho litigato con Fabrizio Frizzi perchè i tempi del suo programma si erano allungati troppo. La volta dopo siamo andati a mangiare la pizza della pace. Era una persona adorabile ed era impossibile litigarci". Così Clemente Mimun, direttore del Tg5, ricorda Fabrizio Frizzi, uscendo dalla camera ardente allestita da questa mattina nella sede Rai di viale Mazzini.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Amadeus: "Amico con cui ho condiviso momenti bellissimi", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Se ne va un amico, un collega, una persona con la quale ho condiviso momenti bellissimi. Noi abbiamo la fortuna di fare un bel lavoro e quindi quando condividi delle cose sono grazie a Dio cose belle. E quelle rimangono. Poi penso alla famiglia, alla moglie, alla bambina piccola e in questi momenti si pensa anche a tante cose e che tutto è ingiusto. Penso anche alla sua forza di andare in trasmissione e all'affetto del pubblico che ho visto oggi, trovo che sia giusto perchè era l'amico di tutti. Che Fabrizio fosse bravo lo sapevamo tutti, ma era soprattutto buono". Tra gli altri amici che gli hanno reso omaggio: Marisa Laurito, Walter Veltroni, Roberto Giachetti, Veronica Pivetti, Luca Zingaretti, Emanuela Aureli, Massimo Giletti, Luca Giurato, Enrico Mentana, Andy Luotto, Massimo Giannini.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Brignano, era la parte migliore di noi, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani.

"Fabrizio era un volto della nostra televisione, un volto Rai, si è sempre adattato e raramente si è impuntato. Era una persona straordinaria, la parte migliore di noi. Io in un certo senso lo invidio, molti hanno detto che era di un talento generico e questo è stata la sua forza". Così Enrico Brignano ricorda l'amico Fabrizio Frizzi, dopo averlo salutato per l'ultima volta nella camera ardente, allestita alla Rai in viale Mazzini. "Il mio ricordo personale - racconta Brignano - è di tanto tempo fa quando Fabrizio presentava Tandem con Roberta Manfredi. Era il mio primo provino e trovai lui che era quel ragazzotto buontempone dalla risata esplosiva, quasi incontrollabile. In quel momento non potevo immaginare che oggi l'avremmo pianto".

Fabrizio Frizzi camera ardente. Tanti vip in processione in Rai, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a Gianni Letta, al ministro Marianna Madia, a Luca Cordero di Montezemolo, al direttore di Repubblica Mario Calabresi, al presidente del Coni Giovanni Malagò. Sono tante le personalità che finora hanno reso omaggio alla salma di Fabrizio Frizzi nella camera ardente allestita nella Sala A della sede Rai di viale Mazzini. A loro si aggiungono i numerosi vip del mondo della televisione e dello spettacolo in genere, tra attori, conduttori, produttori e manager: Beppe e Rosario Fiorello, Giancarlo Leone, Tiberio Timperi, Flavio Insinna, Alessandro Haber, Lorenza Lei, Bianca Guaccero, Cristina Parodi, Riccardo Rossi, Stefano d'Orazio (dei Pooh), Giulio Scarpati, Max Giusti, Emilio Carelli, Bruno Vespa. E ancora: Giancarlo leone Andy Luotto, Francesca Fialdini, Marco Liorni, Manuela Aureli, Amedeo Goria, Mario Limongelli (industria discografica indipendente), Andrea Scrosati, Paola Perego, Amadeus, il maestro Pinuccio Pirazzoli, Paolo Belli, Kaspar Capparoni, Enrico Vaime, Sergio Friscia, Michela Miconi, Simona Agnes. Quindi Luca Zingaretti, il produttore Carlo degli Esposti, Riccardo Cucchi, Roberta Lanfranchi, Silvia Salemi, Manuela Villa, Enrico Brignano, Massimo Giletti.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Montezemolo, grazie per il suo lavoro a Telethon, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Fabrizio è riuscito ad entrare nelle case degli italiani con una grande misura. Lo devo ringraziare non solo per Telethon che è la cosa più importante, 10 anni di grande impegno, ma anche perchè quando c'era una vittoria della Ferrari, Fabrizio era sempre il primo a telefonare a fare i complimenti e con un sorriso diceva 'Avanti, avanti così!'. Quindi sono vicino con molto affetto alla famiglia, un bacino alla piccola Stella ma anche a sua moglie che in questo periodo è stata eccezionale". Così Luca Cordero di Montezemolo ricorda l'amico Fabrizio Frizzi, uscendo dalla camera ardente allestita dalla Rai in viale Mazzini.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Haber: una bella persona con ambizione umana, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Di solito l'ambizione è quasi sempre negativa, cercare il potere in assoluto. Invece per Fabrizio si trattava di un'ambizione umana. Era una bella persona, non ho avuto modo di conoscerlo bene, però le poche volte che l'ho incontrato è stato dolce, delicato e altruista. Ripeto, una bella persona, altrimenti non sarei venuto qui". Lo ha detto l'attore Alessandro Haber dopo aver reso omaggio a Fabrizio Frizzi nella camera ardente allestita dalla Rai in viale Mazzini.

Fabrizio Frizzi camera ardente. Max Giusti: gentile e altruista anche a telecamere spente, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Fabrizio era una persona altruista, generosa, disponibile, educata e piena di valori. Spesso però quando si spengono le telecamere le persone non sono così. Invece Fabrizio, voglio rassicurare tutti quelli che l'hanno amato, era così anche quando si spegnevano le telecamere, anzi era molto di più". Lo ha detto l'amico e collega Max Giusti uscendo dalla camera ardente alla Rai per rendere l'ultimo saluto a Frizzi. "Era uno che faceva spazio agli altri - ha continuato Giusti - e non è una caratteristica così comune nel nostro mestiere. Sto parlando in questo momento solo per far sapere ancora di più che bella persona fosse. Si merita tutte le persone che oggi stanno qui per lui. Anzi sono poche, se ne meriterebbe molto di più". 

Fabrizio Frizzi morto. Carlucci: "Uno strappo al cuore", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Sento uno strappo al cuore e non riesco a parlare, Fabrizio era e sarà sempre il mio fratellone". Lo ha scritto su Facebook Milly Carlucci, amica e collega di Fabrizio Frizzi, morto la scorsa notte all'ospedale Sant'Andrea a causa di una grave malattia. "Da stamattina - ha continuato la presentatrice tv - ricevo telefonate di giornalisti che mi chiedono di ricordarlo con un pensiero, chiedo scusa ma non ce la faccio a parlare. Lo farò quando riuscirò a metabolizzare questo immenso dolore, non riesco ad accettare questa ingiustizia. Il mio pensiero va a Carlotta a Stella, a Claudio e a tutta la sua famiglia", ha concluso.

Fabrizio Frizzi morto. Veltroni: "Non è tempo per persone gentili", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Non è tempo per persone gentili. Ciao Fabrizio". Così Walter Veltroni su Twitter ricorda Fabrizio Frizzi.

Fabrizio Frizzi morto. Donatori midollo: "Ciao caro amico, uomo raro", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Questa mattina il risveglio di tutti noi è stato segnato da una notizia che nessuno avrebbe mai voluto ricevere: la scomparsa di un caro amico, Fabrizio Frizzi. Un grande professionista, un uomo dall'elevato impegno civico caratterizzato da un'alta moralità e sensibilità verso chi ha bisogno, un uomo raro". Così su instagram il ricordo dell'Admo, l'associazione italiana donatori di midollo osseo, a cui il presentatore era iscritto. "In seguito all'incontro con Mario Bella, fondatore di Admo dopo la scomparsa del figlio Rossano, decise di entrare a fare parte della grande famiglia Admo - ricorda l'associazione - non solo come testimonial instancabile e sempre disponibile ma come donatore di midollo osseo, che donò effettivamente dopo pochi anni dall'iscrizione all'associazione ed al registro". Il riferimento è alla storia della giovane Valeria Favorito, che scoprì per caso in tv che il donatore che le aveva salvato la vita era proprio Frizzi. "Parlava di questa sua esperienza - ricorda ancora Admo - che permise ad una persona di tornare alla vita, come di un gesto semplice e normale felice di aver fatto qualcosa di speciale senza sentirsi un eroe. Splendido testimone per noi ma soprattutto grande persona. Siamo stati fortunati di averti avuto al nostro fianco. Ciao Fabrizio.

Fabrizio Frizzi morto. Quando donò il midollo a una bambina di 11 anni, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Sono felice di rivedere il mio fratellone Fabrizio". Era il 2011, la trasmissione "Attenti a quei due", e in diretta andò in onda l'incontro, commovente e intenso, tra Fabrizio Frizzi e Valeria Favorito, la bambina che a 11 anni fu salvata proprio dal conduttore, che donò il midollo. Valeria, 29 anni, adesso sta bene, vive e lavora a Verona. Si era ammalata di leucemia mieloide acuta nel 1999. "A undici anni i medici mi diagnosticarono la Lam, leucemia mieloide acuta - spiegava la giovane - Cominciai a essere sottoposta a una seria di cicli di chemioterapia. In breve tempo però i medici si resero conto che le cure sarebbero state insufficienti a salvarmi e così cominciammo a cercare un donatore di midollo. Nessuno dei miei familiari era però compatibile. Ho due fratelli fra loro compatibili al cento per cento ma purtroppo non con me. Verso marzo trovarono un donatore anonimo e domenica 21 maggio del 2000 venni operata". Dopo qualche giorno accade una cosa inaspettata e casuale: il papà di Valeria sente Romina Power annunciare durante la trasmissione televisiva 'Per tutta la vita', che Frizzi presentava assieme a lei: "Fabrizio oggi non c'è perchè domenica scorsa ha fatto una cosa molto bella, una cosa importante per qualcuno". E' in quel momento che Valeria capisce che il donatore anonimo era proprio il celebre conduttore. La famiglia inizia a cercare di mettersi in contatto con Frizzi, ma subentra una legge del 2003 che vieta ai riceventi di conoscere l'identità del donatore, ma Valeria non si dà per vinta: nel 2006, quando la ragazza ha appena 18 anni, Fabrizio si reca a Verona per la partita del cuore e Valeria, determinata a conoscerlo, riesce a raggiungere il campo da gioco dove dopo non poche peripezie arriva a presentarsi e Frizzi, che preso dall'emozione la abbraccia forte. Valeria spiegava alle tv che si accorsero di lei e della sua storia: "A tutti gli effetti si può dire che avendo lo stesso midollo abbiamo lo stesso sangue. Io lo chiamo il mio "fratellone". Da quella volta siamo rimasti in contatto e poi ci siamo incontrati nuovamente grazie alla trasmissione "I sogni son desideri". Il legame, insomma, è stretto: un vero legame di sangue. Il paese della ragazza, Erice, in provincia di Trapani, conferisce a Frizzi la cittadinanza onoraria. Ancora oggi il profilo facebook di Valeria è pieno di foto che la ritraggono insieme al suo "fratellone", che non avrà più modo di incontrare ma che in qualche modo vive in lei.

Fabrizio Frizzi morto. Costanzo: "Ho perso un amico". Il ricordo dei vip, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Ho perso un amico, era una persona per bene. Per gli spettatori è come se morisse un parente, una persona che ti è vicina, un amico". Così Maurizio Costanzo ricorda Fabrizio Frizzi a "La vita in diretta".

Fabrizio Frizzi morto. Laura Pausini: "Notizia devastante". Il ricordo dei vip, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Chiedo scusa se non sono allegra come al solito, ma ho sentito che avete reso omaggio ad un uomo straordinario e anche a me la notizia mi ha devastato. Carlotta e Stella, vi mando un bacio molto grande". Sono le parole commosse di Laura Pausini oggi nel corso della puntata di 'Radio2 Social Club' a lei interamente dedicata e in onda su Radio2 Rai. Luca Barbarossa e Andrea Perroni l'hanno accolta affranti per la notizia della morte di Fabrizio Frizzi e si sono stretti in un abbraccio, senza mai perdere la voglia di portare avanti lo show, in una Sala B gremita di giovane pubblico. 

Fabrizio Frizzi morto, dalla Cuccarini a Facchinetti: i vip ricordano Frizzi, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. E' lungo l'elenco di quanti - nel mondo dello spettacolo, dello sport, del giornalismo ed anche della politica - che esprimono il proprio cordoglio per la morte di Fabrizio Frizzi. Enrico Mentana su Facebook scrive "Fabrizio Frizzi sembrava una persona per bene, di grandi qualità umane, senza l'altezzosità che deriva dalla fama, e un eccellente professionista. Ma se lo conoscevi scoprivi che lo era ancora di più, ed era impossibile non volergli bene". "C'è anche il cordoglio del presidente del Coni, Giovanni Malagò, intervenuto a Unomattina, su Rai1: "Il mondo dello sport è molto triste oggi perchè a Fabrizio, al di là dei rapporti personali con tantissimi rappresentanti, riconosce una cosa: la sua costante e incondizionata disponibilità a promuovere e presentare manifestazioni sportive. Lo ha sempre fatto con il sorriso e con competenza. Rispecchiava il suo modo di essere e il suo stile con un sorriso contagioso. Ci uniamo al cordoglio di un Paese e di un'azienda, la Rai, perchè era un patrimonio di tutti". Per il senatore Ignazio La Russa (FdI), "con la scomparsa di Fabrizio Frizzi se ne va non solo un grande artista che per anni ha tenuto compagnia a milioni di italiani ma anche e soprattutto, una grande persona. Ricordo ancora il suo entusiasmo quando, da ministro della Difesa, chiesi proprio a lui e a Rita dalla Chiesa di condurre le celebrazioni per il 4 novembre, Giornata dell'Unità nazionale e delle forze armate. Alla sua famiglia e ai suoi cari vanno le mie sincere condoglianze". "Mancherai... mancherà la tua bellezza interiore. Riposa in Pace, Fabrizio", scrive Lorella Cuccarini su Twitter, e Max Biaggi aggiunge "Quali parole posso trovare in questo momento...? Dolore, rabbia e delusione per questo mondo ingiusto. Arrivederci fratellone mio. Sei e rimarrai un esempio per tutti!". "Tutto l'affetto che ti sta arrivando in queste ore, dimostra quanto fossi amato e quanto riuscissi ad arrivare al cuore delle persone. Prima di un grande presentatore, eri un grande uomo. Ci mancherai". Lo scrive su Twitter Francesco Facchinetti.

Fabrizio Frizzi morto. Panariello: "Se ne va un amico". I vip ricordano Frizzi, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Giorgio Panariello, su Twitter, ricorda Fabrizio Frizzi: "Ciao Fabrizio…con te se ne va un amico, un gentiluomo che si porta via con se quel sorriso che non dimenticheremo piu'. Un abbraccio alla famiglia".

Fabrizio Frizzi morto. Fabio Fazio: "Era buono e...", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Era una persona buona, una persona gentile. Felice del proprio lavoro e sempre rispettoso degli altri. Mai una parola contro qualcuno, ma solo sorrisi e gentilezza. Per tutti", scrive su Twitter Fabio Fazio in ricordo di Fabrizio Frizzi.

Fabrizio Frizzi morto. Casellati, esempio prezioso di garbo e professionalità, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "La scomparsa di Fabrizio Frizzi addolora l'intera comunità nazionale. Entrato giovanissimo in Rai, si fece subito apprezzare per il suo garbo e la sua professionalità, portando nelle case di tante generazioni di italiani il suo stile inconfondibile, la sua versatilità, il rispetto assoluto nei confronti dei telespettatori e delle diverse sensibilità". Così Maria Elisabetta Alberti Casellati, Presidente del Senato, in una dichiarazione. "Il suo esempio sarà prezioso per chiunque svolga o voglia intraprendere un'attività nel mondo dello spettacolo. Alla moglie Carlotta e a tutti i suoi familiari e amici va il mio sincero e affettuoso cordoglio e quello del Senato della Repubblica".

Fabrizio Frizzi morto. Magalli: "Mi aveva scritto 'spero portare a casa pellaccia'...", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Nell'ultimo messaggio telefonico che Fabrizio Frizzi qualche settimana fa aveva inviato all'amico Giancarlo Magalli aveva scritto "La terapia c'è e la sto facendo. Non sarà facile, ma spero di portare a casa la pellaccia". Ed era riuscito ad infilare un sorriso anche in una comunicazione drammatica come quella. "Ed è proprio quel sorriso che non ci abbandonerà mai. E per ogni sorriso che lui ha regalato a noi gli saremo grati. Sempre". Lo scrive Giancarlo Magalli su Facebook, ricordando Frizzi. Magalli ha deciso di non andare in onda oggi con 'I Fatti Vostri'. "Il telefono che suona molto presto la mattina - scrive il conduttore - fa sempre temere cattive nuove, ma mai avrei pensato stamattina che mi avrebbe raggiunto una notizia così dolorosa, così straziante pur se non del tutto inattesa. Aprire gli occhi venendo a sapere che Fabrizio Frizzi li ha chiusi per sempre e' stato terribile. Se ne va un amico carissimo ed un grande collega, ma soprattutto una persona buona. Uno che non ha mai fatto finta di essere buono, come spesso avviene nel nostro ambiente, uno che lo era veramente e che credeva profondamente nell'amicizia. Lo dimostra il fatto che oggi lo piangono milioni di amici". Magalli aggiunge "sapevamo che stava male. Sapevamo che combatteva una battaglia disperata. Sapevamo che non voleva che se ne parlasse per paura di dover smettere di lavorare ed abbiamo tutti rispettato questo suo desiderio, la Rai per prima. Sapevamo anche che la sua paura più grande non era andarsene, ma il pensiero di lasciare sole Carlotta e Stella, le sue ragazze".

Fabrizio Frizzi morto. Rita Dalla Chiesa: "Mancherà a tutti", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Mancherà a tutti", con queste parole Rita Dalla Chiesa, ex moglie di Fabrizio Frizzi ha risposto ai giornalisti che l'attendevano all'uscita dell'ospedale Sant'Andrea dove il conduttore è morto stanotte.

Fabrizio Frizzi morto. Guardì: "Uomo di straordinaria generosità", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Fabrizio Frizzi era un uomo di straordinaria generosità. Non era un presentatore, era Fabrizio Frizzi e basta con la sua simpatia il suo modo di fare e la sua gentilezza. Frizzi conosceva le sue condizioni di salute e l'ultima volta che l'ho visto era sereno e sorridente, credo se ne sia andato così". Lo ha detto il regista televisivo Michele Guardì, uscendo dall'ospedale Sant'Andrea di Roma dopo aver salutato per l'ultima volta l'amico e il collega Fabrizio Frizzi, deceduto questa notte a causa di una grave malattia.

Fabrizio Frizzi morto. Berlusconi, italiani perdono amico discreto e fidato, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Ho appreso con grande tristezza la notizia della scomparsa di Fabrizio Frizzi. Se ne va un grande professionista della televisione, ma soprattutto una persona gentile e garbata, un modello di stile e un maestro di simpatia". Lo afferma il presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi. "Il suo grande calore umano, che sapeva far emergere nel suo lavoro televisivo, lo ha fatto amare da generazioni di spettatori. La televisione perde uno dei suoi migliori protagonisti, milioni di italiani perdono quello che consideravano come un amico discreto e fidato".

Fabrizio Frizzi morto. Fiorello "grande dolore, raccontiamo Fabrizio in radio". Personaggi tv ricordano Frizzi, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Grande dolore oggi. Avevamo pensato di non andare in onda. Invece la faremo raccontando Fabrizio. La persona più gentile, educata, corretta che abbia mai conosciuto nel mondo dello spettacolo Italiano". Lo scrive su twitter Fiorello che conduce "Il Rosario della sera" su Radio Deejay.

Fabrizio Frizzi morto. Pippo Baudo lacrime: "Un ragazzo d'oro", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Pippo Baudo ha ricordato Fabrizio Frizzi a Rai news 24: "Era un ragazzo che amava il suo lavoro" «E' difficile trovare le parole giuste morte ingiusta per ragazzo così dolce, l’ho visto ieri sera in televisione l’ho visto ieri sera e mi era sembrato almeno ben messo, certo faceva uno sforzo enorme per andare avanti nelle sue condizioni fisiche. E’ una perdita gravissima un uomo che lascia una famiglia a cui era attaccatissimo. Un uomo tanto buono», le parole di Pippo Baudo con voce commossa. «Era un ragazzo senza ambizioni sfrenate, faceva questo lavoro con amore. Io l’ho conosciuto che faceva dei programmi da ragazzo appena. Ci divertivamo un mondo, eravamo spensierati lui ha sempre mantenuto questo aspetto gioviale e allegro che attraversava lo schermo e arrivava a tutte le famiglie d’Italia», prosegue Pippo Baudo. «Lascia il segno dell’assoluta semplicità - aggiunge - si divertiva a fare la tv e a farla vedere agli italiani, un gioco allegro nel quale voleva come complici tutti i telespettatori. Amava il prossimo». Baudo apprezzava «la spontaneità il suo modo di aggredire lo spettacolo accarezzandolo. Faceva insieme il ruolo del conduttore e quello del telespettatore».

Fabrizio Frizzi morto: da Malgioglio ai politici, su Twitter l'addio a Fabrizio, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. La morte improvvisa di Fabrizio Frizzi lascia un profondo dolore tra amici e tra i milioni di persone che hanno visto in quel volto gentile e in quell'uomo sempre pacato un perfetto padrone di casa in tv. Su Twitter e Facebook in tanti piangono il conduttore morto nella notte al Sant'Andrea di Roma per un'ischemia. "Grande dolore per la perdita di Fabrizio Frizzi... un uomo straordinario, educato affettuoso per bene. Ci lascia un pezzo di storia della nostra TV. Sei nel mio cuore", scrive Cristiano Malgioglio. Su Facebook Red Ronnie ricorda: "Fabrizio... beh era una persona fantastica e gentilissima. Presentammo insieme la 'Partita del cuore' della Nazionale italiana cantanti. Quando nel 1992 debuttai di sabato sera con RoxyBar su VideoMusic lui, che in contemporanea faceva il programma del sabato sera su Rai1, mi mandò un telegramma di auguri". Alessandro Gassman scrive un semplice saluto: "Buon viaggio a Fabrizio Frizzi, persona gentile. Rip". Poi Elisabetta Gardini scrive: "Se ne va volto storico Rai. Una persona molto amata dal pubblico perchè sembrava un po' il compagno di scuola, l'amico di sempre, il figlio o il fratello minore. Mai sopra le righe e sempre con il sorriso. Ricorderò sempre con affetto gli anni di lavoro insieme. Ciao Fabrizio". Federica Panic ucci scrive: "Un uomo perbene. Ciao Fabrizio Frizzi". Anche il mondo della politica esprime il suo cordoglio. Giorgia Meloni scrive: "Se ne va un signore del mondo dello spettacolo, una persona perbene e dal cuore grande, da molti considerato un po' come uno di casa. Ciao Fabrizio, ci mancherai". Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, scrive su Twitter: "Mi addolora la scomparsa di Fabrizio Frizzi, conduttore garbato, "vecchio stile" com'erano i presentatori storici. Era un piacere seguirlo perchè entrava nelle nostre case con il sorriso e il rispetto che ne hanno sempre contraddistinto la professionalità". Poi c’è' Daniela Santanchè che scrive: "Oggi grande tristezza per la scomparsa di Fabrizio Frizzi, grande professionista, ci mancherai fai un buon viaggio".

Fabrizio Frizzi morto. Salvini, una persone più belle e gentili della tv, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Buon viaggio Fabrizio, una delle persone più belle, professionali e gentili della televisione". Così su Twitter Matteo Salvini.

Fabrizio Frizzi morto. Di Maio: "Indimenticabile sorriso, ci mancherai", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Ciao #FabrizioFrizzi, resterai indimenticabile grazie al tuo sorriso, l'eleganza e quei modi che facevano breccia nel cuore di tutti noi. Ti ricorderemo per la positività e per la gioia che riuscivi a trasmettere sempre. Ci mancherai". Così il leader M5s Luigi Di Maio su twitter.

Fabrizio Frizzi morto. Magalli: "Ha rappresentato la buona televisione", scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Quarant'anni di vita, di lavoro e d'amicizia. Frizzi ha rappresentato la buona televisione, quella garbata, quella senza liti, senza sopraffazione. Ha dimostrato che si può fare la tv essendo delle brave persone". Lo ha detto Giancarlo Magalli poco prima di entrare all'ospedale Sant'Andrea di Roma dove ha fatto visita alla famiglia di Fabrizio Frizzi, scomparso durante la notte.

Fabrizio Frizzi morto. Giletti, un uomo educato che lavorava in silenzio, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Quando muore qualcuno si finisce sempre per essere retorici. Vi descrivo quello che era Fabrizio, quando ho condotto Telethon per la prima volta lui era molto più importante di me e quando arrivò per fare la fotografia di rito con tutti i personaggi della trasmissione fece tre passi indietro. Io lo portai in avanti. Questo era Fabrizio, uno che lavorava in silenzio e una persona molto educata". Lo ha detto Massimo Giletti, uscendo dall'ospedale Sant'Andrea di Roma dove ha dato l'ultimo saluto all'amico e collega Fabrizio Frizzi, scomparso durante la notte.

Fabrizio Frizzi morto per emorragia cerebrale. Orfeo (Rai) commosso, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. In ospedale, come riporta anche Il Tirreno, è arrivato Mario Orfeo, direttore generale della Rai, visibilmente commosso dopo la notizia della morte di Frizzi. Al Sant'Andrea di Roma, dove Frizzi è morto nella notte per emorragia cerebrale, Orfeo non ha rilasciato alcuna dichiarazione alla stampa, facendo sapere di averlo già fatto in una nota ufficiale a firma di Viale Mazzini.

Funerali Frizzi: Cuccarini, dimostrazione che era un'anima meravigliosa, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "E' stato già detto tutto e credo che quello che sta succedendo sia la dimostrazione di che anima meravigliosa fosse". Lo ha detto Lorella Cuccarini uscendo dalla chiesa degli Artisti dove questa mattina si sono svolti i funerali di Fabrizio Frizzi.

Funerali Frizzi: Carlo Conti, grazie a tutti per l'affetto dimostrato, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Grazie a tutti per l'affetto dimostrato". Lo ha detto Carlo Conti uscendo dalla chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma dopo il funerale di Fabrizio Frizzi.

Funerali Frizzi: Insinna recita poesia di Borges "Amicizia" al funerale, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Flavio Insinna ha voluto salutare per l'ultima volta Fabrizio Frizzi dedicandogli la poesia 'Amicizia' di Jorge Luis Borges che ha recitato, commuovendosi, durante il funerale. "Voglio usare queste parole - ha detto Insinna - per ringraziarlo un'altra volta, ma non per l'ultima volta". Poco prima sono intervenuti    Antonella Clerici e Carlo Conti che hanno letto la preghiera degli artisti.

Funerali Frizzi: Gerry Scotti, una brava persona e un collega unico, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Una brava persona, un collega unico. Non eravamo amici perchè non ci frequentavamo, ma aveva tutte le caratteristiche per essere un buon amico". Lo ha detto Gerry Scotti uscendo dal funerale di Fabrizio Frizzi.

Funerali Frizzi: Mirigliani, la sua Miss Italia elegante e semplice, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Ho capito in questi giorni quanto fosse grande il legame tra Fabrizio Frizzi e Miss Italia. In queste ore la gente sta esprimendo il proprio amore e L'apprezzamento per quei valori. Rivuole quella semplicità di modi e di contenuti che ha reso grande Fabrizio, addirittura un eroe. Peccato che a tutto ciò si sia arrivati soltanto oggi...". E' la riflessione di Patrizia Mirigliani nella giornata dei funerali del conduttore di 17 edizioni del concorso. "Nel 1988 – aggiunge - è iniziata una delle avventure più gratificanti per noi e per lui: portare su Rai1 la bellezza italiana come uno spettacolo per famiglie con un conduttore umano, semplice ed amabile. Chi meglio di Fabrizio? Ci rafforzavamo a vicenda perchè quel successo era il frutto di un vero gioco di squadra. Fabrizio amava Miss Italia, era una sua creatura, l'aveva immaginata, con mio padre Enzo, come un appuntamento pulito, non malizioso, in un'Italia che in quegli anni apprezzava la bellezza ed aveva voglia di sognare, mentre la Rai sosteneva questi valori ed era orgogliosa del successo che ne scaturiva. Si viveva tutti di belle energie. Ci siamo rincontrati dopo un po' di anni a Montecatini: Fabrizio non stava più nella pelle, era felice perchè era ritornato a condurre la sua Miss Italia e tutti eravamo motivati a sostenere un bel progetto. Fabrizio voleva riproporre la sua Miss Italia, che tanto successo aveva avuto, ma i tempi erano cambiati e quel clima di amore e di supporto nei confronti del programma televisivo di Miss Italia non c'era più. Fabrizio - conclude la patron - voleva parlare di cose belle, di valori, con eleganza e stile, e mai avrebbe abdicato ai suoi principi per favorire il comportamento sensazionalistico e finto che stava prendendo piede".

Frizzi: Giannini, colpo duro; era ragazzo della porta accanto, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. "Sono molto scosso, addolorato. Era una persona deliziosa, alla mano. Immagini questi divi televisivi come personaggi inarrivabili, molto spesso pieni di se', e invece lui era il contrario: una persona come noi, come tutti, come ce ne sono tante. Siamo tutti colpiti, si era capito sin da subito che quello che aveva avuto era una cosa grave, non semplice, lui stesso l'aveva detto, ma perderlo così, in modo immediato e tutto sommato neanche prevedibile, e' un colpo durissimo, dispiace davvero". Così Massimo Giannini ha ricordato il conduttore scomparso durante la trasmissione Circo Massimo su Radio Capital. "Era tornato, ma si vedeva che non era più lui. Di lui colpiva la semplicita', sembrava il ragazzo della porta accanto. Siamo vicini a tutta la famiglia. Ci mancherà".

Fabrizio Frizzi, Nando Dalla Chiesa: "Quella telefonata di Berlusconi che lo mise in imbarazzo", scrive il 29 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Nando Dalla Chiesa ricorda Fabrizio Frizzi, che per lunghi anni è stato il marito della sorella Rita Dalla Chiesa. Una coppia che faceva sognare gli italiani. L'ex parlamentare pubblica una foto del 1984. "Ci fu allora a Roma la prima manifestazione nazionale degli studenti contro la mafia e contro la droga. Non era mai successo prima, che i giovani arrivassero da tutta Italia. La foto (di Stefano Montesi) riprende me e mia sorella Rita alla fine della manifestazione, con il palco ormai smobilitato.  In mezzo, tra me e Rita, c’è Fabrizio Frizzi". "Non voglio arruolare Fabrizio nell’antimafia", aggiunge Nando, "voglio invece dire che aveva un istinto innocente, naturale, per le cause giuste. Le fiutava, le faceva sue senza tornaconti. Grandi e piccole, conosciute o destinate a restare ignote". Dalla Chiesa parla del Frizzi intimo, quello che giovava a ping pong e imitava Alberto Sordi. Ma anche il grande professionista della televisione. "Fabrizio era un uomo Rai, del servizio pubblico, orgoglioso di esserlo (anche se ne ebbe ingiuste e lunghe umiliazioni)", scrive sul suo blog. E poi rivela un aneddoto: "Una di quelle estati, credo fosse l’86, lo vidi alzarsi in piedi per una telefonata ricevuta a casa di mia sorella Simona da Silvio Berlusconi. B. voleva convincerlo a passare alle sue tivù", ricorda l'ex genero, "Fabrizio era in imbarazzo ma resisteva. Si chinava sulla difensiva con la cornetta. L’interlocutore insistette per circa 40 minuti. Non ho mai saputo che cosa il grande persuasore gli stesse offrendo, ma certo molto. Lui spiegava di rimando che era affezionato alla Rai, che ringraziava molto ma non poteva. Finì estenuato, sudato, ma soddisfatto di se stesso".

Frizzi, lo sfogo di Michelle Hunziker: "Ecco perché non ho scritto nulla su di lui". La showgirl in un lungo post su Instagram si difende dalle accuse 'social' e rivendica la libertà di vivere il lutto in modo privato, scrive il 30 marzo 2018 Quotidiano.net. La morte di Fabrizio Frizzi ha colpito l'opinione pubblica come non accadeva da anni: la commozione dei funerali, il dolore della moglie Carlotta e degli innumerevoli colleghi, i ricordi personali e professionali hanno accomunato, si può dire, l'intera Italia nell'addio all'amatissimo conduttore. Ma anche un sentimento di lutto così condivisonon è immune da polemiche. Ed è destinato a far discutere il lungo post su Instagram di Michelle Hunziker, che risponde agli attacchi social nei suoi confronti spiegando perché non ha scritto nulla sulla morte di Frizzi. Senza mai citarlo - parla di "caro collega, che ho amato come tutti moltissimo", la Hunziker rivendica in sostanza la libertà di elaborare il lutto in modo privato e personale. "In questi ultimi 2 giorni - scrive la showgirl - ho riflettuto riguardo un fenomeno assurdo che sta accadendo nel 'mondo dei social' e che, con mio grande dispiacere, mi ha toccato da vicino. Molte, troppe persone stanno perdendo completamente il senso della vita reale sentendosi in assoluto potere, nella loro ipocrisia, di decidere cosa sia giusto dire o fare in determinate situazioni o a seguito di determinati fatti del quotidiano. Un esempio lampante è il modo in cui queste persone sui social si aspettino di come gli 'altri' debbano affrontare il proprio lutto. Danno per scontato che un personaggio pubblico debba per forza postare sempre qualcosa o rispettare un assurdo silenzio imposto quando qualcuno purtroppo viene a mancare". E ancora: "In primo luogo, da che mondo è mondo, ognuno dovrebbe affrontare il lutto come vuole, come può e a sua completa sensibilità e discrezione. Non è assolutamente detto che si abbia sempre voglia di rendere pubblico il proprio dispiacere sui social e non è nemmeno detto che una persona non soffra perché non lo annuncia in un post. I social network, per me, sono e dovrebbero restare un posto dove tutti possono dare sfogo alla propria creatività e non il contenitore di falsa moralità e totale ipocrisia. Mi sono personalmente venute a mancare molte persone care nella vita e ogni volta cerco di affrontare il mio lutto con amore, l’unica via possibile per me". E la chiusa: "Spero pertanto che tutti coloro che mi hanno scritto come devo o non devo affrontare la scomparsa di un caro collega, che ho amato come tutti moltissimo, si facciano un esame di coscienza".

Fabrizio Frizzi, quando la Rai «si vergognò» del suo programma. Una grande carriera fatta di tanti alti e una frattura (poi sanata) quando il direttore generale Celli disse di vergognarsi di alcuni programmi, tra cui il suo «Per tutta la vita», scrive Renato Franco il 26 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". La tv dei ragazzi è stata la sua grande palestra, Corrado l’ispiratore del suo stile di conduzione, Miss Italia il programma con più presenze (18 edizioni), anche se è diventato un volto quotidiano dell’elettrodomestico più acceso grazie a I fatti vostri, Soliti Ignoti e L’eredità. L’unica casella vuota di Fabrizio Frizzi, in una carriera che ha toccato quiz, varietà e intrattenimento — tutte le gradazioni del leggero —, è stato il Festival di Sanremo. Il futuro doveva essere un programma a tre, la nuova edizione dei Migliori anni con Conti e Antonella Clerici, lui come un fratello, lei una grandissima amica. Sorridente, accomodante, garbato — aggettivo che nella società di oggi è quasi un insulto —, mai sopra le righe, una professione fatta di alti (tanti) e bassi (qualcuno), ma anche le cadute sono servite a renderlo più resistente, più consapevole, più disinvolto. Fabrizio Frizzi ha cominciato giovanissimo nelle radio e nelle televisioni private, per approdare poi alla Rai. Il primo passo — un classico della gavetta — è la tv per ragazzi: Il barattolo (1980) e Tandem (1982 per cinque anni). Il naturale approdo è la prima serata: Europa Europa (affiancato da Elisabetta Gardini), un programma ideato da Michele Guardì, un autore che entra spesso nella vita di Frizzi e ne plasma il primo tempo della carriera: suoi anche I fatti vostri e Scommettiamo che...?, il varietà del sabato (con Milly Carlucci) che arrivò a 10 milioni di spettatori, nei tempi in cui un programma di successo faceva gli ascolti che oggi fa Sanremo. Poi piazza un altro colpo, il quiz Luna Park, che diventa appuntamento tanto fisso quanto seguito prima del Tg1. Il 2000 è un anno di rottura. «Dopo un amore sano e corrisposto, la frattura non si è ricomposta. Dopo di allora nulla è stato più come prima. Se arrivasse una bella proposta da un’altra rete, pubblica o privata, accetterei. Nel ‘ 92 arrivò un’offerta da Mediaset, ma dissi: “Non sono pronto”. Sentivo l’appartenenza alla Rai. Ora quel Frizzi non esiste più. Da quel 3 giugno del 2000 per me si è rotta la complicità, non mi sono sentito più indispensabile». Colpa dell’allora direttore generale Pier Luigi Celli che disse di vergognarsi di alcuni programmi, tra i quali Per tutta la vita (condotto da Frizzi), una gara tra due coppie di promessi sposi che si sfidavano in giochi più o meno divertenti, premio una vacanza di due settimane ai Caraibi e un pranzo di nozze per 200 persone. Che a sentirlo adesso, e per quello che abbiamo visto negli ultimi 20 anni, c’è da sorridere all’ingenuità di una tv che allora pareva ardita. La strada diventa in salita, sono tempi bui, anni in sordina. Perché «quando sei in disgrazia le giornate sembrano interminabili. A un certo punto nemmeno il mio carattere, prevalentemente ottimista, mi sosteneva più. Io ho molte più debolezze, molti più difetti di quanto sembri. Il fatto è che quando scegli di fare l’artista, scegli un lavoro precario. Vivi in perenne compagnia di un’ansia di conferma. È una regola del gioco anche questa: né buona né cattiva. Una regola e basta». La ruota torna a girare: Soliti ignoti è il quiz della riscossa, L’eredità quello della conferma. Del resto a un tramonto segue sempre un’alba. È una regola anche questa. E dura pure da più tempo.

Fabrizio Frizzi, il durissimo intervento di Marino Bartoletti: "Chi lo ha umiliato e ora deve chiedere scusa", scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Dopo la morte di Fabrizio Frizzi, Marino Bartoletti ha qualcosa da dire. Qualcosa di molto pesante. E lo fa sul suo blog, in un intervento toccante dal titolo eloquente: "Le scuse a Fabrizio". Dopo aver premesso che "la sua grandezza è stata proprio quella di rendere chiunque in grado di esprimere un – dolce – pensiero su di lui", Bartoletti spiega: "Mi aspetto che ci sia qualcuno che gli chieda scusa. Lui spesso lo ha fatto (e non avrebbe dovuto): altri, parlo di dirigenti miopi, di critici spietati, anche di pubblico un po’ ingrato e alla ricerca di sensazioni sguaiate, dovrebbero aggiungere al miele delle meritatissime e delicate parole per questo uomo straordinario, anche l’onestà di dire tu, con la tua bonomia, con la tua lealtà, con la tua generosità, ma anche con la tua delicata serietà hai fatto tantissimo per noi, garantendoci sempre un senso a volte apparentemente anacronistico di decoro televisivo: noi adesso abbassiamo la testa e al nostro commosso grazie, aggiungiamo il nostro dispiacere per non averti sempre capito". Il messaggio, pur senza far nomi, è chiarissimo. Le persone di cui Bartoletti sta parlando, c'è da scommetterci, riceveranno il messaggio in tutta la sua crudezza. "Alla Rai - prosegue il post - ha dato tanto e, ovviamente, dalla Rai non ha ricevuto di meno. Ma nella storia di questo lungo matrimonio professionale (interrotto solo per pochi mesi quando passò a Mediaset per essere stato umiliato da qualche dirigente perlomeno ingeneroso) ci sono stati momenti anche molto difficili, quasi incomprensibili per chi, come lui, era stato protagonista di autentici cicli trionfali". Il giornalista, dunque, ricorda "quando è stato messo in disparte ha chinato il capo con pazienza e modestia (senza mai alzare la voce): quando ha ritrovato la ribalta si è rimboccato le maniche con impegno e rispetto, senza mai coltivare né rivincite, ne vendette che non gli appartenevano". Infine, parole dolcissime e toccanti per Frizzi: "Non disperdiamo il suo esempio e la sua lezione. Né come fabbricanti delle cose televisive, né come spettatori. Perché da lui tutti abbiamo tanto, tanto, tanto da imparare. Fabrizio ci ha insegnato a bussare prima di entrare. E ora, in punta di piedi, vado a dirgli addio", conclude Bartoletti.

Una giornalista del Tg1: "La Rai ipocrita su Frizzi". Attacco violentissimo di una giornalista del Tg1, Cinzia Fiorato, contro l'ipocrisia delle celebrazioni della morte di Frizzi, scrive Venerdì 30/03/2018 "Il Giornale". Attacco violentissimo di una giornalista del Tg1, Cinzia Fiorato, contro l'ipocrisia delle celebrazioni della morte di Frizzi. La giornalista in un post di Facebook, poi scomparso, scrive: «Ieri ne parlavo in redazione, pensavo di essere l'unica a ricordare il lungo periodo buio della sua carriera, quando la Rai che oggi lo celebra, gli inferse la ferita di metterlo da parte per molto tempo. Lo so... che oggi non gradirebbe queste parole perché la Rai l'ha sempre e comunque amata dedicandogli la vita. Ma noi qualche parola la dobbiamo spendere su un'azienda che venera a colpi di milioni di dobloni gente mediocre che non vale nemmeno i soldi di un francobollo e bolla come inadeguato alle prime serate importanti o agli eventi come il Festival di Sanremo un cavallo di razza come Frizzi. Fabrizio, da persona per bene qual era, non faceva parte della corazzata di raccomandati, di gente torbida che usa ogni mezzo per prendersi tutta la torta e non lascia agli altri nemmeno le briciole. Fabrizio era uno che credeva nella forza del suo lavoro. Per questo non ha mai presentato il festival e non ha mai avuto contratti da 70milioni di euro per mettersi seduto dietro un acquario in prima serata (il riferimento è chiaramente a Fabio Fazio, ndr)». Il post è rimasto su Facebook finché non è stato ripreso da Dagospia, avendo quindi una eco più ampia, si vede che poi la giornalista ha deciso di rimuoverlo.

Fabrizio Frizzi, un grande professionista che la Rai metteva sempre in discussione. Ma lui vinceva con gli ascolti, scrive Francesco Specchia il 27 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano". La risata era la firma. La sua risata era un gentile rombo di tuono. Quel che colpiva di Fabrizio Frizzi, spentosi a a sessant' anni lasciando una figlia piccola per la quale stava lottando «come un leone, pur di vederla crescere» e la giovane moglie Carlotta Mantovan, non era la sua pur ingombrante presenza. E parliamo di un metro e ottantasette di pura modestia, distribuito su un fisico da ciondolante eroe dickensiano - o da zio gentile dei film di Frank Capra -; una possanza che, nei programmi d' esordio della Tv dei ragazzi Rai negli anni 80 (Tandem, Il barattolo), lo rendeva, agli occhi di noi telespettatori ragazzini, una specie di gigante. No non era il fisico. Quel che colpiva di Frizzi era la risata.

L' IDOLO CORRADO - Pastosa, irruenta, sincera: se la batteva solo con quella di Paolo Limiti (che però aveva un retrogusto di cianuro). La risata e la voce. Una voce garbata modellata su quella del suo idolo Corrado Mantoni; era un sussulto baritonale che gli aveva consentito di darsi al doppiaggio (fu il Woody il cow boy ovviamente gentile di Toy Story) e alla recitazione nelle ficion a base di spremute di cuore di Raiuno. Frizzi era un talento zen, non s' incazzava mai. E talora ne avrebbe avuto ben donde. Nel 2000, per esempio, l'allora direttore generale Rai Pier Luigi Celli annunciò di vergognarsi del programma Per tutta la vita di Frizzi e Romina Power, show abbastanza vaporoso in cui due coppie di promessi sposi si sfidavano per vincere viaggi ai Caraibi. Di tutta risposta Fabrizio, si chiuse in un rispettoso silenzio e, nello stesso anno, di nascosto, donò il midollo osseo a Valeria Favorito, una ragazza di Erice, salvandole la vita: «All' epoca il mio midollo risultò compatibile con quello di una bimba le cui condizioni erano preoccupanti. Sei anni dopo, la più bella sorpresa della mia vita. Ero ancora al timone della partita del cuore, stava finendo la diretta e già scorrevano i titoli di coda, quando una ragazzina mi corse incontro per abbracciarmi. Capii subito che si trattava di Valeria, la bimba alla quale avevo donato il midollo e che era venuta a salutarmi dicendomi di essere la mia sorellina». Per dire. Quello fu l'unico periodo della sua vita in cui «si ruppe la complicità» con viale Mazzini. Nel '92 fu tentato di passare a Mediaset dalla sirene berlusconiane, come fece l'allora consorte Rita Dalla Chiesa. Ma Frizzi si riempì le orecchie, omericamente, della cera dell'orgoglio della tv di Stato. Era talmente limpido, grato e accomodante da essere visceralmente legato a quella Rai che, chez Michele Guardì, ne aveva illuminato la stella. Anche quando, ad anni alterni, gli stessi dirigenti Rai lo trattavano come una colf filippina senza permesso di soggiorno. Eppure Frizzi è stato, con Pippo Baudo, il conduttore record delle presenze in video. Lo scritturavano come i vecchi e collaudati capocomici dell'avanspettacolo per sperimentare format nuovi, soprattutto nelle mattine, nei preserali e nei sabati sera. E Fabrizio, che si chiamassero Europa Europa, Scommettiamo che, Miss Italia, Cominciamo bene, I Fatti vostri, Luna Park (i suoi colloqui con la Zingara diedero la stura a esilaranti parodie) prendeva quei programmi sottobraccio e li accompagnava, inesorabilmente, alla scala dell'audience. Arrivò a toccare, col disincanto dei poeti e dei puri, punte di 10/12 milioni di spettatori. Poi, i dirigenti di nuova turnazione appena insediati lo rimettevano di nuovo in un cantuccio relegandolo «ad una perenne ansia di conferma. Quando sei in disgrazia le giornate ti sembrano interminabili, il nostro è un lavoro precario...», sospirava. Sicchè Frizzi, senatore del video, era costretto sempre a ricominciare da capo. Nel 2007 tornò imbattibile («Mi hanno ridato i gradi», sorrideva) con I soliti ignoti, il giochino delle identità nascoste che si dipanava sul suo faccione e sulle note dei telefilm di Ellery Queen. Fabrizio usò I soliti ignoti per riverniciare l'access time di un canale decrepito, Raiuno, con pennellate deliziosamente pop. Era merito suo se più guardavi il programma e più ti avvolgeva. Mentre il concorrente si intorcinava in ragionamenti estenuanti sul perchè chi gli stava davanti doveva essere, per forza, un collaudatore di mute antisqualo o un apicultire o un meccanico frigorista, tu t' appassionavi, osservavi bene la fisiognomica, esaminavi gli indizi, e alla fine scuotevi la testa assieme a quella di Frizzolone in primo piano. E la telecamera ti inghiottiva in quelle inquadrature, lente, infinite fino al disvelamento finale. Un incantamento che riesce solo a chi possiede un'innaturale empatia col proprio pubblico. Il mantra di Frizzi era lo stesso dei grandi maestri alla Luciano Rispoli: «Sono della scuola che se entri in casa d' altri lo devi fare in punta di piedi...».

STOP AI PROGRAMMI - È stato coerente fino all' ultimo alla sua idea di televisione di servizio, pure essendo un mostro dell'intrattenimento. Frizzi era talmente amato che tutta la televisione, alla notizia della sua morte s' è listta a lutto. L' Eredità, il suo ultimo programma non è andato in onda, così come I fatti vostri e Detto fatto, che hanno lasciato spazio agli approfondimenti sul conduttore. Anche Mediaset ha onorato l'affezionato avversario (fu uno dei pochi a battere sistematicamente Striscia la notizia): De Filippi e Bonolis hanno sospeso le loro trasmissioni. Soltanto il tuono della risata di Frizzolone rimbomba di nostalgia in questa giornata atona e grigia...

Fabrizio Frizzi, il ricordo di Gianluigi Paragone: "Piaceva perché era uno di noi", scrive Gianluigi Paragone il 28 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano". Non ho episodi da raccontare su Fabrizio Frizzi. Non lo conoscevo. Di solito quando un personaggio se ne va si ha sempre un aneddoto da riportare. Io no, non lo conoscevo. Conosco però chi lo ha guardato in televisione, lo ha amato come personaggio e adesso è dispiaciuto, è commosso. Anch' io ieri l'altro, sul tardi, ho guardato il racconto che Bruno Vespa ha mandato in onda intervallando spezzoni di trasmissioni e ricordi dei colleghi. Anch' io sono rimasto un po' imbambolato dietro il "Frizzolone". Non sapevo per esempio che Frizzi avesse donato il midollo osseo, sapevo invece della sua sensibilità verso il sociale. Non sapevo di una sua polemica con il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce dopo Miss Italia; sapevo invece della popolarità riscossa tra la gente comune, quella stessa gente che ieri lo ha voluto salutare alla camera ardente in viale Mazzini. Ho ascoltato e letto i commenti del popolo, tutti rivolti alla persona per bene, al professionista preparato e garbato, ma soprattutto a "Frizzi, uno di noi". Ecco, uno di noi, uno del popolo, uno che non si era montato la testa nonostante la popolarità acquisita grazie alla scatola magica. Fabrizio Frizzi piaceva perché pop, perché popolare. Di più ancora, perché nazionalpopolare e non uso a caso questa parola usata anche in ambienti televisivi come una clava se non come epiteto offensivo: memorabile fu l'uso dell'espressione scelto dall' allora presidente Rai Enrico Manca contro Pippo Baudo. Anche in quella remota stagione, tv e politica duellavano sul senso sociale della scrittura televisiva e fece discutere proprio quel "nazionalpopolare" che recuperava il "nazionale e popolare" con cui Gramsci ammoniva della frattura tra intellettuali e popolo. Fatte le debite proporzioni, anche oggi siamo fermi lì, sospesi stavolta tra pop e... populismo. Frizzi vince oltre gli ascolti, commuove (nel senso etimologico del termine) e diventa il simbolo di chi resta coi piedi per terra, di chi sorride a costo di apparire esagerato nella sua vitalità (il donatore è esagerato per indole se ci pensate bene...). Ecco, lo stesso favore si trasferisce in politica nel momento in cui quello stesso popolo rompe il muro degli arroganti, dei rottamatori, dei professori, e si conforta nella saggezza popolare di chi frequenta i mercati (non quelli finanziari), di chi predica la morigeratezza del costume e l'oculatezza nelle spese. Di chi fa breccia nei cuori dei nonni perché pensa al futuro dei nipoti. Dopo il tempo del leaderismo, torna il tempo del buonsenso: la riforma delle pensioni fatta non per assecondare l'Europa ma per consentire alle persone di riprendersi la parola "serenità" senza per questo fare gli scongiuri; il lavoro con diritti e buste paga che non siano una paghetta; le imprese liberate dal giogo di follie burocratiche e di banche che non fanno più le banche. Il voto delle recenti elezioni ha sancito la vittoria popolare; eppure vi è ancora chi si scaglia contro i populisti da talk show.

Una politica nazionalpopolare è una politica che rimette la società al centro, troppo a lungo schiacciata da altri interessi elitari. Nazionale e popolare perché sottrae tutto ciò che è imposto. Essere "uno di noi" significa sconfiggere la logica della Casta, essere "uno di noi" significa immunizzarsi al tradimento di chi non è stato scelto ma è stato cooptato. Nessuno si commuoverà mai per i cooptati. Vale per la tv come per la politica.

Frizzi, un uomo d’altri tempi nell’Italia del “vaffa…”, scrive Daniele Zaccaria il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  La sua gentilezza sobria era un antidoto al vento becero del populismo nel deserto del buon senso smarrito. La sua morte ha colpito al cuore milioni di italiani perché la sua tv rispecchiava la parte migliore di noi. Dalla radio vibrano le note di Un sabato italiano; «il peggio sembra essere passato» canta Sergio Caputo, gli Anni di piombo sono appena alle spalle e, in una dissolvenza incrociata, improvvisamente irrompono sulla scena le icone spensierate del riflusso, la nazionale di Bearzot campione del mondo, le radio libere, gli antenati dei cinepanettoni, l’edonismo reaganiano, i video delle pop star. In quei primi anni 80 Fabrizio Frizzi era il conduttore poco più che ventenne diTandem trasmissione cult di Rai2 in cui i ragazzi delle scuole di tutta Italia si sfidavano in giochi vari di abilità e cultura, con il celebre Paroliamo a fare da prova regina. Quegli stessi adolescenti che appena qualche anno prima si scorticavano e si tendevano agguati nelle piazze ora li ritrovi nelle discoteche, nei fast- food, nei villaggi vacanza e negli studi televisivi dove sfoggiano i primi abiti di marca: paninari, tozzi, new wawe, semplici nerd. Frizzi conduceva il gioco con la leggerezza di una nuvola e con un’ironia accogliente che lo ha accompagnato per tutta la sua carriera. Difficile d’altra parte fare il sacerdote in 17 edizioni di Miss Italia e non perdersi in quel tritacarne da fiera strapaesana del bestiame un tanto al chilo; lui invece ne usciva indenne come un paggio, con un candore d’antan che faceva da scudo alle pulsioni sessiste, ai doppi sensi, al laido paternalismo che si accompagna a qualsiasi concorso di bellezza. No, non aveva l’arguzia narcisa dei saputelli da talk- show, né il cinismo compiaciuto dei polemisti da social media. Niente sottotesto, nessun artificio, nessuna maschera, Frizzi è stato la fedele e limpida immagine di se stesso: mai una parola offensiva, mai una gratuita esibizione del proprio ego, mai una predica dal pulpito mediatico su cui è rimasto per quasi 40 anni. Era estraneo anche alla falsa umiltà del “gentismo”, alla patetica doppiezza dei conduttori che si mettono dalla parte “degli ultimi” e poi trattano come servi le proprie maestranze. Chi lo ha conosciuto parla di una persona curiosa e colta, chi ci ha lavorato giura di non averlo mai sentito alzare la voce o rivolgersi con mancanza di rispetto verso nessuno, qua- lità più unica che rara dello starsystem televisivo dove qualsiasi mezza tacca con un riflettore puntato in faccia si sente autorizzata a sclerare come Caligola. Nessuno, ma proprio nessuno può affermare di averlo visto, non incazzato, ma semplicemente alterato. Anche quando i media hanno ficcato il naso nella sua vita privata, sbattendo in prima pagina i suoi flirt, i suoi matrimoni e le sue rotture avvolgendolo con la colla morbosa del gossip lui non si è mai scomposto, rispondendo sempre con un sorriso ai pettegolezzi e alle insinuazioni pruriginose. Conosceva bene il gioco della celebrità, Frizzi, e giustamente lo viveva come tale, sapendo di essere un privilegiato. E nel contempo, da Tandem all’Eredità i suoi programmi hanno segnato un pezzo importante della storia televisiva italiana, I Fatti vostri, Scommettiamo che…? , Domenica In, Piazza Grande, Telethon, Cominciamo bene, I soliti ignoti, Ti lascio una canzone, Ballando con le stelle solo per citare i più noti, pezzi essenziali di quella cultura “bassa” o popolare che raccontano le evoluzioni sociali di una nazione molto più di mille trattati e che fanno arricciare il naso alla critica snob. Quella che già pochi minuti dopo la scomparsa di Frizzi sdottoreggiava proponendo accostamenti con la Fenomenologia di Mike Buongiorno, citatissimo articolo di Umberto Eco apparso sul Secondo diario minimo. In questo schema Frizzi sarebbe stato una specie di Mike “due punto zero”, un alfiere stucchevole dell’italiano medio, il fidanzato ideale che ogni mamma si augura per la sua figliola. Se Mike incarnava la mediocritas e il buon senso piccolo borghese del «basic italian» un po’ vigliacco che «giosce col vincitore perché onora il successo ed è cortesemente disinteressato al perdente», Frizzi predicava al contrario nel deserto del buon senso smarrito, la sua televisione vogava in direzione contraria al vento becero del populismo e in qualche modo ne costituiva uno degli ultimi antidoti o comunque un piacevole porto franco in cui rifugiarsi. Ora tutti lo celebrano come «il ragazzo eterno della tv italiana» ma Fabrizio Frizzi non era un affatto un ragazzo, era un uomo d’altri tempi che professava una gentilezza sobria, d’altri tempi. Lontana anni luce dalla pozzanghera italiana, dal paese sguaiato e livoroso dei vaffa e della calunnia corale, dal qualunquismo plebeo e irresponsabile con la bava alla bocca che schiuma contro i “politici ladri”. Se la sua morte ha colpito al cuore milioni di persone che in queste ore lo stanno salutando con sincero affetto, non è perché in lui vedevano un «simpatico fratellone», ma perché la sua tv, in fondo, rispecchiava la parte migliore di tutti noi.

Fabrizio Frizzi, l'amico Max Biaggi: "Il mio fratellone. Quella volta che lo volevano beccare con l'amante", scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "Ho perso il fratellone che mi proteggeva". Maxi Biaggi ha conosciuto Fabrizio Frizzi nel 1993, e "ho capito che eravamo complementari". Il dolore dell'ex campione del mondo di motociclismo per la morte del conduttore, stroncato da emorragia cerebrale a soli 60 anni, è difficilmente esprimibile a parole. Sul Corriere della Sera, il pilota romano, più giovane di Frizzi di 13 anni, sceglie con cura un paio di aneddoti per far capire che persona fosse Fabrizio. "Era la parte razionale e riflessiva, io quella impulsiva. Dipendeva dal mio carattere, ma anche dal mio lavoro: il mio sport mi spingeva a reazioni immediate, a lottare, anche ad arrabbiarmi. Infatti lui me lo diceva spesso: Dovrei imparare da te, soprattutto quando devo fare un nuovo contratto. Tu combatti, sai trattare. E quando lo ha fatto era felicissimo: Max, ho tenuto duro e l'ho spuntata. Ho pensato a te...". Frizzi, padrino della figlia di Max Iris, infondeva "un totale senso di protezione. Se avevo un dubbio importante, chiamavo lui. Tutte le mie vicissitudini amorose le condividevo con lui. Era il mio confidente, di me sapeva tutto". Era una persona buona, semplicemente. Anche con chi voleva fregarlo. "Nel 1997 lui era in crisi con Rita Dalla Chiesa e per staccare decise di accompagnarmi in Malesia dove avevo un test. In aereo incontra uno che si dice mio tifoso. Poi, quando scendiamo dall'aereo e vediamo che quello ci segue, attacchiamo discorso e scopriamo che era un paparazzo mandato da un settimanale per provare a beccare Fabrizio con l'amante. Che ovviamente non c'era. Altro che mio tifoso. Quello era lì per lui. Fabrizio era talmente buono che lo ha invitato alla cena del suo compleanno il giorno dopo e gli ha permesso pure di fare le fotografie pur di non scontentarlo".

Isola dei famosi, vergogna in diretta: il vip che ride durante il ricordo di Fabrizio Frizzi (mentre tutti piangono), scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Uno schiaffo alla memoria di Fabrizio Frizzi, nel momento del cordoglio. All'Isola dei famosi scoppia il caso Filippo Nardi. L'ex naufrago (ed ex concorrente del Grande Fratello) è stato beccato dalla regia mentre, unico in studio, sorride nel momento in cui Alessia Marcuzzi dedica idealmente la puntata del reality di Canale 5 al conduttore scomparso domenica notte per emorragia cerebrale a 60 anni. Durante l'introduzione commossa della Marcuzzi Mara Venier singhiozza non inquadrata, e la conduttrice accorre al suo fianco per abbracciarla. Il clima è di mestizia, il pubblico è compunto e silenzioso e si alza in piedi per tributare il giusto omaggio allo sfortunato Frizzi. Nardi, invece, sembra incurante. "Si è qualificato per quello che è. Rideva e scherzava mentre si dedicava un applauso sentito e doveroso a Fabrizio Frizzi. Ha cercato di apparire buono, sensibile e profondo ma il vero animo emerge sempre", è uno dei tanti commenti su Twitter contro il dj italo-inglese.

Fabrizio Frizzi, lo strazio del super-campione dell'Eredità Andrea: "Non ho fatto in tempo a salutarlo", scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Poco prima che Fabrizio Frizzi ci lasciasse, si era parlato parlato del lungo abbraccio con cui aveva salutato Andrea, il 19enne super-campione dell'Eredità, la trasmissione di Rai 1 dove si era imposto per 13 puntate consecutive. Dopo la morte del conduttore, Andrea è stato raggiunto da La Nazione, alla quale ha detto: "Sono sconcertato. Non posso che portare la mia viva testimonianza sulla sua profonda e per nulla costruita umanità". E ancora: "Non immaginavo nemmeno che le sue condizioni di salute fossero così gravi. Nulla aveva fatto trapelare durante le puntate a cui ho partecipato, anzi credevo avesse recuperato del tutto dopo il malore di ottobre". "Non recitava una parte quando si trovava davanti alle telecamere. Prima dell’inizio della puntata veniva a salutare i concorrenti, per metterci tutti a proprio agio allentando così la tensione. Alla fine Fabrizio Frizzi è tornato a cercarmi in camerino per rinnovarmi i complimenti, farmi ancora una volta gli in bocca al lupo per il mio futuro e per scambiarci i contatti e-mail per non perderci di vista. Avrei voluto scrivergli - esprime il suo rammarico Andrea -, ma non ho fatto in tempo. Conserverò gelosamente questi ricordi, di una persona meravigliosa. La televisione italiana perde un pezzo da 90".

Fabrizio Frizzi, lo straziante racconto degli ultimi giorni: "Perché voleva registrare più puntate", scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Nel fiume immenso di gente presente ai funerali di Fabrizio Frizzi non c'erano solo amici e personaggi dello spettacolo, ma quei tanti, tantissimi spettatori che lo hanno conosciuto attraverso lo schermo e chi ha potuto essergli più vicino anche negli ultimi giorni, lavorando nel programma L'Eredità come pubblico pagato. Nella folla ci sono Alessandro Delle Frate e Laura Astri che a Repubblica hanno raccontato di esserci stati fino all'ultimo con Frizzi, almeno fino allo scorso giovedì sera, quando Frizzi era impegnato a registrare l'ultima puntata della trasmissione. Il ricordo dei due svela tanto delle reali condizioni in cui Frizzi ha lavorato fino all'ultimo: "Era stanco - dice Laura - pallido. Negli ultimi tempi registrava più di una trasmissione insieme, così poteva rimanere più tempo a casa. La moglie, uno scricciolo, era sempre con lui. Lo sosteneva non solo psicologicamente, ma gli prendeva il braccio. E lui si appoggiava. Sempre insieme: al bar, dietro le quinte". L'affetto di colleghi, pubblico e maestranze era enorme, Frizzi con loro aveva un rapporto speciale: "Gli volevano tutti bene. Vedendolo sofferente, la produzione lo incoraggiava di continuo. E nonostante le difficoltà, non perdeva mai l'occasione per darci la carica. 'Ieri abbiamo fatto un botto di share' ci diceva trionfante il giorno dopo la messa in onda. 'Siamo una grande famiglia. Forza ragazzi, siamo fortissimi!'. Sapevamo che stava male, che non poteva essere solo un'ischemia, ma non mi aspettavo sarebbe finita così. Da non riesco a fermare le lacrime pensando anche a quanto è stato forte e coraggioso. Porterò sempre il ricordo dell'ultima puntata dello scorso anno negli studi di Cinecittà. Eravamo 156 figuranti e lui, ci ha voluto salutare con un bacio uno ad uno. La gentilezza delle persone speciali".

Da "Toy Story" al record di Miss Italia: le curiosità sulla carriera di Frizzi. Fabrizio Frizzi sarà ricordato come "il volto gentile" della tv italiana. La sua carriera di fatto non è stata declinata solo sul fronte della conduzione: tutte le curiosità, scrive Franco Grilli, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". Fabrizio Frizzi sarà ricordato come "il volto gentile" della tv italiana. La sua carriera di fatto non è stata declinata solo sul fronte della conduzione. La sua voce, pacata e semplice ha ad esempio accompagnato una generazione cresciuta con i cartoni animati della Pixar con Toy Story. Frizzi in Italia ha prestato la sua voce a Woody, lo sceriffo protagonista del film di animazione. Ma le curiosità sulla sua carriera non finiscono qui. Aveva un modello a cui ha fatto riferimento in tutti questi anni: Corrado. Il suo percorso professionale comincia in radio per poi approdare alla tv. Tra i programmi che hanno costruito la storia del conduttore ci sono “I fatti vostri”, “Scommettiamo che...?”, “Luna Park”, “Per tutta la vita”, “Cominciamo bene”, “Soliti ignoti - Identità nascoste” e “L’eredità”'. Un elenco di successi tutti targati Rai. Era il conduttore a cui viale Mazzini si rivolgeva soprattutto per recuperare nei momenti di crisi o di fatto quando un programma andava male. Tale era la fiducia nella sua professionalità che in Rai Frizzi era un vero e proprio punto di riferimento per tutti. Tra i suoi record c'è quello di Miss Italia. Ha condotto ben 18 edizioni. Di queste 15 sono state consecutive. Tra i programmi che saranno legati in modo indissolubile al suo nome c'è ad esempio "I Fatti Vostri". Fu lo stesso Frizzi ad inaugurare il programma nel 1990 Per lui tre edizioni in conduzione. Poi è il turno di "Piazza grande", il programma che ha sostituito per un periodo "I fatti vostri", anche in questo caso un nuovo successo di ascolti. Impegnato anche sul fronte del sociale per diverse edizioni è stato il "padrone" di casa delle serate Telethon con raccolta fondi sulla Rai. La consacrazione in prima serata arriva con Scommettiamo che, un programma che ha fatto la storia della tv del servizio pubblico negli anni '90. Poi la conduzione di Miss Italia darà enorme popolarità al conduttore che diventerà uno degli uomini di punta di viale Mazzini. Gli ultimi anni sono stati scanditi dai game show. Da "I soliti ignoti" fino a l'Eredità. L'eterno ragazzo della tv italiana si è spento questa notte lasciando i suoi telespettatori orfani di quel sorriso semplice che lo aveva sempre accompagnato nelle sue sfide in tv.

Fabrizio Frizzi e Carlotta Mantovan: un amore nato a Miss Italia. Si sono conosciuti a Miss Italia nel 2001. Dopo 12 anni è nata la loro Stella e nel 2014 il matrimonio, scrive Marianna Di Piazza, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". Poche settimane fa, lo aveva definito "un amore travolgente". Da quando si sono innamorati, Fabrizio Frizzi e Carlotta Mantovan non si sono più lasciati. Si erano conosciuti a Miss Italia nel 2001. Lei, giovanissima concorrente, aveva 19 anni. Lui, era già uno dei conduttori più noti e amati della televisione italiana. Venticinque gli anni di differenza tra i due. "Guarda che bel viso che ha quella ragazza", racconterà lui del primo incontro con Carlotta Mantovan. Dopo 12 anni di amore, nel 2013 è nata la loro bambina Stella e nell'ottobre 2014 si sono spostati a Roma. Frizzi aveva alle spalle il matrimonio con Rita dalla Chiesa. "È stato un amore al primo sguardo, un amore travolgente", ha raccontato la moglie poche settimane prima della scomparsa del conduttore.

Chi è Carlotta Mantovan, la moglie in Frizzi: "All'inizio cattiverie su di noi", scrive Alessandra Menzani il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Lui aveva più di 40 anni quando si sono conosciuti, lei una ventina. Una grande differenza d'età, un amore vero e duraturo. Stavano insieme da 16 anni, avevano una figlia, erano una coppia schiva e affiatata. Fabrizio Frizzi ha conosciuto Carlotta Mantovan quando lei all'inizio degli anni 2000 è arrivata seconda a Miss Italia e lui conduceva il concorso, una delle 18 edizioni che la Rai gli aveva affidato. Frizzi arrivava da una lunga storia con Rita Dalla Chiesa, con cui si era lasciato anni prima, tra le lacrime. "È iniziata con molti commenti negativi", ha detto Frizzi anni fa, ricordando gli inizi della sua storia con la36enne di Mestre, "perché io ero più grande di lei. Ma quando ami vai avanti, no? Mica ti fermi perché gli altri parlano?". E l'amore è andato avanti, contro tutti e tutto. La Mantovan ha tante foto sui social ma pochissime con Fabrizio. Perché non amava esibire il suo amore, lo provava e lo dimostrava, però. Carlotta è diventata giornalista, ha condotto il meteo su Sky, si è sposata con il conduttore ma soprattutto è diventata mamma di Stella, la figlia che ha avuto nel 2013. "Nostra figlia ha preso sia da me che da Fabrizio come carattere", ha detto Carlotta circa un mese fa in tv, ospite di Eleonora Daniele. "Io sono una persona molto sensibile, apparentemente introversa all’inizio", raccontava di sè la Mantovan in tv, "devo conoscere le persone per sciogliermi un po’, ma una volta che mi apro sono una persona abbastanza simpatica, onesta e molto razionale". Stella, 5 anni, quando sarà grande saprà quanto bene tutti volevano al papà. Perché era speciale. Perché non c'era differenza tra il personaggio e la persona, in un mondo in cui tutti hanno una doppia faccia. 

Quell'ultima intervista di Frizzi: "Combatto per mia figlia". Fabrizio Frizzi si è spento a 60 anni. Da tempo, dopo quell'ischemia che l'aveva colpito qualche mese fa, stava combattendo una durissima battaglia, scrive Luca Romano, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". Fabrizio Frizzi si è spento a 60 anni. Da tempo, dopo quell'ischemia che l'aveva colpito qualche mese fa, stava combattendo una durissima battaglia. Era tornato in tv, aveva ripreso la sua vita entrando nuovamente nelle case degli italiani, il tutto con quel sorriso rassicurante e pacato che l'ha sempre accompagnato in tutta la sua carriera. Lui era consapevole che il cammino verso la guarigione era lungo e in salita. Non ha mai nascosto quella battaglia portata avanti con dignità e senza mai abbandonare il suo pubblico, la seconda famiglia di Frizzi. In un'ultima intervista a Gente aveva detto: "Combatto come un leone ogni giorno per vincere questa battaglia. Lo faccio. Per mia moglie e per mia figlia, devo vederla crescere". Non aveva mai spento la luce della speranza. Credeva nella vittoria finale in questa sfida grande che purtroppo ha perso: "Quando avrò finito, e speriamo finisca bene, potrò raccontare. Anzi, vorrò raccontare che la ricerca medica mi sta dando una chance in più", aveva detto. Poi quella voglia di uscire dal tunnel. Un mese di tempo e avrebbe saputo qualcosa in più sulla battaglia: "Tra un mese, o forse un po' di più, saprò come vanno le cure. I medici ogni tanto mi danno buone notizie. Ma dosano bene le parole". Il tempo è stato come sempre tiranno. Nella notte una emorragia lo ha spento portandosi via la sua semplicità. Tra i conduttori della tv italiana è forse quello che è rimasto sempre nel cuore di chi guarda la tv. In punta di piedi entrava in casa e poi ne usciva. Lo faceva con l'Eredità, lo ha fatto in prima serata con il suo storico Scommettiamo che e ha accompagnato i telespettatori alle prime serate con i Soliti Ignoti. Sono solo alcuni dei programmi firmati Frizzi. Nelle ultime settimane si era lasciato andare ad una confidenza: "Ogni tanto qualche momento di sconforto può esserci, ma l'affetto della famiglia, del pubblico e degli amici è una luce che illumina tutto. La vita è una cosa meravigliosa".

Il ricordo. Quando Frizzi mi diceva: ho paura di non vedere mia figlia diventare grande, scrive Tiziana Lupi, lunedì 26 marzo 2018, su "Avvenire". Conoscevo bene Fabrizio. Nei nostri incontri finivamo sempre per parlare dei figli. L'ultima volta che ci siamo sentiti gli avevo promesso un rosario benedetto da papa Francesco. Stamattina la notizia della morte di Fabrizio Frizzi, a 60 anni, non mi ha colto di sorpresa come è accaduto a tanti. Ieri sera avevo ricevuto la telefonata di una collega: “Sembra che Frizzi sia in coma, ne sai niente?”. Non lo sapevo ma solo la possibilità che quella notizia fosse vera, ha scatenato, insieme alla paura per quello che poi è realmente accaduto qualche ora dopo, una tempesta di ricordi. Ho conosciuto Fabrizio tanto tempo fa. Era la metà degli anni Novanta: io mi occupavo da un po’ di televisione e lui era già nel pieno della carriera: Scommettiamo che…?, La partita del cuore, Luna Park, Telethon, solo per citarne alcuni. Un’intervista, poi un’altra e un’altra ancora, finché alle chiacchiere per lavoro si sono sostituite quelle per piacere di due persone che avevano scoperto di avere alcuni valori in comune. A partire dalla lealtà, nella vita e sul lavoro. L’anno scorso Fabrizio mi aveva confidato che un collega stava tentando di soffiargli la conduzione de L’eredità o, almeno, condividerla con lui. Naturalmente era molto arrabbiato, ma non per il programma in se stesso quanto perché quell’azione veniva da qualcuno che si professava suo amico…Condividevamo anche il valore della famiglia: nei nostri incontri finivamo sempre per parlare dei figli. Del mio, Francesco, al quale lui, quando era piccolo, aveva voluto fare una sorpresa che ancora oggi, a quasi 18 anni, ricorda: conoscendo la sua passione per il film d’animazione Toy Story, Fabrizio lo aveva chiamato al telefono con la voce del personaggio che aveva doppiato: “Ciao, Francesco, sono Woody, il tuo sceriffo preferito” gli aveva detto, lasciando letteralmente a bocca aperta mio figlio che a scuola aveva, poi, raccontato con orgoglio ai suoi amichetti che gli aveva telefonato Woody. E poi, naturalmente, parlavamo di sua figlia Stella. Di nome e di fatto perché quando ne parlava a Fabrizio brillavano gli occhi. Amava quella bambina di quell’amore un po’ speciale che hanno i papà non più giovanissimi: “Un altro figlio? Carlotta (la moglie, ndr) vorrebbe ma io non me la sento. Ho quasi sessant’anni, finirei per essere il nonno e non il padre” mi ha detto una delle ultime volte che ci siamo visti. La sua paura più grande, soprattutto da quando aveva saputo di essere malato, era proprio quella di non poter vedere Stella crescere e diventare grande. Anche per questo, dopo il malore che lo ha colpito durante la registrazione di una puntata de L’eredità, gli avevo scritto dicendogli che avrei avuto piacere di regalargli un rosario benedetto da papa Francesco: “Se riusciamo ad organizzarci sarà un piacere e un’emozione averlo” mi aveva risposto. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo a organizzarci.

Fabrizio Frizzi: «Dopo l’ischemia lotto per vedere mia figlia crescere». Due mesi fa, il 25 gennaio, Fabrizio Frizzi concesse al Corriere un’intervista in occasione del suo 60° compleanno, il 5 febbraio. La ripubblichiamo oggi, dopo la notizia della sua scomparsa, avvenuta nella notte, scrive Emilia Costantini il 26 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Due mesi fa, il 25 gennaio, Fabrizio Frizzi concesse al Corriere un’intervista in occasione del suo 60° compleanno, il 5 febbraio. La ripubblichiamo oggi, dopo la notizia della sua scomparsa, avvenuta nella notte.

Il 5 febbraio Fabrizio Frizzi compie 60 anni. Pochi mesi fa ha dovuto affrontare una prova difficile. Questo compleanno è un traguardo?

«Fino al 23 ottobre scorso, giorno in cui sono stato colpito dall’ischemia, pensavo ai miei 60 anni come a un’età ideale, in cui sei maturo, puoi fare le scelte giuste, pur sentendoti ancora fresco e giovanile. Dopo il 23, la visuale è leggermente cambiata: a questa età si entra in un imbuto che restringe l’orizzonte, vedi la vita assottigliarsi, ammesso che la vita continui, si fanno valutazioni importanti sul vivere i rapporti che contano, non disperdi più il tempo, si privilegiano le cose fondamentali. Sì, è un bel traguardo, tuttavia continuo a essere un entusiasta e non rinuncio a sperare di riprendere un’esistenza piena di forza, anche se con le gambe un po’ fiaccate».

Quel giorno, quel malore, i soccorsi durante la registrazione: cosa ha pensato?

«Dalla mia consueta sicurezza, sono precipitato in un abisso, ma per fortuna ero in uno studio tv! Gli autori, sempre molto attenti a monitorare la macchina in ogni particolare, si sono accorti prima di me di quanto mi stava accadendo. Se mi fosse capitato in altro momento non so come sarebbe finita. Ora non sono guarito del tutto, ma l’aver ripreso il lavoro, una vita simil-normale, mi dà una carica di adrenalina che è una terapia aggiunta a quella medica. È come se, a ogni puntata, mi si installasse un motore iper-turbo: fino a un minuto prima della diretta-differita, posso accusare stanchezza, appena entro in azione tutto sparisce. Certo, speravo che il processo di guarigione fosse più veloce, ma capisco che devo rispettare gli ordini dei bravissimi clinici che mi seguono: ogni tanto mi bacchettano per la mia foga di sbrigarmi, ci vuole il tempo necessario».

La malattia può essere dovuta allo stress fisico di un mestiere adrenalinico?

«Lo escludo. Fino a poco tempo fa ho pistato anche per 18 ore di seguito. Certo, il nostro è un lavoro che se sbagli un colpo esci fuori dal giro, ma è anche molto divertente e poi ho sempre fatto una vita sana. Però l’età avanza e occorre stare attenti ai sintomi, sono segnali importanti che ti invia il corpo, vanno raccolti e io, evidentemente, non sono stato attento. Ora lo devo essere soprattutto per mia moglie e mia figlia».

Stella, di 4 anni e mezzo...

«Diventare padre in età avanzata, come è accaduto a me, è stata una scelta d’amore e non un atto di egoismo: avendo una compagna tanto più giovane di me, so che Stella è comunque in buone mani e ciò mi fa sentire meglio rispetto alle preoccupazioni legate alla mia anagrafe. Lotto per continuare a veder crescere la mia creatura, per esserle d’aiuto e un punto di riferimento. Non so se mia figlia abbia capito quanto è accaduto, abbiamo cercato di proteggerla, ma so che i bambini capiscono molto più di quanto immaginiamo: ogni giorno giochiamo insieme, è il suo modo di sorreggermi, mi dà l’energia per continuare a combattere. E se uscirò vincitore da questa vicenda, mi dedicherò maggiormente a fare il testimonial per la ricerca scientifica».

Questa brutta avventura la fa sentire più vicino alla gente?

«Ho avuto spesso la fortuna di essere molto vicino alla gente: a 40 anni ho avuto il privilegio di poter donare midollo osseo a una persona salvandogli la vita. E quando a ottobre mi sono trovato in ospedale con tanti malati, ho avuto la fortuna di sentirmi confortato dal loro affetto, mi hanno fatto forza».

Forza che lei comunica tutte le sere su Rai1: è cambiato anche il suo modo di condurre l’Eredità?

«Assolutamente sì. In teoria, sono nelle condizioni peggiori per condurre un gioco divertente, ma la voglia di giocare e di far giocare i concorrenti e il pubblico da casa supera ogni ostacolo fisico e mi sorprendo a scherzare, a motteggiare con loro come prima non facevo: la malattia è diventata paradossalmente un valore aggiunto, un arricchimento nel lavoro».

Un lavoro che, in passato, è stato anche di attore.

«Sa una cosa? Quando anni fa feci teatro, per esempio La vedova allegra con Andrea Bocelli, mi si è spalancato un mondo: in fondo ero un timido, ma quando stai sul palcoscenico devi tirar fuori la faccia tosta. Uno spettacolo che ho sempre sognato di fare? Aggiungi un posto a tavola, ma dopo il grande Johnny Dorelli ora c’è il figlio Gianluca Guidi che lo fa benissimo. E farei carte false per fare cinema diretto da Pupi Avati, un regista che ha cambiato la carriera a molti attori».

Un regalo che vorrebbe per il 5 febbraio?

«Vorrei solo un pensiero affettuoso da chi mi vuol bene e un augurio per il proseguo della vita».

Fabrizio Frizzi, le donne della sua vita, scrive il 26 marzo 2018 "Io Donna". Il matrimonio con Rita Dalla Chiesa, la crisi, la relazione con una corista di Domenica in e poi un nuovo amore, sfociato in nuove nozze con Carlotta Mantovan che lo renderà padre per la prima volta. Gli amori del popolare conduttore tv sono sempre stati al centro della cronaca rosa. Due donne importanti nella sua vita, una relazione “intermedia” che fece produrre pagine e pagine di gossip. La vita sentimentale di Fabrizio Frizzi è sempre stata al centro della cronaca rosa, come succede per ogni personaggio popolare della tv, e lui ha sempre saputo mantenere quella giusta via di mezzo tra privacy e riflettori accesi nella consapevolezza che, se entri nelle case degli italiani tutte le sere, la stampa pop vorrà sempre sapere tutto di te e qualcosa devi dare. Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa sono stati insieme per 15 anni.  L’amore era sbocciato quando i due conducevano Tandem, nel 1983, trasmissione della tv dei ragazzi e diventò matrimonio nove anni dopo, nel giugno 1992. «Fu lui a fare il primo passo», rivelerà Rita anni dopo, «Io non ci pensavo, aveva 10 anni meno di me e all’epoca era uno scandalo. Ci furono critiche, ma me le sono fatte scivolare addosso. Un giorno andai in un negozio – gli continuavo a dire no – e lui sotto casa e aspettava. Veniva sulla vespa con una massa di ricci, gli occhiali, il borsello e stava lì». L’addio tra i due avviene nel 1998. I rotocalchi dell’epoca fanno titoli pesanti: «Frizzi abbandona il tetto coniugale». Il motivo dell’addio? Si parlava di un tradimento di lui, ma niente di confermato. Frizzi parlò di incomprensioni: «Purtroppo dopo tanti anni felici, da un po’ di tempo Rita e io non andiamo più d’accordo e per non farci del male abbiamo deciso di dividere momentaneamente le nostre strade». Ma la separazione momentanea diventa divorzio nel 2002. Dietro la rottura ci sarebbe, in realtà, l’incontro tra lui e Graziella De Bonis, 25 anni all’epoca, corista di Domenica In. Su questo momento delicato è la stessa Dalla Chiesa a raccontare tutto, poi, anni dopo intervistata da Catherine Spaak per Visto: «Fabrizio ha dieci anni meno di me e questo mi procurava insicurezza. Ha sempre avuto molte ammiratrici. Lui si è sempre comportato in modo molto corretto, è una persona perbene. Ho visto invece la sfacciataggine di tante ragazze: Fabrizio ricevette perfino uno slip da una di loro… A volte Fabrizio ci rideva su, altre se la prendeva per le mie reazioni. Io ci stavo male. Ero convinta che non ci saremmo mai lasciati. È stato per colpa di una di queste signorine, che si è intromessa nel nostro rapporto in un momento in cui eravamo deboli. Lei ha avuto gioco facile, ma poi non è durato. [Lei è] Graziella De Bonis, una corista che lavorava a Domenica in… Lo amavo talmente tanto che l’ho capito dalle sue assenze, da certi sguardi, da un’improvvisa mancanza di dialogo. Speravo che tornasse da me quando è finita con lei, ma alla fine non ce l’ho fatta più. Forse ho sbagliato: avrei dovuto “abbozzare”, come si dice a Roma, e gli sarebbe passata. Ma temevo che avendolo fatto una volta lo rifacesse ancora». Ma nonostante il caso De Bonis rapporti tra Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa sono sempre rimasti buoni. Tanto che, nel 2015, tornano a condurre una trasmissione Rai insieme per la gioia dei fan della coppia: La posta del cuore. Nel 2014 Fabrizio si sposa con Carlotta Mantovan, arrivata seconda a Miss Italia nel 2001 e di 25 anni più giovane. I due hanno una figlia, Stella, nata nel 2013. I due vanno all’altare nell’ottobre 2014 ma stanno insieme da più di 10 anni. Alla cerimonia civile era presente anche la figlia di Rita Dalla Chiesa, Giulia. A testimonianza del fatto i che rapporti con la ex e la sua moglie erano tornati sereni. Rita non c’era per sua scelta: intervistata da Catherine Spaak per Visto prima delle nozze di Fabrizio con Carlotta aveva dichiarato: «No, per delicatezza e rispetto nei loro confronti. È il momento per Fabrizio di vivere con Carlotta e la loro Stella». L’incontro tra Frizzi e la Mantovan era avvenuto proprio durante il concorso di Miss Italia, dove lui era il conduttore e lei una delle più giovani concorrenti: aveva solo 17 anni. Sulla paternità in età avanzata Fabrizio ha detto: «Diventare padre in età avanzata, come è accaduto a me, è stata una scelta d’amore e non un atto di egoismo: avendo una compagna tanto più giovane di me, so che Stella è comunque in buone mani», ha aggiunto, «e ciò mi fa sentire meglio rispetto alle preoccupazioni legate alla mia anagrafe».

Rita Dalla Chiesa. L'ex moglie di Fabrizio Frizzi piange l'ennesimo lutto: "Sarà sempre parte di me". La conduttrice travolta da un altro lutto dopo la morte del genero, Rita dalla Chiesa dovrà dire addio anche all'ex marito, Fabrizio Frizzi mancato nella notte per un'emorragia cerebrale, scrive il 26 marzo 2018 Hedda Hopper su "Il Sussidiario". Un vicino di casa, un parente, qualcuno di familiare, questo era quello che pensava il pubblico di Fabrizio Frizzi, era incredibile e chi è arrivato a sposarlo lo sa bene. Rita dalla Chiesa piange oggi l'ennesimo lutto confermando un tunnel di dolore e dispiaceri iniziato lo scorso ottobre con il primo malore che aveva portato Fabrizio Frizzi in ospedale la prima volta. Dopo il malore, il ritorno in tv e il lutto per Rita dalla Chiesa con la morte dell'amato genero, Massimo Santoro. Oggi per lei è sicuramente un giorno buio, un giorno da dimenticare e che non avrebbe mai voluto vivere, la conduttrice dovrà dire addio all'ex marito, quello stesso "ragazzo" gentile che in questi anni ha sempre combattuto per il suo lavoro e che in questi ultimi mesi ha fatto lo stesso per la famiglia, la moglie e l'amata figlia. La sua lotta alla fine non è riuscita e Frizzi è mancato a 60 anni circondato dall'affetto dei suoi cari e Rita dalla Chiesa? La conduttrice potrebbe avere qualche rammarico per via di quello che è successo in questi mesi. Qui la notizia approfondita su Fabrizio Frizzi.

IL MALORE DI FABRIZIO FRIZZI E LA SUA REAZIONE. Quando Fabrizio Frizzi ha avuto il malore lo scorso ottobre, lei stessa ha confermato di volersi fare da parte e di non voler disturbare quello che era un momento familiare nonostante la voglia di correre da lui, al suo capezzale. Lei stessa, in un'intervista a Verissimo, lo ha confermato dicendo: "Auguro a Fabrizio di continuare a trovare la forza per combattere come sta facendo adesso. Lui è un vero guerriero e lo sta facendo per la sua bambina Stella e per sua moglie Carlotta”. E poi ha voluto anche dare peso alla sua seconda famiglia e alla sua amata moglie, Carlotta, alla quale lei non ha mai voluto pestare i piedi, in nessun modo, per non rendere ingombrante la sua figura nemmeno in questo tremendo momento: "Avrei voluto correre da lui, ma le seconde famiglie vanno rispettate. Per questo ho pensato che fosse giusto restare a casa e rimanere in contatto con Carlotta che mi dava notizie". E come reagirà in questo momento? Ancora una volta deciderà di farsi da parte o farà quello che è giusto e questo che sente per dire adeguatamente addio a quello "che stato l’uomo più importante della sua vita”?

LA REAZIONE DI RITA DALLA CHIESA. Al momento Rita dalla Chiesa non ha ancora reagito, almeno non ufficialmente, alla notizia della morte di Fabrizio Frizzi. Il conduttore è stato ricoverato ieri sera per un'emorragia cerebrale e lei, così come le persone vicine alla sua famiglia, lo sapeva già che la questione era critica ma questo non l'ha spinta a raggiungere l'ospedale e nemmeno l'obitorio che, questa mattina, ha ospitato il fratello del conduttore, la moglie e Orfeo. Nei giorni scorsi ha usato i social per dire addio al suo amato genero ma anche per dire quello che pensava di Fabrizio e del suo ritorno "alla vita" ma, al momento, la sua ultima foto risale a ieri dove augurava a tutti una buona domenica delle Palme con un selfie "non davvero perfetto". La camera ardente dovrebbe essere aperta domani mattina proprio presso la sede Rai, anche se al momento non c'è ancora una conferma ufficiale, e sicuramente a quel punto Rita dalla Chiesa non potrà più farsi da parte ed evitare di reagire riguardo a questo lacerante dolore. 

RITA DALLA CHIESA. L'amore protettivo verso il nipote Lorenzo e Fabrizio Frizzi. Rita Dalla Chiesa a TV Talk, 24 marzo: l'amore protettivo verso il nipote Lorenzo, che ha perso il papà, e Fabrizio Frizzi dopo il grave malore del conduttore, scrive il 24 marzo 2018 Fabio Belli su "Il Sussidiario". Ospite a TV Talk nella puntata di sabato 24 marzo, Rita Dalla Chiesa parlerà di un momento molto difficile della sua vita, nel quale ha dovuto essere molto vicina a due persone importantissime. Innanzitutto il nipotino Lorenzo, di 10 anni, che ha perso recentemente il papà Massimo, genero di Rita Dalla Chiesa. Come raccontato a TV Sorrisi e Canzoni: "Massimo è mancato lo scorso novembre, e la vittima più indifesa è mio nipote Lorenzo, un bambino di 10 anni al quale bisogna far capire che la vita è cambiata. Sono molto orgogliosa di mia figlia Giulia che, in questi anni, ha dimostrato grande determinazione. In questo periodo gli sto molto accanto. Io e Giulia lo accompagniamo al calcetto e io faccio il tifo per lui mangiando chili di patatine... Stiamo cercando di riportare tutto alla normalità."

"ORGOGLIOSA DI FABRIZIO". Ma Rita Dalla Chiesa negli ultimi mesi ha dovuto anche supportare il suo ex marito Fabrizio Frizzi, colpito da un grave malore che ha messo a rischio la sua vita, anche se il conduttore ha avuto una pronta ripresa che l'ha subito riportato al timone de "L'Eredità" su Rai Uno. E Rita, che ha sempre affermato di essere rimasta in ottimi rapporti con Frizzi, ha avuto parole di grande stima per lui anche nel difficile momento della malattia: "Il mio più grande orgoglio è quello di essere stata sua moglie perché lui è un uomo vero, che ha valori importantissimi e sa lottare contro le avversità: lo ha dimostrato anche di recente con i suoi problemi di salute."

Rita Dalla Chiesa. "Dopo l'amore per Fabrizio Frizzi il mio cuore ha smesso di battere". Rita Dalla Chiesa debutta alla conduzione di Italiani ieri e oggi in seconda serata su Rete4 per otto appuntamenti. Roberto Olla, Turchese Baracchi e Maurizio Costanzo tra le presenze fisse, scrive il 3 marzo 2018 Sebastiano Cascione su "Il Sussidiario". Rita Dalla Chiesa, torna in tv, dal prossimo 12 marzo, in seconda serata, su Rete 4, con Italiani ieri e oggi, un talk show, in otto puntate, scritto da Maurizio Costanzo, sui cambiamenti della nostra società, dal dopoguerra ad oggi, con ospiti, filmati e approfondimenti su diversi ambiti: dallo sport, alla politica, passando per il cinema, la musica e lo sport. Con lei, in studio, Turchese Baracchi, ex opinionista di Forum e lo storico Roberto Olla mentre il giornalista/autore, a fine programma, avrà un minuto per raccontare un suo ricordo molto personale. Come confessato, al settimanale Spy, in edicola questa settimana, le emozioni sono molteplici: "Non è facile tornare a casa, la casa che per me rappresenta il Centro Palatino. Registrare lì, in mezzo a tutti i tecnici che conosci da una vita, è emozionante. Con Maurizio Costanzo che, dalla saletta dietro, controlla quello che succede in studio. E se da una parte sento e approfitto di tutto il privilegio di cui gode, dall'altra mi domando: sarò all'altezza delle sue aspettaive?". Tra l'altro, avendo ormai registrato tutte le puntate, aggiustamenti, non se ne possono fare più. Insomma, dopo tanti anni, c'è ancora adrenalina e quel pensiero recondito: e se andasse male? Non sono mai sicura in fondo delle mie cose".

FABRIZIO FRIZZI COME STA? IL RACCONTO DI RITA DALLA CHIESA. Rita Dalla Chiesa, ancora una volta, tornare a parlare di Fabrizio Frizzi (con cui ha lavorato, per l'ultima volta in Rai, come co-conduttrice, a La Posta del cuore) che, dopo un periodo di difficoltà per problemi di salute, è tornato, con successo, alla guida de L'Eredità, il quiz del preserale che accompagna gli italiani fino al Tg1 delle 20: "Sta meglio, ci mandiamo messaggi e ci sentiamo. So che sta combattendo la sua battaglia con sua moglie Carlotta che è una donna molto in gamba, e anche grazie all'amore che ha per il lavoro, che è la sua vita. Da quando ha ricominciato a lavorare è tornato il Fabrizio che ho sempre conosciuto". La popolare e amatissima conduttrice non ha trovato un nuovo amore: "Dopo Fabrizio ho avuto delle storie, ma nel tempo ho imparato anche molto a star da sola. Non è che si stia bene, tutti hanno bisogno la sera di trovare qualcuno a casa che ti ascolti, con cui ridere o guardare un film. E nei periodi di buio nero mi sono ritrovata sola in camera con gli occhi sul soffitto a chiedere anche aiuto a mia mamma e mio papà, Una persona vicina mi avrebbe dato un po' di serenità in più ma alla fine ce l'ho fatta anche da sola". La presentatrice ha raccontato anche di ricevere molte proposte da alcuni corteggiatori sui social. Cancella, però, immediatamente il contatto perché preferisce i rapporti faccia a faccia. Al momento, però, non è intenzionata ad aprire il proprio cuore ad un nuovo spasimante.

Fabrizio Frizzi morto, Rita Dalla Chiesa: “avrei voluto correre da lui”, scrive Stella il 26 marzo 2018 su "Che donna". La morte di Fabrizio Frizzi è un duro colpo per l’ex moglie Rita Dalla Chiesa, rimasta legata a lui nonostante la fine del matrimonio. La morte di Fabrizio Frizzi, avvenuta nella notte a Roma, ha sconvolto tutti. Un dolore enorme anche per l’ex moglie Rita Dalla Chiesa che, nonostante la fine del matrimonio, era sempre rimasta legata a lui, rispettando totalmente la moglie Carlotta e la famiglia che avevano costruito insieme. Rita Dalla Chiesa e Fabrizio Frizzi si erano sposati nel 1992. La separazione arrivò nel 1998 e divorziano nel 2002. Nonostante la fine del matrimonio, l’affetto e il rispetto tra Rita e Fabrizio non sono mai venuti meno. La Dalla Chiesa, infatti, ha sempre fatto un passo indietro per rispettare la moglie di Fabrizio Frizzi, Carlotta Mantovan e la loro bambina, la piccola Stella. In occasione del malore che ha colpito il conduttore lo scorso ottobre e che, già allora, aveva fatto temere per la sua vita, Rita Dalla Chiesa non ha mai nascosto il suo dolore per l’accaduto. Ai microfoni di Verissimo, lo scorso febbraio, Rita Dalla Chiesa, aveva detto: “Fabrizio è stato l’uomo più importante della mia vita. Avrei voluto correre da lui, ma le seconde famiglie vanno rispettate. Per questo ho pensato che fosse giusto restare a casa e rimanere in contatto con Carlotta che mi dava notizie”. Ai microfoni del settimanale Spy, agli inizi di marzo, Rita Dalla Chiesa aveva dichiarato: “Sta meglio, ci mandiamo messaggi e ci sentiamo. So che sta combattendo la sua battaglia con sua moglie Carlotta che è una donna molto in gamba, e anche grazie all’amore che ha per il lavoro, che è la sua vita. Da quando ha ricominciato a lavorare è tornato il Fabrizio che ho sempre conosciuto”. Poi aveva aggiunto: “Dopo Fabrizio ho avuto delle storie, ma nel tempo ho imparato anche molto a star da sola. Non è che si stia bene, tutti hanno bisogno la sera di trovare qualcuno a casa che ti ascolti, con cui ridere o guardare un film. E nei periodi di buio nero mi sono ritrovata sola in camera con gli occhi sul soffitto a chiedere anche aiuto a mia mamma e mio papà, Una persona vicina mi avrebbe dato un po’ di serenità in più ma alla fine ce l’ho fatta anche da sola”.

Rita Dalla Chiesa: "Molestie e ricatti? Ecco cosa facevano a Fabrizio Frizzi", scrive Tiscali il 25 marzo 2018. Rita Dalla Chiesa, che rivedremo tra poco con un programma tutto suo su Rete Quattro, ha una visione certamente diversa dei ricatti o molesti e sessuali di cui si parla tanto dopo il caso Weinstein. Soprattutto nella sua lunga carriera televisiva di situazioni particolari ne ha viste parecchie. "Tanti uomini, ragazzi, hanno subito ricatti sessuali da tal regista, o da tal produttore, che vede un bel giovane e ci prova - ha raccontato in una lunga intervista a Libero. Ho sentito dire tanti 'no' e conservare la propria dignità. Conosco donne che stanno con uomini importanti per avere un lasciapassare. Poi parla di ciò che ha vissuto più da vicino. "In tanti anni con Fabrizio Frizzi, sa quante ragazze che si proponevano? Che si presentavano ai provini con minigonne inguinali, che atteggiavano in un certo modo, anche davanti a me, la moglie?", domanda. Per Rita Dalla Chiesa il punto cruciale sta semmai nel riuscire a dire no: "In certe circostanze basta dire no e bussare a un'altra porta. La mia posizione è impopolare. Ma della vicenda Weinstein e Brizzi penso che noi donne, anche a 20 anni, siamo ben strutturate. Diciamo tanto che siamo più mature degli uomini, a parità d'età, e allora dimostriamolo. Mi metti le mani addosso? E io lo dico a tua moglie, o sporgo denuncia. Se davvero c'è un'aggressione, vado dai Carabinieri. Oppure faccio i conti con me stessa: non sarà che sono stata zitta per avere un tornaconto?". Insomma, la posizione di Rita Dalla Chiesa è certamente lontana anni luce da quella di altre donne famose e non. Asia Argento in primis.

QUELLO CHE NON CI AVEVANO DETTO. Fabrizio Frizzi morto, l'ischemia e l'emorragia cerebrale. La verità sconvolgente di Giancarlo Magalli sulla malattia, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Tra centinaia di ricordi di Fabrizio Frizzi nel giorno della sua morte, firmati da colleghi, amici e semplici telespettatori, uno dei più dolorosi e commoventi è quello di Giancarlo Magalli, per tanti anni collega in Rai del conduttore scomparso a 60 anni per una emorragia cerebrale. Dal 23 ottobre scorso, quando Frizzi è stato colpito da un'ischemia prima di una puntata dell'Eredità, si è parlato a lungo delle sue condizioni di salute, avvolte come ovvio nel massimo riserbo. Lo stesso Frizzi ha voluto affrontare la questione, mai negando le difficoltà delle terapie e dalla riabilitazione, i "momenti di sconforto", senza dimenticare l'autoironia ("Non esco molto, ho sempre bisogno del restauro") e lanciando messaggi di coraggio infinito ("Lotto con un leone per vedere mia figlia crescere", "la vita è meravigliosa"). Magalli va un passo oltre, svelando lati del calvario degli ultimi mesi dell'amico che Frizzi ha sempre voluto tenere nascosti, più per non dare un dolore agli amici che per pudore. Anche in questo si misura l'umanità di un uomo e di un professionista. Prima l'ischemia, poi l'emorragia cerebrale. In mezzo, mesi di fatica fisica e psicologica. Magalli nel suo post su Facebook non a caso parla di una "battaglia disperata". "Sapevamo che stava male. Sapevamo che non voleva che se ne parlasse per paura di dover smettere di lavorare ed abbiamo tutti rispettato questo suo desiderio, la Rai per prima. Sapevamo anche che la sua paura più grande non era andarsene, ma il pensiero di lasciare sole Carlotta e Stella, le sue ragazze". "Nell'ultimo messaggio che ci siamo scambiati qualche settimana - conclude Magalli - fa mi scriveva: La terapia c'è e la sto facendo. Non sarà facile, ma spero di portare a casa la pellaccia. Era riuscito ad infilare un sorriso anche in una comunicazione drammatica come quella. Ed è proprio quel sorriso che non ci abbandonerà mai. E per ogni sorriso che lui ha regalato a noi gli saremo grati. Sempre".

Fabrizio Frizzi, lo straziante ultimo abbraccio di Antonella Clerici: cosa avrebbero dovuto fare, tra pochi mesi, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Tra pochi mesi Fabrizio Frizzi, Antonella Clerici e Carlo Conti avrebbero dovuto condurre I migliori anni. Purtroppo non andrà così, perché un'emorragia cerebrale ha stroncato Frizzi a 60 anni. Su Instagram la conduttrice de La Prova del cuoco ha voluto ricordare quello che è stato per lei più di un collega: "Grazie amico mio per tutto", con commovente foto di un abbraccio in scena. Insieme a Conti, la Clerici è stata una delle poche, grandi amicizie di Frizzi nel mondo della tv. 

Morte Fabrizio Frizzi, Raffaella Carrà svela le sue ultime atroci parole: "Sono bravo, seguo le cure e...", scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Più volte, Fabrizio Frizzi dopo il malore che lo aveva colpito lo scorso anno, aveva detto che la sua battaglia non era ancora finita. Oggi, purtroppo, il drammatico epilogo con la morte del popolarissimo e amatissimo conduttore. E nel fiume di messaggi di cordoglio e disperazione, piove anche il tweet di Raffaella Carrà, che dà conto di quanto le aveva detto Frizzi soltanto pochi giorni fa. "Sono bravo, seguo le cure e ce la farò". Questo quanto le aveva confidato soltanto pochi giorni fa. Parole che, oggi, suonano ancor più strazianti. "Quanto dolore", aggiunge la Carrà, che conclude: "Prego piangendo una persona per bene, un amico".

Morte Fabrizio Frizzi, lo strazio di Pippo Baudo: la telefonata che fa male al cuore, non riesce a parlare, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Pochi giorni dopo i 60 anni, la morte di Fabrizio Frizzi. Un addio che sconvolge l'Italia e il mondo dello spettacolo, a distanza di pochi mesi dal malore che lo aveva colpito. Una delle testimonianze più sentite, in un giorno straziante, è stata quella di Pippo Baudo, che in collegamento telefonico con UnoMattina non è riuscito a trattenere la commozione nel ricordare il conduttore che, dopo di lui, ha presentato in assoluto più programmi. Baudo, in lacrime e costretto più volte ad interrompersi, ha ricordato quanto fosse legato a Frizzi, sottolineando come fosse una persona educata, rispettosa e sempre entusiasta.

Fabrizio Frizzi, Lamberto Sposini lo ricorda nel modo più commovente: "Nei giorni bui, tu...", scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "Grazie per esserci stato, anche nei giorni bui". Lamberto Sposini e Fabrizio Frizzi hanno vissuto lo stesso dramma: un malore prima di una diretta che ha condizionato la loro vita. Frizzi, a differenza di Sposini, era riuscito a tornare alla sua amatissima tv ma un'emorragia cerebrale l'ha stroncato a 60 anni, pochi mesi dopo. E così il ricordo che su Instagram Sposini regala all'amico è ancora più straziante. 

Maria De Filippi si ferma per Frizzi: salta Uomini e donne, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Il lutto di Frizzi travolge anche Mediaset. Maria De Filippi ha deciso di non andare in onda con Uomini e donne. Lo comunica una foto del profilo Instagram in cui si legge: "Maria e tutta la Fascino abbracciano Carlotta e Stella e i cari di Fabrizio Frizzi. In segno di rispetto per un uomo onesto, perbene, gentile ed educato, oltre che un grande collega, decidono di non andare in onda quest'oggi con puntate registrate e previste da palinsesto". Una scelta che fa capire quanto affetto provasse Maria per il collega che non c'è più.

Fabrizio Frizzi, la commozione di Giancarlo Magalli: "Era un fratello, che coltellata...", scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "E' stato un colpo durissimo anche se sapevamo che non stava bene. Però che arrivasse così questa coltellata all'improvviso non ce lo aspettavamo. Quaranta anni di amicizia, Fabrizio Frizzi lo considero un fratello. Però quello che mi ha commosso è che lo considerano un fratello un po' tutti, anche la gente. Lo considera uno di famiglia". Il ricordo commosso di Giancarlo Magalli, conduttore de I Fatti Vostri.

Fabrizio Frizzi, lo strazio di Milly Carlucci; "Uno strappo al cuore, non riesco a parlare", scrive il 27 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Insieme a Fabrizio Frizzi ha formato una delle coppie televisive più di successo nella storia della Rai. Milly Carlucci, poche ore dopo la notizia della morte del suo storico partner, non ha potuto non condividere con i fan il suo grande dolore su Facebook. "Sento uno strappo al cuore e non riesco a parlare, Fabrizio era e sarà sempre il mio fratellone", ha scritto la conduttrice di Ballando con le stelle, che con Frizzi era la padrona di casa del mitico Scommettiamo che. "Chiedo scusa ma non ce la faccio a parlare - continua -. Lo farò quando riuscirò a metabolizzare questo immenso dolore, non riesco ad accettare questa ingiustizia. Il mio pensiero va a Carlotta a Stella, a Claudio e a tutta la sua famiglia". 

Fabrizio Frizzi, Caterina Balivo non trattiene il dolore: "Quella volta che nel 1999 Fabrizio...", scrive il 27 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Era davvero provata, ieri, Caterina Balivo alla Vita in diretta quando ricordava Fabrizio Frizzi. La conduttrice non è andata in onda con Detto fatto per il troppo dolore. "Era un campione", ha detto Caterina, "una mosca bianca nel mondo dello spettacolo". La Balivo ricorda di aver esordito a Miss Italia con Frizzi e che deve ringraziare lui per la sua carriera. "Avevo fatto il provino per Scommettiamo che, che lui conduceva con Afef. Avevo anche un'altra proposta, ma lui mi ha convinto: 'Vedrai che conquisterai tutti, hai iniziato con Raiuno, resta qui'". E così è stato.  Inevitabile la commozione della conduttrice, che ha cercato di asciugare le lacrime che colavano, invano. Con gli occhi, lucidi, in studio, Francesca Fialdini e Marco Liorni hanno tentato di condurre la puntata più difficile della loro vita. Un pezzo della Vita in diretta sinceramente commosso, senza retorica ma con il cuore pieno di affetto per Fabrizio.

Fabrizio Frizzi, Bruno Vespa con la voce rotta in diretta: "Era uno di voi", scrive il 27 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". "Fabrizio Frizzi oltre ad essere uno di noi era uno di voi, una persona normale, solare, una persona che non si è mai montata la testa". Bruno Vespa apre la puntata di Porta e porta ricordando il conduttore con il nodo in gola: "Era sempre disponibile e pronto a sorridere ecco perché oggi l'Italia si è commossa". 

Fabrizio Frizzi, l'aneddoto prima di morire con un perfetto sconosciuto: cosa gli rispose nel 2010, scrive il 26 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Da quando si è diffusa la notizia della morte di Fabrizio Frizzi, il fiume di messaggi sui social che lo hanno ricordato non si è mai fermato. Non solo frasi di addio scritte da amici e personaggi dello spettacolo, o addirittura della politica, ma anche da migliaia e migliaia di persone che con lui avevano avuto un aneddoto da condividere. E chi ha avuto la fortuna di interagire con Frizzi, lo ricorda con grande commozione. Come Matteo che su Twitter ricorda il giorno in cui il conduttore Rai rispose a un suo messaggio: "Arrivò su Facebook nel 2010. Gli scrissi due righe giusto per dargli il benvenuto. E per dirgli che per me sarebbe stato sempre lo sceriffo Woody di Toy Story. Il giorno dopo, lui rispose così". E cioè con una frase perfettamente in linea con lo spirito gioviale di Frizzi: "Grazie Matteo! E allora ti dico che 'sono il tuo vicesceriffo preferitooo!'. Un abbraccio, Fabrizio".

Fabrizio Frizzi morto, Barbara D'Urso l'unica a non fermarsi: "Schifo", "Vergognati", insulti a Pomeriggio 5, scrive il 27 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Su Instagram Barbara D'Urso ha ricordato Fabrizio Frizzi con due foto e messaggi commoventi. Ma in tv, è stata una delle poche a non fermarsi in segno di lutto per la morte del collega, scomparso a 60 anni per emorragia cerebrale. Mentre la Rai stravolgeva i palinsesti pomeridiani e su Mediaset anche Maria De Filippi e Paolo Bonolis decidevano di stoppare la programmazione per un giorno, Pomeriggio 5 è andato in onda regolarmente. Ovviamente, sui social, si è scatenata la rabbia dei telespettatori che si sarebbero attesi maggior sensibilità e rispetto da "Carmelita". "Uno schifo", "Ma non ti vergogni?", scrivono in tanti. E qualcuno arriva a scrivere che le condoglianze della D'Urso per l'amico Frizzi siano addirittura solo di facciata. Ma forse a tutto c'è un limite.

Fabrizio Frizzi, tutta la verità sul male al cervello che non gli ha dato scampo, scrive Melania Rizzoli il 27 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano". Fabrizio Frizzi è stato molto sfortunato, perché in genere la temibile emorragia cerebrale che lo ha colpito non sempre causa la morte, soprattutto in pazienti che sono sottoposti a cure mediche quotidiane e sotto stretto controllo, sia clinico che radiologico, per varie patologie, e perché tutto dipende da dove essa si manifesta. L' emorragia cerebrale è una sindrome neurologica acuta, causata dalla rottura di un vaso arterioso del cervello e al conseguente stravaso di sangue nel parenchima cerebrale, che ne viene inondato e soffocato. L' evento più frequente che provoca questo danno vascolare è l'ipertensione arteriosa, ma altre cause comuni possono essere gli ematomi che si formano in seguito a traumi del cranio, la rottura di malformazioni dei vasi come gli aneurismi, i tumori cerebrali primitivi o metastatici, oppure, più raramente, alcune malattie emorragiche o le complicanze dell'uso di farmaci anticoagulanti. L'emorragia, dovuta alla rottura di un vaso sanguigno nella testa, può verificarsi nello spazio compreso tra il cranio e le meningi (emorragia subdurale e subaracnoidea) cioè esternamente al cervello stesso, e in questo caso è facilmente risolvibile con un intervento chirurgico aspirativo e non invasivo. Nel caso in cui invece, come è evidente sia accaduto a Fabrizio Frizzi, la perdita di sangue avviene all' interno del cervello, ovvero dentro la massa cerebrale bianca o grigia o dentro le sue cisterne (ventricoli cerebrali) la situazione si complica di molto, perché i sintomi compaiono all' improvviso, senza prodromi, e possono evolvere anche molto rapidamente. Se il paziente è in questi casi ancora vigile, orientato e collaborante, può riferire cefalea acuta (forte mal di testa) e presentare vomito senza nausea, ma può anche arrivare in ospedale in stato di coma più o meno profondo, ed avere subito crisi comiziali (epilessia), paralisi, irregolarità respiratorie, aumento della pressione arteriosa e anomalie della temperatura corporea, tutti sintomi che aggravano di molto la prognosi.

Prognosi variabile - Dal punto di vista clinico, cioè visitando il malato, non è possibile differenziare una emorragia cerebrale da un ictus ischemico, dovuto invece a un trombo, perché solo una Tac permette la diagnosi certa, differenziando i versamenti emorragici, con la conseguente inondazione di sangue del cervello, dalle aree ischemiche dovute alla trombosi di un vaso. Inoltre la prognosi dell'emorragia cerebrale è molto variabile in base alla tipologia di sanguinamento, alle dimensioni dello stesso e alla causa che lo ha provocato, oltre che alle complicanze cardiache, come le aritmie, dovute alla perdita di sangue, che spesso risultano mortali. Nello scorso ottobre Fabrizio Frizzi era stato colto in diretta televisiva da un malore riconducibile ad una patologia cerebrale, e lo stesso conduttore, dopo un periodo di cure, disse: «Non è ancora finita, lotto come un leone, e se guarirò racconterò tutto nei dettagli, perché diventerò testimone della ricerca scientifica, la stessa ricerca che ora mi sta aiutando». Quindi il conduttore televisivo più amato dagli italiani era consapevole di essere affetto da una malattia che aveva coinvolto il suo cervello e che il suo non era stato soltanto un accidente vascolare, perché quella "ischemia" che lui stesso aveva raccontato era stata invece solo il primo campanello di allarme di una patologia che non era stata operata, ma che aveva segnato i presupposti della sindrome neurologica che lo ha condotto all' emorragia fatale.

Esempio per tanti - Fabrizio Frizzi in questi mesi di fatica fisica e psicologica, tra esami, cure quotidiane radioterapiche e chemioterapiche, effetti collaterali evidenti, controlli e riabilitazione, non si è però sottratto a vivere la vita, a continuare a lavorare in televisione, consapevole di condurre una «battaglia non facile», come lui stesso ha definito il percorso della sua patologia, nella speranza di poter vincere la sua guerra personale, come ha più volte dichiarato. Purtroppo non è andata così, ma il suo esempio sarà di aiuto ai tanti malati che si trovano nella sua stessa condizione, che hanno la sua stessa voglia di vivere e di combattere, che non si arrendono, e che non si lasciano abbattere dalla sua morte, perché sperano di essere più fortunati di lui. E perché anche nelle gravi malattie, qualunque sia il loro percorso, terapeutico e patologico, un pizzico di fortuna ci vuole, e a volte può cambiare addirittura la prognosi.

La morte di Fabrizio Frizzi: Emorragia cerebrale, la forma di ictus più pericolosa. L’ictus colpisce oltre 15 milioni di persone all’anno nel mondo, provocando 6,7 milioni di decessi, e rappresenta il 12% di tutte le cause di morte a livello globale. Nel 90% dei casi è prevenibile. Le tre ore che seguono i primissimi sintomi dell’ictus sono cruciali, ma molte persone giovani rischiano di dare poco peso ai primi sintomi. La guida per essere più preparati, redatta in collaborazione con Elio Agostoni, direttore della Neurologia e Stroke Unit dell’Ospedale Niguarda di Milano, scrive il 26 marzo 2018 Antonella Sparvoli su "Il Corriere della Sera".

Che cos’è l’ictus. L’ictus è un danno cerebrale che si verifica quando l’afflusso di sangue al cervello si interrompe all’improvviso per l’ostruzione di un’arteria (ictus ischemico) o, più raramente, per la sua rottura (ictus emorragico). Senza un intervento immediato (nelle primissime ore dall’attacco) che riporti ossigeno alla parte colpita, i neuroni iniziano a morire: questo può comportare una grave disabilità e addirittura la morte. Per prevenire l’ictus bisogna dire addio alle cattive abitudini come fumo, sedentarietà e alimentazione scorretta. Con un sano stile di vita, infatti, è possibile ridurre il rischio addirittura fino all’80%, un risultato impossibile da ottenere con qualsiasi altro intervento di tipo farmacologico o chirurgico. Ad affermarlo sono gli esperti dell’American Heart Association, che hanno stilato le nuove linee guida per la prevenzione primaria dell’ictus pubblicate dalla rivista Stroke.

Ictus ischemico. È la forma di ictus più comune. È provocato da un trombo o un embolo che ostruisce un’arteria del cervello. Questo trombo può formarsi direttamente in quel vaso oppure può arrivarci da altri distretti del corpo attraverso il circolo sanguigno. «L’ictus è dovuto all’interazione di più fattori di rischio - spiega Elio Agostoni, direttore della Neurologia e Stroke Unit dell’Ospedale Niguarda di Milano -, ma i tre più importanti sono sicuramente l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia e il diabete. Facendo regolarmente attività fisica, smettendo di fumare e seguendo un’alimentazione corretta, è possibile agire proprio su questi tre elementi chiave riducendo notevolmente il rischio di incorrere in un primo ictus, facendo cioè la cosiddetta prevenzione primaria».

Ictus emorragico. È la forma di ictus più rara ma più pericolosa. Viene scatenato dalla rottura della parete di un’arteria del cervello, che provoca una emorragia cerebrale difficile da bloccare.

Mini-ictus-tia. L’attacco ischemico transitorio (TIA) è un calo temporaneo nell’afflusso di sangue al cervello, sufficiente a determinare qualche sintomo che regredisce nel giro di 24 ore. È un importante campanello d’allarme per un ictus più importante.

I sintomi. Ecco i sintomi dell’ictus, che possono comparire all’improvviso:

1) debolezza o intorpidimento di faccia, braccia o gambe, soprattutto di un lato del corpo;

2) vertigini, difficoltà a camminare, perdita di equilibrio e coordinazione;

3) confusione, difficoltà nel parlare e nel capire;

4) problemi alla vista (a uno o entrambi gli occhi);

5) fortissimo mal di testa senza una causa apparente.

I fattori di rischio. «Molti studi ci dicono che possiamo ridurre il rischio di ictus del 50% praticando regolarmente un’attività fisica di moderata intensità: basta una passeggiata a passo spedito (tanto da coprire un chilometro in dieci minuti) per mezz’ora tutti i giorni - spiega Elio Agostoni -. Così controlliamo i tre fattori di rischio citati prima (ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia e diabete) e, nelle persone più anziane, riduciamo anche i livelli plasmatici di fattori dell’infiammazione coinvolti nell’ictus, come la proteina C reattiva e l’interleuchina 6».

La prevenzione: dieta. «Dobbiamo stare attenti a non esagerare con grassi saturi, sodio e alcol - continua Elio Agostoni -. Quindi è meglio bere con moderazione, ridurre il consumo di cibi salati, salumi, formaggi grassi, carne grassa e anche carne rossa, che va mangiata poco, soprattutto dopo i 65 anni. Altri nutrienti che invece hanno una funzione protettiva sono i grassi polinsaturi omega-3 che troviamo nel pesce azzurro, le fibre alimentari, utili contro l’obesità, e i minerali come potassio, magnesio e calcio. Via libera dunque a frutta e verdura, che contengono anche sostanze antiossidanti protettive contro tutte le malattie vascolari, e a elementi preziosi in particolare per il cervello come le vitamine C ed E, il betacarotene, i folati, le vitamine B6 e B12».

Fumo e ipertensione. «Il fumo è da evitare sempre, sia quello attivo sia quello passivo, perché favorisce la formazione delle placche, che ostruiscono le arterie provocando l’ictus - dice Elio Agostoni -. Per quanto riguarda la pressione, è opportuno monitorarla regolarmente, soprattutto se si ha una predisposizione familiare per l’ipertensione, e mantenerla sotto i 140-90 mm Hg. Se però si hanno altri fattori di rischio come il diabete, occorre stare entro limiti ancora più bassi, come 130-80 mm Hg».

L’aspirina aiuta? «Nelle persone che non hanno mai avuto un ictus, l’uso preventivo dell’acido acetilsalicilico (aspirina) va ben ponderato insieme con il proprio medico, perché l’assunzione comporta comunque dei rischi. Di solito si utilizza solo se sono già presenti altri importanti fattori di rischio per l’ictus, tra cui anche il diabete» conclude Agostoni.

Le cure. In caso di ictus, è molto importante che il malato venga assistito in un reparto specializzato, la cosiddetta «stroke unit»: questo permette di ridurre sia la mortalità sia esiti di grave disabilità. In caso di ictus ischemico, il trattamento di emergenza prevede il ricorso a farmaci trombolitici (o fibrinolitici) che permettono la dissoluzione dell’occlusione arteriosa e il ripristino dell’afflusso di sangue. Il trattamento dell’ictus emorragico è invece più complesso: si punta a controllare la pressione arteriosa, l’emorragia e l’ematoma cerebrale.

La riabilitazione. Le conseguenze dell’ictus dipendono dalla parte del cervello che viene danneggiata: si possono avere problemi di movimento, per una paralisi degli arti di un lato del corpo, difficoltà di linguaggio o di ragionamento. La riabilitazione aiuta il recupero funzionale. Per il recupero del movimento, della sensibilità e delle funzioni cognitive, entrano in azione fisioterapista e fisiatra. La riabilitazione dei problemi di comunicazione e di deglutizione è compito del logopedista.

L’ischemia che aveva colpito Fabrizio Frizzi: i segnali da non sottovalutare. Tutti pensiamo all’infarto come a qualcosa di improvviso e imprevedibile. A volte è così, ma in buona parte dei casi prima che si verifichi questo evento, risultato dell’interruzione totale del flusso di sangue e ossigeno al cuore, e quindi di un’ischemia protratta e irreversibile, ci possono essere segnali che sarebbe bene non sottovalutare: la sofferenza del cuore può essere transitoria, però, se si protrae, le cellule cardiache muoiono, scrive il 24 ottobre 2017 Antonella Sparvoli su "Il Corriere della Sera".

L’ischemia cardiaca. L’ischemia cardiaca è una riduzione della quantità di sangue e, quindi di ossigeno, che arriva al cuore, dovuta a un restringimento di un’arteria coronarica. L’ischemia cardiaca può essere transitoria oppure protratta nel tempo e sfociare nell’infarto. La causa principale dell’ischemia cardiaca è l’aterosclerosi, ossia la formazione di placca all’interno dei vasi sanguigni.

Il funzionamento del cuore. L’ossigeno arriva al cuore trasportato dal sangue attraverso arterie chiamate coronarie.

Il vaso chiuso. Quando in una o più di queste arterie si riduce lo spazio in cui passa il sangue oppure il vaso stesso si chiude, si verifica l’ischemia miocardica. L’ischemia può essere transitoria oppure protrarsi e sfociare nell’infarto.

Come si arriva all’infarto. L’infarto spesso avviene per l’occlusione di una coronaria, evento che di frequente si verifica per la rottura della placca e la conseguente formazione di un coagulo che blocca il flusso sanguigno attraverso l’arteria. La conseguenza è la necrosi (morte) del tessuto cardiaco a valle del blocco.

Il dolore dell’ischemia. Di solito il tipico dolore causato da un’ischemia cardiaca inizia dietro allo sterno (al petto): opprime come una morsa e tende a irradiarsi soprattutto al braccio sinistro, al collo e all’angolo della mandibola sinistra.

Il «test del dito» indica la gravità dell’attacco. Se alla domanda «dove sente il dolore?» la persona indica un punto esatto con il dito, di solito, non c’è da preoccuparsi; se si tocca il petto con la mano aperta è probabile che ci sia un problema cardiaco.

Due tipi di ischemia. Quando si verifica un’ischemia cardiaca, si possono avere quadri clinici distinti: con sintomi entro i 15 minuti siamo in presenza di un’angina pectoris oppure di un’ischemia silente. Nel caso i sintomi durino più di 15 minuti si può parlare di un infarto cardiaco.

L’ischemia transitoria (sintomi e che fare).

Angina pectoris: l’ischemia transitoria determina dolore o senso di costrizione al centro del petto che può irradiarsi alle aree circostanti. L’attacco dura in genere meno di 10-15 minuti. Il dolore aumenta con lo sforzo e regredisce con il riposo. Può essere accompagnata da mancanza di fiato (dispnea).

L’ischemia silente: non sono presenti sintomi e si riesce a scoprire l’ischemia solo se la si sospetta (per la presenza di fattori di rischio) e si eseguono alcuni esami specifici. È più comune nei diabetici.

Che fare nei due casi: se si sospetta un’ischemia miocardica transitoria occorre consultare il medico, il quale può richiedere l’esecuzione di alcuni esami di primo livello come l’elettrocardiogramma e l’ecocardiogramma sotto sforzo. Se questi esami non sono conclusivi, ma permane il dubbio si possono fare indagini più specifiche come la risonanza magnetica da stress e la Tac coronarica. Se i test sono positivi si esegue la coronarografia che indirizzerà al trattamento più idoneo.

L’infarto cardiaco (sintomi e che fare). Nella maggior parte dei casi si verifica quando si chiude del tutto una coronaria, causando un’ischemia più marcata e duratura. I sintomi sono gli stessi dell’angina pectoris, ma il dolore non è transitorio ed in genere più intenso. Con il riposo il dolore non passa. Altri sintomi possibili sono mancanza di fiato (dispnea), nausea, pallore, intensa sudorazione.

Che fare: in presenza di un dolore al torace che ha le caratteristiche di quello cardiaco e che dura più di 10-20 minuti, bisogna chiamare subito il 118. In ospedale la prima cosa che viene fatta è l’elettrocardiogramma. In contemporanea si eseguono alcuni esami del sangue per dosare sostanze che si liberano dal cuore durante l’infarto e si procede in tempi brevissimi al trattamento.

Le cure - L’angioplastica. In base alla gravità, l’ischemia cardiaca si può trattare con farmaci mirati, con un’angioplastica o con un bypass coronarico.  L’angioplastica consiste nella dilatazione della coronaria ostruita tramite un palloncino gonfiabile, seguita dal posizionamento di uno stent, una sorta di rete metallica, o riassorbibile, per mantenere il lume del vaso dilatato.

Le cure - Il bypass coronarico. Il bypass coronarico consiste nello scavalcare il restringimento del vaso coronarico inserendo un condotto vascolare che fa da ponte fra l’aorta e l’arteria coronaria. I condotti usati per l’innesto sono segmenti di vena prelevati dalla gamba dello stesso paziente o, più di recente, condotti arteriosi (per esempio arterie mammarie).

Fabrizio Frizzi, Alfonso Signorini: “Aveva tumori diffusissimi inoperabili. Ecco perché ha fatto un vero miracolo”, scrive il Fatto Quotidiano il 29 marzo 2018. In molti, nei giorni scorsi, hanno parlato delle gravissime condizioni di salute di Fabrizio Frizzi. Nessuno però ha voluto parlare della malattia del conduttore scomparso all’età di 60 anni, cosa alla quale ha accennato invece Alfonso Signorini. Ospite di Matrix, il direttore di Chi, ha ricordato Frizzi, con il quale ha avuto modo di lavorare: “Lui sapeva che non aveva scampo. E questo è molto importante da sottolineare, perché quando ha avuto quella ischemia che l’ha portato al ricovero immediato all’ospedale, ad Ottobre, dagli esami di questa ischemia è risultato che aveva dei tumori diffusissimi che erano inoperabili. E questa cosa è stata messa al corrente non soltanto della famiglia ma anche di lui. E Fabrizio a quel punto era a un bivio: o rimanere a casa e aspettare il momento oppure andare in televisione a fare il suo lavoro e a portare ancora una volta il sorriso a casa della gente. È questo il vero miracolo che ha fatto Fabrizio Frizzi”. Un miracolo che ha lasciato un ricordo ancora più forte tra amici, parenti e telespettatori”.

Frizzi, Alfonso Signorini: “Aveva tumori inoperabili. Lui sapeva che non aveva scampo”, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Alfonso Signorini direttore di Chi, parla di Fabrizio Frizzi e della sua morte a Matrix, il talk show di Canale Cinque condotto da Nicola Porro,: ‘Fabrizio era consapevole di essere condannato, sapeva che non aveva scampo. Quando ha avuto quell’ischemia che l’ha portato al ricovero immediato in ospedale, dagli esami è risultato che aveva dei tumori diffusissimi che erano inoperabili. Venuto a conoscenza del suo quadro clinico - come raccontato dal giornalista - Frizzi è stato messo davanti ad un bivio che gli imponeva di ‘restare a casa e aspettare il momento oppure andare in televisione a fare il suo lavoro, a portare ancora una volta il sorriso a casa della gente. E’ questo il vero miracolo che ha fatto Fabrizio Frizzi, il messaggio che ha mandato a chi è inchiodato in un letto senza speranza: affrontare la vita, fino all’ultimo, con il sorriso".

Addio Frizzi, Pupo: «Gli ipocriti che ti angosciavano oggi ti rimpiangono». Enzo Ghinazzi sui social attacca "amici" e colleghi del conduttore, senza fare nomi, scrive il 27 marzo 2018 "Il Corriere della Sera". Il cantante Enzo Ghinazzi voce fuori dal coro rispetto alla marea di commenti e ricordi positivi su Fabrizio Frizzi, rilasciati da conoscenti e colleghi del popolare conduttore all'indomani della sua scomparsa: «Soltanto due anni fa, eravamo insieme qua, alle cascate del Niagara - scrive sulle sue pagine ufficiali Twitter e Facebook -. Abbiamo condiviso momenti professionali meravigliosi ed altri, privati, in cui mi raccontavi le tue sofferenze e le angosce che gli ipocriti che oggi ti rimpiangono, ti avevano causato. Non ho parole fratello». Pupo e Frizzi hanno lavorato insieme su Rai 1, nel programma "Ti lascio una canzone " del 2014, oltre ad aver partecipato a varie Partite del Cuore; con il presentatore tv prestato in qualche occasione alla nazionale cantanti. Un rapporto professionale decennale parallelo all'amicizia, intima, come lascia intendere il post; tanto da arrivare a condividere anche dei momenti di relax e di confronto insieme, lontano dagli studi.

Fabrizio Frizzi fatto fuori dalla Rai, la pagina nera. Del Noce: "Non è colpa mia se...", scrive il 27 Marzo 2018 su "Libero Quotidiano". "Non fui io a cacciare Fabrizio Frizzi dalla Rai". A poche ore dalla prematura morte dell'amatissimo conduttore, a viale Mazzini emergono già grandi sensi di colpa per le (poche) pagine nere nella sua carriera. La rottura del 2000 con l'allora direttore generale Pier Luigi Celli, che disse di "provare vergogna" per il programma (innocentissimo) Per tutta la vita, è acclarata. Frizzi, commentandola, la definì come il punto di non ritorno, il momento in cui cominciò a pensare seriamente di non restare in Rai... per tutta la vita. Sotto accusa è finito anche Fabrizio Del Noce, che da direttore di Raiuno bollò l'edizione del 2002 di Miss Italia, condotta da Frizzi, come "noiosa". Dopo quell'episodio, il conduttore decise di andare a Mediaset, dove rimase pochi mesi prima di tornare in Rai con un ruolo decisamente ridimensionato, prima del graduale ma inevitabile ritorno al successo. "Ci fu una diversità di vedute su Miss Italia - si difende Del Noce intervistato dal Giornale -. Ma non si dica che fu quello il motivo per cui Fabrizio decise di andare a Mediaset. Erano questioni burocratiche e contrattuali. In tv i conduttori si muovono, provano altre esperienze". Di fronte alla delusione di Frizzi, Del Noce minimizza: "Sono cose che capitano quando si fanno programmi: io gli dissi che era troppo buonista e che alle sue domande le ragazze rispondevano in modo troppo banale. Ma tutto finì lì. Poi la cosa si ricompose e i nostri rapporti restarono buoni". A testimonianza di ciò, sostiene Del Noce, resta il fatto che "sono stato io ad affidargli I soliti ignoti", una volta tornato in Rai. "Il fatto che un conduttore venga ritenuto più adatto a un programma rispetto a un altro non significa che non lo si abbia in simpatia. Bisogna scegliere e qualcuno ci resta sempre male". Frizzi "è stato uno dei migliori conduttori che la Rai abbia avuto in questi ultimi 40 anni. Estremamente versatile, accettava le regole del gioco e, appunto, le rispettava anche nei momenti più difficili".

L’aurea mediocrità. Il segreto di Frizzi: risponde Aldo Cazzullo il 27 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera".

Caro Aldo, Fabrizio Frizzi, con il suo sorriso, ha allietato le nostre serate e la nostra vita, divenendo uno della nostra famiglia, mai facendoci mancare il suo il sorriso. Giovanni Bertei

Frizzi ci mancherà. Ma forse ha rappresentato quel tipo di tv nazionalpopolare che a me non piace e che ritengo inutile per la crescita culturale del Paese. Romolo Ricapito

Leggo sui social network centinaia di messaggi di cordoglio per Frizzi. Avvenire ha chiesto una preghiera. Sembra che per molti la preghiera «L’eterno riposo» possa essere sostituita da un momento di condivisione in Internet. Ed è molto triste: un rumore di fondo toglie il silenzio al dolore. Filiberto Piccini

Cari lettori, Erano anni, forse dalla scomparsa di Lucio Battisti e Lucio Dalla, che la morte di un personaggio dello spettacolo non colpiva tanto gli italiani. Ieri mattina nei bar e nei mercati di Roma non si parlava d’altro che di Fabrizio Frizzi. Persino i social, che avevano salutato il più importante uomo di Stato degli ultimi trent’anni, Carlo Azeglio Ciampi, con hashtag tipo «una pensione in meno», per una volta mostravano un volto umano. A differenza di Battisti e Dalla, Frizzi non era un genio. Non era neanche Mike Bongiorno, che dietro l’apparente normalità celava la tempra e l’astuzia del fondatore (fu lui il vero padre della Rai e poi anche delle tv private). Ma Frizzi non era una persona priva di talento. Mediocrità e talento non sono necessariamente in contraddizione (anche se di solito il talento rende antipatici, e la mediocrità simpatici). Frizzi non era considerato un fuoriclasse, non gli avevano mai dato Sanremo ad esempio. Ma gli italiani gli volevano un gran bene, perché era un professionista educato, di cui si coglieva l’umanità, l’attaccamento al lavoro, il rispetto per il servizio pubblico. A parlargli in privato ti lasciava la stessa impressione che dava in tv: una persona di famiglia, che ti entrava in casa senza invadenza, senza protagonismi, senza alzare la voce. Non un divo capriccioso; uno in cui riconoscersi, di cui potevi credere di diventare amico. Di questi tempi, quasi un miracolo. Questo suo particolare talento, oltre all’addio prematuro, spiega la dolorosa sorpresa e il cordoglio sincero del pubblico, compresi i lettori del Corriere

Fabrizio Frizzi. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Fabrizio Frizzi (Roma, 5 febbraio 1958 – Roma, 26 marzo 2018) è stato un conduttore televisivo italiano. Ispirandosi a Corrado, nella sua carriera ultra-trentennale ha condotto varietà, talent show e quiz come Miss Italia, I fatti vostri, Scommettiamo che...?, Luna Park, Per tutta la vita, Cominciamo bene, Soliti ignoti - Identità nascoste e L'eredità, ha partecipato come concorrente in programmi di successo come Ballando con le stelle e Tale e quale show e ha recitato in alcune fiction. Considerato fin dagli anni ottanta uno dei principali volti maschili della Rai, è stato insieme a Pippo Baudo il conduttore con più trasmissioni all'attivo. È stato anche doppiatore: è sua la voce di Woody, lo sceriffo protagonista della saga di Toy Story. Nel 2012 ha interpretato sé stesso nel film Buona giornata diretto da Carlo Vanzina.

Biografia. Figlio di Fulvio, noto distributore cinematografico, già direttore commerciale dell'Euro International Film, e poi della Cineriz, frequentò le scuole elementari a Roma alla Cesare Nobili nel quartiere Balduina. Si diplomò al liceo classico San Giuseppe Calasanzio a Roma, per poi iscriversi a giurisprudenza, ma lasciò gli studi dopo soli 4 esami. Nel giugno del 1992 si sposò con la collega Rita dalla Chiesa; i due si separarono nel 1998 e divorziarono ufficialmente nel 2002. Dal 2002 fu legato alla giornalista di Sky TG 24 Carlotta Mantovan, dalla quale, il 3 maggio 2013, ebbe la figlia Stella, e con la quale convolò a nozze il 4 ottobre 2014. Inoltre, come lui stesso rivelò nella puntata del 14 settembre 2014 de L'eredità, nel 1977 ebbe una relazione con la figlia di Catherine Spaak, Sabrina. Aveva anche un fratello, Fabio, di professione musicista, che ha lavorato alla colonna sonora di numerosi film e alla sigla di vari programmi televisivi. Era tifoso delle squadre di calcio della Roma e del Bologna. Nel 2000 donò il midollo osseo a Valeria Favorito, una ragazza di Erice, salvandole la vita. Frizzi raccontò così l'accaduto: «All’epoca il mio midollo risultò compatibile con quello di una bimba le cui condizioni erano preoccupanti. [...] Sei anni dopo, la più bella sorpresa della mia vita. Ero ancora al timone della partita del cuore, stava finendo la diretta e già scorrevano i titoli di coda, quando una ragazzina mi corse incontro per abbracciarmi. Capii subito che si trattava di Valeria, la bimba alla quale avevo donato il midollo e che era venuta a salutarmi dicendomi di essere la mia sorellina.» Per questo motivo, Erice, paese in provincia di Trapani, gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Il 23 ottobre 2017 venne colto da una lieve ischemia mentre stava registrando una puntata de L'eredità; subito ricoverato al Policlinico Umberto I, venne sottoposto ad una TAC che escluse complicazioni, restando comunque sotto osservazione per qualche giorno, dopo di che fu rimandato a casa. Dal 30 ottobre al 15 dicembre fu momentaneamente sostituito da Carlo Conti. Il 15 dicembre 2017 Frizzi tornò a presentare L'eredità. È morto per un'emorragia cerebrale nelle prime ore del 26 marzo 2018 all'ospedale Sant'Andrea di Roma.

Carriera. Le origini e il debutto in Rai. Cominciò la sua carriera da giovanissimo nelle radio e nelle televisioni private, per approdare poi alla Rai dove partecipò alla trasmissione per ragazzi Il barattolo, su Rai 2 nel 1980, prima come inviato e poi come conduttore fisso insieme a Roberta Manfredi. Nel 1982 prese parte alla trasmissione pomeridiana per ragazzi Tandem sempre in onda su Rai 2 e condotta da Enza Sampò; fece parte del programma sino al 1987 per un totale di cinque edizioni. All'interno del programma Frizzi, che inizialmente era uno dei giovani comprimari incaricati di dar vita a giochi con scolaresche (insieme a Emanuela Giordano, Lino Fontis, Marco Dané), si ritagliò uno spazio sempre più ampio; quando Tandem fu sostituita dalla trasmissione Pane e marmellata, indirizzata allo stesso pubblico di giovani, a Frizzi ne fu assegnata la conduzione insieme alla conduttrice Rita dalla Chiesa, sua futura moglie.

Nel marzo del 1988 approdò in prima serata su Rai 1 dove condusse il varietà Europa Europa, ideato da Michele Guardì, affiancato da Elisabetta Gardini. La trasmissione fu realizzata per un totale di 3 edizioni, fino al giugno del 1990. Sempre nel 1988 condusse l'evento Una notte d'estate e un'edizione di Donna sotto le stelle. Dallo stesso anno divenne il conduttore del concorso di bellezza Miss Italia, esperienza che gli darà enorme popolarità e che ripeterà per ben quindici edizioni consecutive sino al 2002, e nuovamente nel 2011 e nel 2012.

Nel 1989 condusse numerosi eventi come il Festival di Castrocaro e quello di Saint Vincent. Di quest'ultimo sarà il padrone di casa anche l'anno successivo. Condusse inoltre le prime tre edizioni del concorso di bellezza Miss Italia nel mondo, comprese tra il 1991 e il 1993, e la serata speciale Uno, due, tre Vela d'oro (1990).

Nel 1990 tenne a battesimo il programma I fatti vostri, una delle trasmissioni più longeve di Rai 2 anch'essa ideata da Michele Guardì, che condusse per tre edizioni fino al 1993.

Nel 1991 fu ancora una volta fondamentale per Frizzi la collaborazione con Michele Guardì: l'autore e regista siciliano gli affidò, infatti, la conduzione del programma Scommettiamo che...?, varietà di prima serata del sabato, che ebbe un grande successo e che condusse assieme a Milly Carlucci. L'anno successivo presentò nuovamente lo show, e anche stavolta gli ascolti furono eclatanti: la trasmissione chiuse con una media di 10 milioni di spettatori e il 37% di share. In questi anni condusse altre due vincenti edizioni di Miss Italia, e anche una striscia speciale di Scommettiamo che dal titolo Prove e provini. Dopo il successo di Scommettiamo che..? e di Miss Italia, il suo nome fu accostato più volte alla conduzione del Festival di Sanremo 1992, tuttavia la RAI preferì riaffidarsi a Pippo Baudo.

Sempre nel 1992 condusse la serata evento EuroDisney '92, mentre il 5 maggio condusse insieme a Corrado la notte dei telegatti su Canale 5, suo esordio sulle reti Fininvest. Sempre nello stesso anno, in diretta dallo Stadio Olimpico, presentò la Partita del cuore, mentre in autunno condusse la terza edizione di Scommettiamo che? con la quale ottenne un successo strepitoso: la media di ascolti sfiorò i 12 milioni di spettatori.

Nell'autunno del 1993 presentò nuovamente Miss Italia e Miss Italia nel mondo, e con altrettanti buoni ascolti La partita del cuore a maggio.

Dall'autunno del 1994 fece parte del cast dei conduttori del quiz Luna Park, ideato da Pippo Baudo, e in onda nella fascia oraria che precede il TG1. Insieme a Frizzi, che guidava la puntata del lunedì, conducevano a rotazione Milly Carlucci, Mara Venier, Rosanna Lambertucci e Pippo Baudo, rispettivamente dal martedì al venerdì.

Dal 1º ottobre condusse la quinta edizione di Scommettiamo che...?, fino al 6 gennaio 1995, per 14 sabati consecutivi, bissando i buoni risultati delle edizioni precedenti.

Dal 1994 al 1996 condusse inoltre la maratona benefica Telethon.

A marzo 1995 condusse il Festival Disney, mentre il 24 aprile vinse l'Oscar della Tv per il successo di Luna Park.

Nel settembre 1995 condusse la seconda edizione di Luna Park, con il cast di conduttori, al quale a dicembre si aggiunse Paolo Bonolis.

Il 30 novembre 1995 condusse una puntata speciale della trasmissione dal titolo Buon Compleanno Luna Park. Visto il successo ottenuto, la trasmissione conquistò anche la puntata del sabato, affidata a Pippo Baudo, sostituito poi dallo stesso Frizzi nelle ultime settimane della stagione televisiva. Il confermato successo della trasmissione la portò alla vittoria di un Telegatto nel 1996.

Dal 7 ottobre condusse la sesta edizione di Scommettiamo che...? trasmesso per 14 puntate al sabato sera; a differenza degli anni precedenti, quest'edizione riscosse minor successo e così la RAI decise di mettere a riposo il programma per un po' di tempo. Presentò nuovamente Miss Italia, quest'ultima andata in onda con grandi ascolti per tre serate il 30 agosto, il 1º e il 2 settembre.

Nell'estate del 1996, in occasione delle Olimpiadi di Atlanta, condusse lo show Atlantam tam, mentre in autunno prese parte alla terza ed ultima edizione di Luna Park, che riscosse però minor successo delle precedenti. A settembre condusse nuovamente Miss Italia.

Nella primavera del 1997 lo specialTutti in una notte, nell'autunno dello stesso anno condusse con successo l'edizione 1997/1998 dello storico contenitore domenicale Domenica In, affiancato tra gli altri da Antonella Clerici e Donatella Raffai. Nello stesso anno, in prima serata al giovedì, condusse lo show Per tutta la vita...? insieme a Natasha Stefanenko: il programma riportò molto successo. Nel 1998 ne condusse la seconda edizione, affiancato stavolta da Romina Power, e ripresentò diversi eventi come La partita del cuore, Miss Italia.

Nel 1999 prese parte nel cast di La vedova allegra con Andrea Bocelli e Cecilia Gasdia all'Arena di Verona. In autunno, dopo tre anni di pausa, tornò al timone di Scommettiamo che...?, affiancato stavolta dalla modella Afef Jnifen, tutti i giovedì per 14 puntate, mentre in primavera condusse nuovamente La partita del cuore: l'evento sarà condotto da Frizzi fino al 2013. Sempre nel 1999 fu trasmessa la fiction Non lasciamoci più, dove recitava con Debora Caprioglio. A partire dall'11 marzo 2000 condusse la quarta edizione di Per tutta la vita...?, per tredici puntata il sabato sera.

A gennaio del 2001 viene trasmessa la seconda edizione di Non lasciamoci più, per otto puntate su Rai 1. Nello stesso anno condusse lo special Sogno di mezza estate e una nuova stagione di "Scommettiamo che...?" con Valeria Mazza. Dal 2 maggio 2002 per dieci puntate condusse la quinta edizione di Per tutta la vita...?, insieme a Roberta Lanfranchi.

Nel settembre del 2002 il neo-direttore di Rai 1 Fabrizio Del Noce scelse Frizzi per condurre un altro evento della RAI, Tutti a scuola che inaugurò l'inizio dell'anno scolastico alla presenza anche di esponenti politici. Dal 5 al 9 settembre condusse la 63ª edizione di Miss Italia: dopo l'ultima serata il direttore Fabrizio Del Noce dichiarò di essersi annoiato durante la manifestazione; Frizzi non gradì la cosa e così decise di abbandonare la RAI a dicembre.

Dopo una breve parentesi nella primavera 2003 a Mediaset con il programma Come sorelle, in onda su Canale 5, tornò alla televisione di Stato. Nella stagione 2003/2004 condusse Piazza Grande su Rai 2, programma mattutino che sostituì I fatti vostri (precedentemente condotto dallo stesso Frizzi) con buon successo in termini di ascolto. Dopo un periodo di riposo, nel gennaio del 2005 partecipò come concorrente alla prima edizione Ballando con le stelle condotto da Milly Carlucci, in coppia con la ballerina Samanta Togni classificandosi quarto, e fu il presentatore di Assolutamente (entrambi in onda su Rai 1), quest'ultimo show di poca fortuna.

Dalla stagione 2005-2006, fu alla guida di Cominciamo bene, programma mattutino di Rai 3, al fianco di Elsa Di Gati. In estate condusse il poco fortunato Mister Archimede in prima serata al venerdì su Rai 1. In autunno riprese il timone de La partita del cuore, che condurrà fino al 2013. Da dicembre fu nuovamente al timone della maratona Telethon, al fianco Milly Carlucci, per poi tornare in TV dopo 9 mesi conducendo la nuova edizione di Cominciamo bene in onda a partire da metà settembre.

Nell'autunno del 2006 condusse nuovamente Cominciamo bene con Elisa Di Gati, mentre a dicembre presentò nuovamente Telethon sempre con Milly Carlucci. Dopo l'insuccesso dello show Mi fido di te, in onda nella primavera 2007, dall'11 giugno 2007 al 16 settembre 2007, sempre su Rai 1, condusse il gioco a premi Soliti ignoti - Identità nascoste subito dopo il TG1, che ottenne un grande successo di ascolti, superando quasi sempre l'altro concorrente Cultura moderna condotto da Teo Mammucari su Canale 5. Ancora nell'estate del 2007 conduce su Rai 3, con l'esordiente Belén Rodríguez il Circo Massimo Show su Rai 3. Nell'autunno del 2007tornò a condurre Cominciamo bene, mentre da giovedì 6 dicembre propose 4 puntate speciali di Soliti ignoti - Identità nascoste in prima serata, per poi condurlo dal 1º gennaio 2008 nuovamente in access prime time, per due mesi al posto di Affari tuoi fino a marzo. Nello stesso periodo condusse nuovamente Telethon insieme a Milly Carlucci, Paolo Belli e Alessia Mancini.

A giugno del 2008 presentò il Premio Barocco, mentre dal 30 giugno condusse il nuovo programma La botola, nell'access prime time di Rai Uno, fino a metà settembre. Il 3 luglio condusse Una notte a Sirmione su Rai 1. In autunno tornò su Rai 3 con Cominciamo bene, mentre a dicembre tornò a condurre Telethon con Paolo Belli e Arianna Ciampoli, al posto di Alessia Mancini. Nel gennaio del 2009 ricoprì il ruolo di giurato nel programma di Rai Uno Ciak... si canta!, condotto da Eleonora Daniele. Il 3 agosto 2009 condusse la puntata pilota dello show Mettiamoci all'opera. Nello stesso anno cantò nell'ultimo disco di Claudio Baglioni "Q.P.G.A.", nella canzone "Tortadinonna o gonnacorta".

A partire dal settembre del 2009 ritornò a condurre Tutti a scuola, programma trasmesso da Rai 1 in diretta dal Quirinale per l'augurio di buon inizio dell'anno scolastico da parte del Presidente della Repubblica Italiana, e nello stesso mese condusse l'ultima edizione di Cominciamo bene. Dal 12 dicembre fu alla guida di una nuova edizione di Telethon. Dal 26 dicembre condusse nuovamente lo show Mettiamoci all'opera, per due puntate. Il 31 dicembre 2009 dello stesso anno conduce la trasmissione L'anno che verrà, in diretta da Rimini per celebrare l'arrivo del nuovo anno. Dal 12 marzo 2010 fu nuovamente giurato nella seconda edizione di Ciak... si canta! fino a maggio. Il 15 marzo tornò su Rai 1 alle 20:40 con Soliti ignoti - Identità nascoste, sostituendo nuovamente Affari tuoi a causa del crollo di ascolti del programma guidato da Max Giusti. Il 27 aprile 2010 fu ospite del programma Ti lascio una canzone, condotto da Antonella Clerici.

Il 20 maggio condusse nuovamente il Premio Barocco, sempre in prima serata su Rai 1[26]. Dopo aver terminato Soliti ignoti, il 12 giugno condusse con grande successo la puntata pilota di Attenti a quei due - La sfida insieme a Max Giusti. Dal 18 al 20 giugno 2010 e dal 17 al 19 giugno 2011 presentò Musicultura, festival che si svolge annualmente allo Sferisterio di Macerata. Il 16 luglio condusse il Festival di Castrocaro in prima serata su Rai 1.

Dall'8 settembre 2010 condusse nuovamente Soliti ignoti - Identità nascoste, in onda fino al 12 febbraio 2011, ottenendo grandi ascolti e riuscendo a battere in numerose occasioni il concorrente di Canale 5 Striscia la notizia. Nella stessa stagione il programma andò in onda anche in prima serata con puntate speciali dal titolo Speciale e confermo, per 11 settimane. Dal 16 al 19 dicembre 2010 presentò ancora una volta la maratona del Telethon 2010. Il 28 dicembre 2010 condusse la puntata pilota del programma Adamo & Eva; gli ascolti registrati non furono però soddisfacenti e al numero zero non seguì nessun'altra puntata. A partire dall'8 gennaio 2011condusse la prima edizione di Attenti a quei due - La sfida insieme a Max Giusti. Il 20 marzo presentò il Premio Regia Televisiva in prima serata su Rai 1. Il 6 giugno fu il padrone di casa per la terza volta del Premio Barocco, mentre il 17 giugno condusse la terza edizione di Mettiamoci all'opera. Sempre in estate presentò il Festival di Castrocaro.

Il 4 settembre 2011 presentò la puntata pilota dello show Vengo anch'io, che non ebbe seguito, e dall'11 settembre successivo condusse, sempre su Rai 1, i Soliti ignoti - Identità nascoste fino al 18 febbraio 2012; al termine di questa edizione la RAI decise di mettere a riposo il format, e al suo posto tornò in onda Affari tuoi per tutta la stagione. Dopo 9 anni di assenza, il 18 e 19 settembre 2011 tornò a condurre Miss Italia, in onda da Montecatini Terme. Dal 16 al 18 dicembre fu di nuovo il padrone di casa di Telethon. Il 10 febbraio 2012 fu ospite della quinta puntata della seconda edizione di Attenti a quei due - La sfida, ora condotto da Paola Perego. Dal 9 marzo 2012 condusse la prima edizione di Non sparate sul pianista nuovo show prodotto dalla Toro Produzioni, per quattro puntate, il venerdì sera, su Rai 1. Il 25 giugno presentò il Concerto per l'Emilia, evento musicale di beneficenza per la raccolta di fondi per la ricostruzione di due ospedali danneggiati dal terremoto dell'Emilia del 2012.

Il 9 e 10 settembre 2012 condusse Miss Italia. Il 19 settembre fu impegnato nella riproposizione di uno storico programma RAI, Per tutta la vita...?, a dieci anni dall'ultima edizione; il programma, però, stavolta non ottenne buoni ascolti e fu soppresso dopo due puntate, a fronte delle sei inizialmente previste. A dicembre oltre alla consueta maratona Telethon, il 19 dicembre condusse l'evento Buon Natale con Frate Indovino in prima serata su Rai 1. Dal 22 febbraio 2013 condusse il nuovo show Red or black? - Tutto o niente con Gabriele Cirilli, ridotto da otto a sei puntate a causa dei bassi ascolti ottenuti. Il 27 marzo condusse nuovamente il Premio Regia Televisiva, in diretta da Sanremo. Il 28 maggio condusse per l'ultima volta La partita del cuore su Rai 1.

La stagione 2013-2014 vide Frizzi come concorrente alla terza edizione del programma Tale e Quale Show condotto da Carlo Conti, ottenendo parecchi consensi da parte del pubblico, arrivando al quarto posto nella classifica finale. Dal 15 dicembre 2013 condusse nuovamente Telethon: sono per la prima volta insieme i volti più noti della RAI, come Carlo Conti, Antonella Clerici, Flavio Insinna, Mara Venier, Arianna Ciampoli e Paolo Belli. A partire dal 1º febbraio 2014 partecipò in qualità di giurato nella settima edizione del talent show Ti lascio una canzone condotto da Antonella Clerici. Il 9 marzo 2014 condusse per il terzo anno il Premio Regia Televisiva, in prima serata su Rai 1.

Il 10 marzo 2014 fu scelto per condurre una delle più importanti e discusse trasmissioni di Rai 1, L'eredità[28], subentrando a Carlo Conti. Frizzi condusse il programma dal 13 aprile fino al 31 maggio 2014, ottenendo un enorme successo e fu promosso dalla critica specializzata. Per tale successo, il conduttore originale Carlo Conti rivelò che da quel momento ci sarebbe stata una staffetta tra i due alla guida del quiz.

Dal 1º novembre 2014 quindi condusse nuovamente L'eredità fino all'8 marzo 2015 e riportò un grande successo, addirittura maggiore della stagione precedente. Dal 14 novembre 2014 partecipò come concorrente al torneo di Tale e Quale Show, posizionandosi nono nella classifica finale. Il 7 dicembre condusse per il 13º anno la maratona benefica Telethon. Sempre su Rai 1 intervenne come commentatore a bordo campo della seconda puntata di Ballando con le stelle, in onda l'11 ottobre 2014, e a Notti sul ghiaccio, nella puntata del 14 marzo. Il 6 marzo 2015 fu ospite nel ruolo di giurato speciale nella semifinale di Forte forte forte. Il 4 maggio condusse su Rai 1 l'evento sportivo benefico Match for Expo, mentre il 25 maggio fu padrone di casa per la quarta volta del Premio Regia Televisiva. Dal 15 giugno 2015 condusse insieme a Rita dalla Chiesa il nuovo programma La posta del cuore su Rai 1 nel primo pomeriggio in onda dal lunedì al venerdì, fino al 10 luglio 2015. Il 25 giugno condusse, su Rai 3, Vedi chi erano i Beatles, in occasione del 50º anniversario dai concerti dei Beatles in Italia. Dal 3 al 24 luglio condusse su Rai 1 Gli italiani hanno sempre ragione, game show sociologico in 4 prime serate basato su sondaggi del popolo italiano. Il 23 luglio fu il narratore di una puntata di Techetechetè.

Dal 12 settembre al 28 novembre 2015 fu nuovamente giurato nell'ottava edizione di Ti lascio una canzone, mentre a partire dal 27 settembre 2015 condusse nuovamente L'eredità. A dicembre fu nuovamente padrone di casa della maratona Telethon. Il 9 aprile 2016 fu ospite alla seconda puntata di Laura & Paola.

Dal 2 ottobre 2016 condusse L'eredità per la quarta volta e fu confermato anche per l'edizione successiva.

Il 9 dicembre 2016 tornò a Tale e quale show, più precisamente alla puntata natalizia Na Tale e quale show, questa volta in veste di giudice ospite, assieme a Mara Venier.

Filmografia: Non lasciamoci più – serie TV, 14 episodi (1999-2001), Buona giornata (2012)

Doppiaggio:

Cinema: Sceriffo Woody in Toy Story - Il mondo dei giocattoli, Toy Story 2 - Woody e Buzz alla riscossa, Buzz Lightyear da Comando Stellare - Si parte! e Toy Story 3 - La grande fuga Auto Woody in Cars - Motori ruggenti.

Televisione: John Wilkes Booth ne I Simpson.

Videogiochi: Sceriffo Woody in Toy Story 2: Buzz Lightyear to the Rescue, Toy Story Mania!, Toy Story 3: Il videogioco e Disney Infinity

Televisione:

Il barattolo (Rete 2, 1980-1981)

Tandem (Rete 2, 1982-1987)

Pane e marmellata (Rai 2, 1985-1986)

La più bella d'Italia (Rai 1, 1986)

Una notte d'estate (Rai 1, 1988)

Donna sotto le stelle (Rai 1, 1988)

Europa Europa (Rai 1, 1988-1989)

Miss Italia (Rai 1, 1988-2002, 2011-2012)

Festival di Castrocaro (Rai 1, 1989, 2010-2011)

Saint Vincent Estate '89 (Rai 1, 1989)

Saint Vincent Estate '90 (Rai 1, 1990)

I fatti vostri (Rai 2, 1990-1993)

Uno, Due, Tre Vela d'Oro, (Rai 1, 1990)

Miss Italia nel mondo (Rai 1, 1991-1993)

Scommettiamo che...? (Rai 1, 1991-1996, 1999, 2001)

EuroDisney 92 (Rai 1, 1992)

Prove e provini a Scommettiamo che...? (Rai 1, 1992-1996)

Gran premio internazionale dello spettacolo (Canale 5, 1992)

La partita del cuore (Rai 1, 1992-2002, 2005-2013, 2016, 2017)

Anteprima di Scommettiamo che...? (Rai 1, 1994-1995)

Telethon (Rai 1, 1994-1996, 1999, 2005-2016)

Luna Park (Rai 1, 1994-1997)

Festival Disney (Rai 1, 1995)

Luna Park - la zingara (Rai 1, 1995-1997)

Stasera al Luna Park (Rai 1, 1995)

Buon Compleanno Luna Park (Rai 1, 1995)

Atlantam tam (Rai 1, 1996)

Miss Italia Notte (Rai 1, 1996)

Bentornato Luna Park (Rai 1, 1996)

Chi è Babbo Natale? (Rai 1, 1996)

Serata Gemelli (Rai 1, 1997)

Tutti in una notte (Rai 1, 1997)

L'Isola del Tesoro - Grande Festa al Luna Park (Rai 1, 1997)

Domenica in (Rai 1, 1997-1998)

Per tutta la vita (Rai 1, 1997-2000, 2002, 2012)

Superquark - Festa di compleanno (Rai 1, 1999)

Sogno di mezza estate (Rai 1, 2001)

Tanti auguri Italia (Rai 1, 2001)

Tutti a scuola (Rai 1, 2002-2016)

Come sorelle (Canale 5, 2003)

Piazza Grande (Rai 2, 2003-2004)

Cominciamo bene (Rai 3, 2005-2010)

Mister Archimede (Rai 1, 2005)

Ballando con le stelle (Rai 1, 2005) Concorrente

Assolutamente (Rai 1, 2006)

Circo Massimo Show (Rai 3, 2007)

Mi fido di te (Rai 1, 2007-2008)

Soliti ignoti - Identità nascoste (Rai 1, 2007-2008, 2010-2012)

Premio Barocco (Rai 1, 2008, 2010-2011)

La botola (Rai 1, 2008)

Una notte a Sirmione (Rai 1, 2008)

Ciak... si canta! (Rai 1, 2009) Giudice

Musicultura (Rai 1, Rai 3, Rai Italia, 2009-2017)

Mettiamoci all'opera (Rai 1, 2009-2011)

L'anno che verrà (Rai 1, 2009)

Attenti a quei due - La sfida (Rai 1, 2010-2011)

Adamo & Eva (Rai 1, 2010)

Premio Regia Televisiva (Rai 1, 2011, 2013-2015)

Vengo anch'io (Rai 1, 2011)

Non sparate sul pianista (Rai 1, 2012)

Concerto per l'Emilia (Rai 1, 2012)

Buon Natale con Frate Indovino (Rai 1, 2012)

Red or Black - Tutto o niente (Rai 1, 2013)

Tale e Quale Show (Rai 1, 2013-2014) Concorrente

Ti lascio una canzone (Rai 1, 2014-2015) Giudice

L'Eredità (Rai 1, 2014-2018)

Match for Expo (Rai 1, 2015)

La posta del cuore (Rai 1, 2015)

Vedi chi erano i Beatles (Rai 3, 2015)

Gli italiani hanno sempre ragione (Rai 1, 2015)

L'Eredità - Speciale AIRC (Rai 1, 2015-2016)

Techetechetè (Rai 1, 2015) Puntata 41

L'Eredità Show (Rai 1, 2017)

Pubblicità:

Toseroni gelato Blob (1981)

Beghelli Altolà System (1993)

Nissan Primera (1995)

Maina Panettone (1997)

Discografia: Singoli:

1985 - Pane e marmallata

1990 - L'orso (con Salvatore Cascio)

Frizzi nella cultura di massa. Il 18 febbraio 2009 sul settimanale Topolino numero 2778 è stata pubblicata la storia I Bassotti e gli insoliti ignoti dove i furfanti partecipano, imbrogliando, al quiz Soliti ignoti - Identità nascoste condotto da Paprizio Sfrizzi; infatti, due giorni prima della puntata, si sono introdotti nelle case delle identità (scoperte dopo aver rubato la lista dei partecipanti) cercando di individuare i loro hobby o mestieri.

Onorificenze:

Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana «Di iniziativa del Presidente della Repubblica» — 2 gennaio 2015 

Ufficiale Ordine al merito della Repubblica italiana «Di iniziativa del Presidente della Repubblica» — 17 settembre 2008

Riconoscimenti:

1992 - Premio Regia Televisiva Miglior trasmissione di giochi e quiz TV con Scommettiamo che...?

1992 - Telegatto Miglior trasmissione di varietà con Scommettiamo che...?

1993 - Premio Regia Televisiva con I Fatti Vostri

1993 - Premio Regia Televisiva Miglior trasmissione d'intrattenimento con Scommettiamo che...?

1995 - Premio Regia Televisiva Miglior quiz TV con Luna Park

1996 - Telegatto Miglior trasmissione di giochi e quiz TV con Luna Park

1996 - Premio Regia Televisiva categoria Grandi ascolti con Scommettiamo che...?

2004 - Premio Regia Televisiva premio speciale con Piazza Grande

2008 - Premio Regia Televisiva categoria Top Ten con Soliti ignoti - Identità nascoste

2009 - Leggio d'oro "Menzione speciale cartoon"

2011 - Premio Regia Televisiva categoria Top Ten con Soliti ignoti - Identità nascoste

Fabrizio Frizzi, la vignetta sul Fatto Quotidiano e quel messaggio ambiguo: cordoglio eccessivo? Scrive il 30 Marzo 2018 Libero Quotidiano. Una vignetta, su Fabrizio Frizzi, in prima pagina su Il Fatto Quotidiano. Una vignetta di Mannelli ambigua, ambivalente. E che potrebbe far discutere. Nel disegno si vede una ragazza e, soprattutto, si dà conto del suo pensiero: "Che bello che in questo paese uno normo-educato e mediamente perbene al suo funerale venga osannato dalle folle e dai media come una eccezionale rarità... non sia mai che certe doti diventino semplice normalità". Una vignetta ambigua perché sembra che il cordoglio per Frizzi sia dovuto più che altro al fatto che fosse una persona "mediamente perbene" e "normo-educato" piuttosto che, semplicemente, molto amato. Vignetta un poco ambigua perché sembra quasi suggerire che il cordoglio per Frizzi sia stato in qualche misura eccessivo.

I vegani che festeggiano la morte di Fabrizio Frizzi perché ha condotto Telethon. Non sono i soliti leoni da tastiera: sono sciacalli da tastiera che in queste ore hanno inondato Facebook di messaggi di odio nei confronti di Frizzi definendolo torturatore di animali e spiegando che "per fortuna esiste il karma" e che ora i topi da laboratorio hanno avuto giustizia, scrive Giovanni Drago martedì 27 marzo 2018 su Next Quotidiano. «Grazie di tutto Fabrizio», così Francesca Pasinelli, DG di Fondazione Telethon, ha voluto ricordare Fabrizio Frizzi. Il conduttore RAI era infatti stato protagonista di 14 edizioni della maratona tv per la raccolta fondi a favore della ricerca scientifica. «Fabrizio Frizzi è il volto della maratona Telethon» ha scritto Fondazione Telethon su Facebook in un post dove si parla di Fabrizio Frizzi come «uno di famiglia». E non c’è dubbio che – nel suo piccolo – Frizzi abbia fatto molto per sensibilizzare gli italiani sul tema della ricerca scientifica sulle malattie rare. Ma non solo: durante un match de La partita del cuore Frizzi raccontò di aver donato il midollo osseo invitando gli spettatori a fare altrettanto. Ai vegani antispecisti però la morte di Frizzi non fa né caldo né freddo. Anzi in fondo loro sono contenti.

Fabrizio Frizzi è morto? «Allora il esiste il karma». Frizzi non era un eroe, non ha mai detto di esserlo e probabilmente non ha mai voluto esserlo. Era una persona che – come molte in Italia – faceva il suo lavoro e lo faceva bene. Ma soprattutto era un uomo, un marito, un padre. E a quanto è dato di sapere era gravemente malato. Nessuno potrebbe negare che il conduttore RAI aveva tutte le qualità minime per essere definito un essere umano. C’è però una particolare categoria di persone che la pensa diversamente. Non perché Frizzi abbia qualche scheletro nell’armadio o sia stato coinvolto in qualche scandalo o abuso. Semplicemente per il fatto che ha condotto Telethon. Queste persone si definiscono animalisti, vegani o antispecisti. Avrebbero potuto tacere, in fondo tra una settimana è Pasqua e c’è da avviare la solita campagna contro la strage degli agnelli. Hanno scelto invece di far vedere a tutti quanto poco sono umani. Si inizia con il più classico degli insulti. Telethon non piace agli animalisti che la accusano di finanziare ricerche che fanno ricorso alla sperimentazione animale. Di conseguenza anche Frizzi diventa un “vivisettore”, un crudele aguzzino di cagnolini, topi e scimmie. Esiste il karma, scrive un’animalista che ci tiene a farci sapere (il post è pubblico) che non può avere pena “per chi ha condotto Telethon”. Altri festeggiano la morte di Frizzi e fanno “ironia” sul fatto che Telethon non sia riuscita a salvargli la vita: “tutti gli animali negli stabulari che soffrono per niente e tu che promuovevi”. Un’altra pietosa vegana nazi-animalista si appella nientemeno che alla giustizia divina e spera che da lassù Frizzi possa vedere le sofferenze che ha provocato in quanto testimonial per Telethon. Per fortuna non potrà vedere i post di questi amorevoli vegani. Altri non se la sentono di criticarlo troppo. Ad esempio un utente dopo aver sarcasticamente ringraziato Frizzi “per aver contribuito alla sofferenza atroce” degli animali da laboratorio decide di rinfacciare a Frizzi di aver creduto nella ricerca. Ora che la ricerca non l’ha salvato – conclude – chissà se capirà che Telethon “è una truffa”. Non tutti sono d’accordo con l’autrice del post che a questo punto ci tiene a precisare il suo punto di vista. Per Frizzi gli animali erano “stracci vecchi da buttare” e “la fine che ha fatto se l’è cercata”. Ecco cosa succede – conclude – a fidarsi delle cure mediche e della “cacca che i medici mettono in commercio”. La ricerca scientifica, Telethon, le sofferenze dei malati, il dolore dei famigliari di chi non riesce a guarire, i medici: tutti colpevoli, tutti responsabili delle sofferenze degli animali da laboratorio.

Il cortocircuito mentale degli animalisti da tastiera. C’è qualcosa di affascinante nel guardare quanto odio e quanta violenza sanno esprimere persone che in teoria non farebbero male nemmeno ad una mosca e chepredicano il rispetto per le vite di tutte gli esseri viventi. Nessuno escluso. Evidentemente si può fare qualche eccezione quando muore una persona “crudele” come Fabrizio Frizzi. La logica di questi animalisti è così perversa che non si rendono conto che così facendo, e svilendo le sofferenze di tutti quei malati incurabili che ripongono tutte le loro speranze nella ricerca scientifica, di fatto confutano loro stessi. Se ogni vita è importante allora lo sono tutte, non solo alcune. Non si può difendere “la vita” facendo cherry picking tra quelle da tutelare e quelle che invece possono essere mandate al macero. I ricercatori ad esempio fanno una scelta: ritengono che la vita di un essere umano giustifichi il ricorso alla sperimentazione animale (che non è la vivisezione). Gli animalisti da tastiera fanno la scelta opposta, ma non riescono ad ammetterlo. Preferiscono parlare di coerenza. I più pacati e meno “ipocriti” invitano al “silenzio” sulla morte di Frizzi. Un utente scrive ad esempio: “Per rispetto di tutti gli animali che ogni cazzo di fottuto giorno muoiono…mi aspettavo da voi almeno il silenzio!!! Non dico il gioire..ma il silenzio!!IL SILENZIO!!!!”. Sarebbe stato quasi preferibile gioire, ma va bene anche stare zitti. Perché questo è quello che fanno gli animalisti che non sono ipocriti che stanno “dalla parte di chi soffre e di chi muore”. A meno che non si tratti di Fabrizio Frizzi, un uomo che ha sofferto ed è morto ma per il quale evidentemente non vale la pena sprecarsi perché era “il portavoce di Telethon”. Ci sono poi le bufale vere e proprie di chi dice che gli animali usati per la sperimentazione animale sono “i vostri animali presi e portati via” per essere usati come cavie. E tutto finisce in gloria quando da Frizzi e Telethon si riesce ad accostare le sofferenze degli animali a quelle dei bambini vittime della guerra in Sira.

E alla fine arriva la Nuova Medicina Germanica. Ci sono poi altri che utilizzano la morte di Frizzi per i loro biechi scopi di propaganda antiscientifica. Sono gli adepti della Nuova Medicina Germanica e del medico radiato Hamer. Secondo il teorico delle famigerate cinque leggi biologiche i tumori cerebrali non esistono quindi se Frizzi è morto è per colpa di “una flebo di liquidi” e di conseguenza dei medici. Che si tratti di animalisti esagitati che non hanno alcun rispetto per la vita o di profeti di medicine “più vicine all’essere umano” ogni scusa è buona per utilizzare la morte di una persona per fare propaganda. Da una parte ci sono quelli che vogliono farci credere che il conduttore sia morto perché responsabile delle sofferenze degli animali da laboratorio. Dall’altra quelli che vogliono screditare la medicina “ufficiale” e ci spiegano che sono stati proprio i medici ad ucciderlo e che quindi curarsi non serve a nulla. Nel mezzo, fortunatamente, ci sono tante persone normali che hanno fiducia nei medici e che hanno rispetto per il dolore altrui.

Fabrizio Frizzi, troppe persone alla camera ardente: la Rai fa slittare la chiusura di un'ora, scrive il 27 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Un fiume umano, una fila di persone a perdita d'occhio per salutare Fabrizio Frizzi alla camera ardente allestita in Rai. Talmente tante persone per salutare l'amatissimo conduttore che la chiusura della camera ardente è stata fatta slittare di un'ora. Lo ha fatto sapere l'ufficio stampa Rai, che ha dovuto fronteggiare la lunga fila di persone ancora in attesa di poter omaggiare Frizzi.

Fabrizio Frizzi, i funerali a Roma: l'arrivo della ragazza che emoziona l'Italia, scrive il 28 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Commozione a Roma per Fabrizio Frizzi. I funerali del conduttore scomparso domenica notte a soli 60 anni per una emorragia cerebrale hanno visto accorrere alla Chiesa degli Artisti di Roma migliaia di fan, amici, vip della tv e gente comune. Particolarmente emozionante l'arrivo di Valeria Favorito, la ragazza che nel 2000, allora bimba di 9 anni, fu salvata da Frizzi grazie a un trapianto di midollo. Frizzi era diventato donatore nel 1994 perché, spiegò, "avevo visto tre miei amici morire di leucemia".  

Funerali Fabrizio Frizzi, a Roma in migliaia per l'ultimo saluto, scrive Sky 24 il 28 marzo 2018. Nella chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo, l'addio al presentatore scomparso il 26 marzo a causa di un’emorragia cerebrale. Ieri più di 10mila persone sono andate alla camera ardente allestita nella Capitale. Roma ha dato l'ultimo saluto a Fabrizio Frizzi. Nella chiesa degli Artisti di piazza del Popolo si sono svolti i funerali del presentatore morto il 26 marzo all’età di 60 anni a causa di un’emorragia cerebrale. Migliaia i presenti, tra cui molti colleghi del mondo dello spettacolo. Quando il feretro è arrivato in piazza è stato accolto da un lungo applauso, lo stesso che lo ha salutato quando è terminata la messa. "Perdiamo un amico e un fratello. Gli diciamo addio e arrivederci. Lui ha ora raggiunto i suoi cari", ha detto don Walter Insero, che ha officiato la cerimonia. Sulla bara del conduttore fiori gialli sopra una sua foto. Frizzi verrà sepolto nel cimitero di Bassano Romano, paese in provincia di Viterbo. Nella giornata di ieri, oltre 10 mila persone gli hanno reso omaggio nella camera ardente allestita nella sede Rai di viale Mazzini.

"Lo chiamavano il combattente del sorriso". "Mi hanno confidato che negli ultimi mesi lo chiamavano il combattente con il sorriso. Il sorriso era la sua forza", ha detto Don Insero durante l'omelia. "La cifra dell'esistenza di Fabrizio è stata la generosità", ha aggiunto il sacerdote, ricordando anche la sua "capacità di provare compassione". "L'amore che sta ricevendo dimostra che sta raccogliendo quello che ha seminato", ha detto il sacerdote, che poi ha proseguito: "Fabrizio è stato chiamato forse in modo prematuro. Ho apprezzato in lui la spontanea genuinità che gli ha creato anche qualche problema. Qualcuno gli diceva: dovresti centellinare questa tua presenza. Lui accompagnava tutti, si faceva prossimo, partecipava. Questa chiesa assediata dimostra l'affetto delle persone che vogliono ricambiare quello che hanno ricevuto. Siamo in difficoltà perché vorremmo accogliere tutti. Lui non faceva calcoli, voleva aiutare e mettersi a disposizione. Non lo faceva perché era grande filantropo, amava la persona".

"A Natale si commosse per la recita della figlia". A ricordare Frizzi anche le maestre della figlia del conduttore, presenti nella chiesa degli Artisti: "Un padre sempre presente nella vita della piccola Stella: una bimba sempre allegra, gioviale e piena di vita. Di Frizzi il ricordo più bello è quello di Natale, quando Stella presentò la recita dell'intera scuola dell'infanzia e il padre si commosse", hanno raccontato.

Maxischermo in piazza del Popolo. In piazza del Popolo centinaia di persone si son radunate dietro le transenne per assistere alle esequie sui maxischermi. Tante le corone di fiori, tra cui quelle de "gli amici di Sky", "gli amici dei Fatti Vostri" e dei "condomini di via Cortina d'Ampezzo". Tra i presenti anche lo stendardo del liceo "Calasanzio", l'istituto frequentato dal presentatore.

"Fabrizio sempre nel cuore". Tra i primi ad arrivare alla chiese degli Artisti per l’ultimo saluto a Frizzi, il regista e attore Leonardo Pieraccioni: "Bisogna dire addio a Fabrizio - ha detto - ma avercelo sempre nel cuore come tutti i personaggi che ci hanno fatto stare bene e che continuerà in qualche modo". Tra gli altri, presenti anche Alba Parietti, Michele Guardì, Carlo Conti, Simona Ventura, Giancarlo Magalli e la cantante Giorgia. Alle esequie c'era anche l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, che ha detto: "Ho conosciuto Fabrizio Frizzi, e ne ho potuto constatare la disponibilità quando ha partecipato al progetto per i giovani contro la 'ndrangheta. Da tutta la gente che è qui si vede l'affetto per lui, quanto sia stato amato e quanto ha dato alla nostra comunità". Ai funerali anche Valeria Favorito, la ragazza alla quale, nel 2000, Frizzi donò il midollo osseo salvandola dalla leucemia.

Frizzi: conclusi funerali tra applausi e commozione, scrive Giovedì, 29 marzo 2018 Affari italiani. Si è conclusa la cerimonia funebre di Fabrizio Frizzi nella Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo a Roma. Frizzi è scomparso a 60 anni nella notte tra il 25 e il 26 marzo. Migliaia le persone in piazza per assistere ai funerali attraverso il maxi schermo. Dopo l'omelia del sacerdote, Antonella Clerici, Carlo Conti e Flavio Insinna sono intervenuti alla cerimonia leggendo un breve passo per ricordare l'amico e il collega. Il sacerdote ha terminato la funzione dicendo: "L'amore non si cancella, l'amore che Fabrizio ha donato si moltiplica. Lui avrebbe salutato tutti e dato la mano ad ogni persona che è qui in Chiesa e fuori".

Funerali Frizzi: sacerdote, sta raccogliendo quello che ha seminato. "Anche le mie parole qui oggi non hanno molto senso, ci dobbiamo affidare a quelle di Dio. Non possiamo disperare. Fabrizio è stato chiamato in modo prematuro e oggi salutiamo un artista, un amico e un fratello che è stato capace di donarsi. Perchè tanto affetto? Fabrizio sta raccogliendo quello che ha seminato. Non ci sono cose che arrivano così per caso. E' stato un uomo generoso. Mi ha sempre colpito la sua capacità di compassione". Lo ha detto durante l'omelia il sacerdote, don Walter Insero, che sta celebrando il funerale nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma.

Addio a Fabrizio Frizzi. I funerali a Roma in una piazza del Popolo gremita di gente comune, scrive il 28 marzo 2018 "Il Corriere del Giorno". Come già accaduto ieri alla camera ardente nella sede Rai di viale Mazzini, anche oggi ad essere arrivate con largo anticipo sono soprattutto persone comuni per rendere omaggio al conduttore la cui prematura scomparsa ha profondamente commosso anche il pubblico televisivo che ne apprezzava la gioviale semplicità.  ROMA – Un lungo applauso proveniente dal cuore delle migliaia di persone presenti in Piazza del Popolo è stato tributato all’arrivo del feretro all’ingresso della Chiesa degli Artisti per il funerale di Fabrizio Frizzi.  All’ingresso della Chiesa entrano parenti, colleghi e amici per le esequie, alcuni volti noti della televisione hanno avuto dei brevi alterchi con le Forze dell’Ordine che inizialmente filtravano l’ingresso perché la chiesa ormai è quasi gremita. Come già accaduto ieri alla camera ardente nella sede Rai di viale Mazzini, anche oggi ad essere arrivate con largo anticipo sono soprattutto persone comuni per rendere omaggio al conduttore la cui prematura scomparsa ha profondamente commosso anche il pubblico televisivo che ne apprezzava la gioviale semplicità. Numerose le corone di fiori, fra le quali quelle degli “amici dei Fatti Vostri”, “gli amici di Sky” dove lavora come giornalista Carlotta Mantovan, la moglie di Frizzi, e dei “condomini di via Cortina d’Ampezzo” dove abitava. Tra la folla emerge anche lo stendardo del Liceo Calasanzio, l’istituto frequentato dal presentatore. In piazza del Popolo, accanto all’ingresso della chiesa, è stato allestito un maxischermo mobile per consentire alle migliaia di presenti di poter assistere alla messa. Carlo Conti arrivato alla Chiesa degli Artisti ha detto “Per me era un fratello, non riesco a dire altro”. “Era un collega eccezionale sempre pronto a dare una mano agli altri – ha detto Simona Ventura arrivando alla Chiesa degli Artisti, ricordandolo – Mi ricordo una volta nella quale ero scoperta per “Quelli che il Calcio”, mi disse “vengo io Simona non ti preoccupare”. Persone come lui non ci sono più nel mondo veloce e se vogliamo crudele di oggi” aggiungendo “Era una persona fantastica ricorderò per sempre la sua umanità. Per questo piango di rabbia sul fatto che se ne vadano persone come lui, la vita è ingiusta». La conduttrice ha ricordato quando “l’ultima volta avevo incontrato Fabrizio a un altro funerale; soffriva molto ma in silenzio, non ha mai voluto parlare della sua malattia così crudele e malvagia. Questo la dice lunga sullo stile di una persona come lui”. “Bisogna dire addio a Fabrizio ma avercelo sempre nel cuore come tutti i personaggi che ci hanno fatto stare bene e che continuerà in qualche modo” ha detto Leonardo Pieraccioni ricordandolo. “Quando ho condotto Telethon per la prima volta lui era molto più famoso di me. – ricorda Massimo Gilletti – Arrivò per fare la fotografia di rito con tutti i personaggi della trasmissione, c’erano nani e ballerine, gente che sgomitava per essere in prima fila. Lui si mise in fondo, dietro a tutti. Io andai a prenderlo per dirgli di venire davanti, ma lui non volle. Questa è l’immagine più forte che conservo di Fabrizio Frizzi. So che può sembrare retorico dirlo, ma la fama, il successo, non sono niente. Il dolore riporta tutti per terra”. Tra gli altri volti noti arrivati alla Chiesa degli Artisti senza fermarsi con i giornalisti, la sua ex-compagna Rita Dalla Chiesa,  Giorgia con il marito, Alba Parietti, Giancarlo Magalli e Michele Guardì, Anna Foglietta, Paola Cortellesi con il marito Riccardo Milani, Zoro, Paola Saluzzi, il suo grande amico Max Biaggi, Emanuela Aureli, Paolo Bassetti Presidente di Endemol, Max Tortora, Marco Columbro, Flavio Insinna, Paolo Bonolis, Milly Carlucci, Antonella Clerici e l’organizzatrice di Miss Italia, Patrizia Mirigliani. Tra gli altri anche Massimo Ranieri, Claudio Lippi, Valeria, la ragazza a cui Frizzi ha donato il midollo osseo, Paolo Belli e il presidente della Rai Monica Maggioni. È Milly Carlucci, con la voce rotta dall’emozione e dalle lacrime, a leggere le parole del Salmo 23 dell’Antico Testamento: “Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla”. Commossi i vertici Rai presenti in chiesa, Mario Orfeo e la presidente Monica Maggioni. Tra i tanti amici che affollano la chiesa, anche la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, che con Frizzi aveva avviato un progetto sui giovani: “Lo conoscevo per la sua grande disponibilità – ha detto Boschi – e perché ha partecipato a un progetto per i giovani contro la ‘ndrangheta. Da tutta la gente che è qui si vede l’affetto per lui quanto sia stato amato e l’affetto che ha dato a tutta la comunità”. Il sacerdote ha parlato dell’amore che Fabrizio Frizzi ha dato e ricevuto. Don Walter Insero racconta della sua generosità, che poteva sembrare esagerata: “Non lo faceva per pubblicità, lo faceva perché voleva avere una relazione vera con le persone. Si fermava a parlare con tutti. Lui si donava, è stato capace di donarsi. Tutto questo amore si riversa su Carlotta e Stellina. Mi ha sempre colpito la sua capacità di compassione, era capace di patire con le persone, il suo sorriso esprimeva la purezza della sua anima. Un eterno ragazzo com’è stato detto: è vero. Partecipava al dolore degli altri, non lo lasciava indifferente. Quando Fabrizio andava al Bambino Gesù per fare compagnia ai bambini”, racconta, “non chiamava i fotografi. Vi sto parlando dell’anima di Fabrizio, che non è morta, non è in quella scatola di legno. In RAI mi hanno confidato che negli ultimi mesi lo chiamavano ‘il combattente col sorriso’. Fabrizio ha combattuto per la malattia. ‘Mia figlia Stella’, diceva Fabrizio, ‘non è figlia del mio egoismo, volevo comunicarle l’amore della vita‘. Non è stato un personaggio, è stata una persona, considerato uno di casa”. Sull’altare dopo è salito il fratello di Fabrizio, Fabio Frizzi. È una cerimonia religiosa piena di affetto e rispetto. “Salutiamo un amico, un artista, un fratello”, ha esordito il celebrante, don Walter. “La cifra dell’esistenza di Fabrizio è stata la generosità”, ha detto il sacerdote, ricordando anche la sua «capacità di provare compassione. L’amore che sta ricevendo dimostra che sta raccogliendo quello che ha seminato”. Don Walter Insero il sacerdote che ha officiato la messa funebre conosceva bene il conduttore, sapeva com’era impegnato nel sociale. Con lui partiva con i treni dell’Unitalsi per stare al fianco dei malati a Lourdes. Tra le tante corone di fiori delle istituzioni, delle associazioni di volontariato, c’è un cuore di ciclamini con un semplice nastro con la scritta: una mamma. Alla fine della cerimonia, partita l’auto con la salma di Fabrizio Frizzi, suo fratello Fabio si è avvicinato alle transenne, ringraziando la gente comune dell’affetto manifestato, e salutando tutti ha detto “pensate come sarà adesso la mia vita senza di lui accanto”. Centinaia di persone dietro le transenne hanno seguito da un maxischermo le esequie di Fabrizio Frizzi. Una folla partecipe che ha accompagnato con segni della Croce, preghiere e qualche lacrima ogni passaggio della funzione religiosa. I volti erano attenti e commossi. Sono state davvero poche le persone che hanno sfoderato il telefono cellulare per scattare foto o parlare tra loro. Sono state assorte e silenziose come se fossero all’interno della chiesa, come se partecipassero al funerale di un amico, qualcuno che conoscevano personalmente. In realtà sono solo persone comuni che hanno voluto testimoniare l’affetto per il loro beniamino, ma anche il rispetto per l’uomo. Sui socialnetwork oltre 26mila persona hanno seguito la diretta, con oltre 4mila condivisioni. Un’ennesima conferma di quanto Fabrizio Frizzi fosse amato dal pubblico, dalla gente comune, senza distinzione di età, bambini, uomini, donne, anziani. Ed anche il cielo sembra essere addolorato e triste stamattina a Roma. Il presentatore verrà seppellito nella sua Bassano Romano, comune viterbese tra i laghi di Bracciano e Vico, nella cappella di famiglia, accanto ai suoi genitori.

Gianfranco D'Angelo: "Io respinto ai funerali di Frizzi". Gianfranco D'Angelo conosceva Fabrizio Frizzi. Anche lui voleva dargli l'ultimo saluto in quella chiesa gremita degli Artisti a piazza del Popolo. Ma è stato respinto, scrive Franco Grilli, Giovedì 29/03/2018, su "Il Giornale". Gianfranco D'Angelo conosceva Fabrizio Frizzi. Anche lui voleva dargli l'ultimo saluto in quella chiesa gremita degli Artisti a piazza del Popolo. Ma il comico non è riuscito ad entrare e così su Facebook, in modo del tutto pacato e rispettoso del dolore dei familiari di Frizzi, ha affermato: "Quando un funerale diventa spettacolo e non ti viene permesso di entrare in Chiesa per salutare un Collega che ci lascia, allora consideri che si può essere vicini alle persone anche senza essere ripresi dalla TV: Mi hanno respinto dicendo che era una cerimonia "per pochi intimi". No comment. Ciao Fabrizio, ti porterò sempre nel cuore". Le sue parole però hanno immediatamente sollevato alcune polemiche soprattutto sui social. E di fatto lo stesso D'Angelo ha dovuto chiarire nuovamente la sua posizione sempre su Facebook per spegnere un caso che si era acceso proprio sul funerale di Frizzi: "Non amo le polemiche, specialmente in questo caso. Ma rispondo a chi non è d'accordo su quello che ho scritto. Quando qualcuno ti dice: non può entrare nessuno, solo i familiari, e poi, guardi che c è la ripresa televisiva... e la ripresa televisiva, come la vogliamo chiamare? Comunque, ho espresso solo un piccolo dispiacere, rispetto a quello molto più grande di un mio Amico che non c'è più".

Addio Emiliano Mondonico, ribelle e allenatore di un calcio romantico. Morto a 71 anni. Da calciatore preferiva un concerto alla partita, fu artefice della favola Cremonese, passò alla storia per la sedia alzata ad Amsterdam, scrive Giovanni Capuano il 29 marzo 2018 su "Panorama". Emiliano Mondonico, storico allenatore morto all'età di 71 anni dopo aver combattuto una lunga battaglia con il cancro ha rappresentato molto per il calcio italiano pur non avendo il palmares ricco di tanti colleghi. E' stato uno e centomila lungo tutta la sua carriera, iniziata da calciatore nella provincia lombarda e finita da tecnico a Novara quando già il male lo aveva aggredito. Talento naif, spirito ribelle, uomo capace di intuizioni e folgorante nella battuta. Coraggioso nel voler raccontare a tutti la sua lotta per la vita, le quattro operazioni dopo le ricadute, la speranza di non dover mollare. Un simbolo in cui gli amanti del pallone si sono spesso riconosciuti sin dall'inizio e che ora viene pianto nel momento della morte. Mondonico non è mai stato allineato. Anzi. Raccontarlo tenendo dentro tutte le sue molteplici anime è difficile, forse impossibile In tutte, però, ci sono state umanità e grandi qualità.

Talento ribelle da calciatore. Nato calcisticamente nella squadra di Rivolta d'Adda, suo paese natale, Emiliano Mondonico ha vestito le maglie di Cremonese, Torino, Monza, Atalanta e soprattutto Torino. Spirito ribelle, ruolo atipico alla Gigi Meroni, ha chiuso senza la soddisfazione di vincere nulla se non campionati minori ma non per questo senza aver lasciato il segno. Lui stesso amava raccontare di aver mal utilizzato una parte del suo talento, ma di non essersene poi pentito più di tanto. Parlava della sua carriera da calciatore con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe raccontato il resto della sua parabola. Aveva confessato di aver preferito un concerto dei Rolling Stones a una partita della Cremonese. Aprile '67: squalificato apposta pur di poter scappare al Palalido per mischiarsi ai suoi coetanei.

L'immagine simbolo della serie nel cielo di Amsterdam. Certamente è stato molto più da allenatore che da calciatore. Il punto più alto lo ha raggiunto sulla panchina dell'amato Torino, di cui incarnava spirito e passione: Coppa Italia vinta nel 1993 e la celebre finale di Coppa Uefa persa (senza essere battuto sul campo) contro l'Ajax nel 1992. L'ora e il giorno che hanno consegnato alla leggenda l'immagine iconica del Mondo, con la sedia alzata sopra la testa a protestare in mezzo allo stadio De Meer di Amsterdam per un rigore non concesso ai granata che avrebbe cambiato la storia sua e del club. Rigore che, avrebbe poi confessato più avanti, gli sembrava netto, ingiustizia impossibile da cancellare. Quell'immagine è diventata il suo marchio di fabbrica e ha spinto i tifosi del Toro ad alzare una sedia in segno di solidarietà quando Mondonico ha scoperto di essere fragile e malato. Da allenatore è stato anche l'artefice della bella favola della Cremonese, restituita alla Serie A dopo oltre mezzo secolo. La squadra del giovane Vialli che giocava un calcio bellissimo per estetica ma poi, contro i grandi, perdeva quasi sempre. Poi l'Atalanta (promozione in Serie A e semifinale di Coppa delle Coppe), il Napoli, la Fiorentina (altra promozione nella massima divisione) e i giri finali in provincia. Mai la grande chiamata, altro cruccio ben celato.

La coraggiosa lotta contro la malattia. Nell'inverno 2011 la scoperta di un tumore allo stomaco "grande come un pallone da calcio". Il momentaneo ritiro, la paura e il dolore dell'incertezza, le operazioni e la rinascita. Aveva scelto di raccontare a tutti il suo calvario per farsi simbolo della lotta contro una male che definiva "non invincibile". Non si era tirato indietro mai, nemmeno dopo il ritorno del tumore e nuove tappe di una vicenda dolorosissima e piena di speranza. Era diventato apprezzato opinionista televisivo. Arguto, diretto, mai banale. Si era fatto amare da tutti anche in queste terza vita che portava avanti vivendo nella sua campagna lombarda circondato dagli animali. Si era dedicato anche agli altri: ambasciatore del Csi (Centro Sportivo Italiano), sempre in prima fila nel farsi promotore di iniziative per i giovani in difficoltà, bisognosi di una seconda chance nella vita. Generoso. Anche per questo il mondo del calcio lo piange, simbolo di uno sport romantico che non c'è più e persona profonda che è impossibile racchiudere in un solo ricordo.

Lutto nel calcio, è morto Emiliano Mondonico. Si è spento all'età di 71 anni. Dopo una carriera da calciatore allenò, tra le altre squadre, Cremonese, Atalanta, Torino e Napoli. Negli ultimi anni, scrive Raffaello Binelli, Giovedì 29/03/2018, su "Il Giornale". Ha lottato fino alla fine contro la malattia, senza mai perdere il sorriso e la sua incredibile umanità. Emiliano Mondonico (il Mondo) si è spento a 71 anni, lasciando una profonda tristezza nel mondo del calcio. Cresciuto nelle giovanili Rivoltana, la squadra del suo paese, Rivolta d'Adda (Cremona), aveva iniziato a fare sul serio con la Cremonese, per poi spiccare il volo in serie A con la maglia del Torino. Dopo le casacche del Monza e dell'Atalanta, chiuse la carriera da calciatore vestendo per sette anni quella della Cremonese. Ed è proprio che Cremona che iniziò la sua seconda vita, quella di allenatore, partendo dalle giovanili. Passò poi alla prima squadra, e in seguitò allenò, tra le altre, Como, Atalanta, Torino, Napoli, Fiorentina. Nel 2011 lasciò la panchina dell'Albinoleffe, rendendo nota la sua malattia. Vinse diverse battaglie contro il male, tornando a fare il mestiere che amava, quello del tecnico. "Il calcio mi dà la forza di per continuare la sfida", raccontò una volta. Un'altra attività che iniziò a praticare, con buoni risultati una volta rimessosi dalle prime battaglie contro il male, fu quella di opinionista tv, a "La Domenica Sportiva" e in altre trasmissioni Rai e anche su tv locali. Fu sulla panchina dell'Atalanta che centrò una mezza impresa: entrò in semifinale in Coppa delle Coppe (1987-88) affrontando la squadra belga del Malines (che poi vinse il torneo sconfiggendo l'Ajax in finale). Visse stagioni altrettanto belle alla guida del Torino (Torino (che condusse in finale di Coppa Uefa nel 1991/92). Tornò a Bergamo, coi nerazzurri, e poi iniziò a girare: Napoli, Cosenza, Fiorentina, AlbinoLeffe, Cremonese e, infine, il Novara, l'ultima squadra che guidò nella massima serie. Il calcio era la sua vera grande passione. Gli piaceva insegnarlo, non solo ai professionisti: amava spiegare tutti i trucchi del pallone, con altrettanta passone, coi ragazzini delle scuole, nella sua Rivolta, e con un gruppo di ex tossicodipendenti. Commovente il saluto che la figlia Clara ha rivolto a suo padre, con un post su Facebook: "Ciao Papo....sei stato il nostro esempio e la nostra forza... ora cercheremo di continuare come ci hai insegnato tu... eternamente tua".

Il calcio piange Emiliano Mondonico. E' stato uno degli allenatori più amati. Se n'è andato dopo anni di lotta contro un tumore. Sulla sua pagina Facebook il saluto della figlia Clara, scrive Paolo Gallori il 29 marzo 2018 su "La Repubblica". È morto Emiliano Mondonico. L'allenatore si è spento a Milano, allo scadere della sua ultima, estenuante partita: la lotta contro un cancro. Sulla pagina Facebook di Emiliano, il toccante saluto di sua figlia figlia Clara: "Ciao Papo.... sei stato il nostro esempio e la nostra forza... ora cercheremo di continuare come ci hai insegnato tu... eternamente tua". Mondonico aveva compiuto 71 anni il 9 marzo, esattamente 20 giorni fa. Ancora Clara su Facebook aveva scritto un post di auguri. "Ehi Papo auguri!!! 71 anni di amore puro... la vita ti ha messo davanti a partite che sembravano impossibili da vincere ma tu, con la forza che ti contraddistingue, hai dimostrato di essere in grado di superare tutto... per cui festeggiamo la tua giornata senza se e senza ma perché ti meriti il meglio... perché senza te nulla avrebbe senso... sorridi... sorridiamo e brindiamo a te che sei il nostro esempio... il nostro maestro...". Il maestro Emiliano Mondonico ha lottato a lungo contro il cancro. Di quella lotta aveva parlato quattro mesi fa, in un'intervista al Corriere dello Sport. “Ci sono trenta probabilità su cento che la Bestia ritorni - diceva -. Ma, credimi, dopo quattro operazioni, l’asportazione di una massa tumorale di sei chili, di un rene, di un pezzo di colon e di intestino, sei pronto a tutto. E, ogni giorno di più, apprezzi il tempo che ti è dato. Il cancro non è invincibile, il calcio mi dà la forza per continuare a sfidarlo”. E la memoria torna a sette anni fa. Mondonico allenava l'Albinoleffe in Serie B, quando gli fu diagnosticato il tumore all'addome. Lasciò temporaneamente la panchina per essere operato il 31 gennaio. Dopo l'intervento, il rientro a tempo di record: il 14 febbraio eccolo di nuovo alla guida dell'Albinoleffe, che a giugno conquistò la salvezza. Mondonico avrebbe dovuto commentare quel successo con i giornalisti, ma si eclissò dopo qualche attimo dalla conferenza stampa. Uomo vero e sanguigno, emotivamente autentico e passionale, l'allenatore non si sentiva in grado di celare in pubblico quanto stava accadendo all'uomo. Il tumore si era ripresentato, e con esso la paura di non farcela. Questo fu il suo messaggio, prima di abbandonare la sala: "Ho conosciuto un avversario particolare in corso d'opera, ma non posso ancora dire di averlo sconfitto. Convivere con il pensiero di qualcos'altro oltre all'Albinoleffe non è affatto semplice. Come faccio a regalarvi certezze se non sono sicuro di essere qui tra un mese?". Con quel pericolo incombente Mondonico era andato comunque avanti, fedele alle qualità che ne hanno fatto un simbolo del calcio italiano: la tempra, il coraggio. E la sua storia di tecnico iniziata dove aveva chiuso quella di calciatore. Alla Cremonese, prima come allenatore delle giovanili, poi alla guida della prima squadra nella stagione 1981-82. Due anni e i grigiorossi di Mondonico tornarono in Serie A, dove mancavano da 54 anni. La gavetta più autentica per Mondonico, che si definiva allenatore "pane e salame". Emblematico quel suo personale filotto di ben cinque promozioni in serie A. Dopo quella con la Cremonese, ancora con l'Atalanta (1987-88 e 1994-95), con il Torino (1998-99) e con la Fiorentina, altra nobile decaduta, che Emiliano riportò nella massima serie nella stagione 2003-04, entrando per sempre nel cuore dei tifosi viola. Ma ancor prima c'era stata la sua storia d'amore con il Toro, che Mondonico aveva guidato in una fantastica cavalcata europea fino alla finale di Coppa Uefa del 1992. Nel doppio confronto con il blasonato Ajax di Van Gaal i granata furono sconfitti ma non piegati. Anche da un arbitro contro cui Emiliano alzò una sedia in segno di protesta. Per quella plateale manifestazione di dissenso Mondonico si vide assegnare una giornata di squalifica. Mai scontata, perché l'Europa era stata una grande avventura, ma il mondo di Emiliano era il calcio di casa sua.

Addio a Emiliano Mondonico: fece grandi Toro e Atalanta. Il "Mondo" si è spento a 71 anni dopo una lunga battaglia contro un tumore: riportò anche in A la Cremonese dopo 54 anni, scrive Guglielmo Longhi su La Gazzetta il 29 marzo 2018. Lottava col cancro da sette anni, lottava con rabbia come quando era in panchina. Emiliano Mondonico era così, un’icona nazional-popolare del calcio pane e salame. Generoso, ribelle, spiazzante, mai banale. Quello che, da giocatore, si faceva squalificare apposta per non perdere il concerto dei Rolling Stones al Palalido di Milano. Ma che amava anche i Beatles, tanto da aver sperato fino all’ultimo di seguire a Liverpool l’amata Atalanta che lo scorso dicembre ha umiliato l’Everton. Quello che nella sera della finale Uefa del Torino ad Amsterdam alzava la sedia per protestare contro l’arbitro. Nell’immaginario collettivo quel gesto è diventato il simbolo di chi non sopportava le ingiustizie: dopo la prima operazione, decine di granata si ritrovarono al Filadelfia, che era ancora un rudere, alzando una sedia… A Firenze, poi, gli hanno dedicato una via. Amatissimo, oltre i colori della maglia. "Ci sono trenta possibilità su cento che la Bestia ritorni", aveva detto qualche mese fa pensando al controllo di febbraio. Dopo quattro interventi, l’asportazione di una massa tumorale di sei chili, di un rene, di un pezzo di intestino, aspettava la Bestia con il solito coraggio. "Il calcio mi dà la forza di per continuare la sfida", diceva e ripeteva a chi lo conosceva e lo amava. Aveva compiuto 71 anni appena 20 giorni fa.

CHE NOTTE COL MALINES — L’Emiliano di Rivolta d’Adda ha attraversato diversi decenni del calcio di provincia, e non. Da giocatore: Cremonese, Torino, Monza, Atalanta, ancora Cremonese. Da allenatore: nel 1984 riporta la Cremonese dopo 54 anni in A, nel 1988 fa salire l’Atalanta ed è protagonista di una straordinaria corsa fino alle semifinali di Coppa Coppe col Malines. La partita di Bergamo, una sconfitta per 2-1, è rimasta scolpita nella memoria dei tifosi nerazzurri. Poi vive un’esaltante esperienza col Torino (vedi la sedia ricordata sopra). Torna all’Atalanta un’altra volta, dal 1994 al 1998, va ad allenare al Sud (Napoli e Cosenza), guida la Fiorentina, i cugini di campagna dei bergamaschi (l’AlbinoLeffe), ancora la Cremonese, prima di chiudere col Novara, l’ultima squadra allenata quando la malattia si era già manifestata. Nel 2012 abbandona il calcio professionistico, non il calcio, quello ruspante che non aveva mai dimenticato. Era un testimonial del Csi e dei suoi valori di lealtà sportiva e rispetto del prossimo; allenava i ragazzi delle medie di Rivolta, gli ex alcolisti e degli ex tossicodipendenti. E faceva il commentatore in tv, con passione e competenza. Sì, il Mondo mancherà a tantissime persone.

E' morto Luigi De Filippo, ultimo erede della grande dinastia teatrale. L'attore, figlio di Peppino e nipote di Eduardo, si è spento a Roma all'età di 87 anni. Il cordoglio di Gentiloni, Franceschini, Carfagna, de Magistris, De Luca, Bassolino, Fico, Nino D'angelo, scrive il 31 marzo 2018 "La Repubblica". È morto Luigi De Filippo.  Aveva 87 anni. Attore, regista e commediografo, figlio di Peppino De Filippo e nipote di Eduardo, ultimo erede della storica dinastia, era nato a Napoli il 10 agosto 1930. Fino a metà gennaio era stato in scena, con "Natale in casa Cupiello" di suo zio Eduardo, al teatro Parioli di Roma, di cui era direttore artistico. E' proprio al Parioli ha in serbo che lunedì sarà allestita la camera ardente dalle 15 alle 21. I funerali martedì alle 11.30 è indetto il funerale nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma.

Paolo Gentiloni: "Ricordo Luigi De Filippo ultimo grande di una famiglia che ha fatto grande il nostro teatro. Roma lo ringrazia anche per l'impegno di questi anni al Teatro Parioli". Così su Twitter il presidente del Consiglio.

Dario Franceschini: "Con la sua scomparsa, "il teatro italiano perde uno dei suoi maggiori autori e interpreti, che con ironia e leggerezza ha caratterizzato il secondo Novecento del nostro palcoscenico, rinnovando la tradizione teatrale partenopea. Esponente di una famiglia che ha reso grande la tradizione scenica napoletana, De Filippo, nel corso della sua intensa carriera, è stato attore, regista e commediografo di successo. Sono vicino alla famiglia De Filippo in questo triste giorno per la cultura italiana".

Mara Carfagna: "La famiglia De Filippo rappresenta la storia del teatro italiano, una pietra miliare della nostra cultura. Con Luigi, figlio dell'indimenticabile Peppino, perdiamo un pilastro dell'arte. La nostra vicinanza ai familiari, a chi gli ha voluto bene e a tutti gli italiani che hanno amato l'ultimo erede di una grande dinastia teatrale". Lo scrive sulla sua pagina Facebook Mara Carfagna, vicepresidente della Camera dei deputati.

Luigi de Magistris: “Esprimo il cordoglio mio personale, dell'amministrazione e della Città di Napoli per la fine terrena di Luigi De Filippo, grandissimo attore e regista, uomo di raffinata e profonda cultura. Figlio dell'immenso Peppino, con Luigi se ne va l'erede di una famiglia che è stata protagonista del teatro napoletano in tutto il mondo. Ai familiari di Luigi, che ho avuto l'onore di conoscere ed apprezzarne anche la sua umanità e sensibilità, le condoglianze del popolo napoletano”.  È il messaggio del sindaco di Napoli.

Vincenzo De Luca: "La scomparsa di Luigi De Filippo lascia un grande vuoto in tutti noi. Erede della famiglia che rappresenta non solo il teatro ma l'arte, la cultura e l'umanità di Napoli, Luigi De Filippo è stato un grande protagonista e non solo sulle scene sempre con passione, ironia, intelligenza. Profondo cordoglio e vicinanza alla sua famiglia". Così su Facebook il presidente della Regione Campania.

Antonio Bassolino: "Addio a Luigi De Filippo, ultimo erede di una straordinaria famiglia napoletana e teatrale. Era figlio di un mito come Peppino ma ha saputo affermare una propria strada, lasciare un segno suo, essere Luigi. Grazie di tutto, un bacio". E' il ricordo pubblicato sui social dall'ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania Antonio Bassolino.

Filippo Patroni Griffi: "Con Luigi De Filippo scompare un attore bravo e popolare, tra le ultime espressioni di una commedia dell'arte napoletana, che nelle sue interpretazioni ha fatto sorridere e riflettere generazioni di italiani". Questo il ricordo del presidente del teatro Mercadante di Napoli nonché presidente aggiunto del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, che esprime ai famigliari "cordoglio per la gravissima perdita".

Roberto Fico, presidente della Camera su Twitter scrive: "Ci ha lasciati #LuigiDeFilippo, grande attore e regista, ultimo erede di una famiglia che ha fatto la storia del nostro teatro e a cui va la nostra riconoscenza. Ciao, Maestro".

Nino D'Angelo, direttore artistico del teatro Trianon Vivian: "Con la scomparsa di Luigi De Filippo il teatro è più povero. Con lui scompare l'ultimo erede della più importante dinastia teatrale che ha calcato i palcoscenici internazionali. Lo ricordo al Trianon Viviani otto anni fa, quando portò in scena, da protagonista e regista, un titolo classico di Peppino e Titina De Filippo, 'Quaranta... ma non li dimostra', attorniato da giovani attori ai quali amava trasfondere l'esperienza, la disciplina e il piacere del fare teatro. Con il cordoglio, a nome del Trianon Viviani, esprimo la vicinanza alla moglie, donna Laura Tibaldi, alla famiglia, e alle maestranze del teatro Parioli che dirigeva".

Luigi De Filippo, settant'anni di carriera tra teatro e cinema. La vita. Nato a Napoli il 10 agosto 1930, Luigi De Filippo debutta a 21 anni nella compagnia paterna. Uomo affabile e di bell'aspetto, negli anni Sessanta appare in qualche film della commedia italiana. Nel 1978 è protagonista dello sceneggiato "Storie della camorra" e nel 1987 interpreta il giudice Venturi nella ficion tv "La piovra 3". Ma quella per il teatro è diventata negli anni una passione esclusiva. Nel 1960 sposa a Roma l'attrice inglese Ann Patricia Fairhurst, dalla quale poi si separa dopo qualche tempo. Nel 1970 sposa l'attrice francese Nicole Tessier dalla quale ha nel 1972 la figlia Carolina, che lo ha reso nonno nel 2005. Rimasto vedovo, sposa nel 1997 a Roma Laura Tibaldi. Nel 1978 lascia la compagnia paterna per fondarne una propria; oltre a recitare le commedie del padre Peppino e dello zio Eduardo e a scriverne di sue, porta in scena anche autori classici come Gogol, Moliére, Pirandello. Il 28 giugno 2011 succede a Maurizio Costanzo nella direzione artistica del Parioli" di Roma che cambia così il nome in Teatro Parioli-Peppino De Filippo. Oltre che attore e regista, Luigi De Filippo è stato anche autore di commedie di successo. Le sue opere, fra cui "La commedia de re buffone e del buffone re", "Storia strana su di una terrazza napoletana", "Buffo napoletano", "Come e perché crollò il Colosseo", "La fortuna di nascere a Napoli", sono state più volte rappresentate sia in teatro, sia in Italia che all'estero, che in televisione. A sua firma anche alcuni libri: "Il suicida", "Lo sgarro", "Pulcinella amore mio!", "il segreto di Pulcinella", "Buffo napoletano", "De Filippo & De Filippo", "Oje vita, Oje vita mia!", "La fortuna di nascere a Napoli", e l'autobiografia "Un cuore in palcoscenico".

Addio a Luigi De Filippo, ultimo erede della dinastia di attori. L'attore aveva 87 anni. Fino a metà gennaio era stato in scena a Roma con "Natale in casa Cupiello" dello zio Eduardo, scrive Angelo Scarano, Sabato, 31/03/2018, su "Il Giornale". Lutto per il mondo del teatro: è morto a 87 anni a Roma l'attore, regista e commediografo Luigi De Filippo. Nato a Napoli il 10 agosto, Luigi era figlio di Peppino De Filippo e nipote di Eduardo. Era l'ultimo erede della storica dinastia. De Filippo aveva debuttato nel 1951, a 21 anni, nella compagnia paterna. Negli anni sessanta era apparso in qualche film della commedia all'italiana, ma il teatro è sempre stato il suo grande amore. Fino a metà gennaio era stato in scena, con "Natale in casa Cupiello", al Teatro Parioli di Roma di cui era direttore artistico. "Un risarcimento della vita", l'aveva definito nella sua ultima intervista a il Giornale, parlando di papà Peppino e zio Eduardo: "Per una vita intera ho tentato di rappacificare mio padre con mio zio", raccontava a gennaio, "E talvolta ci riuscivo anche. Ma durava poco. C’era fra loro una rivalità forse inevitabile: la gelosia di apparire il migliore, la smania di dimostrarsi il più bravo. E due galli nello stesso pollaio...". Luigi De Filippo è autore di commedie di particolare successo. Le sue opere, fra cui "La commedia de re buffone e del buffone re", "Storia strana su di una terrazza napoletana", "Buffo napoletano", "Come e perché crollò il Colosseo", "La fortuna di nascere a Napoli", sono state più volte rappresentate sia in teatro che in televisione. Nel 1989 al Festival delle Ville Vesuviane Luigi De Filippo presenta una sua personalissima interpretazione in lingua napoletana del "Malato immaginario" di Moliére, e vince il Biglietto d'oro Agis come campione d'incassi, ripetendosi poi nel 1990. Con la sua compagnia, oltre ai testi di famiglia ha recitato, tra gli altri, anche Gogol e Pirandello. Per parte del decennio successivo è direttore artistico del Teatro delle Muse di Roma, e nel 1999, insieme alla moglie Laura Tibaldi, costituisce la società "I due della città del sole", impegnandosi a produrre non solo i suoi spettacoli, ma anche opere di altri giovani attori e autori napoletani. Nel corso della sua carriera, poi, Luigi ha fatto anche alcune incursioni in campi diversi da quello del teatro. Per la tv ha scritto vari testi: "Peppino al balcone", "P come Peppino", "L'applauso di questo rispettabile pubblico", "Buona sera, con Peppino De Filippo". Inoltre, Luigi De Filippo ha scritto alcuni libri: "Il suicida", "Lo sgarro", "Pulcinella amore mio!", "il segreto di Pulcinella", "Buffo napoletano", "De Filippo & De Filippo", "Oje vita, Oje vita mia!", "La fortuna di nascere a Napoli", e infine "Un cuore in palcoscenico", autobiografia edita da Mursia. Luigi De Filippo è interprete di circa 50 film e di vari sceneggiati televisive, e ha interpretato e diretto numerose commedie per la Rai. Nel 2001 ha festeggiato i suoi cinquanta anni di attività teatrale, ricevendo, fra gli altri riconoscimenti, il Premio Personalità Europea in Campidoglio. Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel 2005 lo ha insignito della onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica per particolari meriti artistici.

Luigi, cugino di Luca.

Teatro, “Addio Luca De Filippo, amico carissimo. Eduardo mi disse: Non lasciatelo solo”. Il ricordo del critico teatrale di Repubblica che lavorò accanto al padre e al figlio. Scrive Giulio Baffi il 27 novembre 2015. L'ho salutato sorridendo un lunedì pomeriggio di poche settimane fa: ci vediamo sabato ed abbiamo tutta la giornata per parlare. Non c'è stato sabato e non abbiamo parlato. Una telefonata per sapere come stava, ricoverato all'improvviso. E non ce lo aspettavamo. L'ho salutato ieri, mentre dormiva incosciente nel suo letto, e chissà se in qualche modo la sua mente ormai confusa per sempre percepiva l'amore di chi gli stava intorno, della sua grande e generosa famiglia, di noi, ancora stupiti per quel male così repentino che ce lo portava via all'improvviso. Addio Luca, amico mio carissimo. Che avrei dovuto scrivere per lui il mio saluto, l'ultimo, non l'avevo messo in conto. Tante volte ho riportato, fedele cronista, il suo pensiero, la sua garbata polemica, i suoi progetti, in interviste che, schivo com'era, dovevo lottare per farmi concedere. Tante volte ho scritto dei suoi spettacoli, del suo essere attore e regista attento, intelligente, sensibile, divertente, profondo, rispettoso della commedia che aveva messo in scena e dei suoi prediletti compagni di lavoro. Ed ora scrivo di Luca perché non c'è più, perché la voce di quell'amico caro come un fratello minore non la sentirò più, perché non ci sarà più il suo sorriso sfottente a rallegrarmi e a spronarmi. Una vita, è passata una vita, la nostra. Ed eravamo tanti, giovani e lieti e con i nostri grandi e piccoli problemi da dividerci e tanti progetti da realizzare. La nostra vita è scorsa rapida in parallele occasioni di lavoro e di incontri. Amici sinceri. Amici sinceri, a dividerci i sogni, gli affetti. Le mogli amiche, i nostri figli visti crescere con affetto, amici anche loro. A volte non ci vedevamo per mesi, a volte erano le ore della giornata che ci inseguivano per dirsi tante cose. Le lunghe ore trascorse nel suo camerino, parlando di teatro, di attori in cui credere, di nuovi autori, di giovani registi, di spettacoli messi in scena. E quelli che avevo visto erano tanti e lui curioso sempre me ne chiedeva. Ho avuto una stima profonda per quel giovane testardo e coraggioso che era salito in scena sapendo che sarebbe stato, probabilmente per tutta la vita, "il figlio di Eduardo". Piccolissimo era stato, come tutti i figli della sua grande famiglia e come tanti altri figli d'arte nel teatro napoletano, il "Peppeniello" di "Miseria e nobiltà". Un battesimo e una investitura, che si era ripetuta, poi, quando da Luca Della Porta era salito in scena nella bella edizione de "Il figlio di Pulcinella" con cui si era guadagnato il primo applauso e la fiducia di quel suo padre rigoroso e amato. Eduardo gli diede il benvenuto tra gli attori della sua Compagnia presentandolo al pubblico e affidandogli una sua eredità. Eredità pesante che Luca ha saputo onorare in anni di lavoro duro, prima al fianco di quel suo padre rigoroso e spigoloso che pure gli voleva un gran bene. E quel suo apprendistato di capocomico durato tanti anni, l'ha poi riportato, egualmente rigoroso ma più generoso da capocomico alla guida della sua Compagnia, l'Elledieffe, con cui, attore e regista, ha messo in scena tanti dei capolavori paterni e tanti spettacoli di drammaturgia contemporanea firmati da altri autori. Mi capita spesso di trovare su Rai5 qualcuna delle tante commedie registrate da Eduardo, prezioso documento di un teatro grande, divertente, emozionate. Sempre in quelle commedie c'è Luca. L'altra notte, mentre l'angoscia per questa fine che già ci sembrava imminente mi attanagliava il cuore, l'ho visto, era il giovanissimo baroncino de "La Santarella" magro magro, vivace vivace, talmente pieno di energia e di buffa allegria che rimasi incantato a vederlo. È così, in tutte quelle commedie registrate, che possiamo leggere il suo percorso d'attore cresciuto nel tempo "alla gavetta", in piccole parti prima, e mano a mano a costruire personaggi da ricordare per maturità e sapienza. Qualche titolo che significò per noi amici divertimento e per lui dura fatica e disciplina. Lo ho ammirato per questo. E quel meraviglioso "Nennillo", ottuso e protervo, fragile e mariuolo, che s'aggirava nella casa di Luca Cupiello non potrò mai dimenticarlo. E se lo confronto con quello straordinario Gennaro Iovine protagonista di "Napoli milionaria!" capisco quanto lungo e complesso è stato il suo percorso di attore. Amava divertirsi, ma non sempre il suo pubblico glielo concedeva, allora dopo una delle commedie più comiche doveva metterne in scena una più drammatica. Anche quando avrebbe preferito mettere in scena un po' di teatro contemporaneo, la "fuga" verso il divertente "Don Giovanni" scritto per lui da Vincenzo Salemme, il bellissimo "Tartufo" di Molière riscritto da Enzo Moscato, il gioco vorticoso de "La Palla al piede" di Feydeau, il Malvolio de "La dodicesima notte", erano quasi una trasgressione che si concedeva ogni tanto per dire cose nuove al suo pubblico. E furono "La casa al mare", il "Tuttosà e Chebestia", "L'esibizionista", "L'amante", "Il suicida", "Aspettando Godot". Per ritornare poi al patrimonio paterno che il pubblico gli chiedeva e di cui sentiva di dover essere il custode. Anche se generoso nel dare i diritti a molti, ma attento ai progetti, soprattutto a quelli dei giovani attori e registi a cui non ha fatto mancare incoraggiamento, attenzione, consigli. Anche per questa sua saggezza lo ho ammirato, e questa sua attenzione lieta, fiduciosa, qualche volte anche imprudente, ma generosa sempre. Non soltanto con i giovani che vivono di teatro. Ho partecipato ad incontri con studenti entusiasti e sorpresi dal suo garbo, quando ancora insegnavo all'Accademia di Belle Arti i suoi incontri con gli allievi era festa di sapere e allegria. Ai giovani reclusi di Nisida ha dedicato tempo, passione energia. Alla Biblioteca nazionale di Napoli ha affidato gli scritti preziosi di Eduardo. Per la Fondazione dedicata a suo padre Eduardo non ha lesinato energie e progetti che ora nel suo nome cercheremo di portare avanti. Lo ho difeso da chi lo ha accusato di recitare come suo padre spiegando a tanti che un figlio che somiglia ad un padre ha il suo segno e la sua voce ma non è la medesima persona e che i personaggi che Luca interpretava dicevano cose che conoscevamo ma avevano dentro una mente diversa, una forza diversa creata da lui e non da suo padre. Erano merito di quell'attore che s'impadroniva di un personaggio con originale ed autonomo percorso e di un regista che sapeva orchestrare il lavoro dei suoi attori dandoci spettacoli belli. Dobbiamo essergli grati di tutto questo? Io lo sono. Un giorno di settembre di trent'anni or sono ebbi una telefonata di Eduardo, prima di lasciarmi, come esitando, ma con voce decisa "voi a Luca gli volete bene, non lo lasciate mai solo" mi disse; a Luca di quella telefonata non ho mai parlato, ma quella voce che ho ancora nella mente sancì un patto che ho onorato ogni giorno, e per me non è stata fatica ma privilegio. Ed è per questo che con immenso dolore lo ho salutato ieri, mentre sembrava riposare sereno nel suo letto e potevo illudermi che potesse ascoltare il mio ultimo, tenero, saluto e la mia ultima carezza.

Luigi De Filippo: "Quando Eduardo ci chiamò sul palco e fece pace con mio padre Peppino". L'attore e regista è nato a Napoli il 10 agosto 1930 nella dinastia di attori e registi teatrali, segue le orme di famiglia. È cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, scrive Antonio Gnoli il 9 ottobre 2016 su "La Repubblica". Luigi De Filippo Sotto il campanello della porta, nell'ovale di ottone, è inciso "Casa De Filippo". "Casa" offre un'idea di accoglienza e di perimetro, di tradizione, e riconoscimento di un cognome celebre. Suono in una mattina leggera e azzurra. Da qui, non distante da piazzale delle Muse, si domina Roma. È Luigi ad aprire. Il figlio di Peppino, nipote di Eduardo e di Titina, cugino di Luca; il solo rimasto della grande dinastia di teatranti. Lo guardo come fosse un pezzo raro: duro, scolpito e al tempo stesso fragile. È un uomo i cui tratti del volto sembrano la curiosa sintesi dei due celebri fratelli. Parla con compunta pazienza, come se dovesse spiegare la punteggiatura di un lavoro che lo vede impegnato da più di sessant'anni. Mi giunge una voce che non somiglia a quella bastonata, risentita, capricciosa di Peppino, ma neppure a quella magnificamente cupa e sarcastica di Eduardo. È una voce che annoda il filo dell'audacia con quello della pazienza: "Da sempre queste due componenti hanno attraversato la mia vita, urtandosi a volte, alternandosi altre, rincorrendosi come due metà di un discorso che ho cercato, proposto e imposto nel nome di una tradizione teatrale".

È così importante per lei la tradizione?

"Lo è quasi quanto respirare. Senza questo sfondo, senza il repertorio che la mia famiglia ha costruito nel tempo non sarei quello che sono diventato. Un attore che per tutta la vita ha fatto solo questo".

Se il teatro le fosse stato precluso?

"Amo la musica. Zia Titina mi insegnò a leggerla e a suonare il piano. Mi sarebbe piaciuto essere un direttore d'orchestra. Partecipe di un gruppo da guidare e mandare a tempo. In fondo il mio mestiere è anche un po' questo: dirigo una compagnia, con tutti i problemi e le responsabilità che questo comporta".

Problemi di quale natura?

"Finanziari: con mia moglie Laura Tibaldi ho rilevato il Teatro Parioli dove allestisco commedie, ora per esempio sto preparando Natale in casa Cupiello, con 14 attori e due tecnici. I costi ci sono. Non pensavo fosse così complicato. Ringrazio mio zio Eduardo e mio padre Peppino per avermi insegnato la disciplina. Devi essere una macchina da guerra sul palcoscenico se vuoi che le cose funzionino a dovere".

Come sono stati i rapporti tra i due fratelli?

"Buoni, anzi ottimi, per tutta la prima fase della loro carriera. Poi si sono deteriorati fino al punto di non parlarsi più".

Cosa scatenò quest'odio?

"Non era odio, e neppure rancore. No, era qualcosa che metteva in gioco la loro natura di artisti. Concepivano diversamente il modo di stare nel teatro".

E questo era sufficiente?

"Per Eduardo penso proprio di sì".

So che suo padre fece ripetuti tentativi di riavvicinamento.

"Io stesso provai più volte a parlare con lo zio. Poi la storia si ingarbugliò al punto che Eduardo accettò di vederci".

Quando?

"Era il 1972. Convinsi mio padre ad andare al teatro San Ferdinando dove Eduardo recitava Napoli milionaria Alla fine del primo atto, Eduardo restò sul palcoscenico in silenzio. E anche il pubblico, che aveva cominciato a muoversi, tacque. "Voi sapete - cominciò a dire Eduardo - che tra me e mio fratello sono incorsi numerosi fraintendimenti. Hanno detto che non ci vogliamo bene. Ma non è vero. Ora lui è in sala con il figlio e vorrei che salissero su questo palcoscenico"".

Cosa accadde?

"Noi ci alzammo e la gente cominciò ad applaudire. Ero emozionato e Peppino aveva un'aria stralunata. Salimmo. Dopo un attimo di incertezza si abbracciarono. Poi, con gesto sovrano, Eduardo stese il braccio verso il pubblico: vedete come è semplice riconciliarsi. Dopo la recita andammo in una piccola osteria".

Ricorda cosa si dissero?

"Parlarono di tutto, evitando di affrontare progetti artistici che avrebbero creato nuove tensioni. Però ho ancora in mente Eduardo che parlando della famiglia disse: vedi Peppino, il teatro è il racconto della lotta quotidiana dell'uomo per dare un senso alla propria vita. E la vita vive di passioni: l'amore, la gelosia, l'ira, l'invidia e l'odio, la bontà e la cattiveria. Noi De Filippo le abbiamo portate sulla scena e il pubblico vi si è riconosciuto".

Quegli stessi sentimenti di cui i De Filippo non furono indenni.

"Come tutti gli uomini anche i De Filippo erano abitati dalle passioni". Non vorrei sembrare troppo insistente. Ma ho come l'impressione che anche dopo la riconciliazione a teatro, i due fratelli abbiano continuato a non frequentarsi. "Il carattere di Eduardo era quello di un genio intrattabile".

Peppino molto più bonario.

"Indubbiamente. Meno spietato. E poi era come se le due nature si collocassero agli antipodi: Eduardo fece di Napoli il centro dell'universo; Peppino mise il suo talento su alcune interpretazioni memorabili".

C'è anche da dire che la popolarità di Peppino gli derivò soprattutto dal cinema e dalla televisione. Si può avanzare il sospetto che non andasse a genio al fratello?

"So soltanto che il successo che mio padre riscosse interpretando la figura di Pappagone infastidì mio zio. Trovava teatralmente stonato quel parlare per strafalcioni".

Lei ha lavorato con entrambi?

"Fu mio zio a farmi esordire nel 1948. Di mio padre sono stato per vent'anni il collaboratore più stretto. Una grande lezione, ma anche diversi contrasti".

Dovuti a cosa?

"Principalmente all'uso della lingua. A un certo punto Peppino volle tradurre in italiano alcune commedie che aveva scritto in napoletano. Mi sembrò una profanazione. In fondo, vede, sono state tre le lingue da cui è nato il teatro italiano: il napoletano, il veneto, il siciliano. Pirandello diceva che il popolo si esprimeva in due modi: con la lingua e i coltelli".

Pirandello fu importante per i De Filippo.

"Incuriosito dal loro successo, lo scrittore andò ad ascoltarli e ne fu entusiasta. La collaborazione si sviluppò con due sue opere: Liolà e Il berretto a sonagli. Siccome Pirandello aveva conoscenze a Hollywood pensò di portare Liolà al cinema e farlo interpretare ai due. Poi la guerra fece naufragare il progetto".

Come viveste gli anni della guerra?

"Come tutti, male. Ci trasferimmo a Roma nel 1942. Pensavamo di essere meno esposti ai bombardamenti che avevano martoriato Napoli. Ma anche a Roma fu dura. L'occupazione nazista, la gente impaurita, la fame e il disorientamento. Poi arrivò l'8 settembre. Ricordo che alcuni soldati italiani bussarono alla nostra porta chiedendoci degli abiti borghesi. Mio padre mise a loro disposizione il guardaroba. Poi la guerra passò e la gente ebbe voglia di tornare a vivere".

Proprio a Roma nella seconda metà degli anni Sessanta cominciò ad affermarsi il teatro di avanguardia. Che giudizio dà di quella esperienza?

"Sono favorevole a qualsiasi tipo di teatro purché sia conoscenza di vita. La mia preferenza va al teatro della tradizione, ma quando è fatto bene. Il teatro di innovazione non sempre è comprensibile. Spesso lo spettatore non capisce ciò che vede e per un momento ha il dubbio di essere un cretino. Ma alla fine scopre che non è così".

Ha conosciuto Carmelo Bene?

"Ci fu un periodo in cui la sera andavamo spesso a cena. Arrivammo perfino a un passo dal realizzare una commedia insieme: Le furberie di Scapino di Molière. Ma le nostre visiono sul teatro erano troppo diverse. Mi viene in mente che mi parlò anche di un progetto".

Quale?

"Mi disse che avrebbe voluto realizzare il Don Chisciotte, affidando la parte dell'hidalgo a Eduardo e di Sancho a Peppino. Mi propose di parlarne ai due".

Non poteva farlo direttamente?

"Sapeva dei contrasti fra i due e poi conosceva piuttosto bene Eduardo con il quale aveva fatto insieme dei recital. Capitava perfino che si vedessero a cena a casa di Elsa Morante. Ma voleva che l'offerta partisse da uno della famiglia. E quando la riferii agli interessati le risposte separate ma simili furono: già non andiamo d'accordo noi, figuriamoci cosa accadrebbe con Carmelo".

Quanto le è pesato il nome che porta?

"Il nome De Filippo è stato per me uno stimolo".

Per la sua educazione sentimentale?

"Un'educazione che oltre alla fortuna, alla tenacia, all'abilità e alla furbizia ha richiesto talento. Se non hai talento non duri sulle scene per quasi settant'anni. Poi ci vuole anche la disciplina. Quando lavoravo con Eduardo sapevo che c'erano delle regole da rispettare e guai a trasgredirle".

Napoli forse non aiuta alla disciplina.

"Chi l'ha detto? La fantasia non è nemica del rigore".

Cosa le piace della lingua napoletana?

"La sua forza evocatrice, il colore, l'immagine pirotecnica. Se no Goethe non avrebbe detto che Napoli è il paradiso abitato dai diavoli".

È il sacro e il profano che si mescolano.

"Il golfo di Napoli mi fa ancora oggi pensare a un'acquasantiera in cui farsi il segno della croce".

Crede in Dio?

"Credo in un ente supremo che ci può aiutare nei momenti di difficoltà. Di solito a Napoli ci si rivolge ai santi. Sono loro che intercedono con il "capo". E guai se il santo non ti ascolta. San Gennaro non viene solo invocato ma anche offeso dal napoletano che lo chiama "faccia 'ngialluta", quando non risponde".

Forse pari al sacro c'è solo la superstizione a Napoli.

"È un carattere indistruttibile. Entrato perciò a pieno titolo nelle commedie di Peppino. Come il lotto. Eduardo e tutta la compagnia furono ricevuti da Pio XII. Mio zio mi disse: vieni anche tu. Era per celebrare il successo di Filumena Marturano. Salendo le scale del Vaticano Tina Pica si avvicinò a Eduardo e gli disse: direttò ma che dite, sua Santità ce li dà due buoni numeri per giocarli al lotto? Fu una delle poche volte che vidi mio zio ridere".

Cosa ricorda del rapporto di suo padre con Totò?

"La collaborazione di Peppino non fu quella di una "spalla". In realtà Totò e Peppino furono due parti della stessa mela. Era tale la loro intesa che spesso le scene che recitavano venivano quasi interamente improvvisate".

Cosa fece l'altra metà della mela quando Totò morì?

"Peppino provò un dolore molto forte ma riservato. Non andò neppure ai funerali. Non voleva rivedere l'amico, con cui aveva condiviso la giovinezza, la fame e poi il successo, in quella condizione. Papà era anche molto amico di Fellini e quando Fellini si ammalò non volle mai andare a trovarlo. Voleva ricordarlo per come lo aveva conosciuto".

Quali sono stati i suoi rapporti con Luca, il figlio di Eduardo?

"Anche se in vita non ci siamo frequentati molto, la sua morte mi ha addolorato. Non abbiamo mai lavorato assieme eppure ci legava una stima profonda e reciproca. Luca mi manca come parte della mia vita".

Una parte obiettivamente assente.

"Diciamo un rispetto, stranamente, rafforzato dalla lontananza. Forse se avessimo lavorato assieme sarebbe esploso qualche contrasto.

Chissà".

È il fantasma dei padri?

"Ma le colpe dei padri non ricadono sui figli!".

Ancora loro due.

"Quando morì Peppino, Eduardo stava recitando a Bologna. E per quella sera chiuse il teatro. Non venne però al funerale".

Le dispiacque?

"Molto. Conoscendoli, capii che lui voleva evitare la sceneggiata, il dolore pubblico. La sua presenza non sarebbe certo passata inosservata. C'è qualcosa di morboso nella curiosità della gente".

Lei andò al funerale di Eduardo?

"Andai a rendergli omaggio al Senato dove esposero la salma".

Come immaginerebbe in questo momento quei due?

"Mi piacerebbe vederli discutere. Il loro amore per il teatro è stato più forte della rivalità. E poi c'era Titina. Cercò sempre senza riuscirci di mettere pace tra loro".

Fu come una grande madre.

"Aveva il senso compiuto delle cose che si fanno. Quando si ammalò di cuore i dottori le dissero che non avrebbe potuto più recitare. Intraprese perciò l'attività di pittrice. Aveva, oltre alla musica, una grande passione per il disegno. Jean Cocteau presentò la sua prima mostra a Parigi. Non si perse d'animo, grazie alla sua anima napoletana e alla religione: apparteneva al terziario francescano".

Bisogna sapere quando smettere?

"Uno non sa mai veramente quando è l'ora in cui deve smettere. È la nostra fortuna. Gli attori poi vorrebbero scrivere la parola fine solo su quelle quattro tavole fatate".

Morto Arrigo Petacco, lo storico che scandalizzò la sinistra su Mussolini e Fascismo, scrive il 3 Aprile 2018 "Libero Quotidiano". È morto a 89 anni Arrigo Petacco, storico tra i maggiori conoscitori del Fascismo e di Benito Mussolini. Nato nel 1929 a Castelnuovo Magra, nella provincia della Spezia, è stato direttore della Nazione tra 1986 e 1987, dopo aver cominciato la sua carriera a Il Lavoro di Genova sotto la direzione di Sandro Pertini, ed ha collaborato spesso con la Rai. Ma è con la storiografia e gli studi su Ventennio e Seconda Guerra Mondiale che Petacco ha scritto la pagine più memorabili della sua carriera. Da Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia alla Storia del fascismo in 6 volumi, da L'archivio segreto di Mussolini a L'uomo della provvidenza. Mussolini, ascesa e caduta di un mito, Petacco ha frequentato le pieghe più ambigue della storia italiana, attirandosi spesso le critiche (pretestuose) di tanta storiografia militante di sinistra. Non a caso nel 2014, anche nel tramonto di una fulgida carriera, Petacco è finito al centro delle polemiche per un suo giudizio controcorrente sul Duce. Intervistato dal blog di Beppe Grillo sull'omicidio Matteotti, lo storico ammise di non aver "mai creduto che Mussolini avesse fatto il delitto": "Mussolini nel '24 ha ottenuto il 68,8% dei voti, vi rendete conto? Altro che violenza e che minaccia! E i socialisti, il povero Matteotti era al 18-20%. A questo punto la domanda che faccio io è: voi pensate che, 10 giorni prima che aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere il capo dell'opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita?".

Petacco, il revisionista che faceva capire a tutti i problemi della Storia. Giornalista e saggista, indagò persone e fatti «scomodi» senza guardare alle ideologie, scrive Paolo Giordano, Mercoledì 04/04/2018, su "Il Giornale". Se ne è andato d'improvviso, Arrigo Petacco, come d'improvviso gli venivano le idee per i suoi libri o per i suoi programmi di divulgazione storica. Chiamava l'editore, spesso la Mondadori, e proponeva argomenti che, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, mettevano i brividi perché erano controcorrente come il (bello) Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, una storia da rifare scritto con Sergio Zavoli nel 1973 oppure Dear Benito, caro Winston. Verità e misteri del carteggio Churchill Mussolini (Mondadori, 1985). Era, questo spezzino di Castelnuovo Magra, un giornalista tutto d'un pezzo che poi è diventato saggista e sceneggiatore, iniziando al Lavoro di Genova con la direzione di Sandro Pertini, facendo l'inviato speciale e infine dirigendo pure La Nazione di Firenze tra il 1986 e il 1987 e il mensile Storia Illustrata, che diventò in qualche modo la palestra nel quale esercitare la sua vocazione. Arrigo Petacco era un divulgatore e lo confermò anche in tv curando programmi di grande successo come Da Caporetto a Vittorio Veneto (1968) o La battaglia di Normandia (1969). Aveva la vocazione liberale di accogliere tutti i punti di vista (anche quelli contrari) e di fuggire i luoghi comuni, essendo lui di una generazione che fece i conti con quelli fascisti e quelli comunisti, praticamente il meglio (si fa per dire) del Novecento. Perciò lo attiravano le storie oblique, quelle scritte solo in parte o solo da una parte, e aveva la bella voglia, oltre che la chiarezza, di raccontare da capo a fondo. In qualche modo, il suo era un impeto televisivo, quasi da Quark, che lo portò a raccontare, tanto per dire, la figura di Joe Petrosino, l'ufficiale italoamericano che combattè contro la mafia (sul quale fu girato anche uno sceneggiato Rai di buon successo) o Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, che ispirò il film di Squitieri del 1977. Insomma, navigava libero e così è rimasto fino all'ultimo sia nelle sue lucide apparizioni televisive (ad esempio a Porta a Porta) che nei dialoghi con gli amici, ai quali ha dispensato ilarità fino all'ultimo nonostante i malanni sempre più opprimenti. Dopotutto, basta leggere libri come Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini (Mondadori 1996) per rendersi conto di quanto a Petacco piacesse sparigliare le carte, indagare dove si faceva finta non fosse necessario, e poi consegnare al lettore (o telespettatore) tutti i dettagli per tirare le proprie conclusioni. Senza avere la sarcastica lucidità di Montanelli, o l'impeto romanzesco di altri scrittori di storia, Petacco si è calato nelle penombre del Novecento, specialmente quelle del Ventennio e della Seconda Guerra Mondiale, sempre con piglio garbato e volontà di ricerca. In La storia ci ha mentito. Dai misteri della borsa scomparsa di Mussolini alle «armi segrete» di Hitler, le grandi menzogne del Novecento (Mondadori, 2014), ha provato a smontare alcune leggende prima che la vulgata le consacrasse come verità storiche. Ma rimase, per carità, sempre equidistante, mai schierato, anche a costo di sopportare critiche persino esagerate (come quando affrontò il caso Matteotti in una intervista con il blog di Beppe Grillo nel 2014: «Mai creduto che Mussolini avesse ordinato il delitto»). In poche parole, dopo Montanelli e Cervi, ora con lui se ne va forse l'ultimo dei grandi divulgatori di una storia italiana che le ideologie hanno provato a scrivere a propria immagine e somiglianza, sperando di non incontrare mai giornalisti e saggisti di razza capaci di smentirle.

Per non dimenticare “Vi faccio vedere come muore un italiano”, il nostro paese ha bisogno di eroi come Fabrizio Quattrocchi, scrive il 15 aprile 2018 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Per non dimenticare “Vi faccio vedere come muore un italiano”, il nostro paese ha bisogno di eroi come Fabrizio Quattrocchi. Chiedimi chi era Fabrizio Quattrocchi. Il 13 aprile del 2004, l’addetto alla sicurezza privata si trovava in Iraq e venne rapito insieme ai colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. L’Italia quel giorno trattenne il respiro. I quattro furono catturati da un sedicente gruppo denominato Falangi verdi di Maometto. Mentre gli ultimi tre vennero liberati il catanese, che da molti anni si era trasferito in Liguria, andò incontro alla morte. Pronunciando una frase assoluta. Capace di riecheggiare nella mia mente ancora oggi. “Adesso, vi faccio vedere come muore un italiano”. Era il 14 aprile 2004. I sadici terroristi ripresero l’esecuzione. Brutale, violenta, macabra ed insensata. Ma davanti a quella parole, davanti a quella frase tutto si fermò. Solo le pallottole squarciarono un istante lungo l’avvenire. Il 13 marzo 2006, “su proposta del Ministero dell’Interno Giuseppe Pisanu, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì a Fabrizio Quattrocchi la medaglia d’oro al valor civile. ‘Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l’Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l’onore del suo Paese'”. Basta affidarsi a Wikipedia per immergersi nelle motivazioni, sacrosante e legittime, di un’onorificenza che dona vita eterna. Non tutti si sono dimenticati di questo martire. I comuni di Milano, Assisi (PG) e Castellabate (SA) gli hanno dedicato una via. Brugnato (SP) invece ha deciso di intitolargli un ponte. Addirittura Oriana Fallaci, nel volume La forza della ragione, consacrò l’opera a Quattrocchi ed agli “italiani ammazzati dal Dio-Misericordioso-e-Iracondo”​. Eppure le nostre memorie sono messe a dura prova. Pochi attimi ed il ricordo vola via, quei colpi di pistola pronti a cancellare un gesto, pronti a cancellare il sangue, pronti ad annebbiarci la vista. Occhio non vede, cuore non duole. E le nostre capacità di sopportazioni cardiache sono ai minimi storici. Eppure dobbiamo sfidare la realtà ammantandoci con il mantello dei servitori dello Stato. Di chi, davanti al boia islamico, ha tentato di strapparsi la kefiah che gli foderava il volto per uscire, un’ultima volta, “a riveder le stelle”. Livio Ghisi, dirigente provinciale genovese di FdI-An, ha pubblicato una lettera in cui lancia un accorato appello: “Dimenticato dalle istituzioni e da una parte dell’Italia politica anche nella sua terra in cui viveva e lavorava non è mai stato ben ricordato, forse per il lavoro che svolgeva o forse per le ideologie troppo patriottiche che ha onorato fino alla fatale esecuzione davanti a vigliacchi aguzzini”. La memoria non è mai troppa, bisogna lottare affinché non si spenga. Per questo Ghisi ha chiesto che a Tigullio di Chiavari, Rapallo e Zoagli venga dedicata una strada a Quattrocchi. Dalle colonne de Il Giornale d’Italia, Francesco Storace, lancia il suo grido di rabbia: “Quanti giovani, di 14-15 anni, conoscono quel sacrificio? Quanti italiani se lo ricordano? E’ un Paese che non ha memoria. Ci si commuove, per alcuni anche giustamente, se un agnellino sta sulle nostre tavole a Pasqua, e poi questo Paese fatica a ricordare Fabrizio con una scuola o una strada. Anche se tutti, noi no: Fabrizio Quattrocchi presente”. Anche se tutti, noi no. Jack London, ne Il vagabondo delle stelle, vergò questa frase: “Se riuscire a dimenticare è segno di sanità mentale, il ricordare senza posa è ossessione e follia”. Allora ossessioniamoci, viviamo ricordando, ma senza torcicollo, senza spasmi. Con la volontà di chi vuole tornare grande, abbracciare il destino conoscendo il proprio passato, riconoscendo gli esempi fieri di italianità. Totem, in contrasto con la società liquida di Zygmunt Bauman, capaci di non farci perdere la bussola nella tempesta più sfrenata. Serve marmo contro la palude di quest’epoca, possiamo esserlo? Dobbiamo, altrimenti periremo senza lasciare alcuna traccia della nostra storia millenaria. La situazione di questo Paese è raffigurata nella foto, che in questi giorni sta impazzando sulla rete, in cui viene ritratta un’autovettura dei Carabinieri schiacciata da un ponte nel cuneese. Ogni punto di riferimento scacciato, allontanato, mandato in pasto alla bontà di un nazione che pensa solo al futuro dei rifugiati, ma quali rifugiati poi, dimenticandosi del domani degli italiani. Per questo dobbiamo ricordare Quattrocchi, per portare il suo ardore in ogni città. Davanti alla tasse che ci uccidono, davanti all’immigrazione illimitata, che diventerà inesauribile in questi giorni di primavera che ci conducono all’estate, davanti alla burocrazia abbiamo il dovere di non inginocchiarci. Eroi siamo ed eroi saremo, ce lo chiede l’Italia. Come ho avuto modo di scrivere sulla mia pagina di Facebook: “Ci vorrebbero più italiani con gli attributi, che iniziassero a lottare tutti insieme per la propria libertà, per la propria dignità, per la propria Patria e soprattutto per garantire ai propri figli un presente e soprattutto un futuro da uomini liberi”. Svincoliamoci da queste catene, facciamolo con rabbia e con amore. Cercheranno sempre, e per sempre, di metterci i bastoni tra le ruote, di farci cadere togliendoci l’entusiasmo, facendo perire l’estro tricolore. Ma ci troveranno a cantare davanti alla sorte avversa, portando una croce che non ci grava più sulle spalle. Lo faremo per le Forze dell’Ordine costrette a sacrificarsi per un pezzo di pane. Lo faremo per gli operai licenziati. Lo faremo per i padri separati. Lo faremo per le madri perseguitate. Lo faremo per gli italiani, mentre i poteri forti ci vogliono a capo chino, porteremo in cielo la nostra indipendenza. “Libertà che ho nelle vene, libertà che mi appartiene, libertà che è libertà”, esattamente come cantava Franco Califano.

E' morto il regista Carlo Vanzina, col fratello Enrico ha proseguito la commedia "dei padri", scrive Chiara Ugolini l'8 luglio 2018 su "La Repubblica". Era figlio di Steno, era stato assistente di Monicelli. Aveva 67 anni. Grazie al sodalizio con il fratello ha raccontato gli italiani in tante commedie di successo. Insieme al fratello sceneggiatore Enrico, Carlo Vanzina ha raccontato le vacanze degli italiani e con quelle commedie di successo, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ha saputo tratteggiare le trasformazioni del nostro Paese attraverso tanti personaggi talvolta ingenui, talvolta cinici, che hanno fatto la fortuna di tanti interpreti, da Christian De Sica a Massimo Ghini, da Massimo Boldi a Jerry Calà. E' morto Roma il regista Carlo Vanzina, aveva 67 anni. A dare la notizia sono la moglie Lisa e il fratello Enrico. "Nella sua amata Roma, dov'era nato, ancora troppo giovane e nel pieno della maturità intellettuale, dopo una lotta lucida e coraggiosa contro la malattia - si legge nella nota della famiglia - ci ha lasciati il grande regista Carlo Vanzina amato da milioni di spettatori ai quali, con i suoi film, ha regalato allegria, umorismo e uno sguardo affettuoso per capire il nostro Paese". E pensare che Carlo Vanzina non voleva fare il regista, il suo sogno era fare il critico cinematografico: "Da ragazzino tenevo degli album che riempivo con tutti i film che vedevo e ne vedevo tantissimi - raccontava - scrivevo le mie minicritiche, mettevo già le stellette anche se non si usava, scrivevo tutto il cast dagli attori al direttore della fotografia. Ero un vero malato di cinema". Figlio del grande Steno (nome d'arte per Stefano Vanzina) e di Maria Teresa Nati, nato il 13 marzo 1951, ha avuto come maestro il grande Mario Monicelli. "Mio padre mi portò da Monicelli che era un suo grande amico e col quale avevano lavorato tanto insieme - proseguiva Vanzina - all'inizio mi trattò malissimo, non voleva certo che mi sentissi privilegiato in quanto figlio di". Sul set di film come Brancaleone alle crociate o Romanzo popolare Carlo Vanzina apprese molti dei trucchi del mestiere "Monicelli era un burbero, un finto cattivo. Mi ha trattato in maniera infernale, ho pianto tanto ma nonostante questo ho serrato i denti e sono andato avanti finché mi ha fatto suo primo aiuto". Carlo ha imparato molto da Monicelli, soprattutto nella direzione degli attori, lezioni che ha messo in pratica quando ha debuttato come regista nel 1976 con Luna di miele in tre con Renato Pozzetto e Stefania Casini, scritto dal fratello Enrico come sempre sarà con la sessantina di film che hanno realizzato insieme. Il primo grande successo è Sapore di mare del 1983. Il primo di una lunga lista di film sulle vacanze, avevano scelto quel titolo perché i diritti per Sapore di sale erano già stati acquistati da Neri Parenti, e il titolo portò loro fortuna, il film incassò dieci miliardi di lire. Sulla scia di quello straordinario successo si pensò a una versione invernale, Vacanze di Natale. Il film uscì l'antivigilia di Natale e inaugurò un genere che, con trasformazioni e aggiustamenti, è arrivato fino a oggi. La critica, che li osteggiava, li etichettò come "cinepanettoni" (termine che sia Carlo che Enrico hanno sempre rifiutato), ma il pubblico li amava e ne decretava il successo. "Al di là del fenomeno di costume che ne è seguito, Vacanze di Natale era una vera commedia all'italiana che si ispirava a Vacanze d'inverno, il film di Camillo Mastrocinque prodotto da Dino De Laurentiis nel '59 - raccontava Enrico Vanzina per il trentennale - a noi interessava quel tipo di cinema che era quello che avevamo imparato a fare sui set di nostro padre, Steno. De Laurentiis ha avuto la capacità di trasformare un film in un brand e di imporlo come gusto nazional popolare. Ha creato la coppia di successo Boldi-De Sica, coppia che aveva esordito nel nostro film Yuppies - I giovani di successo e si è poi rivelata una perfetta macchina da guerra comica". La lista dei film che hanno firmato i due fratelli è infinita, spesso nello stesso anno sono usciti anche due o tre titoli. Carlo Vanzina ha diretto quasi tutti gli attori italiani: Diego Abatantuono, Gian Maria Volonté, Sergio Castellitto, Renato Pozzeto, Paolo Villaggio, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Vincenzo Salemme, Christian De Sica, Massimo Boldi, Enrico Brignano, Michele Placido, Virna Lisi, Monica Bellucci. Il rapporto con gli interpreti è stato per lui sempre la parte più importante del suo lavoro: "Anche se una sceneggiatura è scritta bene e ci sono buoni dialoghi - raccontava - se arriva un bravo attore di commedia che è intelligente e spiritoso è chiaro che tu come regista non devi frenarlo ma invece pungolarlo, spingerlo". L'ultimo film è stato Caccia al tesoro (2017) con Vincenzo Salemme, Serena Rossi, Carlo Buccirosso, che come scrive Paolo D'Agostini nella sua recensione, si riallaccia alla commedia all'italiana con la quale i fratelli Vanzina si sono formati. Sul modello di Operazione San Gennaro del 1966 di Dino Risi, Manfredi protagonista e Totò guest star come nei Soliti ignoti (che qui come lì è sempre archetipo), un gruppetto di disgraziati unisce le forze per rubare il tesoro di San Gennaro.

Addio a Carlo Vanzina, la sua commedia a spasso nel tempo. Da sempre in sodalizio creativo e produttivo col fratello Enrico, ha creato un genere e uno stile sulla scia della tradizione e di papà Steno, scrive Claudio Trionfera l'8 luglio 2018 su "Panorama". È morto a Roma, all'età di 67 anni, il regista Carlo Vanzina. Ne hanno dato notizia la moglie Lisa e il fratello Enrico. Nato il 13 marzo 1951, regista, sceneggiatore e produttore, insieme al fratello Enrico, che si è dedicato più alla scrittura, è vissuto nel mondo del cinema fin dall'infanzia. Finisce un’epoca e ne incomincia un’altra. Finisce l’epoca “con” Carlo Vanzina e ne incomincia una “senza”. Anche se poi, come sappiamo, il cinema ha questa sua capacità di dare vita eterna al di là del dettato religioso; e rendere perenni le opere della creatività lasciando intatti volti, sguardi, scene, parole. È il destino dell’arte, è il destino degli artisti.

Una “factory” tutta italiana come modello di cinema. Anche quello di Carlo, naturalmente, che col fratello Enrico ha costruito un archetipo cinematografico indirizzato alla persistenza temporale attraverso una serie di aggiornamenti e modificazioni. Il cinema dei Vanzina, appunto, sul quale è stato coniato il termine vanzinismo a indicare non solo un genere specifico ma anche un modo produttivo in quella sorta di piccola factory tutta italiana con al centro le figure di Enrico produttore e sceneggiatore e Carlo di regista; e, nei loro paraggi, un nucleo sempre più vasto di attori, già famosi o in procinto di diventarlo (impossibile citarli diffusamente), che molto devono alla coppia, sollecitando ora la meditazione su un’altra inseparabile linea fraterna che s’è spezzata dopo quella dei Taviani creando un’assenza attorno a un diverso segmento di cinema italiano.

60 film nel flusso del costume e della Storia italiani. Sessanta film tondi. A partire dall’esordio di Luna di miele in tre del 1976, che in quell’anno mi fece conoscere Carlo con un'intervista a casa sua, presenti Enrico e papà Steno (trentennale della morte nel marzo scorso, in pochi se ne sono ricordati) avviando un’amicizia e una simpatia non effimere e non tramontabili. Poi tutto il resto, divagando, vagabondando e molto svagando, destreggiandosi tra i costumi e le vicende d’Italia, inseguendo vizi privati e pubbliche virtù di un Paese lungo il suo fluire storico, dalle ricadute della fase edonistica all’epopea dello yuppismo, alle incertezze e le contraddizioni del transito fra i due secoli, allo spuntare e alla progressione delle crisi. Sempre con quella puntualità, quella pulizia, quella correttezza e quel garbo che, anche negli accenti e nei contesti più graffianti, hanno costantemente accompagnato l’ispirazione di quel cinema e la maniera di proporlo. Specchio, certo, di un’educazione, di una mitezza e di una giocondità mai sul punto di ripudiare, pure nei passaggi più maturi, una vocazione adolescenziale all’entusiasmo.

La rigenerazione della commedia tradizionale. Il nucleo resta quello della commedia e della sua tradizione. Sulla scia dei grandi e del padre. Col gusto, da parte di Carlo (e naturalmente di Enrico), di raccoglierne l’eredità, per così dire, metodologica nel racconto desunto dai fatti sociali, negli eventi e perfino nelle battute prese dalla strada e ascoltate dalle gente; rimettendo poi in circolo tutti gli elementi nella rigenerazione e ricostituzione di uno stile cinematografico personale e “altro”, una sorta di post-commedia o meta-commedia capace di reiterare se stessa; e foggiando un copyright senza rinnegarne il richiamo classico.

Quei titoli parafrasati ed entrati nel lessico comune. Piace guardare a questo cinema vanziniano nella sua interezza, dunque nella sua integrità e continuità. Ma non se ne possono certo ignorare i passi “cardinali” o i film più pregevoli come Eccezzziunale…veramente del 1982, Sapore di mare, 1983, e Vacanze di Natale dello stesso anno col quale s’avvia l’epopea del Cinepanettone (e sbaglia chi riduce a questo, non sono pochi, il contributo dei Vanzina al mercato cinematografico), Sotto il vestito niente (1985), Yuppies – I giovani di successo (1986), I miei primi 40 anni (1987), Sognando la California (1992), S.P.Q.R. 2000 e 1/2 anni fa (1994), Selvaggi (1995), A spasso nel tempo (1996), South Kensington (2001), In questo mondo di ladri (2004), La vita è una cosa meravigliosa (2010), Mai Stati Uniti (2013), l’ultimo Caccia al tesoro (2017). Con titoli escogitati con intelligenza e spesso entrati nel lessico comune o addirittura parafrasati dai giornali per richiamarsi a fatti di cronaca e di costume.

Aspettando risarcimenti culturali e rivalutazioni tardive. Adesso è l’ora del dispiacere e del dolore per la perdita di un cineasta che per molti di noi è un amico. Quasi di famiglia. Non è dunque l’ora della polemica per la quale, come si dice, non mancherà occasione. Però ci sarebbe un aspetto da evidenziare in prospettiva. Perché c’è da scommettere, restando in sintonia e in ossequio al Febbre da cavallo di Steno, che presto cominceranno gli omaggi, le rivalutazioni (Totò, Franchi & Ingrassia, in parte Villaggio docent), le “personali” complete, i risarcimenti culturali e i riconoscimenti tardivi ad un modello di cinema e ai suoi istitutori che, beninteso, lo meritano a pieno titolo. Sarebbe sconveniente – eufemismo – se a farsi promotore di certe iniziative fosse chi, oggi tartufescamente, bollò quei film come “vanzinate” non meritevoli di giusta valutazione critica.

Carlo Vanzina, il commovente ricordo del fratello Enrico: "Senza di lui sono spezzato", scrive il 9 luglio 2018 TGCOM24. "Adesso che lui non c'è più sono spezzato a metà, con il cuore a metà". Così Enrico Vanzina ha voluto ricordare il fratello Carlo, sulle colonne de "Il Messaggero". Dopo il cordoglio di numerosi volti noti del mondo di cinema, tv e politica, anche l'altra metà dei Vanzina, con un articolo commovente ha voluto raccontare lo straordinario rapporto che aveva con il fratello, morto all'età di 67anni. Da Massimo Boldi al Presidente del Coni Malagò, da Sergio Castellitto a Luca Cordero di Montezemolo e Margherita Buy. Sono stati tanti i volti noti accorsi alla clinica romana "Mater Dei" per stare vicino e abbracciare Enrico Vanzina, distrutto dopo la morte del fratello Carlo.

CUORE A META' - "Per me, Carlo era tutto. Era mio fratello, era il mio migliore amico, era il mio confidente e io il suo, era il mio alter ego nel lavoro. Siamo stati insieme praticamente tutti i giorni della nostra esistenza, prima da piccoli, poi da adolescenti, poi lavorando insieme. Carlo è stato il mio passato ed era il mio futuro. Essendo il fratello maggiore ho provato a proteggerlo per tutta la vita. Non ce l'ho fatta. Come diceva George Simenon 'bisogna accettare la vita come viene, lei è più forte di noi'. Ma adesso che lui non c'è più sono spezzato a metà, con il cuore a metà".

UN GRAN SIGNORE -  "Nel privato, Carlo è stato un marito e un padre meraviglioso. Nel lavoro, Carlo è stato un formidabile regista. Io, che ho lavorato anche con altri grandissimi autori, vi assicuro che lui, per delle sue doti innate, come Sugar Ray Robinson, o Pelé, o Ribot, era il più bravo di tutti. Lo era anche per l'intelligenza, la cultura mai sbandierata, la leggerezza, la sapienza tecnica, ma soprattutto per la semplicità con la quale sapeva affrontare i problemi espressivi e produttivi rendendo tutto facile. Era simpatico. Era spiritoso. Era timido. Era di quelli che si mettono sempre un passo indietro per non mostrarsi troppo. Era ottimista. Era generoso a senso unico, senza mai aspettarsi riconoscenza, perché non tutti quelli che ricevono sanno dire grazie. Era molto credente. Era affettuoso, bene educato. Era tenace. Era coraggioso. Era un lavoratore infaticabile. Non era mai invidioso. Si rallegrava del successo degli altri. Non era mai maligno. Mai vendicativo. Mai presuntuoso. Mai volgare. Era, nei modi e nel pensiero, un uomo elegante. Si può dire di lui quello che si è sempre detto di nostro padre Steno: 'Carlo era un gran signore'".

LA MALATTIA - "Pochi giorni prima che la sua malattia peggiorasse, anche se affaticato dalle cure, veniva ancora in ufficio a lavorare. Una mattina, mentre stavamo inventando la scena di un nuovo film, si è messo a fissare il vuoto. Nello studio è calato un silenzio infrangibile. Poi lui si è alzato, è venuto vicino a me, mi ha accarezzato lievemente la testa e mi ha detto. 'Stai tranquillo, io ho avuto una vita meravigliosa'. Per me è stata una fucilata al cuore. Era il suo addio prematuro. Dolce, come lo era lui. Rassicurante, come lo era lui. Forse è stata la più bella battuta che ha mai inventato".

AMATO DA TUTTI - "Comunque, le sue battute, le sue storie, i suoi film, che hanno fotografato con leggerezza e umorismo questo Paese, rimarranno per sempre. Perché il pubblico li ha sempre amati e continuerà ad amarli. Per Carlo sarà la rivincita definitiva su quei tanti imbecilli che hanno sempre considerato il cinema popolare un cinema minore. Carlo non era minore, era superiore".

L'ULTIMO SALUTO - Adesso voglio immaginarlo lassù, in cielo, accanto a papà Steno e a tutti i suoi amici che erano anche cari amici di Carlo. Accanto al suo maestro Mario Monicelli, a Dino Risi che aveva un debole per lui, a Ettore Scola, Armando Trovajoli, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Age e Scarpelli, Mario Camerini, Paolo Panelli, Pietro Garinei, Suso Cecchi D' Amico, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Sergio Corbucci, Gigi Magni, Ugo Pirro, Carlo Ponti, Goffredo Lombardo, Mario Cecchi Gori, Carol Levi e soprattutto Alberto Sordi, che adorava Carlo per il suo umorismo e per la sua grazia assoluta. Chissà se lassù fanno film. Se sì, Carlotu adesso devi prendere un periodo di riposo, qui per far vivere felici gli altri non ti sei mai riposato abbastanza, poi però ricomincia. E fai sorridere, come hai fatto in terra, anche il pubblico del Vecchio Cinema Paradiso. E dai un bacio a Mamma. Adesso è lei che ti proteggerà in eterno".

Vanzina se ne va, il disprezzo resta. Su Twitter i pregiudizi sul regista diventano una cupa processione di insulti, scrive Paolo Giordano, Martedì 10/07/2018, su "Il Giornale".  C'è chi, firmandosi Terra, scrive su Twitter che: «Carlo Vanzina (segue bestemmia) è stato un regista di mmeeeerda!». E chi, come Dioniso, si spinge in una raffinata analisi: «Per me vale la seguente equazione, Vanzina: cinema = Mediaset: tv. Ossia Vanzina ha fatto male al cinema come Mediaset ha fatto male alla tv, spingendo sui tasti più volgari e ignoranti degli italiani». E chisssenefrega se, in realtà, Carlo Vanzina è stato tutt'altro che volgare e che lo salutino con ammirazione (talvolta inattesa) persino quei critici che hanno trascorso decenni a stroncare i suoi film. Di solito, almeno quando muore, un artista entra momentaneamente in una «free zone» che lo esenta da insulti, critiche, cattiverie. Diciamo che per qualche giorno se ne rispetta la morte, almeno in quell'arena sanguinaria che sono i social. Una convenzione moderna. Poi, naturalmente, liberi tutti. Invece con Vanzina no. Domenica, mentre stavano ancora allestendo la camera ardente, è iniziata la lunga processione di tweet intrisi di disprezzo. Per carità, mica bisogna per forza commuoversi per la morte di un artista al quale si è sempre stati indifferenti. Si può anche stabilire con biblica certezza, come ha fatto tale Francesco Pecoraro, che «i suoi film, anche quelli belli, sono inguardabili. Ripeto: inguardabili». Giudizio insindacabile e tanti saluti. Però c'è un limite. Per Totò, amico di Steno padre di Carlo ed Enrico Vanzina, la morte è «'A livella» che pone tutti sullo stesso piano. Per Twitter mediamente il tempo si è accorciato e personaggi, amati, odiati o invidiati rimangono sullo stesso piano giusto per qualche giorno post mortem, salvo poi tornare a essere quel che erano nell'universo talvolta distorto e sempre esagerato dei giudizi liquidi. Stavolta molti hanno ingiustamente sfogato un legittimo dissenso, corredandolo con il tipico guardaroba del pregiudizio. Ad esempio Pier Paolo Polcari (uno dei pochi a mettere legittimamente il nome e non un nickname inventato) scrive che «se mi sdoganate anche Vanzina allora vuol dire che vi meritate lo scempio che vi circonda». Sembra la parodia di una battuta di Nanni Moretti dei tempi d'oro: «Vi meritate Alberto Sordi». In sostanza è lo stesso snobismo (stavolta funereo) sul quale i Vanzina hanno fatto quarant'anni di film.

Quelli che non ve lo meritate Vanzina, era un genio e non l’avete capito. Differenza tra giudizio sui film (brutti) e una sostituzione etnica, scrive Maurizio Crippa il 9 Luglio 2018 su "Il Foglio". Carlo Vanzina, figlio di Steno, ha girato con il fratello Enrico molti film brutti e premiati dal botteghino. Le due cose non sono mai in opposizione. Brutti, sintetizzando un po’ all’ingrosso, perché una commedia – non per forza sophisticated, ma anche all’italiana – ha bisogno di scrittura, sceneggiatura, battute a doppio taglio, meglio triplo. La regia è il meno. Occorre uno spoiler, come dicono gli up to date consapevoli del proprio cosmopolitismo e – in forza di ciò? – anche di avere metabolizzato meglio di altri il vanzinismo: non si parlerà del cinema di Carlo Vanzina, si parlerà di politica. O per meglio dire di un tic culturale che ha ricaschi evidenti sulla politica. (Altro spoiler: l’argomento sono quelli che vi dicono, in bella calligrafia: non avete capito Vanzina, e vi siete beccati il populismo). Dunque, Carlo Vanzina. Borghese gentiluomo, eccetera. Conoscitore del mondo, eccetera. Il mondo suo, e quello del trasandato generone che lui tra i primi, questo sì, ha intuito fosse ormai trasmigrato in tutta l’Italia, in tutta la provinciona italiana. Ma c’è un sovrappiù di interpretazione, in molti commenti che si sono letti. Per i quali Carlo Vanzina era semplicemente un genio del cinema, vittima di critici sciagurati e di intellettuali di retroguardia che non lo hanno mai capito. Socioligismi un po’ sopra le righe, tipo: “Se il cinema rappresenta, come dice Edgar Morin, ‘lo spirito del tempo’, nel panorama italiano non esiste regista che quello spirito lo abbia rappresentato meglio di…”. Qua e là qualche attenuazione, giusto per mettersi al riparo da facili contestazioni, tipo “non era regista sofisticato” – ma ben inteso che non essere regista sofisticato, anzi uno che girava in fretta e a basso costo (anche Carpenter o Fassbinder giravano in fretta e a basso costo, che diamine) è un titolo di merito. Insomma, ha scritto qualcuno, “chi odia i Vanzina, in una parola, non li conosce”. Non è questione di odio, ovviamente, e ci mancherebbe. La questione è una certa presunzione, forse inconscia, per cui il mondo si divide in tre: ci sono i personaggi di Vanzina (che schifo) e quelli che non capiscono Vanzina perché, in fondo in fondo, sono come loro. E poi ci siamo noi, quelli che abbiamo capito che Vanzina ha interpretato l’Italia nuova. E che quindi quella Italia prima o poi saremo chiamati a guidare. Dalle redazioni dei giornali, dalle case editrici. Dal Parlamento, i più audaci. Invece non hanno capito che Vanzina quell’Italia non la rappresentava, à la Morin, ma ne era parte. Parla con lo stesso linguaggio. Se “rispecchia” l’Italia, è nel senso di come la rispecchia Striscia la notizia: siete pronti a tenervi l’Italia di Striscia la notizia, la culla del non-pensiero populista, credendo però di essere avanti con i tempi, di dominare la materia, invece che esserne dominati? I rivalutatori eccessivi di Carlo Vanzina sono molto peggio dei suoi film, e lui ne è innocente. La rivalutazione dei Franchi & Ingrassia, la rivalutazione di Totò, sono state una cosa che è stata utile, ma molto tempo fa. Serviva a un certo ceto culturale (de sinistra, ovvio) per liberarsi delle ingombranti macerie di padri che incombevano davvero (padri come Pasolini, per dirne uno). Oggi, dire che Vanzina ha capito la trasformazione antropologica italiana molto meglio di… di… Già, di chi? Serve a liberarsi di chi, o di cosa? A proporre quale altro modello di interpretazione sociale? Nessuno. E’ soltanto il birignao di un nuovo ceto intellettuale affluente – più quarantenne che millennial – che vive in un’altra dimensione estetica, che di Vanzina si sente diverso nell’intimo ma lo usa per dire: eh, questa è la vera Italia, voi non l’avete manco capito, ma aspettate che arriviamo noi. Non è una rivalutazione, è una specie di sostituzione etnica. Solo che dai Parioli al massimo si passa alla Leopolda. Solo che, intanto, i barbari di Vanzina si sono già presi tutto.

Morto Marchionne: la malattia, la visita di Elkann, il coma. I giorni del mese più lungo. La vicinanza di Manuela, quell’ultimo saluto ai Carabinieri. Il suo ingresso nell’Universitätsspital di Zurigo è avvenuto il 28 giugno. Da allora è iniziato il mese più lungo per il manager che ha ridisegnato la Fiat, dal suo ingresso nel 2004, scrive Bianca Carretto il 25 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Sergio Marchionne, 66 anni. Sergio Marchionne non c’è più, o meglio, non è mai stato così presente come oggi. Da quando sono iniziate a circolare le voci del suo ricovero, in questo ultimo mese, l’attesa sulle sue condizioni di salute ha coinvolto tutti. Come la ricerca delle notizie sullo stato della malattia. Il suo ingresso nell’Universitätsspital di Zurigo è avvenuto il 28 giugno. Da allora è iniziato il mese più lungo per il manager che ha ridisegnato la Fiat, dal suo ingresso nel 2004. In questa settimana Marchionne è entrato in ogni casa, non solo italiana. Le istituzioni ieri gli hanno riconosciuto l’impegno e i risultati raggiunti ma colpisce anche la voce di una bambina che chiede «è vero che è morto?». La notizia arriva di mattina, poco dopo le undici. E gli stabilimenti, nei quali le battaglie per i contratti, per l’avvio dei nuovi modelli, per la gestione delle fasi più difficili si sono fermati per dieci minuti. Tutti gli stabilimenti del gruppo, con la bandiera a mezz’asta. Esattamente un mese fa, il 26 giugno a Roma, in occasione della consegna di una Jeep al Comando dei carabinieri, chi lo ha incontrato ha percepito la gravità delle sue condizioni: non era solamente stanco o affaticato, dimostrava, al riparo di una pineta marittima, tutta la sua fragilità. L’ultimo discorso è stato all’insegna del richiamo ai valori dell’onestà e dell’impegno. Circondato da un plotone di carabinieri in divisa che lo accompagnava, aveva capito da solo che il suo cammino si era fatto difficoltoso. Non era più il manager di ferro a volte brusco, ruvido, inflessibile, era semplicemente un uomo che si trovava di fronte alla sua malattia. A chi lo sollecitava a curarsi, a riposare, a prendersi cura di sé, di fronte all’evidenza del suo stato, lui ancora sorridendo diceva «lo prometto». Quando ha deciso di prendersi cura di sé lo ha poi fatto a modo suo: «Mi arrendo», assicurava alle persone che si raccomandavano con lui. In effetti, dopo solo due giorni, si è poi deciso ad entrare in clinica, in Svizzera. Forse non serve disquisire se fosse meglio un ricovero in una clinica negli Stati Uniti, se dovesse o meno essere operato, se dovesse essere sottoposto unicamente a delle terapie. Poi quei lunghi giorni di silenzio. La scelta di recarsi all’ospedale universitario di Zurigo – quella che lui ha fatto con i suoi cari – è stata probabilmente quella più giusta per lui. Si può solo pensare alla sofferenza di chi gli era a fianco nel vederlo spegnersi, alla compagna Manuela che lo ha assistito stendendo attorno a lui un cordone protettivo e impenetrabile. Quando sabato il presidente di Fca, John Elkann, dopo essere stato varie volte a Zurigo ha comunicato che Marchionne non sarebbe più tornato in azienda, si è evidenziata l’accelerazione di una fine, a cui, anche oggi, è difficile credere. Di certo Marchionne non avrebbe mai voluto lasciare Fiat Chrysler, «la sua società». La creatura che ha contribuito in modo determinante a far diventare il settimo costruttore al mondo. Nei giorni d’attesa la clinica è rimasta un fortino inespugnabile per tutelare la sua privacy. Per anni Marchionne è stato il garante di una storia industriale di casa nostra, che aveva ridato prestigio al Paese. Chi è stato ad Auburn Hills, sede della Chrysler ed ora di Fca, il palazzo con la maggiore estensione di tutti gli Stati Uniti, dopo la Casa Bianca, dove si circola da un’ala all’altra in macchina, non può non provare un sentimento di orgoglio: la piccola Fiat, quella che Marchionne aveva preso in mano nel 2004, ammaccata da ogni parte, era arrivata nella culla dell’automobile mondiale. A Detroit lo chiamavano semplicemente Sergio, il suo nome era un lasciapassare usato da tutti gli italiani. Quante volte ha confessato ai suoi di aver lottato senza avere dalla sua parte una politica industriale, spesso incompreso. Il suo fisico ha pagato la fatica di tutti questi anni, i viaggi continui, attraversando l’Oceano, dormendo poche ore, vacanze limitate a qualche giorno, con le pause del riposo ingannate dal fuso orario. Torino e Detroit avanti e indietro centinaia di volte. Vogliamo credere che non abbia sofferto, che si sia allontanato per qualche tempo. Un post messo sui social recita «chi più alto sale, più alto vede; chi più lontano vede, più a lungo sogna».

Ecco la causa della morte di Marchionne. Complicazioni inattese e improvvise dopo l'operazione alla spalla, con un arresto cardiaco cui ne è seguito un altro. Ecco quali sarebbero le vere cause della morte di Marchionne. Per alcune fonti vicine alla famiglia non si è trattato di un tumore, scrive Raffaello Binelli, Mercoledì 25/07/2018, su "Il Giornale". Dopo la notizia, giunta improvvisa sabato scorso, dell'uscita di scena di Sergio Marchionne dalla guida di Fca, per gravi motivi di salute, subito erano circolate indiscrezioni sulle condizioni di salute del manager e su quale potesse essere la malattia che lo aveva colpito in modo così pesante da rendere inevitabile l'abbandono del timone dell'azienda. Si sapeva solo una cosa: alla fine di giugno si era recato in una clinica di Zurigo per un'operazione alla spalla, che gli causava problemi. Qualche giorno fa, invece, Franzo Grande Stevens, ex legale degli Agnelli, in un'intervista al Corriere della sera aveva dichiarato che a Marchionne erano state fatali le sigarette, a cui non era mai riuscito a rinunciare. E subito si era rafforzata la convinzione che si trattasse di un tumore, che avrebbe aggredito Marchionne alla parte alta dei polmoni. Ora si apprende che dopo l'operazione alla spalla di fine giugno, Marchionne ha avuto delle complicazioni "inattese e improvvise" che lo hanno portato a un arresto cardiaco. Il manager è stato portato in rianimazione ma non dipendeva in maniera sistematica dalle macchine, che gli erano da supporto. Il manager italo-canadese ha avuto un ulteriore arresto cardiaco che lo ha portato a un decesso naturale. Secondo fonti vicine alle famiglia l'operazione alla spalla non era per un tumore.

Sergio Marchionne, la conferma: ucciso dal secondo arresto cardiaco in pochi giorni. Ecco cosa non torna, scrive il 25 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Dopo le indiscrezioni rilanciate da chi era vicino alla famiglia, la notizia viene battuta dalle agenzie di stampa: la morte di Sergio Marchionne sarebbe dovuta a un arresto cardiaco, il secondo in pochi giorni subito dall'ex ad di Fca, scomparso oggi, mercoledì 25 luglio, in ospedale a Zurigo, dove era ricoverato dalla fine di giugno. La notizia viene data anche dalla AdnKronos: secondo quanto si è appreso, durante la fase di recupero dall'intervento alla spalla, si sarebbero infatti manifestate improvvise quanto imprevedibili complicazioni post operatorie che hanno provocato il primo arresto. Di qui il trasferimento del manager in terapia intensiva per essere sottoposto ad un costante monitoraggio. E, mentre ancora si trovava in terapia intensiva, sempre a quanto si apprende, sarebbe sopraggiunto un secondo arresto cardiaco, fatale. Non, quindi l’evoluzione negativa di un male incurabile come si era ipotizzato quando si era diffusa la notizia di un improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. Resta però da comprendere come dall'intervento alla spalla si sia potuti arrivare a un doppio arresto cardiaco e, dunque, alla morte.

Marchionne e la malattia: "Aveva un sarcoma, neppure Elkann sapeva". Secondo l'ospedale di Zurigo Marchionne è morto dopo due arresti cardiocircolatori. Secondo alcune indiscrezioni il manager sarebbe stato colpito da un sarcoma, una grave forma tumorale che colpisce il tessuto connettivo. Oltre alla compagna anche il manager Altavilla sarebbe stato a conoscenza della malattia, scrive Raffaello Binelli, Mercoledì 25/07/2018, su "Il Giornale". Dall'ospedale di Zurigo hanno fatto sapere che Sergio Marchionne è morto dopo che complicazioni "inattese e improvvise" dell’intervento alla spalla lo hanno portato a un arresto cardiaco. Il manager è stato portato in rianimazione, ma non dipendeva in maniera sistematica dalle macchine, che gli erano solo da supporto. Un altro arresto cardiaco ne ha causato la morte, avvenuta per "decesso naturale". Secondo fonti dell’ospedale il tumore non è la causa del decesso. Ma che tipo di problema aveva alla spalla, per il quale è stato necessario un intervento chirurgico? Secondo Lettera43 all'ex ad di Fca era stato diagnosticato un sarcoma alla spalla, di tipo invasivo. I sarcomi sono tumori maligni del tessuto connettivo. Pare che da tempo Marchionne soffrisse di forti dolori alla spalla, al punto che aveva difficoltà a muovere il braccio e assumeva cortisone per cercare di attenuare il dolore. Neanche John Elkann sarebbe stato a conoscenza dei gravi problemi di salute del manager, a cui Marchionne avrebbe solo detto, per comprensibili motivi di riservatezza, di doversi ricoverare solo per risolvere un fastidio, prima di riprendere il timone dell'azienda in vista degli impegni in programma a luglio. Poi, però, l'assenza dal lavoro si è protratta oltre il previsto e la malattia non ha dato scampo all'italo-canadese. Durante l'intervento, secondo alcune fonti citate dal quotidiano online (che pretendono l'anonimato) la situazione, già grave in partenza, è degenerata. Marchionne è stato colpito da embolia cerebrale, fino ad entrare in coma. Le macchine a cui è stato attaccato lo hanno tenuto in vita per un po' (tesi questa smentita dall'ospedale). Elkann si è precipitato a Zurigo per fargli visita ma non gli è stato permesso di vederlo. I medici, perl, gli hanno detto che non c'erano più speranze di una ripresa. Il resto è cronaca degli ultimi giorni, dalla convocazione d'urgenza dei cda del gruppo, fino alla lettera ai dipendenti, ai giorni di apprensione ed alla notizia della morte. Il sito Dagospia avanza però un altro sospetto. Marchionne avrebbe saputo da tempo di avere un cancro ai polmoni. Il primo a saperlo, dopo la compagna Manuela Battezzato, sarebbe stato il manager di Fca, Alfredo Altavilla. "Penso di avere una cosa grave”, gli avrebbe detto Marchionne una settimana prima della sua ultima apparizione, il 26 giugno a Roma, per la consegna della Jeep all'Arma dei Carabinieri. "Credo di sfangarla per un po’". E ancora: "Vorrei che tu continuassi il mio lavoro…". Poi però la situazione è precipitata: quel fastidioso dolore alla spalla era molto più grave del previsto. Si è portato via il manager che aveva salvato la Fiat. Lasciando tutti di stucco.

Morte Sergio Marchionne, Vittorio Feltri il 25 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano": colpa più della sfiga che del fumo. Pubblichiamo l'articolo di Vittorio Feltri pubblicato su Libero di mercoledì 25 luglio, il giorno in cui è morto Sergio Marchionne. Negli ultimi giorni, sull'ex ad di Fca, si è letto e sentito di tutto. In molti hanno puntato il dito contro le sigarette. E questo commento di Feltri, proprio a Marchionne e alle sigarette è dedicato. Leggo qua e là su vari giornali che Sergio Marchionne sarebbe in gravi condizioni di salute (si parla di coma irreversibile) a causa di un tumore al polmone provocato dal fumo di sigaretta. Può darsi che sia vero, non sono medico (per fortuna) e neppure infermiere, quindi non sono in grado di emettere diagnosi. Però osservo da anni che qualsiasi malattia mortale viene attribuita al tabacco. Il quale probabilmente, consumato in dosi industriali, non giova alla salute. Tuttavia registro un fenomeno. Ogni volta che vado in ospedale per fare dei controlli periodici, i signori dottori, avendo esaminato con attenzione mirabile i risultati degli accertamenti svolti sul mio corpo, specialmente sul cuore e sui polmoni, mi domandano: ma lei fuma? Rispondo: sì, certamente. Da quando? Da sempre. Quante sigarette? Più che posso. Dall’espressione del loro volto, intuisco che sono esterrefatti. Ed io subito li quieto dicendo: mio padre morì a 43 anni, nel 1950, dopo aver bruciato migliaia di paglie, eppure le cause del suo decesso furono di natura renale: morbo di Addison, che oggi si cura e si guarisce in una settimana. Il mio babbo fu sfigato, ammalandosi in un’epoca in cui la medicina non era attrezzata per tenerlo in vita. Amen. Mia madre invece, pur avendo fumato per decenni come una ciminiera, se ne andò all’altro mondo poco prima di aver compiuto 90 anni. Ciò non toglie un briciolo di verità al fatto che aspirare nuvolette azzurre puzzolenti da mane a sera non sia il modo migliore per tenere pulite le vie respiratorie. Tuttavia non esageriamo nell’accusare le cicche di qualsiasi guaio che colpisce l’umanità. C’è gente obesa (poca) che campa a lungo oppure che crepa presto. La carne fa male? Non credo, sebbene non ne mangi. Il pesce contiene mercurio e ti uccide? Non lo escludo. La sedentarietà porta alla tomba? Io percorro meno di un chilometro al giorno e a 75 anni sono ancora qui a lavorare tutto il dì. Mi viene il sospetto che ogni persona sia un pianeta a sé e non sia paragonabile ai propri simili. Il fumo è nocivo come tante altre cose, non è l’unico nemico della salute. Dicono che l’inquinamento delle metropoli sia esiziale. E che Milano sia la città italiana più inquinata. Ma si dà il caso che chi ci abita abbia le aspettative di esistenza più lunghe della nazione. Viene voglia di dire che l’aria schifosa sia un toccasana. Le statistiche lo confermano. Nel mio piccolo ho capito: è la vita che distrugge il fisico, tanto è vero che a forza di vivere si va al creatore, tutti. La durata della permanenza sulla terra dipende dal culo. Se ne hai tanto arrivi a cento anni, altrimenti te ne vai prima anche senza stringere tra le labbra una sigaretta. A proposito, me ne accendo una, e sia come dio vorrà.

Marchionne colpito da embolia. Al manager era stato diagnosticato un sarcoma alla spalla invasivo. A Elkann disse solo che andava a Zurigo per un check up. Durante l'operazione una complicazione del quadro clinico gli ha inibito le funzioni cerebrali in maniera irreversibile, scrive Paolo Madron il 24 luglio 2018 su "Lettera 43". Quando Sergio Marchionne, due giorni dopo quella che sarebbe stata la sua ultima uscita pubblica a Roma alla cerimonia della donazione di una Jeep ai carabinieri avvenuta il 26 giugno, è entrato all’Universitätsspital di Zurigo, sapeva benissimo che le sue condizioni di salute erano al limite (leggi Le frasi celebri di Sergio Marchionne). Gli era stato diagnosticato tempo addietro un sarcoma alla spalla, piuttosto invasivo, e nell’occasione gli erano stati addirittura manifestati alcuni dubbi sull’efficacia dell’operazione, ritenuta ad alto rischio. Da tempo il manager soffriva di forti dolori alla spalla che ne rendevano difficili i movimenti del braccio, e assumeva del cortisone nel tentativo di lenirli. Questo in un quadro clinico già debilitato da un cronico problema alla tiroide per cui prendeva quotidianamente dei farmaci (leggi anche: Marchionne, il negoziatore col pugno di ferro e La vita di Marchionne in foto). Secondo quanto risulta a Lettera43.it anche John Elkann sarebbe stato all'oscuro delle reali condizioni del manager, nonostante gli fosse evidente lo stato di prostrazione in cui l’amministratore delegato di Fca versava negli ultimi tempi. Lo aveva attribuito a uno stato di particolare affaticamento, dopo una difficile stagione che di lì a poco sarebbe culminata con la presentazione, il 25 luglio, dei risultati del semestre. Tant’è che, per non destare sospetti Marchionne, prima del ricovero, aveva confermato una serie di appuntamenti in programma agli inizi di luglio. E al suo presidente aveva motivato la breva assenza con la scusa di un check up di routine. Tutto sembrava sotto controllo, e l’annunciato ricovero solo un piccolo fastidio da risolvere prima di presentarsi davanti agli analisti per spiegare i brillanti risultati del gruppo. Insomma, il suo ricovero a Zurigo doveva durare giusto il tempo di un ordinario intervento di ortopedia, e poi il manager sarebbe prontamente rientrato al Lingotto. Nessun sospetto che si trattasse di una patologia tumorale (Leggi anche: caso Marchionne, 10 domande in attesa di risposta). L’operazione invece, secondo la ricostruzione di fonti che ovviamente pretendono l’anonimato, già complicata di suo, è degenerata nel dramma. Marchionne infatti, nel pieno dell’intervento, sarebbe stato colpito da embolia cerebrale precipitando in coma. E a nulla sono valsi i disperati interventi dell’équipe medica per rianimarlo. I danni cerebrali avrebbero reso la situazione irreversibile, e da quel momento il manager è tenuto in vita artificialmente dalle macchine. A Elkann, precipitatosi a Zurigo (dove è presente anche la compagna di Marchionne Manuela Battezzato) nello sconcerto più totale, non è stato permesso vederlo. I medici hanno fatto presente come non vi fossero più speranze di ripresa. Di qui l’inopinata decisione di nominare un nuovo amministratore delegato, e non più l’assegnazione provvisoria delle sue deleghe. Quindi il comunicato del Lingotto e la successiva lettera di Elkann ai dipendenti, che nei toni di incredulità e dolore, e il reiterato uso del tempo passato, aveva i toni di un necrologio.

ALTRO CHE SIGARETTE. Sergio Marchionne, lo scoop di Melania Rizzoli su "Libero Quotidiano il 27 Luglio 2018: ecco di cosa è morto, la menzogna svelata. Quando è esplosa la notizia dell’intervento alla spalla di Sergio Marchionne, e delle sue drammatiche conseguenze, al manager più famoso al mondo è stato sospettato dalla stampa nazionale un tumore maligno del polmone dovuto al vizio incontenibile del fumo. Invece, a quanto pare, questo particolare paziente era affetto non dal cancro, ma dalla più temibile delle patologie, appartenente alla categoria dei sarcomi, malattie rare che con le sigarette non hanno davvero nulla a che fare. Il sarcoma infatti, è il più maligno dei tumori maligni, perché questo tipo di neoplasia non deriva dal corrispettivo tumore benigno come spesso accade nei carcinomi, ma nasce già con le caratteristiche di elevata malignità, ed è una patologia insidiosa, invasiva, altamente infiltrante, che metastatizza rapidamente, principalmente per via ematica, ma anche per diffusione linfatica, grazie alle strette interconnessioni tra il sistema vascolare e linfatico. I sarcomi sono definiti scientificamente tumori maligni del tessuto connettivo, vale a dire del tessuto di sostegno dell’organismo, e sono considerati rari, con «soli» 15mila nuovi casi registrati ogni anno negli Stati Uniti rispetto agli adenocarcinomi, rappresentando quindi soltanto l’1% delle oltre 1,5 milioni di nuove diagnosi di cancro in quel paese ogni anno. I sarcomi colpiscono persone di tutte le età, possono insorgere ovunque nell’organismo, compresi testa, collo, scheletro e organi interni, e circa il 50% dei sarcomi ossei, tra cui il sarcoma di Ewing e l’osteosarcoma sono molto più comuni nei bambini e negli adolescenti, mentre il 20% dei sarcomi dei tessuti molli, come il leiomiosarcoma e il condrosarcoma, vengono diagnosticati in individui inferiori ai 30 anni, mentre la fascia d’età più colpita resta comunque quella tra i 50 e i 65 anni. I sarcomi completano il loro nome composto dai tessuti di provenienza (liposarcoma dal tessuto adiposo, osteosarcoma dal tessuto osseo, fibrosarcoma dal tessuto connettivo, angiosarcoma dai vasi sanguigni e così via) ed all’inizio possono avere bassa invasività (low-grade), ma in breve tempo virano in modalità aggressiva (high-grade), e nonostante possa essere coinvolta qualunque parte anatomica, essi aggrediscono prevalentemente le braccia e le gambe.

SINTOMI. La patologia è subdola, si può manifestare inizialmente con la presenza di una tumefazione simile a un livido, che generalmente viene attribuita ad una contusione o a un trauma del quale non si ha ricordo, che però non regredisce, oppure con un dolore osseo, che nei giovani viene associato alla crescita o ad un trauma sportivo, ma dal momento che il sarcoma può comparire come una massa tumorale che si sviluppa in profondità nel corpo, la sua scoperta può avvenire dopo che il paziente lamenta dolore da compressione di un organo o di un nervo, o scopre perdite di sangue, quando è troppo tardi, perché il sarcoma cresce rapidamente, e presto dà segni della sua maligna presenza.

DIAGNOSI. La diagnosi viene effettuata in primis mediante ecografia, a cui segue risonanza magnetica e tac, ma bisogna sempre attendere la biopsia con ago aspirato del tessuto neoplastico per avere la conferma istologica sicura, corretta e certificata. Nonostante la rarità della patologia, si stima che esistano oltre cinquanta tipi di sarcomi, che richiedono trattamenti terapeutici tra loro differenti, ed al momento della scoperta della malattia bisogna sempre accertare l’invasività della stessa, se cioè sia già infiltrata nei tessuti limitrofi, se sia quindi operabile, o se abbia già sviluppato metastasi a distanza, se non vere e proprie sedi tumorali secondarie.

TERAPIA. Il trattamento del sarcoma varia a seconda del tipo istologico individuato dalla biopsia, dalla sua malignità, dal suo stato di crescita e dalla sua sede di insorgenza, dalla vicinanza o coinvolgimento di organi vitali, ma in ogni caso richiede un approccio multidisciplinare che comprenda chirurghi generali, chirurghi oncologi, oncologi clinici ed esperti di anatomia patologica e di radioterapia. L’intervento chirurgico di rimozione è molto importante nel trattamento della maggior parte dei sarcomi, quelli considerati estirpabili, ma con una diagnosi così pesante, insidiosa ed imprevedibile, è sempre necessario associare la radio e la chemioterapia per lunghi periodi.

L’osteo-sarcoma, per esempio, che nasce dalle ossa, se genera da un arto inferiore, come accade di frequente, se diagnosticato per tempo, va sempre rimosso con la amputazione chirurgica dell’arto, come è accaduto in passato ad un giovane nipote del presidente John Fitzgerald Kennedy. Ma se la sede del sarcoma non è amputabile o totalmente rimovibile, la situazione di sovente si complica e il destino è segnato. La famiglia di Sergio Marchionne ha smentito che la causa di morte fosse dovuta ad un tumore, attribuendola ad un arresto cardiaco, ma il direttore di Lettera 43, Paolo Madron, ha fornito una ricostruzione esclusiva della malattia che lo ha portato sul tavolo operatorio, rivelando che il Ceo di Fca «soffriva di forti dolori alla spalla ed assumeva del cortisone nel tentativo di lenirli». Il direttore afferma infatti, che a Marchionne da tempo «era stato diagnosticato un sarcoma alla spalla, piuttosto invasivo ed infiltrante nel polmone, e nell’occasione gli erano stati addirittura manifestati alcuni dubbi sull’efficacia dell’operazione, ritenuta «ad alto rischio», aggiungendo quanto fosse evidente nell’ultimo mese lo stato di prostrazione in cui versava l’amministratore delegato. Il fatto è che qualsiasi paziente, anche se non istruito, o intelligente, colto e informato come Marchionne, nel momento in cui apprende di essere affetto da una patologica così grave e potenzialmente letale, cerca disperatamente il chirurgo disposto ad operare, nel tentativo di estirpare la patologia o parte di essa, e si affida ad esso pur sapendo di correre un rischio altissimo, ritenendolo sempre minore del portarsi addosso la consapevolezza quotidiana di avere un tumore maligno considerato inoperabile. L’operazione del manager però, sfortunatamente è degenerata nel dramma, perché, sempre secondo il racconto di Paolo Madron «Marchionne, nel pieno dell’intervento, sarebbe stato colpito da una embolia cerebrale, precipitando in coma. E a nulla sono valsi i disperati tentativi dell’equipe medica per rianimarlo. I danni cerebrali avrebbero reso la situazione irreversibile, e da quel momento il paziente è stato ritenuto in morte cerebrale e tenuto in vita dalle macchine, fino al momento del decesso». Ovvero dell’arresto cardio-circolatorio confermato dalla famiglia, l’evento finale con il quale di fatto si certifica la morte fisica in tutti i decessi.

PROBLEMI DI TIROIDE. Questo il racconto rilasciato dal direttore di Lettera 43, il quale aggiunge che la situazione sarebbe stata complicata anche dalle condizioni precarie di un organo vitale, ovvero della tiroide del manager, che aveva un un problema per il quale il paziente era costretto ad assumere farmaci ogni giorno, e che, come è noto, è una ghiandola essenziale per la vita, che interferisce in molte funzioni fisiologiche, soprattutto pressorie e cardiache. Non è dato sapere se durante l’intervento il paziente abbia subìto anche un arresto cardiaco, ma di certo la mancanza di ossigeno cerebrale dovuta all’embolia occludente, perdurata evidentemente oltre il tempo di recupero, ha di fatto determinato l’insorgere del coma irreversibile, per prolungata anossia encefalica.

Ogni intervento chirurgico, anche il più semplice, di norma ha un suo rischio calcolato, per il quale oggi si richiede al paziente di firmare il consenso informato prima dell’anestesia, ma fortunatamente succede rarissimamente che ad un paziente si fermi il cuore e che il suo battito venga riattivato sul tavolo operatorio durante l’operazione, o che sviluppi un’embolia durante l’intervento, come pare sia accaduto a Marchionne. L’evento determinante la tragedia, in casi come questi, può essere un errore umano o un accidente vascolare o cardiaco non previsto, oppure un cedimento d’organo, insomma quello che da noi medici viene definito una complicanza grave e non prevedibile, e che nel gergo popolare è tradotto con il termine di sfortuna. Di certo resta che questo paziente di 66 anni, che ha scelto di sua volontà quel centro clinico di Zurigo, un polo oncologico di eccellenza, e quel chirurgo operatore con la sua equipe, che ha firmato il consenso informato, che ha salutato i familiari prima di addormentarsi fiducioso nel sonno dell’anestesia, entrato cosciente e consapevole in quella sala operatoria, da quella stessa sala è uscito in coma irreversibile, intubato e attaccato al respiratore, e Sergio Marchionne non è quindi morto per un maledetto sarcoma che paradossalmente non aveva avuto ancora il tempo di espletare il suo noto effetto devastante, ma per una complicazione che gli ha spento il cervello e fermato per sempre il cuore. di Melania Rizzoli

Sergio Marchionne, il retroscena sulla malattia: "Perché l'ha nascosta a Elkann", una scelta straziante, scrive il 27 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Un drammatico segreto, custodito per un anno da Sergio Marchionne insieme ai famigliari, la compagna Manuela Battezzato e ai medici della clinica di Zurigo, dove è morto la mattina del 25 luglio. Loro, e solo loro: Fiat Chrysler e John Elkann erano all'oscuro della "grave malattia", un sarcoma alla spalla, che aveva colpito da mesi il Ceo di Fca e che lo aveva costretto a continui controlli e cicli di cure in Svizzera. Un problema non a poco, per il gruppo italo-americano, visto che la vicenda è passibile di inchieste incrociate di Consob e Sec nel rispetto delle leggi che in Italia e Usa impongono alle aziende la massima trasparenza anche sulle condizioni di salute dei loro vertici. Marchionne, spiega Repubblica, avrebbe invece scelto di tacere, per motivi molto umani. "Probabilmente - scrive Paolo Griseri  - sperava che la malattia gli desse ancora un po' di tempo. Per chiudere il piano industriale e lasciare Fca nei tempi previsti (nel 2019, ndr). Magari per riuscire a vincere, da presidente Ferrari, il mondiale di Formula uno. Aspirazioni umane, soprattutto per chi è sempre stato abituato a superare con la volontà le difficoltà più grandi". Un piano organizzato da tempo e precipitato nel giro di pochi giorni, e una scelta, quella del silenzio, che ora grava sulle spalle della famiglia e dei responsabili della clinica svizzera.

LA RICOSTRUZIONE E I DUBBI. Sergio Marchionne, la malattia e John Elkann, quello che non torna. "Appena tre giorni prima del dramma...", scrive il 27 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Fiat Chrysler e John Elkann sapevano che Sergio Marchionne era malato? Alla domanda delle domande potrebbe rispondere una congiuntura temporale decisamente sospetta. Come ricorda Stefano Feltri sul Fatto quotidiano, lo scorso 18 luglio (una ventina di giorni dopo l'operazione alla spalla e appena tre giorni prima l'inizio del dramma, con la convocazione d'urgenza del cda di Fca) il Lingotto smentisce le indiscrezioni di Dagospia sull'avvicendamento tra il Ceo e Vittorio Colao, ex ad Vodafone: "Come già più volte dichiarato dalla società è previsto che l'avvicendamento avvenga a tempo debito, con una soluzione interna, a seguito di un preciso processo decisionale da tempo in corso". Tutto normale, sottolinea Feltri, nessuna accelerazione in vista. Il 20 luglio Fca smentisce che nel Cda convocato d'urgenza per il giorno successivo sia all'ordine del giorno la redistribuzione delle deleghe di Marchionne. Erano le 16.20 di venerdì. "Si deve desumere - conclude Feltri - che dopo quell'ora Elkann riceva le comunicazioni dalla famiglia di Marchionne sulle reali condizioni del manager e in poche ore si avvii la procedura di successione, visto che già alle 7.53 del mattino dopo l'Ansa annuncia che il cda di Fca discuterà della successione al vertice".

Altavilla: "Fca era all'oscuro. Marchionne non disse nulla". Il manager dimissionario: "Avrei informato il gruppo in caso di malattie". La Consob: "In corso le verifiche", scrive Pierluigi Bonora, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". «Non ero a conoscenza della malattia di Sergio Marchionne. L'avessi saputo, avrei informato i competenti organi societari in materia di compliance». La precisazione è di Alfredo Altavilla, il dimissionario coo di Fca per i mercati Emea, smentendo, in questo modo, una serie di indiscrezioni che lo davano al corrente dello stato di salute dell'ex ad di Fca. A pochi giorni dalla scomparsa del top manager avvenuta all'Ospedale universitario di Zurigo, che tra l'altro ha fatto sapere che Marchionne era affetto da una malattia grave e per questo da un anno sottoposto a cure nel centro medico svizzero, la discussione verte proprio sul motivo per il quale solo all'ultimo sia il presidente John Elkann sia il mercato sono stati informati che la situazione in cui verteva l'ad era senza ritorno. A porsi delle domande sono i mercati, visto che l'andamento di un'azienda insieme al perseguimento di piani e obiettivi, dipendono dalle condizioni di salute di chi ne ha la responsabilità. Marchionne, in proposito, era sì malato, e da qualche mese si vedeva chiaramente, incontrandolo, che qualcosa non andava: «Sono stanco», diceva spesso e «confermo che nel 2019 esco da Fca» per rimanere in sella al Cavallino. E proprio in vista della sua nuova sua vita, sembra che Marchionne avesse già adocchiato il posto dove andare ad abitare, nelle campagne tra Sassuolo e Maranello, dove si mangia e si beve bene. Seppur sofferente e affaticato, l'ex ad di Fca e presidente di Ferrari, è comunque riuscito a portare avanti i suoi progetti (tra cui la realizzazione del piano per il Lingotto al 2022 e il meccanismo di scorporo di Magneti Marelli), viaggiando sempre tanto, sino a quando è entrato in ospedale, un mese fa, ma con la prospettiva di tornare al lavoro visti gli appuntamenti fissati. Lionel Laurent, editorialista di Bloomberg, rileva, in proposito, come Marchionne avesse già affrontato da tempo (sembra quasi una premonizione) il problema della sua successione, identificando con il presidente Elkann i candidati, e magari vedendo proprio nell'inglese Mike Manley la persona ideale a guidare il Lingotto. Potrebbe essere stato lo stesso top manager, inoltre, a chiedere alla compagna Manuela Battezzato, impiegata all'ufficio comunicazione di Fca, di tenere la bocca chiusa anche con i vertici del Lingotto. Così è stato, fino a quando il presidente Elkann ha constatato personalmente che Marchionne era in fin di vita. Da qui la rivoluzione ai vertici delle società guidate da Marchionne: Fca, Ferrari e Cnh Industrial. Resta, però, il nodo della mancata informazione ai mercati. La Consob, che vigila su Piazza Affari, ha in corso «verifiche di routine», spiegano fonti vicine alla Commissione. E ciò accade «ogni volta si verifica un evento price sensitive». Dai primi riscontri «sull'operatività del titolo, sembra che il contesto informativo sia stato coerente» e non ci sarebbero elementi che farebbero pensare alla necessità di approfondimenti. Negli Usa, dove Fca e Ferrari sono pure quotate, è però possibile che partano azioni legali, vista l'abitudine, da quelle parti, di avviare class action anche per casi come questi. «L'episodio che la Casa automobilistica non fosse a conoscenza della malattia di Marchionne - riporta un sito finanziario Usa - pone interrogativi su quando i top manager dovrebbero informare i consigli di amministrazione di gravi malesseri e se i consigli stessi, a loro volta, dovrebbero rivelare tali informazioni agli azionisti». No comment dalla Sec. L'estate, su questo fronte, si preannuncia caldissima: il silenzio sul ricovero, la comunicazione forzata dell'operazione alla spalla destra, le prime indiscrezioni sulla malattia, la rivelazione di complicazioni con l'impossibilità di Marchionne di partecipare alla conference call sui conti, il coma irreversibile, le convocazioni dei cda, la morte dopo due arresti cardiaci in seguito all'intervento, l'ospedale che invece conferma la malattia grave da un anno, il fatto che Fca non sapesse nulla. E ora gli investitori che chiedono chiarezza.

Tutto quello che Elkann non sapeva di Marchionne, scrive il 26 luglio 2018 Samuele Cafasso su "Lettera 43". Prima della visita di venerdì 20 luglio il presidente di Fca era già stato all'ospedale di Zurigo martedì 17, ma era stato tenuto all'oscuro della gravità della malattia. La ricostruzione. Da una parte l'ospedale di Zurigo che ufficializza quanto già anticipato da Lettera43.it, ovvero che Sergio Marchionne era da tempo malato, sapeva di soffrire di una patologia grave e che l'operazione a cui si sarebbe sottoposto non era una passeggiata. Dall'altra Fca che, in una dichiarazione alle agenzie di stampa, precisa di essere venuta a conoscenza delle cattive condizioni di salute del manager italo-canadese solo venerdì 20 luglio, informata dalla famiglia, decidendo subito dopo e «prontamente» di assumere le misure adeguate per garantire alla casa automobilistica una guida salda. Mentre si spengono a poco a poco le parole di cordoglio per la morte di Marchionne, le dichiarazioni in sequenza dell'ospedale e dell'azienda fanno capire quanto, al di là delle formule di rito, il tema della malattia del manager e come questa è stata comunicata ai mercati diventerà centrale nei prossimi giorni e mesi. La questione è molto chiara: perché Fca non si è mossa prima per garantire all'azienda un passaggio di consegne meno turbolento? Ed era dovere o no dell'azienda avvisare i mercati delle condizioni di salute di Marchionne, soprattutto dopo l'operazione? Domande a cui l'azienda risponde molto nettamente: noi eravamo all'oscuro di quanto stava succedendo. Una risposta che forse lascia trapelare anche una qualche forma di irritazione nei confronti della famiglia e che troverebbe conferma nella ricostruzione sugli ultimi giorni di vita del manager (leggi anche: caso Marchionne, 10 domande in attesa di risposta). Secondo quanto riferisce una fonte anonima a Lettera43.it, prima della visita di venerdì 20 luglio il presidente di Fca John Elkann era già stato a Zurigo martedì 17 luglio. In quell'occasione, Elkann non avrebbe avuto modo di vedere Marchionne e, anzi, la famiglia sarebbe stata molto generica nel riferire le condizioni di salute del loro congiunto. Elkann, quindi, torna a Torino senza avere ben chiaro il quadro generale. Per questo motivo, decide di tornare nella città svizzera poco dopo, venerdì. A quel punto è determinato a capire meglio cosa sta succedendo: il giorno della conference call con gli analisti per la presentazione della trimestrale è vicino e, indipendentemente dal fatto che Marchionne non ci sia, è chiaro che a quell'appuntamento è necessario fornire ai mercati informazioni chiare e univoche sull'immediato futuro dell'azienda. Una delle ipotesi è la ridistribuzione delle deleghe di cui Lettera43.it aveva dato notizia proprio quel venerdì.

VENERDÌ ELKANN REALIZZA LA GRAVITÀ DELLA SITUAZIONE. Ma quando Elkann si reca in ospedale per la seconda volta, realizza che la situazione è peggiore di quanto non gli era stata figurata in un primo momento. E decide quindi, in grande fretta, di procedere alla nomina del successore che avviene con la convocazione del cda di sabato. Ovvero, per dirla con le parole dell'ufficio stampa di Fca: «Venerdì 20 luglio la società è stata informata dalla famiglia del dottor Marchionne senza alcun dettaglio del serio deterioramento delle sue condizioni e che di conseguenza egli non sarebbe stato in grado di tornare al lavoro. La società ha quindi prontamente assunto e annunciato le necessarie iniziative il giorno seguente». La versione di Fca, è chiaro, tutela prima di tutto l'azienda contro eventuali rilievi (dalla Sec e dalla Consob) in merito alla mancanza di informazioni tempestive ai mercati, ma è anche coerente con la vicenda della doppia visita a Zurigo di Elkann. In realtà non c'è nessun obbligo di comunicazione specifico da parte di una quotata, per motivi di privacy, sulle condizioni di salute del proprio amministratore delegato, ma qui il caso è più delicato perché siamo in presenza di un uomo che era fisicamente impedito a svolgere il suo ruolo. Come raccontato in un articolo pubblicato la settimana scorsa, i casi di Warren Buffett e Steve Jobs hanno individuato due modi di agire contrapposti: negare tutto fino all'ultimo, come fatto da Apple, oppure fornire informazioni tempestive per evitare fughe di notizie e rumors, la strada invece scelta da Buffett e che sarebbe, ovviamente, la migliore da seguire. Nal caso di Fca, invece, l'unica versione fornita dall'azienda è stata quella dell'operazione alla spalla, che ha il pregio di non essere una bugia (questa sì, se ci fosse stata dovrebbe essere sanzionata), ma è anche una versione che minimizza molto la gravità dell'operazione a cui Marchionne era sottoposto.

MARCHIONNE AVEVA NASCOSTO LA GRAVITÀ DELLA SUA CONDIZIONE. A Marchionne era stato diagnosticato da tempo un sarcoma alla spalla. Adesso l'ospedale conferma che Marchionne «da oltre un anno si recava a cadenza regolare presso il nostro ospedale per curare una grave malattia». Di tutto questo, però, a quanto pare Elkann e Fca più in generale non era al corrente, anche se certamente al presidente non poteva sfuggire l'aggravarsi delle condizioni di salute del manager, un peggioramento attribuito alla stanchezza, alle molte ore di lavoro che erano il marchio di fabbrica del capo di Fca. Lui aveva sempre detto di voler guidare l'azienda fino ad aprile del 2019 e quello era l'obiettivo che intendeva rispettare, sebbene i medici non avessero fatto mistero delle difficoltà dell'operazione a cui sarebbe stato sottoposto. Eppure, Marchionne aveva rassicurato tutti sul fatto che sarebbe tornato a breve e, anzi, aveva già organizzato la sua agenda. Una promessa che oggi appare come una pietosa bugia, forse una debolezza umana.

Dalle voci sul male alla tragica fine Tutto in un mese. A giugno i primi sussurri. Poi il ricovero e la fine improvvisa. Che sconvolge la Fiat, scrive Tony Damascelli, Giovedì 26/07/2018, su "Il Giornale". Un mese di silenzio. Straziante. Un mese di voci. Maligne. È finito il tempo della speranza ultima e della corsa alla notizia esclusiva. Sergio Marchionne si porta via il brusio, quel rumore lontano di cose e di persone che si agitavano dinanzi al mistero, alle ipotesi, ai sospetti, pronti ad annunciare, per primi, il fatto, l'accaduto. Zurigo e la Svizzera non erano più zone neutrali, semmai il centro, anche morboso, di attenzione, alla ricerca dello scoop, dell'immagine clamorosa, di una voce, una testimonianza che potesse confermare o smentire. Un mese lungo e feroce assieme, nel quale il libro della Fiat, e non soltanto, si è improvvisamente aperto a scritture e letture di ogni tipo. Marchionne malato era una notizia impossibile da ascoltare ma facile da riferire, anche se alcuni segnali avrebbero dovuto offrire queste indicazioni, sollevare il dubbio che qualcosa stesse accadendo in quel corpo robusto, austero. Era affaticato, il grande manager, era solo e stanco, il fumo di cento, mille sigarette aveva intorpidito il suo respiro e i suoi polmoni, altri serpenti si erano introdotti nel suo organismo. Il ventisei di giugno aveva consegnato una Jeep in livrea ai vertici dell'Arma dei carabinieri, come atto in memoria di suo padre Concezio, maresciallo nei secoli fedele. Fu l'ultima uscita pubblica, come un estremo saluto in riverenza al padre e al mondo. Nelle ore successive, il viaggio in Svizzera. Una operazione alla spalla, niente di serio, niente di grave, così era stato detto, il dolore non era più sopportato e sopportabile, però le cure non davano gli effetti desiderati, dunque si era reso necessario e urgente il ricovero nella clinica universitaria di Zurigo, questa sembrava poter risolvere la questione. «Tranquilli torno presto», aveva detto ai suoi collaboratori più stretti. Una frase per trasmettere calma a chi già era in totale ansia, perché il male aveva già dato, da tempo, i suoi allarmi clandestini ma precisi. Improvviso, il silenzio. Improvvisa, la tensione, in famiglia e nel gruppo, a Torino, a Detroit. Elkann e i vertici di Fiat Fca hanno capito immediatamente che la situazione stava precipitando, il quadro clinico era peggiorato. E a quel punto le voci hanno preso a moltiplicarsi, minuto per minuto, giocando con la vita altrui. In azienda l'atmosfera era diversa, le notizie che arrivavano dalla Svizzera non concedevano conforto e nemmeno speranza. John Elkann era salito a Zurigo per salutare l'amico. La cultura di una qualunque multinazionale non prevede semplici compatimenti, ai di là delle manifestazioni di cordoglio e di affetto. Ogni casella dell'organigramma comporta una sostituzione in caso di eventi particolari; nelle scelte nulla è improvvisato, anche le dimissioni seguono a decisioni che erano previste. Così era accaduto con Morchio che, dopo aver tentato di prendere in mano il volante dell'impresa, era stato poi costretto a lasciare la carica di amministratore delegato di Fiat con l'arrivo alla presidenza di Luca Cordero di Montezemolo, dopo la scomparsa di Umberto Agnelli, nel maggio del duemila e quattro. Così è accaduto con Alfredo Altavilla, direttore operativo Fca e braccio destro di Marchionne, che ha lasciato l'incarico, dopo la nomina di Mike Manley ad amministratore delegato e di Louis Camilleri in Ferrari. Quando, al primo giorno di giugno, Sergio Marchionne si presentò con la cravatta per annunciare l'azzeramento del debito netto industriale citò una frase di Oscar Wilde «Una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita». Oggi mi permetto di aggiungere altre parole dello scrittore irlandese: «Tutti ti amano quando sei due metri sotto terra».

Sergio Marchionne, il mistero sui funerali e l'indiscrezione sulla compagna Manuela Battezzato, scrive il 25 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Gli ultimi giorni di Sergio Marchionne sono stati caratterizzati dalla massima riservatezza: di Fca, della sua famiglia, della struttura di Zurigo in cui era ricoverato. E ora, dopo la sua morte, il registro non cambia: poche comunicazioni ufficiali, poche spiegazioni su come se ne sia andato. E anche per quel che riguarda i funerali il riserbo è massimo. Almeno lo è stato inizialmente. Da subito le indiscrezioni indicavano che potrebbero tenersi in tre luoghi: in Canada, in Abruzzo oppure a Zurigo. Rispettivamente il Paese in cui ha vissuto da ragazzino, la sua regione natia e la città svizzera in cui risiedeva ora. E ancora, la sua famiglia - la compagna Manuela Battezzato e i figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler - vorrebbero una cerimonia funebre rigorosamente privata: dunque niente camera ardente al Lingotto, come si ipotizzava, e niente cerimonie pubbliche. Il funerale in forma privata è stato poi confermato. E, si apprende, il manager verrà ricordato anche a Torino a fine agosto, in un appuntamento ancora da definire.

Sergio Marchionne, il segreto più privato: perché si innamorò di Manuela Battezzato, scrive il 26 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Vita e lavoro, per Sergio Marchionne, coincidevano. Una passione, quasi una vocazione quella per la Fca sublimata dal segreto più dolce e meglio custodito dal manager scomparso mercoledì a 66 anni, la relazione con Manuela Battezzato. Era la sua segretaria, ricorda Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, e non è un caso che l'amore sia nato per una dipendente Fiat settore comunicazione: si sono conosciuti quando Marchionne è arrivato al Lingotto e dal 2012 erano una coppia, lontano dai clamori del gossip. Manuela, certo, e insieme a lei la Fiat Chrysler, l'altro grande amore di Marchionne negli ultimi 10 anni: dormiva 3 o 4 ore per notte, riposava quando il fuso e i viaggi glielo permettevano, ferie praticamente cancellate, giusto qualche giorno di riposo tra un volo intercontinentale e l'altro, nel caso. La spola tra Torino, Detroit, Washington e la Svizzera, doveva viveva quando, appunto, il lavoro glielo permetteva. E un vizio, pericolosissimo: le sigarette, tre pacchetti al giorno, da intervallare ai suoi mille interessi extra-professionali, se così si può dire: la Ferrari, i Gran Premi da vivere nel box, la Juventus, i giornali del mondo Agnelli. Dopo tutto, è un miracolo che l'uomo che ha salvato la Fiat abbia anche trovato il tempo di innamorarsi.

Marchionne: la compagna Manuela («la mia fortuna»), i figli, l’amore per l’Italia: il volto segreto del manager. La sua sciarpa grigia: «Me l’hanno regalata i ragazzi della mia squadra, sono felici se me la vedono addosso», scrive Bianca Carretto il 25 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Sergio Marchionne — scomparso oggi, mercoledì 25 luglio, all’età di 66 anni — era un uomo pubblico, entrato nelle case di tutti, conquistando la gente comune. Ma è sempre stato estremamente riservato sulla sua vita privata: e come lui lo sono stati la compagna Manuela Battezzato — rimasta accanto a lui in questi giorni di malattia, a Zurigo, eppure talmente discreta da non essere mai stata incrociata dai giornalisti, accorsi a decine fuori dall’ospedale — e i figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler. Di lei, come ha scritto Bianca Carretto sul Corriere della Sera, Marchionne diceva: «È la mia fortuna». A chi critica le sue sciarpe dai colori spenti, sempre sulle tonalità del grigio, che esibisce regolarmente ai saloni di Detroit o di Ginevra, con la scusa di aver freddo, risponde «me l’hanno regalata i ragazzi della mia squadra, sono felici se me la vedono addosso». Forte anche il suo amore per l’Italia: in casa, anche dopo il trasferimento in Canada, a soli 14 anni, si parlava italiano. Le sue radici sono sempre state ancorate al nostro Paese, pur avendo avuto una formazione anglosassone.

Stefano Caselli per il "Fatto quotidiano" 28 novembre 2012. Sotto il maglione c'è anche un cuore. Può sembrare incredibile, dato il primato della glacialità cui sembra tenere in modo particolare, eppure Sergio Marchionne (dicono) è innamorato. Quella con Manuela, di 20 anni più giovane, è una storia nata tempo fa trapelata dalla blindatissima vita privata del manager solo negli ultimi tempi. A Torino non se ne parla granché. Sarà che sono fatti privati, sarà il carattere tradizionalmente riservato, sarà che quella dell'ad della "Feroce" è una storia fanè che sa un po' di ratafià, per dirla alla Paolo Conte. Una storia che una certa, antica, torinesità non commenterebbe, giustificandosi con un "non si usa" detto con il dovuto accento, gli occhi non troppo spalancati e un sorriso non troppo accogliente. Il gesto antico, tuttavia, ben si addice, perché tutto sembra uscire dritto dal mondo delle "tote" ("signorine" in dialetto torinese) raccontato da Giorgio Bocca ne Il Provinciale: "Ci fecero assistere all'assemblea degli azionisti Fiat - scrive Bocca rievocando gli anni 50 - e facevamo un po' di baccano mentre Valletta stava per parlare e “tota” Rubiolo, la direttrice dell'Ufficio stampa disse severa: ‘Signori, prego, un po' di silenzio, qui si fa l'Italia'. “Tota” Rubiolo era alta, bionda e non le avremmo supposto una vita amorosa, salvo quella per la Fiat, se non avessimo saputo, in gran segreto, che era l'amica di...". La Torino del boom conosceva il "maschilismo sicuro della Fiat" e il mondo fintamente clandestino delle donne "devote e onnipotenti nel cono di luce del maschio direttore di cui erano le segretarie". Sapeva e ne parlava poco, sottovoce, perché "non si usa". Il mondo delle "to-te" è un secolo passato, il giallo triste dei palazzi del centro e il deserto dopo le dieci di sera non esistono più. Eppure l'uomo con il maglione, ostinatamente antitaliano, ha riportato indietro qualche lancetta incappando in un torinesissimo amore da arcitaliano. Lei si chiama Manuela Battezzato, ha 40 anni, lavora all'Ufficio stampa Fiat. Non una "tota" (detto oggi sarebbe anche un po' offensivo) ma una professionista della comunicazione, in forza al Lingotto dal 1999. Dicono abbia incontrato la prima volta Marchionne di fronte a una fotocopiatrice, più o meno quattro anni fa. Una storia priva di qualunque glamour. Per la sua Manuela, Marchionne si è definitivamente allontanato dalla moglie (che vive in Svizzera con i due figli e a Torino non si è mai vista) da cui attende il divorzio. Lei invece - dicono i ben informati che in questi casi non mancano mai - ha interrotto un lungo fidanzamento. Per la sua Manuela, Marchionne è pronto a fare come uno qualsiasi, con un vassoio di paste la domenica pomeriggio a casa dei genitori di lei, si dice futuri suoceri. Peccato che, quando ha deciso di farlo, nella villetta di Alpignano si siano presentati 24 ore prima Digos e Carabinieri per la bonifica degli ambienti. Sembra che il padrone di casa non l'abbia presa benissimo, ma ci si abitua. Per il resto - fatta eccezione per i mesi della barba e degli sciarponi, si dice da lei ispirati - il gossip è a zero. Perché "non si usa". O forse, chissà, perché la prediletta dell'amministratore delegato è la persona che tiene i rapporti tra l'Ufficio stampa del Lingotto e quello di Detroit. Forse un caso, forse no. Comunque non un buon auspicio per Torino.

Solo funerali privati E forse riposerà nella terra dove è nato. L'annuncio della morte dato da Elkann: «Se ne è andato un amico». Il lutto a Torino, scrive Pierluigi Bonora, Giovedì 26/07/2018, su "Il Giornale". Sergio Marchionne si è arreso. È stato John Elkann, presidente di Exor, la holding di casa Agnelli che controlla Fca e Ferrari, a comunicare il decesso dell'ex ad del Lingotto e dell'ex presidente del Cavallino. Il comunicato è arrivato nelle redazioni alle 11 e 39 di ieri mattina. «È accaduto, purtroppo - scrive Elkann - quello che temevamo, Sergio, l'uomo e l'amico, se n'è andato». La morte è avvenuta all'Ospedale universitario di Zurigo, dove Marchionne si era fatto ricoverare il 27 giugno, dopo essere entrato in coma irreversibile. Due elicotteri del soccorso svizzero sono stati visti decollare dall'Ospedale di Zurigo, il primo un'ora prima che venisse diffusa la notizia del decesso, l'altro intorno alle 14,30. È stato quindi sciolto il cordone di sicurezza agli ingressi dell'ospedale che, dal giorno dell'ingresso di Marchionne per farsi operare a una spalla, ha garantito la massima privacy. Il top manager, 66 anni, nato a Chieti, ha cessato di vivere dopo che complicazioni «inattese e improvvise» dell'intervento alla spalla lo hanno portato a un arresto cardiaco. Marchionne è stato quindi trasferito nel reparto di rianimazione, senza dipendere in maniera sistematica dalle macchine. Un secondo arresto cardiaco è risultato fatale, conducendolo a un «decesso naturale». È stata anche smentita l'ipotesi che fosse malato di tumore. Ad assisterlo fino all'ultimo sono stati la sua compagna, Manuela Battezzato, dipendente di Fca, e i figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler, avuti dalla ex moglie Orlandina. Marchionne verrà ricordato dalle società del gruppo Agnelli in due cerimonie che si svolgeranno, in settembre, a Torino e ad Auburn Hills, nel Michigan, sede del quartier generale di Fca Us. Non sono previsti funerali pubblici né altri momenti di cordoglio. Per volontà dei familiari l'ultimo saluto avverrà in forma privata. Sconosciuto anche il luogo della tumulazione. Però a Cugnoli, comune di 1.500 abitanti, in provincia di Pescara, vive la zia novantenne Maria, sorella del padre di Marchionne, Concezio, ex carabiniere. Il sindaco Lanfranco Chiola ha ricordato come «Marchionne non avesse mai dimenticato le sue origini: la comunità risentirà delle sua scomparsa». Per il top manager era pronta un'onorificenza. Un primo omaggio, oltre alle bandiere a mezz'asta a Torino, Maranello e nelle altre sedi del gruppo, è arrivato dagli operai dei vari stabilimenti che hanno osservato 15 minuti di silenzio rotti dall'urlo delle sirene. Marchionne aveva una sorella, Luciana, scomparsa a 32 anni per un male incurabile. Ne aveva sofferto molto e raramente ne parlava, come anche della moglie abruzzese canadese, dalla quale si era separato, che vive in Svizzera, con i due figli, nel cantone francofono di Vaud, sul lago di Ginevra. «Sono certo - il messaggio che il successore di Marchionne, il nuovo ad Mike Manley, ha inviato ai dipendenti di Fca - che sia difficile per voi quanto lo è per me accettare il fatto che non potremo mai più rivedere Sergio Marchionne. Se Fca è quello che è oggi, lo dobbiamo alla sua visione, al suo coraggio e alla sua instancabile ricerca di obiettivi ambiziosi, obiettivi che sapeva essere alla nostra portata».

E' morto Sergio Marchionne, l'uomo che cambiò il destino della Fiat. Elkann: "Per sempre riconoscenti". L'ex ad della Fca era ricoverato a Zurigo dal 27 giugno per un intervento alla spalla. Sabato scorso i consigli di amministrazione hanno nominato il suo successore. Il presidente di Exor: "L'uomo e l'amico se n'è andato", scrivono Paolo Griseri e Raffaele Ricciardi il 25 Luglio 2018 su "La Repubblica". Aveva pianificato tutto, una pausa di pochi giorni per poi tornare immediatamente al lavoro. Marchionne, 66 anni compiuti a giugno, è mancato all'ospedale universitario di Zurigo dove era stato ricoverato il 27 giugno per un intervento alla spalla destra. John Elkann, il presidente della holding Exor e della stessa Fca, ha affidato a poche righe il suo pensiero: "E' accaduto, purtroppo, quello che temevamo. Sergio, l'uomo e l'amico, se n'è andato. Penso che il miglior modo per onorare la sua memoria sia far tesoro dell'esempio che ci ha lasciato, coltivare quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale di cui è sempre stato il più convinto promotore. Io e la mia famiglia gli saremo per sempre riconoscenti per quello che ha fatto e siamo vicini a Manuela e ai figli Alessio e Tyler. Rinnovo l'invito a rispettare la privacy della famiglia di Sergio". L'ultima uscita pubblica del manager era stata due giorni prima del ricovero, a Roma, alla consegna di una Jeep all'Arma dei carabinieri. Era già affaticato, chi lo ha visto quel giorno ricorda che parlava con difficoltà. Ma per lui, figlio di carabiniere, quell'appuntamento era irrinunciabile. È stato il suo ultimo saluto, per molti aspetti simbolico, la chiusura del cerchio di un'esperienza umana e professionale. Il 27 giugno, Marchionne era stato ricoverato per un intervento alla spalla. Nella fase successiva all'operazione ha avuto complicanze che si sono progressivamente aggravate. Ha subito un primo arresto cardiaco ed è stato dunque trasferito al reparto di terapia intensiva dell'ospedale. Qui, ha avuto un secondo arresto cardiaco e le sue condizioni sono precipitate. Marchionne non era tenuto in vita con delle macchine e non ha mai avuto una patologia tumorale. Venerdì scorso, Elkann ha constatato che "Marchionne non potrà tornare a fare l'amministratore delegato". Era arrivato a Fca nel 2003, come consigliere di amministrazione. Avrebbe assunto la carica di ad l'anno successivo. "Perdiamo due milioni di euro al giorno, la situazione non è semplice", aveva constatato. La rinascita di Fca dopo la rottura del patto con Gm e la restituzione dei debiti alle banche, è stato il suo primo successo. L'azienda è solida ma il vento della crisi mondiale mette di nuovo tutto in difficoltà. Nel 2009 Marchionne cerca la salvezza nel salvataggio di Chrysler e nella fusione di Fiat con la casa americana. Con Fca nasce un colosso da 4,5 milioni di auto all'anno, il settimo costruttore mondiale. Nel 2010 lo scontro con la Cgil. Marchionne chiede la rinuncia allo sciopero, come aveva ottenuto in America. I sindacati si dividono. Il piano Fabbrica italia, travolto dalla crisi globale, non viene realizzato. Nel 2014 Marchionne fissa un nuovo obiettivo: entro fine 2018 azzeramento dei debiti e della cassa integrazione. Il primo viene centrato, la cassa riguarda ancora il 7 per cento dei dipendenti. Era il 27, quattro anni fa. Negli ultimi anni Marchionne tenta un nuovo accordo con Gm per creare il primo produttore mondiale e risparmiare sugli investimenti. Da Washington arriva un "no". Nel 2017 annuncia la sua uscita di scena da Fca. Dopo aprile 2019 sarebbe rimasto presidente di Ferrari. Negli ultimi giorni Marchionne è stato assistito dai due figli, Alessio Giacomo e Johnatan Tyler, e dalla compagna Manuela. Già sabato i consigli di amministrazione del gruppo hanno nominato i successori. In quel giorno, quando si è capito che le sue condizioni di salute erano ormai disperate, è stato sostituito negli incarichi da Mike Manley. Proprio oggi, il neo amministratore delegato ha debuttato davanti ai mercati, presentando i risultati semestrali del gruppo Fca. Il titolo della casa automobilistica è crollato in Borsa, perdendo oltre 15 punti percentuali a seguito del taglio di alcune stime per il 2018, mentre sono stati confermati gli obiettivi del piano al 2022, l'ultimo licenziato da Marchionne.

Fiat, Chrysler, Alfa Romeo & co: ecco l'eredità lasciata da Marchionne. Dalle auto di lusso ai robot industriali, tutte le aziende della società nata dalla fusione realizzata da Sergio Marchionne e ora guidata da Mike Manley: un gigante da 111 miliardi di ricavi netti e 236 mila dipendenti, scrive Flavio Bini il 25 Luglio 2018 su "La Repubblica". Sergio Marchionne lascia in eredità a Mike Manley un gigante da 14 marchi, 111 miliardi di ricavi netti, 149 stabilimenti e 236 mila dipendenti sparsi in tutto il mondo. Sono questi i numeri di Fca, la società nata nel 2014 al completamento della fusione tra Fiat e Chrysler, il traguardo più importante tra quelli raggiunti dal manager italio-canadese nei suoi 14 anni alla guida dell'azienda.

GLI SCORPORI FIAT INDUSTRIAL E FERRARI. Fiat, capostipite della famiglia, oggi rappresenta solo una parte della galassia Fca. Nel 2010 dal perimetro dell'azienda si era già sganciato il segmento dei veicoli commerciali e industriali che dopo la fusione con Cnh Global ha dato via a Cnh Industrial, società separata da Fca. Allo stesso modo, Marchionne aveva scelto un destino separato anche per Ferrari, scorporata ufficialmente nel 2014.

L'EREDITA' DELL'AUTO ITALIANA: FIAT, ALFA ROMEO E LANCIA. Ciò che resta dell'auto italiana dentro Fca fa riferimento ai marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia. Quest'ultima è stata la grande sacrificata dell'era Marchionne, che a partire dal piano 2014 ha scelto di interrompere lo sviluppo di nuovi modelli, lasciando in vita solo la produzione della Ypsilon, prodotta nello stabilimento polacco di Tychy e venduta soltanto in Italia. L'addio a Lancia è stato per Marchionne una scelta necessaria per favorire il lancio di Alfa Romeo anche oltre i confini italiani, un'altra delle scommesse più importanti della sua gestione manageriale. I primi numeri di rilievo negli Stati Uniti si sono visti lo scorso anno, quando il marchio ha venduto 12.031 veicoli, comunque ancora ben lontani dagli oltre 85 mila in Europa, prevalentemente in Italia. Fiat resta di gran lunga il marchio italiano di maggiore successo, soprattutto nel Vecchio Continente. Dal 2012 al 2017 le immatricolazioni sono passate da 582 mila a 779 mila.

LA COSTOLA USA: IL DOMINIO DI RAM E JEEP. Se si guarda all'intero gruppo però soltanto meno di un'auto su tre nell'intero gruppo Fca ha marchio Fiat. Gli ottimi risultati del gruppo Fca sono soprattutto made in Usa. Dei 4,7 milioni di auto vendute, 2 milioni si riferiscono agli Stati Uniti, in assoluto mercato principale, a fronte degli 1,04 milioni in Europa. Negli States a primeggiare è Ram, la casa che produce soprattutto pickup e veicoli commerciali, guidata fino ad oggi proprio da Manley, responsabile anche del marchio Jeep: negli Usa un veicolo su due venduto da Fca è Ram. Il secondo marchio più venduto dal gruppo è invece Jeep, protagonista di una crescita impressionante. Nel 2009, quando Manley è subentrato alla guida, l'azienda vendeva 337.716 veicoli, l'80% dei quali nel Nord America. Numeri quadruplicati in meno di dieci anni se si considera che nel 2017 l'azienda ha messo sul mercato quasi 1,4 milioni di auto. Molto positivo anche il dato europeo, dove le vendite in soli cinque anni sono passate da 24 mila a oltre 108 mila.

MASERATI, L'ESPLOSIONE DEL LUSSO. Orfana di Ferrari, Maserati è diventata la punta di diamante del lusso all'interno della galassia Fca. I numeri sono inevitabilmente marginali rispetto ai volumi degli altri brand, ma la crescita del marchio è stata un'altra delle scommesse vinte da Marchionne. Nel 2017 l'azienda ha venduto 52 mila auto, sette anni prima erano quasi un decimo. Anche i risultati finanziari danno ragione alla scelta del manager: i ricavi netti nell'ultimo anno sono cresciuti del 17% da 3,4 a 4 miliardi di euro. Nel 2012 il fatturato ammontava a 634 milioni di euro.

MARELLI, LA COMPONENTISTICA PRONTA AL DISTACCO. Fuori dal settore auto in senso stretto, ma sempre all'interno della galassia Fca, spiccano infine Marelli, storica azienda che si occupa della componentistica auto che Marchionne ha annunciato di volere scorporare e quotare separatamente e Comau, società che si occupa di robotica industriale. Secondo le stime degli analisti, il valore di Marelli in vista di una eventuale quotazione si attesta tra i 4 e i 6 miliardi di euro.

FCA NEL MONDO. Dei 4,7 milioni di auto vendute nello 2017, circa il 75% si riferisce soltanto ai mercati Emea (Europa, Medio Oriente e Africa) e Nafta (Stati Uniti, Canada e Messico), mentre il resto è attribuibile prevalentemente al mercato sudamericano e al Brasile in particolare, dove però l'azienda ha perso terreno nel corso degli ultimi anni, complice anche la crisi che ha colpito il Paese. Nel 2012 dei 4,2 milioni di auto vendute 679 mila erano state immatricolate in Brasile, circa il 16%. Cinque anni dopo, esclusa Jeep, erano 172 mila, circa il 3% del totale. In compenso nel Paese il gruppo mantiene ottimi risultati sul fronte dei veicoli commerciali, essendo di gran lunga il marchio più venduto: quasi 119 mila sui 317 matricolati nel 2017.

DOVE LAVORA FCA. Dei 149 stabilimenti di Fca, 60 sono relativi al settore automotive (la quota restante alla componentistica). Di questi, 25 si trovano tra Stati Uniti e Canada, 17 in Europa, compresi gli stabilimenti in Serbia e Turchia, e i restanti sono sparsi tra Sud America, Messico, India e Cina. Nel 2013, ultimo dato disponibile nei documenti ufficiali Fca, dei 225 mila dipendenti del gruppo (oggi sono 236 mila), circa un quarto - 62 mila - erano riferiti all'Italia, 81 mila erano i lavoratori in Nord America e 48 mila in America Latina. Secondo i dati diffusi dalla Fim-Cisl quest'anno i dipendenti del gruppo in Italia sono 66.200.

Addio a Sergio Marchionne: il cordoglio di istituzioni e social. Alla Camera è stato osservato un minuto di silenzio, mentre il mondo dello sport, della politica e dell'imprenditoria piangono la sua scomparsa, scrive Barbara Massaro il 25 luglio 2018 su "Panorama". "È accaduto, purtroppo, quello che temevamo. Sergio, l’uomo e l’amico, se n’è andato. Penso che il miglior modo per onorare la sua memoria sia far tesoro dell’esempio che ci ha lasciato, coltivare quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale di cui è sempre stato il convinto promotore. Io e la mia famiglia gli saremo per sempre riconoscenti per quello che ha fatto e siamo vicini a Manuela e ai figli Alessio e Tyler". Non poteva essere che del Presidente John Elkann il primo messaggio di cordoglio per la morte di Sergio Marchionne, l'ex AD Fca scomparso a Zurigo all'età di 66 anni in seguito a complicanze post operatorie dopo un intervento alla spalla destra. E a partire dalle istituzioni nazionali per arrivare a quelle piemontesi oggi il mondo della politica, dell'imprenditoria, dello sport e dei social network ricorda colui che, tramite i migliaia di messaggi postati su Twitter, è stato definito "Un manager illuminato"; "L'uomo che ha rivoluzionato la Fiat"; "Un esempio da seguire"; "Un manager visionario e innovatore".

Il cordoglio delle istituzioni. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato un messaggio in cui a proposito di Marchionne ricorda: "La sua visione ha sempre provato a guardare oltre l'orizzonte e immaginare come l'innovazione e la qualità potessero dare maggiore forza nel percorso futuro. Marchionne ha saputo testimoniare con la sua guida tutto questo, mostrando al mondo le capacità e la creatività delle realtà manifatturiere del nostro Paese". Sul fronte della politica nazionale, tra i primi a rendere omaggio alla figura del manager è stato l'ex premier Paolo Gentiloni che ha scritto: "Grazie per il lavoro, la fatica, i risultati. E per l'orgoglio italiano portato nel mondo". 

Dalla Camera alla Fiat. La Camera dei deputati ha osservato un minuto di silenzio e il Presidente del Consiglio Giuseppe Conti ha detto: "Esprimo il cordoglio mio e di tutto il governo per la scomparsa di Sergio Marchionne. Le mie sentite condoglianze alla sua famiglia e a tutti i suoi cari". Al Lingotto le bandiere sono a mezz'asta in segno di lutto e presso gli stabilimenti Fiat di Melfi e Pomigliano ci saranno 10 minuti di fermata per ogni turno annunciati da sirena. 

Le istituzioni locali. Il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino ha fatto invece sapere: "Con lui scompare la figura di un manager lungimirante e innovativo, che ha saputo dare un futuro all’industria automobilistica italiana e internazionale" e anche il sindaco di Torino Chiara Appendino ha ricordato la parabola umana e professionale di Marchionne: "Ci ha lasciato un manager globale, tenace e carismatico, uno degli uomini che più hanno segnato la storia economica del nostro Paese negli ultimi anni. A lui il merito maggiore dell’aver portato l’industria dell’auto italiana a superare il momento forse più difficile della propria storia, intuendo che solo una dimensione internazionale le avrebbe garantito un futuro solido". Onore a Marchionne anche da parte della segretaria della Cisl Annamaria Furlan che sottolinea: "Marchionne è stato un manager che ha segnato davvero un'epoca". Matteo Renzi, invece, invita gli sciacalli a tacere asserendo: "Provo disgusto per chi ancora oggi ha insultato sui social un uomo che stava morendo".

Il cordoglio social. E proprio via social network sin dallo scorso sabato - quando è stato convocato con CdA urgente per nominare il successore di Marchionne perché il presidente John Elkann aveva definito "disperate" le sue condizioni - non siano mancati i commenti polemici esposti da chi non è capace di tacere neppure di fronte alla morte. Ciononostante nel giorno del lutto predominano via Twitter e Facebook il cordoglio e la commozione per un uomo "Dalle umili origini - come ricorda qualcuno - che è stato capace di dimostrare che con tenacia, studio e sacrificio si può arrivare ovunque". Anche il mondo dello sport ha voluto commemorare la figura del manager visionario con messaggi pubblicati sugli account tanto del Torino calcio, quanto della Sampdoria. "Il Presidente Urbano Cairo e tutto il Torino Football Club - si legge su Twitter - esprimono il loro profondo cordoglio alla famiglia Marchionne per la scomparsa del dottor Sergio Marchionne, figura di spicco dell’industria automobilistica italiana e mondiale". 

I tweet più toccanti. "Scompare con lui un grande innovatore, un uomo coraggioso, un grande italiano" commenta un utente che si unisce al coro delle migliaia di italiani che hanno voluto rendere omaggio alla vita e all'operato di Marchionne. Dalle 11.27 della mattina del 25 luglio, quando è stata annunciata la morte dell'uomo che ha traghettato un'azienda in caduta libera verso la salvezza i tweet si aggiungono a decine ogni secondo e se c'è chi ricorda come Marchionne sia stato un uomo che "Prende Fiat sull’orlo del fallimento e la lascia con utile di 3,5 mld, con 2mila lavoratori che beneficiano degli ammortizzatori anziché 25mila, con la produzione della prima Jeep in Italia e Panda di nuovo a Pomigliano" un altro chiosa con: "Sergio Marchionne era un manager che ha fatto bene all’Italia alla sua immagine e allo spirito degli uomini che sanno costruirsi da soli con sacrificio". C'è poi chi, infine, ricorda alcune delle sue frasi più celebri come quando diceva: "Un emiro che mi compra una Ferrari lo troverò sempre da qualche parte, ma se nessuno mi compra più le Panda come faccio?".

Sergio Marchionne, 10 frasi da ricordare. Da cosa significa essere liberi alla sua idea di leader giusto fino al messaggio ai giovani. Ecco l'eredità del manager di Fca, scrive Simona Santoni il 25 luglio 2018 su "Panorama". Il capitano d'industria Sergio Marchionne se n'è andato. Abbracciando la filosofia del cambiamento, costi quel che costi, con decisioni spesso impopolari, ha salvato e rilanciato la Fiat. Stesso dicasi per Chrysler. Oggi che se ne va, Fca (ovvero Fiat Chrysler Automobiles, la fusione di due aziende automobilistiche passate attraverso il buio più buio) è il sesto produttore mondiale di auto. Nato a Chieti, in Abruzzo, migrato in Canada a 14 anni, viaggiatore e innovatore, dal 2003 è entrato nel mondo Fiat, inserito nel Consiglio di amministrazione del Lingotto da Umberto Agnelli. Quindici anni dopo è forte la sua eredità. Ecco 10 frasi da ricordare di Sergio Marchionne. Mentre parlava di leader, capitalismo, strade da scegliere, libertà. 

FIAT A TESTA ALTA. Fine novembre 2004, a Toronto per ritrovare sua madre, Sergio Marchionne era presente alla cena di gala dell'Associazione nazionale carabinieri. Al giornalista Alan Patarga del Corriere Canadese, quando la Fiat di Marchionne ancora non esisteva, disse una frase tra il vaticinio e la promessa: "Torneremo in America, con Fiat e soprattutto con Alfa, e non ci prenderanno più in giro".

IL LEADER GIUSTO. Dalla lectio magistralis per il conferimento della laurea ad honorem in Ingegneria gestionale, Politecnico di Torino, 27 maggio 2008. "La vera validità di un amministratore delegato oggi si può pesare soltanto in termini di impatto umano che ha sulla sua struttura. Suo compito più importante è quello di scegliere i leader giusti e metterli nei posti giusti. Per leader giusti intendo persone che hanno il coraggio di sfidare l'ovvio, di seguire strade mai battute, di rompere schemi e vecchie abitudini che sono visibili alla concorrenza, di andare oltre a quello che si è già visto. Uomini e donne che comprendono il concetto di servizio, di comunità e di rispetto per gli altri. Sono persone che agiscono con rapidità ma hanno la capacità di ascoltare. Sono affidabili, nel senso che mantengono sempre le promesse e non fanno promesse che non sono in grado di mantenere. E soprattutto hanno la visione del loro agire in un contesto sociale".

IL PROFITTO. Così Sergio Marchionne ha parlato agli studenti dell'Università Luiss, a Roma, il 27 agosto 2016: "Esiste un limite oltre il quale il profitto diventa cupidigia e coloro che operano in un libero mercato hanno anche l'obbligo di agire entro i limiti di ciò che una buona coscienza suggerisce". 

IL MESSAGGIO AI GIOVANI. E ancora: "Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa fate duri una vita intera o perfino più a lungo".

IL VIAGGIO. Giovedì 26 agosto 2010 al Meeting di Rimini il manager italocanadese si confronta con una platea di giovani. Parlando delle difficoltà dello sradicamento e del viaggio, come pure delle sue opportunità: "Ho dovuto abituarmi presto a cambiar casa, abitudini e amici. Avevo 14 anni quando la mia famiglia si è trasferita in Canada e vi confesso apertamente che non è stato facile. Non è mai facile iniziare tutto da capo, in una terra sconosciuta, in una lingua straniera, imparare a gestire la solitudine di alcuni momenti, non è facile lasciare le certezze del tuo mondo abituale per le incertezze di un mondo nuovo. [...] Ma è proprio per questo che viaggiare, cambiare ambiente e conoscere altre culture è uno straordinario modo per crescere e per farlo in fretta. Il contatto con un mondo sconosciuto è qualcosa che ti cambia nel profondo, perché ti costringe a contare solo sulle tue forze e a superare i tuoi limiti. 

COSA SIGNIFICA ESSERE LIBERI. Sempre dal Meeting di Rimini del 2010: "Se c'è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che la prima garanzia che dobbiamo conquistarci per poter scegliere è la libertà; essere liberi significa avere la forza di non farsi condizionare, essere liberi vuol dire anche trovare il coraggio di abbandonare i modelli del passato e le vecchie abitudini e dipendenze. Le strade comode e rassicuranti non portano da nessuna parte e di sicuro non aiutano a crescere; fanno solo perdere il senso del viaggio. 

IL CAMBIAMENTO. Il 22 settembre 2007 Sergio Marchionne interviene al XXXI Convegno di Economia e politica industriale di Foggia: "Una società liberale che vuole durare nel tempo deve difendere chi è colpito dal cambiamento".

IMPRENDITORE E "DISTRUZIONI CREATIVE". Sempre dal XXXI Convegno di Economia e politica industriale: "Il ruolo dell'imprenditore in economia è quello di stimolare investimenti e innovazione e quindi provocare una serie di “distruzioni creative”".

L'ITALIA. In un'intervista a Repubblica del 23 ottobre 2007, Sergio Marchionne dice: "L'Italia è un paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione".

LA SOLITUDINE DEL CAPO. È della stessa intervista anche questa riflessione sulla leadership: "La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo".

Tutte le auto dell'era Marchionne. Dall'eredità della crisi del gruppo Fiat al successo di FCA: quattordici anni di modelli, scrive Edoardo Frittoli il 24 luglio 2018 su "Panorama". Quando Sergio Marchionne approdò alla guida del Fiat Group nel 2004, ereditò il listino dell'ultima gestione nelle mani del suo predecessore Giuseppe Morchio, il manager fortemente voluto da Umberto Agnelli, scomparso proprio il 27 maggio dello stesso anno. L'esperienza dell'Ad Morchio terminò bruscamente dopo la nomina a Presidente del gruppo Fiat di Luca Cordero di Montezemolo, avendo solamente iniziato il piano di ristrutturazione di un'azienda in forte perdita in molti comparti (situazione che portò tra l'altro alla vendita di Fiat Avio). Il listino dei modelli dei marchi del gruppo non era più confortante: erano gli anni della Stilo, dell'Idea e della Multipla. L'unica novità di rilievo era stato il lancio della nuova Panda dopo 23 anni di onorato servizio della prima serie dell'utilitaria torinese. Alfa Romeo aveva ancora la 156 arrivata ormai al tramonto e le poco apprezzate 166. Lancia poteva contare praticamente solo su Ypsilon e Musa.

FIAT

Fiat Grande Punto. Nata dalla matita di Giorgetto Giugiaro era un evoluzione della Punto degli anni '90, basata su pianale in comune con General Motors. Sarà prodotta fino al 2012 quando proseguirà la sua presenza in listino con il solo nome Punto.

Fiat Croma. Anche la familiare che riprendeva il nome dall'ammiraglia Fiat degli anni '80 era un progetto comune con Opel-GM, con cui il marchio torinese si riaffacciava alla fascia alta del mercato. Mandò in pensione senza molti rimpianti la Stilo Multiwagon. Resterà in produzione fino al 2010.

Fiat Sedici. La compatta 4x4 è frutto di una joint venture con la giapponese Suzuki (SX4). Fu infatti costruita negli stabilimenti ungheresi della casa nipponica ed ebbe un buon riscontro di vendite fino all'uscita dai listini nel 2014. Fiat 4WD. Anche la piccola 4WD fu disegnata dalla matita di Giugiaro.

Fiat Bravo. Mentre il 2006 sarà l'anno della apprezzata due volumi Fiat Bravo, due importanti novità nella gamma Fiat (che nel frattempo aggiorna la corporale identità con il nuovo logo che ricorda quello degli anni '60) usciranno nel 2007:

Fiat 500. Ancora oggi un best-seller, prese forma da una concept-car presentata a Ginevra nel 2004, la Trepiuno, che suscitò l'interesse di molti. Alla sua presentazione parteciparono 100.000 persone lungo le rive del Po. Prodotta in Polonia ed in Messico, sarà la spina dorsale del nuovo corso della Fiat di Sergio Marchionne. Sarà proprio l'Ad italo-canadese a presentarla negli Stati Uniti, dove la Fiat ritornava sul mercato dopo più di trent'anni di assenza totale. Dal lancio ad oggi la 500 ha già affrontato due restyling. Disponibile anche nella versione cabrio e con motore bicilindrico Multiair.

Fiat Freemont. Nel 2010 sarà la volta del Suv Fiat "Freemont", nient'altro che un'operazione di rebadging della Dodge Journey precedentemente uscita anche sul mercato italiano con il logo della casa Usa e di due restyling di modelli precedentemente in listino, il multispazio "Doblò" e la "Fiat Punto Evo". L'anno successivo, il 2011 sarà la volta della terza serie della Panda, che si caratterizza per le forme tipiche con quadrati dagli angoli stondati. Nel 2012 sarà completata la famiglia della 500 con la versione di dimensioni maggiori:

Fiat 500L. Il successo importante della piccola di casa Fiat lanciata 5 anni prima spinse la Fiat a sfruttarne il nome per il modello che manderà in pensione la Idea, la Musa e la Multipla, la 500 "Lunga" pur conservando le linee caratteristiche della sorella minore è un vero sport utility urbano. Si pone sul mercato come diretta concorrente della Mini Countryman. Il successo non si farà attendere, e la 500L sarà presto affiancata dal modello a passo lungo 500L "Living".

Fiat 500X. Nel 2014 a completare la famiglia della 500 sarà introdotta la crossover della serie, la 500X. La crossover torinese nasce sul pianale della sorella americana Jeep Renegade, ed è disponibile anche in versione a trazione integrale.

Fiat Tipo. Nel 2015 arriverà la nuova fiat Tipo, proposta nelle versioni a 2,3 e monovolume ed il primo restying della 500, dopo 8 anni di presenza nei listini, mentre nel 2016 la Fiat di Sergio Marchionne uscirà con la nuova interpretazione di un mito della casa di Torino, la due posti "124 Spider".

ALFA ROMEO

Quando Sergio Marchionne si insediò ai vertici del gruppo Fiat il manager trovò come nel caso della Fiat alcuni modelli a fine corsa come la 156 e la 147 (un buon successo per entrambe ma ormai datate). Durante il primo anno della direzione di Marchionne fu lanciata la 159, una vettura nata nel segno della continuità con la precedente 156. In Italia avrà particolare successo la versione Sportwagon. Oltre all'aggiornamento della Spider con uno stile aggiornato alle linee della 159, l'operazione più importante per il biscione. Si trattava della piccola di casa Alfa Romeo:

la Alfa Romeo MiTo. Costruita a Mirafiori sul pianale della Grande Punto, esordisce nel 2008. E'ispirata alla superar 8C Competizione ma è l'Alfa per tutti, in particolare rivolata ad un pubblico di giovani e giovanissimi. Buono il successo nei 10 anni di permanenza in listino.

Due anni dopo la MiTo sarà la volta di un'altra Alfa che porta un glorioso nome del passato:

la "Giulietta". Prende il nome dalla gloriosa berlina degli anni '50 ed esce in occasione del centenario del biscione. Nel 2013 sarà la volta della piccola coupé sportiva 4C, costruita a Modena negli stabilimenti Maserati. La linea richiama le gloriose stradali da competizione degli anni '60-70 (Disco Volante, 33, Giulietta Sprint).

Alfa Romeo Giulia. E' presentata nel 2016 e si pone nel segmento delle berline di lusso presidiato da Audi e Bmw, secondo l'impostazione voluta da Sergio Marchionne per il ricollocamento del marchio verso le fasce più alte del mercato. Nella versione più potente, la Giulia monta un V8 biturbo da 510 Cv di derivazione Ferrari. La Giulia sarà affiancata dal primo Suv con il marchio del biscione, la Stelvio.

LANCIA

Sotto la direzione di Sergio Marchionne, il glorioso marchio di Chivasso è stato quello maggiormente ridimensionato: oggi ha praticamente soltanto un modello in listino, la Ypsilon. Quando Fiat si unì a Chrysler nel 2007, Marchionne iniziò un piano di re-badging con modelli Chrysler in listino, rinominando la berlina 300C come "Thema" e il monovolume Grand Voyager come "Lancia Voyager" dal 2011 in avanti. Tutti i progetti nati negli anni precedenti l'arrivo del manager italo-canadese furono accantonati (soprattutto quello della nuova "Fulvia Coupè")

JEEP

Nel 2009 Fiat acquisisce il 20% delle azioni di Chrysler e quindi anche del marchio che rappresenta il fuoristrada più famoso del mondo. Nel 2011 Fiat controllerà la maggioranza azionaria del marchio Usa sotto la guida di Sergio Marchionne. La casa torinese ereditava modelli già commercializzati in Italia ma concepiti per il mercato americano e semplicemente adattati nei propulsori per il mercato europeo. Dal 2012 in poi le fuoristrada a stelle e strisce saranno ri-progettate su pianali comuni con le altre vetture del gruppo. Il nuovo corso di Jeep avrà nella compatta Renegade la sua punta di diamante in termini di apprezzamento e di vendite. Il marchio Jeep è quello sul quale Sergio Marchionne ha scommesso di più, con l'annuncio di 10 nuovi modelli nei prossimi anni.

FERRARI E MASERATI

I due mitici marchi italiani erano da anni nel gruppo Fiat quando arrivò Marchionne nel 2004. La Maserati fu ceduta da De Tomaso alla casa torinese nel 1993. Passata al gruppo Ferrari, rientrerà nel Fiat Group nel 2005. Il suo mercato è globale, in particolare radicato in Nord America. Sotto la guida dell'italo-Canadese brillano gli astri delle Ghibli nelle versioni berlina e cabrio, affiancate dal Suv Levante. Nel 2014 la casa del tridente compie 100 anni, e Marchionne avrebbe sognato un ritorno del marchio in F1 come avvenuto per Alfa Romeo. L'ultima novità presentata proprio in occasione del centenario è òa Alfieri. Nel periodo di Sergio Marchionne il marchio modenese fa un grande balzo in avanti interini di produzione, passata da poco più di 6.000 unità alle oltre 46.000 del 2016.

Per quanto riguarda Ferrari, la storia del mito di Maranello segue un percorso diverso rispetto agli altri marchi del gruppo FCA. Sergio Marchionne rileva le quote acquisite in precedenza dalla finanziaria di Abu Dhabi Mubadala. Nel 2015 Sergio Marchionne quota alla Borsa di New York e l'anno successivo, dopo averla scorporata da FCA, anche alla borsa di Milano. All'arrivo del manager italo-canadese i modelli di punta Ferrari erano la F430 e la 360 Modena. Gli anni di Marchionne hanno visto il successo di modelli come la 599 Fiorano, la 612 Scaglietti, la superar "LaFerrari", la cabrio California e la 458 Italia fino all'ultima 488 Pista. Ad oggi il fatturato è di circa 3,5 miliardi di euro. Marchionne lascia la guida di Ferrari con la rossa di Maranello all'inseguimento di Mercedes, con il "suo" Sebastian Vettel al secondo posto nella classifica piloti. Il manager era subentrato alla guida della Scuderia nel 2014, prendendo il posto di Luca Cordero di Montezemolo.

Marchionne, perché in Italia in molti non lo hanno amato. La figura del manager è stata controversa soprattutto per un motivo: ha affrontato di petto la globalizzazione, contro le stesse tradizioni di casa Fiat, scrive Andrea Telara il 24 luglio 2018 su "Panorama". Chi era meglio tra Vittorio Valletta, l’avvocato Gianni Agnelli, Cesare Romiti e Sergio Marchionne? Da quando il numero uno di Fiat-Chrysler è uscito di scena per improvvisi e irreversibili problemi di salute, tutta la stampa italiana ha passato in rassegna la storia del gruppo automobilistico torinese lasciando spazio immancabilmente al confronto tra il presente e il passato. 

Fuori dal baratro. A Sergio Marchionne viene riconosciuto il merito indiscutibile di avere risanato la Fiat, trasformandola da azienda sull’orlo del baratro nel baricentro di una multinazionale, il gruppo Fca, che ha inglobato il colosso statunitense Chrysler, azzerato i propri debiti, macinato un bel po’ di utili e fatto faville in borsa. Eppure, nonostante questi risultati certificati nero su bianco dai bilanci, oggi la figura di Sergio Marchionne resta controversa, molto più di quelle dei suoi predecessori. Lo è, in particolare, per una parte del sindacato (i metalmeccanici della Cgil riuniti nella Fiom) e per una fetta importante della sinistra, come testimoniano le recenti analisi di alcune testate giornalistiche e di alcuni esponenti politici, dal Manifesto al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, sino all’ex-leader di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti.

La filosofia di Sergio.  Tutti loro, aldilà delle dichiarazioni di rito sull’umana pietà che si deve a una persona in fin di vita, hanno in sostanza dipinto Marchionne come un manager poco sensibile agli interessi dell’Italia, che ha tolto diritti ai lavoratori. Ma era davvero così, l’uomo che in 14 anni ha cambiato i connotati alla vecchia Fiat? Una risposta ha provato a darla su le pagine de Lavoce.info l’economista Fabiano Schivardi, professore alla Luiss. Ricordando i risultati raggiunti dal manager in 14 anni di gestione, Schivardi ha sottolineato le critiche che gli furono rivolte, testimonianza del fatto che il nostro Paese ha di fatto rigettato la “filosofia Marchionne”, anche se la maggioranza dei dipendenti dell’azienda ha approvato con un referendum i contratti sindacali tanto contestati dalla Fiom. 

Un rivoluzionario alla Fiat. A ben guardare, secondo Schivardi, la vera colpa imputata a Marchionne è quella di esser stato rivoluzionario nel modo di concepire le relazioni industriali, un manager che ha affrontato “la sfida della globalizzazione apertamente, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato domestico ormai aperto alla concorrenza”. Un caso emblematico di questa filosofia è la scelta dell’ex-amministratore delegato di Fiat di chiudere a suo tempo l’impianto di Termini Imerese, vicino a Palermo, giudicato insostenibile. Il governo di allora, ricorda l’economista della Luiss, propose un vecchio scambio a cui la politica italiana era avvezza: “un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano”. La risposta di Marchionne fu negativa perché, spiega Schivardi, pensava che un’impresa in grado di competere sui mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita”.

Diverso dagli altri. “Questa logica, quasi banale nella sua semplicità, rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa”, scrive l’economista della Luiss che aggiunge: . “Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico, ma anche di farsi carico di obiettivi che sono propri dello stato, come promuovere lo sviluppo in certe aree del paese. Fu uno shock la cui importanza è ancora poco compresa”. L’uomo che ha guidato la Fiat per quasi tre lustri e l’ha ribaltata come un calzino aveva dunque il “torto” di essersi comportato molto diversamente rispetto ai suoi predecessori. Per questo, la sua figura è oggi controversa, come tutte quelle di chi ha avuto il coraggio di sfidare la tradizione, a cominciare da quella di casa Fiat. 

Sergio Marchionne, Sergio Rizzo: "Lui? Ecco cosa mi ha lasciato sempre perplesso", scrive il 25 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". La scomparsa di Sergio Marchionne tiene banco anche a In Onda, il programma su La7 di David Parenzo e Luca Telese. Della sua scomparsa e delle prospettive del gruppo ne parla Sergio Rizzo, il vicedirettore di Repubblica ospite in studio, che parte anche con una critica all'ex ad: "Marchionne - sottolinea - ha interpretato in modo così estensivo il suo ruolo di manager internazionale che ha portato la sede della Fiat fuori dall'Italia. Questa scelta mi ha sempre lasciato perplesso". Dunque, sul futuro del gruppo, spiega: "Adesso cosa succede? Manager così non si sostituiscono in dieci minuti. Fca è il settimo produttore di automobili al mondo. Ma è fuori dalla cinquina: abbattuto il debito la prospettiva non può che essere quella, entrare nei primi cinque", conclude Rizzo.

Sergio Marchionne, l'ultimo miracolo: fa pentire anche i vescovi che lo avevano criticato, scrive il 26 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". La Cei si pente e dopo le critiche di due giorni fa sulle «ricadute sociali» del suo operato, ora, nel giorno della morte, rivaluta Sergio Marchionne. «Ricordo», spiega il cardinale di Perugia e presidente della Cei, Gualtiero Bassetti «il dirigente d' azienda che, con coraggio e intelligenza, ha saputo scrivere una delle più importanti pagine di storia industriale degli ultimi decenni. In questo momento in cui la pietà cristiana supera ogni sterile polemica umana, prego per lui il Signore perché lo accolga nella sua pace e doni consolazione a quanti lo hanno avuto caro». Monsignor Bassetti sottolinea anche le umili origini di Marchionne «emigrato con la sua famiglia in Canada dove ha potuto studiare e realizzarsi come padre e come professionista». 

Sergio Marchionne, Daria Bignardi svela la verità: "Genio? No, scrive il 25 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Daria Bignardi affida a Vanity Fair il suo personale ricordo su Sergio Marchionne. La giornalista sembra essere una voce fuori dal coro rispetto a tutti i messaggi di rito di cordoglio e di rispetto per l'imprenditore italo-canadese scomparso oggi a 66 anni e l'ha voluto ricordare a modo suo. Per lei il successo che ha avuto è dovuto non al fatto di essere "un genio, ma un'intelligenza e un DNA eccezionali". Contemporaneamente è stato segnato da "un destino molto faticoso", specialmente dopo un evento in particolare. Secondo la giornalista, infatti, il momento che ha più segnato Marchionne è stata la morte della sorella Luciana. I due fratelli avevano tanto in comune: l'essere degli studenti eccezionali e delle persone intraprendenti. Infatti, Luciana era riuscita ad avere una cattedra in Letteratura a Toronto a soli 31 anni durata, però, solo un anno. Il cancro l'ha ammazzata. Tutti i grandi uomini hanno un lato privato in cui si nascondono tutte le sofferenze e le paure e da questo non scappa nemmeno Marchionne. La sua riservatezza e dedicazione al lavoro ha portato a non parlare mai della sua vita privata sia della moglie Orlandina che dei sue due figli e, ovviamente, della morte della sorella. 

Sergio Marchionne, Nicola Porro durissimo: "Gli ipocriti che dovrebbero tacere dopo la sua morte", scrive il 25 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Dopo la morte di Sergio Marchionne, Nicola Porro punta il dito: "È incredibile l’ipocrisia italiana sulla morte di Sergio Marchionne. Mi viene quasi da apprezzare chi, anche oggi, nonostante la sua prematura scomparsa, tace", scrive in un intervento sul suo blog (dove pubblica anche un video: clicca qui per vederlo). Porro ricorda che "Marchionne è stato odiato, come pochi manager in Italia. Almeno dalla fine degli anni 70 in poi. Parliamoci chiaro, il fenomeno Landini, ve lo ricordate, coccolato da tutte le Tv e giornali, nasce proprio come interprete del ‘sindacalista buono’ in contrasto con il manager spietato e affamatore di diritti". L'accusa è contro gli ipocriti, insomma, contro chi ora piange Marchionne dopo averlo attaccato per anni. "Qualcuno - riprende - si ricorda i titoli di Repubblica e non solo ovviamente sul 'Patto disuguale' riferito al referendum sul nuovo contratto di Fiat a Mirafiori e in Italia? Vi ricordate tutte le pippe sulla 'negazione dei diritti' che quel contratto avrebbe previsto. Non capendo che quel contratto salvava le fabbriche in Italia". Dopo aver ricordato l'annuncio di Marchionne di assumere, nel gennaio 2015, mille dipendenti interinali a Melfi, da confermare solo dopo l'ok al jobs act, e le polemiche che ne seguirono, Porro si chiede: "Ecco, secondo voi, è questo un manager che può tanto essere celebrato dal giornalista e opinionista unico in questo paese?".

Dramma Marchionne: i commenti pro e contro e il "rumoroso" silenzio di Fiom e Cgil. Camusso non parla, Landini: "Ci sono momenti in cui è meglio star zitti". Le posizioni di chi lo accusa e quelle di chi lo difende, scrive I. Dessì il 23 luglio 2018 su "Tiscali". “Per ora non rilascio dichiarazioni su Sergio Marchionne”, risponde via sms Maurizio Landini quando Tiscali News gli chiede un commento su Sergio Marchionne, ex Ad di Fca, ricoverato in terapia intensiva in condizioni definite irreversibili all’ospedale universitario di Zurigo. Una risposta decisa, probabilmente meditata. Nulla di scortese, perché lo stile del leader sindacale è solitamente quello della disponibilità e della gentilezza. Una risposta necessitata semmai dalla situazione particolare, dall’esigenza di rispettare la persona, o forse di non prestare il fianco a strumentalizzazioni. O più semplicemente perché “ci sono momenti in cui è meglio stare zitti”.

La posizione Cgil. Si tratta del resto di una posizione comune a tutta la Cgil, particolarmente silenziosa in questo momento penoso e critico per il manager di FCA. Nessuna dichiarazione arriva dall’ex segretario della Fiom, ma neppure dal segretario nazionale della Cgil Susanna Camusso. In effetti non dev’essere facile esprimere pareri in momenti come questo per chi è stato impegnato in battaglie all’ultimo sangue con il top manager del Lingotto, a volte vincendo e a volte soccombendo. Basterebbe ricordare le tante vertenze, gli scontri sindacali, i referendum che decretarono il sì alla linea aziendale, e – viceversa – le sentenze che riportarono i delegati Fiom dentro la fabbrica dopo il licenziamento. Davanti alla situazione personale di Marchionne sono in molti a scegliere dunque la linea del silenzio. Ma non tutti. Alcuni di quelli che non ne hanno condiviso le scelte, contestandogli la responsabilità del peggioramento dei diritti dei lavoratori e dei rapporti con il sindacato, fanno una distinzione tra la comprensione per l'uomo e le sue scelte manageriali, e incalzano.

Il commento di Bertinotti. L’ex leader sindacale (Cgil) ed ex parlamentare Fausto Bertinotti per esempio stigmatizza la gestione dell’ad di Fiat e Fca. "La divisa che ha vestito – sostiene in una intervista su Repubblica - è quella del capitalismo globale finanziario che ha portato una contrazione di civiltà". Non è facile dunque eleborare in queste ore difficili per lui e la sua famiglia un’analisi che è certamente "severa" sul dirigente aziendale ma che non tocca minimamente "l'umanità della persona".

Marchionne con Luca Cordero Di Montezemolo. A parere dell’ex leader di Rifondazione Comunista non va dimenticato che Marchionne condusse “Fiat in un progetto di internazionalizzazione. Un progetto riuscito forse per l'azienda ma che la portò dai 120 mila dipendenti del 2000 ai circa 29 mila di oggi". Senza dimenticare, aggiunge Bertinotti, che "Mirafiori e Pomigliano d'Arco erano luoghi d'eccellenza nel mondo e oggi Mirafiori è un deserto e Pomigliano una striscia di cassintegrazione".

Airaudo, Epifani e Rossi. Una scia su cui si pone anche Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom provinciale torinese e parlamentare, che contesta al manager dal pullover blu di “aver trasformato la Fiat in un'azienda apolide, sradicata dall'Italia: il tutto nel plauso dei governi, che gli hanno permesso tutto, senza chiedere mai". A fronte di questo "i risultati sono stati ottimi per gli azionisti, gli Agnelli dovrebbero dedicargli un monumento". Per l'ex leader della Cgil ed ex segretario Pd, oggi deputato di Liberi e Uguali, Guglielmo Epifani, "Marchionne è stato un abilissimo uomo di finanza capace di utilizzare le risorse finanziarie, compresi i prestiti, per la salvezza e il rilancio dell'azienda. Meno brillante è invece il risultato industriale, dove tutti gli obiettivi di produzione e vendita non sono stati raggiunti, e anche di molto". In una editoriale su Articolo Uno Epifani sostiene che Marchionne aveva ragione a difendere il primato tecnologico del gruppo sull'alimentazione a metano, ma aveva torto quando per dieci anni continuava a dire che il futuro dell'auto non sarebbe stato nell'elettrico". Altri come il governatore della regione Toscana Enrico Rossi battono sulla “residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa, la sede legale di Fca in Olanda e quella fiscale a Londra", fino al suo "autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati”. Mentre il Manifesto ricorda come Marchionne abbia “tolto diritti ai lavoratori e portato il gruppo dell'auto via dal Paese”.

Fassina. Si tratta di considerazioni che in qualche caso sollevano reazioni veementi, come nel caso di Rossi, a favore del quale spezza tuttavia una lancia Stefano Fassina con un tweet. "Marchionne è stato manager straordinario. Assoluto rispetto per la persona, in particolare ora. Come tutti i manager ha fatto gli interessi degli azionisti e, come sostenni allora, ha trattato i lavoratori soltanto come variabile di costo. Gli attacchi al post di Enrico Rossi sono strumentali", scrive l'esponente di Leu. 

Gli altri sindacati. Mentre la Cgil si barrica dietro un “rumoroso” silenzio, gli altri sindacati invece parlano. “Speriamo che Mike Manley, nuovo Ceo di Fca, lavori in continuità con il grande lavoro fatto negli ultimi 14 anni da Sergio Marchionne, che ha salvato il gruppo Fca dal fallimento con scelte illuminate ed una straordinaria capacità di innovazione industriale", afferma la segretaria della Cisl Annamaria Furlan. Mentre Carmelo Barbagallo della Uil si augura che il nuovo Ceo “raccolga l’eredità lasciata da Marchionne con la stessa attenzione per i risvolti occupazionali”.

Confindustria. Ma le bocche serrate e la cautela non abbondano soltanto nella Confederazione Generale del Lavoro, anche da Confindustria arrivano frasi misurate. La confederazione degli imprenditori, che ebbe con Marchionne uno scontro sfociato nell’uscita di Fiat dall’organizzazione, misura in un certo senso le parole. Anche se il presidente Vincenzo Boccia afferma: "Sergio Marchionne è stato un uomo di rottura, oggi diremmo disruptive. E la decisione che prese allora resterà come il gesto più clamoroso dello storia confindustriale. Ma l'omaggio che voglio rivolgergli in ore così drammatiche è riconoscere come la cesura sia servita". Sul Corriere della Sera, parlando dello 'scisma' che nel 2012 portò la Fiat fuori da Confindustria aggiunge: "Del resto si va avanti per traumi o per confronti. Marchionne scelse la prima strada e noi invece siamo arrivati più tardi, l'approdo però è lo stesso".

Montezemolo. Il mondo imprenditoriale è dunque, come sempre, ponderato ma riconosce il valore di Marchionne. E qualcuno fa di più. A non risparmiare gli elogi è Luca Cordero di Montezemolo. “E’ uno dei più grandi manager internazionali - dice l'ex presidente della Ferrari- Abbiamo iniziato e proseguito insieme un lungo e proficuo pezzo di strada alla Fiat negli anni più drammatici con grande spirito di amicizia e collaborazione. Abbiamo avuto nel passato recente contrasti anche molto duri. Ma mai ho messo in discussione il coraggio, la capacità e la visione di Sergio, che hanno permesso salvataggio e rilancio del primo gruppo industriale italiano e contribuito a modernizzare le relazioni sindacali nel paese. Sono vicino alla sua famiglia".

Il governo. Commenti sulla figura dell’ex ad Fiat arrivano anche dall’esecutivo. Matteo Salvini su Twitter indirizza a Marchionne e alla sua famiglia “un pensiero di riconoscenza, rispetto e augurio”. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli su Radio 1 evidenzia come “certamente ci sono luci ed ombre" nel suo operato: "aver investito per troppo tempo ancora su motori a gas metano come rappresentazione del futuro credo sia un'ombra perché in realtà è l'elettrico o addirittura l'idrogeno il futuro della mobilità". A sua volta Luigi Di Maio si dichiara addolorato per la notizia che “Marchionne stia male e in un momento così difficile credo ci voglia rispetto per il dolore dei suoi familiari”. Aggiungendo poi di essere dispiaciuto per “non aver avuto modo di confrontarmi con lui sul futuro dell'auto elettrica". Di Maio cerca poi di rassicurare gli italiani sul futuro di Fca. “Dobbiamo essere preoccupati e al tempo stesso voglio sincerare tutti che l'Italia è un paese che investirà nell'automotive e soprattutto nell'automotive elettrico", dichiara il vice presidente del Consiglio al termine di un incontro con gli ambasciatori del G20. Quello sull'auto elettrica, aggiunge "è un dibattito che anche Fca ha sdoganato". "Ci saranno grandi opportunità - osserva - sia per il trasporto pubblico che per quello privato".

Renzi. In una intervista a La Stampa l'ex premier ed ex segretario Pd Matteo Renzi afferma che Marchionne “è stato un gigante: ha salvato la Fiat quando sembrava impossibile farlo. E ha creato posti di lavoro, non chiacchiere". Rivela che lui gli telefonava per avere consigli. Afferma che “una parte di Pd lo identificava col 'padrone', ma il lavoro si crea con l'impresa, non con l'assistenzialismo. Se l'Italia avesse avuto altri Marchionne oggi avremmo un'Alitalia competitiva o qualche banca italiana forte in giro per il mondo". In ogni caso resta la vicinanza per la persona e la sua famiglia da parte di tutti. Anche se le polemiche - come si vede -  non mancano. Sono relative alle politiche industriali percorse da Marchionne ma anche a certe posizioni manifestate dalle parti politiche. Di Maio, per esempio, osserva al termine dell'incontro con gli ambasciatori G20: "Magari con Marchionne non siamo andati d'accordo in questi anni quasi su nulla, ma vedere una certa sinistra che quando era potente gli ha permesso di fare ciò che voleva, mentre adesso che è su un letto di ospedale lo attacca, è veramente miserabile. Bisogna rispettare chi sta male". E c'è chi ne fa una questione di coerenza, nonostante tutto. "Non ho nulla da rimproverarmi - afferma convintamente Enrico Rossi - In un momento doloroso, con profondo rispetto verso la persona, ci sono stati alcuni politici che hanno pensato di dire che Marchionne ha fatto sempre tutto bene, e ci sono quelli come me che hanno sottolineato che Marchionne è stato una persona capace soprattutto per gli azionisti, ma lo è stato meno per i lavoratori e per gli interessi industriali del Paese". Nonostante "una certa simpatia personale", si tratta di "una valutazione strettamente politica, ho pensato dovessi dirlo liberamente". 

La Cgil ricorda Marchionne ma lo rimprovera: ​"Non volle dialogare". L'affondo della Cgil: "Marchionne non ha saputo né voluto indirizzare l’azienda che guidava al dialogo e alla collaborazione con una parte importante dei lavoratori italiani", scrive Raffaello Binelli, Mercoledì 25/07/2018, su "Il Giornale". Parole di apprezzamento e stima, ma c'è spazio anche ad una dura critica. La Cgil non si smentisce e, dopo la notizia della morte dell'ex ad di Fca, non cambia opinione nei suoi confronti. "La segreteria della Cgil - si legge in una nota - esprime alla famiglia e alla compagna di Sergio Marchionne il suo cordoglio e quello di tutta la Confederazione per la scomparsa del loro congiunto. Sergio Marchionne, cui è sempre andata la stima della Cgil, ha l’indubbio merito di aver salvato un’azienda morente. Uomo di grande intelligenza e capacità manageriale, è stato in grado di non soffermarsi ai problemi di breve periodo, ma di guardare oltre, rivitalizzando e rilanciando un’impresa in grande difficoltà, portando il suo core business nel cuore del mercato automobilistico più importante, facendola diventare uno dei grandi player globali del settore". "Duro negoziatore, bravo organizzatore, non ha però saputo né voluto indirizzare l’azienda che guidava al dialogo e alla collaborazione con una parte importante dei lavoratori italiani - ricorda la Cgil - Una scelta, sanzionata dalla Corte Costituzionale, costata conflitto, arretramenti, incomprensioni, che si sono riverberati, oltre che nelle relazioni sindacali, nella società e negli sviluppi industriali. L’aver praticato la divisione sindacale e aver abbandonato la contrattazione nazionale, infatti, sono state opzioni non imposte dalla contingenza industriale, finanziaria o economica. Oggi - si legge infine nella nota - mentre permangono molte incognite sul futuro delle produzioni e dei livelli occupazionali in Italia, FCA ha la necessità di adottare un piano industriale e di affrontare i nodi ancora irrisolti che restano e si ripropongono non solo alla nuova dirigenza, ma alla stessa proprietà e ai decisori pubblici". In una nota Francesca Re David, segretaria generale Fiom- Cgil, scrive che Marchionne è "un uomo con cui in questi anni ci siamo aspramente confrontati e che ha rappresentato un modello di relazioni sindacali, che è stato all'origine di un profondo conflitto con la Fiom. Marchionne è stato un avversario di cui riconosciamo il valore. Alla famiglia vanno le condoglianze della nostra organizzazione".

Del Turco: «Così la Fiat sconfisse il sindacato… Per fortuna». “L’arrivo di Marchionne è certamente stato un evento straordinario nella storia della Fiat. Intervista di Giulia Merlo del 25 luglio 2018 su "Il Dubbio". Da dirigente sindacale di componente socialista nella Cgil, Ottaviano Del Turco visse al fianco di Luciano Lama gli anni difficili della lotta con la dirigenza della Fiat negli anni Settanta: entrò nella Fiom guidata da Bruno Trentin in pieno “autunno caldo” e dal ‘ 71 al ‘ 74 fu il leader del sindacato metalmeccanico romano, da segretario generale aggiunto gestì la durissima vertenza del 1980, conclusasi con una drammatica sconfitta del sindacato. Oggi, in una congiuntura drammatica per la storia dell’industria più rappresentativa del Paese, in bilico dopo l’uscita di scena di Sergio Marchionne, Del Turco ricorda gli scontri di quegli anni e analizza i cambiamenti recenti.

Che cosa ha rappresentato la Fiat per l’Italia e per il sindacalismo?

«La Fiat era senza dubbio l’azienda più rappresentativa della realtà metalmeccanica del Paese. Fu anche il modello esemplare per decidere quale era la natura del sindacato e quale la natura dell’imprenditoria italiana. Nel dopoguerra, l’azienda riprese il suo posto a capo del settore metalmeccanico e sfidò il sindacato a viso aperto su un terreno che ci impegnò in modo decisivo».

Più più una sfida o più uno scontro?

«Per risponderle, le dico che io appartenevo a quella parte di sindacato che non riusciva a digerire l’idea che un’azienda come la Fiat, che dava un salario e un lavoro a migliaia di operai, rappresentasse un problema. Per me è stata una sfida, da accettare e da vincere. La verità, purtroppo, è che abbiamo invece perso spesso».

Perchè?

«Perchè affrontavamo un gigante, ma lo facevamo coi piedi d’argilla. Nel dopoguerra, la Fiat di Valletta ha vinto con grande intelligenza la sua battaglia con il sindacato e in questa vittoria vedo una parte di responsabilità dei nostri gruppi dirigenti locali, che erano convinti di combattere una battaglia decisiva più per la loro storia personale e politica che per quella collettiva. Questo è stato il nostro errore più grande e lo abbiamo pagato caro».

A che livello di tensione era il conflitto con la dirigenza?

«I rapporti erano molto complicati, perchè i dirigenti della Fiat affrontavano il loro rapporto col sindacato con lo stesso cipiglio con cui i sindacalisti pensavano di governare le lotte operaie. Ognuno, su fronti opposti, ha contribuito a fare errori, ma chi li ha pagati più cari siamo stati noi».

Quale è stato il vostro errore principale?

«Quello di stabilire con l’azienda un rapporto di conflittualità prima di tutto ideologica, con tutti i rischi che questa ideologia si ritorcesse contro chi la predicava».

Quarant’anni dopo quelle battaglie, è iniziata l’era di un amministratore come Marchionne, che ha portato la Fiat in una nuova fase.

«L’arrivo di Marchionne è certamente stato un evento straordinario nella storia della Fiat. Di lui, mi ha colpito moltissimo una frase, che ha usato per commentare il rapporto con il sindacato: «Che strano è il mondo: quando vado in America gli operai mi applaudono, quando vado a Torino prendo fischi e insulti»».

Come definirebbe la sua gestione dell’azienda?

«Non le dico nulla di diverso da ciò che ho sempre detto mentre Marchionne esercitava attivamente il ruolo di manager. Io credo che lui sia stato una scelta non voglio dire geniale, ma sicuramente sensata e importante per la storia della Fiat, che grazie ha lui ha avuto riconoscimenti di alto livello sia in patria che all’estero».

Teme il rischio che ora, con il cambio di vertice, si diluisca ancora la centralità dell’Italia nel futuro dell’azienda?

«In questi giorni si è esagerato nel paventare questo pericolo e, facendolo, rischiamo di non riconoscere al problema la giusta dimensione. Il punto, oggi, è affrontare insieme alla Fiat il problema della riconversione della sua politica industriale, delle sue relazioni industriali e del sistema contrattuale, con l’obiettivo di superare un problema come quello della diluizione del peso nazionale sull’azienda, che è però del tutto fisiologico».

Il gruppo dirigente di oggi è all’altezza del ruolo?

«Speriamo lo sia: chi ora si assume responsabilità importanti dopo Marchionne si dovrà cimentare con una sfida ancora più grande di quanto sembra».

E il sindacato, invece, è stato capace di rinnovarsi?

«Anche il sindacato è cambiato e credo anche che abbia fatto tesoro degli errori commessi. Le sconfitte di allora, infatti, hanno regalato al padrone una vittoria forse immeritata, ma che è stata utile a mostrare come le battaglie di quel sindacato avrebbero potuto mettere a serio rischio l’azienda e quindi anche migliaia di lavoratori».

Sembra fiducioso sul futuro dell’azienda.

«Lo sono, perchè credo che sia l’amministrazione che il sindacato siano oggi abbastanza maturi. Nessuno dei due ripeterà gli errori del passato, trasformando il confronto in una guerra privata».

L’erede di Valletta? No, Valletta era un’altra cosa…, scrive Paolo Delgado il 24 luglio 2018 su "Il Dubbio". Ritratto della Fiat, un’azienda italiana. C’era una volta la Fiat e Sergio Marchionne è il manager il cui nome resterà nella storia indissolubilmente legato alla trasformazione del simbolo stesso del capitalismo italiano. Paragonarlo a Vittorio Valletta, il manager che rese grande l’azienda torinese, ha senso non solo e non tanto perché Marchionne ha esercitato un potere assoluto paragonabile a quello del manager di Sanpierdarena ma perché i loro regni rappresentano l’alba e il tramonto dell’industria italiana dell’auto. I due avevano forse anche qualcos’altro in comune. Valletta era figlio di un ufficiale perito nella grande guerra, Marchionne è figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato in Canada dopo la pensione. Entrambi, inoltre, hanno usato a man bassa il pugno di ferro nelle relazioni industriali. Valletta è il manager che inaugurò negli anni ‘ 50 la pratica dei reparti confino per gli operai più sindacalizzati, che procedette con migliaia di licenziamenti e dichiarò guerra con ogni mezzo, molti dei quali sporchi, alla Fiom riuscendo a metterla il sindacato metalmeccanici della Cgil in ginocchio. Marchionne la Fiom era riuscito addirittura a cacciarla dagli stabilimenti Fca, grazie alla norma che consentiva la rappresentanza sindacale solo a quelli che avessero firmato contratti, all’uscita da Confindustria e alla proposta di uno specifico contratto di lavoro. Prendere o lasciare. Poi, nel 2013, si mise di mezzo la Corte costituzionale, dispose il rientro della Fiom ma Marchionne riuscì lo stesso a tenerla adeguatamente confinata. Anche la dedizione al lavoro è simile. Valletta attaccava alle 8.30 e non smontava prima delle 22.30. Arrivava a casa a mezzanotte e se la cavava con una minestra e un po’ di formaggio. Era un tipo frugale. Alle 5 era di nuovo in piedi. Marchionne, a Fabio Fazio che gli chiedeva se davvero lavorasse 20 ore al giorno dormendo pochissimo rispose: «Non esageriamo: 18 ore al giorno». Ma che i suoi ritmi fossero tanto martellanti quanto quelli di Valletta è confermato da tutti, così come la tendenza a occuparsi di tutto. Appena nominato ad, nel 2004, con molta esperienza e tre lauree ma nel gotha dei manager un quasi sconosciuto, prese a perlustrare centimetro per centimetro gli stabilimenti: «Come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai se li faccio vivere in stabilimenti così degradati?». Nell’abbigliamento, in compenso i due non avrebbero potuto essere più diversi: Valletta molto formale con l’eterno doppio petto grigio, Marchionne con quei maglioni che ne erano diventati il marchio. Ma è anche vero che il manager del XXI secolo passava ore in aereo e ci teneva pertanto a qualche comodità. Quello del XX secolo aveva dimestichezza soprattutto con i vagoni letto, e tra i pochi lussi che si concedeva c’era la colazione ad attenderlo sul binario di Termini, quando arrivava a Roma per dettare ai ministeri competenti gli ordini del caso. Per molti versi, i due principali nomi della parabola Fiat sono stati opposti. Valletta alternava il bastone con la carota e forse raggiunse risultati maggiori con la seconda che con il primo. Gli operai Fiat erano i più pagati d’Italia, la loro mutua era invidiabile e invidiata, per i figli degli operai c’erano le colonie estive. «Anche l’attività sportiva aveva il suo peso: un terzo dello sport torinese passava per la Fiat, soprattutto gli sport popolari come il ciclismo o il canottaggio», ricordava qualche anno fa il sociologo ed ex operaio Fiat Aris Accornero. Era sempre Accornero a tracciare un paragone tra la Fiat di Valletta e quella di Marchionne: «L’aziendalismo di Marchionne è solo quello lacrime e sangue. Promette solo che, se i lavoratori saranno buoni, riceveranno aumenti in busta paga. Riconosciuti oltretutto attraverso sgravi fiscali sugli straordinari». E’ possibile che all’inizio, quando Fassino lo definiva «manager socialdemocratico» Marchionne avesse in mente un percorso simile. Ma ha cambiato strada molto presto, forse anche perché si è accorto rapidamente di non dover fare i conti, come Valletta e a maggior ragione il terzo grande manager Fiat, Cesare Romiti tra i ‘ 70 e gli ‘ 80, con un movimento operaio agguerrito e temibile. Se le differenze sono notevoli, non mancano le somiglianze. Marchionne è il comandante che ha portato la Fiat fuori da Confindustria. Senza arrivare a tanto Valletta aveva il medesimo atteggiamento di altera sufficienza e sostanziale disinteresse per l’associazione degli industriali. La stessa idea di un contratto separato la aveva già avuta e praticata Valletta. Ma su un punto identità e contrapposizione risaltano contemporaneamente. Sia il Professore che Sergio Marchionne hanno risollevato l’azienda da una crisi gravissima. Direttore generale dal 1928, ad dal ‘ 39 Valletta acquisì poteri totali nel 1946, in una fase difficilissima, quando fu eletto per acclamazione presidente. Marchionne, arrivato al vertice quando la Fiat perdeva un paio di milioni d’euro al giorno, aveva concentrato nelle sue mani lo stesso potere assoluto. Entrambi sono riusciti nell’impresa di portare l’azienda fuori dai gorghi. Ma Valletta era davvero convinto che se l’interesse della Fiat era interesse dell’Italia, anche l’interesse del Paese era interesse della Fiat, e agiva di conseguenza. Per Marchionne l’unico interesse a cui guardare è sempre stato solo quello degli azionisti. Sotto la sua gestione i dividendi hanno raggiunto cifre stratosferiche. I dipendenti, in Italia, sono passati da 120mila a 29mila. Stili diversi, o forse solo modelli di capitalismo diversi. I quali del resto si riflettevano nelle retribuzioni. Valletta guadagnava 12 volte più di un suo operaio e Adriano Olivetti trovava la cosa scandalosa. Marchionne guadagnava 2mila volte più di un operaio Fiat, anzi Fca.

Biografia di Sergio Marchionne Francesco Billi su "Il Corriere della Sera".

• Chieti 17 giugno 1952. Dirigente d’azienda. Già amministratore delegato del gruppo Fiat (1° giugno 2004 – 12 ottobre 2014), poi Fca (12 ottobre 2014 – 21 luglio 2018), nonché presidente (13 ottobre 2014 – 21 luglio 2018) e amministratore delegato (2 maggio 2016 – 21 luglio 2018) di Ferrari. «Io non ho mai chiesto un aumento in vita mia. Non so farlo».

• Vita Padre maresciallo dei Carabinieri trasferitosi in Canada dopo la pensione per cominciare una nuova vita (Concezio), madre dalmata (Maria Zuccon), tre lauree (Filosofia, Economia, Giurisprudenza) più un master in Business Administration, «è dottore commercialista (Institute of Chartered Accountants in Canada) dall’85 e procuratore legale e avvocato (nella regione dell’Ontario) dall’87. Ed è sempre in Canada che ha inizio la sua carriera professionale. Nel biennio 1983-85 ha infatti esercitato la professione di dottore commercialista, esperto nell’area fiscale, per la Deloitte & Touche; nei tre anni successivi è stato controller di gruppo e poi director dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto per diventare subito dopo vicepresidente esecutivo della Glenex Industries e tra il 1990 e il 1992 vicepresidente per la finanza e chief financial officier alla Auckland Limited. A seguire ha ricoperto a Toronto la carica di vicepresidente per lo sviluppo legale e aziendale, di chief financial officer e di segretario al Lawson Group, acquisito da Alusuisse Lonza nel 1994, il gruppo di Zurigo dove nel 1990 è approdato alla carica di amministratore delegato per poi diventare ad e infine presidente di Lonza Group Ltd» (Rep).

• «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me. Poi ho continuato studiando tutt’altro e ho fatto prima il commercialista, poi l’avvocato. E ho seguito tante altre strade, passando per la finanza, prima di arrivare a occuparmi di imballaggi, poi di alluminio, di chimica, di biotecnologia, di servizi e oggi di automobili. Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro» (Alma Graduate School, Bologna, 7 aprile 2011).

• «Volevo andare alla Nunziatella a fare il carabiniere, l’ufficiale. Poi la storia ha preso un’altra piega» (a Pino Allievi).

• «Nel 2002 passa alla guida della ginevrina Sgs, colosso (36 mila dipendenti) dei sistemi di certificazione che vede fra gli azionisti di controllo la famiglia Agnelli. In Svizzera, Marchionne si costruisce una rete di relazioni che contano. Entra nel consiglio di amministrazione della Serono, il gruppo farmaceutico guidato da un altro emigrante italiano, questa volta di lusso, Ernesto Bertarelli. In Sgs c’è invece Dominique Auburtin, dal 1999 presidente della Worms, ricca provincia parigina degli Agnelli, dai quali nel 2004, all’uscita di Giuseppe Morchio, arriva la chiamata in Fiat» (Luca Piana).

• «Era il 1° giugno 2004 quando, al Centro storico Fiat di Torino, nella stesse sale che pochi giorni prima avevano fatto da contorno alle esequie di Umberto Agnelli, Marchionne, in giacca e cravatta, si presentò alla stampa insieme al nuovo vertice del gruppo Fiat: il presidente Luca di Montezemolo e il vicepresidente John Elkann, all’epoca ventottenne. Le prime parole che Marchionne, allora sconosciuto ai più, pronunciò quel giorno: “Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici”» (Pierluigi Bonora) [Gio 31/5/2014].

• «Tre giorni prima il cda aveva licenziato Giuseppe Morchio, l’ad che aveva chiesto alla famiglia di diventare presidente. Intorno al feretro di Umberto Agnelli (Losanna, 1º novembre 1934 – Torino, 27 maggio 2004) gli azionisti avevano rifiutato la proposta. E due giorni dopo Morchio se ne era andato: “Sentimmo solo il rumore delle pale del suo elicottero che si allontanava dal Lingotto”, ricorda Gianluigi Gabetti. Sergio Marchionne arriva alla guida della Fiat in questo clima da ultima spiaggia, con l’azienda che perde più di due milioni di euro al giorno e i conti che rimangono a galla grazie al prestito convertendo concesso da una cordata di banche nel 2002, che di lì a poco più di un anno – nel settembre 2005 – avrebbe potenzialmente consegnato le chiavi del Lingotto ai creditori» (Paolo Griseri) [Rep 31/5/2014].

• «Io pago il prezzo di tutti quelli che hanno mangiato al tavolo prima di me» (Salone dell’auto di Detroit, gennaio 2010).

• «Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?» (a Ezio Mauro) [Rep 18/1/2011].

• Marchionne ripartì da tre punti cardine: la rinuncia degli Agnelli all’esercizio della put option a General Motors che fece incassare al Lingotto 1,55 miliardi; il convertendo siglato con i maggiori istituti di credito italiani; il controverso swap Ifil Exor che consentì alla dinastia torinese di mantenere il controllo della Fiat. Negli anni seguenti, complice l’ottimo andamento delle vendite sul mercato europeo e il boom delle immatricolazioni in Brasile (dove il Lingotto aveva una leadership sul mercato che tuttavia non era redditizia per le difficoltà intrinseche dell’economia brasiliana), la Fiat nella seconda parte del decennio 2000-2010 fece segnare una notevole ripresa in termini di redditività e di risultati di bilancio. «È il periodo della luna di miele di Marchionne con i sindacati italiani, che vedevano in lui una forma diversa di manager rispetto ai nomi del passato. L’intesa tuttavia non durò a lungo, in quanto il manager arrivato dal Canada si rese conto presto che l’Italia e l’America Latina non potevano sostenere a lungo i conti della casa torinese. È in quei mesi che Marchionne realizzò che il salto di qualità era necessario e non più procrastinabile. Nel dicembre 2008 il manager dichiarò che il settore si stava sempre più globalizzando e che per resistere alla competizione sarebbe stato necessario crescere di stazza, tanto più, spiegò, che solo quei gruppi che riusciranno a fabbricare 6 milioni di automobili l’anno saranno in grado di resistere nel futuro. Nessuno ne era a conoscenza, ma quelle dichiarazioni erano il segnale del colpo che il manager aveva in canna: il 20 gennaio 2009 la Fiat annunciò un accordo con l’amministrazione statunitense per entrare nel capitale di Chrysler. Era una mossa senza ritorno» (Luciano Mondellini) [MF 31/5/2014].

• Nell’aprile del 2009 Marchionne aveva cominciato lunghe e travagliate trattative per l’acquisizione di Chrysler con i sindacati e il governo americani. Si raggiunge un accordo che prevede l’acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi. Nasce il sesto gruppo automobilistico del mondo. L’annuncio viene dato dallo stesso presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dopo un tentativo fallito di alcuni creditori di Chrysler di bloccare, attraverso la Corte Suprema degli Stati Uniti, la trattativa tra i due gruppi, il 10 giugno 2009 Fiat acquista ufficialmente il 20% di Chrysler, diventando holding controllante di tutto il gruppo statunitense. Nel primo trimestre del 2011 Chrysler torna all’utile e a maggio 2011, a seguito del rifinanziamento del debito e del rimborso da parte di dei prestiti concessi dai governi americano e canadese, Fiat incrementa la propria partecipazione in Chrysler al 46%. A luglio 2011, con l’acquisto delle partecipazioni in Chrysler del Canada e del dipartimento del Tesoro statunitense, sale al 53,5%, al 58,5% nel 2012. Il 1° gennaio 2014 Fiat Group completa l’acquisizione di Chrysler acquisendo il rimanente 41,5% dal Fondo Veba (di proprietà del sindacato metalmeccanico Uaw) salendo al 100%, accordandosi per un esborso di 3,65 miliardi di dollari. 1,75 versati cash e i rimanenti in un maxi dividendo di cui Fiat girerà a Veba la quota relativa al proprio 58,5%.

• «L’operazione è strutturata in modo piuttosto complesso, ma di fatto Fiat diventa gradualmente proprietaria di Chrysler e si trasforma in Fca (Fiat Chrysler Automobiles), gruppo quotato a Wall Street oltre che a piazza Affari con cuore a Torino, testa a Detroit e portafoglio tra Londra e Olanda, dove i regimi fiscali sono più favorevoli. A differenza di quello europeo, il mercato americano delle quattroruote si risolleva in fretta dalla crisi del 2008. E gli effetti si fanno sentire anche sui bilanci. L’ultimo, quello del 2017, segna ricavi per 110 miliardi di euro e profitti per 3,5 miliardi. La metà dei ricavi arriva dagli Stati Uniti, dove Fca vende circa 2 milioni di vetture l’anno. Soprattutto sono macchine che costano tanto e che garantiscono margini consistenti. Il marchio Jeep, portato in dote da Chrysler, macina ricavi e profitti. Le vendite nel Vecchio Continente si fermano a 1,5 milioni di vetture, di cui circa 560 mila in Italia, con ricavi che sono però circa un terzo di quelli realizzati in Nord America. L’altro grande capitolo del bilancio è quello relativo al Sudamerica, dove Fca fattura circa 8 miliardi di euro ma dove le vendite non stanno più dando le soddisfazioni di qualche anno fa. […] Quello che fa brillare il Lingotto, insomma, sono gli Usa, che compensano risultati non esaltanti in Europa e Sudamerica. Il gruppo ha oggi un debito finanziario lordo di circa 18 miliardi, a fronte di un giro d’affari triplicato rispetto al 2004. Può inoltre contare su una liquidità di 12,6 miliardi e altri asset liquidi, che portano l’indebitamento netto a 2,4 miliardi. […] In una delle sue ultime apparizioni, lo scorso giugno, Marchionne ha posto l’obiettivo dell’azzeramento del debito già con la prossima semestrale che sarà diffusa il 27 luglio» (Mauro Del Corno) [Fat 21/7/2018].

• «Il cambiamento che Sergio Marchionne ha portato alla Fiat non è però solo nei numeri, ma nelle relazioni industriali e in quelle con la politica. La vera rottura nel campo delle relazioni industriali arriva nell’aprile del 2010, quando Fiat disdice il contratto nazionale è chiede una serie di concessioni ai sindacati come precondizione per investire a Pomigliano nella produzione della nuova Panda. La maggior parte delle sigle sindacali accetta l’accordo, mentre la Fiom è contraria. In due successivi referendum, prima a Pomigliano e poi a Mirafiori, gli operai dicono sì all’intesa. La fabbrica campana produce da fine 2012 la nuova Panda. Lo scontro con la Fiom è proseguito a lungo in fabbrica e nei tribunali, mentre le polemiche sull’accordo interconfederale sulla rappresentanza hanno portato a fine 2011 anche alla decisione di Fiat di uscire da Confindustria. Per quanto riguarda la politica, i rapporti con il Governo sono molto diversi da quelli a cui era abituata la più importante fabbrica italiana. Dopo l’acquisto di Chrysler, l’Italia rappresenta ormai solo l’8% del fatturato di Fiat spa: la nuova Fiat Chrysler Automobiles è un gruppo più americano di Ford: il Nordamerica pesa per quasi metà dei ricavi e la percentuale che sale al 70% contando anche l’America Latina. Non a caso, Torino non ha più chiesto incentivi per risollevare il mercato dell’auto – incentivi che andrebbero ormai in gran parte a vantaggio dei concorrenti» (Andrea Malan) [S24 1/6/2014].

• «Nel 2014 prende il timone anche della Ferrari, guidata da oltre 20 anni da Montezemolo. Si tratta di una svolta inattesa, non senza un durissimo braccio di ferro tra i due che si conclude con l’estromissione del top manager che aveva rilanciato il marchio portando alla vittoria il Cavallino nel campionato di Formula Uno nel 2000. È il preludio alla quotazione della Ferrari negli Stati Uniti. Ma in Borsa ci va una quota minoritaria, il 10%, della casa di Maranello, perché l’80% resta ai soci Exor, la holding degli Agnelli di cui è vicepresidente non esecutivo, e il restante 10% a Piero Ferrari, figlio di Enzo» (Fabio Savelli) [Cds 21/7/2018].

• «"L’azione Fca va depurata", ha dichiarato spesso l’ad. L’idea è quella che il titolo sia come una valigia che contiene vestiti anche pregiati ma invisibili. Chi guarda la valigia chiusa la valuta molto meno della somma dei prezzi di acquisto dei vestiti che contiene. Per estrarre valore è dunque necessario aprire la valigia ed esporre la mercanzia. Così ha fatto Marchionne in questi anni, e i risultati finanziari si vedono. Il 30 dicembre 2010, ultimo giorno di contrattazione del titolo Fca originario, la società capitalizzava circa 19 miliardi. Dal gennaio 2011 Cnh (autobus, camion, trattori, macchine movimento terra) è stata scorporata. Una scelta che venne giustificata all’epoca con la necessità di distinguere, depurando le attività automotive da quelle dei veicoli commerciali. Nella convinzione che se un’azione rappresenta attività industriali omogenee viene meglio apprezzata dalle Borse. Risponde a questa logica di "depurare" il titolo anche un altro spin-off passato un po’ inosservato, quello delle attività editoriali di Itedi (La Stampa), che, contestualmente all’ingresso nel Gruppo Gedi (Repubblica), sono state cedute da Fca a Exor, la finanziaria degli Agnelli. […] Risponde soprattutto al criterio di creare valore aprendo la valigia lo spin-off di Ferrari, che in meno di due anni ha portato il titolo a raddoppiare la capitalizzazione e ad avvicinarsi ai 100 euro di quotazione. Le azioni valevano 43 euro il 4 gennaio 2016, quando avevano fatto il debutto a piazza Affari, seguendo di qualche mese la quotazione principale a Wall Street (dove avevano debuttato a 52 dollari e ora sono a 110). […] Fca non solo non ha perso, ma ha guadagnato, rispetto al momento in cui si è divisa da Ferrari. Per ora il bilancio degli spin-off di Marchionne è largamente positivo. Dal 31 dicembre 2010 a oggi la somma delle capitalizzazioni è arrivata a 52 miliardi, 33 in più dei 19 originari. Tutto in meno di sette anni. Se tutte le attività che nel frattempo sono state separate facessero ancora parte di un unico gruppo, oggi Fca avrebbe la stessa capitalizzazione di General Motors. […] Marchionne continua a spingere sugli spin-off per liberare valore ma anche per rendere la società più appetibile in eventuali alleanze. Realizzando così nel 2017, alle condizioni più favorevoli agli Agnelli e salvando la struttura industriale, quello "spezzatino" a fini speculativi che nell’aprile del 2005 si temeva avrebbero realizzato le banche se avessero conquistato la quota di controllo del gruppo. Al termine della parabola della gestione Marchionne, gli insediamenti italiani del gruppo sono stati nella sostanza tutelati. E non era affatto scontato, visto il succedersi della crisi aziendale di Fiat dell’inizio degli anni Duemila e di quella strutturale iniziata nel 2008. Proprio il polo del lusso di Alfa e Maserati e, in genere, le produzioni premium sembrano oggi garantire un futuro agli stabilimenti di Torino, Cassino e Melfi (dove si realizzano le utilitarie premium Renegade e 500X). Il principale punto interrogativo riguarda piuttosto Pomigliano, che non può certo sopravvivere a lungo con la produzione della Panda» (Griseri) [Rep 11/9/2017].

• «La crisi abbatte i consumi e fa saltare anche il piano Fabbrica Italia, presentato da Marchionne nella primavera del 2010 per garantire la piena occupazione negli stabilimenti italiani. Solo nel 2014 il manager potrà presentare un nuovo piano, quello che ha portato a termine in questi mesi. Un piano meno preciso del precedente sui modelli da realizzare ("Ho imparato che non si possono dare certezze con tanto anticipo") e che per quanto riguarda l’Italia fa perno sulla produzione di modelli premium, ad alto margine di guadagno. In modo da poter produrre nella Penisola le auto che vanno in tutto il mondo. Così lavora a pieno ritmo la fabbrica di Melfi, dove si realizza la prima Jeep prodotta in Europa, la Renegede: "Vorrei avere molte più navi da riempire di Renegade per soddisfare le richieste del mercato americano". Ma l’operazione più importante è quella del rilancio dell’Alfa: "Ci sono capannoni nascosti nelle campagne dove gruppi di ingegneri isolati trascorrono settimane a creare le Alfa in grado di competere con la concorrenza tedesca", rivela a Ezio Mauro in un’intervista su Repubblica. Nascono così la Giulia e lo Stelvio, incaricate di inserire il Biscione nella gamma delle auto di lusso europee. Da due anni Sergio Marchionne aveva concordato con gli azionisti di Exor la sua uscita di scena. Da quando era stato chiaro, nel 2016, che non si sarebbe potuto realizzare quel grande accordo che avrebbe potuto portare Fca in un grande gruppo mondiale, addirittura a conquistare la leadership del mercato dell’auto. L’alleanza con General Motors, un ritorno dopo lo scioglimento del patto nel 2005, è saltata per l’opposizione dell’amministratrice delegata di Gm, Mary Barra, e probabilmente degli ambienti politici di Washington: "Guardavamo House of Cards per capire qualcosa degli intrighi della capitale", racconta chi gli sta vicino. L’industria dell’auto non raccoglie l’appello del manager Fca: "Siamo un settore drogato dal consumo esagerato di capitali, quando in realtà potremmo risparmiarne unendoci". Fallito il tentativo, Marchionne si impegna a raggiungere gli obiettivi del piano 2014-2018, innanzitutto la scomparsa dell’indebitamento. Forse nella speranza che con un titolo senza debiti chi verrà dopo di lui potrà realizzare la grande alleanza. In quattordici anni ha moltiplicato per otto la capitalizzazione di Fiat e delle società che dal vecchio gruppo sono state separate. Nell’autunno del 2014 è diventato presidente di Ferrari, dove avrebbe dovuto rimanere anche dopo aver lasciato Fca. Negli ultimi mesi Marchionne ha partecipato alla discussione sulla sua successione: "Per ora siamo impegnati nell’individuare chi verrà dopo di me. Sarà interno, e oggi era qui", ha detto il 1° giugno a Balocco presentando il piano industriale 2018-2022. E lui? Che cosa farà dopo la fine della sua esperienza di manager? "Farò il giornalista", ha spesso risposto scherzando. Ma non troppo» (Griseri) [Rep 21/7/2018].

• Quel giorno, a Balocco, per festeggiare l’imminente azzeramento del debito, Marchionne indossò eccezionalmente una cravatta, citando Oscar Wilde: «Una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita».

• «27 giugno 2018. Sergio Marchionne è a Roma, dove ha consegnato ai carabinieri una Jeep Wrangler. Nel parco del Comando generale dell’Arma, l’amministratore delegato di Fca ha appena tenuto il suo ultimo discorso pubblico, dove ha ricordato le sue origini e i valori dei militari che ancora tiene radicati in sé: "Mio padre era un maresciallo dei carabinieri. Sono cresciuto con l’uniforme a bande rosse dell’Arma, e ritrovo sempre i valori con cui sono cresciuto e che sono stati alla base della mia educazione: la serietà, l’onestà, il senso del dovere, la disciplina, lo spirito di servizio”. Un discorso breve, un minuto appena, […] prima della consegna dell’auto. Poi però Marchionne […] si trattiene con i cronisti. Una giornalista gli chiede. “Perché non sei preoccupato per i dazi di Trump?”. L’ad di Fca risponde sorridendo: “Io mi preoccupo di tutto, anche di te”, dice accarezzandole la testa. La voce è affaticata. “Però non è la fine del mondo. È un problema, ma va gestito. Bisogna avere chiarezza delle scelte da fare. Ma tutto è gestibile”. […] Sabato 21 luglio chiuderà la sua èra come amministratore delegato di Fca dopo il consiglio di amministrazione d’urgenza convocato nel pomeriggio al Lingotto, nello storico quartier generale di via Nizza 250. Suo successore è stato nominato Mike Manley, responsabile del marchio Jeep. La versione ufficiale è che Sergio Marchionne […] ha subìto un intervento alla spalla a inizio luglio. Da allora non è trapelato più nulla sulle sue condizioni fisiche. E la sua uscita romana dello scorso giugno rimarrà la sua ultima da amministratore delegato della Fiat dopo 14 anni al comando dell’azienda. E il suo ultimo messaggio» (Arcangelo Rociola) [Agi 21/7/2018].

• Il 21 luglio 2018, in seguito all’improvvisa degenerazione delle sue condizioni di salute (le poche voci trapelate parlavano di «tumore ai polmoni» e «coma irreversibile»), un consiglio straordinario ha nominato anche i suoi successori al vertice della Ferrari: il presidente di Fca ed Exor John Elkann in qualità di presidente e il presidente di Philip Morris International Louis C. Camilleri in qualità di amministratore delegato.

• «Marchionne si è emancipato da alcuni dei peggiori vizi che oggi opprimono la crescita economica in Italia e più in generale nell’Eurozona. Il manager in pullover ha rottamato per esempio una certa inutile verbosità che caratterizza le classi dirigenti italiane. Invece di ricamare in maniera retorica attorno alla presunta “cultura industriale italiana”, ha preferito spiegare che alcune forti discontinuità col passato si sono rese necessarie dopo la crisi mondiale del 2008, ha rivendicato il superamento della concertazione perpetua tra governo, industriali e sindacati. Contratti aziendali e pace sindacale per assecondare le necessità produttive Marchionne li ha conquistati dunque nello scontro frontale con la Fiom-Cgil e grazie ai voti favorevoli dei lavoratori nei suoi stabilimenti. La partnership con Chrysler dall’altra parte dell’Oceano – oltre a garantirgli l’accesso all’enorme mercato americano, ai fondi pubblici di Barack Obama e alla tenacia dei lavoratori di Detroit – gli ha consentito di sfuggire all’attendismo burocratico-brussellese sul settore dell’auto. Non solo: insediarsi dall’altra parte dell’Oceano Atlantico gli ha permesso di lasciarsi in parte alle spalle un “calvinismo che si è sviluppato in Germania in materia di rigore finanziario” e di trovare rifugio negli “Stati Uniti che non hanno seguito questo approccio ma piuttosto hanno stampato soldi”. Questo “calvinismo oggi non ha più spazio in Europa”, ha detto con toni esortativi l’ad di Fiat-Chrysler, sposando piuttosto “l’agenda del presidente del Consiglio Renzi”» (Il Foglio) [Fog 3/6/2014].

• «Sergio Marchionne ha incassato quasi 10 milioni di euro nel 2017 come amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles. L’annual report del gruppo relativo all’esercizio 2017, depositato ieri alla Sec, alza il velo sui compensi del vertice della casa automobilistica italo-americana. Nel documento emerge così che la remunerazione complessiva del manager ammonta a 9,66 milioni di euro (9,9 milioni l’anno precedente) e si compone di un compenso base di 3,5 milioni di euro e di un bonus annuale di 6,135 milioni di euro. Nel corso dell’esercizio Marchionne ha inoltre maturato il diritto a ricevere 2.795.500 azioni gratuite per i risultati conseguiti nel triennio 2014-16. Grazie ai programmi di incentivazione Marchionne ha accumulato un pacchetto di 16,41 milioni di titoli Fca, 11,86 milioni di azioni Cnh, e 1,46 milioni di azioni Ferrari, per un controvalore ai corsi attuali di oltre 570 milioni di euro» (Marigia Mangano) [S24 20/2/2018].

• «Dal 2004 a oggi Marchionne si è trasformato: via giacca e cravatta (salvo rarissime eccezioni) e divisa d’ordinanza all’insegna del nero (pullover prima con zip e poi girocollo, e pantaloni casual) con le variazioni della polo, sempre nera, a maniche lunghe o corte (anche brandizzata Ferrari) nella bella stagione. Marchionne ha così lanciato una moda, quella di presentarsi agli incontri in pullover, scimmiottata poi da altri. “È tutta questione di praticità – la spiegazione del top manager – visto che trascorro molto del mio tempo in volo”. Ma è indubbio che Marchionne, con il suo look casual (qualche anno fa si è fatto crescere anche la barba) abbia voluto distinguersi, come del resto aveva fatto una delle sue icone, Steve Jobs, patron di Apple, noto per i suoi dolcevita rigorosamente neri. Al di là del risanamento di Fiat, della scalata a Chrysler, ma anche delle delusioni vissute in questi anni, per esempio il mancato blitz su Opel, dal 2004 a oggi Marchionne ha collezionato ben nove lauree honoris causa, di cui tre in Italia e sei negli Usa. Nel 2012, la Detroit Free Press , che lo aveva appena eletto “Auto executive dell’anno”, gli dedicò questo titolo sulla prima pagina: “Il generale senza paura”» (Pierluigi Bonora) [Gio 31/5/2014].

• Politica Già estimatore influente di Matteo Renzi, se ne allontanò progressivamente, fino a dichiarare, nel gennaio 2018: «Renzi mi è sempre piaciuto come persona. Quello che è successo a Renzi non lo capisco. Quel Renzi che appoggiavo non l’ho visto da un po’ di tempo».

• «È stato capace di conquistare, con la sua forza, due presidenti degli Stati Uniti, uno l’opposto dell’altro. Barack Obama per aver salvato insieme alla Fiat la Chrysler. Donald Trump per aver fatto ritornare grande, anzi più grande, un marchio, Jeep, che è la storia dell’America» (Paolo Panerai) [Mf 21/7/2018].

• Amori «Morbosamente geloso della privacy, la sua biografia personale è avara di annotazioni. E la totale idiosincrasia verso qualsiasi forma di mondanità non ha aiutato ad arricchirla. Si sa del padre carabiniere, Concezio. Di una sorella morta giovane. Della famiglia in Svizzera, dove da tempo risiede nel cantone di Zug, e dove tutt’ora abitano la prima moglie Orlandina e i due figli Alessio Giacomo (studente di economia in Canada) e Jonathan Tyler, che frequenta il liceo. Della sua grande passione per la musica classica, immancabile sottofondo di quando sta in ufficio, per il poker, i fiori. Dalla fine del 2012 lo affianca una nuova compagna». La signora, 40enne, si chiama Manuela Battezzato, ed è una dipendente Fiat. Piemontese, laureata in scienze politiche, fa parte dell’ufficio comunicazione del gruppo dalla fine degli anni ’90. Dall’acquisizione di Chrysler del 2009, coordina i rapporti tra l’ufficio stampa del Lingotto e quello di Detroit» (Giovanna Predoni) [Let43 29/10/2012].

• Frasi «Nel nostro paese continuiamo a ripetere che la produttività scende; guardiamo le slide e poi andiamo a cena» (nel 2014 a Trento).

• «La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo» (a Dario Cresto-Dina).

• «La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei» (a Mario Calabresi).

• «Sono cresciuto parlando un inglese con marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei mesi a perderlo, ma sono stati sei mesi persi con le ragazze» (a Calabresi).

• «Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi».

• «Dei miei collaboratori faccio valutazioni continue, ogni giorno do loro i voti. Oggi è otto, domani magari cinque».

• Vizi «Alle 4 sono già al computer». Tabagista accanito da due pacchetti di sigarette al giorno, è passato alla sigaretta elettronica. Appassionato di musica: «Non solo la lirica, l’opera d’obbligo alle prime del Regio di Torino in abito scuro. Lui va dal Concerto di Colonia di Keith Jarrett alla Paper music di Bobby McFerrin, in gioventù anche il “poeta” Fabrizio De Andrè. Ma è anche un “devoto” della Callas, la divina Maria della Casta Diva, per ascoltare la quale ha acquistato in Cina un amplificatore stereo particolare. Ma può accadere di vederlo anche a un concerto di Paolo Conte» (Salvatore Tropea).

• Nel 2007 uscito illeso dall’incidente in cui ha distrutto una Ferrari 599 Gtb Fiorano da 220 mila euro.

• «Cucinare mi rilassa. La mia specialità è il ragù alla bolognese».

• «Non ero mai riuscito a bere vino, ho incominciato a farlo a 43 anni col Brunello che mi ha strutturalmente corrotto».

• Tifo Juventino «da tempi non sospetti». «Avevo un idolo, Omar Sivori, mi faceva impazzire».

GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 22 luglio 2018

Sergio Marchionne. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Sergio Marchionne (Chieti, 17 giugno 1952) è un dirigente d'azienda italiano naturalizzato canadese. È noto a livello internazionale per aver guidato il profondo rinnovamento della FIAT. Ha ricoperto ruoli importanti al gruppo Fiat: è stato amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles N.V., FCA Italy e Presidente e amministratore delegato di FCA US; è stato anche Presidente di CNH Industrial N.V. e Ferrari N.V., oltre che Presidente e amministratore delegato di Ferrari S.p.A. È stato inoltre vicepresidente di Exor S.p.A. e membro permanente della Fondazione Giovanni Agnelli. È stato eletto Presidente del CdA. dell'ACEA (associazione costruttori) per l'anno 2012. È inoltre membro del CdA del Peterson Institute for International Economics e co-presidente del Consiglio per le Relazioni tra Italia e Stati Uniti. Il padre Concezio nacque a Cugnoli in Abruzzo e fu un maresciallo dei Carabinieri mandato negli anni trenta in Istria, regione passata dall'Austria-Ungheria all'Italia dopo la Prima guerra mondiale. Concezio vi prestò servizio fino al termine della seconda guerra mondiale quando la regione passò alla Jugoslavia. Qui conobbe la futura moglie, Maria Zuccon, veneto-istriana. Negli anni della guerra la famiglia materna fu colpita da due tragici lutti, causati dal clima di scontro etnico tra italiani e slavi che per decenni aveva avvelenato quella regione di confine: nel settembre del 1943 il nonno di Sergio, Giacomo Zuccon, fu sequestrato e gettato in una foiba da partigiani titini (i suoi resti verranno in seguito recuperati, assieme ad altri, nella foiba di Terli dai Vigili del Fuoco e riconosciuti dall'altra figlia Anna). Alcune settimane dopo, anche lo zio Giuseppe, fratello della madre, messosi alla ricerca del padre di cui non si avevano più notizie, cadde in un rastrellamento dei militari tedeschi che, scambiandolo per un partigiano o disertore, lo passarono per le armi. A seguito di questi fatti e della seguente occupazione dell'intera regione da parte delle milizie iugoslave, i genitori di Sergio decisero di rifugiarsi presso i familiari di Concezio a Chieti, dove subito dopo si sposano e dove lui nascerà nel 1952. Quando Sergio aveva 14 anni, la sua famiglia si spostò ancora, emigrando in Ontario, Canada, dove si era già stabilita, esule dall'Istria, la zia materna Anna Zuccon. Marchionne è domiciliato in Svizzera, precisamente nel Canton Zugo, ma abita a Blonay, nel Canton Vaud. È stato criticato perché non paga le tasse in Italia. Nel 2012 è risultato essere il manager più pagato in Italia, tra le società italiane allora quotate in Piazza Affari (come A.D. di Fiat S.p.A. e Presidente di Fiat Industrial) con compensi monetari per 7,4 milioni di euro e azioni gratuite («stock grant») assegnate all'inizio del 2012 in base al piano di incentivazione 2009-2011, che il giorno dell'assegnazione valevano 40,7 milioni. Per la carica di A.D. dell'allora Chrysler non ha percepito alcun compenso.

Formazione universitaria. In Canada Sergio Marchionne si laurea in filosofia presso l'Università di Toronto; in un'intervista dichiarerà: «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me». Successivamente si laurea in legge alla Osgoode Hall Law School della York University (Ontario, Canada) con il massimo dei voti, consegue presso la University of Windsor (Ontario, Canada) un Master in business administration. Esercita quindi come commercialista, procuratore legale, avvocato ed esperto contabile diplomato.

L'esperienza canadese e l'affermazione alla SGS. Lascia il mondo forense e svolge la prima parte della sua attività professionale nel Nord America come dirigente. Dal 1983 al 1985 lavora per la società Deloitte Touchecome avvocato commercialista ed esperto nell'area fiscale; successivamente dal 1985 al 1988 ricopre il ruolo di controllore di gruppo e poi direttore dello sviluppo aziendale presso il Lawson Mardon Group di Toronto. Dal 1989 al 1990 è nominato vice presidente esecutivo della Glenex Industries. Dal 1990 al 1992 ricopre il ruolo di responsabile dell'area finanza della Acklands. Sempre a Toronto, nel periodo tra il 1992 e il 1994 ha ricoperto, nell'ordine, la carica di Responsabile per lo sviluppo legale e aziendale e di Chief Financial Officer al Lawson Group, acquisito da Alusuisse Lonza (Algroup) nel 1994. In seguito ha guidato il Lonza Group Ltd, separatosi da Algroup, in veste di Amministratore Delegato prima (2000-2001), e di Presidente poi (2002). Nel febbraio del 2002 è stato nominato Amministratore Delegato della SGS di Ginevra, azienda leader mondiale nei servizi di ispezione, verifica e certificazione, un gruppo forte di 55 000 dipendenti in tutto il mondo. Il nome di Sergio Marchionne, proprio per l'ottima gestione del gruppo svizzero, risanato in soli due anni, è molto stimato negli ambienti economici e finanziari internazionali. Nel marzo del 2006 è stato eletto Presidente della Società di Ginevra, incarico che mantiene tuttora. Dal 2008 fino ad aprile 2010 ha ricoperto la carica di vicepresidente non esecutivo e Senior Independent Director di UBS. Fa parte del Consiglio di Amministrazione del Lingotto dal 2003 su designazione di Umberto Agnelli. Per le sue doti dimostrate nella SGS, in seguito alla morte di Umberto Agnelli e alle dimissioni dell'amministratore delegato Giuseppe Morchio che aveva lasciato l'azienda dopo il rifiuto della famiglia Agnelli di affidargli anche la carica di presidente, Sergio Marchionne viene nominato dal 1º giugno 2004 Amministratore delegato del gruppo FIAT, in seguito denominata Fiat Group Automobiles. Dopo alcuni contrasti con il dirigente austriaco Herbert Demel, nel 2005 assume anche la guida dell'allora Fiat Auto, in prima persona. Da aprile 2006 a settembre 2013 è stato Presidente di CNH Global, azienda che operava nel settore delle macchine agricole e per le costruzioni. A giugno 2009 ha assunto la carica di Amministratore Delegato di Chrysler Group ora FCA US. A maggio 2010 è entrato a far parte del Consiglio di Amministrazione di Exor S.p.A. Ha ricoperto inoltre la carica di Presidente di Fiat Industrial S.p.A. da gennaio 2011, a seguito della scissione del Gruppo Fiat, fino al settembre 2013 quando si fuse con la CNH Global, dando vita alla CNH Industrial, di cui diventa Presidente. Durante l'amministrazione Marchionne, il gruppo lancia nuovi modelli, tra cui l'Alfa 159, la Fiat Nuova 500, la Grande Punto, l'auto più venduta in Italia nel 2006 e nel 2007. Durante la sua gestione, il titolo FIAT è passato da un minimo prossimo ai € 4 del 2005 ai € 23 del luglio 2007, per declinare poi a € 13 (comprensivo anche dello spin-off delle attività industriali, conferite in Fiat Industrial SpA), e scendere a 3,944 € nell'aprile 2012. Il 21 luglio 2018, a causa dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute, il CdA di FCA decide di sostituirlo con Michael Manleynel ruolo di amministratore delegato.

L'acquisizione di Chrysler e il tentativo con Opel. A causa della grave crisi economico-finanziaria che coinvolge il mondo intero, e in particolare il settore automobilistico, agli inizi del 2009 Marchionne tenta di acquisire attraverso FIAT altri importanti gruppi automobilistici europei e non, tali da rendere il gruppo torinese il secondo al mondo. Tale politica ha subito critiche da parte del vice presidente della Commissione europea, il tedesco Günter Verheugen, in merito all'alto indebitamento del gruppo FIAT e alla impossibilità, a detta di Verheugen, di attuare una così aggressiva politica sul mercato mondiale. Tali critiche sono poi rientrate parzialmente grazie all'intervento del presidente della commissione, José Barroso. Nel mese di aprile del 2009 Marchionne effettua lunghe e travagliate trattative legate all'acquisizione di Chrysler con i sindacati e il governo statunitensi. Al termine delle trattativa viene raggiunto un accordo che prevede l'acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio del know how e delle tecnologie torinesi, facendo nascere così il sesto gruppo automobilistico del mondo[12]. L'annuncio di tale accordo è stato dato dallo stesso presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Dopo un tentativo fallito di alcuni creditori di Chrysler di bloccare, attraverso la Corte suprema degli Stati Uniti, la trattativa tra i due gruppi, il 10 giugno 2009FIAT acquista ufficialmente il 20% di Chrysler, diventando holding controllante di tutto il gruppo statunitense. Grazie alla strategia attuata da Marchionne, la casa automobilistica statunitense nel primo trimestre del 2011 è tornata all'utile e ha ottenuto un risultato netto operativo pari a 116 milioni di dollari. A maggio 2011, a seguito del rifinanziamento del debito di Chrysler e del rimborso da parte di Chrysler dei prestiti concessi dai Governi USA e Canadese, FIAT ha incrementato la propria partecipazione in Chrysler raggiungendo il 46%. A luglio 2011, con l'acquisto delle partecipazioni in Chrysler del Canada e del Dipartimento del Tesoro Statunitense, FIAT è arrivata a detenere il 53,5% del capitale di Chrysler. Quindi, FIAT ha esercitato nei primi giorni del 2012 il diritto di acquistare un'ulteriore partecipazione del 5% in Chrysler a seguito della realizzazione dell'ultimo Performance Event, ovvero la realizzazione di un'auto (Dodge Dart) in grado di percorrere 40 miglia con un solo gallone di benzina (17 km/L), portando così FIAT a detenere il 58,5% del capitale di Chrysler Group LLC. Il 1º gennaio 2014 infine, FIAT Group completa l'acquisizione di Chrysler acquisendo il rimanente 41,5% dal Fondo VEBA (di proprietà del Sindacato metalmeccanico UAW) salendo al 100% della proprietà di Chrysler, accordandosi per un valore di 3,65 miliardi di US$, di cui 1,75 versati cash e i rimanenti 1,90 in un maxi dividendo di cui FIAT girerà a VEBA la quota relativa al proprio 58,5%. Un'altra trattativa importante svolta da Marchionne è stata quella legata all'acquisizione di Opel, azienda automobilistica europea del gruppo General Motors. Dopo lunghe e difficili trattative sembrava che la "partita Opel" fosse stata vinta dal colosso Magna International. Ma neppure Magna riuscirà nell'intento di acquisire Opel in quanto quasi a sorpresa General Motors decide di mantenere al suo interno la Opel e di rilanciare il marchio e la produzione seppur sacrificando qualche stabilimento in eccedenza.

La questione di Termini Imerese. Nel corso della sua gestione Marchionne ha stilato una lista di stabilimenti FIAT da chiudere o ridimensionare, fra i quali quello di Termini Imerese in Sicilia, che occupava quasi 2.000 dipendenti. A cavallo tra gennaio e febbraio 2010, su questo impianto, ci fu un aspro dibattito tra i vertici della casa automobilistica torinese e il governo italiano, discutendosi sia dell'opportunità di tenere aperto lo stabilimento siciliano, sia degli incentivi statali al settore auto.

Ferrari. Dal 13 ottobre 2014 sostituisce Luca Cordero di Montezemolo alla presidenza della Ferrari N.V. e Ferrari S.p.A. Il 21 luglio 2018 il CdA di FCA approva la sostituzione di Marchionne, afflitto da seri problemi di salute; John Elkann assume il ruolo di presidente e Louis Carey Camilleri quello di amministratore delegato.

Vita privata. Ha due figli, Alessio Giacomo (1989) e Jonathan Tyler (1994), nati dal primo matrimonio con l'ex moglie Orlandina. Dal 2012 è legato sentimentalmente a Manuela Battezzato, manager aziendale, conosciuta alla FCA, dove lei si occupa del settore comunicazioni.

Sergio Marchionne, dall'intervento alla spalla all'aorta lesionata: la ricostruzione, cosa gli è accaduto, scrive il 24 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Dalla Svizzera, come ormai accade da giorni, non arrivano notizie ufficiali su Sergio Marchionne. Il riserbo è massimo, quasi ossessivo. Di certo, però, c'è che le condizioni del grande manager sono "stabili e irreversibili". Una circostanza non smentita dai vertici Fca e, dunque, da considerarsi vera. In questi giorni, però, si è parlato anche di "coma", "terapia intensiva" e di "gravi complicazioni". Dunque, che cosa è successo? Perché era stato detto che Marchionne era stato ricoverato per un intervento alla spalla? Si sapeva già dal principio che, al contrario, si trattava di un grave tumore ai polmoni, quello che potrebbe averlo colpito? Insomma, che cosa lo tiene a letto in ospedale dallo scorso 28 giugno? La lettera di Franzo Grande Stevens ha sciolto dei dubbi, ma non tutti. L'avvocato, infatti, ha confermato che "i suoi polmoni erano stati aggrediti e che era vicino alla fine". E allora perché si è parlato di intervento alla spalla? Una risposta arriva dal Corriere della Sera. Se davvero si è trattato di un tumore alla parte apicale del polmone, si spiegherebbero diverse cose. A partire dalle citate "complicazioni dopo l'intervento alla spalla destra", unica informazione ufficiale arrivata da Fiat Chrysler. Quel tipo di tumore polmonare, infatti, causa forti dolori proprio alle spalle: esperti di oncologia sottolineano che intervenire chirurgicamente significa mettere in conto la possibilità, che non viene ritenuta passa, di una lesione all'aorta e, dunque, anche al cervello. Insomma, questa potrebbe essere un'ipotesi in grado di spiegare cosa sia accaduto a Marchionne. Un'ipotesi che contemplerebbe sia "l'operazione alla spalla" sia il "coma irreversibile" mai smentito. Tanto che, si ricorderà, John Elkann nel diffondere la notizia del fatto che "Marchionne non tornerà", ha definito "impensabile" quanto accaduto all'ormai ex ad.

Grande Stevens su Marchionne: "I suoi polmoni sono stati aggrediti. Incapace di sottrarsi alle sigarette". Il presidente onorario della Juventus ha scritto una lettera commovente per Sergio Marchionne. Ha ripercorso i primi anni di lavoro insieme, l'amicizia e la notizia dell'aggravarsi delle sue condizioni di salute, scrive Giovanna Stella, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". "È molto difficile per me parlare di Sergio Marchionne che con Gianluigi Gabetti è stato il mio migliore amico di una vita, la sua scelta di amministratore delegato della Fiat (oggi Fca) è dovuta a Umberto Agnelli, che prima di morire raccomandò a Gabetti e a me di chiamarlo in azienda", inizia così la commovente lettera di Grande Stevens. Proprio quando le condizioni di salute di Marchionne si sono fatte "irreversibili", le persone che più gli sono state vicino in questa vita, spendono parole d'amore, di rispetto per lui. Così, al Corriere della Sera, il presidente onorario della Juventus affida il suo profondo sfogo, la sua storia d'amicizia con l'ex ad di Fiat. "Umberto - continua la lettera - aveva valutato Marchionne dai risultati eccezionali che aveva raggiunto lavorando per la Sgs, Société Générale de Surveillance, società di assicurazioni ginevrina. Umberto ci disse che quest’uomo aveva avuto un’idea geniale: quella di incaricare un suo uomo in ogni scalo marittimo o aereo del mondo". E dopo un primo approccio più tecnico, Grande Stevens si lascia andare anche sulla persona di Sergio Marchionne: "Da ragazzino, dopo la scomparsa del padre maresciallo dei carabinieri, con la mamma emigrò da Chieti negli Abruzzi a Toronto in Canada, presso una zia che commerciava in dettaglio ortofrutticoli. Un trasferimento affatto facile per lui. Imparò così il rigore e capì il binomio disciplina-cultura. Sergio è un uomo che sarebbe piaciuto a Giovanni Agnelli, che da sabaudo illuminato aveva dimostrato sempre grande interesse per gli intellettuali e per i sofisticati meccanismi finanziari dedicando del tempo ad affrontare tematiche di cultura illuministica e storica. Giovanni Agnelli ne avrebbe apprezzato la «unicità». Marchionne in Canada completò i suoi studi dimostrando grande interesse per la filosofia. Gianluigi Gabetti ed io, memori di quanto ci aveva detto in punto di morte Umberto Agnelli, invitammo Sergio e riuscimmo a portarlo alla Fiat". Ma è proprio a questo punto della lettera che le parole escono dal cuore. "Gabetti ed io avremmo potuto considerarlo per la nostra età un figlio (il mio primo ha soltanto quattro anni di meno) e invece divenne un nostro fratello, che ci consultava e ci insegnava che cosa vuol dire occuparsi del successo di una grande azienda - dice il presidente onorario della Juve -. Il dolore per la sua malattia è indicibile. Quando dalla tv di Londra appresi il giovedì sera che egli era stato ricoverato a Zurigo, pensai purtroppo che fosse in pericolo di vita. Perché conoscevo la sua incapacità di sottrarsi al fumo continuo delle sigarette. Tuttavia, quando seppi che era soltanto un 'intervento alla spalla', sperai. Invece, come temevo, da Zurigo ebbi la conferma che i suoi polmoni erano stati aggrediti e capii che era vicino alla fine. Alla società, ad Elkann, che è esponente e leader della proprietà, la mia commossa partecipazione. Marchionne ha lasciato una società che ha raggiunto l’incredibile risultato dell’azzeramento del debito e l’avvio di una vita di successi. Mi auguro che sulla strada che egli ha tracciato, sul suo esempio, la Fca prosegua con gli stessi risultati. Soltanto così il grande dolore di tutti noi potrà alleviarsi".

Dal profilo Facebok di Enrico Rossi: Marchionne versa in condizioni molto gravi. I giornali esaltano le sue capacità di leader e di innovatore. Ma, nel rispetto della persona, non si deve dimenticare la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa, la sede legale di FCA in Olanda e quella fiscale a Londra. Infine, un certo autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati; e gli occupati che sono passati dai 120000 del 2000 ai 29000 di oggi. Marchionne era un manager capace, soprattutto per gli azionisti, ma certo poco o per niente attento alla storia e agli interessi industriali del Paese, il quale, d’altra parte, ha avuto una politica debole, priva di strategie industriali, che sostanzialmente ha lasciato fare. In questo momento di dolore, non si deve però dimenticare la complessità e gli errori che sono stati commessi in questi anni e che alla fine sono stati pagati dai lavoratori e dai giovani in cerca di occupazione.

"Nemico dei lavoratori". La sinistra dell'odio lo lincia in ospedale. Il Manifesto: "Autoritarismo padronale". Rossi (Leu): pagava meno tasse in Svizzera, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". È stato il cattivo padrone quando guidava la Fca, resta il nemico da detestare anche in fin di vita. L'epilogo tragico della vita di Sergio Marchionne non scalfisce il fronte che lo ha combattuto come un oppressore dei diritti dei lavoratori, l'avversario acerrimo della sinistra tendenza Fiom. Le reazioni vanno dal silenzio gelido all'attacco esplicito anche davanti alla malattia irreversibile. Il quotidiano comunista Il Manifesto sceglie una copertina molto criticata per il cinismo sui social, E così Fiat, con la foto di un Marchionne malinconicamente piegato su se stesso, per demolirne senza pietà la figura: «Ha tolto i diritti ai lavoratori e ha portato il gruppo via dal Paese. La sua eredità è piena di macerie. L'autoritarismo padronale lascia centomila operai in meno, fabbriche vuote e un futuro incerto sulle auto di domani» si legge nella prima pagina in una sorta di feroce epitaffio. La linea prevalente a sinistra è l'indifferenza. I nemici storici Cgil e Fiom mantengono il silenzio, nessuna parola dalla Camusso e da Landini, neppure di circostanza «Abbiamo deciso il silenzio perché dichiarare e commentare ora non serve a nulla» spiega Michele De Palma, coordinatore Fiom nazionale della Fca). Con qualche eccezione, quella di Giorgio Airaudo, ex segretario nazionale Fiom-Cgil poi deputato Sel: «La politica italiana gli ha permesso tutto, senza chiedere mai, ha fatto della Fiat un'azienda apolide, il tutto nel plauso dei governi». Il segretario della Fiom torinese, Federico Bellono, non cita neppure Marchionne (si riferisce genericamente alle «notizie di queste ore»), e nella nota l'unico pensiero è al «rischio che i tempi delle decisioni si allunghino». Se la freddezza dei sindacati da sempre avversi all'ex ad sorprende fino ad un certo punto, quel che ha colpito di più i vertici di Fca è il comunicato glaciale del sindaco di Torino, la grillina Chiara Appendino. Con la delicatezza di un tir, la sindaca - nelle ore in cui si diffondono le indiscrezioni sullo stato terminale del manager ricoverato a Zurigo - ha fatto uscire una dichiarazione ufficiale in cui esprime unicamente l'augurio che il nuovo ad Mike Manley «guardi con attenzione alla nostra città, perché, oltre allo storico legame con il gruppo, ha saputo costruire nel tempo un sistema fatto di conoscenza, infrastrutture, centri di ricerca scientifica, imprese innovative e aziende ad alto contenuto tecnologico». Neanche un minimo riconoscimento a Marchionne o un gesto di solidarietà per la situazione. Per l'ex leader di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, Marchionne «è stato simbolo del capitalismo che ha portato a una contrazione della civiltà, ha portato il deserto a Mirafiori e la Fiat a Detroit». Mentre sui social tracima l'odio di presunti operai: «Tutti a festeggiare. Lurido b.. hai rovinato migliaia di lavoratori», «Spero soffra...ti sono arrivate le maledizioni di tutti i lavoratori che hai rovinato». Anche il Fatto fa a pezzi la figura manageriale di Marchionne, ricordandone il sostegno al governo renziano: «Più finanza che auto. E il Jobs Act è roba sua» titola il quotidiano di Travaglio. Più duro di tutti il governatore toscano Enrico Rossi, coerente con la storia di ex Pci. Premettendo di parlare «nel rispetto della persona», il presidente (ora in quota Leu) ci tiene a ricordare di Marchionne «la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa. Infine, un certo autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati». La leader di Potere al Popolo, la pasionaria napoletana Viola Carofalo, commenta: «La morte è una livella? Certamente, ma ciò che hai fatto in vita non si cancella». Nessuna pietà per i nemici del popolo.

Sergio Marchionne, orgoglio italiano: l'Istria, le foibe, i lutti in famiglia. La zia: "Quando tornava qui...", scrive il 27 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Il passato segreto di Sergio Marchionne, un misto di orgoglio italiano e sangue. L'ex Ceo di Fiat Chrysler, scomparso mercoledì a 66 anni, aveva origini istriane che lui, alla pari con l'affetto per i Carabinieri (di cui suo padre Concezio ha fatto parte), non ha mai dimenticato. Sua madre Maria Zuccon era di Zucconi, oggi Cokuni, nell'entroterra di Pola, e dal 1943 ha subito l'orrore dei rastrellamenti dei soldati jugoslavi comunisti di Tito e dei nazisti, con la famiglia falcidiata: il padre Giacomo, il nonno materno di Marchionne, è stato ucciso nelle foibe, mentre il fratello Giuseppe, zio materno di Sergio, è stato fucilato dai tedeschi dopo l'armistizio dell'8 settembre. Un destino tremendo che Marchionne ha voluto coltivare e ricordare negli anni. Nel 2012 aveva partecipato a Torino a una cerimonia per il Giorno del ricordo, svelando il suo dramma famigliare. Come ricorda La Stampa, la zia materna Maria, rimasta in Slovenia, aveva ricordato nel documentario Italiani per scelta le visite del nipote, "bravissimo e ubbidiente". E lo stesso Marchionne, intervistato dal quotidiano La voce del popolo, quello della comunità italiana in Slovenia e Croazia, aveva ricordato: "Mia mamma mi parlava spesso della sua terra quando ero bambino", sottolineando i ricordi "contrastanti" tra la gioia "della sua infanzia" e "l'amore" per il marito carabiniere conosciuto proprio a Zucconi le lacrime per la "pulizia etnica e le foibe". Ma "il rancore - giurava l'ex super manager - non è uno dei sentimenti che mi ha trasmesso".

Il nonno infoibato, lo zio fucilato Quelle due tragedie in famiglia. I Marchionne segnati dalla guerra e l'amore per il Tricolore E Sergio nel 2012 partecipò al raduno degli esuli istriani, scrive Fausto Biloslavo, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". Il nonno infoibato dai partigiani di Tito, lo zio fucilato dai tedeschi, il papà carabiniere, che si innamora e sposa una giovane istriana. Non è un caso che Sergio Marchionne fa ricamare il Tricolore sui suoi leggendari maglioni neri. Nelle vene ha il sangue istriano, del dramma dell'esodo e di una famiglia segnata per sempre dalle cicatrici della guerra. Un destino che porta i genitori a trasferirsi in Canada, dove Marchionne è cresciuto diventando uno dei più illuminati manager globali. Nel 2010, il Giornale ha raccontato per primo la storia familiare relegata sempre nell'ombra dell'uomo della Fiat-Chrysler. Suo nonno materno, Giacomo Zuccon, aveva un emporio a Carnizza, vicino a Pola. Il papà, Concezio Marchionne prestava servizio nella stazione dei carabinieri e proprio nel negozio di famiglia ha conosciuto Maria, la donna della sua vita. Nel caos dell'8 settembre del 1943 i partigiani di Tito vanno a caccia dei «nemici del popolo». Il nonno di Sergio Marchionne viene infoibato anche se non ha mai portato la camicia nera. Suo figlio Giuseppe, rientrato a casa a piedi, dopo l'armistizio, inizia le ricerche, ma i tedeschi, che stanno riconquistando l'Istria lo fucilano come disertore. Così Marchionne ha perso pure lo zio nella tragedia della seconda guerra mondiale. Papà Concezio, per fortuna già trasferito in Slovenia e poi a Gorizia, ultimo vallo contro l'avanzata dei partigiani jugoslavi, sopravvive alla guerra. Maria, l'amore istriano, fugge e lo raggiunge seguita dalla sorella Anna, che si imbarca a Pola sul Toscana nel 1947, l'ultima nave degli esuli. I genitori di Marchionne si sposano in Italia e Sergio nasce a Chieti nel 1952. Anni duri per gli esuli, che la propaganda comunista bolla come fascisti. La zia Anna si trasferisce in Canada come tanti istriani costretti ad abbandonare le loro terre. La sorella Maria e suo marito alla fine la seguono per garantire un'istruzione migliore al figlio Sergio, che non dimenticherà mai l'Istria. Dopo l'uscita del Giornale, l'amministratore delegato della Fiat partecipa nel 2012 a Torino, per la prima volta, al raduno degli esuli che ogni 10 febbraio ricordano la tragedia delle foibe. E scrive parole di apprezzamento a esuli famosi come il dalmata Franco Luxardo su carta intestata della Fiat group: «Una storia, come quella della sua famiglia, che parla di sofferenza e di sacrifici, ma soprattutto di tenacia e di rinascita è un esempio prezioso in un mondo spesso rassegnato all'inerzia». Alla Voce del popolo, giornale degli italiani rimasti in Istria, racconta senza rancore i lutti familiari. Il titolo non lascia dubbi: «Marchionne, forte e sensibile come un istriano vero».

Maurizio Belpietro per la Verità il 23 luglio 2018. Il giorno dopo che la malattia lo ha costretto a uscire di scena, Sergio Marchionne è stato beatificato a mezzo stampa. Colui che fino a ieri era criticato per aver decentrato all' estero e produzioni chiudendo Termini Imerese, aver spostato la sede legale (e dunque fiscale) fuori dall' Italia, aver imposto un contratto aziendale disconoscendo quello nazionale, aver sbagliato molte previsioni, all' improvviso è diventato un manager straordinario. Anzi: il Manager. La realtà è che Sergio Marchionne non era un manager, ma un controller, cioè uno che avrebbe dovuto verificare il lavoro di altri manager. Per una serie di circostanze straordinarie poi fu messo alla guida di un gruppo che non era fallito, ma la cui azienda principale, Fiat auto, se non rimessa in carreggiata avrebbe fatto fallire sotto una montagna di debiti anche tutto il resto. Marchionne si trovò tra le mani il destino di una multinazionale tascabile che da tempo aveva innestato la retromarcia. Una fabbrica di automobili che non aveva automobili nuove in produzione e nemmeno le aveva progettate. Così, senza sapere nulla o quasi di auto e poco e niente della concorrenza si mise al volante. Dalla sua però aveva alcune carte da giocare. Conosceva meglio di altri i numeri ed era abituato a scovare tra le pieghe dei bilanci i problemi. Un vantaggio che sfruttò soprattutto quando dovette negoziare l'uscita di scena di Gm dal capitale della Fiat, una trattativa che egli concluse portandosi a casa un pacco di miliardi mentre avrebbe dovuto essere lui a versarli. L' astuzia sui conti gli consentì anche di sfruttare a proprio favore, e a favore degli azionisti, la crisi della Chrysler. I tedeschi della Daimler avevano speso un mucchio di soldi nel tentativo di farla diventare un moderno gruppo automobilistico e non un carrozzone di marchi più o meno fuori mercato. Ma alla fine, dopo dieci anni, furono costretti a gettare la spugna, travolti dai risultati negativi. La fortuna, per Marchionne, volle che in quel momento alla Casa Bianca fosse appena arrivato Barack Obama e che il neo presidente non potesse cominciare il mandato assistendo impotente alla chiusura delle fabbriche automobilistiche del gruppo. Obama non aveva il problema degli aiuti di stato che avrebbe avuto un qualsiasi politico europeo, costretto a rispettare le assurde regole di Bruxelles. No, il presidente Usa mise mano al portafogli, sperando che qualcuno si facesse avanti. E un uomo scaltro, con un'azienda che faceva fatica a trovare la strada per uscire dalla crisi, capì che quella poteva essere un'opportunità. Ha scritto bene Marco Cobianchi nel libro in cui ha analizzato la strategia di Marchionne (American Dream): non è la Fiat che ha comprato la Chrysler, ma Obama che ha comprato la Fiat. Con i soldi americani (e anche la tecnologia che nella Chrysler avevano messo i tedeschi), Marchionne ha fatto il miracolo. Tuttavia, anche se ha guidato per 14 anni un gruppo automobilistico, l'uomo che oggi giace in un letto d' ospedale a Zurigo non è mai stato un manager dell'automobile. Prova ne sia che ha fatto e disfatto piani industriali (otto in totale), senza azzeccarne mai neanche uno. Marchionne è stato un grande funambolo, un uomo che ha giocato con i soldi, le banche, le relazioni. Ha scomposto e ricomposto il gruppo, quotando ciò che già era di proprietà della Fiat e moltiplicandone il valore. Riccardo Ruggeri, che la Fiat la conosce come le sue tasche essendone stato un manager tra i più importanti, ha scritto in un Cameo che l'ad di Fca è il più grande deal maker del mondo dell'automobile. Che cos' è un deal maker? Cedo la parola allo stesso Ruggeri, che per spiegarlo ha usato un paragone artistico. «Se un manager è un pittore, perché aggiunge materiale sulla tela bianca, il deal maker è uno scultore, in quanto crea un'opera d’arte togliendo materiale da un blocco di marmo». Marchionne ha via via scorporato dal blocco Fiat il materiale della Case New Holland e dell'Iveco (Cnh global), e della Ferrari e ora si apprestava a fare lo stesso con la Marelli e con Comau. Un gioco di prestigio che ha creato valore per gli azionisti, facendo crescere con questo spezzatino le quotazioni di oltre sei volte. Per dirla con Ruggeri: uno scultore sommo. Ma a fronte di questa straordinaria capacità creativa esiste il rovescio della medaglia. Ossia una Fca che comunque resta piccola rispetto ai concorrenti, che non ha macchine elettriche e neppure ibride e dunque nel futuro non potrà che arrivare fra gli ultimi. Il gruppo vende quasi cinque milioni di automobili in un mercato dove i concorrenti ne vendono 12 milioni, ma di quei cinque milioni di pezzi la parte più profittevole è quella con il marchio Jeep, perché lì i soldi di Obama sono serviti. In Italia, al contrario, i profitti sono scarsi e gli stabilimenti poco strategici. Probabilmente il grande giocoliere aveva in mente, una volta fatto crescere il valore, di vendere tutto, magari ai cinesi. E però l'uscita di scena di Obama e l'arrivo di Trump ha cambiato tutto. Il nuovo presidente, colui che mette i dazi e fa la guerra commerciale alla Cina e anche all' Europa, mai accetterebbe che un pezzo del mercato automobilistico americano finisse in mano a qualcuno eterodiretto da Pechino. Marchionne forse pensava di rivolgersi ai sudcoreani, più graditi da Trump, e per questo si è fatto il nome della Hyundai. Lo scultore sommo probabilmente si sarebbe inventato un azzardo dei suoi, ma purtroppo la malattia è arrivata prima e il futuro del gruppo è passato di mano. Toccherà a un inglese trovare la soluzione al rebus e dovrà trovarla in fretta, perché se c' è una qualità che ha aiutato il grande giocatore di poker a non perdere mai una mano è stata la velocità. Fra le tante banalità di questi giorni ho letto che Marchionne era un globalista, mentre secondo altri era un neo protezionista. Qualche sindacalista ha scritto che era amico dei lavoratori e nemico dell'Italia corporativa, mentre altri lo hanno accusato di aver salvato gli Agnelli, ma non gli operai, ricoprendolo di insulti. Tuttavia c' è chi gli vorrebbe costruire un monumento. Non so se la statua sia la cosa migliore per ricordarlo. Forse la cosa migliore sarebbe capirlo e, soprattutto, impararne la lezione. Nelle aziende la flessibilità non è solo quella che si applica ai dipendenti, ma soprattutto quella che mettono in campo i manager che si adattano al futuro. Che non è né bello né roseo, è solo in continua evoluzione.

Marchionne, Di Maio contro l'odio rosso: "Miserabile attaccare chi sta male". Il leader grillino contro sinistra e sindacati: "Quando era potente gli ha permesso di fare ciò che voleva. Ora che è su un letto d'ospedale lo attacca", scrive Sergio Rame, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". L'odio rosso si scaglia contro Sergio Marchionne mentre è ricoverato a Zurigo. Non appena è arrivata la notizia che le condizioni dell'ex ad di Fca sono "irreversibili", la sinistra e i sindacati lo hanno subito linciato sui quotidiani e sul web. Non solo. Il sindaco di Torino, la grillina Chiara Appendino, l'ha ignorato chiedendo attenzione al successore Mike Manley. Un odio sociale senza precedenti e senza senso che ora lacera il Paese. Tanto che, incontrando i giornalisti al termine di una riunione con gli ambasciatori dei paesi membri del G20, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio è intervenuto per chiedere rispetto: "È da miserabili attaccare una persona che sta male". Il Manifesto, ieri mattina, è arrivato nelle edicole con un titolo agghiacciante. E così Fiat. "Ha tolto i diritti ai lavoratori e ha portato il gruppo via dal Paese - ha scritto il quotidiano comunista - la sua eredità è piena di macerie. L'autoritarismo padronale lascia centomila operai in meno, fabbriche vuote e un futuro incerto sulle auto di domani". Tutta la sinistra è insorta dopo aver saputo delle cattive condizioni di salute di Marchionne. "È stato simbolo del capitalismo che ha portato a una contrazione della civiltà - ha commentato Fausto Bertinotti - ha portato il deserto a Mirafiori e la Fiat a Detroit". Peggio di lui ha fatto il governatore toscano Enrico Rossi che si è fiondato a ricordare "la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa. Infine, un certo autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati". Un odio viscerale che è poi tracimato sui social network con insulti livorosi. "Con Marchionne non siamo andati d'accordo quasi mai - commenta Di Maio - ma è veramente miserabile attaccare una persona che sta male come fa la sinistra che gli ha fatto fare tutto quello che voleva quando era potente". Tra i detrattori di Marchionne, però, ci sono anche chi si è rifiutato di parlare dell'ex ad di Fca. Il sindaco di Torino ha, infatti, diramato un comunicato stampa in cui ha espresso unicamente l'augurio che il nuovo amministratore delegato Mike Manley "guardi con attenzione alla nostra città, perché, oltre allo storico legame con il gruppo, ha saputo costruire nel tempo un sistema fatto di conoscenza, infrastrutture, centri di ricerca scientifica, imprese innovative e aziende ad alto contenuto tecnologico" e ha completamente oscurato Marchionne. Su questo, però, Di Maio ha completamente sorvolato.

Montezemolo rompe il silenzio: "Con Marchionne ci sono stati contrasti duri". Mentre Marchionne si trova in clinica a Zurigo, Montezemolo rompe il silenzio: "Uno dei più grandi", scrive Giovanna Stella, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". Se la convocazione d'emergenza di sabato pomeriggio dei cda di Fca, Ferrari e Cnh Industrial aveva fatto il giro del mondo, ora la notizia delle "irreversibili" condizioni di salute di Sergio Marchionne stanno tenendo col fiato sospeso. E mentre l'ex ad di Fca si trova sotto osservazione all'ospedale di Zurigo, decine di amici spendono per lui commoventi parole. Da Silvio Berlusconi a John Elkann, sono tutti qui per ricordare tutto quello che Marchionne ha fatto nella sua carriera e in particolar modo per la Fiat. Ora, a due giorni di distanza dalla triste notizia del peggioramento delle sue condizioni di salute, anche Luca Cordero di Montezemolo ha rotto il silenzio. Nonostante i due non siano mai andati troppo d'accordo, l'imprenditore ha speso belle parole per Marchionne. "Sergio Marchionne è uno dei più grandi manager internazionali - ha detto Montezemolo -. Abbiamo iniziato e proseguito insieme un lungo e proficuo pezzo di strada alla Fiat negli anni più drammatici con grande spirito di amicizia e collaborazione". L'imprenditore, quindi, riconosce le grandi doti professionali "del suo nemico", ma non dimentica che "abbiamo avuto nel passato recente contrasti anche molto duri". "Ma mai ho messo in discussione il coraggio, la capacità e la visione di Sergio, che - conclude - hanno permesso il salvataggio e il rilancio del primo gruppo industriale italiano e contribuito a modernizzare le relazioni sindacali nel paese. Sono vicino alla sua famiglia".

I boia di Marchionne. È in "condizioni irreversibili", ma sinistra e sindacati lo linciano. Berlusconi commosso: "Lui simbolo dell'Italia", scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 23/07/2018, su "Il Giornale". Ogni successo crea nemici, ma non tutti i nemici sono uguali. Ci sono quelli che riconoscono la vittoria dell'avversario e quelli che non riconoscono la propria mediocrità. Le menti mediocri, diceva Albert Einstein, sono violente, incapaci di comprendere il genio degli innovatori e di ammettere i loro meriti. È quello che succede oggi nei confronti di Sergio Marchionne da parte di una classe dirigente sindacale fallita e di alcune frange della sinistra rancorosa. Parliamo delle stesse persone e sigle che attraverso una innaturale cogestione avevano portato la Fiat, fino all'arrivo di Marchionne, sull'orlo del fallimento dopo averla fatta campare per decenni con gli aiuti di Stato. In questo coro di mediocri si distingue la voce di Enrico Rossi, governatore della Regione Toscana, ex Pci, ex Pd, ex Liberi e Uguali e a fine mandato certamente solo ex (i toscani non lo reggono più). Lui, pensando di fare l'originale, ricorda con sarcasmo che Marchionne è quello che ha portato la Fiat fuori dall'Italia. Sta di fatto che la Fiat è viva più che mai e nel frattempo Pci, Pd e Liberi e Uguali sono morti, il che qualche cosa vorrà dire su chi dei due, Marchionne e Rossi, è quello intelligente. Un politico che rinfaccia a un imprenditore di aver preso le distanze dall'Italia è come quel medico che incolpa il paziente di non reagire alla cura sbagliata e pure si lamenta se questo cambia ospedale. Qualsiasi persona di buon senso per salvarsi fuggirebbe, potendolo fare, a gambe levate dalle ricette economiche della sinistra tanto care a Rossi e alla Cgil. Lo ha fatto Marchionne, lo hanno fatto in massa gli elettori. Dai mediocri si scappa, e da Rossi sono scappati tanti cittadini toscani che pur venendo da una storia comunista alle ultime elezioni hanno chiesto asilo politico alla Lega e a Forza Italia. Un atto sofferto di legittima difesa dall'imbecillità assurta a forma di governo. Sono lontani i tempi in cui Berlinguer andava ai funerali di Almirante per riconoscere pubblicamente la grandezza del rivale. Berlinguer era comunista, non mediocre. Questi irridono un uomo che si trova in coma irreversibile, contro il quale hanno combattuto e, per fortuna della Fiat e nostra, perso. Piccoli uomini, odiatori seriali. Politicamente e umanamente parlando i morti sono loro. Camminano ancora ma sono morti, solo che non lo sanno.

Sergio Marchionne, sfregio del Fatto Quotidiano: "Non ha fatto niente", scrive il 24 Luglio 2018 "Libero Quotidiano”. Di fesserie, insulti e orrori su Sergio Marchionne, anche con la complicità dei social network, in questi giorni ne abbiamo lette e intercettate tante. E per quel che riguarda la categoria "fesserie", oggi, martedì 24 luglio, si distingue Il Fatto Quotidiano. Già, perché dedica all'ex ad di Fca un articolone dal seguente titolo: "Né meriti né colpe, Marchionne usato per risse da cortile". E fin qui, nulla di troppo sorprendente. La sorpresa, semmai, sta nel catenaccio del pezzo firmato da Giorgio Meletti, ove si legge: "La Fiat è rimasta quella che era, piccola aziendali un Paese in declino. Il manager non poteva nulla, e nulla ha fatto". Insomma, per il quotidiano diretto da Marco Travaglio, Marchionne "nulla ha fatto". Come se salvare Fiat dalla bancarotta, farne crescere il valore azionario in modo esponenziale e passare dal dover essere acquisita da Chrysler ad acquisire Chrysler stessa - giusto per farla brevissima - fosse nulla. Insomma, sul Fatto, un titolo assolutamente sconcertante...

Sergio Marchionne, la porcata di Diego Fusaro su "schiavi" e "padroni", scrive il 24 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". Non lascia, anzi raddoppia. Si parla di Diego Fusaro, il filosofo-comunista-grillino-anti invasione che scivola in modo inaccettabile su Sergio Marchionne. Già poco dopo la notizia relativa alle sue "condizioni irreversibili", Fusaro aveva riservato alla vicenda un commento inaccettabile. E ora, come detto, raddoppia. Lo fa su Twitter, dove scrive: "Continua senza tregua la ridicola beatificazione di Marchionne operata dal rotocalco mondialista La Repubblica, voce del padronato cosmopolita orientato a far sì che gli schiavi amino i loro padroni". Se ne deduce, dunque, che Marchionne abbia fatto degli schiavi. Una discreta porcheria.

"Ha salvato la Fiat, non ha potuto salvare se stesso". Antonio Socci racconta gli ultimi giorni di Marchionne, scrive il 23 Luglio 2018 Antonio Socci su "Libero Quotidiano”. Speriamo in una guarigione per Sergio Marchionne anche se sappiamo che non è facile, perché è in gravi condizioni. Di sicuro però è calato di colpo il sipario sul suo ruolo pubblico in quel mondo che una volta era la Fiat degli Agnelli: «Sergio non tornerà più», ha scritto John Elkann, presidente di Fca, in una lettera ai dipendenti. Al di là, dunque, dell'evoluzione clinica del suo caso, abbondano i commenti e le considerazioni sulla fine dell'era Marchionne nella Fca. Ma c' è una verità che - in questi casi - resta sempre «non detta», perché è scioccante e mette tutti noi con le spalle al muro. Ha balenato quasi di straforo nelle parole di John Elkann, mentre il Cda provvedeva alla repentina e imprevista sostituzione di Marchionne al vertice della società: «Sono profondamente addolorato per le condizioni di Sergio» ha detto Elkann, «si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia». Una situazione impensabile fino a poche ore fa. È questo che ha traumatizzato tutti. Eppure la vita è così, anche se ci impegniamo con tutte le forze a dimenticarlo perché il pensiero ci annichilisce. Ogni istante camminiamo su uno strapiombo sull' abisso e gran parte delle cose che facciamo - diceva Pascal - ci servono a distrarci dal pensiero della nostra incombente mortalità e della nostra precarietà. Rimuoviamo sempre e cerchiamo di dimenticare questo pensiero. Precarietà della vita - Ungaretti rappresentò così la condizione dei soldati nelle trincee: «Si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/ le foglie». Ma siamo tutti soldati di una guerra che si chiama vita. Tempo fa ho visto un'emozionante testimonianza di Jim Caviezel, l'attore americano che ha interpretato Gesù nel film di Mel Gibson, The Passion. Per Jim quel film è stata un'esperienza che gli ha cambiato la vita. Ha poi attraversato sofferenze e prove, ma la sua fede è diventata granitica. Parlando davanti a migliaia di persone (in quella conferenza) esordì così: «Non so se lo sapete, ma la vostra morte è imminente». Poteva sembrare un espediente retorico per catturare - in modo scioccante - l'attenzione degli ascoltatori, eppure nessuno si alzò dicendo: «Ma va là, che sciocchezze stai dicendo per far colpo su di noi?». Nessuno obiettò e nessuno potrebbe farlo. Perché in effetti è vero. I saggi dicono che il pensiero della precarietà della vita è l'inizio della sapienza. Le nostre nonne non avevano studiato, ma si erano laureate all' università della vita e - avendo attraversato tanti dolori e tante prove - sapevano e insegnavano queste verità profonde: adesso sei vivo e forte, pochi secondi dopo non ci sei più o non hai più coscienza di te. Ne ho fatto personalmente esperienza con una figlia di 24 anni, nel fiore della sua primavera, piena di splendore e di salute: immaginate una bella fanciulla fra amici, che parla, sorride, poi un istante, il tempo di dire «non sto bene» e il crollo per terra con il cuore fermo. Di colpo. Può capitare anche a 24 anni. Non è affatto necessario essere vecchi o malati. Si può essere ricchi o poveri, giovani o anziani, famosi e potenti o del tutto irrilevanti e sconosciuti. Nella Bibbia un salmo recita: «Come l'erba sono i giorni dell'uomo, /come il fiore del campo, così egli fiorisce. / Lo investe il vento e più non esiste/ e il suo posto non lo riconosce». Nessuno si accorge della solitudine degli altri, né della loro infelicità, soprattutto quando sono potenti e ricchi e sembra non abbiano i drammi delle persone comuni. Ma l'attimo in cui il destino bussa alla porta è per tutti il momento in cui emerge la grande solitudine. E nulla, né il potere, né la ricchezza, ci soccorre. Certo, in genere avere grandi disponibilità economiche permette di curarsi molto bene e consente anche di superare gravi problemi di salute, mettendo in campo mezzi straordinari. Marchionne, col suo lavoro di manager, di certo non ha problemi economici e potrà avere il massimo delle cure. Ma la ricchezza non cambia realmente il destino umano. Che è lo stesso per tutti. Elkann ha avuto un'altra espressione che colpisce. Ha detto che la vicenda di Marchionne «lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia». È vero. È la condizione umana che ci appare ingiusta, perché siamo esseri fatti per la felicità, per la vita, e ci appare innaturale e violento dover soccombere sotto il dolore, il male e la morte. Infatti nella Bibbia il Libro della Sapienza proclama: «Dio non ha creato la morte/ e non gode per la rovina dei viventi. / Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza». Qualcosa di terribile e oscuro è avvenuto che ha avvelenato la creazione. E ora la vita appare all' uomo come un'illusione fugace, un sogno ingannatore e vano: «Vanità delle vanità. Tutto è vanità» (Qoèlet). Appare così. Eppure non è vero neanche questo. «Solo pochi giorni» - Il 27 giugno scorso Marchionne, entrando in clinica per l'operazione alla spalla destra, non sapendo che tutto sarebbe precipitato improvvisamente, aveva detto ai suoi collaboratori: «Starò via solo pochi giorni». Nessuno sospettava quello che sarebbe accaduto e oggi si tramandano queste parole con sconcerto, pensando a quanto è stato beffardo il destino che aspettava il manager. Eppure c' è una strana e misteriosa verità in quelle parole di Marchionne, una di quelle profonde verità che involontariamente gli uomini talvolta si trovano a dire senza saperlo. In un certo senso, anche se la sua situazione clinica dovesse avere l'esito peggiore, è verissimo che starà via solo pochi giorni. E questa è la consolazione di tutte le persone che perdono i loro cari. Con gli occhi della fede cristiana perfino la morte - che è l'addio definitivo - viene vinta e trasformata: è solo un arrivederci di pochi giorni. «Morte dov' è la tua vittoria?». È questo il grido trionfale degli esseri umani toccati dalla grazia del cristianesimo. E così tutto, proprio tutto, cambia di segno. Don Giussani diceva che per l'uomo naturale la vita è come un malinconico stare a guardare, sulla riva del mare, una barca con le persone e le cose amate che si allontanano sempre più all'orizzonte fino a sparire. Ma dopo la resurrezione di Cristo e la sua vittoria è tutto rovesciato: è come stare sulla riva e veder avvicinare sempre di più le persone e le cose amate, che riavremo per sempre nella felicità. Così l'esistenza terrena diventa il tempo della grande scelta per la salvezza. Antonio Socci

Il ritratto. Gli amici e i nemici di Marchionne: lo scontro con la Camusso, la luna di miele con Renzi e la proposta di Berlusconi. Suggeritore di Renzi, premier ideale del Cav, è uscito indenne pure dallo scontro tra Obama e Trump. Marchionne disse: “La Fiat è sempre governativa”. “Voterei Matteo”, “Silvio? Un grande”. La politica lo ha sempre guardato con rispetto e interesse, i sindacati no. Lo scontro più duro con Susanna Camusso che gli ha attirato le antipatie della sinistra tradizionale, scrive Paolo Emilio Russo, giornalista parlamentare, il 23 luglio 2018 su Tiscali. È vero che Sergio Marchionne ha fatto del maglione un simbolo della sua figura di manager fuori dagli schemi, che la sua mise avrebbe certo fatto inorridire l’Avvocato, sempre inappuntabile e capace di dettare le regole della moda fino a rendere plausibile il vezzo di portare l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma, della vecchia leadership di Fiat – fino dai tempi del senatore Giovanni Agnelli sr. – il manager italo-canadese venuto dalle corporation statunitensi e domiciliato nel Cantone svizzero di Zugo ha saputo mantenere un tratto essenziale. Lo ammise lui stesso: Fiat è, per definizione, un’entità filogovernativa. Una bussola, questa, che Marchionne ha tenuto saldamente in mano fino all’ultimo, non solo in Italia ma anche negli USA, il terreno su cui FCA, la sua creatura più ambiziosa, ha finito per giocare la sua partita decisiva. Facendo sparire, fatalmente, la sua figura, dai radar della politica italiana. L’ultima, clamorosa, parte da protagonista qui da noi, l’aveva giocata – malgré lui – nel luglio dello scorso anno, quando un Silvio Berlusconi ancora squalificato dalla legge Severino e alla ricerca affannosa di un frontman credibile per il centrodestra, aveva sparato il suo nome con apparente convinzione: "Per il centrodestra punto su Sergio Marchionne. Tra non molto gli scade il contratto negli Stati Uniti, e se ci pensate bene sarebbe l'ideale...". Una mossa ardita, per nulla concordata con l’interessato, che, a stretto giro, ricambiava con un sottile fin de recevoir: “Berlusconi è un grande, ha spiazzato tutti, ma non ci penso neanche di notte”, tra il passaggio di una auto e l’altra al Granpremio d’Austria di Formula 1. Che non si trattasse solo di una boutade, però, lo dimostra la tempestività – e la malizia - con cui uno dei colonnelli, il più impegnato a tenere insieme gli alleati dei Lega e FdI, Giovanni Toti, era intervenuto a stoppare l’ipotesi del Cavaliere: “Marchionne è una persona che ha fatto molto bene nel mondo dell’impresa, certamente una persona di grande valore. Non so se abbia intenzione di scendere in campo. E, soprattutto, non so se ne sarebbe capace. Non credo si debba cercare un altro Berlusconi anche perché non lo troveremmo. Di certo non basta essere un uomo di successo nel mondo dell’impresa, o dell’accademia, o dell’economia, per essere il nuovo Berlusconi. La storia recente lo dimostra. Prima, molto prima, c’era stato però il flirt con Matteo Renzi. E’ vero che agli esordi politici del sindaco di Firenze, Marchionne era andato giù duro definendo addirittura da Bruxelles Firenze come una “piccola e povera città” con un sindaco che “si crede Obama ma non è Obama”.  Ancora qualche mese dopo, quando ormai Renzi si era insediato a Palazzo Chigi, si era perfino sbilanciato per sollecitare un maggiore equilibrio a proposito del jobs act: "Facciamo due mestieri diversi, capisco benissimo il tipo di problemi che sta avendo. Non condivido completamente l'atteggiamento nei confronti del sindacato ma lo capisco. Sono momenti che ho vissuto anch'io".

Già, perché gli esordi di Marchionne alla guida di Fiat erano stati segnati da una dura polemica dell’allora ad con Susanna Camusso a proposito di uno sciopero alla Maserati definito come "irrazionale e incomprensibile", e dell’interruzione delle trattative per il nuovo contratto, a cui i lavoratori  avevano replicato con una lettera aperta in cui scrivevano: "Siamo molto contenti e orgogliosi di essere parte integrante di uno degli stabilimenti più moderni. Non ci siamo mai tirati indietro. Ma ci sono problemi e vanno affrontati. Noi siamo orgogliosi di quello che stiamo facendo alla Maserati, della nostra italianità fatta di risultati eccellenti e di etica del lavoro, ma l'etica del lavoro prevede che ci sia nei rapporti reciproci. Forse dovremmo tutti riflettere sulla gravità delle conseguenze che certe azioni comportano". Poi ci fu la (relativamente) lunga stagione degli endorsement di Marchionne all’allora presidente del Consiglio e dei riconoscimenti di Renzi nei suoi confronti. Quelli che ancora risuonano nelle parole di queste ore: “Marchionne è stato un grande protagonista della vita economica degli ultimi 15 anni. Con lui ho condiviso molte scelte, discusso sempre, litigato talvolta. È riuscito a dare un futuro alla Fiat, quando sembrava impossibile. Ha creato posti di lavoro, non cassintegrati". In realtà, i rapporti tra i due hanno segnato una parabola evidente, soprattutto nell’alternarsi dei giudizi del manager sull’uomo politico. Nel settembre del 2015, Marchionne, ancora dai box di un gran premio di Formula 1, si era spinto a definire Renzi “la migliore speranza di questo Paese nel 21esimo secolo per accelerare il passo”. E nel gennaio del 2016, parlando a Chicago, al Forum sull’innovazione organizzato dall’Istituto italiano per il Commercio Estero, dove Marchionne era arrivato a sorpresa, era stato ancora più esplicito: "Se me lo chiedete, in Italia voterei per Renzi", indicando nel giovane leader fiorentino l’uomo capace di liberare l’Italia "di un lungo fardello di inefficienze", e di garantire la stabilità di cui le imprese hanno bisogno, aspettava da tempo. Marchionne doveva a Matteo Renzi – oltre che a una stampa piuttosto distratta e/o benevola - soprattutto di avergli garantito di trasformare la vecchia Fiat nella nuova FCA americana nata dalla fusione con Chrysler. L’unico a mostrare qualche perplessità era stato allora Romano Prodi: “Sono felice che Marchionne sia felice, ma vorrei che fossimo felici anche noi". Prodi aveva riconosciuto a Marchionne di aver "vinto una grande battaglia", con una "ingegnosità finanziaria e una capacità negoziale da lasciare a bocca aperta tutti e da mettere al sicuro il portafoglio degli azionisti" ma non aveva nascosto un certo disappunto: "La Fiat-Chrysler avrà la sede in Olanda, pagherà le tasse in Gran Bretagna e le sue azioni saranno quotate in primo luogo a New York. Tutto questo può anche avere un senso, perché le imprese non hanno alcun obbligo di riconoscenza o di gratitudine, pur tenendo conto che nel rapporto fra la Fiat e l'Italia qualche obbligo vi potrebbe pure essere. Anche se, nella sua storia, di tasse non ne ha certo pagato un'esagerazione, fa tuttavia una certa impressione pensare che la Fiat assuma la cittadinanza fiscale britannica". Le cose, però, dopo la sconfitta del referendum di fine 2016 e i sintomi del declino delle fortune politiche di Renzi, cambiarono rapidamente. Con l’abituale fiuto politico della dirigenza Fiat, anche Marchionne finì per prenderne atto e per modificare i suoi giudizi: “Quello che è successo a Renzi non lo capisco. Quel Renzi che appoggiavo non lo vedo da un po’ di tempo”. Scaricato, e per di più nell’imminenza della campagna elettorale da cui l’antico sodale sarebbe uscito con le ossa rotte. Qualcosa di simile è accaduto anche nel rapporto con la politica USA. Non c’è dubbio che, oltre a Sergio Marchionne, l’altro degli artefici dell’operazione FCA sia stato Barack Obama. Con la partecipazione attiva dei sindacati americani. E questo, per inciso, spiega anche la benevolenza che in Italia ha circondato “a sinistra” la trasformazione della vecchia Fabbrica Italiana Automobili Torino proiettandola nell’empireo della globalizzazione. Fiat completava la sua internazionalizzazione uscendo dal guscio europeo e Obama metteva al sicuro, con la prospettiva di rilanciarla, l’industria automobilistica del Mid West, di una delle ultime regioni dominate dai “blue collars” e sicuro – un tempo – bacino elettorale dei Democrats. Almeno fino all’arrivo sulla scena di Donald Trump e delle sue suggestioni protezionistiche. Vero è che Trump, minacciando la revisione del trattato commerciale Nafta (con Canada e Messico) mette a rischio la convenienza delle forniture delle aziende automobilistiche ma, al tempo stesso, la forte riduzione degli oneri fiscali – un miliardo di dollari - per FCA rappresenta una manna e poi, per un’azienda ormai “americana” e con un mercato interno sconfinato, anche il protezionismo può essere un affare. Come ammesso dallo stesso Marchionne, peraltro. Resta il nodo delle emissioni, con il rischio che anche il gruppo di Detroit sia preso con le mani nella marmellata, che cada vittima del “dieselgate” che ha colpito Volskwagen e non solo. Vale la pena, allora, di sostenere la linea di Trump, appoggiando l’idea che la revisione degli "standard dell'Epa, come originariamente previsto, è la cosa giusta da fare". "Il processo è nelle fasi iniziali e trarre conclusioni affrettate e ipotizzare un esito sarebbe quindi un errore" ebbe a dire Marchionne, dichiarandosi "ottimista" sul fatto che "il presidente riuscirà a trovare il modo di preservare un programma nazionale che stimoli miglioramenti continui nell'efficienza dei veicoli e al contempo ci permetta di realizzare veicoli che i nostri clienti vogliono acquistare, a prezzi loro accessibili". Un obiettivo che "richiede la volontà di tutte le parti di arrivare a compromessi". L’importante, allora, era evitare di finire schiacciati nella guerra tra i due Presidenti, con Obama che non vuole che Trump smantelli quanto di buono ha fatto per proteggere l’ambiente e con il secondo che ha già annunciato una profonda deregulation anche in materia ambientale. Anche a costo di far passare l’EPA – l’organo di controllo - come “il braccio armato” di Obama. Filogovernativi anche Oltreoceano. Il modo giusto per incassare gli elogi del presidente, come è avvenuto di recente in un incontro con i leader dell’industria automobilistica riuniti nella Roosevelt Room della Casa Bianca, quando Donald Trump, dopo avere intimato: "Voglio vedere più auto costruite negli Stati Uniti", si rivolse proprio a Sergio Marchionne definendolo, "al momento il mio preferito nella stanza" per aver deciso lo "spostamento della produzione nel Michigan dal Messico". "La ringrazio", - queste le sue parole - così come "le sono grati" gli abitanti del Michigan”.

Massimo Gramellini per il Corriere della Sera il 23 luglio 2018. Non capendo un tubo di automobili, figuriamoci di economia e finanza, l'unico titolo che ho per parlare dell'era Marchionne alla Fiat è di raccontare gli sporadici incontri che ho avuto con lui durante gli anni in cui ho lavorato a Torino per «La Stampa». Nel 2007, non so perché, mi fu chiesto un parere sul «numero zero» di uno spot per il lancio della Cinquecento. Azzardai alcune osservazioni, ignorando che lo avesse confezionato il capo in persona. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto: «Appena mi hanno riferito le sue idee, ho pensato che lei fosse un coglione. Ma le ho fatto testare sul pubblico e pare che piacciano. Quindi il coglione sono io». E mise giù, senza dire grazie o buonasera, nemmeno il suo nome. L' impatto dal vivo avvenne nei saloni austeri del Lingotto, dove lui e l'allora direttore di Fiat Auto, Luca De Meo, si divertivano a tirarsi addosso i pacchetti di sigarette da una parte all' altra del tavolo delle riunioni. La mia prima domanda fu banale: «Come mai indossa sempre un maglione blu?» La sua prima risposta, letale: «Come mai non va dall' oculista? Il mio maglione non è blu, è nero». Con uno scudetto tricolore cucito all'altezza del cuore. Ciò che subito mi colpì di quell'uomo che parlava in italiano come uno straniero era la retorica patriottica, tipica di chi guardava e amava il suo Paese da lontano. Ogni volta che il discorso inciampava sull' Italia, uscivano fuori il figlio del carabiniere e l'emigrato precoce: si toglieva gli occhiali e li puliva freneticamente contro la manica del maglione (nero). Il suo modo per scaricare la commozione. Per svuotare i nervi, invece, mi spiegò che non c'era nulla di meglio, potendoselo permettere, che salire su una Ferrari e farsi qualche giro del circuito di Fiorano a velocità forsennata. All' epoca pensavo ancora che fosse un italiano atipico, ma ero condizionato dal suo imbarazzo per le guasconate arci-italiane del premier Berlusconi. Mi disse che se ne vergognava a tal punto da avere cominciato a usare il secondo passaporto, quello canadese, però sembrava una boutade per strappare una risata di complicità: non lo avrebbe mai fatto, credo. Mi raccontò di quando era stato convocato a Palazzo Chigi insieme con il gotha dell'economia italiana, ma che, dopo mezz' ora di barzellette di quell' altro, si era alzato dicendo che doveva andare a lavorare, lui. Mi costruii l'immagine di un Marchionne quacchero e moralista. Come mi sbagliavo. Sotto quel maglione nero, già allora covava italianità allo stato puro, un talento innato per l'improvvisazione anche cinica, ma sempre spiazzante. Quando il capo della General Motors era venuto a bussare a quattrini con arie da padrone, lui gli aveva parlato per un giorno intero di quanto orribili fossero i suoi conti. Non quelli della Fiat, ma quelli della General Motors, che si era studiato durante la notte. Non solo non gli aveva restituito il miliardo e mezzo di dollari che gli doveva, ma lo aveva convinto a farsene dare uno supplementare per levarselo dai piedi. Il 4 luglio 2007, giorno del lancio della Cinquecento con una cerimonia sul Po, rimarrà per sempre uno dei più belli della sua carriera. Aveva appena detto che la competitività non andava perseguita abbassando gli stipendi degli operai e la gente lo applaudiva per la strada. Il mito di salvatore della Fiat si nutriva di episodi leggendari, come quello della sua nomina, quando l'elicottero di Marchionne era atterrato sul terrazzo del Lingotto proprio mentre quello di Morchio, il predecessore appena licenziato, si alzava in volo: una scena da Apocalipse Now. In quei giorni si compiaceva della sua fama di duro. A Gianluigi Gabetti propose di assumere nella corrispondenza privata il soprannome di Ruthless. Spietato. Arrivarono a un compromesso: l'uno si sarebbe firmato Ruth e l'altro Less. Ignoro se avesse dato un soprannome anche a John Elkann, ma ne ha sempre parlato con stima e a ogni colloquio cambiava il tempo del verbo: «Il ragazzo crescerà sta crescendo è cresciuto. È in gamba, ha imparato in fretta». Quando la crisi economica appannò la sua popolarità, non riuscì a farsene una ragione. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio al Lingotto, dominato dal quadro di un artista newyorchese inneggiante alla Competitività, e mi chiese a bruciapelo: «Perché Landini sta più simpatico alla gente di me?» Crozza aveva appena fatto la sua imitazione, ma lui non l'aveva ancora vista. Ebbi così il privilegio, si fa per dire, di mostrargliela sul suo Mac. Mentre il Marchionne di Crozza diceva: «Noi apriamo le concessionarie solo di notte, così se sei una donna incinta e ti svegli con una voglia improvvisa di Fiat», il Marchionne vero esplose a ridere come un ragazzino. «Ma parlo veramente così?», mi chiese, con la voce di Crozza. Di lui mi ha sempre intrigato la contraddizione tra l'istinto da manager spietato e la convinzione che il capitalismo finanziario, di cui in questi anni è stato uno dei maggiori interpreti, fosse giunto al capolinea. L' istinto del predatore mi apparve chiaro durante un pranzo a base di gamberoni. Me ne era rimasto uno solo nel piatto, quando mi alzai per rispondere a una telefonata. Feci un gesto con la mano che voleva dire «un attimo», ma lui forse equivocò e la sua forchetta si abbatté fulminea come la zampa di un ghepardo sul gamberone superstite. Le perplessità sul sistema economico, che pure lo aveva reso ricco, le espresse nel corso di una conversazione avvenuta nel suo ufficio torinese, un paio di anni fa, alla vigilia di Natale. Mi disse di essersi ritrovato, durante un convegno negli Stati Uniti, a parlare a una platea di finanzieri assetati di sempre maggiori profitti a scapito dei lavoratori. E di avere pensato, mentre li guardava negli occhi, che prima o poi l'avidità li avrebbe distrutti. Mi spiegò il paradosso di un sistema dove il lavoratore e il consumatore sono la stessa persona: impoverendosi il primo, scompare il secondo. «Qualche emiro che compra una Ferrari lo troverò sempre. Ma se il ceto medio finisce in miseria, chi mi comprerà le Panda?». Gli dissi che era pronto per buttarsi in politica, ma ci rise su, raccontando di quando, anni prima, era stato a trovare Monti a Palazzo Chigi e l'allora premier gli aveva indicato scherzosamente la sua poltrona: «La sto scaldando per te». Forse avrebbe potuto fare politica solo in America, dove era meno coinvolto emotivamente, se il suo grande amico Joe Biden, il vice di Obama, si fosse candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Nei suoi sogni, più che capopopolo, si è sempre visto direttore d' orchestra. Una volta volle mostrarmi a tutti i costi la registrazione di una puntata di «Otto e Mezzo» con l'intervista di Lilli Gruber al maestro Barenboim: «Non sono io a suonare, ma i musicisti a trasformare i miei gesti in musica».

SI CHIUDE UN'ERA. Il maglione se ne va. Alla fine si può dire di lui che è stato un gran manager. E aveva un cuore, scrive Marcello Veneziani il 23 Luglio 2018 su “Il Tempo”. Una notte di alcuni anni fa sognai Sergio Marchionne che girava nudo col maglione tra Napolitano, Montezemolo e il Papa e veniva fulminato dall'Altissimo Gianni Agnelli che gli rinfacciava non tanto la nudità di sotto quanto il maglione di sopra. Maledetto Mavchionne, hai messo il pullovev alla mia Fiat, hai vidotto l'Impevo ad una maglievia, vevgognati. E giù fulmini e saette. Per anni Marchionne fu per me un mistero, il maglione era la sua sindone, il suo saio, la sua tuta da fabbrica. Quando lo vedevo perfino in Quirinale col suo maglione che gli dava quell'aria di passante capitato lì per caso e per caso trascinato nei Palazzi più importanti, avevo un misto di tenerezza e di apprensione. Ma perché, poveretto, non si può permettere una giacca e una cravatta, mi dicevo, quale indigenza, quale allergia, quale complesso alberga in lui che gli è interdetto l'uso della giacca e della cravatta? Perché non può mostrare mai la sua camicia come se fosse sempre macchiata di olio motore? Perché ha scelto di sentirsi sempre a disagio, fuori posto, come un immigrato clandestino senza permesso di soggiorno...Ha fatto un voto, ha subito un trauma infantile, da bambino fu violentato da un pedofilo con la cravatta, ha avuto problemi con gli usurai detti appunto cravattari? C'era qualcosa di patologico, di esoterico o di maniacale che dovrebbe essere portato alla luce. Psicanalizzate Marchionne, mi dicevo. E lo dicevo io che non sono un fanatico del bel vestire, anzi sono un nemico giurato della cravatta, la uso quando è d'obbligo e non quando è d'uso, detesto i damerini, amo vestire casual che il mio Maestro, Checco Zalone, più efficacemente traduce in “veste a cazzo”. Marchionne veste con studiata impertinenza e con premeditata serialità, facendo della sua vistosa e volontaria inferiorità la sua calcolata superiorità. In mezzo ai corazzieri in alta uniforme vederlo così, in borghese, anzi peggio, da sala biliardi, faceva un'impressione quasi eversiva. Perfino Mussolini quando andava dal Capo dello Stato si toglieva la camicia nera da duce e saliva in frac, in marsina, insomma si vestiva da alto borghese. Marchionne no, resta così, da portiere della Juventus in tenuta d'allenamento. E dite dei grillini, dei leghisti, Di Maio che va sempre con l'abitino della prima comunione, che sono populisti: Marchionne è peggio di Peron, non è nemmeno descamisado con la giacca appesa al braccio, ma integralmente immaglionito. Quando il povero Bossi si faceva vedere in canottiera si scandalizzava mezzo mondo e si gridava alla sua cafoneria. Lo faceva Marchionne alle cerimonie ufficiali, e nulla da obiettare, anzi che figo. Non potendo competere con l'eleganza degli Agnelli o del mitico ferrarista Cordero di Montezemolo, Marchionne preferiva vestire da utilitaria con abitacolo girogola. Non so se voleva lanciare un messaggio subliminale agli operai, proiettando nel maglione la tuta del metalmeccanico, elevata a divisa aziendale, in segno di socializzazione e populismo operaio. Sono uno di voi, cari compagni, vesto come voi, sono rimasto col cuore a Togliattigrad, la fabbrica Fiat in Unione Sovietica. Chiamatemi Tovarich Serghei, Compagno Sergio. Oppure era una strategia di mercato per rassicurare la clientela e presentarsi come un capo officina pronto a garantire di persona la manutenzione dell'auto, a parcheggiarla nel garage, o a fare il tagliando. Non so se anche la sua lingerie è adeguata al ruolo, se usa mutande in euro4, munite di airbag in caso di erezione, scarponi con l'ABS per la frenata e polsini col servosterzo. Ma il suo maglione è uno status symbol, la finzione di passare per uno qualunque per risaltare al contrario il suo essere speciale, unico. Ricordo i suoi straordinari alterchi con Diego della Valle, la Scarpa contro la Ruota, il pedone contro l'automobilista. Dietro lo scontro global c'era il derby paesano tra un marchigiano e un abruzzese. Marchionne ha un modo di non parlare che mi fa morire, parla in codice a barre e a barriti, tra pause e parole mozzate, quasi autistico e frammentario. Autisticus contro Scarpantibus. Gli piace orseggiare. Sarà che è cresciuto in Canada, come l'orso Yogi, anche se lui somiglia più all'orsetto Bubu. Ma dietro l'orso bruno del parco di Yellowstone, si cela l'orso marsicano degli Abruzzi. Nell'evoluzione della specie la peluria si è fatta maglione. Vissuto tra gli States e la Svizzera, Sergio è nato addirittura a Chieti, tipica, genuina e ruspante provincia del profondo Abruzzo, e dunque resta fedele col suo maglione alla sua matrice rustica e casereccia. Marchionne è come il fondatore di un nuovo ordine, dopo i Padri Cappuccini ecco i Frati Pulloverini, una variante religiosa della banda della Magliona. Il maglione è stato il suo burqa identitario. Ora dovrebbero lanciare una linea di auto sportive con i sedili rivestiti di maglione, per celebrare il marchio e il marchionne. Scherzi a parte, Marchionne è stato un vero, grande manager, ha risanato e rilanciato l’azienda, anche se ha contribuito in modo determinante a sradicare la Fiat dall'Italia, dopo che aveva molto dato al Paese e moltissimo ricevuto, e trasferirla in domicili industriali e fiscali più comodi. Si avvicina il giorno in cui le magliette con la faccia di Che Guevara saranno sostituite dai maglioni con la faccia di Marchionne. In un paese di travestiti e voltagabbana, ecco finalmente uno che non cambia mai casacca. Ma vorrei ora ricordarlo nella sua ultima uscita pubblica, il 27 giugno, e non perché abbia presentato ai carabinieri una jeep FCA (quella sigla lievemente sessista) ma perché lui, il cinico, lo spietato, colui che aveva uno spinterogeno al posto del cuore, ha ricordato suo padre, maresciallo dei carabinieri. La tenerezza ti assale, insieme ai ricordi, quando senti che la vita ti sta voltando le spalle e fai bilanci non per i soci azionisti ma per la tua vita. E chiami tuo padre, e tua madre. C'è un'anima dentro quel maglione. 

Quella volta che mi hanno chiesto: "Scusi, ma dov'è suo fratello Sergio?" Somiglianza, interviste e battute: "Lei mi insegue e mi rompe da 14 anni", scrive Pierluigi Bonora, Martedì 24/07/2018, su "Il Giornale". Maggio 2018: inaugurazione del primo stabilimento di Volvo negli Stati Uniti. Sono seduto attorno a un tavolo, con una decina di giornalisti anche di altri Paesi, pronto a rivolgere alcune domande a Håkan Samuelsson, numero uno di Volvo Car. Alzo la mano: «Please, ...». Subito il top manager mi interrompe e, ironicamente, mi chiede: «But where's your brother Serghio?». E tutti si mettono a ridere: colleghi, dirigenti e staff del ceo di Volvo Car. Samuelsson, e non è il primo ad affermarlo, mi spiega che somiglio molto all'ormai ex ad di Fca e che gli ho ricordato, in quella occasione, l'illustre amico e collega. La battuta del top manager svedese mi ha fatto molto piacere. A Sergio Marchionne, che seguo fin dal momento del suo insediamento, nel 2004, alla guida prima di Fiat Group e poi di Fca, devo molto. Il Dottore, come lo chiamano al Lingotto, ha contribuito tantissimo alla mia crescita professionale. Di lui, in 14 anni, ho scritto, un mare di articoli: 1.500? Forse, ma anche di più. Il 22 marzo del 2008 ho avuto l'onore di intervistarlo in pubblico. Ero presidente della Uiga (Unione italiana giornalisti automotive) e i colleghi avevano votato la nuova Fiat 500 come «Auto Europa». Non è stato facile convincere l'ufficio stampa torinese a organizzare il faccia-a-faccia. La sala del Lingotto era strapiena, io molto emozionato. L'ad di Fiat arriva puntuale. In prima fila, piuttosto nervosi, siedono il direttore della comunicazione Simone Migliarino, Alfio Manganaro e gli altri amici dell'ufficio stampa di Fiat. Va tutto liscio. Già allora Marchionne disse che per la sua successione, quando sarebbe venuto il momento, gli sarebbe piaciuto qualcuno all'interno del gruppo. Gli chiedo di tutto. E non necessariamente temi legati alla Fiat. «Qual è il manager concorrente che stima di più?». La risposta è immediata: «Dieter Zetsche, di Daimler». È la vigilia delle elezioni Usa. Gli domando: «Lei per chi voterebbe? Obama o McCain?». «Ovviamente Obama». «E in Italia? Con grande abilità gira la domanda a me: «Bonora, e lei per chi vota?». «Dottore - rispondo - lo può immaginare». Ci alziamo, ci stringiamo la mano e consegno a Marchionne la «Tartaruga Uiga». Il 2 dicembre dello scorso anno, dopo la presentazione, ad Arese, del team di F1 Alfa Romeo-Sauber, gli ho chiesto una foto insieme, come due vecchi amici, ovviamente nel rispetto delle parti. «Ma certo, venga qui, con piacere. Del resto sono 14 anni che mi insegue e mi rompe...». E vai con il clic, tra i sorrisi divertiti di chi assisteva alla scena. Mai avrei pensato che quell'immagine potesse diventare qualcosa di storico, uno dei ricordi più cari. Da qualche tempo, al posto di «Buongiorno Bonora, come va?», frase seguita sempre da una battuta («La trovo ingrassato», «Ma come è dimagrito», «E al Giornale che si dice?», «Il suo editore come sta?», «Si metta lì, in prima fila», e via di seguito), Marchionne mi chiamava per nome: Pierluigi. In pochissimi beneficiavamo di questo privilegio. A qualcuno, ma proprio due o tre colleghi, dava e si faceva dare del tu. Poco prima di quella che sarebbe stata la sua ultima conferenza stampa, all'Investor Day dell'1 giugno, a Balocco, ci siamo come al solito salutati e, davanti alle telecamere, l'ho preso in giro per la cravatta storta e annodata male. «Mi sembra un po' sbrindellato...». La risposta: «Sono dieci anni che non metto cravatte e non mi ricordo più come si fa il nodo». In gennaio, all'Auto Show di Detroit, ho provato a punzecchiarlo: «Dottore, ma visto che nel 2019 lascia Fca per dedicarsi solo alla Ferrari, come impiegherà il tempo libero?». E lui: «Ovviamente lavorando, io lavoro sempre, non mi fermo mai. Cosa crede?». Un'altra volta, al Salone di Ginevra, mentre passeggio per gli stand mi sento chiamare: «Bonora, venga qui da me un attimo». Mi giro, e vedo che con fare furtivo mi fa cenno con la mano di seguirlo. Si acquatta dietro una transenna e mi indica, gongolando, lo stand della Maserati. «Guardi quel tedesco d Winterkorn (l'ex ad del Gruppo Volkswagen, ndr) come si mangia con gli occhi la nostra macchina...». Tante le situazioni simpatiche e le frecciatine. Ottobre 2016: Marchionne dà disposizione di convocare per il giorno dopo alcuni giornalisti, tra cui il sottoscritto, con l'invito a pranzare con lui al Lingotto. Mi ricordo che qualche giorno prima era uscito un mio pezzo, nel quale parlavo di una certa freddezza nei rapporti tra lui e il presidente di Fca, John Elkann. Che sia questa la ragione dell'invito? Dal corridoio eccolo spuntare, sorridente, con il solito pullover nero. Mi viene incontro, ci diamo la mano e dopo essersi complimentato («bravo, vedo che è a dieta») mi chiede: «Ha mica un cappotto da prestarmi, sento freddo. E il freddo mi è venuto leggendo il suo pezzo sul presunto gelo tra me e John...». E aggiunge: «Si sieda a tavola vicino a me, così mi scalda in po'». Grazie Sergio. Mi permetto il tu e so che farai un sorriso: «Pierluigi, dimmi pure...».

È morta Rita Borsellino La sorella del magistrato. È morta Rita Borsellino. Si è spenta a 73 anni dopo una lunga malattia in un ospedale di Palermo, scrive Luca Romano, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". È morta Rita Borsellino. Si è spenta a 73 anni dopo una lunga malattia in un ospedale di Palermo. Sorella del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia in via D'Amelio nel 1992 è stata europarlamentare del Pd dal 2009 al 2014. Nelle regionali del 2006 fu candidata per la presidenza della Regione siciliana con il centrosinistra sfidando Totò Cuffaro. Da sempre in prima linea per la lotta alla mafia aveva un motto che ripeteva sempre: "La memoria è vita che si coltiva ogni giorno". Una frase che aveva detto anche nella sua ultima uscita pubblica lo scorso 18 luglio costretta ormai su una sedia a rotelle. Rita Borsellino era malata da tempo e negli ultimi mesi le sue condizioni erano molto peggiorate. Oggi pomeriggio il decesso all'ospedale Civico di Palermo, dove, con ogni probabilità verrà allestita la camera aderente. Dal 1994 assieme all'ARCI Sicilia e in seguito con la collaborazione di Libera aveva contribuito all'ideazione e alla crescita dell'iniziativa "La Carovana Antimafie", un'esperienza ormai di carattere internazionale che mira a "portare per tutte le strade" l'esperienza di un'antimafia propositiva che vuole incidere positivamente sulla realtà economica, sociale, amministrativa dei luoghi che attraversa stringendo intrecci solidali ed etici tra i cittadini, le istituzioni e le diverse realtà della società civile organizzata presenti sui territori. Nell'ultima parte della sua vita quel fare battagliero che l'aveva sempre accompagnata l'aveva abbandonata. Sembrava cupa nelle sue uscite pubbliche e sempre più sfiduciata nella ricerca della verità. Per fratello Paolo non voleva una verità ma "la verità".

Palermo, è morta Rita Borsellino: una vita contro la mafia e per l'impegno civile. Si è spenta all'ospedale Civico la sorella del giudice Paolo. Aveva partecipato a luglio alle commemorazioni di via D'Amelio, scrive Emanuele Lauria il 15 agosto 2018 su "La Repubblica". Si è spenta in ospedale a Palermo dopo una lunga malattia Rita Borsellino, sorella del magistrato Paolo. Borsellino, 73 anni, tre figli, farmacista, è stata europarlamentare del Partito democratico dal 2009 al 2014. Cordoglio dal mondo politico, a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "La memoria è vita che si coltiva ogni giorno". Quella frase che era qualcosa di più di un messaggio di impegno e speranza, che si era trasfigurato in "bene comune", Rita Borsellino l'aveva pronunciata anche nella sua ultima uscita pubblica, il 18 luglio, ormai costretta su una sedia a rotelle ma presente, ancora una volta, alla vigilia dell'anniversario dell'uccisione di Paolo e della sua scorta. Stanca ma con addosso il patrimonio immateriale costituito dal suo sguardo limpido, Rita aveva dato quel giorno l'ultima lezione di forza e compostezza, accanto alle nipoti Fiammetta e Lucia, davanti all'ulivo del ricordo che in via D'Amelio aveva fatto piantare la mamma. Quella forza, quella compostezza, hanno accompagnato il formidabile percorso della farmacista "costretta" dal sangue familiare alla ribalta, che non amava essere definita simbolo ma simbolo è stata due volte: della stagione della rivolta dopo le stragi e dell'epoca dell'ultima resistenza politica in Sicilia, quella del centrosinistra contro il cuffarismo. Un percorso cominciato la sera stessa della strage: "Andai a trovare mia madre a casa del suo cardiologo - ricordava Rita - e lei mi disse: "Vai dalle mamme degli agenti che sono morti con Paolo e cerca di capire di cosa hanno bisogno". Io sono sempre stata timidissima, ma da quel momento ho cominciato a partecipare ai dibattiti, ad andare nelle scuole, per non disperdere un messaggio". Il messaggio, appunto, contenuto in parole semplici: memoria, coerenza. "E quando, a fine 1994, mi chiamò don Ciotti per aderire a Libera - rammentò un giorno - cambiò la mia vita. Io, che non avevo viaggiato mai da sola, cominciai un lungo giro d'Europa per parlare di legalità". L'idea della politica, a quel tempo, era ancora lontana. Tanto meno di una politica di sinistra, lontana dalle idee politiche del fratello. "Ma l'impegno, la legalità, non hanno colore", amava ripetere. Pochi sanno che, prima ancora del debutto elettorale del 2006, Rita Borsellino era già stata chiamata una volta dai leader di partito: nel 2001. Prima che a Francesco Crescimanno, il centrosinistra pensò a lei: "Non mi ricordo chi fu a contattarmi, ma ricordo che allora non presi neppure in considerazione l'idea di uno sbarco in politica. Per carità - scherzò in un'intervista del 2011 -  non usi il termine "discesa in campo...". D'altronde, l'uomo che aveva coniato quell'espressione, Silvio Berlusconi, Rita Borsellino l'aveva letteralmente messo alla porta. Era il 10 ottobre 1994: "Venne Silvio Berlusconi a bussare al citofono di casa, in via D'Amelio. Ma io, dopo un attimo di esitazione, dissi al presidente del Consiglio che non potevo farlo salire. Lui insistette e mi chiese al citofono: "Cosa possiamo fare per battere la mafia?". Risposi: "Tutto, perché siete al governo". Da allora non l'ho più sentito". Ma la sorella di Paolo faceva risalire le ragioni del suo stare rinchiusa dentro il recinto del centrosinistra a quell'episodio. La seconda "chiamata" fu decisiva: nell'ottobre del 2006, di ritorno da Ginevra nel furgone della carovana antimafia, Rita comunicò ad Alfio Foti (il suo più stretto collaboratore) l'idea di una candidatura per le Regionali. Una candidatura portata avanti dai "cespugli" del centrosinistra, su cui i Ds inizialmente esitarono. Poi, dopo aver chiesto la disponibilità a correre per Palazzo d'Orleans persino a Sergio Mattarella, la Quercia decise di appoggiare Rita. L'Unione, allora si chiamava così, si spaccò perché la Margherita propose l'ex rettore forzista di Catania Ferdinando Latteri, che venne battuto alle primarie. E Borsellino, alle elezioni di giugno 2006, conquistò il risultato migliore ottenuto finora dalla coalizione: oltre il 41 per cento, quasi un milione centomila voti, solo 300 mila meno di Cuffaro. Dicono che fu troppo tenera con l'ex governatore già inquisito per mafia: "Macché, io dissi quel che dovevo sulla sua cultura di governo. Forse fu la coalizione a mostrarsi poco coraggiosa", commentò Rita. Cominciarono gli anni dell'Ars, per l'alieno gentile che con i cantieri tematici di "Un'altra storia" anticipò future esperienze dal basso (inclusa quella dei M5S): ma a Palazzo dei Normanni la sorella del giudice ucciso dalla mafia visse l'esperienza meno confortante. Era il portavoce dello schieramento ma solo sulla carta, dovette battersi per far sottoscrivere ai Ds la mozione di sfiducia a Cuffaro. E nel 2008 fu ingiustamente accusata di disimpegno nei confronti di Anna Finocchiaro: "Io invece tentai di non disperdere i voti di una sinistra perplessa rispetto a quella che si rivelò una candidatura sbagliata. Non so come sarebbe finita se mi avessero riproposta per la presidenza della Regione...". Sta nei fatti che Finocchiaro fece flop e Rita non riuscì per appena 700 voti (e malgrado un ricorso che fece tremare il Palazzo) a conquistare un posto all'Ars per la sua lista. Il riscatto alle Euopee del 2009, con un boom da 229mila voti, un bottino secondo solo a quello di Berlusconi nella circoscrizione. Anche negli anni grigi di Bruxelles, Rita Borsellino sapeva che un'offerta - la stessa declinata dieci anni prima - sarebbe arrivata: la proposta a candidarsi alla guida della sua città, Palermo. E fu, per lei, "la prova più difficile". Amara, controversa. La coalizione - guarda caso - si spaccò di nuovo. Un pezzo del Pd decise di sostenere Fabrizio Ferrandelli, lei si giocò le primarie con l'appoggio di Leoluca Orlando che inventò uno slogan ("Votate Borsorlando") e uno spot sul campo (i giri elettorali in autobus) ma non riuscì a farla vincere. E, in un clima di accuse per presunti brogli, l'attuale sindaco decise di candidarsi lui, in prima persona, al posto di Rita. Facendo infuriare la coalizione. Un passaggio politico che Rita Borsellino e i suoi uomini (fra cui, oltre Foti, l'ex assessore di Orlando Giovanni Ferro) presero molto male. Di certo, le tribolate elezioni comunali del 2012 hanno segnato la fine dell'esperienza politica di Rita Borsellino. Che da quel momento è tornata nelle scuole, lontana da una politica che l'aveva delusa: ha osservato, in silenzio, le evoluzioni del governo Crocetta (di cui ha fatto parte la nipote Lucia, poi uscita non senza rumore) e l'appannamento del movimento antimafia travolto da scandali e polemiche: "Sono sconcertata. Dobbiamo ammetterlo, è più onesto: c'è una parte della società che ha fatto della legalità una convenienza e io con questa antimafia delle apparenze non voglio avere nulla a che fare", disse nel 2015, in una delle rare dichiarazioni rilasciate sul tema, dopo l'avvio dell'inchiesta su Montante e l'arresto di Helg. Gli ultimi anni, quelli della malattia, sono stati pure quelli in cui più cupa e dolorosa si è fatta la ricostruzione dello scenario nel quale morì Paolo Borsellino. E lei, Rita, non ha perso la voce, nelle manifestazioni pubbliche, per chiedere "non una verità, ma la verità". Per stringersi attorno ai figli di Paolo. A Fiammetta, ultima portavoce dello sgomento di una famiglia che denuncia quel quarto di secolo "trascorso fra schifezze e menzogne". "Le parole di Fiammetta? Sono Vangelo", il commento di Rita che è morta ma è vissuta due volte, nell'impegno civile e in un centrosinistra che ne è rimasto irrimediabilmente debitore.

Rita, la signora che la strage ha reso icona dell'antimafia. È morta la sorella di Paolo Borsellino, simbolo della legalità. Il cordoglio di Mattarella, oggi i funerali, scrive Mariateresa Conti, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Era nata a Palermo il 2 giugno del 1945, nel popolare quartiere della Kalsa dove c'era la farmacia di famiglia. Ma la Rita Borsellino che oggi piange tutta Italia, quella che instancabile andava di scuola in scuola a raccontare ai ragazzi suo fratello Paolo e perché si deve dire no alla mafia è nata dopo, molto dopo. Il 19 luglio del '92, per l'esattezza. Il giorno maledetto della strage che sotto casa sua, in via D'Amelio, uccise suo fratello. Se ne è andata a 73 anni Rita Borsellino, la sorella più piccola di Paolo, il magistrato trucidato nella strage di via D'Amelio. È morta in ospedale, nella terapia intensiva dell'Ospedale Civico dove era ricoverata. È morta il giorno di ferragosto, quasi a incarnare un riserbo che a dispetto della celebrità e anche della parentesi politica aveva sempre mantenuto. Era malata, da tempo. Ma anche in sedia a rotelle e provata, finché ce l'ha fatta, non ha mancato di partecipare a dibattiti, manifestazioni. C'era anche lo scorso 19 luglio, nonostante le condizioni di salute, visibilmente sofferente. A portare la sua testimonianza, il suo sorriso. «Nata il 19 luglio, lo sguardo dolce dell'antimafia» si intitola un libro del 2006 (edizioni Melampo) che racconta la sua storia. Le sue due vite, quella di donna qualunque, farmacista e madre di tre figli, e quella dell'icona simbolo dell'antimafia, dopo la strage del '92. Paolo, quella maledetta domenica, stava proprio andando a casa sua. Perché con lei, la figlia minore, viveva l'anziana madre. Quel botto, innescato forse manomettendo all'esterno il suo citofono, ha fatto da spartiacque della sua vita. Quel giorno, raccontava spesso negli incontri coi ragazzi delle scuole, l'aveva trasformata, le aveva imposto di impegnarsi in prima persona. E da quel giorno Rita Borsellino non si era più risparmiata. L'impegno nelle scuole di tutta Italia e gli incontri coi ragazzi. Il lavoro con l'Arci e poi con Libera di cui a lungo è stata vicepresidente. Dolce, è l'aggettivo associato a Rita Borsellino che più ricorre sui social che da due giorni la piangono, senza sosta. Ma Rita Borsellino era anche ferma, fermissima. Come quando due anni dopo la strage, nel 1994, non fece salire a casa sua l'allora premier Silvio Berlusconi arrivato all'improvviso per le celebrazioni di via D'Amelio. Nessuno l'aveva avvisata, le suonarono al citofono. E lei, convalescente, ebbe sì uno scambio di battute col premier, ma solo al citofono, appunto. O come nel 2015, quando nel pieno della bufera contro l'allora governatore dem Rosario Crocetta gli fece sapere via sms (all'epoca la raccontò a Radio 24 il fratello Salvatore, ndr) che non era persona gradita alle manifestazioni del 19 luglio in via D'Amelio. Dolce, ma ferma. E proprio per questo anche con la politica, che per qualche tempo ha frequentato, la Borsellino ha avuto un rapporto di servizio più che di amore. La discesa in campo, per così dire, nel 2006, quando l'allora centrosinistra (più la sinistra che i Ds, che si accodarono in seconda battuta) la spinse a candidarsi a presidente della Regione. Il centrodestra, allora Cdl, candidava Totò Cuffaro. E Rita perse ma con onore, 41,6% contro il 53% del governatore uscente. Un flop le candidature a sinistra per le Politiche. Ma nel 2009, candidata come capolista del Pd alle Europee, è un trionfo da 229.971 voti. Il flirt col Pd dura poco. E si rompe nel 2012, prima col pasticciaccio delle primarie che alla fine porta Leoluca Orlando a candidarsi al posto suo a sindaco, poi col «no» a Crocetta candidato governatore che porta la Borsellino alla creazione di un suo movimento: «Un'altra storia». La camera ardente è stata allestita in un posto che per Rita era una vittoria: il centro Paolo Borsellino nato in un bene confiscato in via Bernini, dove viveva da latitante Riina. Bipartisan il cordoglio, dalla Lega a Leu, da Forza Italia al M5s. Per tutti il capo dello Stato Sergio Mattarella: «Una testimone autentica dell'antimafia». Oggi i funerali.

Ora che se n’è andata si scoprono tutti devoti a Rita Borsellino. Una delle residenze di Totò Riina da latitante è stata nobilitata dall’allestimento della camera ardente per Rita Borsellino, scrive Errico Novi il 17 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Almeno per una volta, il riuso dei beni mafiosi va a buon fine. Non sempre è successo, ma ieri una delle residenze di Totò Riina da latitante è stata nobilitata dall’allestimento della camera ardente per Rita Borsellino. La sorella del giudice Paolo ucciso nel ’ 92 in via D’Amelio è stata salutata da centinaia di persone al civico 52 di via Bernini a Palermo, nell’edificio che ospitò il sanguinario capo di Cosa nostra e che alcuni anni fa il Comune di Palermo ha affidato al Centro studi Paolo Borsellino, curato da Rita e, ora, dai suoi figli. Una processione silenziosa iniziata in realtà già nel pomeriggio di Ferragosto in via D’Amelio, subito dopo che la notizia della scomparsa della 73enne, parlamentare europea dal 2009 al 2014, si era diffusa. Rita Borsellino si è spenta dopo una lunga malattia all’ospedale Civico del capoluogo siciliano, dopo che nell’anniversario della strage di via D’Amelio, lo scorso 19 luglio, le era stato difficile anche presenziare alle commemorazioni di Paolo. Ma pure, alla vigilia della ricorrenza, stanca e costretta su una sedia a rotelle, aveva trovato un filo di voce per ripetere: «La memoria è vita che si coltiva ogni giorno». Forse la testimonianza più bella di questa donna ora omaggiata da tutti, anche dagli avversari. Lei, di certo, ha trasformato lo strazio per il barbaro assassinio del fratello in reazione vitale. Non se n’è lasciata schiacciare né l’ha resa una lunga processione degli eccessi, come è capitato forse all’altro suo fratello, Salvatore, ma con un sorriso appena accennato, con dolcezza, con straordinaria e inusuale (per la politica) dignità, è divenuta testimone dell’antimafia tra le più autentiche. Presidente onorario di Libera, fondatrice di una “Carovana antimafie” che dà il senso di un attivismo da vera donna di sinistra, poi candidata con alla presidenza della Sicilia e alle primarie pd per la corsa a sindaco di Palermo, Rita ha conosciuto fortune altalenanti nelle urne, dove l’hanno battuta Totò Cuffaro come lo sconosciuto Fabrizio Ferrandelli. Solo quando si è candidata al di fuori di una logica da duello, cioè all’Europarlamento nel 2009, il riconoscimento è arrivato pieno e indiscutibile, con 230mila voti. Ora sono tutti con lei. C’è una folla di messaggi e dichiarazioni di cordoglio. Persino chi come Matteo Salvini non si è mai incrociato con Rita, né da alleato né da avversario, riconosce «il suo esempio che costituirà un punto di riferimento, soprattutto per le giovani generazioni, nella lotta contro le mafie». Il governatore della Sicilia Nello Musumeci la ricorda come un «simbolo», il numero uno dell’Assemblea regionale Gianfranco Micciché come «una donna straordinaria», il gruppo dei cinquestelle al Parlamento siciliano celebrano «la signora Borsellino» che «ha saputo trasforare il suo dolore in costante impegno antimafia». Fino al segretario del Pd Maurizio Martina e alla capogruppo di Forza Italia al Senato Anna Maria Bernini. Ma non può passare inosservato il cordoglio, che umanamente sarà pure sincero, di chi come Leoluca Orlando, nel 2012, prima la condusse per tutta Palermo come sua candidata preferita alla carica di primo cittadino e poi – dopo che Rita perse le primarie contro Ferrandelli – scese in campo in prima persona per vincere di nuovo. Resta un giusto dolceamaro, nel rivedere il rapporto tra la sorella del giudice Paolo e la sua città. Interpellato dal Dubbio, l’ex pm di Palermo e oggi avvocato Antonio Ingroia, dà questa spiegazione: «Rita è stata sul serio una figura straordinaria per l’impegno civile, e credo che la sua testimonianza da ricordare prima di tutte le altre sia quella portata fra gli studenti, nelle scuole, già subito dopo l’assassinio di Paolo. Dall’altra parte, i risultati delle sue esperienze politiche, alle Regionali del 2006 ma anche alle Comunali di Palermo nel 2012, dimostrano quanta strada ci sia da fare, per il nostro Paese, quanto a cultura della legalità e dell’Antimafia. Quei risultati», dice Ingroia, «furono mortificanti per la Sicilia e per l’Italia. Storicamente fanno il paio con quelli a cui andò incontro il mio Caponnetto: sono la dimostrazione che le battaglie antimafia non pagano in termini di consenso». E per la farmacista nata nel quartiere tra i più difficili del capoluogo Siciliano, la Kalsa, quella di oggi sarà la giornata dell’ultimo saluto, in cui svaniranno anche le ambiguità di chi, in politica, fece solo finta di sostenerla. Ieri la Camera ardente ha visto presenti tra gli altri anche l’ex presidente del Senato Pietro Grasso – «che abbracci Paolo e Agnese, Giovanni e Francesca (Falcone, ndr) e dì loro che noi continueremo a cercare la verità» – e il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno: «Lascia un’eredità fatta di cultura antimafia, accoglienza e comprensione che sta diventando un patrimonio comune», ha voluto dire Pajno. I funerali sono fissati per questa mattina alle 11.30, presso la chiesa “Madonna della Provvidenza- Don Orione”. Ma già l’altro ieri, subito dopo che le agenzie avevano dato notizia della scomparsa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’aveva salutata così: «A lei mi legavano sentimenti di vera amicizia e di condivisione. Con coraggio e determinazione, ha raccolto l’insegnamento del fratello Paolo, diventando testimone autorevole e autentica dell’antimafia». Dei suoi figli, in queste ore, è Marta a parlare per tutti e a dire: «Il suo insegnamento più grande? Essere veri e coerenti. A qualsiasi costo. Non ha mai smesso di cercare la verità sulla strage di via D’Amelio. Diceva sempre: ‘ Non mi interessa chi è stato, ma voglio sapere perché’».

Rita Borsellino e l'obbligo della verità. Paolo diceva: «Ognuno deve fare la sua parte: ognuno nel suo piccolo, ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa». Non ci sono alibi per nessuno. Ognuno si faccia strumento di verità se veramente vogliamo giustizia», scrive Rita Borsellino il 6 luglio 2012 su "L'Espresso". Sono trascorsi vent'anni da quel 19 luglio. Talvolta penso: già vent'anni. Come se fossero passati in fretta, tra testimonianze nelle scuole, volontariato, impegno civile e politico. Ma più spesso, guardando i ragazzi delle scuole che ascoltano con attenzione, mi rendo conto che questo tempo è più del tempo della loro vita e che ciò che ascoltano è terribilmente attuale. Ho incontrato qualche tempo fa un bel ragazzo alto, con il viso sereno e lo sguardo profondo. Indossava la divisa della Guardia di finanza. Si chiama Antonio Emanuele Schifani. Sì il figlio di Vito e di Rosaria. Nel '92 aveva pochi mesi e lo avevo tenuto in braccio. Non ha mai conosciuto il suo papà. La sua vita è segnata da quell'assenza. L'assenza: è quella che pesa di più... Nel '92 Paolo aveva 52 anni, io 47. Forse per me il momento più complicato di questi 20 anni è stato quando, compiendo io 52 anni, mi sono ritrovata a essere "grande". Paolo era fermo lì ed io dovevo continuare a crescere. E quante volte mi sono soffermata a pensare a ciò che comportava quel continuare a crescere. Sono diventata nonna di 5 splendide bambine che oggi hanno dai 6 mesi a 14 anni. Rappresentano la parte più bella della mia vita. A Paolo, insieme alla vita, è stata tolta anche questa gioia. E ai suoi nipoti è stato rubato un nonno straordinario... E tutto questo perché? Perché Paolo ci è stato tolto? Quando ho cominciato, già a settembre del '92, a parlare ai ragazzi, nelle scuole o altrove, la mia era soprattutto una testimonianza su ciò che era accaduto. Le circostanze, i tempi, i fatti. Come reagire, come fare in modo che tutto ciò che era accaduto potesse aiutare a costruire un futuro diverso... Sembrava che tutto ciò fosse a portata di mano. La società s'impegnava, le istituzioni sembrava cercassero le soluzioni utili a cambiare il corso delle cose. Mai più mafia e mafiosi avrebbero avuto vita facile. La ricerca della verità sembrava promettere soluzioni rapide e credibili... Ma il troppo entusiasmo non è sempre utile. Talvolta trae in inganno, porta a prestare attenzione ai particolari più appariscenti e non ad una visione di insieme più critica, più obiettiva. Chi ha approfittato di questo? Chi ha trasformato i collaboratori di giustizia in "pentiti" poco credibili dal punto di vista del senso comune dell'etica? Chi ha cominciato a demonizzare la magistratura, creando un senso di diffidenza generalizzato sul loro ruolo e sulle loro scelte? E mentre il dibattito si allargava e si politicizzava e le idee dell'opinione pubblica si confondevano, c'era chi, con grande abilità, si affrettava a svolgere un ruolo parallelo e perverso: la manipolazione della verità... Si è costruita una verità non vera per una giustizia non giusta. E quando si è costretti ad aggiungere aggettivi alle parole verità e giustizia, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona...Cosa sa la classe politica, e non solo quella di vent'anni fa (anche perché troppo spesso coincide con quella di oggi) di patti inconfessabili e di trattative? Quali vite si sono volute risparmiare in nome di una inconfessabile ragion di Stato, sacrificando chi per la propria rettitudine e coerenza si sapeva di non potere comprare? In una società che ritiene che tutto si possa comprare e vendere, non c'è posto per i Paolo Borsellino. Eppure i nostri giovani e quella parte ancora sana della nostra società guarda ai pochi esempi credibili come punti di riferimento irrinunciabili... L'Italia ha bisogno di conoscere il suo passato e di elaborare il suo presente per potere costruire il suo futuro. Ha bisogno di verità, di coraggio, di assunzione di responsabilità. E questo riguarda tutti, ognuno di noi. Paolo diceva: «Ognuno deve fare la sua parte: ognuno nel suo piccolo, ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa». Non ci sono alibi per nessuno. Ognuno si faccia strumento di verità se veramente vogliamo giustizia.

Addio a Vincino: lo "sgorbio" della satira italiana. Si è spento a Roma, a 72 anni, Vincenzo Gallo, disegnatore de Il Foglio. Di sè diceva: "Non ho mai smesso di fare stronzate", scrive Carmelo Caruso il 21 agosto 2018 su "Panorama". Diceva che quando si trovava a Roma volesse scendere a Palermo e che quando era a Palermo se ne volesse tornare a Roma. Esce dalle pagine, del suo Il Foglio, Vincino e se ne va l’uomo Vincenzo Gallo, il disegnatore che fece fortuna con lo "sgorbio". Era nato a Palermo 72 anni fa, ed era figlio del direttore dei cantieri navali, "un uomo che non era di destra né di sinistra ma semplicemente un uomo dritto". Fu tre volte in carcere per tafferugli e contestazioni e ogni volta ne usciva dicendo che fosse "un’esperienza bellissima". A chi gli chiedesse dei suoi rapporti con la giustizia rispondeva: "Fermato dieci volte, arrestato tre". Ha maneggiato la matita ma ha sempre inseguito la politica al punto da finire per farne la caricatura. Negli anni dell’ubriacatura ideologica, è stato il riferimento siciliano di Lotta Continua che riteneva la sua accademia, anzi, la sua casa. Decise infatti di costruire la prima cellula del movimento in quella sciagurata città, Palermo, e scelse il quartiere disgraziatissimo: lo Zen. Il primo quotidiano in cui iniziò a disegnare fu L’Ora, la palestra in cui si è formata una generazione di cronisti e asilo di scrittori come Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo. Per "L’Ora" si inventò, oggi che va di moda il graphic novel, il racconto all’americana dei processi. Ebbe la fortuna di lavorare e formarsi a fianco a Bruno Caruso, pittore e maestro, che più volte indicava come “insuperabile”. Se ne andò a Roma e fu tra i fondatori de Il Male, la rivista più perfida e intelligente dell’editoria italiana, una sorta di Charlie Hebdoma più politica, e non si contano le piccole avventure, un catalogo di partecipazioni, fondazioni, tentativi di fare ridere con la carta stampata: L’avventuriero; Tango; Clandestino; Cuore. Perfino il rigoroso Corriere della Sera lo arruolò tra i suoi vignettisti. Ha irriso la prima, la seconda e la Terza Repubblica. Aveva trovato casa a via Labicana a Roma e il direttore che aveva sempre desiderato: Giuliano Ferrara. Al Foglio è rimasto per 22 anni e fino a ieri ha disegnato. Anche sul nostro Panorama ha fatto incursioni. Aveva sposato la figlia del suo preside che, diceva, continuava a sopportarlo. Si prefiggeva di arrivare a 105 anni come il disegnatore della Pravda. Era felice. Ne era certo. Pensava questo: “Non ho mai smesso di fare stronzate”.

Giornalisti con la schiena dritta? No, grazie, preferisco Vincino. Per fare il giornalista occorre nel senso che è del tutto indispensabile – una sola dote: l’indipendenza. Vincino era così, scrive Piero Sansonetti il 24 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Ieri si sono svolti i funerali di Vincino. L’altro giorno, sul nostro giornale, lo hanno ricordato con arguzia e commozione Sergio Staino e Fulvio Abbate che gli sono stati molto amici. Io non ero amico di Vincino, ci conoscevamo solo di vista. Però da molti anni lo consideravo uno dei migliori giornalisti italiani. Cosa intendo per uno dei migliori? Intendo dire che lui era uno dei pochi, direi pochissimi, che con il proprio lavoro faceva informazione. Cioè ci regalava delle notizie, o dei punti di vista, o dei commenti, sempre molto genuini e originali. Credo che Vincino avesse le doti e la personalità per offrire una informazione di qualità alta. Ma non è questo il punto. Non ne faccio una questione di qualità: semplicemente di sostanza. Io penso che i giornalisti dovrebbero fare questo per mestiere: offrire ai lettori (o ai telespettatori) notizie o critiche che servano a aumentare la conoscenza. Questa, penso, è la sostanza del giornalismo. Lo possono fare molto bene o meno bene. Oppure possono non farlo per niente e occuparsi di altro: per esempio di combattere in trincea per la loro squadra. Giornalisti con schiena dritta? No, grazie, preferisco Vincino. La maggioranza dei giornalisti italiani, talvolta in modo aperto e spavaldo, talvolta un po’ di nascosto, ha scelto questa seconda strada. Per fare il giornalista occorre nel senso che è del tutto indispensabile – una sola dote: l’indipendenza. È l’indipendenza che ti dà la possibilità di apprendere e diffondere notizie o opinioni in modo totalmente libero. Non condizionato. Vincino era così. E purtroppo era un personaggio raro. Infatti era considerato un irregolare, uno stravagante. Invece non era affatto irregolare. Fare il giornalismo come lo faceva lui, osservando, giudicando, raccontando, sferzando, offrendo prospettive – lui lo faceva coi disegni, ma non c’è nessuna significativa differenza tra disegni e scrittura, nel nostro mestiere – è la regola. Voglio dire: dovrebbe essere la regola. Gli irregolari sono gli altri: quelli che considerano il giornalismo un lavoro “dipendente” da mettere al servizio di una squadra. La squadra può essere un gruppo eco- nomico, un gruppo politico, un potere pubblico o privato, una fazione. Può essere un partito, può essere la magistratura, può essere Confindustria o il sindacato. Io ho sempre pensato che il giornalista “dipendente” fosse lui il personaggio stravagante, anche se statisticamente appartenente alla maggioranza dei giornalisti. Lui: non Vincino. Non ho mai apprezzato troppo quelli che si chiamano “i giornalisti con la schiena dritta”. Non solo perché mi è sempre sembrata, questa espressione, un’espressione eccessivamente retorica e molto militaresca ( e io, lo confesso, amo poco sia la retorica sia il militarismo…), ma perchè, se guardate bene, per “giornalista con la schiena dritta” si intende precisamente quel tipo di giornalista che dicevo prima. Cioè uno che non si piega mai alle ragioni degli avversari. Li affronta a viso aperto, li combatte, li sfida, non arretra. Come un vero combattente. Non gliene frega niente delle loro ragioni. E per fare questo resta sempre fedele ai suoi committenti, li rispetta, li serve, li difende con coraggio e sprezzo del pericolo. Non nego affatto che ci sia qualcosa di nobile in questa idea di giornalismo, e che richieda coraggio e forza morale, solo che per me è un’idea del tutto sbagliata. Il giornalista non è chiamato a esprimere valore, coraggio e fedeltà. È chiamato esclusivamente a esprimere verità. Io penso così. Ed è un buon giornalista solo se è disposto a sfidare non solo i suoi nemici, ma anche gli amici suoi. Il giornalista – credo – deve sfuggire alla dote della fedeltà, anzi deve essere sfacciatamente e dichiaratamente infedele. La dote vera è l’infedeltà, la capacità di tradire. Dico queste cose anche in evidente contraddizione con la mia biografia professionale. Per molti decenni ho lavorato in giornali di partito. All’Unità, a Liberazione. Eppure è stato proprio lì che ho imparato l’enorme importanza dell’indipendenza. È stato quando mi sono trovato a lavorare e a scrivere sfidando la “missione” del mio partito che ho capito e sentito sulla mia pelle cos’è il giornalismo, e perché serve, e perché non può conoscere subordinazioni. Luigi Pintor, che era un giornalista fazioso e comunista, diceva che «un giornale è un giornale è un giornale è un giornale». Parafrasando Gertrude Stein (una rosa è una rosa…). Intendeva dire che un giornale vive della sua autonomia, del suo essere giornale e della sua funzione di giornale, prima, molto prima, di essere un mezzo di battaglia politica, o di battaglia culturale. A me non è mai piaciuto molto il manifesto – lo confesso, sapendo di violare uno dei grandi luoghi comuni della sinistra alla quale appartengo – però nessuno può negare che il suo valore fondamentale sia stato l’autonomia. Il manifesto non ha mai avuto padroni, ha risposto solo a se stesso. Il fatto che fosse, e sia, un giornale fazioso non toglie nulla a questa caratteristica di indipendenza e di autonomia che mantiene dalla fondazione. Poi ciascuno come dicevo – può dare un giudizio di qualità: ma la sostanza è quella. Anche Vincino era fazioso, certo. Molto fazioso. Però lo era in quel suo modo libero, totalmente libero, e acuto, sorprendente, anticonformista, anarchico, avventurista – come diceva lui stesso – che ne faceva un giornalista di primissimo ordine. Non so se avesse la schiena dritta. Non lo so. Magari era anche un po’ gobbo (forse perché era molto alto) però valeva assai di più di un piccolo esercito di giornalisti con la schiena dritta. Rimpiazzare un giornalista con la schiena dritta si può. Rimpiazzare Vincino credo che non sia possa.

Vincino visto da Fulvio Abbate. Vincino era garantista, vicino alle battaglie dei Radicali, amava anche essere elegantemente trasandato. Un po’ Sciascia, un po’ Capa anche Majorana, scrive Fulvio Abbate il 22 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Vincino è stato il Leonardo Sciascia della satira italiana, sia detto senza retorica, sia detto fuori d’ogni iperbole cerimoniale ora che non c’è più. Vincino è stato un amico, Vincino disegnava in modo straordinario, e questo nonostante alcuni pensassero invece che i suoi disegni, le sue vignette fossero popolati da sgorbietti formicolanti, quasi un ragno tracciasse ogni faccina. La faccina di Andreotti, la faccina di Berlinguer, la faccina di D’Alema, la faccina di Berlusconi, addirittura quella di Di Maio.Vincino, infatti, grazie al suo tratto a gomitolo, riusciva a restituire ora il doppio mento da pellicano di Renzi ora il naso pizzuto, meglio, le narici insofferenti da Don Rodrigo di un D’Alema. Per puro talento, dono trovato dentro se stesso. Vincino era palermitano, laggiù in Sicilia era nato nel maggio del 1946, famiglia borghese, solido mobilio “Ducrot”, vessilli residenziali di un liberty del tempo dei Florio, accento e cadenza perfettamente aderenti al rango, allo scetticismo filosofico isolano, Vincino diversamente da altri, amava perdutamente la città, pronunciarne perfino il nome con incanto, Palermo, la sua luce, così, a ridosso d’ogni nuova bella stagione, sui bordi dell’estate, preparava il bagaglio del ritorno “giù”, nella casa di Mondello, una villetta, anzi, un villino, alle spalle del paese, piccolo gioiello architettonico della grazia residenziale marina cittadina pomeridiana, gelsomino e granita. Spesso andava in piazza, al bar “Antico chiosco“, per poi tornare presto a casa e riprendere a disegnare, srotolare il suo solito gomitolo a china, nero, si può dire che mai smettesse di disegnare, Vincino, era infatti un’officina vivente, ogni suo disegno, colava giù come necessità di un’idea, un pensiero, un appunto, un dettaglio da segnare, un po’ come Ettore Maiorana che segnava le formule sui pacchetti di sigarette, le stesse con cui altri, anni dopo, avrebbero vinto il Nobel, lui infine li accartocciava, li buttava via, lo stesso avveniva con Vincino. Più che vignette, erano appunti su appunti, schizzi, provini, piccoli teatrini, quasi in forma diaristica, ecco, note disegnate su taccuino dove poteva comparire chiunque, sia Grillo sia Grasso sia Di Battista sia Marcello Foa sia se stesso sia Ronaldo con la scucchia, oppure, e qui faccio un piccolo salto nel passato più o meno recente, il comune amico Gianfranco Micciché, detto Frisco, esatto, nei primi giorni di Forza Italia, quando proprio Frisco ebbe i gradi e il bastone di comando di Console generale della milizia azzurra in Sicilia, Vincino addirittura gli fece un meraviglioso disegno dove si narrava la turpe storia delle cornicette marocchine imbottite di chissà quale “merce” e da Frisco o chi per lui spedite dal Marocco fino qui in Italia, nello stesso disegno, Vincino, non pago di tanto amore, pubblicò anche il numero di cellulare privato di Frisco, così, per farlo sentire meno solo, affetto da palermitano a concittadino, ovviamente Frisco mai gliene volle. Vincino, si sa, aveva militato in Lotta continua, Vincino, in verità, si chiamava Vincenzo Gallo, figlio del direttore dei Cantieri navali cittadini, là dove un’era addietro brillava l’orgogliosa classe operaia palermitana, pugno chiuso sollevato e nell’altra mano il panino con la frittola o con la milza, una copia de “L’Ora” in tasca, giornale leggendario che ha visto i suoi esordi. Fra le molte cose delle origini custodite nel cuore da Vincino il ricordo di un amico pittore, Mario Sala, morto troppo presto, e ancora l’amicizia non meno continua della lotta pregressa con Nuele Diliberto, artista anche questi, a Vincino piaceva molto essere palermitano, lo era da vero uomo di mondo. A proposito dell’esperienza di “Il Male, leggendario giornale di satira degli anni ‘ 70- primi ‘ 80, raccontava di custodire nel terrazzo di casa, a Roma, il busto di marmo di Andreotti, lo stesso che l’intera redazione di quel giornale avrebbe voluto piazzare al Pincio con una cerimonia politica e insieme dadaista, così finché non intervennero i poliziotti a sequestrare il manufatto. A Roma, Vincino abitava quasi dentro il Colosseo, proprio lì, l’uomo, va detto, era anche molto romano, a Montecitorio veniva accolto da cronista parlamentare con tanto di quarti di nobiltà e anzianità militante, Vincino era garantista, vicino alle battaglie dei Radicali, amava anche essere elegantemente trasandato, impermeabile chiaro, molto palermitano e insieme inglese, lì a far pensare alle vetrine di “Dell’Oglio”, negozio dei portici residenziali palermitani, dove la buona borghesia della città va a far provviste d’abbigliamento “buono”. A me suggeriva paternamente di non essere sempre polemico ogni qualvolta venivo cacciato fuori da un giornale: “Altrimenti poi non ti vuole più nessuno, ti fai una cattiva reputazione, sapessi quante volte hanno cacciato me! “Fra le tante, le tante sue, la volta in cui aveva raccontato di Scalfari e la sua amante ufficiale, è riportato perfino su Wikipedia. Vincino, torna adesso in mente, voleva bene a Jacopo Fo, che sul “Male” si firmava Giovanna Karen, e raccontava storie magiche e insieme esilaranti, vedi quella del ragazzo che si reca in tabaccheria per comprare Marlboro e cartine e alla fine, dopo aver scazzato con il tabaccaio, finisce ammanettato dalla squadra narcotici. Ha fondato molti giornali, Vincino, li ha messi al mondo anche dopo la fine della storia gloriosa del “ Male“, con Vauro, Mannelli, Sergio Saviane, Stefano Disegni, compreso “ Il Clandestino”, che tale fu davvero, e poi “ Boxer“, era il 1988, se non rammento male, e c’ero anch’io con lui, ma questo è un dettaglio, conta assai più la sua amarezza per non essere mai più riuscito a creare una nuova testata che sopravvivesse proprio in nome della satira nel quotidiano giornalistico privo di autentica ironia. Come già dicevo, Vincino non sapeva prescindere in ogni racconto, perfino disegnato, dal suo amore per Palermo, la Sicilia tornava comunque a brillare al centro del suo cosmo narrativo, come assoluto filosofico- logistico: ripensando alla rivolta dell’ 8 luglio 1960, quando la Celere del governo Tambroni sparò uccidendo numerosi dimostranti a Reggio Emilia e giù in Sicilia, a Palermo e a Catania, qualche anno fa, fece dono al mondo di un disegno che mostrava la sezione del Partito comunista italiano intitolata al martire Francesco Vella, edile, sindacalista comunista, nel disegno appaio io mentre parlo ai compagni seduti. Va detto però che Vincino era anche anarchico, con la passione per la rivoluzione libertaria spagnola del 1936, per Durruti. Ancora poche settimane fa, su “ Il Foglio”, il suo giornale fisso insieme al “Corriere della Sera”, era tornato all’immaginario palermitano disegnando i “ Bagni Virzì”, dicendo che questi avevano “unificato l’Europa con il miglior fritto di calamari e gamberi di tutto il Mediterraneo“, gl’importava poco che nessuno sapesse cosa mai fossero, era comunque il suo modo di fare ancora una volta ritorno al luogo dell’origine, assodato che, spiega Karl Kraus, “l’origine è la meta“, i “Bagni Virzì“, ebbene ormai scomparsi, hanno rappresentato per Palermo ciò che per l’algerino Albert Camus rappresentavano i “Bagni Padovani” di Orano, gli stessi di cui si narra ne “Lo straniero”. L’uomo era molto di più di un cronista, di un giornalista, di un illustratore, di un vignettista, di un autore di satira, l’uomo riusciva infatti, come dire, a secernere, a depositare, a srotolare uno struggente sarcasmo, quasi creaturale, c’è una vignetta sul garantismo, tra le sue maggiori preoccupazioni etiche, dove lo sgorbietto giudice, sempre disegnato a suo modo, rivolto a sgorbietto imputato, pronuncia queste parole: “Lei mi è antipatico: le do cinque anni! “Anni fa, in televisione, Vincino aveva difeso pubblicamente Marcello Dell’Utri, così qualcuno, forse perfino vecchi compagni, gli aveva detto: “Non ti riconosco più! “, se solo fosse stato nelle sue possibilità, Vincino avrebbe abolito il carcere con i suoi “schiavettoni”. Così da quando, su Lotta continua, disegnava una versione del gioco dell’oca con la faccia di Fanfani. Poche settimane fa aveva chiamato, desiderava presentare sul mio canale il suo ultimo libro, puro succo di autobiografia eroica, “Mi chiamavano Togliatti”, un filo di voce, meglio, aveva la voce venuta meno, non ho però pensato che stesse male, ho creduto si trattasse di raucedine stagionale, passerà, Vincino, torneremo al lavoro e alla lotta e soprattutto al bar “Antico Chiosco” a Mondello, ha risposto che, no, la voce non sarebbe mai più tornata quella di sempre, ci siamo lasciati convenendo che l’estate può essere perfino cattiva, troppo caldo per trovarci davanti all’edicola del suo quartiere, la stessa che diceva di avere “adottato” perché “la carta stampata, i giornali, vanno difesi, protetti”, ha detto che sarebbe partito, dunque ci saremmo trovati al suo rientro. Qualche anno fa, Vincino ha raccontato Renzi in un volume, la sua lettura del personaggio è tuttavia già tutta in una vignetta dove, proprio Renzi, taglia con una sega un enorme ramo, che è poi in verità il suo pisello, come fosse il naso del bugiardo cresciuto a dismisura nella favola di Pinocchio, Matteo taglia, e tutto viene giù, il suo PD, la sua “Leopolda”. Vincino, oltre che lo Sciascia della satira italiana, è stato anche un po’ Robert Capa, tutto ha cercato di raccontare, documentare, commentare, con il suo sguardo puntuto dietro gli occhiali da miope, i suoi elzeviri disegnati sono teatro da camera della narrazione politica, allo stesso modo di Capa, non si è mai risparmiato, come ha scritto pochi giorni fa in una vignetta, sono stati “70 anni tutti di corsa”, Capa nelle sue foto ci ha restituito la Spagna repubblicana all’Indocina da lì a poco non più francese, e perfino la Normandia nel momento dello sbarco Alleato, tra i suoi scatti più significativi ce n’è uno assai mosso, dove si mostra un ranger della V Armata ancora immerso nell’acqua mentre tenta di raggiungere la riva durante il secondo assalto a Omaha Beach, anche i disegni di Vincino, così come lo scatto tra i più significativi di Capa, talvolta sono mossi, instabili, confusi, assomigliano, si è detto, a scarabocchi, si avvitano su se stessi quasi impressionisticamente, e tuttavia ci raccontano per intero il mondo, e tutto ci hanno detto della storia politica e del costume e della rivolta di questi ultimi fantastici e insieme miseri quarant’anni di secolo breve e non solo. Chi mai più ci darà degli sgorbietti meravigliosi come i suoi?

Vincino visto da Sergio Staino, scrive Sergio Staino il 22 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Era l’autunno del 1981 quando a Lotta Continua ebbero la geniale idea di inviare un disegnatore satirico, Vincino, come loro reporter in Parlamento. Fu in pratica una delle prime sperimentazioni di quello che in seguito si chiamò “graphic journalism” e che oggi conta tante famose firme, da Joe Sacco a Zerocalcare. Lui ci si trovò benissimo, girando in questo mondo sconosciuto fatto di Ancien Régime, colloqui trasversali e innumerevoli benefici: il basso costo delle consumazioni, gli accendini di contrabbando, gli sniffi di coca sul “tavolo della principessa”. Il problema fu che raccontava troppo, anzi, diciamo chiaramente che raccontava tutto. Ci furono proteste dei diretti interessati caduti sotto i colpi del pennino di Vincino e le proteste arrivarono fino all’allora presidente della Camera, il monumento nazionale Nilde Iotti. Quest’ultima, in men che non si dica, decretò l’espulsione del povero Vincino dall’aula e dai locali di Montecitorio. Ci furono proteste dei lotticontinuisti e dei Radicali con questi ultimi che presero a cuore la vicenda del nostro amico Vincino e sotto le loro ali gli fu permesso di accedere alla tribuna del pubblico. Meglio di nulla, pensò Vincino e, di santa pazienza, si accomodò sulla poltrona assegnatagli tirando subito fuori matita e album da disegno. Apriti cielo! I commessi della Camera piombarono su lui come angeli vendicatori e, presolo di peso, lo ributtarono fuori. Si scoprì allora che, per regolamento, il pubblico che assisteva alle dispute tra politici non era autorizzato a prendere appunti, tanto meno disegnati. Vi ripeto, era il 1981, non il 1881. Incredibile, no? Io naturalmente lo amavo già da tempo avendolo seguito e apprezzato fin da quando lavorava per Lotta Continua e poi per il Male. Politicamente eravamo molto lontani: io di solida formazione marxista e togliattiana, lui goliardo “avventurista”, come suonava il titolo di una delle prime riviste che ha fondato e diretto. Ma al di là delle differenze politiche mi piaceva la sua trasparenza, la sua disarmante onestà, la sua intelligenza, la sua autoironia, quell’autoironia che permette ai grandi di contraddirsi e di rivedere in continuazione le proprie posizioni per non cadere mai vittime del dogmatismo. Era talmente affezionato al dubbio come sicuro metodo di conoscenza che non riusciva a considerare intoccabili neanche le sue vignette. Una volta a Tango aveva disegnato un paio di vignette molto irriverenti verso Togliatti, e Macaluso mi chiese di toglierle perché lo mettevano un po’ in imbarazzo. Naturalmente io risposi di no e adottai come motivo il fatto che Vincino si sarebbe molto arrabbiato. In realtà Vincino, saputa la cosa, mi disse con grande candore: “Toglile, toglile, non importa.”. Naturalmente non le tolsi e quando Macaluso insistendo mi chiese il telefono di Vincino per potergli parlare direttamente mi guardai bene dal fornirglielo, altrimenti quelle vignette non sarebbero mai apparse. Quando nacque Tango, il primo collaboratore a cui pensai, prima ancora di Altan o Ellekappa o altri miei quasi fratelli, fu Vincino. Lo volli a tutti i costi contro tutti i pareri negativi che mi giunsero da tutta la direzione de l’Unità ma per me era troppo importante averlo, per me era la garanzia che avrei fatto una satira non sdraiata sul PCI ma viva e sferzante. Una cosa che non mi è capitata spesso ma che quando mi è capitata mi ha indispettito assai, è quando, trovandomi a parlar di satira con una qualunque persona che stimavo, questa mi diceva: “No, Vincino no. Non sa disegnare”. Io subito scattavo dicendo: “Vincino non sa disegnare?!? Ma come si può dire tranquillamente una bestialità simile? Il mio amico Vincino disegna benissimo, anzi, disegna meravigliosamente, tant’è che per disegnare ambienti e personaggi, non sceglie quasi mai l’inquadratura ad altezza di orizzonte, quell’inquadratura piatta che tutti gli stupidi sanno fare, ma sottolinea il suo messaggio grafico con inquadrature sempre imprevedibili e difficilissime da rappresentare. ” Per azzittire tutti i detrattori di questo artista con la “A” maiuscola, pubblico in questa pagina la stupefacente visione di “Fontana di Trevi”. Erano i tempi in cui tutta l’Italia progressista lottava contro l’installazione di missili Pershing sul nostro territorio e Vincino pensò di evidenziare i pericoli a cui obbiettivamente stavamo andando incontro disegnando questa veduta della famosa fontana. La didascalia diceva: Fontana di Trevi vista da un missile Pershing impazzito. Non guardatela superficialmente, vi prego, immaginate una volta tanto di tornare bambini, di mettervi col naso vicino all’illustrazione e cominciare a guardarla fin nei più piccoli particolari: sarà un viaggio emozionante di linee, di colori e di atmosfere. Perché allora tante persone possono ingannarsi e giungere a queste brutte conclusioni sui disegni di Vincino? La ragione è perché Vincino creava i suoi disegni satirici sotto l’ossessione perenne di rincorrere l’attualità politica e sociale nel suo veloce evolversi, con l’intensa paura di rischiare di perdere qualcosa. Se dovessi definire la satira di Vincino non avrei dubbio nel definirla “satira compulsiva”. Fin dal primo giorno che l’ho conosciuto, tanti anni fa, quando dopo il mio debutto su Linus cominciai un pellegrinaggio fra disegnatori che amavo e dei quali volevo diventare amico, fui colpito dal suo atteggiamento verso l’informazione e verso i conseguenti commenti satirici. Era il 1980, anni in cui l’informazione seguiva dei ritmi molto più lenti ed umani e gli stessi avvenimenti politici non si accavallavano smentendosi l’uno con l’altro a ritmi vertiginosi, come succede oggi. Vincino cercava di seguire tutto, dalla conferenza stampa ufficiale, agli articoli dei dietrologi, alle notizie flash, ai gossip su vari personaggi politici e non, insomma, tutto. Stavamo parlando accomodati sul divano di casa sua e lui improvvisamente diceva: “Aspetta, aspetta, adesso c’è il TG1”. Riprendevamo a parlare e dopo un po’ si ripeteva la stessa scena: “Adesso c’è il TG2”. E poi il notiziario Radicale, Radio Parlamento, il TG3 etc etc. Durante le notizie disegnava. Disegnava ad un ritmo vertiginoso e non faceva a tempo ad ascoltare la notizia, inventarci la battuta sopra e disegnarla e subito di corsa a passare alla notizia successiva. Per questo i disegni satirici di Vincino non potevano essere meticolosi e accurati nei particolari. Né i disegni né tanto meno il suo lettering. Tutto era veloce e tutto era tirato via ma nulla, credetemi, nulla era superficiale. Un occhio esperto o comunque un occhio di chi ama il disegno noterà in ogni ometto disegnato da Vincino quella particolare inquadratura dal basso o dall’alto, quel particolare movimento di braccia o di gambe, cioè tutti quegli elementi espressivi che affiancano alla battuta letteraria la necessaria emotività dell’immagine. E il tutto è di grande coerenza perché la stessa battuta, la stessa interpretazione politica non è mai scontata e prevedibile, ma sempre diversa e spesso totalmente spiazzante. Una cosa in particolare mi fece innamorare di lui: quando ai tempi di Tango mi raccontò la voglia che aveva avuto di scrivere una sua auto- biografia. Non la scrisse mai e si fermò solo alla copertina ma già in quella c’era tutto Vincino. Il titolo diceva: “Vita di Vincino”, il sottotitolo: “Storia di un opportunista”, sotto-sottotitolo: “Tutta la verità”; sotto- sottosottotitolo: “Cioè, non tutta. Sennò che opportunista sarei?”. Grande Vincino, ci mancherai tanto.

Vincino: «Io vi dico che la mafia ha votato 5 Stelle». Intervista al vignettista siciliano. «Musumeci è la scelta migliore, Cancelleri è negato e Micari è stato messo all’ultimo». Intervista di Simona Musco dell'8 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La mafia in Sicilia c’è e vota per «il nuovo». Vincenzo Gallo, alias Vincino, il “vignettista dai facili costumi” che ha tratteggiato nei suoi disegni le contraddizioni e le ipocrisie del nostro paese, dà questa lettura al voto per le regionali in Sicilia, sua terra d’origine, dove la vittoria di Nello Musumeci rappresenta «il meglio che potesse uscire da questa tornata elettorale». Un giudizio costruito da un’analisi che sancisce, in primis, il fallimento del Pd, partito che non ha saputo risolvere le contraddizioni emerse il 4 dicembre scorso con il fallimento del referendum, e la vaporosità del fenomeno Cinque Stelle, «un partito che sarà inaffidabile, come sempre».

Per molti questa è la vittoria del M5s, che si afferma come primo partito nella sua regione. Qual è la situazione politica dopo queste elezioni?

«Intanto non c’è mica una vittoria dei Cinque Stelle: hanno un distacco di oltre cinque punti, mica un’incollatura. Potevano essere una grande occasione di speranza e invece hanno fallito. La vittoria è tutta di Musumeci, che mi sembra essere un uomo abbastanza navigato, uno esperto, che ha già ricoperto molti ruoli politici. Però un conto è lui, un conto sono i suoi deputati, per tre quarti un ceto politico terribile, per i quali conta solo quello che riescono a prendere, sia al governo sia all’opposizione. Musumeci può fare molte cose, ha una maggioranza e non ha bisogno dell’accordo con altri partiti per governare. Il M5s, secondo me, non si smentirà, rimanendo inaffidabile. In passato ha appoggiato alcune cose di Crocetta, poi al momento opportuno s’è tirato indietro. Ha fatto solo una strada non asfaltata, niente di più».

E il Pd come ne esce?

«Conferma i suoi problemi a livello nazionale. Renzi non ha ancora capito gli errori fatti il 4 dicembre, non ha capito perché ha perso e che le riforme erano fatte male. Avrebbe dovuto studiare gli errori e poi fare un nuovo programma e rilanciare il partito. Non l’ha fatto e ora avrà problemi in tutta la nazione. A livello locale, poi, è stato un disastro sin dall’inizio: non capisce la Sicilia, non la conosce».

Dunque Musumeci è stata la scelta più saggia?

«Rispetto ai candidati in corsa è assolutamente la scelta migliore. Giancarlo Cancelleri è totalmente negato, Fabrizio Micari è stato messo lì all’ultimo, così… Claudio Fava, invece, è da 20 anni che si presenta: è un uomo di teatro simpatico ma fare tutta una elezione solo per avere un ruolo di testimonianza mi sembra un disastro».

Il refrain dei Cinque Stelle ora è “hanno vinto gli impresentabili” e contestano l’exploit di Luigi Genovese, figlio di Francantonio, con- dannato a 11 anni di carcere per il processo “Corsi d’oro”. Cosa ne pensa?

«Mi fa specie che un Movimento dove uno dei due che comanda ha ereditato la carica del padre contesti il fatto che uno, a Messina, ha preso un sacco di voti ereditandoli dal padre. Gli unici che non dovrebbero parlare sono proprio loro, che hanno parenti ovunque. Casaleggio padre era una persona intelligente e di valore, ma per dire, le mie figlie non sanno disegnare come me… Il fatto che un ragazzino di 21 anni abbia preso un sacco di voti non significa niente, sono cose che esistono nella politica, in America come in Italia. Poi detto dal M5s, che ha poca libertà al proprio interno… basti vedere come fanno fuori deputati e senatori quando dicono “forse Grillo sbaglia”».

E della storia che la mafia avrebbe votato per l’una o per l’altra parte?

«Messina, per restare in tema, è una provincia meno mafiosa rispetto ad altre. Decidono gli elettori con il loro voto, non decidi tu. Il voto dei cittadini va rispettato sempre non solo quando votano me. Bisogna sicuramente dire che la mafia in alcuni paesi è ancora molto forte. Il fatto che un vecchietto pensi di ammazzare la figlia e dia il mandato al figlio per riconquistare peso nell’arena mafiosa di Bagheria, ad esempio, fa venire i brividi. Ma io credo che ormai il voto della mafia sia un voto d’opinione».

In che senso?

«La mafia è stata delusa sia dalla destra sia dalla sinistra e quindi vota i nuovi».

Vota i 5Stelle?

«Sì, anche perché il centrodestra non gli ha levato il 41 bis, che oltretutto è una cosa incivile, la sinistra, pure lei, gli ha peggiorato le cose. Se in passato hanno fatto patti, oggi come oggi, secondo me, votano in base ad altri ragionamenti. Quindi non ha vinto la mafia».

Ora che il parlamento è formato cosa si aspetta dall’assemblea regionale?

«Sarebbe tutto da rifare: abbiamo una politica obsoleta in un mondo nel quale tutto cambia in modo pazzesco. Fino ad oggi la Sicilia ha speso una barca di soldi per non fare nulla. Per la formazione, ad esempio, sono nate decine di cooperative con lo scopo di spartirsi i fondi. Come funziona la politica in Sicilia? Appena si va a pensare una legge subito 10 deputati pensano come guadagnarci sopra, in qualsiasi campo. Se capiscono che il meccanismo da cambiare è questo allora c’è speranza ma non credo lo capiranno».

Quale sarebbe il suo programma?

«Partirei da quattro linee ferroviarie veloci per raggiungere tutta la Sicilia, creerei una società ferroviaria regionale che una volta messo in rete tutto camminerebbe da sé. Io, ad esempio, ero favorevole al ponte sullo Stretto. Quando hanno creato i treni veloci che ti portano a Roma, Milano e Napoli in poco tempo la vita è cambiata. Ecco, io vorrei fare così con Palermo, arrivarci senza fatica. Ma per farlo ho bisogno che il pezzetto tra Reggio e Messina sia collegato da un ponte, solo per questo. Però dicono: prima del ponte bisogna fare altro ma non capiscono che se lo si fa da quel ponte nasceranno altre cose».

Ma anche qui c’è il solito discorso della mafia che si accaparra i lavori.

«E che discorso è? C’è in ogni lavoro pubblico, non è che non fai niente perché c’è la mafia. Ci sono degli strumenti per mettere i mafiosi in condizione di non nuocere. Lo stesso discorso che faccio da sempre per il 41 bis: non serve un bugigattolo in cui buttare la gente, ci sono gli strumenti per rendere innocue le persone. Più sono incivili loro più devo essere civile lo Stato, che solo così mostra la propria magnificenza».

E' morta Inge Feltrinelli, ultima grande regina dell'editoria internazionale. Avrebbe compiuto 88 anni il prossimo novembre. In un'Italia ancora provinciale, sessant'anni fa, portò un pezzo di mondo, scrive Simonetta Fiori il 20 settembre 2018 su "La Repubblica". E' morta stanotte Inge Schönthal Feltrinelli, l'ultima grande regina dell'editoria internazionale. Il 24 novembre avrebbe compiuto 88 anni. Se n'è andata con la stessa riservatezza silenziosa con cui aveva l'abitudine di lasciare una festa. Non amava le cerimonie degli addii, forse perché ne aveva vissuti tanti. E la malattia e il dolore appartenevano a un suo lato privato che preferiva tenere in ombra. La chiamavano The queen of publishing. In un'Italia ancora provinciale, sessant'anni fa, portò un pezzo di mondo. E nella caotica redazione di Via Andegari, laboratorio di rivoluzioni e utopie, affiancò Giangiacomo Feltrinelli nella sua impresa culturale, moderna e cosmopolita. Dopo la tragica morte del fondatore, nel marzo del 1972, fu la vera salvatrice della casa editrice, poi consegnata al figlio Carlo in buona salute e con un patrimonio culturale invidiabile. Più che un editore Inge era un'atmosfera. Trascorrere cinque minuti con lei significava salire su una giostra tra bookfairs sparse nel pianeta, feste tra le più esclusive dell'ultimo cinquantennio, una mondanità culturale dai tratti imprevedibili. Sulla parete del suo studio, lo stesso dove aveva lavorato Giangiacomo, colpiva una fotografia scattata a Villadeati: lei allungata per terra in mezzo agli editori di tutto il mondo. "Ubriachi e felici", era la divertita didascalia. Il suo modello era la casa berlinese di Gottfried e Brigitte Fischer, prima della guerra. "Se una sera c'era Thomas Mann, il giorno dopo si affacciava Albert Einstein". La casa editrice come un divertente "caravanserraglio" dove passa il mondo che pensa. Lei avrebbe fatto lo stesso con Ingeborg Bachmann, Nadine Gordimer, Günter Grass, García Márquez e mezza letteratura mondiale.  L'alternanza tra dramma e fortuna fu una costante della sua storia, intrecciata alla trama di quel grande romanzo che è il Novecento. Nascere nel 1930 a Göttingen, nella Bassa Sassonia, significava conoscere fin da piccola le svastiche di Hitler. E lei era una bambina mezza ebrea, per parte di padre. Fu la madre a salvarle la vita, spingendo il marito a scappare in America e mettendo Inge sotto la protezione di Otto, un ufficiale della cavalleria tedesca che le fece da patrigno. Il dopoguerra significò fame, deprivazione, un viaggio a vuoto in America, dove il vero padre la respinge. Inge avrebbe rivelato queste vicissitudini solo in anni recenti. E sempre alla sua maniera, trasformando la tragedia in opportunità. Quando nel 1958 incontra ad Amburgo Giangiacomo Feltrinelli, la ragazza di Göttingen s'è già fatta conoscere per aver fotografato Picasso, Hemingway, Gary Cooper e Greta Garbo. Lei è bellissima, "un misto di Audrey Hepburn e Leslie Caron", racconta Carlo Feltrinelli in Senior Service. Lui è un editore atipico, comunista e miliardario, famoso nel mondo per aver pubblicato Dottor Zivago. Fu anche questa una storia grande e terribile, una storia d'amore e di passioni intellettuali conclusa tragicamente nel 1972 nella campagne di Segrate: il 14 marzo Feltrinelli esplode nel tentativo di mettere una bomba su un traliccio dell'Enel. Sideralmente lontana dalla follia politica del compagno, Inge non riuscirà mai a trovare un senso a questo epilogo. Grande suscitatrice di energie e di relazioni, Inge riuscì a condurre la casa editrice nella tempesta. Era convinta, come Giangiacomo, "che un editore deve trascinare la carretta: senza sapere nulla, deve far sapere tutto, o almeno tutto quello che serve". Era l'ultima rappresentante di un mondo che non esiste più, l'editoria dei Gaston Gallimard, Alfred Knopf, Jorge Herralde, Barney Rosset, una stirpe di publisher con cui condivideva talento ed eccentricità. "Non si faceva questo mestiere per diventare ricchi, ma per fare circolare idee". Nel frattempo tutto cambiava intorno a lei. Inge lo registrava con malinconia, ma senza mai arrendersi. Dietro il suo trionfo di arancioni, il temperamento flirtatious e l'inconfondibile "ingese" - la parlata cosmopolita impastata delle lingue del mondo - si nascondeva una tempra formidabile. Voleva invecchiare da "rompiscatole", e in parte ci è riuscita. Quando la malattia ha prevalso, ha preferito ritirarsi. Senza troppe cerimonie. Con la grazia d'una grande, irripetibile regina.

Biografia di Inge Feltrinelli SchÖnthal da Lorenzo Coraggio

• Gottinga (Germania) 24 novembre 1930. Editore. Terza moglie di Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972), che nel 1955 fondò l’omonima casa editrice. Madre di Carlo. «Mi affascina la mondanità. Quella vera: perché è piena di informazioni e pettegolezzi, creativa e divertente. Ogni giorno due colazioni, due pranzi, sicuramente quattro cocktail e due o tre bicchieri dopo mezzanotte» (nel 1994).

• «Il padre si chiamava Siegfried Schönthal, un ebreo tedesco della media borghesia, impiegato come direttore in una azienda tessile. “Era un bravo tedesco sciovinista, dal tipico nome wagneriano. Reagì all’incrudelirsi della campagna antisemita con stupito candore. Non capiva cosa accadesse, innocente come tanti altri. Fu mia madre Trudl, protestante luterana di tutt’altra tempra, a prendere le redini in mano. L’azienda tessile aveva una fitta rete di rapporti commerciali con l’Olanda. Grazie a questi, mia madre riuscì a trovare i soldi e i mezzi per farlo scappare in America. Accadde nel 1938. Dopo circa due anni di parcheggio in un campo olandese per ebrei, mio padre s’imbarcò alla volta di New York. Io avevo appena otto anni. Non compresi nulla di quella tragedia”. La fuga di Siegfried pone fine a una crisi coniugale scoppiata a causa della sua apatia. “La protratta indecisione nel lasciare la Germania aveva finito per esasperare mia madre”. Trudl, che lavora nel campo della floricoltura, presto lo sostituisce con Otto Heberling, ufficiale della cavalleria tedesca, “carino e vitale”, profondamente innamorato: Inge trova un nuovo padre, che l’ama e la protegge. “Ma ero pur sempre una bambina mezza ebrea, e lui un ufficiale di Hitler”» (Simonetta Fiori).

• Fotoreporter per diverse testate europee, intervistò Hemingway, Picasso, Simone de Beauvoir ecc. «Una casa editrice le offrì un contratto per scrivere un libro sulla sua professione, e lei chiese consiglio a Rowohlt che le disse subito di lasciar perdere e di raggiungerlo invece in ufficio dove era arrivato un famoso editore italiano suo amico, quello che l’anno prima aveva scoperto e pubblicato il Dottor Zivago di Pasternàk. Era il 14 luglio del 1958, e quell’uomo silenzioso, coi baffi, l’aria molto timida, poco più che trentenne, era Giangiacomo Feltrinelli. “È un comunista di famiglia molto ricca” le disse Rowohlt, “questa sera faccio un ricevimento per lui, porta qualche tuo amico di sinistra”. Inge arrivò con un’ora di ritardo perché aveva dovuto lavare e stirare l’unico vestito decente che aveva. Feltrinelli era solo, appartato, in una stanza piena di gente, fumava Senior Service con un lungo bocchino e si mangiava le unghie. Per sembrare disinvolta lei gli disse: “Io so tutto di lei”. Ma fece una gaffe nominando persone che lui disprezzava, come Luigi Barzini jr., che era stato il suo non amato patrigno. Lui era diventato di ghiaccio, lei cercò di farsi perdonare sfoderando tutto il suo charme. Romanticamente, girarono per la città chiacchierando sino al mattino» (Natalia Aspesi).

• «Ci fu quell’incredibile foto che scattai a Greta Garbo, mentre ferma a un semaforo sulla Madison Avenue, probabilmente raffreddata, stava per soffiarsi il naso. Vendetti quello scatto, la mia prima foto, alla rivista Life, per 50 dollari. Era il 1952. Poi arrivò Hemingway. (…) In quel periodo Hemingway viveva a Cuba. Giunsi all’Avana e aspettai un po’ prima che il “papa” mi ricevesse. Mi restavano pochissimi soldi e quando in una tarda mattinata mi telefonò, avevo quasi persa del tutto la speranza di incontrarlo. Mi disse che avrebbe mandato una macchina a prendermi. Gli risposi che preferivo arrivare con un autobus. Il viaggio durò un paio d’ore. C’era caldo. Eppure, mi sembrava di stare in una cella frigorifera. Ero nervosa e in totale subbuglio. Lui invece mi sembrò di pessimo umore. Credo che avesse fatto un’uscita con una barca ma che non si fosse divertito. Mi invitò al bar. Andava sempre al Foridita. Arrivammo in pieno pomeriggio. Si sedette al bancone e ordinò un daiquiri. A un certo punto fecero il loro ingresso dei ragazzi, malmessi e senza scarpe. Ernest tirò fuori delle monete e le lasciò cadere sul pavimento. Erano per loro. Trovai la scena umiliante e glielo dissi. Mi sembrava il gesto frutto del peggior colonialismo. Mi ignorò, continuando a bere. Solo la sera tardi, rivolgendosi mi pare alla moglie Mary, commentò l’accaduto. Disse che la giovane tedesca era un po’ troppo nazista per i suoi gusti. Decisi che al mattino seguente me ne sarei andata. Alle sei, era già sveglio, seduto nel soggiorno. Lo salutai. Mi guardò e disse: “Stalin is dead”. È morto? Feci io. Sì, e ora cambierà il mondo, aggiunse. Era il 5 marzo 1953. Per due ore tentò di farmi una lezione di politica sull’importanza di quel vecchio dittatore. Fu così che le tensioni svanirono e restai con lui per due settimane, scattando foto che avrebbero fatto il giro del mondo» (ad Antonio Gnoli) [Rep 9/12/2013].

• «Ho immortalato Picasso, John F. Kennedy, Elia Kazan, Sophia Loren, Anna Magnani, Marc Chagall e molti altri. Alcuni sono stati veri colpi di fortuna come Greta Garbo, che ho riconosciuto ferma a un semaforo su Madison Avenue, o Winston Churchill, che casualmente usciva dalla casa di un banchiere proprio mentre passavo di lì» (a Silvia Icardi) [Cds 3/3/2014].

• A Milano dal 1960, si dedicò con il marito (infine dilaniato da una carica di tritolo su un traliccio elettrico a Segrate) alla Giangiacomo Feltrinelli editore, di cui nel 1972 divenne presidente.

• «Ostenta d’ignorare la lingua italiana, che parla con accento da Fräulein, declinando articoli fasulli (“un piazza Duomo bello”), verbi finti (“non mi disaffecto”), e sostantivi a orecchio (“il pornografer”). È riuscita a fronteggiare le avversità dell’esistenza, prendendo prima il controllo della casa editrice negletta, come un’amante appassita, dal fondatore. E ponendosi poi sotto l’ala protettiva del Pci. Non potendo bloccare l’emorragia di grandi autori, come Günther Grass, Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa, ha arginato le perdite occupando il centro dell’egemonia culturale della sinistra grazie alla rete capillare di grandi librerie, volute da Giangiacomo sul modello tedesco» (Pietrangelo Buttafuoco).

• «Per capirla a fondo bisogna vedere il suo letto. Ha i lenzuoli più allegri che mente femminile possa immaginare. Fioriti? Zebrati? A righe? No, rosa shocking o arancioni» (Lina Sotis).

• «Sono abbastanza intelligente e svelta, il mio background è ricco, soprattutto ho avuto molte opportunità nella vita. Ma non mi considero un’intellettuale. Non è necessario che un editore lo sia. Rowohlt annusava i libri e solo dopo tre pagine sapeva se andava bene. Il vecchio Knopf, quando un redattore gli presentava un libro dicendo che era “abbastanza buono”, rispondeva: “Lei mangerebbe mai un uovo abbastanza buono?”» (a Simonetta Fiori) [Rep 1/11/2010]. GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 18 novembre 2014

Cose che non sapevamo di Inge Feltrinelli. I libri, gli scrittori, Giangiacomo, Carlo, Trudl, le feste, i gioielli, le fotografie, una certa idea di cultura. Chi era e cosa pensava la donna che ha segnato un'epoca della cultura e dell'editoria non solo italiana. "Alla fine sappiamo le storie della sua vita, ma è di lei che sappiamo molto poco”, ha scritto Natalia Aspesi, scrive Alessandra Spalletta il 21 settembre 2018 su Agi. Dice Natalia Aspesi: “A pensarla oggi che sappiamo di non incontrarla più, a parte nelle meravigliose interviste concesse a Simonetta Fiori, Inge non ha mai parlato davvero di sé, si è sempre difesa come in una fortezza impenetrabile però con bandiere e luminarie festose e colorate, chiacchierando di tutto. Alla fine sappiamo le storie della sua vita, ma è di lei che sappiamo molto poco”. Inge Feltrinelli si è spenta il 20 settembre 2018 all’età di 88 anni. Era nata a Essen, in Germania, il 24 novembre del 1930, figlia di un ebreo tedesco e di una luterana. Per sopravvivere alle privazioni del dopoguerra, si inventò il mestiere di fotoreporter in giro per il mondo, e divenne presto una fotografa affermata.  Quasi tutti i quotidiani hanno pubblicato oggi il celebre autoscatto in bianco e nero con Ernest Hemingway del 1953, che campeggia nelle librerie Feltrinelli.  Un anno prima, il suo primo scoop fu uno scatto rubato e Greta Garbo (immortalò poi Picasso, Hemingway, Kazan, Kennedy). Era da poco arrivata a New York, imbarcandosi da Amburgo, come un “misto di Audrey Hepburn e Leslie Caron”, ricorderà il figlio Carlo nello struggente libro scritto in memoria del padre “Senior Service”, dal nome delle sigarette che Giangiacomo Feltrinelli, editore comunista e miliardario, fumava quando la incontrò la prima volta a un party dell’editore Rohwolt, di ritorno ad Amburgo. Aveva 28 anni ed era bellissima. Si sposarono in Messico nel 1959 e cominciò la sua avventura italiana, letteraria e politica, per “cambiare il mondo” a caccia di autori, che in molti divennero suoi amici (tra questi, Garcia Marquez, Doris Lessing, Nadine Gordimer). Dopo la tragica scomparsa del marito, trovato morto ai piedi di un traliccio di Segrate nel 1972, salvò la casa editrice nel clima cupo degli anni di piombo, circondandosi delle persone giuste, lasciando poi le redini della società nelle mani di Carlo, che era nato nel 1962.  Si è battuta per mantenere una continuità con il filone tradizionale della casa editrice, che aveva pubblicato i principali autori contemporanei, alla ricerca di filoni narrativi nuovi, come gli scrittori dell’America Latina, e poi sviluppando la catena della libreria. Amica di scrittori e intellettuali, amava le feste ma non per una mondanità sterile, sempre lontana dall’alta borghesia milanese; la sua casa brulicava di persone svariate purché “simpatiche”, stimolava i suoi autori parlando con il suo italiano che non aveva perso l’accento tedesco, coccolandoli; li accoglieva indossando abiti dai colori sgargianti e fantasiosi orecchini di bigiotteria. Inge, che alla Fiera di Francoforte si infilava in un turbinio di incontri, ma che non era mai spericolata al lavoro se non quando correva in bicicletta per le strade di Milano, è diventata una icona della cultura italiana più internazionale. Scrive Mario Baudino sul quotidiano torinese che quando, tre anni fa, la casa editrice celebrò i sessant’anni di vita al Salone del Libro, “la regina dell’editoria italiana trovò una definizione che riassumeva tutto quanto le era accaduto nel tempo: la “febbre frenetica” di un gruppo di giovani intellettuali cosmopoliti che si cercava e annusava tra Europa e America. «Idealisti e antifascisti, in un momento in cui tutti i giovani intellettuali erano come noi, e infatti tutti lavoravano per noi, in un incredibile via vai. Giovani briganti e frenetici come Enrico Filippini, Valerio Riva, Nanni Balestrini, tutti maschi. E poi Bourgois in Francia, Jonathan Cape in America, Michael Kruger in Germania e tanti altri… Io ero la sola donna»” Dice ancora Baudino che “Inge Feltrinelli, l’amica degli scrittori e degli intellettuali, la donna che sapeva far lavorare insieme le personalità più disparate, o far da levatrice a grandi libri che magari non aveva neppure letto, amava l’aneddoto riferito a Ernst Rowolt, fondatore dell’omonima Casa editrice, che “annusava i libri e solo dopo tre pagine sapeva se andava bene”. Un po’ come Giulio Einaudi, del resto, che annoverava tra i “fari” cui guardavano, almeno i primi tempi della Feltrinelli, lei e Giangiacomo”. “Nel clima rovente del 1968”, ricorda Baudino, “venne cacciata da un lussuoso hotel di Francoforte, dove risiedeva per la Buchmesse, la fiera internazionale del libro perché aveva nascosto in camera Daniel Cohn-Bendit ricercato dalla polizia. Quando nel 1962 pubblicarono Il Tropico del Cancro, libro allora scandaloso di Henry Miller, fingendo di averlo stampato in Francia, solo per il mercato estero, e per cinque anni, ci raccontò, «lo vendemmo, in Italia, diciamo così di contrabbando. Fu una cosa molto misteriosa»”. Nel 1964 la coppia era all’Avana per lavorare con Fidel Castro sulla sua biografia. La Feltrinelli era diventata famosa per con Il Dottor Zivago di Pasternak, che era stato pubblicato nel ’57 dopo essere stato trafugato clandestinamente dall’Unione Sovietica. Pochi mesi dopo era uscito il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. “Era una conversatrice affascinante nel suo italiano forse volutamente, - e caoticamente - straniero, a partire dall’accentro un po’ tedesco e un po’ americano, per arrivare agli improvvisi neologismi o ad altrettanto subiteanei terremoti sintattici”, ricorda Baudino. L’amica Eva Cantarella “faceva parte di quel mix internazionale d’intellettuali che la vulcanica editrice ha ricevuto per anni nella sua casa di Milano oltre che nella villa in Monferrato”, scrive Chiara Beria di Argentine, che raccoglie il ricordo della nota grecista: “Inge non era per niente snob. Certo, da lei s’incontravano i suoi amici e autori spesso stranieri ma anche tanti giovani. Il suo era l’anti-salotto alla romana”. E ancora: “Coraggiosa, vitale, colorata, anticonformista. Fin da giovane e in tutta la sua vita ha affrontato anche dolori e difficoltà riuscendo a tenere tutti insieme […] lei era irripetibile”. Superati gli anni di piombo, quando anche a Milano arrivano tempi più sereni, “al 6 di via Andegari, nell’antico palazzo di famiglia e sede della casa editrice, Inge Feltrinelli offre pranzi e cene ad altro tasso di affettuosità anche se di lavoro”, scrive ancora Beria di Argentine. “Una grande passione per il ballo («Voglio ricordare con quale gioia ballava a Venezia negli anni più felici del premio Campiello», dice il finanziere Francesco Micheli), una predilezione per abiti e accessori dai colori vivaci, tanto che ai tempo delle più rigorose sfilate di Armani spesso era la sola ai bordi della passerella vestita di rosso o arancione”. Gianni Riotta rievoca le sue missioni oltreoceano, “quelle impossibili giornate newyorkesi” tra lavoro, cultura e party. “L’appuntamento era da Wolf’s, sulla Sesta Strada, uno degli ultimi ristoranti “deli” che servisse a New York carne pastrami all’antica. Inge Feltrinelli arrivava di corsa, in un abito multicolore, ordinava parlando in varie lingue ai camerieri veterani, poi interrogava: “Chi pubblica la New York Review of Books? Chi è il graffitista del giorno, Haring, Basquiat o Scharf? Che dice Vanni Sartori alla Columbia di politica italiana? Possiamo comprare uno dei primi computerini da Radio Shack?”. Nel ricordare che non c’era libro, Banana Yoshimoto o Cheever, piatto, salsicce o sushi, che non la appassionasse, Riotta, citando alcuni passaggi del libro dell’amatissimo figlio Carlo, scrive che “alle cene numerose Inge proponeva “cambiatevi di posto ad ogni portata, così conosciamo persone nuove se no moriamo di noia”, e gli ospiti seguivano obbedienti la sua contraddanza sociale”. Inge ascoltava tutti. Riotta ricorda che un giorno “arrivai, come sempre trafelato, a un appuntamento con lei a Villa Deati, suo ritiro in campagna. Un grammofono suonava in giardino, tra i tanti ospiti illustri, Inge si accorse che l’autista de La Stampa, che mi aveva accompagnato, era rimasto in disparte, imbarazzato. Lo invitò a un valzer, facendolo volteggiare sul pronto, «Fateci una foto e che sia bellissima»”. Fu grazie a Inge che Maurizio Maggiani ha capito “di non essere un vuoto a perdere sepolto nella sterminata discarica dell’editoria letteraria”. Era la primavera del 1995 ed era da poco uscito il Coraggio del Pettirosso. Ricorda Maggiani: “Mentre mi aggiravo con circospezione per via Andegari 6 alla ricerca di qualcuno che, senza offesa, mi confermasse se quello che avevo appena pubblicato era senz’altro il mio quarto, vasto, insuccesso, mi venne incontro questa signora Inge, fino ad allora solo fuggevolmente e rarissimamente intravista, e mi prese e mi abbracciò ordinando all’universo intorno: uno sciampagnino per Maggiani, uno sciampagnino per il nostro autore!” Cosa diceva Inge di Inge medesima? Lo scrive Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera. Quando, dopo la fuga del padre, direttore ebreo di una grande industria tessile, costretto a nascondersi in Olanda, si trasferisce da Essen a Gottingen, grazie alla coraggiosa madre che la mette sotto la protezione di un ufficiale della cavallerie tedesca che le fece da patrigno, prima che la caduta di Hitler le aprisse gli occhi sul nazismo, spingendola ad allontanarsi dalla famiglia e dalla tragedia storica che aveva vissuto inconsapevolmente, “Si descrisse come una ragazza senza particolari talenti ma “vivace, allegra, incredibilmente curiosa e dotata di una buona dose di faccia tosta” […] In realtà il talento l’aveva ed era, oltre alla curiosità, la capacità di fiutare e trattare le persone. Un talento umano più che intellettuale”. Paolo di Stefano racconta la sera in cui Inge incontrò il futuro marito la sera del 14 ottobre 1958, ad Amburgo, di ritorno dal Ghana, in un party negli uffici dell’editore Rowohlt.  Giangiacomo Feltrinelli era un editore miliardario e rivoluzionario, e aveva da poco diffuso nel mondo occidentale il romanzo di Pasternak. “Li presentai, simpatizzarono, direi che si intesero subito e quando lasciarono la festa, credo non avessero bisogno di nessun altro”, raccontò Rowolht. Inge si trasferisce a Milano proprio nei mesi in cui Feltrinelli sta pubblicando il Gattopardo. “Con la sua pronuncia tedesca che non aveva mai stemperato, con i suoi accenti spesso sbagliati, Inge Feltrinelli era una straordinaria narratrice orale: raccontava con entusiasmo l’incontro a Cuba con Hemingway in preda all’alcol, le feste a Francoforte con Wagenbach e Fischer, le scorribande con Vázquez Montalbán, al mercato del pesce di Barcellona,  la conquista ardua di Marguerite Duras con i suoi capricci (L’amante nel 1985 servì a dare respiro alla casa editrice), la prossimità sororale con Nadine Gordimer e Doris Lessing, la severità di Max Frisch, l’angoscia di Isabel Allende dopo la morta della figlia. E l’amicizia quasi cameratesca con Antonio Tabucchi, la visita al vecchio “sporcaccione” Charles Bukowski nella casa di Sam Pedro, i selvaggi moustaches di Günter Grass e le sue famose zuppe di pesce, l’allure di Gabo al divo di Hollywood dopo il Nobel”. Sempre al fianco del figlio Carlo, “lui la mente, io l’anima, ma spesso ci scambiamo i ruoli”, diceva. Richard Ford, grandissimo amico, la conobbe quando aveva già 45 anni, “non ero uno scrittore giovane da far crescere, ma mi adottò. Lo sa che nessun editore italiano mi aveva voluto?”, dice nell’intervista a Matteo Persivale. Parla di Inge quasi sempre al presente quando la descrive come “una di quelle persone che quando non ci sono più, ti fanno sentire sperduto nel presente. Come il giorno in cui è mancato Umberto Eco”. Fu proprio Inge a presentargli Eco. “Amava presentare altri scrittori ai suoi amici scrittori: sapeva che ne sarebbero uscite cose interessanti […] ma tutto avveniva nella massima serenità […] il più delle volte a tavola si discuteva di cibo o di vini. Inge dice sempre di essere rimasta la tedesca che veniva da un villaggio. Inge è allergica agli snob, li irride. Non l’ho mai vista frequentarne uno”. “Credo che la parola vip le sarebbe apparsa una parolaccia, se qualcuno avesse osato dirlo a lei”, scrive Natalia Aspesi, che ricorda anche come del suo lavoro “gli amici non la sentivano parlare, anche quello era come un impegno privato, che non doveva interessare, o annoiare, gli altri: qualcosa di cui non si sarebbe mai vantata perché quelli che lo facevano le parevamo “mezzecalze””. Non si assoggettava agli obblighi dell’alta borghesia lombarda. Per esempio, scrive ancora Aspesi, “non aveva un cosiddetto salotto, ma un grande spazio grondante di libri, con stupendi quadri antichi e molti divani, che si apriva su una sala da pranzo col tavolo straripante delle celebri ricette milanesi di casa: sempre le stesse, una tradizione famigliare ma anche culturale: risotto, insalata russa, cotolettine, cotechino col purè, creme caramelle, ecc. […] Inge era molto libera: per esempio, non amando particolarmente la musica, non appariva come tante altre alle inaugurazioni della Scala giusto per esserci. Invece sola sola, al primo spettacolo del pomeriggio, sgattaiolava nei cinema a godersi in solitudine i film”. Amava la moda, sì, e di sicuro aveva bei gioielli, “ma la si è sempre vista fin quando li ha portati, con enormi orecchini finti; mai con abiti di sartoria, non incline alle mode, era molto appassionata di un fitto guardaroba qualsiasi, purché sufficientemente sgargiante, con la predilezione dell’arancione, il giallo, i fiori, orrore per i colori dell’eleganza milanese, nero, grigio, beige”. Non amava i pettegolezzi. “Simpatico” era l’aggettivo massimo che usava per le persone e le situazioni che apprezzava. Le piacevano le feste e naturalmente era invitata ovunque “ma non ovunque andava”, continua Natalia Aspesi. “Agganciata da tutti, accettava al volo un paio di drink e poi frettolosamente scompariva. L’aspettavano i suoi amatissimi libri e non solo i Feltrinelli: e ne regalava”. Inge amava fare regali agli amici. E così “ogni tanto alle persone che le volevano bene”, scrive ancora Aspesi, arrivava un suo sacchettino, un libro, dei cioccolatini, la cartolina di una mostra su cui si cercava di indovinare quel che voleva dire con una scrittura del tutto incomprensibile”. Negli ultimi tempi non era stato possibile non notare la sua assenza a inaugurazioni e cene. L’ultima festa l’aveva data ad aprile a Villadeati per il compleanno del suo compagno, Tomas Maldonato. “Inge si stava spegnendo, già lontana dal dolore e della rinuncia. Solo i suoi lo sapevano, il figlio Carlo, la nuora Francesca, i nipoti, Tomas, le persone molto amate che non esibiva mai, come non fosse il caso di essere, per gli altri, anche una mamma, una nonna, una compagna. Cose sue, solo sue”, conclude Aspesi. “Inge sapeva sempre come fare, anche lasciare una festa senza che gli altri se ne accorgessero. Quasi di nascosto, con leggerezza, senza i noiosi rituali dei saluti e dei commiati. Dov'è Inge? Inge se n'è andata. Inge non c'è più. Così ha fatto anche nella sua ultima uscita, quella più difficile”, scrive Simonetta Fiori. “Non c’è stato niente di luttuoso nel suo commiato, nessuna cerimonia d’addio”, continua Fiori. “Prima ha scelto di ritirarsi tra i suoi ricordi […] Poi ha voluto proteggere il suo professore, Tomas Maldonado, l’amore della seconda vita, nascondendogli la sua immagine ammaccata, resa opaca dalla malattia. E poi Inge s'è congedata da tutto, dalla sua bella casa di via Andegari, la stessa da sessant'anni, proprio davanti alla casa editrice. E poi da Carlo, il figlio molto amato. E dai nipoti. Ma senza drammi, senza troppi rituali. Come ha sempre fatto nei suoi ottantasette anni di vita, abituata non a rimuovere il tragico ma a sconfiggerlo con una prepotente vitalità. E se le forze vengono meno, meglio rincantucciarsi nella propria stanza, nel sonno e nel silenzio”. “In casa editrice la chiamavano If, dalle iniziali del nome. E per una curiosa coincidenza if nella lingua inglese indica un'ipotesi, un'eventualità, una condizione possibile ma non certa, come niente appariva prevedibile nella sua scalpitante impazienza. A cominciare dalla sua vera indole, che non si finiva di scoprire. Perché non bisognava fermarsi alla sinfonia di colori aranciati né all'attitudine ballerina sfoggiata nelle bookfairs di tutto il mondo né alla parlata cosmopolita con cui poteva dire di tutto, anche dare dell'imbecille all'osannato bestsellerista del momento senza che lui se ne accorgesse”. Anche Simonetta Fiori ripercorre gli anni della giovinezza, ricordando come nella Germania di Hitler sfiorò la deportazione perché figlia di padre ebreo. Si salvò grazie all'energica madre Trudl che indusse il marito Siegfried a scappare in America, sostituendolo ben presto con un ufficiale della cavalleria tedesca garante della loro sopravvivenza. Il dopoguerra significò miseria nera e disavventure famigliari - il patrigno Otto prima sottoposto a processo, poi morto di crepacuore - alla ricerca d'un padre lontano che però la respinge”. Inge, bellissima, è troppo curiosa del mondo. Quando incontra Giangiacomo ad Amburgo “aveva degli zigomi fantastici, e uno zaino pieno di mondo”. Si piacciono subito, “e finita la festa da Rowohlt aspettano l'alba insieme, seduti su una panchina davanti al lago. Comincia così una storia d'amore e di editoria destinata a non finire mai”. “Due anni dopo li ritroviamo vicini nel clima selvatico di via Andegari, caotico laboratorio di utopie e rivoluzioni. È la Milano elettrica degli anni Sessanta, la città degli Strehler e dei Paolo Grassi, la sera si mangia la cassoeula dai Vittorini insieme a Montale e la Duras”. “Casa Feltrinelli diventa il simbolo di una élite culturale mondiale che annovera Bellow e Camus, Bukowski e Arbasino, Ginsberg e Baldwin, Günter Grass e Ingeborg Bachmann. È Inge ad accogliere tutti, importando a Milano il modello berlinese dell'editore Fischer prima della guerra: la sera a cena con Thomas Mann, l'indomani a colazione con Einstein […] Aveva la capacità di annusare da lontano la fuffa, sapendo distinguere in modo fulmineo l'oro vero dalla paccottiglia”. Quando il 14 marzo del 1972 nella campagna di Segrate, “Giangiacomo salta per aria mentre tenta di mettere una bomba su un traliccio dell'Enel, "He is gone", aveva annotato Inge sul diario dopo il loro ultimo tristissimo incontro. È andato, non è più lui, non torna in sé. Una follia per la quale non riuscirà mai a trovare un senso. Se la casa editrice è sopravvissuta al suo fondatore, lo si deve esclusivamente a Inge”. “Ma, per una forma di pudore, non si sarebbe mai impancata a salvatrice dell'impresa. "Ho fatto solo il mio dovere", liquidava lei ogni tentativo di monumentalizzarla. "Un misto di assennatezza ed estasi", la ritrasse Jorge Herralde, altro gigante dell'editoria affascinato dalla sua forza teutonica”. Quando, insieme a Luca Scarzella, Simonetta Fiori girò un film sulla sua vita, “nessuno avrebbe scommesso di tenerla inchiodata nella sua stanza per quattordici ore di intervista, distribuite in soli quattro giorni. La sua irrequietezza era leggendaria. Ma lei riuscì a sorprendere perfino la sua più stretta collaboratrice - Giulia Maldifassi, ideatrice del lavoro - presentandosi all'appuntamento mezz'ora prima del ciak”. Durante le riprese, Fiori conosce “Inge disadorna del colore e dei lustrini”. Ad esempio, “quando parlava di suo figlio Carlo bambino, era soltanto una mamma che si preoccupava di farlo crescere insieme agli altri bambini, evitandogli i traumi del padre, allevato nella solitudine di una famiglia miliardaria. Una madre e basta”. “Vorrei dire una cosa minore, di Inge”, scrive Concita de Gregorio. “Una cosa piccola, quella che penso quando la penso. Era felice di provare ammirazione per qualcuno, e di dirglielo. Di più, credo: era proprio abitata dal desiderio di essere stupita dal talento altrui. Come se si svegliasse ogni mattina dicendo: speriamo di incontrare oggi qualcosa o qualcuno che io possa applaudire”. L’ultima volta che l’ho vista era vestita di arancio, tutte le sfumature dal sottabito alle scarpe. Mi aveva detto, una volta: «Non mi piace parlare del mio corpo, né dell’amore. Mi annoiano. L’unico grande amore è stato Giangiacomo, ho viaggiato con lui, poi ho vissuto per i libri. Però Carlo è diventato, malgrado me, un magnifico figlio». Aveva sorriso orgogliosa”.  “Del fotografo aveva l’occhio fulminante che sa isolare il momento giusto e il dettaglio che conta, che sa arrivare all’anima del personaggio che ritrae”, ha scritto Ernesto Ferrero. Francesco M. Cataluccio ha lavorato con Inge, dalla caduta del Muro di Berlino ala metà degli anni Novanta, e la ricorda “come una donna appassionata ed esuberante. Proverbiali erano le sue sfuriate e alcuni suoi capricci espressi in una buffa lingua e che non è mai stata del tutto l’italiano. Aveva occhi piccolissimi, quasi due tagli orientali, e un sorriso sempre grandissimo. A una prima impressione sembrava sempre ‘sopra le righe’ ma, conoscendola, si capiva che la sua era una carica vitale al servizio di un’idea di cultura e editoria”. “Era una persona appassionata e molto più intelligente di quanto il suo comportamento spesso bizzarro, e il suo abbigliamento eccessivamente sgargiante, lasciassero trapelare. Nel lavoro non era una persona spericolata: soltanto nel suo modo di sfrecciare in bicicletta per le strade del centro di Milano costituiva un pericolo per sé e per i pedoni. Penso che le cose che le facevano più paura fossero la noia e la monotonia”. “Alla fiera di Francoforte, ad esempio, si muoveva come una vera padrona di casa, era difficile starle dietro: si ficcava in un turbinio di incontri, feste, presentazioni, dei quali sembrava non stancarsi mai. L’editoria per lei erano anche contatti personali, sussurri durante una cena, soffiate durante una festa. Ma non era una mondanità fine a sé stessa. La sua casa era sempre aperta alle persone più svariate: i suoi autori venivano coccolati e stimolati dal suo entusiasmo e della sua energia”. “L’idea della casa editrice e delle librerie non era solo commerciale, ma una sfida: quella di portare i libri ovunque. Entrambi credevano che fossero necessari al benessere”, scrive Ginevra Bompiani. “Nel 1983, mio padre, Valentino Bompiani, ebbe l’idea di una Scuola per Librai, che suo nipote Luciano Mauri, capo delle Messaggerie italiane, fondò, insieme a Inge Feltrinelli e Ulrico Hoepli, che ne furono da allora i più assidui promotori e collaboratori. “Era lei che invitava gli ospiti stranieri alla settimana finale della Scuola, che si teneva a Venezia alla Fondazione Cini. Era la sua ambasciatrice nel mondo. Quando gli allievi arrivavano all’isola di San Giorgio e la vedevano, ammutolivano di emozione. Perché Inge era anche, nell’animo e di fatto, libraia. Ricordo che quando, con la mia amica Roberta Einaudi, fondammo la casa editrice nottetempo, e scegliemmo la sala dell’Arci Bellezza di Milano per il primo incontro con i librai, se ne presentarono quattro. Una dei quattro era lei. E fu lei ad accoglierci alla Scuola per Librai l’anno dopo, novizie attempate com’eravamo, e a festeggiare la nascita di una nuova casa editrice”. “L’ho sentita in un video dire una cosa a difesa del libro di carta che non avevo mai sentito o pensato prima: non si può leggere a un bambino sulla spiaggia una fiaba di Grimm su Kindle”.

È morta Inge Feltrinelli, l'editrice che brindò all'attentato contro Indro. Moglie di Giangiacomo, non lo seguì nel fanatismo, ma da editore cavalcò l'onda rivoluzionaria, scrive Stenio Solinas, Venerdì 21/09/2018, su "Il Giornale". Poiché siamo un Paese senza più memoria, conviene partire da qui, dal ricordo di ciò che è stato, per dissipare la fumeria d'oppio di un presente edulcorato. E quindi occorre riandare a quel giugno del 1977 in cui, immobilizzato in un letto d'ospedale dopo che le Brigate Rosse gli hanno sparato, Indro Montanelli scrive sul suo diario: «Dal Giornale mi mandano tre sacchi di telegrammi: ne hanno contati quindicimila. Ma la notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi - quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti - si è brindato all'attentato contro di me e deprecato solo che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici». All'epoca Inge Feltrinelli, morta ieri a 87 anni, ne aveva quasi cinquanta, non era insomma una bambina ingenua né una adolescente sventata. Sei anni prima, quello che era stato suo marito, Giangiacomo Feltrinelli, era saltato in aria mentre stava sabotando un traliccio dell'Enel a Segrate, e insomma i guasti del fanatismo ideologico Inge li aveva vissuti da vicino. Nel suo libro Il terrorismo italiano, Giorgio Bocca osservò allora che rispetto alla frenesia rivoluzionaria che colse Feltrinelli su finire degli anni Sessanta, Inge aveva «troppo buon senso e troppo spessore umano per essere la compagna adatta» di una simile avventura. Giudiziosamente, lasciò infatti il marito alla sua nuova moglie, Sibilla Melega, e se ne restò alla guida della casa editrice che del marito aveva il nome e che negli anni immediatamente a seguire continuò a sfornare libri e libretti sulle rivoluzioni in ogni continente che poi, quando il decennio di piombo finì e il clima generale mutò, la lasciarono sull'orlo del disastro economico. Si salvò dal fallimento perché, naturalmente, era una donna intelligente, dotata di fiuto editoriale e delle giuste conoscenze internazionali, di un catalogo che, alleggerito di tutto il ciarpame terzomondista e no, aveva un suo valore. Si salvò anche perché, come certa parte della borghesia progressista italiana che si era vestita alla comunista in quanto era la tenuta più alla moda, il più glamour dei prét-à porter, al cambio imperioso della nuova stagione ideologico-politica lo aveva riposto nell'armadio, un vintage magari da rindossare, ma sempre con parsimonia e all'insegna romantica e svagata dei «formidabili quegli anni», niente di più, niente sangue sui tessuti da ricordare, che orrore, così poco chic... Ora c'era il business delle librerie e dei punti vendita da cavalcare capitalisticamente. Nata in Germania nel 1930 e in Germania cresciuta durante il regime hitleriano (il padre, un industriale tessile di origine ebraica, emigrò negli Stati Uniti, la madre accettò la corte di un ufficiale tedesco che fece da patrigno alla bambina), già negli anni Cinquanta Inge è una fotoreporter affermata. Gira il mondo, ritrae Hemingway a Cuba, Picasso sulla Costa Azzurra, Greta Garbo in Madison Avenue. Nel 1958 incontra Feltrinelli a un party dall'editore amburghese Rowohlt, l'anno dopo è sua moglie e intanto, fra Il dottor Zivago e Il Gattopardo, suo marito è divenuto un editore internazionale. Nelle storie familiari di entrambi, gli elementi in comune sono molti e senza fare del freudismo banale, aiutano a spiegare l'ubriacatura ideologica che in seguito li afferrerà. Erano i rampolli di padri da cui non erano mai stati amati (quello di Inge la respingerà quando lei andrà a trovarlo negli Stati Uniti), avevano un irrisolto complesso di classe e di colpa con quella borghesia da cui provenivano. Nel caso di Feltrinelli, questo complesso raggiungeva il parossismo dovuto alla schiacciante fortuna paterna, prosperata per di più sotto il regime fascista, con, anche qui per soprammercato, un patrigno che era il figlio di quel Luigi Barzini del fascismo supporter e divulgatore. Per Inge c'era il buco nero della Germania nazista e di quell'ufficiale della Wehrmacht in sostituzione paterna, di cui parlerà soltanto in tardissima età, e il decennio dei Cinquanta fatto di cocktail, safari, ricevimenti, buona società. Ora, sempre per tornare alla memoria, dalla seconda metà degli anni Sessanta, ciò che si andò diffondendo in Italia fu proprio il gusto mimetico del travestimento. Fu una strana epidemia che, come osservò sul tamburo Enzo Bettiza, «non risparmiava le famiglie più in vista, i cui epigoni, sdoppiati, pur continuando a occuparsi di affari e di denaro, sfoderavano in quegli anni un odio patologico contro le proprie origini borghesi». Nel caso di Inge e Giangi (era questo il diminutivo del secondo) c'era l'aggravante dell'editoria, ovvero un rapporto diretto, scriveva ancora Bettiza, «con la fabbrica delle idee e delle opinioni, che dava al loro sinistrismo un lustro intellettuale e uno chic mondano che ne allargava il raggio d'influenza nella società». Il tutto in un confuso bisogno di espiazione e di protesta, di nevrosi autopunitiva, sullo sfondo di un'epoca allucinata, febbrile e febbricitante. Si dirà: sono cose del passato e Inge Schönthal Feltrinelli è stata in seguito anche molto altro, l'ultima «regina dell'editoria internazionale», l'amica di Nadine Gordimer, Doris Lessing e García Márquez, il «ministro degli esteri» del libro, una donna piena di vita, un'incantatrice... Certo, tutto vero, ma questo lo leggerete domani su tutti gli altri giornali. L'altra faccia della medaglia la trovate solo qui. La verità, si sa, è rivoluzionaria.

Inge e Indro. Due nemici perfetti, scrive il 21 settembre 2018 Marco Valle su "Il Giornale". Inge Feltrinelli è morta. Adieu. Aveva la sua età e la vita è stata (molto) generosa con lei. Terza moglie di Giangiacomo Feltrinelli, aveva ereditato parte della fortuna del suo lunatico consorte defunto dopo l’imbarazzante esplosione a Segrate. Piccolo passo indietro. Nel 1972, il magnate pasticcione divenne marmellata maneggiando dinamite su un terreno di sua proprietà.  Un giochino pericoloso in nome della “rivoluzione proletaria” e altre puttanate. Il PCI (gente seria) lo aveva allontanato per tempo considerandolo un pericoloso avventurista, ma per la grassa borghesia milanese il Giangi (per l’occasione il “compagno” Osvaldo) divenne un “eroe”, un “martire”.  Al Monumentale, il cimitero dei ricchi meneghini, si suonò l’Internazionale e molti pugnetti chiusi — unghie limate e pulite, mani senza calli o graffi — salutarono per l’ultima volta il baffuto Fidel di via Montenapoleone. Un teatrino. Solo molti anni dopo il figlio Carlo in “Senior Service” — un libro dolente, vero — ha restituito suo padre alla realtà storica. Senza troppi sconti. Con pietas filiale. Non così la Inge. All’indomani del funerale, dimenticando tradimenti e umiliazioni (il Giangi s’immaginava duro comunista ma di sicuro era un vero dongiovanni), la vedova strillo all’ “omicidio di Stato” (incolpando la Cia, i servizi, gli Ufo, etc, etc…) e intanto rilevò la casa editrice.  Salvandola. Spirito degli affari e fiuto editoriale non le mancavano. La signora con abilità e spregiudicatezza rilanciò l’intero complesso. Grazie a lei, a Carlo e ai loro collaboratori, la Feltrinelli è oggi un’azienda sana e vincente. Bene. Dispiace però — passata da tempo l’ubriacatura estremista e sistemati i conti — che la signora, a differenza del figlio, non abbia mai voluto fare i conti con il passato familiare. Con gli incubi del marito, i suoi strambi maneggi con servizi d’oltrecortina e i terroristi nostrani. Con gli anni di piombo. Anzi. Per volontà di Inge (sembra…)  nei tanti negozi della catena troneggia sempre, incombente e severa, la figura del fondatore bombarolo (possibilmente accanto a quella del Che). Due icone borghesi di un impossibile palingenesi marxiana.  Due falliti di successo…La storia scorre veloce, tutto si accatasta negli angiporti della memoria, molto si dimentica o si confonde in una melassa insapore. Ma qualcosa resta sempre. Come, ad esempio, le stilettate di Indro Montanelli, gambizzato dalle Brigate Rosse (gli eredi spuri del Giangi…) nel 1977. «La notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi — quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti — si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici».

Il saluto di Milano a Inge Feltrinelli. Sala: “Ha donato il meglio di se stessa alla città”. Aperta la Camera ardente a Palazzo Marino. L’omaggio di famiglia, dipendenti, scrittori e gente comune, scrive il 21/09/2018 Emanuele Grigliè su La Stampa. Milano in fila per l’ultimo saluto a Inge Feltrinelli, signora dei libri e presidente della casa editrice, che si è spenta nella notte di mercoledì a 87 anni. All’ingresso della camera ardente, allestita a Palazzo Marino, un suo ritratto in bianco e nero, Inge ride e solo la sciarpa è colorata, arancione, come i fiori, rose e gerbere, scelte per ricoprire il feretro e ornare tutta la sala. Prima che l’ingresso venga aperto al pubblico, un momento privato solo per gli amici più cari e la famiglia. «Credeva nel valore delle battaglie culturali. Non dimentico il suo orrore per i recenti rigurgiti neo nazisti in Germania e per certe derive della politica italiana», la ricorda il figlio Carlo, sottolineando anche «il suo contribuito a rendere più cosmopolita e libertaria la vita di questa città, il suo slancio internazionale all’editoria nel nostro Paese». Con i due uomini della sua vita, «mio padre Giangiacomo Feltrinelli e Tomas Maldonado, aveva in comune il fatto di saper vivere più vite in una sola». Anche i nipoti Giovanni e Giacomo, i figli di Carlo, hanno voluto raccontare la nonna: «Un esempio di impegno civile. Era una donna sempre alla ricerca e farà sempre parte di me», ha detto Giacomo. Mentre Giovanni ha parlato del suo «desiderio che noi potessimo impegnarci per il futuro della Feltrinelli. E non ci tireremo indietro». Per il sindaco Beppe Sala «Inge Feltrinelli a Milano ha riservato il meglio di se stessa. Le sue iniziative hanno fatto la differenza nel panorama culturale europeo», ha aggiunto. «Come è accaduto con la nuova sede della fondazione Feltrinelli, Inge quel giorno era profondamente commossa e piena di fiducia». Poi il sindaco ha voluto parlare di un ricordo personale. «Era il primo giorno della mia campagna elettorale, eravamo al Teatro Parenti, c’era un po’ di tensione e gente che riponeva speranza nel mio debutto. Lei decise di scommettere sulla mia avventura e mi chiese se pensavo di dare a tutti la Milano multiculturale, vitale, speranzosa nel futuro, capace di dare futuro ai nostri giovani. Siamo ancora qui a sognare con te e a progettare il futuro nel segno dei tuoi e nei nostri valori. Continueremo a seguire il tuo grande esempio», ha concluso Sala. Poi l’attrice Anna Nogaro ha letto un brano di Sotto il Vulcano, uno dei libri più amati dalla signora Feltrinelli. «Inge Feltrinelli è stata una cittadina del mondo, parlava e veniva ascoltata da tutti -, ha detto l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia -, per la città di Milano la sua morte è una perdita enorme, ma i suoi insegnamenti rimarranno e ci aiuteranno ad andare avanti sempre anche nei momenti difficili, che lei sapeva affrontare con ottimismo e il sorriso». Tantissimi tra i presenti ovviamente i volti noti dell’editoria, i giornalisti Gad Lerner, Michele Serra, Natalia Aspesi, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, gli scrittori Paolo Rumiz e Marco Missiroli, le stiliste Rosita e Angela Missoni. Tanti, tantissimi i dipendenti Feltrinelli, così come le persone che non la conoscevano ma sono passate lo stesso.  «Sono una mamma normale», ci spiega una signora venuta a renderle omaggio alla camera ardente, «ma sono qui perché sono cresciuta con i libri Feltrinelli, e ci stanno crescendo anche i miei figli. Volevo dirle grazie». «L’ho conosciuta da nuova scrittrice -, ci racconta invece Simonetta Agnello Hornby -, mi sorprese subito per la sua enorme semplicità oltre che per l’intelligenza acuta e pronta. Siamo diventate amiche, anche perché eravamo soprattutto due donne con tante cose in comune. Madri che lavoravano e hanno dovuto allevare i loro figli da sole. Entrambe straniere, lei in Italia io in Inghilterra, che hanno trovato casa in un paese che non era il nostro. Mi diceva sempre di mettermi i tacchi -, conclude la scrittrice -, non perché fossi basa, ma perché aiutavano ad apparire più forte davanti agli altri. Ecco, oggi li ho messi». E stasera l’ultimo ricordo in musica: alle 19 in tutte le librerie Feltrinelli il Valzer brillante de Il gattopardo. I funerali si svolgeranno in forma privata. 

Inge Feltrinelli santificata dai rivoluzionari in pantofole, scrive Alessandro Gnocchi, Sabato 22/09/2018, su "Il Giornale". Ieri la nostalgia si è impossessata dell'Italia. Nostalgia di Inge Feltrinelli, l'editrice morta giovedì scorso a 87 anni. Nostalgia dei formidabili anni Sessanta e Settanta dei quali l'editrice è stata protagonista. Si spiegano così i servizi torrenziali in quasi tutti i Tg. Forse solo la dipartita di Giovanni Paolo II ha ottenuto una attenzione superiore (ma di poco). Sui giornali, pagine e pagine. Sfibranti coccodrilli di firme prestigiose che hanno intinto la penna nella melassa dei luoghi comuni. Inge era «la regina dell'editoria». La frase fatta è piaciuta così tanto da essere ripetuta in tutti i titoli dei telegiornali e dei quotidiani. Per un giorno, i reduci del Sessantotto e dintorni si sono abbandonati senza ritegno alla celebrazione della propria giovinezza spacciata per l'epoca d'oro dell'Italia. Abbiamo così appreso quale fantastico momento siano stati gli anni Sessanta e Settanta. La ex meglio gioventù ha pianto Inge Feltrinelli ma ha anche approfittato della circostanza per tirare fuori dall'armadio il basco e l'eskimo. Ah, che rimpianto per i pomeriggi trascorsi sognando di combattere accanto a Ernesto Che Guevara in Bolivia e leggendo i manuali di guerriglia pubblicati da Feltrinelli. Ah, la personalità esuberante di Fidel Castro che gioca col pallone con Giangiacomo Feltrinelli mentre Cuba diventa un lager a cielo aperto. Ah, che bello vagare in bicicletta, senza pensieri, nella Pechino non ancora turistica dell'assassino Mao Tse Tung. Ah, che rammarico l'antifascismo duro e puro dei comunisti, noti paladini della libertà. E soprattutto che fascino i salotti della borghesia illuminata che abbracciava le cause rivoluzionarie, ponendo le basi per la propria estinzione. Proprio in quei salotti nacque Giovanni Leone: la carriera di un presidente di Camilla Cederna. Fu il grande bestseller della Feltrinelli di Inge nel 1978. L'inchiesta sul presidente della Repubblica era esplosiva. Leone fu costretto a dimettersi. Era pura diffamazione, come accertarono i magistrati in tutti i gradi di giudizio, ma perché ricordarlo? Il terrorismo rosso, le sprangate, i gambizzati, le esecuzioni, le bombe: per un giorno tutto dimenticato. Chi è nato all'inizio degli anni Settanta ha il cadavere di Aldo Moro, trucidato dalle Brigate Rosse, tra i primi ricordi del mondo oltre la porta di casa. Ma perché rovinare una bella storia con la verità? Insomma, è stata una celebrazione conformista di un periodo che appare dominato dal conformismo. Anche la teoria delirante della superiorità antropologica della sinistra affonda le radici in questa melma che ha trascinato giù il Paese. Quegli anni ci lasciano in eredità una cultura italiana ridotta all'irrilevanza per assenza di dibattito; l'istruzione mediocre, dalle elementari alle università; un'editoria poco interessata al pluralismo delle opinioni; e uno stuolo di rivoluzionari in pantofole, che spesso lavorano per lo Stato. Ma non volevano abbatterlo? No, volevano occuparlo. Per sempre.

È morto Bernardo Bertolucci, l'ultimo grande maestro del Novecento. Il regista aveva 77 anni. Ha attraversato la storia del cinema mondiale con capolavori come "Novecento" e "Ultimo tango". "L'ultimo imperatore" ha vinto nove Oscar, compreso miglior regia e sceneggiatura, scrive Irene Bignardi il 26 novembre 2018 su "La Repubblica". Se non fosse davvero esistito, il personaggio Bernardo Bertolucci – poeta, documentarista, regista, produttore, polemista, autore per eccellenza del cinema italiano, star del cinema internazionale - prima o poi, questo personaggio più grande che natura l’avrebbe inventato qualcuno, per raccontare, in maniera romanzesca ed esemplare, quello che ha attraversato il cinema nella seconda metà del secolo scorso, dallo sperimentalismo al cinema d’autore, dalla cinefilia alla grandeur, dai low budget alle mega produzioni, dal provincialismo alla visione internazionale. Il regista di capolavori come Novecento, Ultimo tango a Parigi, Il té nel deserto, Piccolo Buddha e L'ultimo imperatore, il film da nove Oscar, è morto questa mattina alle 7 nella sua casa di Trastevere, a Roma, circondato dall'affetto della moglie Clare Peploe. Malato da tempo, costretto su una sedia a rotelle, aveva 77 anni. La camera ardente sarà allestita martedì 27 novembre, dalle ore 10 alle 19, in Campidoglio, Sala della Protomoteca. Lo comunica la famiglia, che ringrazia il Comune di Roma per la disponibilità. In data da definire seguirà una cerimonia di commemorazione aperta al pubblico, di cui verrà data comunicazione a breve.

Il figlio del poeta e la natia Parma. Bernardo Bertolucci, in queste avventure e capovolgimenti era sempre lì, da protagonista o da testimone del secolo. Così italiano e così internazionale. Così sofisticato e così nazional-popolare. Così letterario e così visuale. E non si può non restare stupefatti di fronte a una vicenda umana e a una carriera cinematografica che si sono aperte nell'Appennino di Casarola di Parma, la casa di famiglia dei Bertolucci, e hanno percorso le strade del mondo per viaggiare sempre, però, nello Zeitgeist, nello spirito del tempo, quello spirito che Bernardo, con antenne da vero artista, ha saputo identificare, interpretare, raccontare. Della favola, a tratti amara, sempre avventurosa che è stata la vita di Bernardo Bertolucci, ricordiamo l’inizio veramente da favola. Quando il bel ragazzo ventenne, figlio di un grande poeta come Attilio Bertolucci, amico di Pier Paolo Pasolini, amato da Moravia, vicino a Elsa Morante, a Cesare Garboli, a Enzo Siciliano, a Dacia Maraini, vince a vent’anni il Premio Viareggio per la poesia con Il cerca del mistero. Da questo laboratorio culturale – in cui a tempo debito si muoveranno anche la sua bella moglie inglese Clare Peploe e il fratello più giovane di Bernardo, Giuseppe -, dalla tradizione letteraria e musicale della sua natia Parma, discendono, oltre all’amore di Bernardo Bertolucci per i testi letterari, il gusto per il melodramma, l’amore per le scene madri, l’approccio mitico e popolare, la tendenza postmoderna a costruire con materiali preesistenti – quelli che, direbbe Violeta Parra, formano il suo canto. E quindi, su una filmografia di sedici film, a realizzare ben cinque film di origine schiettamente letteraria pur restando un autore straordinariamente visivo.

L'incontro con PPP e la nascita della Nouvelle Vague italiana. È un percorso cinematografico affascinante. Bernardo lavora come assistente di Pasolini, gira documentari, affronta il primo film, La commare secca, su un'idea di PPP e con atmosfere tipicamente pasoliniane. Poi un secondo, Prima della rivoluzione, nel 1964, una riscrittura a chiave di La Certosa di Parma, che diventa il suo manifesto cinematografico, annuncia il suo lato cinefilo ("Non si può vivere senza Rossellini" è la citazione imperdibile) e lo promuove autore e cantore della borghesia di fronte ai cambiamenti drastici che segnano gli anni ’60. E se inizialmente il film viene accolto con freddezza dal pubblico e dalla critica italiana (ma, a Venezia, c’è chi gli consiglia di tornare a fare il poeta), e giusto un po’ meglio dai francesi, in compenso Pauline Kael, la dea della critica americana, assieme a un gruppo di "miracolosamente talentuosi ragazzi francesi" celebra anche Bernardo Bertolucci e il suo film, "stravagantemente bello per i suoi eccessi", dove si racconta la bellezza della vita "prima" della rivoluzione. Alberto Moravia, in una sua accesa recensione, equivocherà e parlerà di "dopo" la rivoluzione, reinterpretando il film secondo l'equivoco. Poco importa. Quello che conta è che dalla cinefilia e dalla poesia è nata una stella, a cui si affiancherà, un anno dopo, a costituire il nucleo della Nouvelle Vague italiana, Marco Bellocchio con l'eversivo I pugni in tasca.

Tra il '68 e Ultimo Tango. Nel fatidico '68 Bertolucci gira un film tipicamente sessantottino, Partner. Poi nel 1970, per la Rai, quello che all’epoca colpì tutti come un piccolo, sofisticato gioiello, Strategia del ragno, ispirato a Borges. Per darci nel 1970, ancora, quello che resta forse il suo film più compiuto, maturo, personale, Il conformista, che trasforma ed è al tempo stesso fedele al testo di Moravia. Un film che se non riuscì all'epoca a farsi amare dal pubblico italiano, di nuovo venne amato dalla Kael, che lo definì "un'esperienza sontuosa, emotivamente piena"- e che a tutt’oggi di Bertolucci resta il film più riuscito, concluso, coerente. Ma il fenomeno internazionale B.B. esplode con Ultimo tango a Parigi, e la complessa vicenda giudiziaria/ censoria che seguì, e che rende difficile giudicare il film fuori dal suo contesto di scandalo. Uno scandalo paragonato dalla solita Kael allo shock culturale prodotto da Le sacre du printemps. E il fatto che Bernardo Bertolucci ogni tanto sia ritornato sulle sue responsabilità (o meglio sarebbe dire sulla sua irresponsabilità) nell’imporre scene e atmosfere brutali a Maria Schneider, non fa che rinnovare negli anni lo shock prodotto a suo tempo e a rendere più difficile un giudizio. Che all’epoca a taluni è sembrato semplice: intense le scene in interni, con un superbo Marlon Brando invecchiato e dolente, imbarazzanti le parti con Schneider e Leaud, appassionante (nonché discutibile) il tema della trasgressione e del sesso come unico valore.

I nove Oscar de "L'ultimo imperatore". La storia delle vicende giudiziarie di Ultimo tango è un romanzo in se stesso, un po' grottesco un po' horror, tra condanne alla perdita dei diritti civili e roghi medievali di pellicola. Ma è la storia che ha creato la fama internazionale di B. B. e che gli consente nel 1976, sempre sensibile agli umori del tempo e ad anni di cultura di sinistra dominante, di girare Novecento, un’epica grandiosa e “hollywoodiana”, piena di grandi nomi del cinema nostro e internazionale, che racconta cinquant’anni di storia padana, a tratti potente e commovente, a tratti retorica e manieristica, sempre audace per le dimensioni e le ambizioni. Dopo la ricezione tiepida, nel 1979, di La luna, che racconta l’ambiguo e difficile rapporto , ai confini dell’incesto , di una madre e di suo figlio adolescente, dopo La tragedia di un uomo ridicolo ( 1981), una storia di avidità provinciale e rapimenti, che conquista a Tognazzi un premio a Cannes ma ha un risposta modesta dalle sale, nel 1987 Bertolucci conquista a sorpresa nove Oscar con un film veramente epocale, un trionfo di diplomazia e creatività, di gusto scenografico italiano e di abilità narrativa, L'ultimo imperatore, un grande successo a livello mondiale che apre le porte del mondo cinese e consacra Bernardo Bertolucci come un grande regista internazionale.

L'ultimo Bertolucci dal Té nel deserto a Io e te. Tornato in Italia dopo un lungo periodo a Londra, sua seconda patria, Bertolucci, conIo ballo da sola, da un racconto di Susan Minot, esalta la bellezza del Chiantishire e il piacere di vivere "dopo" la rivoluzione. Con Il té nel deserto (1990) riscopre l'opera di Paul Bowles e il mondo tragico ed elegante degli “expat”. Quindi si muove, nel 1993, verso il Nepal, per raccontare la storia di Piccolo Buddha e aprire alle culture orientali. Nel 1996, tornato a Roma, dirige tutto in interni la storia di un'ossessione amorosa, L’assedio. Mentre nel 2003 ritorna all’amato, mitico '68 con la storia di tre ragazzi che intrecciano scoperte erotiche, politica e cinefilia in The Dreamers, un film di scoperto voyeurismo e di scoperta nostalgia che per molti versi riconduce alle atmosfere di Ultimo tango. Ma la malattia che da anni lo assedia, sta avendo il sopravvento. Bertolucci non riesce a "montare" il suo Gesualdo da Venosa, un film a cui pensa da tempo. Gli restano le storie intime e private, e gira, praticamente sotto casa, un intenso incontro scontro tra fratello e sorella in Io e te (2012), dal romanzo di Niccolò Ammaniti. È la fine della bella favola. Ma Bernardo Bertolucci, il ragazzo poeta, il regista, la star, il premio Oscar, se ne va lasciando un segno che resta.

Bertolucci, comunista e grande intellettuale che seppe raccontare il Novecento, scrive il 26 novembre 2018 su Rifondazione.it. «Con Bertolucci – ha dichiarato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – l’Italia perde un grande artista e intellettuale internazional-popolare che ha saputo raccontare il fascismo, la Resistenza, il movimento operaio e contadino, il comunismo, il Sessantotto, il desiderio di cambiare il mondo e la vita, la trasgressione dei valori tradizionali, le altre culture, le rivoluzioni, la grande storia e la vita quotidiana. Fu capace di conquistare con le bandiere rosse Hollywood e di ispirare il nuovo cinema cinese. Noi vogliamo ricordarlo come compagno che non rinunciò mai a dirsi comunista nè mai rinnegò il sogno che ha attraversato il Novecento».

Sesso e rivoluzione. In memoria di Bertolucci, scrive il 27-11-2018 La Nuova Bussola Quotidiana. Bernardo Bertolucci rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Ha sempre caratterizzato le sue pellicole con due ingredienti essenziali: sesso e rivoluzione. Dall'elefantiaco Novecento, sino al suo penultimo film The Dreamers è questa la sua firma. Ma il mondo lo ricorda soprattutto per l'erotico Ultimo Tango a Parigi. «Nel ‘64 con Prima della rivoluzione mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo». Così diceva Bernardo Bertolucci in un’intervista al Quotidiano.net del 6 maggio scorso. Come Fabrizio De André nell’album Storia di un impiegato, rivendicava, da sinistra, la fantasia al potere. Se De André era anarchico, Bertolucci era comunista, sempre stato. Può essere, questo, il vecchio vizio dei cineasti italiani, che l’attore Gérard Depardieu chiamava «tutti comunisti con le case», intendendo per case le ville sfarzose di quelli che sarebbe più preciso chiamare radical chic. Sesso & rivoluzione, la cifra stilistica di molti suoi film, fino al penultimo, The Dreamers, dove i protagonisti giocano al dottore in una Parigi sconvolta dal maggio sessantottardo. Nell’elefantiaco Novecento si comincia con un vecchio Burt Lancaster che fa il padrone della terra e un altrettanto vecchio Stirling Hayden (i più anziani lo ricorderanno come Johnny Guitar insieme a Joan Crawford) che fa un suo lavorante: il primo offre di brindare alla nascita del suo nipotino e il secondo si rifiuta per odio di classe. La scena successiva vede il padrone fare avances esplicite con una ragazzina figlia di suoi dipendenti. Poiché la piccola lo ridicolizza maliziosamente, ecco che il padrone si impicca: la vita senza sesso non vale la pena di essere vissuta, grettezza padronale. Più avanti, il ricco Robert De Niro (che non a caso diventerà fascista) e il povero Gérard Depardieu sono nudi sul letto della squillo Stefania Casini, un rapporto a tre mostrato tutto esplicitamente. Il chilometrico film è un peana alle prime lotte operaie dell’Italia novecentesca. Su diciassette film al suo attivo, il più notevole era senz’altro L’ultimo imperatore, che infatti fu premiato con ben nove Oscar. Ma il regista è passato alla storia del cinema soprattutto per il famigerato Ultimo tango a Parigi, che gli costò anche una condanna per oltraggio al pudore e che fu per qualche anno sequestrato, cosa che, al solito, indusse quelli a cui era sfuggito a correre nelle sale per vederlo. La scena della sodomia al burro divenne così popolare che, ai ricevimenti di matrimonio, invalse l’uso (di pessimo gusto) di regalare panetti di burro infiocchettati agli sposini. L’attrice, l’allora diciannovenne Maria Schneider, figlia dell’attore francese Daniel Gélin (quello che, vestito da arabo, viene pugnalato a morte all’inizio dell’hitchkockiano L’uomo che sapeva troppo), dichiarò in seguito di essere rimasta segnata negativamente e per sempre da quel film, nel quale appariva senza veli. E’ morta nel 2011 a cinquantotto anni senza aver lavorato a più niente di significativo. Per Marlon Brando, invece, quel film fu un insperato rilancio di carriera, fino a quel momento malinconicamente declinante. Infatti, prima di lui Bertolucci aveva pensato a Jean-Paul Belmondo e Jean-Louis Trintignant. Questi due rifiutarono uno dopo l’altro e il regista ripiegò su Brando. Bertolucci, comunista nel cuore (esordì come aiuto regista di Pasolini), prese la tessera del Pci nel 1969, ma, disse in un’intervista al Giornale.it, «si è andata via via scolorendo… Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui». Infatti vennero i film Un tè nel deserto e Piccolo Buddha. Nel 2007 ricevette il Leone d’Oro alla carriera a Venezia, lo stesso a Cannes, Palma d’Oro. L’anno seguente, una stella a lui intestata venne posta nella Walk of Fame di Hollywood Boulevard a Los Angeles. Una vita ricca di soddisfazioni, la sua. Ma, diciamolo, è triste restare nell’immaginario collettivo per un tango al burro.

Bertolucci, quando il Pci non capì Novecento, scrive Mario Lavia il 26 novembre 2018 su Democratica. I vecchi capi non accettavano la durezza che Bertolucci raccontò a proposito della Resistenza dei contadini. Ai comunisti Novecento non piacque. In particolare, non piacque ai vecchi capi del Pci. Giorgio Amendola, che in quegli anni conduceva una personale ricerca storica che inevitabilmente si intrecciava con la sua biografia, bollò negativamente il capolavoro di Bertolucci in una fortunata trasmissione di allora, Ring. Anche Giancarlo Pajetta, allo stesso modo, rifiutò la lettura bertolucciana di quello che poi si chiamò secolo breve. Il Pci, in quegli anni, era durissimamente impegnato a ricostruire un racconto tutto evolutiva della vicenda italiana, al riparo da orrori e nefandezze o anche solo da spiriti primitivi di vendetta. La lettura della storia italiana era un susseguirsi di avanzamenti e conquiste, tassello decisivo dell’accreditamento del Pci come partito nazionale di governo. L’antifascismo, nel racconto dei comunisti italiani, era non solo una pagina gloriosa, di riscatto morale e avanzamento politico, ma anche una elegia eroica, affratellante e profondamente umana, ai limiti della redenzione cristiana. Non potevano perciò sopportare, i grandi capi antifascisti, che ne venisse fornita una rappresentazione elegiaca sì ma cruda, eroica ma tragica, persino crudele come quella che Bernardo Bertolucci, comunista fuori dagli schemi comunisti, aveva dato con l’epica di Novecento, uscito nelle sale proprio nel 1976, l’anno della legittimazione del Pci come partito di governo. Probabile che Bertolucci vi rimase male. Per lui il Pci era quello che era per milioni di italiani: un padre, o una madre. Una scuola, o una chiesa. Il “grande albero sotto cui ripararsi”, come scrisse il nume di Bernardo, Pier Paolo Pasolini. Amendola, Pajetta… Come dire i maestri di politica. E meno male che Togliatti era morto da anni, lui Novecento lo avrebbe stroncato, un film così fuori dagli schemi propagandistico-zdanoviani cui era legato. Quando mai – avrebbe detto il Migliore – i contadini hanno processato gli agrari, dove mai il popolo fece a pezzi il vecchio fascista (Donald Sutherland), com’è possibile che un ragazzo antifascista (Gerard Depardieu) fosse amico di un rampollo dei ricchi (Robert De Niro)? La Resistenza non era stata questo! E invece Bertolucci, nel quadro magnifico della resistenza morale e della Resistenza politica, queste cose ce l’aveva messe. Aveva ragione, sul piano storico. Soprattutto, su quello letterario e poetico (l’influenza del padre, il grande poeta Attilio): perché l’epos del Novecento non sarebbe stato tale se non fosse stato – anche – un groviglio di passioni e contraddizioni e se il soggetto italiano per antonomasia, i contadini, non fossero stati portatori di una “cultura” ferina e passioni primitive, come ben aveva visto, ancora una volta, Pasolini. Ma c’è da dire infine che il mondo comunista non era solo quello dei vecchi capi. Dietro di loro veniva avanti una nuova generazione che la Resistenza l’aveva sentita raccontare o letta sui libri, giovani che amavano Pasolini, Bertolucci, Godard più che Rossellini e De Sica. Ha raccontato Walter Veltroni: “Ho ancora in mente la proiezione con Amendola e Pajetta. Appena terminata ci fu una discussione molto dura, soprattutto Pajetta espresse un giudizio negativo, le cose che a lui non erano piaciute erano proprio quelle per cui noi avevamo amato il film. E cioè il fatto che mescolasse la dichiarazione di fede politica con l’ispirazione poetica, la struttura del romanzo popolare con l’allegoria, con il melodramma…Pajetta contestava il modo in cui il film raccontava la Liberazione, diceva che i fatti non erano andati esattamente così”.  Forse, nel Pci, Pietro Ingrao, grande cinéphile, era il più sensibile al nuovo racconto cinematografico. Anche su questo terreno ci fu una lotta culturale e politica che si intrecciava con quella più grande della modernizzazione del Pci. Bernardo Bertolucci anche in questo senso rappresentò una svolta innovativa e un nuovo modo di pensare la storia italiana.

Cinema, morto il regista Bernardo Bertolucci. È scomparso oggi Bernardo Bertolucci, regista di Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, scrive Francesco Curridori, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". L’ultimo dei grandi maestri del nostro cinema, Bernardo Bertolucci, unico italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, ci ha lasciati per sempre. Di lui ci resteranno dei capolavori come Ultimo tango a Parigi, Novecento e l’Ultimo Imperatore.

L’infanzia, l’amicizia con Pasolini e l’esordio al cinema. Bernardo, figlio del poeta e critico letterario Attilio Bertolucci, nasce nel 1941 vicino a Parma, a pochi chilometri dalla casa dove abitò Giuseppe Verdi ma, all’età di 12 anni, si trasferisce con la famiglia a Roma. Del padre ricorda che, appena tornato dal vedere un film, chiamava il giornale e dettava allo stenografo la sua recensione per telefono “senza averla scritta prima. Dopo se la faceva rileggere e cambiava al massimo due parole”. A soli 15 anni gira i suoi primi cortometraggi con una 16 mm presa in prestito: La teleferica, storia di tre bambini che si perdono nella foresta, e Morte di un maiale, ambientato all’interno di un mattatoio. A Roma si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne (che lascerà ben presto) e nel 1962 vince il Premio Viareggio Opera Prima per il libro in versi In cerca del mistero ma il primo amore resta il cinema. In questi anni Bertolucci vive in via Carini, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Qui conosce un suo vicino di casa molto importante, Pier Paolo Pasolini, che lo introduce nel mondo della settima arte scegliendolo come assistente alla regia per la sua prima opera, Accattone. L’anno successivo è Bertolucci a dirigere il suo primo film, La commare secca, da un soggetto di Pasolini. Del 1964 è Prima della rivoluzione che anticipa chiaramente il ’68 e dove il protagonista è un giovane borghese iscritto al Partito comunista che si invaghisce di sua zia. Nel 1967 sarà chiamato da Sergio Leone come autore del capolavoro C’era una volta il west, mentre sei anni più tardi girerà Il conformista tratto dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia con protagonista Jean-Louis Trintignant. Bertolucci, con questo film, vince il suo primo David di Donatello e riceve la prima nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

I primi successi, Ultimo tango a Parigi e Novecento. Il primo vero grande successo arriva nel 1972 con Ultimo tango a Parigi per la scena in cui Marlon Brando usa il burro per favorire una penetrazione anale in Maria Schneider. Bertolucci, a tal proposito, dopo la morte dell’attrice, rivelò: “L’idea è venuta a me e a Brando mentre facevamo colazione, seduti sulla moquette. A un certo punto lui ha cominciato a spalmare il burro su una baguette, subito ci siamo dati un’occhiata complice. Abbiamo deciso di non dire niente a Maria per avere una reazione più realistica, non di attrice ma di giovane donna. Lei piange, urla, si sente ferita. E in qualche modo è stata ferita perché non le avevo detto che ci sarebbe stata la scena di sodomia e questa ferita è stata utile al film”. Ma poi aggiunse: “La sua morte è arrivata prima che potessi riabbracciarla e chiederle scusa”. Il film ottiene un enorme successo al botteghino e viene premiato con un David di Donatello, un Nastro d’argento e una nomination all’Oscar, ma entra subito nel mirino della censura. Nel 1976 la magistratura ordina la distruzione della pellicola che solo nel 1987 riceve la riabilitazione. Un altro suo grande capolavoro è Novecento, un film con Robert De Niro, Stefania Sandrelli e Gerard Depardieu, in cui Bertolucci racconta la storia di una famiglia dalla nascita del comunismo in Emilia Romagna fino alla Liberazione. “Eravamo nel 1976, in pieno compromesso storico e mi sembrava di dover celebrare un rito, pensavo di rendere omaggio alla storia del Pci. Paese Sera, quotidiano comunista romano, organizzò un dibattito con lo storico Paolo Spriano e Giancarlo Pajetta. Alla fine del primo tempo, Pajetta, entusiasta, mi abbracciò. Poi, vedendo le immagini della Liberazione, in cui mostravo anche le vendette private, i processi popolari contro i fascisti, si alzò furioso e se ne andò gridando: mi rifiuto di partecipare”, ricorderà in seguito Bertolucci che ringrazierà soltanto Walter Veltroni, all’epoca leader della Fgci, per averlo sostenuto. “Da allora, - dirà con rammarico - la mia tessera del Pci, presa nel 1969 contro l’estremismo filocinese dell’estrema sinistra, proprio nel momento in cui ci fu la rottura del partito con il gruppo del Manifesto, si è andata via via scolorendo... Alla metà degli anni Ottanta ho smesso di rinnovarla, non ero un militante, ho iniziato a vivere più all’estero che qui”.

L’Ultimo Imperatore, l’apice del successo. Nel 1988 Bertolucci gira L’Ultimo Imperatore, un kolossal girato in Cina che ottiene un enorme riscontro sia di pubblico sia di critica. I premi vinti sono numerosissimi, soprattutto agli Oscar con 9 nomination ricevute e 9 statuette portate a casa, tra cui quelli come miglior regia e miglior sceneggiatura. Poi ci sono 9 David di Donatello, 4 Golden Globe, 4 Nastri d’Argento e 3 premi Bafta. Il film nasce per il grande amore per l’Oriente che Bertolucci scopre negli anni ’80 dopo aver girato vari Paesi come la Thailandia, il Giappone e la Cina. “Tempo dopo - racconterà in una delle sue tante interviste - il produttore Franco Giovalè mi diede da leggere il libro Da imperatore a cittadino, autobiografia presunta dell’ultimo imperatore cinese. Io avevo appena riletto La condizione umana di Malraux che si svolge nella Shangai del ’27. Con questi due progetti volai nell’84 in Cina: primo impatto con la città proibita, e da lì innamoramento assoluto". "Negli anni ’80 – aggiungerà - avevo deciso di allontanarmi da un’Italia che mi sembrava iniziasse a essere molto corrotta. La Cina è stata un altrove in cui ho amato perdermi, e subito dopo venne l’altrove del Sahara di Il tè nel deserto (1990 ndr), e l’altrove del buddismo e dell’India di Piccolo Buddha (1993). Questi tre film sono legati dal bisogno di evadere dalla realtà del mio paese che in quel momento non mi piaceva”.

Gli ultimi anni di vita. Prima dei gravi problemi di salute che lo costringeranno a passare gli ultimi anni della sua vita in sedia gira Io ballo da sola e L’assedio. Nel 2000, infatti, subisce una serie di interventi per un’ernia del disco e trascorre un intero anno a letto ma, alla fine, riesce a superare la grave depressione che lo aveva assalito. “Ho imparato ad accettare questa mia nuova condizione. Da allora è diventato tutto più facile. E ho ripreso a fare film. E ho capito che fare film è la sola terapia”, disse dopo aver girato The Dreamers (2003) e Io e te (2012). Bertolucci, nel 2014, gira un documentario a Trastevere per testimoniare come sia difficile per un disabile girare in una Capitale come Roma. "Questa - dice - è una città segnata come unfriendly per i portatori di handicap. Lo sanno tutti, tranne il Comune. Ma non mi meraviglio, fa parte della nostra cultura, non siamo storicamente attenti al mondo di chi non è autosufficiente, non ci sono leggi di garanzia, noi preferiamo una sorta di manutenzione per i disabili, che è una via d'uscita mediocre". Gli ultimi premi arrivano nel 2007 quando, a Venezia, riceve un super Leone d’oro, mentre nel 2011, a Cannes, gli viene consegnata la Palma d’oro alla carriera. Dal 2008 una “stella d’oro” "brilla" sul marciapiede delle star, la Walk of Fame dell’Hollywood Boulevard di Los Angeles.

Il regista di provincia che vinse nove Oscar. Era forse il maggior talento visivo del cinema europeo. Quando lasciò il maoismo, arrivò il successo mondiale, scrive Claudio Siniscalchi, Martedì 27/11/2018, su "Il Giornale". Alla morte di Luchino Visconti, avvenuta nel 1976, un solo regista italiano poteva raccoglierne l'eredità: Bernardo Bertolucci. Certo si trattava di un figlio illegittimo. Ma comunque figlio, almeno per quattro ragioni: la polemica antiborghese, la raffinatezza estetica, la cultura aristocratica, il dichiararsi di sinistra. Di fatto dal 1943, anno di esordio con Ossessione, questo era stato Visconti: un antiborghese, un esteta, un aristocratico e un intellettuale di sinistra. Bertolucci, nato a Parma nel 1941, figlio del poeta Attilio, esordisce nella regia cinematografia all'ombra di Pier Paolo Pasolini con La comare secca (1962). Ma non è un tardo neorealista. Si muove nella cultura del proprio tempo. L'ispirazione non va a cercarla nelle borgate romane, ma nella Parigi della Nouvelle Vague, in particolare nella nervosa insofferenza del rivoluzionario Jean-Luc Godard. Anche per Bernardo un movimento di macchina è un affare dalle implicazioni morali. L'uscita di Prima della rivoluzione (1964) anticipa i tempi: il Sessantotto è alle porte, e Bertolucci ne incarna l'essenza intellettuale e cinematografica. Odia la borghesia, come Visconti, quella borghesia di cui sono stati entrambi figli minori, in quanto aristocratici. Occorre uccidere il padre. Ed ecco Partner (1968). La morte del Padre in tutti i sensi. Bertolucci segue ancora Godard. Come lui si è perfino infatuato del maoismo parigino. Bernardo è un esteta. Marx, Mao, la lotta di classe, la rivoluzione culturale. Va tutto bene. Però è roba che invecchia con rapidità. Ferraglia pesante. Bertolucci avverte l'esigenza di una svolta: il Sessantotto è stato uno sconquasso totale. Ma non sul piano politico. Sotto le lenzuola. Prende congedo dal «Mao pensiero» con un'opera di grande bellezza visiva e fascino inquietante: Il conformista (1970), tratto da un controverso romanzo di Moravia. Il vero punto di svolta della carriera di Bertolucci. Sullo sfondo c'è la Parigi livida dei tardi anni Trenta, all'epoca dell'assassinio dei fratelli Rosselli. Il senso della morte aleggia pesante, accanto a quello della dissoluzione sessuale. Bisogna un po' morire per poter rinascere. È il senso del film successivo, Strategia del ragno (1970). Un racconto di Borges sull'intreccio di finzione e realtà, eroismo e tradimento. E poi la sua terra. Romagnola, parmigiana. Spira ancora il vento della Resistenza. Ma è un refolo. E trasporta odori poco rassicuranti. Occorre ripartire. Destinazione Parigi. Lì Bertolucci sta per diventare il più noto regista italiano e una celebrità internazionale. Ha fra le mani una storia drammatica e incandescente. E un immenso attore: Marlon Brando. Gli serve solo una giovane attrice capace di mettere assieme attrazione fisica e ingenuità. La scova in Maria Schneider. Nasce Ultimo tango a Parigi (1972). È una bomba. Macché! È un'esplosione nucleare. Il film rompe ogni argine. Al botteghino tracima. La magistratura al soldo della Democrazia cristiana pensa alla ghigliottina. Anzi, un bel falò. Dopo che l'hanno visto tutti, ma proprio tutti, esce la bolla di scomunica. Mai più pubbliche proiezioni e negativo al rogo. Come se un film si potesse far sparire, bruciando il negativo italiano. E quello francese? E quello americano? Scemenza colossale. Ultimo tango a Parigi evidenzia la morte: del cinema di ieri e di oggi, della famiglia, del matrimonio, dei sentimenti, della coppia, dell'erotismo, dell'intimità. Lo sguardo di Bertolucci è angosciante, oscuro. La decadenza ci sta azzannando la giugulare. Ma nessuno lo capisce. Lo ritraggono come un pornografo. In realtà è un artista aristocratico e decadente, al quale non sfuggono i segni inquietanti dei tempi. Li cattura nella Parigi capitale della decadenza occidentale, quarant'anni in anticipo rispetto ai romanzi di Michel Houellebecq. Dopo essere stato Nietzsche, ponendosi «al di là del bene e del male», Bertolucci decide di diventare Spengler. Nasce così l'«opera totale», il fiume di immagini di Novecento (1976). Trecento sontuosi minuti con un solo drammatico limite: l'ideologia marxista. La rivoluzione si inceppa nella vuota retorica del fascismo male totale, nel fascismo degenerazione del capitalismo, nel fascismo pagato dagli agrari con la pelliccia per bastonare i contadini, nel fascismo vigliacco che non sa trovare la dignità della morte. Novecento però fuga ogni dubbio: Bertolucci è il regista esteticamente più dotato della sua generazione. Ma come proseguire? Ci prova con il piccolo La luna (1979) e con l'altrettanto piccolo Tragedia di un uomo ridicolo (1981). Poi capisce. Vira a Oriente e realizza il mastodontico L'ultimo imperatore (1987). Il figlio del poeta di Parma, l'amico del poeta dei ragazzi di vita, l'allievo di Godard stupisce tutti. E chi l'ha detto che un regista italiano non sappia misurarsi con Hollywood? Bertolucci dimostra che si può. Nove Oscar. Meglio ripeterlo: nove statuette dorate. L'ultimo imperatore è Il gattopardo di Visconti nell'poca della globalizzazione, quando ancora di globalizzazione non parlava nessuno. Cosa fare ancora? Niente. Il resto della filmografia di Bernardo Bertolucci è un riempitivo di lusso: il trascurabile Il tè nel deserto (1990), il più trascurabile Piccolo Buddha (1993), i più trascurabili ancora Io ballo da sola (1996) e L'assedio (1998). Un po' di freschezza sprizza nell'apertura de I sognatori (2003), rivisitazione del Sessantotto. Poi solo stanchezza, che si trascina in Io e te (2012). In conclusione si può affermare che in Bertolucci si riflette al meglio l'avventura italiana del secondo Novecento. Per diventare veramente grande - il più grande di tutti - Bertolucci avrebbe dovuto liberarsi dell'ossequio alla cultura dominante (fardello che neppure Visconti è stato capace di gettare alle ortiche). Dopo L'ultimo imperatore avrebbe dovuto girare di nuovo Novecento, senza bandiere rosse, senza vinti e vincitori, senza superiorità morali. Ma è un dettaglio. Bernardo Bertolucci è stato il maggior talento visivo del cinema europeo tardo novecentesco.

Bertolucci, l’ultimo tango si è spento. È morto ieri il grande regista Bernardo Bertolucci, aveva 77 anni e ha scritto tra le più belle pagine di cinema del 900. Con lui se ne va anche un’epoca fatta da grandi personaggi, grandi idee, grandi passioni, scrive Angela Azzaro il 27 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il Novecento non solo lo ha raccontato in uno dei più bei film della storia del cinema italiano, ma lo ha rappresentato, incarnato, vissuto, reso cinema. Bernardo Bertolucci, morto ieri all’età di 77 anni dopo una lunga malattia, era questo, è stato questo. E’ questo: lo spirito del Novecento, le sue spinte al cambiamento, le sue rivoluzioni, i suoi protagonisti e la sua immensa, soprattutto se guardata col senno dell’oggi, cultura, sensibilità, conoscenza. Sì, con Bertolucci si ha la sensazione che si chiuda in maniera definitiva, categorica, triste, la storia di un secolo che ha portato grandi trasformazioni, in cui si credeva, ci si credeva davvero, che la cultura potesse cambiare il destino della società e dei singoli. La sua vita è un film. Nato a Parma nel 1941, il padre è il famoso poeta Attilio, la cui passione per i versi contagia entrambi i figli, Giuseppe e Bernardo, anche quest’ultimo infatti esordisce con un libro di poesie. A vent’anni si reca a Parigi, la Nouvelle vague è appena esplosa e si fa contagiare da quel fervore che attraverso le immagini anticipa l’incedere del movimento studentesco. Godard, Truffaut, Chabrol lo dicono prima, lo dicono con forza: basta col cinema di papà, basta con la tradizione, vogliono la rivoluzione. Bertolucci li osserva, si fa contagiare. La sua strada è segnata. Ma, come tutta la sua carriera, la via non è lineare: è contorta, un su e giù continuo, uno sperimentare nella contraddizione. Il suo esordio avviene infatti nel segno di una sorta di “padre nobile”, anche se un padre speciale, unico: Pier Paolo Pasolini. Amico del padre, abitano nello stesso palazzo e Ppp lo sceglie per fare da assistente al suo primo film, L’accattone. Racconta Bernardo: «Gli dissi che non avevo mai fatto l’assistente e lui mi rispose che anche lui non aveva mai fatto il regista». Subito dopo c’è la prima volta dietro la macchina da presa: da un progetto sempre di Pasolini gira La Commare secca (1962), ma è con Prima della rivoluzione che dà il via, in maniera decisa, alla sua poetica in cui è centrale l’attenzione per la borghesia, i suoi compromessi, i suoi tabù, le sue speranze, le sue ipocrisie. Seguono Partner (1968), Strategia del ragno ( da Borges) e Il Conformista ( 1970) dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Prima di andare avanti con il racconto incredibile della sua carriera, fermiamoci un momento. Pensiamo a questo scorcio di secolo e di relazioni. Ci sono il papà Attilio, Pasolini, Moravia, Laura Morante, Laura Betti. E’ tutto un frullare di idee, passioni, contagi. Il cinema, più che mai, si trova al centro della sperimentazione di nuovi linguaggi. Ci sono Antonioni, Fellini, Bellocchio, i Taviani, Cavani, Ferreri. Ognuno con la sua poetica, ma con una caratteristica che li accomuna: la stessa temperie, la stessa voglia di usare lo schermo o la pagina di un libro per uscirne. Non è neorealismo, anzi è il suo superamento, è l’attenzione spostata sui soggetti, sulla dimensione umana e sociale, sull’urgenza di mettere in discussione tutto. La sera si va a cena insieme e si discute, si litiga. Nasce in questo contesto di rotture L’ultimo tango a Parigi. Il film esce nel 1972 ed è un successo. Con Marlon Brando, Maria Schneider, Jean Pierre Léaud, Massimo Girotti, è ambientato a Parigi ed è famoso e discusso ancora oggi per le scene di sesso. Il film viene censurato e sequestrato nel 1976, Bertolucci viene condannato per offesa al comune senso del pudore. Tornato nelle sale nel 1986, il film è diventato un caso dopo le accuse, confermate dallo stesso regista, di Maria Schneider. L’attrice ha infatti accusato Bertolucci e Brando di averla tenuta all’oscuro della scena di sesso più clamorosa e di aver subito per questo una violenza. Da quel momento l’opinione pubblica si è divisa: c’è chi considera il regista colpevole e L’ultimo tango a Parigi un brutto film e chi invece tende a separare i due piani. Il film più trasgressivo e per alcuni versi libertario del regista è diventato, secondo molti, l’emblema della violenza sulle donne, di un cinema sessista oggi travolto dalla battaglia del movimento # metoo. Ma è difficile per chi conosce e ama il cinema di Bertolucci chiuderlo nel ruolo di maschilista. Nel suo cinema c’è il cambiamento e in quel cambiamento anche i mutati rapporti uomo donna. Questa polemica arriva dopo. In quegli anni, anche se L’Ultimo tango a Parigi è stato censurato, Bertolucci è nel suo momento d’oro. Nel 1976 esce nella sale Novecento, un grande affresco che va dai primi anni di inizio secolo alla seconda guerra mondiale. Il cast è spettacolare. Ci sono Robert De Niro, Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Sterling Hayden, Burt Lancaster, Dominique Sanda e gli italiani Stefania Sandrelli, Alida Valli, Laura Betti, Romolo Valli e Francesca Bertini. Due amici nascono lo stesso giorno: uno è figlio dei ricchi proprietari, l’altro è figlio illegittimo di una contadina. La loro amicizia fa da sfondo alla Storia: nel film ci sono la prima guerra mondiale, l’ascesa del fascismo, la seconda guerra mondiale, la lotta partigiana. Ma tutto questo è raccontato sempre attraverso lo sguardo dei protagonisti, attraverso la lotta degli ultimi. E’ famoso l’utilizzo, nei titoli di coda, del dipinto Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Prima di arrivare ai grandi successi da Oscar, vale la pena ricordare il film La Luna (1979) che racconta in maniera delicata ma coraggiosa un rapporto incestuoso madre figlio. Segue La tragedia di un uomo ridicolo (1981) con Ugo Tognazzi e nel 1987 arriva finalmente L’ultimo imperatore, un grande successo internazionale che gli fa vincere ben 9 premi Oscar, tra cui quello come miglior film e migliore regia. E’ l’unico regista italiano ad aver vinto questo riconoscimento. E’la fase delle grandi produzioni internazionali, film molto ben costruiti ma che perdono, nella loro perfezione, quella carica poetica tipica del cinema di Bertolucci. Nel 1990 esce Il tè nel deserto da un romanzo di Paul Bowles, nel 1993 Il piccolo Buddha con Keneau Reeves. La carica umana e linguistica degli inizi ritorna in parte nell’ultima fase con Io ballo da sola, L’assedio, The Dreamers – I sognatori, Io e te, l’ultimo film realizzato e uscito nel 2012. Sono anni di riconoscimenti (nel 2007 vince il Leone d’oro alla carriera, nel 2011 la Palma d’oro a Cannes sempre alla carriera), di incontri con gli studenti, di amarezze per le polemiche sull’Ultimo tango a Parigi. Anni di malattia e di vita appartata, di interviste, forse di tanti, troppi ricordi. Oggi che è andato via, ne restano tanti anche a noi, spettatori e spettatrici del suo cinema, ricordi legati ai suoi bellissimi film, alle discussioni e alle passioni che il cinema prima suscitava e oggi forse non suscita più. E’ la nostalgia per un cinema che rendeva vivo il sogno più bello, quello di chi credeva nella rivoluzione.

Urge salvacondotto per Bernardo Bertolucci, scrive Camillo Langone il 6 Dicembre 2016 su "Il Foglio". Papa Paolo III, grande mecenate e per giunta, prima di salire sul soglio di Pietro, vescovo di Parma, tu che concedesti un salvacondotto al pluriomicida Cellini dicendo che “gli uomini come Benvenuto, unici nella lor professione, non hanno da essere obbligati alle leggi”, aiutami a far ottenere analogo documento al nostro geniale concittadino Bernardo Bertolucci che, senza avere mai ucciso, ha forzato Maria Schneider sul set di “Ultimo tango a Parigi”. Suo padre, il poeta Attilio, era chiamato “il divino egoista”. E divinamente fu egoista il figlio su quel set epocale, quando in combutta con Marlon Brando escogitò un uso anomalo del burro senza avvisare l’attrice. (Io lo dico sempre ai miei eccellenti pittori: siate egoisti! Mettete la vostra arte davanti a ogni altro pensiero. Oppure segnalatemi il nome di un eminente artista che abbia dato priorità a mogli, figli, consuetudini, leggi…). Eccitate da nuove rivelazioni, dopo 44 anni le iene femministe si sono avventate sul vecchio regista esigendo censura e galera: Papa Paolo, il salvacondotto urge!

Ultimo Tango a Parigi – Bertolucci, Brando e l’uso improprio di Maria Schneider, scrive su Donne di Fatto il 20 settembre 2013 su "Il Fatto Quotidiano" Lorella Zanardo, Autrice e blogger. “Sodomizzami!” implorava una fantastica Mariangela Melato ad un selvaggio e perplesso Giancarlo Giannini che sicuramente avrebbe gradito l’invito se avesse compreso il significato di quel termine. Il film di Lina Wertmueller “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” proponeva il naufragio su un’isola deserta di una ricca e viziata milanese con il mozzo della sua barca. E scoppiava la passione. Entrambi consenzienti si godevano l’isola deserta liberando i propri corpi. Beati loro. Negli ultimi giorni si è molto discusso intorno ad un’intervista rilasciata dal regista Bertolucci in cui racconta come la famosa scena in “L’Ultimo Tango a Parigi”, in cui Brando sodomizza Maria Schneider aiutandosi con un po’ di semplice burro che scatenò le fantasie italiche, non sarebbe stata concordata prima con l’attrice, tanto che questa serbò rancore al regista per tutta la sua breve vita. Marina Terragni ne ha fatto un post molto dibattuto, anche Loredana Lipperini ne ha scritto. Sulla rete trovate diverse opinioni. Il punto che mi pare importante discutere in modo divulgativo è se l’arte può giustificare la violenza. Un critico d’arte che conosco mi ha risposto infastidito “Sì, certo, l’arte giustifica tutto o quasi. Se Bertolucci avesse avvisato l’allora ventenne Schneider dell’intenzione di trasformare una scena che prevedeva un amplesso con una scena di sodomia, questa forse si sarebbe rifiutata o avrebbe “recitato”. Invece, attraverso il pianto dovuto alla sorpresa dell’attrice, abbiamo ottenuto un capolavoro”. Ah. Ma è proprio così? Non vorrei ci lanciassimo qui in una lapidazione del regista per la sua mancanza di totale di rispetto verso una persona. Credo questo sia evidente. Ma mi lascia basita la dichiarazione di Bertolucci che non considera che le attrici recitano, e che compito di un regista è dirigerle. Se così non fosse il cinema avrebbe seminato morti e feriti da decenni. Una guerra: meglio se ammazzi veramente, è più credibile. Un’amputazione in un film horror? Pure. E così via. Il mitico Actors’ Studio di New York si basa sul metodo Strasberg, un lungo training praticato da mostri sacri come Pacino, che prevede di sviluppare la capacità fisica mentale ed emotiva di far rivivere sullo schermo il personaggio che si sta interpretando. Non dunque rappresentarlo bensì “viverlo”. Funziona se si è bravi. E la storia del cinema è ricca di esempi di attori che “rivivono” in scena la vita di personaggi e storie reali. Anna Magnani è assolutamente credibile e giganteggia nel monologo L’Amore di Cocteau, ma non per forza per risultare credibile la scena di Anna doveva prevedere che lei realmente fosse state abbandonata dall’amante. A volte può accadere che un’attrice utilizzi la sua esperienza personale a scopi artistici, ma non è la norma. E dunque il problema è un altro. Bertolucci con molta probabilità, aveva scelto la giovanissima Schneider in base al suo aspetto fisico, e non alle sue doti artistiche, e dunque non riteneva che la giovane donna potesse “interpretare con verità” ciò che invece lui riteneva indispensabile. Che fare? La soluzione deve essere parsa facile sia al regista che a Brando: sorprendere Maria, non avvisandola delle loro intenzioni ed ottenendo così ciò che entrambi volevano. E’ dunque evidente come Schneider sia stata usata con violenza e senza rispetto. Però, è bene specificare, non in nome dell’arte. Per pigrizia forse. Per non dovere impiegare tempo a spiegare ciò che si voleva ottenere. Per noncuranza. Tutte motivazioni inaccettabili.

Non solo Bertolucci, da Hitchcock a Kubrick a von Trier: quando la crudeltà dei registi diventa arte. Il tira e molla etico attorno ad Ultimo tango a Parigi ricrea una sorta di atmosfera torbida sul set di quello che divenne comunque il secondo film più visto nella storia del cinema italiano con 15.632.773 spettatori; quando invece in fatto a crudeltà da set, nel dietro le quinte oltre la pellicola montata, possiamo annoverare ben altri “casi”, scrive Davide Turrini l'8 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “È consolante e desolante che qualcuno sia ancora così naïf da credere che al cinema accada per davvero quello che si vede sullo schermo”. Bernardo Bertolucci è tornato a parlare della scena di sesso, con burro, di Ultimo tango a Parigi qualche giorno fa. A far correre in rete alcuni tweet indignati di giovani e celebri star hollywoodiane – la regista Ava DuVernay, le attrici Anna Kendrick, Jessica Chastain e la protagonista di Westworld, Evan Rachel Wood – è stato un articolo di Elle dove si è recuperato un video del 2013 in cui il regista italiano raccontava la sequenza incriminata. Lui e Marlon Brando si erano accordati per girare la scena esplicita di sesso anale adoperando qualcosa che non era previsto in sceneggiatura: un panetto di burro. “Volevo che Maria sentisse la rabbia e l’umiliazione di quella scena”, racconta il maestro parmigiano nel video, “per questo non le ho detto cosa stava succedendo perché volevo la sua reazione da ragazza, non da attrice”. Il caso è montato online con la Chastain che parla di “violenza sessuale di un 48enne su una 19enne”; e una collega, Jenna Fischer chiede perfino il “rogo” per Ultimo tango a Parigi (ciò che peraltro avvenne il 29 gennaio ’76 su sentenza della Cassazione ndr). Bertolucci è intervenuto nelle scorse ore affermando: “Forse non sono stato chiaro. Ho deciso insieme a Marlon Brando, di non informare Maria che avremmo usato del burro. Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio. L’equivoco nasce qui. Qualcuno ha pensato, e pensa, che Maria non fosse stata informata della violenza su di lei. Falso! Maria sapeva tutto perché aveva letto la sceneggiatura, dove era tutto descritto. L’unica novità era l’idea del burro. È quello che, come ho saputo molti anni dopo, offese Maria, non la violenza che subisce nella scena e che era prevista nella sceneggiatura del film”.

Durante le riprese di Dancer in the dark nell’autunno 1999, dopo una recitazione martellante sequenze su sequenze, dodici ore al giorno, tutti i giorni per mesi, la cantante islandese Bjork non ne poté talmente più della presenza invasiva, frastornante, totalitaria di Von Trier, tanto da definirlo “un pornografo emozionale”, che all’improvviso senza dir nulla scomparve dal set. Alcuni emissari della produzione danese la ritrovarono dopo quattro giorni, ma fu necessario un contratto scritto con ciò che Lars poteva fare e cosa no per continuare le riprese del film. Soprattutto, e questo l’ha raccontato Bjork dopo qualche anno, Von Trier e i suoi non si potevano più permettere di ritoccare il tema del film, Selmasongs, composto dalla cantante. Von Trier accettò e il set si concluse. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 2000.

La “verità estatica” cercata negli esterni, spazi realistici dei suoi film, da Werner Herzog è concetto noto. I limiti di questa titanica espressività sono riassunti nel blocco centrale di Fitzcarraldo (1982), quando centinaia di veri indios vennero ingaggiati per trasportare un’enorme nave, senza effetti speciali e mettendo a repentaglio la loro vita, oltre un’alta collina che collegava due fiumi. Si racconta che il crudele Werner fece costruire tre navi, di cui una da decine di tonnellate per farle valicare realmente l’imponente collina trascinata dalle comparse, grazie ad un argano progettato da un ingegnere francese che però prevedeva una pendenza solo di 20 gradi, e non di 40 come avvenne in realtà. La sequenza in cui la nave scivola sulle traversine di legno arrabattate sul set è vera. Alcune fonti dell’epoca parlano di due morti tra le comparse, ma di verificato ci sono soltanto, o comunque, diverse decine di feriti. Anche il rapporto tra Herzog e l’amato/odiato Klaus Kinskirivela l’intima crudeltà del regista tedesco nel portare all’esasperazione il realismo recitativo dei propri attori. Se Herzog fece rimanere per ore e giorni Kinski su una zattera in balia delle correnti in Aguirre furore di Dio (1972), le reazioni isteriche e folli di Kinski non si fecero attendere, come del resto era già successo in Fitzcarraldo. Reazioni talmente eclatanti che un manipolo di indios peruviani, comparse in Aguirre, si offrirono al regista per uccidere Kinski. Herzog ci pensò a lungo, almeno raccontano i suoi biografi, ma rispose di no. 

Questa notizia non è mai stata smentita dai diretti interessati, quindi la prendiamo per vera. Tippi Hedren oggi 86enne, attivista animalista, madre di Melanie Griffith, fu corteggiata apertamente da Alfred Hitchcock prima e durante l’inizio delle riprese de Gli Uccelli (1963). Il maestro del brivido era letteralmente “cotto” della Hedren, ma lei non si voleva concedere. Nella sua recente biografia l’attrice ha parlato di avances ripetute sulla limousine di Hitch, in qualche angolo buio del set, tentativi di baci e palpeggiamenti. Quando il regista capì che non ci sarebbe stato nulla da fare, scatenò l’inferno sottoponendo l’allora 33enne affascinante star ad un trattamento da denuncia culminato nella sequenza in cui la donna viene assalita in casa, davanti e dentro la camera da letto, da verissimi e beccuti uccelli, per ben cinque giorni di set. Risultato: una settimana di stop a curare una ferita profonda vicino all’occhio procurata da un terribile corvaccio.

La maniacalità kubrickiana per girare ogni scena è storia del cinema. Tantissimi i ciak per ogni singola inquadratura, spesso per un’intera giornata. Vittima illustre del perfezionismo di Kubrick fu sicuramente Shelley Duvall sul set di Shining (1980). Partiamo dalla durata monstre delle riprese in Inghilterra di un anno, con nove mesi di set filati per la Duvall e giornate intere a recitare le sequenze di pianto, fino alla celebre sequenza del colpo inferto a Jack Nicholson con la mazza da baseball. Ebbene documentaristi e biografi segnalano che quell’inquadratura venne ripetuta 127 volte. “Le recensioni del film, anche dopo anni, parlano solo della meticolosità e del lavoro di Kubrick, mai una volta che segnalavano il lavoro che ho fatto, nessuna parlava di me”, spiegò l’attrice che tornata negli Stati Uniti si curò per un forte esaurimento nervoso. 

Addio a Bernardo Bertolucci: le 3 colonne sonore cult dei suoi film. Da Ennio Morricone a Ryuichi Sakamoto, al leggendario sax di Gato Barbieri in Ultimo tango a Parigi, scrive Gianni Poglio il 26 novembre 2018 su "Panorama". Hanno avuto un ruolo importante, a volte fondamentale, le musiche scelte da Bernardo Bertolucci come commento musicale dei suoi film. Scorrendo la filmografia del grande regista ne abbiamo selezionate tre che sono passate alla storia. Della musica e del cinema. 

Ultimo tango a Parigi - 1972. Un match perfetto con le atmosfere della pellicola, il commento sonoro ideale per l'immaginario erotico messo in scena da Marlon Brando e Romy Schneider. Autore delle musiche fu il geniale sassofonista di origini argentine Gato Barbieri che per il tema principale della soundtrack ricevette una nomination ai Grammy Award. 

L'ultimo Imperatore - 1987. Un capolavoro premiato con il Premio Oscar nel 1988. Frutto di una straordinaria ed ispirata sintonia tra musica ed immagini. Per realizzare l'album vennero coinvolti tre geni della musica contemporanea: David Byrne (leader dei Talking Heads), il musicista giapponese Ryiuchi Sakamoto e il compositore cinese Cong Su. 

Novecento - 1976. Un film straordinario e una colonna sonora eccezionale. Un commento sonoro intesnso ed altamente cinematico realizzato da Ennio Morricone. Tra le perle, il suono avvolgente degli archi nei sei minuti di Apertura della caccia e le suggestioni sinfoniche che caratterizzano Tema di Ada.

Bertolucci, Michael Douglas e le contraddizioni del #MeToo. Alcune scene di sesso di "Ultimo tango a Parigi" forse non potrebbero essere fatte oggi. Ecco l'effetto boomerang del movimento femminista, scrive Simona Santoni il 29 novembre 2018 su "Panorama". Ultimo tango a Parigi è uno dei film più trasgressivi, amati e discussi di Bernardo Bertolucci, il regista di Parma e del mondo morto il 26 novembre. Storia di amplessi e seduzione tra sconosciuti, ma anche di libertà sessuale, la sua data di uscita è il 1972 e fu un successo: a tuttoggi è il film italiano più visto di tutti i tempi in Italia. È anche l'unico film italiano condannato al rogo, nel 1976 (furono salvate alcune copie conservate presso la Cineteca Nazionale). La riabilitazione dalla censura giunse nel 1987. Eppure, probabilmente oggi, 2018, nell'epoca del #MeToo, Ultimo tango a Parigi non potrebbe essere girato, così com’è. La prevaricazione fisica di Marlon Brando, quarantottenne e bolso, su Maria Schneider, diciannovenne di beltà ingenua, la famosa scena in cui le pratica la sodomia aiutandosi col burro, alzerebbe flutti di proteste sulla scia del movimento di matrice femminista, come già in parte è stato, con Bertolucci accusato di cinema maschilista, lesivo della dignità della donna. Non a caso l'associazione italiana Non una di meno, che riunisce diverse realtà femminili, invece di compiangere Bertolucci in questi giorni omaggia Maria Schneider. Su Twitter scrive: "Complicità tra maschi, sopraffazione fisica e psicologica, abuso di potere... la storia della scena di Ultimo tango a Parigi è quella di uno stupro. Oggi ricordiamo #MariaSchneider che rimase per sempre segnata da quella violenza. #BernardoBertolucci". Maria Schneider, infatti, trent'anni dopo l'uscita di Ultimo tango a Parigi in un'intervista accusò pesantemente sia Brando che Bertolucci: dichiarò di essersi sentita umiliata e abusata in quella sequenza, soprattutto per il particolare del burro di cui non era a conoscenza. Sulla sceneggiatura c'era tutto il resto, ma non la presenza del burro da usare come lubrificatore, che le sembrò svilente e la ferì indelebilmente (il sesso sul set fu ovviamente fittizio; ma a mortificarla fu quel particolare aggiunto al momento del ciak, che Bertolucci le omise perché voleva che avesse una reazione stupita e spontanea sul set). Bertolucci successivamente si scusò con Maria Schneider, anche se ammise che lo avrebbe rifatto: l'amore per l'arte sopra tutto?

Le accuse contro Michael Douglas. Nella scia di contraddizioni che si porta dietro il #MeToo c'è finita anche Catherine Zeta Jones. Suo marito Michael Douglas è stato accusato di molestie da una sua ex assistente, molestie risalenti a circa trent'anni fa, quando l'attore era all'apice del suo sex appeal e della popolarità: nel 1989, secondo l'assistente, si sarebbe masturbato davanti alla donna. Poi le accuse sono svaporate, ma la famiglia Douglas-Jones ha vissuto mesi critici. Al Times l'attrice gallese ora ha riportato tutta l'angoscia vissuta: "Io e i miei figli siamo stati devastati da quelle accuse. Ed ero spaccata in due su dove fosse la mia morale assoluta", ha raccontato. "Questa donna è emersa dal nulla e ha accusato mio marito. Ho avuto una conversazione molto aperta con lui, con i ragazzi nella stessa stanza, e gli ho chiesto se si rendeva conto se qualcos'altro poteva venire fuori…"

Ed ecco l'affondo al #MeToo: "(Michael) ci ha detto che non c'era nessuna storia e che il tempo avrebbe chiarito tutto. Così è stato. Nulla ha confermato le accuse. E per ogni accusa che non ha conferma, il movimento torna indietro di 20 anni".

Il boomerang del #MeToo. Sorto in seguito al vaso di Pandora aperto dalle denunce di molestie contro il potente produttore cinematografico Harvey Weinstein, il movimento #MeToo (traduzione: Anche io) prende il nome dall’hashtag usato per la prima volta dall’attivista Tarana Burke. Premiato dal Time come "Persona dell'anno 2017", il movimento unisce le "silence breakers", le donne che hanno rotto il silenzio e denunciato le molestie subite negli anni sul posto di lavoro. Nel tempo però ha assunto sfumature contraddittorie. Si sono susseguite innumerevoli denunce, testimonianze difficili da fare, riportate a giornali e tv, ma spesso alcun accertamento in tribunale. Probabilmente è anche difficile dimostrare l'accadimento di fatti avvenuti per lo più molti anni prima. Intanto nel febbraio scorso Jill Messick, ex produttrice della Miramax che aveva lavorato nella società di Weinstein, si è suicidata: secondo i famigliari a spingerla al gesto estremo sono state le accuse di Rose McGowan (l'ex amica di Asia Argento paladina del #MeToo) di non essere stata solidale con le donne molestate e la conseguente gogna della stampa. Anche l'attore svedese Benny Fredriksson, ex capo del centro artistico Kulturhuset Stadsteatern di Stoccolma, a marzo si è suicidato dopo le accuse - alcune anonime - di molestie verso molte attrici; nessuna indagine ha provato la sua colpevolezza. La stessa Asia Argento, insieme alla McGowan voce forte del movimento, ha vissuto sulla sua pelle il boomerang del #MeToo: da presunta molestata è diventata presunta molestatrice. E ora si è sfilata dal gruppo femminista. Il rispetto delle donne, come degli uomini, della dignità umana in genere, va prima di tutto. E proprio in tal senso va anche il garantismo, che non dovrebbe essere calpestato. Lo si deve anche e proprio alla causa stessa delle donne veramente molestate, oltraggiate e schiacciate da un sistema di potere spesso in pantaloni. 

“Ultimo Tango a Parigi” è il capolavoro sovversivo di Bertolucci (e se pensate al burro, non avete capito nulla), scrive il 27 novembre 2018 L’Inkiesta. La scena della sodomizzazione, per molti motivi, ha occultato la vera carica scandalosa del film di Bertolucci. Che sta in un modo inedito di trattare la sessualità maschile. E nel modo provocatorio di parlare della (sempre sacra) famiglia. Domenica scorsa Cristiano Ronaldo è sceso in campo con uno sbaffo di rossetto rosso sulla guancia, in segno di omaggio alla Giornata contro la violenza sulle donne. Si tratta dello stesso Ronaldo indagato per lo stupro di una ragazza nel 2009. Nella fattispecie, dicono le carte, una penetrazione anale non consensuale, e senza nemmeno un filo di burro, probabilmente introvabile nei frigobar degli alberghi salutisti e vegan-friendly di Las Vegas. Ma a quanto pare quella effrazione sessuale se la sono dimenticata in molti, a cominciare da Ronaldo, che non solo continua a giocare e a segnare, venerato ed esaltato dalla squadra e dai fan, ma si sente autorizzato a solidarizzare pubblicamente con le vittime di stupro, che è un po’ «come vedere Hitler a una marcia per la pace», ha osservato qualcuno su Twitter. Invece una sodomizzazione simulata, quella di Ultimo tango a Parigi - con una Maria Schneider vestita e un Marlon Brando altrettanto vestito – nessuno è riuscito a levarsela dalla testa dopo quasi cinquant’anni, anche se ne ha solo sentito parlare. Tanto che ieri in nessun servizio sulla morte di Bernardo Bertolucci è mancato un riferimento, un box, una rievocazione della famosa scena che ha cambiato per sempre il nostro modo di vedere sia il burro che Bertolucci. È come se tutta la carriera e la filmografia del maestro di Parma girassero intorno a quell’Ultimo tango, come satelliti in un sistema solare. Difficile stabilire se Mercurio è Il conformista, Marte Strategia del ragno, Saturno l’Ultimo imperatore e Giove Novecento, ma sul Sole non ci sono dubbi: è il film del 1972, la pellicola italiana più vista di tutti i tempi, bruciata e risorta, censurata e dissequestrata, maledetta e venerata, Ultimo tango a Parigi. E il nucleo centrale di questo sole di celluloide, da cui emanano ancora radiazioni termonucleari (e che, più materialmente, assicurò a Bertolucci la credibilità e le risorse finanziarie per i successivi filmoni da Oscar) sono quei pochi minuti a partire da quando Paul dice a Jeanne «portami il burro, voglio farti un discorso sulla famiglia» e lei lo guarda sorpresa. Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Sorpresa genuina, perché nel copione di Maria Schneider c’era l’aggressione sessuale, ma non nessuna traccia del burro. Oggi sappiamo che era una variazione escogitata a colazione da Brando e subito approvata da Bertolucci: un accordo segreto, tutto al maschile, fra il primattore e il regista, all’insaputa della giovanissima attrice, per estorcerle un’espressione realmente scioccata e umiliata. «Volevamo la sua reazione spontanea a quell’uso improprio», ha rivelato qualche anno fa Bertolucci, ammettendo di sentirsi in colpa verso Schneider, morta di tumore a 58 anni. Parole che, un anno prima di #MeToo hanno scatenato l’ira di molte star di Hollywood, da Chris Evans a Jessica Chastain. Qui da noi, tutti zitti. Forse perché crediamo che in fondo l’arte giustifichi certi machiavellici espedienti e crediamo ancora all’aneddoto di De Sica che infila di nascosto i mozziconi di sigaretta in tasca al piccolo Enzo Staiola, il bimbo di Ladri di biciclette, per poi mortificarlo e farlo piangere con sufficiente realismo. Fake news smentita dallo stesso Staiola, oggi 79enne: «A quei tempi tutti andavano per cicche, figuriamoci se mi vergognavo. Ti mettevano delle gocce negli occhi e dopo due minuti piangevi.») È da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto. Ma la potenza termonucleare di quella scena è proprio nella faccia autenticamente umiliata e spaventata di Schneider mentre subisce la violenza di Brando, e intanto è costretta a ripetere una preghiera antifamilista che oggi suona sacrilega come e più di allora: «Santa famiglia, sacrario dei buoni cittadini, dove i bambini vengono torturati finché non dicono la prima bugia, la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo.» Nel 2018 come nel 1972 di Ultimo tango, della famiglia bisogna parlare come dei morti, «nil nisi bene», basta pensare al vespaio che ha suscitato Angela Finocchiaro con la sua battuta sui papà «pezzi di merda». Ed è un peccato che la sequenza del burro sia così detonante, perché copre la forza eversiva di altri momenti del film. Paul che chiede a Jeanne di penetrarlo a sua volta con le dita. Paul che le dice con dolcezza «non è la maniglia della porta,» quando lei gli manipola meccanicamente genitali. Paul e l’amante della moglie defunta, che rievocano la morta indossando le sue vestaglie. Ultimo tango, per quanto pensato e girato con metodi prevaricatori e sessisti, annunciava una possibile rivoluzione sessuale al maschile. Il divo più carismatico e macho della sua epoca dava voce e volto a una virilità fragile, sgualcita, traumatizzata, che si interrogava su se stessa, che rideva amaramente dei feticci patriarcali, e si faceva schifo da sé nella propria violenza. Quell’intuizione del giovane Bertolucci sembra caduta nel vuoto: troppo scandalosa e difficile da accettare per i maschi, e non c’è burro che possa renderla meno scomoda e urticante. Eppure è da lì, dall’uomo e dalla ragazza che si accoppiano disperatamente in un appartamento senza mai dirsi i loro nomi, che si potrebbe, si dovrebbe ripartire. Per rimettere in discussione ciò che ancora rende così difficile parlarsi e capirsi, fra esseri umani, sia fuori e che dentro il letto.

Addio a Sandro Mayer: è morto il giornalista e volto tv. Si è spento a 77 anni l'opinionista di Ballando con le stelle e direttore del settimanale Di Più. Sandro Mayer è stato nel cast di Domenica In e Buona Domenica, scrive Francesco Canino il 30 novembre 2018 su "Panorama". Si è spento all'improvviso, nella discrezione più assoluta, Sandro Mayer. Il giornalista è morto a Roma, nella notte del 30 novembre, alla vigilia del suo 78esimo compleanno che avrebbe festeggiato il prossimo 21 dicembre. Laureato in scienze politiche è stato per vent'anni direttore del settimanale Gente e dal 2004 dirigeva alcune testate di Cairo Editore, tra cui Di Più, ed era tra gli opinionisti fissi di Ballando con le stelle. Ironico, pungente, spesso dissacrante ma mai volgare. Per oltre 50 anni ha vissuto nei giornali e per il suo lavoro, inventando tendenze e tracciando la linea dei giornalismo popolare italiano. Copiato da molti, criticato e amato, dopo una carriera da inviato a Novella e poi a Oggi, diresse Epoca e Bolero: ma la sua creatura più brillante fu senza dubbi Gente, che diresse per vent'anni portandolo in vetta alla vendite nel segmento dei settimanali. Il miracolo si è ripetuto con Di Più, nato dal sodalizio con Urbano Cairo. Le sue copertine erano un cult, nel suo giornale trovavano spazio nell'arco di poche pagine i servizi su Padre Pio, i reali europei, le ribriche sugli animali, i personaggi delle soap e ancora le poesie a fumetti. Il suo segreto? Mischiare l'alto e il basso, portare a casa scoop (qualche volta internazionali), stare alla larga dai social e raccontare senza inutili snobberie la pancia del paese. Da comunicatore di razza, sapeva parlare a tutti. Stacanovista di ferro, pretendeva molto dai suoi collaboratori ma sapeva dare molto, confermando di essere uno degli ultimi grandi direttori in circolazione, sicuramente tra quelli capaci di vendere i giornali. "Quando ho deciso di fare il giornalista? Presto. A Napoli passavo ogni giorno sotto la sede del Mattino e vedevo i giornalisti seduti al bar che parlavano tra loro, si arrabbiavano. Invece quando andavo a trovare mia zia che lavorava in Provincia c’era un silenzio mortale", ha svelato in una recente intervista. Tra le sue intuizioni più riuscite, c'è il racconto della vita di Padre Pio. "Una notte mi è apparso ed era incavolato nero perché non lo mettevo sul giornale; io nel sogno gli rispondevo: “Non ti metto perché non fai vendere". La mattina dopo ero talmente turbato che feci riaprire il giornale per inserire qualcosa sul santo e misi pure lo strillo in copertina. Nei giorni successivi il distributore mi disse che il giornale era andato a ruba per Padre Pio". Mayer lascia la moglie Daniela e la figlia Isabella.

Mayer da Domenica In a Ballando con le stelle. Il suo esordio in tv, risale alla fine degli anni '80, a Domenica In, voluto da Gianni Boncompagni. "Ingaggiammo Sandro Mayer, un grande: fu una piccola rivoluzione perché all’epoca i giornalisti non venivano ancora chiamati nei programmi d’intrattenimento", ha raccontato a Panorama.it Irene Ghergo. Le sue trasversali interviste a personaggi - Luciano Pavarotti o alla principessa Ira Von Fürstenberg - erano un cult. Poi lo chiamò Maurizio Costanzo nel maxi cast di Buona Domenica e negli ultimi anni è diventato opinionista fisso di Ballando con le Stelle. Da commentatore a bordo pista del programma di Milly Carluccinon si è sottratto a confronti, battute e anche ironie, come quelle - anche pesanti - sul suo presunto parrucchino. "Non è un parrucchino, ma un trattamento che non mi decidevo a fare perché troppo costoso. L'ho fatto. Per me", ha poi spiegato.

Sandro Mayer, il clamoroso mistero sulla morte. La figlia Isabella a Pomeriggio 5: "Non è come avete detto", scrive il 30 Novembre 2018 Libero Quotidiano. L'ultimo mistero di Sandro Mayer. Il direttore di DiPiù e giurato di Ballando con le stelle è scomparso a Milano dopo una "improvvisa, brutta infezione", ha spiegato la figlia Isabella Mayer a Barbara D'Urso, intervenendo in diretta a Pomeriggio 5. Prima imprecisione, sottolineata dalla figlia: "Volevo precisare che è mancato a Milano, non a Roma". Secondo punto, non si è trattato di una battaglia contro la malattia: "È stato in ospedale e pensava di uscire dopo pochi giorni, purtroppo non ne è più uscito. È successo tutto all'improvviso per una brutta infezione. Ci tengo a precisare che è stata una cosa inaspettata, arrivata in una settimana, al massimo due. Il 10 novembre era il mio compleanno e stava bene". Il terzo, quasi surreale mito da sfatare è quello sull'età: "Un'altra cosa - ha precisato Isabella Mayer -: non amava dire la sua età. Lui è più giovane, non aveva gli anni che avete detto". Anche così, involontariamente da divo, se ne va un maestro del giornalismo italiano. 

Sandro Mayer, la figlia Isabella a Pomeriggio 5: "Non era malato, tutto improvviso". Il motivo della morte, scrive il 30 Novembre 2018 Libero Quotidiano". "Mio padre non era malato". A svelare il motivo della morte di Sandro Mayer è la figlia Isabella Mayer, intervenuta in diretta a Pomeriggio 5 da Barbara D'Urso. Secondo alcune indiscrezioni, il direttore di DiPiù scomparso a quasi 78 anni avrebbe combattuto da tempo contro la malattia. Tutto falso. "È successo all'improvviso, ha avuto una brutta infezione", ha dichiarato commossa la donna, incinta del secondo figlio. "Non voglio parlare della malattia, che è stata improvvisa. Lui non l'ha mai fatto e se ci sta guardando ora so che non vorrebbe. Quando è entrato in ospedale qualche giorno fa non è più uscito -, ha continuato commossa Isabella Mayer -. Mio padre ci teneva molto ai suoi nipotini. L'ultima volta che l'ho visto sono andata via perché dovevo fare un'ecografia e lui, sorridente, mi ha chiesto di mandargli una foto. Mi ha salutato col sorriso".

Morto George Bush sr., chi era il 41esimo presidente Usa. Si è spento a 94 anni l'uomo della prima Guerra del Golfo. Repubblicano convinto, detestava Trump, scrive l'1 dicembre 2018 Panorama. George Bush senior, 41esimo presidente degli Stati Uniti si è spento a 94 anni. A darne l’annuncio il figlio, George W. Bush, che ne aveva seguito le orme alla Casa Bianca dopo che il padre aveva guidato gli Stati Uniti dal 1989 al 1993. E' stato il più longevo Presidente degli Stati Uniti. Aveva condotto la Guerra del Golfo e la sua popolarità aveva raggiunto l’apice proprio nel 1991. Unanime il cordoglio per la sua scomparsa, con messaggi anche da parte dei suoi successori e avversari politici, compreso Donald Trump, verso il quale Bush senior non aveva nascosto la sua avversione fin dal principio, tanto da non averlo voluto ai funerali della moglie, otto mesi fa.

Chi era Bush senior. Nato a Milton nel Massachusetts il 12 giugno del 1924, George Bush è morto a Houston, in Texas, la sera del 30 novembre. Fu un eroe della Seconda Guerra mondiale, alla quale partecipò come il più giovane pilota della storia della US Navy, abbandonando gli studi e venendo abbattuto. Li riprese al termine del conflitto, laureandosi a Yale, dedicandosi poi al settore petrolifero in Texas. Bush senior (chiamato così per distinguerlo dal figlio George W. Bush) fu deputato dal 1966 al 1970, senza mai diventare senatore. Richard Nixon lo nominò Ambasciatore all’Onu («Non per il cervello, ma per la fedeltà») poi, in pieno Watergate, assunse la guida del Partito Repubblicano. Fu anche numero 1 della Cia, prima di diventare il vice durante la presidenza di Ronald Reagan. Dal 1989 al 1993 fu capo della Casa Bianca, traghettando gli Usa nella Guerra del Golfo contro Saddam Hussein. Non riuscì, però, a raddoppiare il mandato, sconfitto da Bill Clinton: ottenne solo il 37% dei voti e decise di ritirarsi dalla politica per diventare «Nonno a tempo pieno» come disse senza vergogna. Tornò in pubblico solo in altre due occasioni: nel 2004 per le vittime dello tsunami in Asia e l’anno dopo per gli sfollati dell'uragano Katrina.

Quattro anni fa aveva stupito il mondo lanciandosi da un paracadute per “festeggiare” i suoi 90 anni, nonostante fosse costretto su una sedia a rotelle da tempo, a causa del Parkinson.

L’idea repubblicana e l’avversione per Trump. "Poppy", come era chiamato in famiglia, ha incarnato un certo tipo di valori tradizionali repubblicani, radicalmente scardinati da Donald Trump, alla cui corsa alla Casa Bianca si è fermamente e apertamente opposto fin dalle primarie. Contro il tycoon era sceso in campo anche l’altro suo figlio, Jeb, sconfitto. Non a caso George Bush ha appoggiato - primo ex Presidente della storia Usa a farlo - il candidato democratico. Assente per motivi di salute alla cerimonia di insediamento del presidente eletto Trump, il 20 gennaio del 2017, ha chiesto espressamente che il magnate non fosse presente ai funerali della moglie Barbara, scomparsa lo scorso 17 aprile, dopo 73 anni di matrimonio. In rappresentanza della Casa Bianca vi ha partecipato la First Lady, Melania.  

Le reazioni. Ad annunciare la sua scomparsa è stato il figlio George W. Bush, che ne ha seguito le orme come 43esimo presidente Usa. "Abbiamo perso un patriota e un umile servitore dell'America" ha commentato l’ex presidente, Barack Obama, che era andato a trovarlo mercoledì scorso, in occasione della sua visita a Houston, dove era intervenuto a un evento della Rice University. "Ha ispirato generazioni di americani al servizio pubblico" si legge in un tweet del Presidente Usa, che ha ricordato l’esortazione di Bush ad essere “mille punti di luce che illuminano la grandezza, la speranza e la possibilità dell’America nel mondo”.

E’ morto George Bush senior, l’America piange il 41° presidente. L’ex presidente si è spento all’età di 94 anni, scrive l'1 Dicembre "Il Dubbio".  Il quarantunesimo presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, si è spento ieri all’età di 94 anni. L’uomo, che era diventato lo scorso novembre il presidente americano più longevo della storia americana (raggiungendo i 93 anni ed i 166 giorni e superando così Gerald Ford che aveva 93 anni e 165 giorni quando mori nel dicembre 2006). Bush era da tempo malato di Parkinson, che lo aveva costretto su una sedia a rotelle. Il portavoce della famiglia Bush, Jim McGrath, ha spiegato che l’ex presidente, e deceduto poco dopo le 22 di venerdì, circa otto mesi dopo la morte della moglie, Barbara Bush, scomparsa lo scorso aprile all’età di 92 anni. Annunciando la morte del padre, il figlio, George W. Bush, che e stato presidente dal 2001 al 2009, lo ha ricordato in dichiarazione come “un uomo di altissimo carattere e il miglior papa che un figlio o una figlia possano avere”. Nessuna informazione sulle circostanze della sua morte sono state rilasciate, ma negli ultimi anni era stato ricoverato più volte, riuscendo pero a riprendersi. Immediate le condoglianze dell’attuale presidente, Donald Trump: “Melania ed io ci uniamo alla nazione in lutto per piangere la perdita dell’ex presidente George H. Bush”; lo afferma, in una nota diffusa da Buenos Aires dove partecipa al G20. “Attraverso la sua autenticità essenziale, l’arguzia disarmante e l’incrollabile impegno nei confronti della fede, della famiglia e della nazione, il presidente Bush ha ispirato generazioni di suoi compatrioti americani al servizio pubblico”. Anche l’ex presidente Obama ha scritto un tweet di cordoglio: “L’America ha perso un patriota e un umile servitore in George Herbert Walker Bush. I nostri cuori oggi sono pesanti, ma sono anche pieni di gratitudine. I nostri pensieri vanno a tutta la famiglia Bush e a tutti quelli che sono stati ispirati dall’esempio di George e Barbara”.

DALLA FINE DELLA GUERRA FREDDA ALLA GUERRA DEL GOLFO. George Bush senior sara ricordato come il comandante in capo delle forze armate Usa nella guerra del Golfo, la prima in diretta tv grazie alla copertura della Cnn. Un conflitto in cui gli Usa attaccarono l’Iraq alla guida di una coalizione composta da 35 stati formatasi sotto l’egida dell’Onu, cacciando le forze di Baghdad dal Kuwait ma senza rimuovere dal potere Saddam Hussein. La prima guerra del Golfo fu la reazione all’invasione del Kuwait, il 2 agosto del 1990, un’aggressione gratuita di uno Stato sovrano e pacifico che scosse l’opinione pubblica mondiale. Il 4 agosto Bush decise l’intervento militare che fu preparato meticolosamente nei sei mesi successivi mentre nè le sanzioni, nè le pressioni degli altri Paesi arabi riuscivano a indurre Saddam a ritirarsi. L’Arabia Saudita acconsenti a Washington di ammassare quasi mezzo milione di soldati americani e un imponente dispositivo bellico lungo il confine iracheno. La guerra iniziò la notte del 17 gennaio 1991, con i bombardamenti dell’aviazione Usa che grazie alle nuove tecnologie furono documentati dalle tv americane in Arabia Saudita e persino da Baghdad, con le immagini del cielo solcato dai proiettili traccianti e illuminato dalle esplosioni. E’ stata la prima guerra “in diretta TV”: una guerra le cui immagini per la prima volta furono mostrate sugli schermi dei televisori di tutto il mondo con tre giornalisti della Cnn – Bernie Shaw, John Holliman, e Peter Arnett – che fecero la storia del giornalismo raccontando il conflitto in diretta dalle citta sotto attacco.  Il 28 febbraio il presidente Bush proclamò un cessate il fuoco unilaterale, essendo ormai completata la liberazione del Kuwait. Si pensò che il regime sarebbe imploso, ma le rivolte di curdi e sciiti furono soffocate nel sangue e Saddam rimase al potere altri 12 anni, fino alla guerra portata da un altro Bush. George H. W. Bush fu l’uomo che firmò la fine della Guerra Fredda. I 12 anni di Bush Senior alla Casa Bianca furono quelli che segnarono la fine del lungo conflitto a distanza con l’Unione sovietica. Il primo passo fu l’avvio, deciso da Reagan, delle trattative con l’Urss per la limitazione degli arsenali nucleari, lo Start che fu firmato da Bush e Gorbaciov il 31 luglio 1991 e seguito dallo Start II (che limitava i missili a testata multipla) firmato da Bush in chiusura di mandato, il 3 gennaio 1993. La presidenza Bush prese avvio in un anno cruciale per i rapporti fra Occidente e Paesi comunisti. L’Urss era in piena crisi economica e il 15 febbraio di quell’anno completo il ritiro dall’Afghanistan. La caduta del Muro (demolito definitivamente due anni dopo) nel 1989 era stata la materializzazione della fine della contrapposizione dei blocchi. Nel vertice di Malta del 3 dicembre 1989 Mikhail Gorbaciov e George H. W. Bush dichiararono la fine della Guerra Fredda. Il presidente americano si trovò a gestire la transizione del mondo verso uno scenario completamente nuovo. In modo violento, come la cacciata e l’uccisione di Nicolae Ceausescu in Romania nel dicembre 1989, o democratico come l’elezione di Lech Walesa alla presidenza della Polonia che nel dicembre 1990 si insedio al posto del generale Wojciech Jaruzelski il Blocco dell’Est si sgretolo. Nel 1991, il giorno di Natale, l’atto finale: la bandiera rossa dell’Urss fu ammainata e sostituita dal tricolore di una Russia ora alla guida di una Confederazione degli Stati Indipendenti.

È morto George H. W. Bush: da petroliere a presidente Usa. Il 41° presidente degli Stati Uniti, George H. W. Bush, aveva 94 anni. Padre dell'ex presidente George W. Bush e dell'ex governatore della Florida, Jeb Bush, era stato deputato, ambasciatore all'Onu per gli Usa, diplomatico in Cina e capo della Cia. Poi gli anni della Casa Bianca, prima con Reagan e poi come presidente, scrive Orlando Sacchelli, Sabato 01/12/2018 su "Il Giornale". Si è spento l'ex presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush: ha compiuto 94 anni il 12 giugno scorso. Pochi mesi fa aveva dato l'ultimo saluto a sua moglie Barbara, scomparsa il 17 aprile a 92 anni. Padre dell'ex presidente George W. Bush e dell'ex governatore della Florida, Jeb Bush, George Herbert Walker Bush era stato vicepresidente durante i due mandati di Ronald Reagan, prima di essere eletto presidente nel 1988. Alla Casa Bianca era rimasto solo quattro anni, avendo perso l'elezione per il secondo mandato, sconfitto dal democratico Bill Clinton. Una "bocciatura" che gli era pesata molto, visto e considerato che aveva lavorato bene e persino vinto una guerra (contro Saddam Hussein). Bisogna ricordare, però, che nella débâcle repubblicana del novembre 1992 pesarono - e non poco - i voti presi dal candidato indipendente Ross Perot. Nato a Milton (Massachusetts) il 12 giugno 1924 da Prescott Bush (senatore dal 1952 al 1963) e da Dorothy Walker Bush, la sua era una delle famiglie più in vista dell'aristocrazia finanziaria della costa orientale americana. Dopo gli studi nella prestigiosa Phillips Academy di Andover (fondata nel 1778 ai tempi della rivoluzione americana), ebbe un "battesimo di fuoco" al servizio del suo Paese. A soli 18 anni, infatti, decise di arruolarsi nell'aviazione, dopo l'attacco di Pearl Harbor. Ufficiale pilota della U.S. Navy, durante una missione, che portò a termine con successo, fu abbattuto dai giapponesi: ottenne per questo una decorazione. Finito il conflitto si iscrisse all'università a Yale. Sposatosi con Barbara Pierce nel 1945, tre anni dopo si laureò in Economia. Si trasferì poi in Texas, con la famiglia, iniziando a occuparsi di petrolio. Fece fortuna nel business dell'oro nero, al punto che, a soli quarant'anni, era milionario. Ma nonostante i successi nel lavoro aveva il pallino della politica, sicuramente trasmessagli dal padre. Dopo un primo tentativo andato male nel 1964 (fu sconfitto dal senatore democratico Ralph Yarborough) due anni dopo Bush riuscì a farsi eleggere alla Camera dei Rappresentanti, e fu rieletto nel 1968, anno importante per i repubblicani, visto il successo di Richard Nixon alla Casa Bianca. Il presidente apprezzò molto le qualità di Bush, quella sua voglia di battersi senza alcuna paura, anche quando le possibilità di vincere erano ridotte al lumicino. E per premiare questo brillante quarantenne lo nominò ambasciatore alle Nazioni Unite, incaricò che Bush ricoprì dal 1971 al 1973. Nel momento più duro per l'amministrazione Nixon, durante lo scandalo Watergate, il presidente gli chiese di guidare il Partito Repubblicano. Finita l'era Nixon, la carriera di Bush si orientò nel campo della politica internazionale. Il nuovo presidente Gerald Ford, infatti, lo mandò a Pechino a guidare l'ufficio diplomatico. Il periodo era tutt’altro che facile nei rapporti tra Usa e Cina, nonostante lo storico viaggio di Nixon nella Repubblica popolare cinese (1972). In Cina Bush lavorò molto bene, contribuendo ad avviare solidi rapporti diplomatici tra Pechino e Washington. In un altro momento difficile per il suo Paese, in cui la Cia fu investita da uno scandalo per alcune attività illegali, Ford lo nominò a capo dell'agenzia di intelligence. Incarico che ricoprì fino all'ingresso di Jimmy Carter alla Casa Bianca. Il ritorno in Texas, però, fu breve. Bush decise di dare battaglie alle primarie repubblicane del 1980. Dalla sua parte aveva l'ala centrista-moderata del partito repubblicano. Ma non ce la face: troppo forte, infatti, era la forza dell'ala destra, magistralmente rappresentata dall'ex attore (nonché ex governatore della California). Reagan lo premiò portandolo con sé alla Casa Bianca, come vice, anche per le indiscutibili esperienze di Bush in politica estera. Gli otto anni come braccio destro di Reagan furono molto importanti, anche se Bush rimase sempre un passo indietro, come previsto dalla Costituzione americana. Nel 1988, però, arrivò il suo turno e riuscì a farsi eleggere presidente, sconfiggendo il democratico Michael Dukakis. Furono anni memorabili, non solo per l'America ma per tutto il mondo: la caduta del Muro di Berlino, la fine della Guerra fredda e della stessa Unione Sovietica. Bush si diede da fare soprattutto in politica estera. Non solo perché era il suo pane, ma perché lo richiedeva il momento storico. Nonostante i successi raccolti (non da ultimo la guerra lampo che pose fine all'invasione del Kuwait decisa da Saddam Hussein), Bush non riuscì a raccogliere i frutti del suo lavoro. Il giovane e rampante Bill Clinton, ex governatore dello sperduto Arkansas, lo sconfisse. Bush fu battuto soprattutto per due cose, vediamo quali: i voti strappati dal candidato indipendente Ross Perot (prese oltre 19 milioni di voti, pari al 18,9%); la mancata promessa di ridurre le tasse, dopo che la campagna elettorale di Clinton bombardò le tv con uno spot in cui si vedeva Bush che, nel 1988, pronunciava la seguente frase: "Read my lips: no new taxes" (leggete le mie labbra: nessuna nuova tassa). Ma poi fu costretto ad alzarle. E gli americani non glielo perdonarono.

Barbara e George, una vita insieme. George e Barbara hanno vissuto insieme 73 anni. Nata a Flushing, quartiere del Queens, nel 1925, Barbara era la terzogenita di Marvin Pierce, presidente della McCall Corporation, editrice di Redbook and McCall’s, una rivista molto popolare. Sua madre, Pauline Pierce, era figlia di un giudice della Corte Suprema dell’Ohio. Uno dei suoi antenati era Franklin Pierce, 14° presidente degli Stati Uniti. Barbara conobbe il suo futuro marito in una serata di ballo di Natale in un prestigioso country club di Greenwich (Connecticut) nel 1941. Lui dopo l’accademia militare si arruolò nell’U.S. Navy e battezzò il proprio aereo “Barbara”. Tornato dalla guerra Bush sposò la sua Barbara nel gennaio 1945. Lei per convolare a nozze lasciò l’esclusivo Smith college. La giovane coppia si trasferì a New Haven, Connecticut, dove Bush si iscrisse all’università di yale. Perfezionati gli studi la famiglia si trasferì in Texas, nel 1948, dove George iniziò a lavorare nel settore del petrolio. Insieme ebbero sei figli, quattro maschi e due femmine: George Walker Bush (1946), Pauline Robinson “Robin” Bush (morta nel 1953 a soli 4 anni per leucemia), John Ellis “Jeb” Bush (1953), Neil Mallon Bush (1955), Marvin Pierce Bush (nato nel 1956), Dorothy “Doro” Bush Koch (1959).

Gorbaciov ricorda Bush: "Era un vero partner". L'ex leader sovietico ha reso omaggio al presidente degli Stati Uniti, suo interlocutore durante la fine della Guerra Fredda, scrive Renato Zuccheri, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell'Unione Sovietica e ultimo segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, ha espresso le sue profonde condoglianze per la morte di George H.W.

Bush, 41esimo presidente degli Stati Uniti e suo interlocutore durante la dissoluzione dell'Urss. "Le mie profonde condoglianze alla famiglia di George Bush e a tutti i cittadini statunitensi per la scomparsa del 41esimo presidente degli Stati Uniti", ha dichiarato quello che fu capo del Cremlino negli anni finali della Guerra Fredda. "Ho molti ricordi di quest'uomo, abbiamo avuto l'opportunità di lavorare insieme durante l'era dei grandi cambiamenti. È stato un periodo drammatico, che ha richiesto a tutti di essere tremendamente responsabili. Il risultato è stato la fine della guerra fredda e della corsa agli armamenti nucleari", ha detto Gorbaciov. "Rendo omaggio al contributo a questo accordo storico. Era un vero partner". Un ricordo non solo del politico, ma anche dell'uomo. "Raisa Maksimovna e io abbiamo sempre apprezzato l'attenzione, amabilità e facilità nella comunicazione caratteristica di George e Barbara Bush, di tutta la loro grande e famiglia". E l'ex leader sovietico si è detto molto fiducioso che il ricordo dell'ex presidente Usa "come statista e come uomo, rimarrà a lungo nel cuore di molte persone per molto tempo".

I presidenti Usa piangono Bush. Trump: "Ha ispirato generazioni di americani". I successori del presidente G.H. Bush piangono la morte del presidente. Trump ha ricordato la sua "leadership impassibile". Parole di profondo affetto da parte di Bill Clinton, suo rivale nel 1992, scrive Renato Zuccheri, Sabato 01/12/2018, su "Il Giornale". Gli Stati Uniti piangono George H.W. Bush, morto all'età di 94 anni. E i successori del presidente hanno commentato la scomparsa del vecchio leader della Casa Bianca. L'attuale presidente, Donald Trump, ha ricordato la "leadership impassibile" del suo predecessore durante la Guerra Fredda e nella Guerra del Golfo, manifestando tutto il suo affetto e la sua ammirazione nei confronti di Bush. "Attraverso la sua autenticità, la sua arguzia disarmante ed il suo incrollabile impegno nella fede, nella famiglia e nella nazione il presidente Bush ha ispirato generazioni di suoi compatrioti americani", ha scritto in una nota trasmessa da Buenos Aires, dove si tiene il G20. "Melania ed io ci uniamo alla nazione in lutto", ha concluso il presidente. Bill Clinton, successore alla carica di presidente degli Stati Uniti, ha speso parole di grande affetto nei confronti del suo rivale nella corsa alla Casa Bianca nel 1992. L'ex presidente democratico ha ricordato come la sua amicizia con Bush sia "fra i doni più cari che la vita mi ha regalato". "Dal momento in cui l'ho incontrato, come un giovane governatore, sono rimasto colpito dalla gentilezza dimostrata verso Chelsea, dalla sua innata e genuina dignità e dalla sua devozione a Barbara, ai suoi figli e alla loro famiglia". Gli fa eco un altro presidente democratico, Barack Obama, che ha detto: "Con la scomparsa di George Herbert Walker Bush l'America perde un patriota e un umile servitore", ha scritto su Twitter l'ex presidente Usa. "I nostri cuori sono tristi ma anche colmi di gratitudine - aggiunge - i nostri pensieri vanno all'intera famiglia Bush stanotte e a tutti quelli che sono stati ispirati dall'esempio di George e Barbara Bush". E a commentare la morte del presidente, anche la moglie di Obama, Michelle, che lo ha invece lodato per il contributo fornito nel "mettere fine alla Guerra Fredda senza neanche sparare un colpo di arma da fuoco".

Tutti i Presidenti degli Stati Uniti d'America.  Da George Washington a Donald Trump tutti gli eletti alla Casa Bianca dal 1789 a oggi, scrive Edoardo Frittoli il 9 novembre 2016 su "Panorama". L'America ha scelto il suo 45mo presidente. È il repubblicano Donald Trump. Barack Obama lascia dopo due mandati, e forte di essere stato il presidente più votato della storia americana, almeno dal punto di vista del voto popolare. Obama ha infatti incassato 135,4 milioni di voti, seguito nella storia a grande distanza da Richard Nixon con 113,1 milioni di voti. Al terzo posto George W. Bush con 112,5 milioni di voti. Completano la top five dei presidenti più votati Franklin Delano Roosevelt con 103,4 milioni e Ronald Reagan con 98,4 milioni. Bill Clinton è sesto con 92,3 milioni di voti.

Nella gallery in alto e qui di seguito ecco i 44 presidenti della storia americana, con le date in cui sono stati in carica. 

- GEORGE WASHINGTON 1789-1797

- JOHN ADAMS 1797-1801

- THOMAS JEFFERSON 1801-1809

- JAMES MADISON 1809-1817

- JAMES MONROE 1817-1825

- JOHN QUINCY ADAMS 1825-1829

- ANDREW JACKSON 1829-1837

- MARTIN VAN BUREN 1837-1841

- WILLIAM HENRY HARRISON 1841-1841 (morto in carica)

- JOHN TYLER 1841-1845

- JAMES K. POLK 1845-1849

- ZACHARY TAYLOR 1849-1850 (morto in carica)

- MILLARD FILLMORE 1850-1853

- FRANKLYN PIERCE 1853-1857

- JAMES BUCHANAN 1857-1861

- ABRAHAM LINCOLN 1861-1865

- ANDREW JOHNSON 1865-1869

- ULYSSES S. GRANT 1869-1877

- RUTHERFORD B. HAYES 1877-1881

- JAMES A. GARFIELD 1881-1881 (morto in carica)

- CHESTER A. ARTHUR 1881-1885

- GROVER CLEVELAND 1885-1889

- BENJAMIN HARRISON 1889-1893

- GROVER CLEVELAND 1893-1897

- WILLIAM McKINLEY 1897-1901

- THEODORE ROOSEVELT 1901-1909

- WILLIAM HOWARD TAFT 1909-1913

- WOODWORD WILSON 1913-1921

- WARREN G. HARDING 1921-1923 (morto in carica)

- CALVIN COOLIDGE 1923-1929

- HERBERT HOOVER 1929-1933

- FRANKLIN D. ROOSEVELT 1933-1945 (morto in carica)

- HARRY S. TRUMAN 1945-1953

- DWIGHT D. EISENHOWER 1953-1961

- JOHN F. KENNEDY 1961-1963 (morto in carica)

- LYNDON B. JOHNSON 1963-1969

- RICHARD NIXON 1969-1974 (dimessosi in carica)

- GERALD FORD 1974-1977

- JIMMY CARTER 1977-1981

- RONALD REAGAN  1981-1989

- GEORGE H. W. BUSH 1989-1993

- BILL CLINTON 1993-2001

- GEORGE W. BUSH 2001-2009

- BARACK OBAMA  2009 - 2017

- DONALD JOHN TRUMP 2017

Le elezioni e i presidenti americani in 12 film. Il cinema delle presidenziali USA: manca qualcuno?

Nel fantascientifico Deep Impact di Mimi Leder, 1998, Morgan Freeman è il presidente nero degli Stati Uniti, sette anni prima di Obama. Deep Impact viene ricordato più che altro per il soggetto, pressoché identico a quello di Armageddon, di Michael Bay, film uscito nello stesso anno.

Peter Sellers è il buffo presidente degli Stati Uniti in Il dottor Stranamore, di Stanley Kubrick, 1964. Nel film Sellers interpreta anche il "dottore" e il colonnello Mandrake.

The Manchurian Candidate, di Jonathan Demme. Con Meryl Streep, Denzel Washington, Liev Schreiber, Jon Voight. 2004. La senatrice Meryl Streep complotta con banche, FBI e killer prezzolati per portare il figlio alla Casa Bianca. Remake di Va' e uccidi, di John Frankenheimer (1962).

Frank Langella (Nixon) e Kevin Bacon (capo dello staff dell'ex presidente) in Frost/Nixon - Il duello, di Ron Howard, 2008. Michael Sheen interpreta Jack Frost, l'intervistatore tv che mise alle corde Nixon fino a fargli ammettere la verità sullo scandalo delle elezioni '72. Prima di diventare un film, Frost/Nixon era stato uno spettacolo teatrale di notevole successo a Broadway.

 Josh Brolin nei panni (e negli stivali texani) di George W. Bush in W., diretto da Oliver Stone nel 2008. Nel film c'è anche un altro presidente: George Bush senior, interpretato da James Cromwell.W..

I due presidenti, di Richard Loncraine, 2010. Film sull'amicizia fra due celebri capi di Stato. Dennis Quaid, a destra, impersona Bill Clinton. A sinistra Michael Sheen interpreta invece il primo ministro britannico Tony Blair.

Tutti gli uomini del presidente, di Alan J. Pakula, Con Robert Redford, Dustin Hoffmann. 1976. La storia vera di un elezione truccata: i giornalisti Carl Bernstein (Hoffman) e Bob Woodward (Redford) svelano al mondo lo scandalo delle presidenziali del '72, vinte da Nixon grazie alla complicità dei servizi segreti. Film tratto dal libro omonimo dei medesimi Bernstein e Woodward.

Nel centro del mirino, del 1993, regia di Wolfgang Petersen, con John Malkovich e Clint Eastwood. Malkovich tenta di assassinare il presidente Jim Curley protetto dalla guardia del corpo Eastwood. Un altro film presidenziale con Clint protagonista è Potere assoluto, da lui stesso diretto nel 1997. Gene Hackman è un presidente degli Stati Uniti in difficoltà. Le sue guardie del corpo hanno ucciso una donna, lo staff presidenziale lavora all'insabbiamento ma il testimone Eastwood ha visto tutto...

La campagna elettorale USA è al centro dell'intrigo di Il rapporto Pelican, 1993, regia di Alan J. Pakula, con Denzel Washington, Julia Roberts e - nel ruolo del presidente - l'exSpia Robert Culp. Tratto dall'omonimo romanzo di John Grisham .

Kevin Kline è il sosia del presidente USA in Dave - Presidente per un giorno, di Ivan Reitman, 1993. Con Kline c'é anche la fist lady Sigourney Weaver.

1995: il presidente degli Stati Uniti (Michael Douglas) e il suo consigliere strategico (Martin Sheen) giocano a biliardo alla Casa Bianca in Il presidente - Una storia d'amore, regia di Rob Rainer, con Annette Bening che fa innamorare un presidente single (anzi vedovo, per essere precisi).

Taxi Driver, di Martin Scorsese, 1976. La vita del senatore Palantine (Leonard Harris), candidato alle presidenziali, è minacciata da uno psicopatico aspirante killer (Robert De Niro).

ENNIO FANTASTICHINI

E' morto Ennio Fantastichini, una carriera tra teatro, cinema e tv. Era ricoverato da due settimane a Napoli per le complicazioni di una leucemia acuta. Aveva 63 anni. Le reazioni dei colleghi: "Buon viaggio Ennio". Un saluto lunedì alla Casa del Cinema, scrive l'01 dicembre 2018 Repubblica. È morto a Napoli all'età di 63 anni Ennio Fantastichini, vincitore del David di Donatello come miglior attore non protagonista nel 2010 per il suo ruolo in "Mine vaganti". Era ricoverato da due settimane, in rianimazione, al Policlinico della Federico II. Fantastichini è stato stroncato dalle complicanze di una leucemia acuta. Nato a Gallese, paesino del viterbese il 20 febbraio 1955, figlio di un maresciallo dei carabinieri, era cresciuto Fiuggi, per poi andare a Roma, ventenne, per iscriversi all'Accademia d'Arte Drammatica. Si lascia alle spalle quasi 50 film, una quindicina di ruoli in tv, qualche incursione in palcoscenico.  Il suo primo ruolo al cinema risale a 1982 con "Fuori dal giorno" di Paolo Bologna. Recita con Gassman e Mastroianni in "I soliti ignoti vent'anni dopo" di Amanzio Todini. Candidato molte volte ai premi nazionali, è stato sempre premiato come coprotagonista. Nella sua carriera il nastro d'argento per "Porte aperte", il Premio europeo nel nome di Fassbinder conquistato con lo stesso film e il David di Donatello per "Mine vaganti" di Ferzan Ozpetek (2010). Il grande successo di pubblico lo deve a Paolo Virzì che gli affidò il ruolo dello smargiasso Ruggero Cantalupi, tipico esponente del "generone" romano a fianco di Sabrina Ferilli in "Ferie d'agosto" (1996). In televisione debutta con Giorgio Capitani ("Un cane sciolto", 1990), incrocia poi Carlo Lizzani, Nanni Loy, Luigi Perelli (la "Piovra 7" del 1995 con la morte del commissario Cattani), Gianluca Maria Tavarelli (che gli regala il ruolo di Paolo Borsellino), fino a "Squadra antimafia" (2016) e poi nel "Principe libero" (2018) come padre di Fabrizio De Andrè.  "La mia mina vagante se n'è andata. L'ho amato lo amo lo amerò sempre. Il cinema ha perso un grande attore... Io ho perso tante cose un amico... un fratello". E' il commosso saluto che Ferzan Ozpetek affida alla sua pagina Facebook. Il regista turco ha diretto l'attore in due film, “Saturno contro” (quello della fulminante battuta "Gay? No io sono fr...") e in “Mine vaganti”. La morte di Fantastichini provoca grande dolore tra i suoi amici e colleghi. Su Twitter in molti esprimono il proprio cordoglio e lasciano un saluto all'attore. Se Luca Bizzarri scrive che era "un talento impressionante. Che tristezza", il regista Giovanni Veronesi fa riferimento alla recente scomparsa di Bernardo Bertolucci e scrive: "La morte ha veramente rotto il c.... anche Fantastichini adesso". Fabio Volo posta su Instagram una foto sul set di “Studio illegale”', Chiara Francini è sconvolta: "Sono devastata. Ennio Fantastichini. Un Uomo, un attore, in tutto fuoriclasse. Che dolore", scrive. Il regista Daniele Vicari commenta così la notizia della sua scomparsa: "E' morto Ennio Fantastichini, indimenticabile interprete di tanti bei film, pessima pessima pessima notizia. Alessandro Gassmann, infine, posta l'emoticon di un mazzo di fiori e dice così addio al collega: "Buon viaggio Ennio".

Addio a Ennio Fantastichini. Ozpetek: “La mia mina vagante se n’è andata”. L’attore aveva 63 anni ed è morto a causa di una leucemia fulminante, scrive il 2 Dicembre 2018 "Il Dubbio". “La mia mina vagante se n’e andata. L’ho amato lo amo lo amerò sempre. Il cinema ha perso un grande attore… Io ho perso tante cose un amico… un fratello”. E’ il commosso saluto che Ferzan Ozpetek affida alla sua pagina Facebook indirizzato all’attore Ennio Fantastichini, morto sabato mattina a Napoli. Fantastichini aveva 63 anni ed è stato stroncato da una grave emorragia cerebrale conseguenza di una leucemia acuta promielocitica che aveva già colpito cervello, polmoni e intestino. L’attore era ricoverato da quindici giorni nel reparto di rianimazione dell’azienda ospedaliera universitaria Federico II di Napoli. Nato a Gallese, paese in provincia di Viterbo, il 20 febbraio 1955, e il secondo figlio di un maresciallo dei carabinieri (il fratello maggiore, Piero, è un noto pittore e scultore). Vive a Fiuggi dove il padre comandava la locale stazione fino al 1975 quando si trasferisce a Roma per studiare recitazione all’Accademia nazionale d’arte drammatica. L’esordio nel cinema nel 1982 con il film ‘Fuori dal giorno” scritto e diretto da Paolo Bologna. Quindi recita una piccola parte nel film “I soliti ignoti vent’anni dopo” (1985) di Amanzio Todini al fianco di Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. Nel 1988 e coprotagonista, con Laura Morante e Mario Adorf, del film per la tv “I ragazzi di via Panisperna” di Gianni Amelio, dove interpreta Enrico Fermi. E dell’anno successivo il suo primo grande successo, nel ruolo del criminale Tommaso Scalia che dev’essere condannato a morte nel film “Porte aperte” di Gianni Amelio, grazie al quale, interpretando quel personaggio accanto al suo maestro Gian Maria Volontè, riceve vari premi: Ciak d’oro 1991, Nastro d’argento (miglior attore non protagonista), European Film Awards (scoperta dell’anno) e il Premio Felix 1991. Il suo aspetto e il suo carattere sanguigno e duro sono fondamentali per interpretare il romano prepotente accanto a Sabrina Ferilli e Silvio Orlando in “Ferie d’agosto” (1996) di Paolo Virzi, grazie al quale ottiene una nomina per il David di Donatello 1996. Oltre ad aver interpretato numerosi film Fantastichini recita con successo nelle miniserie tv, da “La Piovra 7” (1997), a quella impegnata ‘Sacco e Vanzetti (2005), in cui interpreta l’anarchico Bartolomeo Vanzetti (ruolo interpretato nel film di Montaldo proprio da Volontè), fino a quella in costume “La freccia nera” (2006), in cui impersona il ruolo del perfido nobile medievale Raniero. Nel 2007 lo scopre Ferzan Ozpetek che lo vuole in “Saturno contro” e, nel 2010, in “Mine vaganti” al fianco di Alessandro Preziosi, Riccardo Scamarcio ed Elena Sofia Ricci (film per il quale vince il David di Donatello come miglior attore non protagonista). Tra i due film di Ozpetek interpreta nel 2008 il film “Fortapasc” di Marco Risi.

Morte Ennio Fantastichini, il ricordo commosso di Amendola: "Questa sera faccio fatica", scrive Anna Rossi, Domenica 02/12/2018, su "Il Giornale".  Ennio Fantastichini è morto all'età di 63 anni all'ospedale Federico II di Napoli. L'attore era ricoverato da quindici giorni in rianimazione, ma è stato stroncato da una grave emorragia cerebrale, causata dalla leucemia. La sua morte ha sconvolto tutti. Centinaia di messaggi di cordoglio sono stati scritti per lui in queste ore sui social. Ieri sera, durante Portobello Claudio Amendola è stato ospite di Antonella Clerici. Ma prima di abbandonare il palco ha voluto ricordare con le lacrime agli occhi il suo grande amico. "Facciamo un mestiere meraviglioso che ci impone sempre di andare avanti comunque e di tirar fuori il meglio di noi e il sorriso - ha iniziato l'attore -. Questa sera ho fatto moltissima fatica perché è morto un mio carissimo amico. È morto Ennio Fantastichini. Qui siamo per ridere. Per come lo conosco Ennio mi avrebbe detto vai in scena e dai il meglio di te. E io gli mando un grande bacio. Grazie per avermelo fatto dire". E commosso Claudio Amendola ha lasciato il palco.

È morto Gigi Radice: con lui il Torino vinse l'ultimo Scudetto. Teorico del calcio totale, si è spento all'età di 83 anni. A lui è legata l'ultima stagione vincente granata, ma nella sua carriera ha guidato anche Inter, Milan e Bologna, scrive Luigi Panella il 7 dicembre 2018 su "La Repubblica". Il calcio olandese del Torino campione d'Italia del 1976 è ancora oggi ricordato come uno dei modelli massimi di gioco espressi da una squadra italiana. Il tecnico che creò quella squadra, Gigi Radice, è morto oggi all'età di 83 anni. Da tempo era malato di Alzheimer. Sulla panchina granata ha toccato l'apice della sua carriera di allenatore, ma i consensi non mancarono anche nelle esperienze, tra le altre, con Inter, Milan, Bologna, Roma e Fiorentina. Come calciatore ha militato nel Milan, Triestina e Padova. Prima che un infortunio al ginocchio ne decretasse la fine prematura della carriera, fece in tempo a conquistare con il Milan la prima Coppa dei Campioni vinta da una squadra italiana nel 1963, anche se nella finale contro il Benfica di Eusebio non giocò. In Nazionale fu convocato per il Mondiale in Cile nel 1962, giocando contro Germania Ovest e Svizzera, ma saltando la corrida contro i padroni di casa che decretò l'eliminazione degli azzurri. Sempre all'avanguardia, anche con squadre di medio cabotaggio come ad esempio la Roma della stagione 1989/90, una delle ultime con Dino Viola presidente. Ricorda Ruggero Rizzitelli, all'epoca attaccante giallorosso: "Radice era un vero gentiluomo, fece innamorare una città". Altro piccolo capolavoro con il Bologna del 1980/81. Radice seppe risollevare un ambiente scosso dal calcioscommesse della stagione precedente, azzerando in fretta la penalizzazione di 5 punti fino a chiudere al settimo posto. Era sesto anche con la Fiorentina della stagione 1992/93, quando fu esonerato dall'allora presidente Cecchi Gori dopo una lite: la squadra si disunì finendo per retrocedere. Il capolavoro, come detto, arrivò nel 1976. Il Torino che vinceva si era perso 27 anni prima nel tragico schianto di Superga. In tanti, da Rocco a Giagnoni, avevano provato a riportare il tricolore. L'ultimo ci era andato particolarmente vicino, tanto che i tifosi ricordano ancora con rabbia un gol fantasma non concesso ai granata nella pioggia e fango del Ferraris in un Samp-Toro del 1972, con la squadra lanciatissima in zone di vertice (chissà, ci fosse stato già il Var...). Intanto, nel 1974, una squadra aveva incantato il mondo con il calcio totale. Era l'Olanda di Cruyff. Radice si ispirò molto a quel modello: la marcatura a zona, il pressing in ogni parte del campo. Ebbe poi la bravura e la fortuna di trovare gli interpreti adeguati. "Datemi uno che para e uno che la butta dentro, al resto ci penso io" era una massima di Fulvio Bernardini, un altro innovatore del nostro calcio. Ma Radice in quel 1976 aveva ancora di più. Uno che parava saltando da un palo all'altro (l'alias Giaguaro era tutto un programma) come Luciano Castellini, addirittura due che la buttavano dentro, i gemelli del gol Graziani e Pulici. "Il mio ricordo di Gigi è meraviglioso. Per me non era solo un allenatore ma un fratello maggiore o un padre", è il pensiero di Graziani. "È stato un maestro, un papà. Mi ha aiutato a essere qualcosa di più di un buon calciatore, mi ha aiutato anche a essere un uomo fuori dal campo" gli fa eco Paolo Pulici: "Era un allenatore che pretendeva da tutti serietà - prosegue Puliciclone -. Ma era anche un uomo, e come uomo chiedeva certe particolarità e bisognava rispettarle. I consigli che ti dava, se li ascoltavi, ti facevano sempre andare in campo e fare bene". E ancora, un talento purissimo del centrocampo come Eraldo Pecci, un ragionatore come Renato Zaccarelli ed un ala che trovava spazio per il cross lì dove per gli altri questo era precluso, Claudio Sala. Proprio quest'ultimo è stato uno dei primi a ricordarlo: "Radice è stato un innovatore, un grandissimo allenatore che ha cambiato il calcio italiano e ha regalato una delle più grandi soddisfazioni al Torino". La Juventus anni Settanta, che pure era formata da grandi interpreti, soffriva molto il famoso tremendismo granata. In quella stagione non bastarono ai bianconeri 5 punti di vantaggio (la vittoria valeva 2) alla 21esima giornata. Tre sconfitte consecutive, una delle quali nel derby: fu sorpasso, e il Torino non mollò più fino all'ultimo. La stagione seguente poteva essere un grande bis, ma incredibilmente, nonostante i 50 punti fatti sui 60 disponibili, il tricolore non arrivò per un punto ed a spuntarla fu la Juve dopo un infinito testa a testa.  "In questo momento le parole sono superflue, meno se ne dicono, meglio è: abbiamo perso un grandissimo uomo...". Eraldo Pecci, che del Toro dello scudetto era il regista, fatica a parlare di Gigi Radice. "C'è davvero poco da dire, era un uomo esemplare al quale ero molto affezionato". Due caratteri all'apparenza lontanissimi, Radice schivo e riservato, Pecci esuberante ed estroverso, ma capaci di un rapporto profondo. "Dicevano di lui che era un “sergente di ferro”, invece sapeva essere un uomo molto dolce - ricorda -. Dal punto di vista professionale è stato l'allenatore che ha cambiato il calcio italiano, portando l'Olanda in Italia". "E' stato un grandissimo nella storia del Torino e in quella del calcio, sport in cui ha interpretato al meglio il ruolo del maestro: entra di diritto nel pantheon granata con gli eroi di Superga", dichiara l'attuale presidente del Toro, Urbano Cairo.

Addio a Gigi Radice Costruì la leggenda del Toro all'olandese. Portò i granata allo storico scudetto del '76 Si ispirava a Cruijff, ma gli piaceva Mou, scrive Roberto Perrone, Sabato 08/12/2018, su "Il Giornale". «Ehi ragazzo, al bar si muore». Inizio dicembre 1981, Milanello, chi scrive era al suo secondo servizio da giornalista sportivo al Giornale. Il primo era stato dedicato all'Inter. In carica ad Appiano Gentile Eugenio Bersellini che se n'è andato il 17 settembre 2017. Bersella, il sergente di ferro, più giovane di un anno, ha anticipato di dieci mesi il viaggio del tedesco. Luigi Gigi Radice è morto ieri a Monza, senza raggiungere gli 84 anni (15 gennaio). Soffriva da tempo di alzheimer. Quel giorno a Milanello, Gigi se ne uscì con quella citazione di Gianni Morandi (Al bar si muore), per mettere in guardia il giocatore: una parola di troppo ai giornalisti uccide. Brianzolo di Cesano Maderno, Gigi Radice di assiomi ne aveva tanti. Molti sono stati raccolti da Francesco Bramardo e Gino Strippoli nel libro Gigi Radice, il calciatore, l'allenatore, l'uomo dagli occhi di ghiaccio (Priuli&Verlucca) appena uscito. Alla presentazione tanti giocatori del Torino 1976, l'ultimo scudetto granata porta la sua firma, con le sue idee e il suo calcio d'avanguardia.

«Noi non siamo qui per prendere in giro la gente ma dobbiamo offrire un calcio bello e divertente». Prima che la malattia lo strappasse alla realtà, Radice aveva anticipato anche uno dei dibattiti dell'ultima ora. «Il calcio di adesso mi sembra sopravvalutato. Per un certo tempo il livello è stato buono, ma ora non più. Certe squadre fanno risultato, ma il gioco non c'è». Radix era stato un precursore. Un sacchiano quando Arrigo Sacchi faceva un altro mestiere, un contiano quando Antonio Conte aveva i calzoni corti. Gigi Radice predicava il calcio totale in contemporanea all'Olanda Meccanica di Cruijff. In Italia il totaalvoetbal lo faceva il suo Torino: pressing, fuorigioco, attaccanti di movimento. Teorizzava la rilevanza dell'allenatore, più motivatore che tattico. Infatti gli piaceva Mourinho. «Non ci sono giocatori che allenano in campo, ma giocatori che fanno gruppo, che cementano la squadra». Era stato un terzino sinistro ruvido ma efficace. Col Milan vinse tre scudetti e la Coppa dei Campioni del 1963. Proprio in quell'anno un infortunio al ginocchio, che ora si risolve in day hospital, gli troncò la carriera. Una delle sue ultime interviste, forse proprio l'ultima, per i suoi settant'anni, nel 2005 quando cominciarono le prime amnesie, gliela feci io sul Corriere della Sera. Rivelò due passioni, Maradona e Martins, il più grande con cui aveva giocato Pepe Schiaffino. «Prevedeva tutto, tornava indietro a centrocampo a conquistare il pallone. Alle stelle di adesso non viene più chiesto, sembra che li sminuisca». Forse gli sarebbe piaciuto Mandzukic. Ma non era manicheo, del suo Toro amava i grandi solisti e ricordava l'emozione dei 50 metri che lo portavano dall'uscita del tunnel alla panchina di San Siro. «Non finivano mai». Si sedette sulle due sponde. Al Milan (1981-82) non sfondò, momento sbagliato, il passaggio da Colombo a Farina, giocatori inadatti, anziani viziati, giovani immaturi. All'Inter fu diverso: non ottenne grandi risultati, ma creò un gruppo unito, molti di quei giocatori vinsero lo scudetto dei record 1989. Fortemente voluto da Sandro Mazzola, secondo una delle leggende che lo circondavano, il presidente Fraizzoli gli avrebbe chiesto, al momento della firma, se fosse veramente comunista come si mormorava. La storia lo divertiva, ma ha sempre negato (che Fraizzoli gliel'abbia chiesto). In quell'ultima intervista, ottenuta grazie a Ugo Allevi, dell'ufficio stampa del Milan, suo genero, rivelò di non amare il chiacchiericcio. «Guardo le partite alla tv, ma senza volume, non sono d'accordo quasi mai con quello che dicono». Altra leggenda: era un tombeur de femme. Vero o falso che fosse, lo accompagnò sempre. Il 3 gennaio del 1983, quando venne esonerato, via Processo del Lunedì, da Vittorio Cecchi Gori, al sesto posto in classifica con la Fiorentina, poi retrocessa, si vociferava che c'era di mezzo una donna più che i risultati a scatenare la furia del padrone. Il suo percorso da tecnico cominciò e finì al Monza. I migliori anni in panchina li passò al Toro, in due tranche. Dopo lo storico scudetto del 1976 anche due secondi posti (1977, 1985). Chiuse nel 1998, riportando il Monza in serie B. Tra le altre dicerie su di lui, una riguardava il grave incidente del 1979 sull'autostrada dei Fiori in cui perse la vita l'amico Paolo Barison. Gigi Radice dopo, non sarebbe stato più lo stesso. Quando ci lasciammo, quella fredda sera del 15 gennaio del 2005, mi disse: «Non mi lamento, sia da giocatore che da allenatore mi sono tolto qualche soddisfazione. Anche se si può fare sempre meglio. Forse avrei potuto allenare ancora un po', ma, a pensarci, il mio tempo l'avevo fatto». Solo chi è veramente cosciente di se stesso non ha rimpianti.

Gigi Radice a parole sue, scrive Angelo Carotenuto il 7 dicembre 2018 su “La Repubblica”.

"Una squadra di calcio oggi non è più - né solo - una squadra di calcio, bisogna vederla come tempo libero di una città, è una cosa importante, di cultura" [1982]

"Non mi vergogno a sostenere che ho idee politiche a sinistra, tra il socialista e il comunista: e con ciò? Proprio per questo ho elaborato una visione del calcio e della società che non è più solo quella del training e della panchina" [1982]

"La Juve fa notizia non se vince ma se perde il campionato. E così ha il problema di vincere di più e in modo diverso, c’è la Coppa dei Campioni, c’è il campionato degli incassi" [1982]

"Brera è quel capo indiano che sappiamo, però col Mundial non ci ha preso. Con il gioco espresso dall'Italia non ci ha preso. Quando continua a menarla col gioco all'italiana, vende letteralmente l’aggettivo “italiano” in maniera impropria. Ormai ci si difende riattaccando con padronanza del pallone, non siamo più ai miei tempi, di giocatore, quando il succo era: meglio che la palla sua là, lontana, che qui, vicina. Questo lo si vede ogni domenica. Mi stupisco che Brera non lo noti, forse è un nostalgico". [1982]

"Se in Europa del nord si è vinto più che da noi è perché siamo nostalgici, e i giocatori non fanno gli operai specializzati come dovrebbero, in assenza di veri fuoriclasse. Appena posso, rimetto anch'io i due allenamenti giornalieri" [1979]

"Alla gente piace avere un giocoliere cui battere le mani se fa un colpo di tacco, ma per me anche l’essenzialità è un grosso spettacolo" [1981]

"Se il calcio non è anche una scuola di vita, non è niente" [1981]

"Falcao è stato un po’ troppo mitizzato. Ascolto il Processo in tv e sento dire che i giocatori della Roma sono tutti portati per mano da Falcao. Balle. Falcao è semplicemente uno come gli altri e semmai tra Falcao e Di Bartolomei io prendo il nostro" [1982]

"Ero riserva nel Milan e non vedevo l’ora di prendere il posto di quello svedese che viaggiava verso i quarant’anni. Ma quello svedese di ferro non si rompeva mai. Un giorno si fracassò la testa, io passai tutta la settimana sognando di rimpiazzarlo e la domenica lui giocò con la testa bendata e lo svedese aveva trentasei anni e io ventitré. [1983]

"La città, quella proletaria e piemontese che tifa granata, in contrasto con la borghesia e gli immigrati in cerca di riscatto che scelgono da sempre la Juve, aspettava un segno, la conferma che era finito il tempo della sottomissione, del vittimismo, delle recriminazioni sterili. Penso che il mio arrivo abbia contribuito proprio al definitivo cambio della mentalità. Il mio Toro di allora aveva classe, i cross pennellati di Sala, il poeta, e i gol in acrobazia di Pulici o di forza di Graziani, gli eroi della curva Maratona, ma aveva innanzitutto il mio Toro del ’76 e del ’77 il piacere della lotta, era tenace, e questo è anche un po’ il mio carattere" [1984]

"Quando in una città ci sono due squadre, e una delle due è abituata a vincere tutto o quasi, esistono due campionati: uno è quello vero, l’altro, non meno sentito, è quello rapportato alla Juve". [1984]

"Gli striscioni offensivi, di pura provocazione, non dovrebbero essere tollerati. Se lo sono, è colpa della società ospitante e della polizia, che non ritiene di intervenire in presenza di reato. Non criminalizziamo le curve: in Maratona ci vanno anche le mie figlie, è un fatto di aggregazione, può essere simpatico. Se si tratta di teppisti, intervengano le società, che li conoscono benissimo tutti, nome cognome e indirizzo" [1991]

"Che calcio è questo dove chi ha più soldi crede di poter permettersi tutto? Presidenti che solo per il fatto di spendere miliardi si prendono il diritto di fare gli allenatori" [1993]

* Interviste rilasciate a Emanuela Audisio, Oliviero Beha, Gianni Minà e Gianni Mura per Repubblica

E' morto Felice Pulici, il portiere del primo scudetto della Lazio, scrive il 16 dicembre 2018 "La Repubblica". Il calcio piange la morte di Felice Pulici, scomparso oggi a pochi giorni dal suo 73° compleanno. Era malato da tempo. Nato a Sovico, in provincia di Milano, il 22 dicembre 1945, l’ex portiere aveva iniziato la propria carriera nelle giovanili del Lecco. Esploso nel Novara (112 presenze tra il 1968 e il 1972), visse i suoi anni migliori alla Lazio dove conquistò lo scudetto nel 1974. Ceduto nell’ottobre del 1977 al Monza, fu per tre anni il portiere dell’Ascoli in Serie A centrando una storica qualificazione in Coppa Uefa e vincendo, nel 1981, il torneo di Capodanno. Tornò a giugno dello stesso anno alla Lazio, chiudendo la carriera nel giugno seguente a 36 anni. "Perdiamo un grandissimo laziale e un grandissimo uomo". Così il tecnico della Lazio Simone Inzaghi ha voluto ricordare l'ex portiere biancoceleste, prima di iniziare la conferenza stampa alla vigilia della sfida contro l'Atalanta. "E' una brutta notizia che tocca tutto il mondo Lazio, me in particolare. Ho un ricordo bellissimo di Felice - ha raccontato l'allenatore piacentino - quando sono arrivato alla Lazio nel 1999 era un punto fermo della società. Una persona sempre vicina a noi giocatori, importante per le nostre vittorie e per il mio inserimento a Roma. Colgo l'occasione per fare le più sentite condoglianze alla famiglia".

UNA LUNGA MILITANZA DA DIRIGENTE NELLA LAZIO – Una volta appesi gli scarpini al chiodo, rimase all’interno della società biancoceleste guidando inizialmente la Primavera. Nel 1983, con l’arrivo di Giorgio Chinaglia alla presidenza, Pulici divenne direttore generale. Continuò la sua carriera da dirigente anche con l’avvento di Cragnotti e, in seguito, di Lotito, ricoprendo vari ruoli. È stato per due volte responsabile del settore giovanile: la prima dal 1994 al 1998, la seconda dal 2003 al 2004.

DIFESE IL CLUB DURANTE CALCIOPOLI – L’attuale presidente lo aveva promosso membro della segreteria generale nel 2005. E nel 2006 è stato uno degli avvocati che hanno rappresentato il club nel processo di Calciopoli. Nell’agosto dello stesso anno gli è stata affidata da Lotito, inibito per 2 anni, la rappresentanza sportiva della società. Pulici dovette firmare i contratti e provvedere ai tesseramenti. A fine anno lasciò definitivamente la Lazio per ricoprire il ruolo di direttore generale dell’Ascoli. Un incarico che ricoprì per soli 3 mesi, fino a marzo 2007, anno in cui lasciò definitivamente il mondo del calcio per diventare un alto dirigente dell’Associazione Nazionale per lo Sport dei sordomuti.

Addio a Pulici, il portiere diplomatico. Felice era punto di equilibrio tra i clan della Lazio scudetto. E diventò dirigente, scrive Franco Ordine, Lunedì 17/12/2018, su "Il Giornale". Ci voleva del coraggio per scegliere quel portiere del Novara. La Lazio, la Lazio di Tommaso Maestrelli destinata poi a vincere il primo scudetto della sua storia, gli aveva appena rifilato 5 gol in campionato. Fu coraggio oppure intuito straordinario, nessuno lo può dichiarare, sta di fatto che Felice Pulici divenne il portiere della squadra che aveva deciso di mettere da parte Bandoni e preparare la cavalcata tricolore con la famosa banda di Chinaglia e Wilson, Re Cecconi e Frustalupi. Quel coraggio fu premiato dalla fedeltà assoluta del portiere, brianzolo di anagrafe, arrivato da Novara a miracol mostrare: nelle sue cinque stagioni laziali mai una resa per infortunio o squalifica, 150 presenze di fila, una dietro l'altra, a solenne conferma della tenuta fisica ma anche nervosa. Pulici non fu soltanto di quella mitica Lazio uno strepitoso artefice ma all'interno dello spogliatoio folle e pericoloso come un deposito di esplosivo, fu anche l'elemento equilibratore, mai schierato con una delle due fazioni in armi (Chinaglia da una parte, Wilson dall'altra), semmai ambasciatore di dialogo e perciò fervente collaboratore di Tommaso Maestrelli che di quei leoni in gabbia era l'inimitabile domatore. Non ci volle perciò un grande fiuto per capire che subito dopo, oltre i confini di una porta, la carriera di Felice Pulici sarebbe proseguita anche dietro una scrivania. Perché si laureò in giurisprudenza e cominciò a lavorare con la società che gli era entrata nel sangue, forse insieme all'Ascoli dove concluse la carriera dirigenziale con il ruolo di direttore generale. Già, perché il brianzolo Felice Pulici era capacissimo di affezionarsi alle persone e alle città che lo avevano accolto e adottato, oltre che alle squadre di calcio. Per la Lazio sacrificò anche un briciolo del proprio onore allorquando si assunse, sotto la presidenza Cragnotti, l'onere delle pratiche per il passaporto di Veron che gli costò una squalifica. Fu probabilmente quell'atto d'amore che convinse più tardi Claudio Lotito ad affidargli l'incarico di difensore del club bianco-azzurro nel processo Calciopoli. Ecco allora cosa è stato Felice Pulici per i laziali d'antan, in lutto da ieri, e per il calcio italiano, per chi ne ammirò le doti di portiere poco spettacolare ma molto concreto, essenziale nello stile e nell'eloquio, con un solo rimpianto probabilmente. Sempre escluso dal giro della Nazionale maggiore conteso tra Zoff e Albertosi, indossò la maglia azzurra nelle prime stagioni degli anni Settanta solo nell'under 23 all'epoca allenata da Bearzot, una vera fabbrica di futuri talenti, capaci di raggiungere e tagliare traguardi speciali. Da tempo malato, Felice era uscito dai radar del calcio e dell'informazione in silenzio, rispettando i canoni del suo temperamento, riservato e schivo, come sanno essere solo certi esponenti di una generazione cresciuta in tempi difficili ma capace di esaltarsi proprio nelle curve più insidiose della propria esistenza. Non è riuscito a superare l'ultima perché anche uno come lui, alla fine, ha dovuto arrendersi alla malattia carogna.

Dopo la morte di Tommaso Maestrelli tre anni dopo lo scudetto con un tumore; Luciano Re Cecconi ucciso a 28 anni da un gioielliere, che reagì ad una violenta rapina poco tempo dopo averne subita una vera; Frustalupi, vittima di un incidente stradale; Giorgio Chinaglia con il cuore che ha ceduto a 65 anni e poi Facco; ora tocca a Pulici.

Felice Pulici, il portiere che volava con le ali di Maestrelli, scrive il 16/12/18 Francesco Pietrella su GianlucaDiMarzio.com. Progettava case insieme a suo fratello, è diventato una bandiera della Lazio. Avvocato, portiere, un gigante buono: la storia di Felice Pulici, uno degli eroi dello Scudetto biancoceleste del 1974, scomparso oggi a 72 anni. Una volta parò tutto grazie alle “ali di Maestrelli”. Parole sue, le stesse da anni, un ricordo sincero: “Vincemmo 1-0 contro la Roma, segnò Giordano”. Pulici migliore in campo: “Ero convinto che il mister fosse lì con me”. Adesso potrà raggiungerlo e dirgli quello che non ha mai potuto dirgli, ovvero che quel giorno, il 28 novembre del ’76, Felice Pulici pensava che lui fosse in tribuna e parò tutto, clean sheet. Un destro all’incrocio impensabile, irreale, talmente bello che i cronisti dell’epoca fecero a gara per strappargli una dichiarazione. Lui però, il “duro” del clan Chinaglia, portierone dello Scudetto vinto due anni prima, scoppiò a piangere a dirotto. Una frase, poche parole, tutta la sua vita: “Dedico la vittoria a Tommaso Maestrelli, ho volato con le sue ali”. Andò proprio così. Oggi Felice Pulici non c’è più, è scomparso a 72 anni dopo una lunga malattia. È stato il portiere titolare della Lazio del ’74, quella del primo Scudetto e delle “pistole” durante i ritiri. Quella dei clan – Chinaglia da un lato, Martini dall’altro – e dei capelli lunghi, dell’irriverenza e di Maestrelli allenatore. Una schiera di eroi: Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D'Amico. Una filastrocca che ogni tifoso laziale ricorda a memoria, e che inizia sempre allo stesso modo: Felice Pulici, numero uno. Di padre in figlio.

CHI ERA FELICE PULICI. Calciatore d’altri tempi, uomo distinto, per tutti "Felix", cattolico di ferro: “Ho letto Le Confessioni di Sant’Agostino e non l’ho più abbandonato”. Ha anche una citazione preferita: “Dov’è il cielo in questo cielo?”. Portiere attento e decisivo, per due anni di fila il meno battuto della Serie A (dal 1972 al 1974): “Costruivo tutto nella mia mente già dalla sera prima, indovinavo cosa sarebbe potuto accadere e spesso andava così". Come contro il Milan a San Siro, una parata su Rivera gli valse un 10 e lode su tutte le pagelle. Da ragazzo progettava case insieme a suo fratello, aveva un diploma da geometra e il suo primo regalo fu un pallone. Istinto e “follia” lo portano tra i pali: “Imparai a tuffarmi nel corridoio di casa usando i materassi come trampolino”. Felice Pulici sognava, erano gli anni ’60, non immaginava una carriera in Serie A, neanche uno scudetto. Ma sognava: "Ogni volta che giocavo in porta era come se difendessi casa mia". Controcorrente sempre. Prima tappa a Novara, primi anni e primi tuffi, poi la Lazio quasi all’improvviso: “Me lo disse mio suocero!”. Il 12 maggio del 1974 vince il suo primo e unico Scudetto, lo stesso giorno e nello stesso momento in cui nasce suo figlio Gabriele. Uno scherzo del destino. 150 presenze di fila con la Lazio, 202 tra campionato e coppe, poi l’addio nel ’77 e l’arrivo a Monza. Torna a Roma nel 1981, dopo tre anni all'Ascoli, la squadra si allena sempre a Tor Di Quinto ma è cambiato tutto, è finita in Serie B e Maestrelli non c’è più, scomparso quattro giorni dopo il famoso derby “con le ali”.

NUOVA VITA DOPO IL CALCIO. Pulici resterà legato alla sua Lazio per tutta la vita, prima da responsabile del settore giovanile e infine come dirigente, sotto la presidenza Cragnotti. Laureato in giurisprudenza, specializzato in diritto sportivo, tra il 2005 e il 2006 difese la Lazio nel processo Calciopoli, mentre nel 2005 tentò il grande salto in politica candidandosi alle regionali nella lista di Storace. Sempre nel 2006 lascia i biancocelesti dopo un litigio con Lotito e si reinventa per la terza volta: impara il linguaggio dei segni e inizia a lavorare con la Federazione Italiana Sport Sordi. Nuova vita. Simone Inzaghi l’ha ricordato a modo suo: “È stato importante per il mio inserimento a Roma”. E per il mondo Lazio, dai giornalisti ai giovani tifosi. Sempre pronto per un’intervista, una chiacchierata, un pensiero sulla squadra. Un semplice caffè per raccontare quella Lazio che sfidò i potenti e vinse. Di liti, pistole e ritiri. Di quel ragazzo che volò sotto l’incrocio grazie alle ali di Maestrelli. Ora potrò farlo con le sue.

Lazio 1974, una banda di folli che entrò nella storia, scrive il 3 dicembre 2014 Valerio Nicastro su delinquentidelpallone. Ci sono nel calcio delle regole, delle leggi universali che, bene o male, garantiscono il funzionamento di questo universo a noi tanto caro. Delle regole che di tanto in tanto vengono violate, da qualche folle, da qualche visionario. Delle regole che sono fatte per non essere rispettate alla legge, per regalare a noi poveri cristi un momento di illusione, per farci credere che un altro calcio, e un altro mondo, siano possibili. E poi c’è una storia. Una storia pazza, folle, senza logica. La storia di una squadra pazza, folle, senza logica. La storia di una squadra che prese queste regole e leggi universali del calcio, le appallottolò e le buttò nel cestino. Una squadra speciale, una squadra come non ce ne saranno mai più nel calcio. La Lazio che nel 1974 vinse uno scudetto che nessuno credeva possibile, la Lazio che toccò il baratro e risalì guidata da Tommaso Maestrelli, la Lazio che con Chinaglia e la sua banda di pazzi scatenati dimostrò che si poteva vincere anche facendosi beffe della logica e della razionalità. Puntando tutto sul cuore e su qualsiasi altra cosa ci sia dentro di noi. Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico. Una formazione che i tifosi della Lazio, a quarant’anni di distanza da quel 1974, sanno recitarti ancora a memoria. Una poesia indimenticabile. Il primo scudetto biancoceleste, solo due anni dopo la promozione in serie A. Erano altri tempi, era un’altra Italia. Solo in quei tempi, solo in quell’Italia si poteva scrivere una simile pagina di storia. Nell’Italia degli anni di Piombo, un’Italia perennemente spaccata, dilaniata, che sta faticosamente abituandosi a versare sangue e lacrime. Quella Lazio non era una squadra qualsiasi. Come l’Italia di quegli anni, anche lo spogliatoio della Lazio era spaccato, dilaniato. Due gruppi di calciatori che quasi si detestavano. Da una parte Chinaglia, Wilson, Pulici, Oddi e Facco. Dall’altra Martini, Re Cecconi, Frustalupi, Garlaschelli, Nanni. Una polveriera pronta ad esplodere. Perchè questi le pistole le maneggiavano per davvero. In ritiro, quando improvvisavano una specie di poligono, o quando poi decisero di passare a sparare a delle sagome, quando decisero che i barattoli non bastavano più. Fino a quando un giorno, quando colpirono un casolare vicino al ritiro con una schioppettata, capirono che forse si rischiava grosso. Volavano pistole, e gli allenamenti erano vere e proprie battaglie. Si dice in giro che la domenica i parastinchi non erano obbligatori. Il giovedì nella partitella d’allenamento invece guai a dimenticarseli. Sempre gli stessi, sempre contro. E le botte volavano, eccome se volavano. E si dice in giro che quelle partite, tra calcioni e fallacci, non finissero se la squadra di Chinaglia non avesse almeno pareggiato…Ma quell’anno, quella squadra, ogni domenica dava vita ad un miracolo. Ogni domenica quella squadra si dimenticava di essere spaccata a metà. Caricata dai settantamila e più dell’Olimpico, sul campo ruggiva, si mangiava gli avversari. E quando qualcuno alzava le mani su un compagno, anche se era delle fazione opposta dello spogliatoio, accorrevano in tanti per difenderlo. E poi, c’era la campagna europea di quella Lazio. Un’avventura in Coppa Uefa finita nell’unico modo che sembrava possibile per quella squadra. Con una partita surreale, al limite dell’impossibile. Una storia da romanzo noir. Nei sedicesimi di finale, contro l’Ipswich Town. Andata in Inghilterra: 4-0 per la squadra di Bobby Robson. Al ritorno sembra tutto perduto, tutto inutile. Invece, in un Olimpico infuocato, dopo 26′ la Lazio è sul 2-0, con i gol di Garlaschelli e Chinaglia. L’impresa sembra possibile. Gli inglesi, con la qualificazione in pericolo, menano come fabbri indemoniati. L’arbitro, stando ai racconti dell’epoca, è sceso in campo in condizioni di alterazione psicofisica. Si, era ubriaco marcio. E proprio l’arbitro, al minuto 67, decreta la fine dei sogni di rimonta dei biancocelesti concedendo un rigore quantomeno dubbio all’Ipswich Town. E’ l’inizio della fine. La Lazio mette in piedi una vera e propria battaglia. La partita finirà 4-2 per i biancocelesti, che saranno eliminati. Arbitro e calciatori ospiti verranno omaggiati calorosamente negli spogliatoi. All’uscita delle squadre, anche il pubblico cerca di fare la sua parte, lanciando frutta e verdura in campo. Leggenda vuole che uno scatenato Vincenzo D’Amico si fosse impegnato a raccogliere le arance arrivate dagli spalti per tirarle al direttore di gara. L’Uefa deciderà di sanzionare la Lazio con la squalifica dalle coppe europee per un anno. Squalifica che impedirà alla squadra di Maestrelli di disputare la Coppa dei Campioni l’anno successivo. Si, la Coppa dei Campioni, perchè dopo quella assurda serata, la squadra biancoceleste si ricompatta, e riversa sugli avversari tutta la rabbia che aveva in corpo. E va a prendersi lo scudetto. Se lo prende il 12 maggio del 1974, in un Olimpico stipato all’inverosimile. Ottantamila cristiani, molti con il biglietto, altrettanti senza, perchè quel giorno di rimanere fuori non se ne parla. Il Foggia oppone resistenza, il sogno sembra farsi più difficile di quello che era. Perchè da una storia del genere, da una squadra del genere, ti aspetteresti anche che sul più bello vada tutto in pezzi. Anzi, forse sarebbe proprio la conclusione più razionale per questo romanzo senza senso logico. E invece, al tredicesimo del secondo tempo, Garlaschelli se ne va sulla fascia, butta in mezzo un pallone. Il difensore del Foggia Scorsa lo prende con la mano. Rigore. Calcio di rigore. Prende il pallone Chinaglia. E chi se non Long John. Chi se non l’anima di quella squadra, il simbolo di questo gruppo. Quello che sarebbe stato citato da Rino Gaetano in “Mio fratello è figlio unico”. Quello che, ai tempi scelta rivoluzionaria per davvero, qualche anno dopo sarebbe partito per andare a giocare a calcio negli Stati Uniti. Chinaglia posiziona la palla sul dischetto e prende la rincorsa. Un rigore brutto ma efficace, una botta secca che supera il portiere, spiazzato. Tutto il resto non conta, è gol. E’ gol, perchè quella storia doveva finire per forza così. Lo sapeva anche Trentini, il portiere di quel Foggia. Era il destino che aveva deciso. «Mi hanno sempre chiesto perchè sono andato dall’altra parte rispetto alla palla. Non lo so, ma certo se avessi parato quel rigore quel giorno non sarei uscito dall’Olimpico». La partita finisce così. La Lazio è Campione d’Italia. Il lieto fine su cui nessuno avrebbe scommesso. Il premio per una squadra folle, pazza, irrazionale. Una squadra che nel calcio di oggi non avrebbe diritto di cittadinanza. Una squadra, che di lì a qualche anno, avrebbe perso alcuni dei suoi protagonisti. Come se il Padrone dell’Universo avesse voluto farci capire che il lieto fine è un palliativo per pochi poveri illusi. La vita è sempre la stessa disgraziata avventura. Tommaso Maestrelli, allenatore, vero artefice di quel miracolo, collante in quello spogliatoio esplosivo, sarebbe stato portato via da un tumore al fegato nel 1976. Qualche mese dopo, Luciano Re Cecconi sarebbe morto in circostanze misteriose, colpito dai proiettili di un gioielliere. Uno scherzo finito male, un tragico errore, una fatalità. Il sipario che calò su quella Lazio. Su quella banda di folli che si fece beffe della ragione e dimostrò che ogni tanto anche i cattivi possono scrivere la Storia. Valerio Nicastro

"Pistole e Palloni - Una storia anni '70", l'evento di sabato 1 dicembre ore 18. Chiappaventi: "Raccontiamo un'altra Lazio", scrive il 30.11.2018 Francesco Bizzarri Fonte: Lalaziosiamonoi.it. Una Lazio da Romanzo Criminale: pistole, botte, litigate. Tutto vero. Una Lazio Campione d’Italia con lo scudetto del 1974, il primo vero trionfo dei colori biancocelesti. Due facce della stessa medaglia che si incontrano in un evento imperdibile. Ecco "Pistole e palloni - Una storia anni 70", di Guy Chiappaventi, con le foto di Marcello Geppetti e Vittorio La Verde alla Dolce Vita Gallery - Via Palermo, 41 Roma (ingresso libero). “Non è la presentazione di un libro, non è una messa cantata. Racconteremo una storia di calcio come non c'è mai stata, un gruppo di outsider con la pistola sotto l'ascella, due spogliatoi come due clan e la rabbia di chi deve cambiare il suo destino”. Tanti gli ospiti che arricchiranno la serata. Gianfranco Spadaccia: amico personale di Pannella, uno dei fondatori del Partito Radicale, finito in galera per difenderne le lotte, era il segretario a quell'epoca. Davide Steccanella: è uno dei migliori avvocati penalisti di Milano ma soprattutto conosce come nessuno in Italia la storia degli anni '70, cita risultati di partite, morti ammazzati, sequestri di persona, tutti con la stessa competenza. Armando Sommajuolo è il più grande e il più garbato conduttore di tg che abbia incontrato nella mia carriera. Leggerà testi di libri e tratti di sentenze. All'inizio tutti saranno introdotti da Renzo Giannantonio, che è lo speaker ufficiale dell'Olimpico. Altra voce mitica. E per finire, verrà proiettato per la prima volta in Italia, il documentario della trasmissione Informe Robinson per Canal Plus, “La Lazio de las pistolas". Interviste tutte in italiano. A detta di molti è il più bel documentario che sia mai stato fatto sulla Lazio di Maestrelli. Il noto giornalista Guy Chiappaventi, curatore dell'evento, in un'intervista ci ha raccontato ancora queste incredibili storie rispondendo ad alcune domande. 

Come nasce l’idea di intraprendere un racconto di quella Lazio “pazza, selvaggia e sentimentale”?

«È passato così tanto tempo dalla prima uscita del mio libro che quasi non me lo ricordo più. C’era questa storia, la Lazio del ’74, che mischiava gloria e disgrazia, successo e caduta, tutti e due rapidissimi. Un gruppo di outsider, irregolari, cani sciolti che in due anni ribalta la gerarchia del calcio. Una squadra con la fondina della pistola sotto l’ascella, politicizzata, politicamente scorretta. Incarna il suo tempo, gli anni ’70. L’incrocio è stato facile, raccontare quel gruppo di uomini per raccontare un’epoca. Nella primavera ’74, mentre la Lazio vince lo scudetto, si vota il referendum sul divorzio, le Br uccidono per la prima volta e sequestrano a Genova il giudice Sossi, scoppiano bombe in piazza e sui treni. Non si capisce quella Lazio se non si considera il contesto. All’inizio non pensavo a un libro così corale, non avevo intenzione di fare un capitolo per ogni calciatore. Poi più entravo nella storia, più avevo voglia di raccontarlo ed è nata quella struttura».

Di storie se ne sono sentite tante in questi anni tra pistole e litigate dentro lo spogliatoio biancoceleste. Tutto vero?

«La Lazio del ’74 è il Romanzo criminale del calcio. “El grupo salvaje”, lo ha chiamato El Pais. Non ho mai sentito la storia di una squadra con due spogliatoi divisi come in una faida familiare, un poligono di tiro nell’albergo dei ritiri, scazzottate da film western con gli avversari al ristorante, riti di iniziazione dei compagni appena arrivati con pistolettate in mezzo alle gambe. Certo che è tutto vero, anzi. Credo che, a quarant’anni di distanza, non sappiamo tutto o qualcosa ce lo siamo perso per strada».

L’episodio più curioso e affascinante?

«Se togliamo le pistolettate per spegnere i lampioni o la lampadina dell’abat jour in camera, l’episodio-simbolo è l’intervallo di Lazio-Verona. Io vorrei fare l’allenatore un quarto d’ora nella vita solo per ripeterlo. La Lazio è sotto due a uno con un’autorete di tacco di Oddi. Maestrelli capisce che, se porta i suoi nello spogliatoio, arriverà la tempesta perfetta. Così davanti alla porta dello spogliatoio indica il campo: “Torniamo su”. I calciatori della Lazio si mettono nella loro metà campo, ognuno nella sua posizione, aspettando il ritorno degli avversari. All’inizio il pubblico è disorientato. Poi si carica come una molla. L’Olimpico diventa una bolgia. Quelli della Lazio sembrano leoni alla catena nel Colosseo. Quando il Verona rientra, ha la strada segnata, come un toro nella corrida. In pochi minuti la Lazio rimonta e vince quattro a due».

In quel famoso spogliatoio del 1974, l’anno dello scudetto, chi erano i “più agitati”?

«Era uno spogliatoio di caratteri agitati, di personalità forti, tante così tutte insieme probabilmente non ci sono mai state. Petrelli, che era stato alla Roma e lo chiamavano Jesse come il bandito Jesse James, era l’armiere della banda. Anche Martini aveva una passione per le armi e per il paracadutismo. Chinaglia era anarchia pop, un anarchico scolpito nel marmo di Carrara. Non c’erano “acque chete”: Pulici racconta sempre che aveva capito che la situazione era sfuggita di mano quando vide il suo vice, Moriggi, un ragazzo timorato e lavoratore, che si era presentato in ritiro con una pistola come un cannone».

I racconti, la storia stessa, sono tutti leggendari. Progetti futuri? Immagini un film su questi fatti…

«Io dovrei un po’ scollarmi da questo racconto. Il libro ha avuto sette edizioni, un successo di molto superiore a quello che potevo soltanto immaginare. Sono passati quasi quindici anni dalla prima uscita e più di quaranta dallo scudetto. Ho accettato di fare questo racconto per immagini, il 1 dicembre (Dolce vita Gallery, via Palermo 41, ore 18, ingresso libero, ndr), perché le foto di Geppetti e di La Verde sono dei capolavori, il ritratto di un’epoca. Molte di queste sono inedite. E poi Marco Geppetti, il figlio di Marcello, mi ha dato carta bianca. Marco è un compagno di lavoro formidabile e anche una persona molto generosa. Abbiamo diverse cose in comune, tra cui la ricerca ognuno del proprio padre. Marcello Geppetti è uno dei più grandi fotografi italiani del 900: capace di cogliere l’attimo nel calcio, è suo lo scatto di Chinaglia col dito puntato contro la Sud, così come nella cronaca. Di farne un film se ne è parlato tanto ma ci sono diversi ostacoli: la Lazio è considerata una squadra di nicchia e poi è brutta, sporca e cattiva nell’immaginario collettivo, non è molto spendibile, certi film, soprattutto in tv, vorrebbero sempre i buoni sentimenti e il lieto fine. Qui il lieto fine non c’è. Muore Maestrelli, muore Re Cecconi, Chinaglia scappa in America. Forse dal mio libro si potrebbe fare una graphic novel e un po’ ci sto pensando, perché è un genere con cui non ho mai avuto a che fare e mi piacerebbe sperimentarlo. Per tutto il resto, cerco l’idea giusta. Faccio il giornalista, l’inviato al telegiornale. Quello resta il mio lavoro: per evadere, visto che più o meno non ci si guadagna nulla, serve un innamoramento. Una cosa su cui buttarsi. Non l’ho ancora trovata. Prima o poi busserà alla porta».

La grande e indimenticabile Lazio del 1974: come sono oggi i biancazzurri campioni d'Italia, scrive Martedì 8 Novembre 2016 Giacomo Perra su Il Messaggero. La prima volta, si sa, non si scorda mai. Ma ci sono prime volte e prime volte. E quella della Lazio con lo scudetto fu davvero speciale. Provate a chiedere a un tifoso biancazzurro di vecchia data della mitica formazione di Chinaglia e Maestrelli: riuscirà a stento a trattenere le lacrime. Perché, al di là di ogni retorica, quella squadra fu davvero unica e irripetibile. Di Giorgione e compagni si disse (e si continua a dire) un po’ di tutto: che erano degli irresponsabili (numerosi gli aneddoti sciorinati al proposito: dalle pistole portate in ritiro ai cazzotti in allenamento), dei fascisti o, esercitando un po’ più di indulgenza, una banda di mattacchioni divisa in clan (quello di Chinaglia, il bomber e il condottiero in campo e fuori, e Wilson da una parte e quello di Martini e Re Cecconi dall’altra). Ma quando andavano in campo, con una moderna disposizione tattica all’olandese in cui la mobilità di tutti permetteva di coprire il campo in maniera perfetta, non ce n’era per nessuno. Specie nella magica stagione 1973-74, quella in cui, ad appena due anni dalla promozione in Serie A, agguantarono finalmente il tricolore, mancato di un soffio nel campionato precedente. Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico: sono questi gli undici uomini che fecero l’impresa. A guidarli, un mister eccezionale, Tommaso Maestrelli, un toscano saggio e flemmatico che seppe essere stratega e psicologo, guida tecnica e morale, allenatore e papà. A Roma arrivò nel 1971 chiamato da Umberto Lenzini, il leggendario presidente, segnando per sempre i suoi ragazzi e l’intera storia biancazzurra. In un ciclo fatto di partite e momenti straordinari, l’apoteosi si raggiunse sicuramente il 12 maggio del ‘74, quando, all’Olimpico, un rigore trasformato da Chinaglia, capocannoniere con 24 reti, permise alla Lazio di battere il Foggia (l’ex squadra di Maestrelli) e di diventare campione d’Italia. Il tifo biancoceleste, un blocco unico con la squadra per tutto il torneo, esplose e quella giornata, senza nulla togliere ai fasti targati Cagnotti e Nesta, è forse la pagina più bella della ultracentenaria epopea laziale. Tutto però ha una fine e così, qualche anno dopo, anche il meraviglioso ciclo di quella “banda” di splendidi “ragazzacci”, diventati in seguito chi parlamentare, chi opinionista, chi dirigente sportivo, si chiuse. Stroncato da un male incurabile, Maestrelli morì a 54 anni il 2 dicembre del 1976, anno in cui Chinaglia fece le valigie e si trasferì a New York per chiudere la sua strepitosa carriera. Qualche mese più tardi, il 18 gennaio del ’77, il destino beffardo, in circostanze ancora tutte da chiarire, si prese anche Luciano Re Cecconi, persona fantastica e centrocampista dai polmoni d’acciaio. Nell’’87 a spegnersi fu invece il patron Lenzini. La grande Lazio del ‘74, insomma, era ormai solo un ricordo ma che ricordo …

La grande e indimenticabile Lazio del 1974: come sono oggi i...

ACCADDE OGGI. L’ultima di Chinaglia con la Lazio: Maestrelli si ammala, scrive Lazio News il 25 Aprile 2017

ACCADDE OGGI LAZIO – E’ il 25 aprile del 1976. Si gioca la ventisettesima giornata di campionato. L’arbitro Michelotti arbitra Lazio-Torino. Più di 40mila spettatori accorrono all’Olimpico per assistere alla prestazione degli undici biancocelesti: Pulici, Ammoniaci, Martini, Wilson, Polentes, Badiani, Garlaschelli, Re Cecconi, D’amico, Lopez, e Chinaglia. In pochi avrebbero scommesso su di loro quando la capolista granata è scesa in campo, ed invece la Lazio ha sfoderato forse la più bella prestazione della stagione. Wilson comanda la difesa, D’Amico è imprendibile. La Lazio attacca, il Toro arranca.

MAESTRELLI – Una partita studiata quasi alla perfezione da Tommaso Maestrelli. L’allenatore però proprio durante il match accusa un malore che lo costringe a rimanere in panchina ben oltre la fine del 90′. Assistito dal professor Ziaco, viene visitato in serata dal dottor Imperato. Diagnosi: stress psico-fisico. Non sapeva ancora che il 1976 sarebbe stato il suo ultimo anno alla Lazio e in vita. Maestrelli muore il 3 dicembre di quell’anno nella clinica Paideia, dove era stato ricoverato giorni prima per un collasso cardiocircolatorio. A rendergli omaggio accorrono dirigenti sportivi, allenatori, tutti i calciatori della squadra.

CHINAGLIA – Anche Giorgio Chinaglia, che proprio dopo Lazio-Torino del 25 aprile aveva lasciato Roma in direzione New York, per giocare con i Cosmos. Quella sarebbe stata la sua ultima partita con i biancocelesti. Dopo 209 partite in campionato e 98 reti, Long John è stanco della Capitale, della stampa italiana e delle critiche. Vuole lasciare Roma. Prende un aereotaxi diretto a Genova dall’aereoporto dell’Urbe. Da qui, un altro aereo lo porterà a Parigi da dove finalmente volerà verso New York. Anche oltreoceano, Chinaglia scrive la storia: nel 1982 diventa il secondo calciatore italiano ad ottenere il titolo di capocannoniere in un campionato straniero.

LEGGENDE – Oggi, il mito biancoceleste avrebbe compiuto 70 anni. Lui, che più di ogni altro è stato icona di identità, di rivalsa, di lazialità divisa negli spogliatoi eppure unita in campo. Grazie, soprattutto, al lavoro e all’umanità del Maestro, che riuscì nell’impresa di dominare l’impavido ed impulsivo Long John. Cosi diversi, eppure così simili da diventare amici, in vita e nella morte. Le lapidi delle due leggende giacciono vicine, e da vicino guardano riecheggiare la gloria dei loro anni. Sempre "co tanto core, come nessuno c’ha".

E’ morto Andrea G. Pinketts, lo scrittore della Milano noir. Aveva iniziato con il giornalismo, era diventato scrittore per raccontare in libertà la sua città. Negli anni Novanta aveva fondato "la Scuola dei Duri", un movimento di giallisti milanesi, scrive di Giovanni Battistuzzi il 20 Dicembre 2018 su Il Foglio. Aveva il modo di fare da spaccone di una Milano che non c’è più da un pezzo, quella un po’ artefatta degli anni Ottanta. Ma uno spaccone tranquillo, sincero, senza spocchia. Aveva la parlata da milanese antico, ancora non imbastardita dalla televisione anni Ottanta, “meneghina come non ce n’è più, sono rimasto uno dei pochi”, diceva scherzando, ma nemmeno troppo. Aveva il gusto un po’ da americano in Italia, come un Nando Moriconi di Alberto Sordi, “ma milanese al cento per cento”. Andrea Giovanni Pinchetti era tutto questo e un po’ di più, era Andrea G. Pinketts, pseudonimo ma non solo, perché il suo nome d’arte, il suo essere “scrittore” non era una posa, era diventato l’essenza. Andrea G. Pinketts è morto oggi a 57 anni, per un tumore, dopo una vita passata al Trottoir, il bar prima in corso Garibaldi poi in piazza XXIV Maggio. Era lì che scriveva, era lì che aveva una sottospecie di ufficio, soprattutto era lì che dava appuntamento a tutti e lì si incatenò nel 2013, quando il bar venne posto sotto sequestro per inottemperanza alle norme sulla sicurezza. Andrea G. Pinketts aveva iniziato con il giornalismo a Onda Tv, aveva fatto inchieste per Esquire e Panorama, travestendosi per raccontare Milano e dintorni, era diventato scrittore all'inizio degli anni Novanta con Lazzaro, vieni fuori. Nel 1993 Pinketts aveva fondato "la Scuola dei Duri", un movimento di giallisti milanesi che come lui frequentavano il Trottoir. Tre anni dopo la consacrazione, quando un suo racconto venne incluso nell’antologia di Einaudi Stile libero Gioventù cannibale, che raccoglieva un gruppo di nuovi scrittori italiani “pulp”. Andrea G. Pinketts aveva un alterego a cui voleva bene e che ogni tanto odiava. Lo odiava perché Lazzaro Santandrea più che un alter ego era una sua rappresentazione a lettere, punti e virgolette, soprattutto a fumetti, perché da quelli gli era venuta l’idea. Gli era apparso una notte al bar dopo un tredici ore di riprese per Onda Tv, mentre sfogliava distratto un albo. Fu il protagonista di molti suoi libri, romanzi che sfioravano il noir, rigorosamente hard boiled, per sfociare nel grottesco e poi sfioravano il pulp per sfociare nel giallo. Erano mondi realissimi e molto immaginari, una Milano che esisteva e non esisteva, che vagava tra ricordi andati e molti rimandi all’attualità. “Scrivo come mi viene, ogni tanto adeguo il linguaggio alla realtà, a volte cerco di adeguare la realtà al linguaggio. Ogni tanto non ci capisco neppure io cosa fare e faccio ciò che voglio”. Andrea G. Pinketts aveva mille idee in testa, qualcuna di queste finiva su carta, le altre si disperdevano come lui si disperdeva nelle serate e nelle notti milanesi. Amava Milano a volte disprezzandola, un romantico in fondo. Lui faceva il primo, sotto sotto era anche il secondo. Quando parlava di Milano sorrideva. Poi smetteva subito, dava un sorso alla birra e si riaccendeva il sigaro. Milano l’aveva reinterpreta a suo modo, così da renderla “meno bella di quella che è, più dura di quella che è, molto più pulp, decisamente meno stronza”. Che era un complimento, perché le cose troppo facili non gli piacevano, “se una cosa è facile è banale, se è banale lo è perché è si fa prona al potere”. Si professava anarchico e forse un po’ lo era davvero, ma anarchico americano con un senso profondo della giustizia e dell’ordine. “Un anarchico chandleriano se vuol dire qualcosa”, perché Chandler ha creato Philip Marlowe “e con lui un senso più intenso del senso di Antigone, delle leggi divine, che altro non sono quelle dello stato, e delle leggi del cuore”.

Andrea Pinketts, l'ex duro da bar: "Sono un reduce della tv trash". Intervista allo scrittore che diventò popolarissimo nell'era della Milano da bere "Se gli '80 erano di plastica, ora c'è il vuoto: ci restano solo orrore e ironia", scrive Raffaella De Santis su La Repubblica il 26 luglio 2017. Se ne sta seduto sotto i portici come se il bar che lo ospita fosse Fort Alamo e intorno non ci fossero macchine e turisti in flip-flop e canottiera ma il deserto. Andrea G. Pinketts lo trovi sempre a Le Trottoir, un locale in zona Darsena, dove è di casa. È qui che scrive i suoi libri. Si aggira tra i vari ambienti disinvolto, mostra la sala a lui dedicata, ci tiene a fare bella figura. Indica anche una serie di ventagli cinesi appesi a una parete. Poi torna fuori e va a sedersi davanti alla sua birra, accendendosi l'immancabile sigaro. Per essere un vero cowboy però ha una camicia troppo sgargiante, con stampate tante figurine di pin up anni '50, che rimandano più alla California che a Sergio Leone. La Milano da bere non esiste più, il locale alle sei di pomeriggio è vuoto, e Pinketts sembra un reduce in attesa che tutto torni come prima. Magari ai tempi in cui andava in tv e frequentava il Maurizio Costanzo Show. I tempi in cui il trash faceva tendenza e credevamo di essere una grande potenza economica. E adesso? A 55 anni, dice di non voler più scrivere romanzi, mentre la raccolta di racconti Sangue di Yogurt, uscita nel 2002 per Mondadori, viene ripubblicata da un piccolo editore romano, Lastaria. Sul tavolo però non c'è il suo libro, ma Armageddon, thriller apocalittico di Alan A. Altieri, scomparso lo scorso giugno.

Ma perché le piacciono i duri?

"Mi piacciono i duri dal cuore tenero, gli ultimi, i balordi, perché alla fine sotto quelle scorze si nascondono delle anime nobili. C'è un'espressione inglese che dice nobody loves losers. Io la ribalto, perché oltre ad amare i perdenti amo le battaglie perse, forse perché c'è più gusto a vincerle. D'altra parte in questo libro racconto tutte storie di emarginazione ".

Come le è saltato in mente di narrare l'innamoramento tra una donna e un riccio?

"Se muore un panda tutti si commuovono, mentre se un riccio viene investito da un camion, come accade quotidianamente, non gliene frega niente a nessuno. Ho voluto ridare dignità alla morte del riccio" (sorride).

Eppure lei in passato sembrava a suo agio nella Milano da bere, quella dei ricchi più che dei ricci. Non si è fatto mancare niente, era un affezionato della tv trash.

"Sono andato ospite al Maurizio Costanzo Show e ho fatto l'inviato per la trasmissione Mistero, dove la maggior parte delle storie raccontate erano puttanate, ma un due per cento davano i brividi. Ho partecipato perfino, grazie a Vittorio Sgarbi, a La pupa e il secchione.

Non è un po' troppo perfino per stomaci forti?

"Mi è sempre piaciuto travestirmi, lo facevo anche da giornalista, per le inchieste di Esquire e Panorama. Il mio motto è che la vita è breve ma larga e solo facendo mille cose si diventa rinascimentali ".

È più pulp o più qualunquista?

"Ma no, il qualunquismo è di chi si assoggetta per convenienza, mentre io ho sempre avuto problemi con il potere. Al liceo linguistico mi espulsero, alle elementari mi sospesero. La mia scrittura è anarchica, mescola i fumetti e Dostoevskij. Alla fine per me vale il giusto mezzo confuciano: vedere l'orrore con ironia e l'ironia con orrore. Il mio scrittore preferito è Shakespeare che riesce a coniugare la farsa e la tragedia. Tito Andronico è la storia più pulp che possa immaginare, sarebbe potuta diventare un film di Tarantino".

Ha conosciuto Tarantino?

"Sì, ci siamo incontrati in un bar, durante un festival, non mi ricordo se a Cattolica o a Viareggio. Era lì per presentare Le iene, ma il film non era ancora uscito. Ricordo questo ragazzone americano lungo lungo che mi parlava della sua passione per il poliziottesco all'italiana, genere che aveva scoperto durante il suo lavoro da commesso in una videoteca".

Lo considera un suo modello?

"Lo ammiro, sono un suo fan, ma ho fondato il mio personale pulp italiano prima di lui".

Altri incontri importanti?

"Sempre in un bar, durante un festival, in piena notte, con Manuel Vázquez Montalbán. Ci scambiammo i libri, grazie a lui ho pubblicato il mio primo romanzo con Feltrinelli".

Pinketts ordina una seconda birra, poi ricorda i suoi amici, i suoi "cattivi maestri", da Carmelo Bene a Franco Califano ("L'ho anche cantato"). Intanto a Le Trottoir inizia ad arrivare qualcuno, parte la musica, ma la serata è ancora lontana dal decollare.

L'impressione però è che lei non si trovi a suo agio in questi anni.

"Se quelli della Milano da bere erano anni di plastica, questi sono anni vuoti. Gli anni dei social non mi appartengono. Per scrivere ho solo bisogno di una birra, di un foglio bianco e di una Montblanc. Sono socialissimo umanamente ma totalmente asociale tecnologicamente. Credo che ci sia stato un impoverimento della lingua. Gli sms non hanno niente a che vedere con le lettere che scrivevamo a mano. Che belli i tempi in cui se avevi una fidanzata a Belluno dovevi andare in una cabina telefonica con 50 gettoni e con quelli misuravi il tempo dell'amore".

Si è innamorato molte volte?

"Tre volte e sono state tutte traumatiche".

Per questo nei suoi libri le donne le fa sempre sparire o rapire, è una vendetta?

"È una regola del pulp, che come la detective novel si rifà alla tradizione narrativa cavalleresca, in cui devi salvare la principessa e uccidere il drago, facendone la parodia, esagerando, guardando tutto con la lente deformante del luna park. Perché, come diceva Jannacci, "l'importante è esagerare"".

Come nelle migliori fiabe.

"Nelle mie storie c'è un po' dei Fratelli Grimm. Ci sono fate e orchesse, donne angeliche e rudi ostesse. Mi piace sfidare le nostre inquietudini. Ora sto lavorando a un progetto per racconti e immagini intitolato Face your phantoms, affronta le tue paure, insieme a Alexia Solazzo, l'artista che ha anche realizzato la copertina della nuova edizione di Sangue di Yogurt ".

Qual è la sua maggiore paura?

"La cronofobia, la paura del tempo che passa, che è poi soprattutto la paura di perdere gli amici. Pensare che un omaccione come Alan Altieri sia morto a 65 anni mi mette di fronte alla vacuità del tempo".

Stare seduto al bar aiuta a sentirsi meno soli?

"I bar sono un antidoto alla paura, la trasformano in malinconia, qualcosa di dolce. Sono chiese laiche o pagane, templi di incontri per sconfiggere il tempo".

Morto Enzo Boschi, per 12 anni alla guida dell'Ingv. Avrebbe compiuto 77 anni a febbraio: a lungo alla guida dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, scrive Matteo Marini il 22 dicembre 2018 su "La Repubblica". Se n'è andato Enzo Boschi, una delle figure più importanti della ricerca italiana sui terremoti. A darne notizia sono stati i suoi stessi ricercatori dell'l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) che aveva diretto per 12 anni. In precedenza era stato capo dell'Istituto nazionale di geofisica. Boschi ha scritto le pagine più recenti della ricerca italiana in ambito sismico, della divulgazione ma anche della cronaca, in un periodo in cui la previsione di questi eventi ha destato le polemiche più feroci. Dallo sgombero della Garfagnana nel 1985 fino al terremoto dell'Aquila del 2009. I funerali sono previsti il 24 dicembre a Bologna. Avrebbe compiuto 77 anni in febbraio. Nato ad Arezzo, il 27 febbraio 1942, si è laureato in Fisica all'Università di Bologna e in seguito fece esperienza all'estero: in Inghilterra all'Università di Cambridge, in Francia ai Laboratoire des Hautes Pressions del Cnrs a Parigi e negli Stati Uniti al California Institute of Technology di Pasadena e ad Harvard, specializzandosi in geotermia e sismologia. Nel 1975 è diventato docente di Sismologia all'Università di Bologna. Dal 1982 membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. L'anno successivo iniziò a guidare l'Istituto nazionale di geofisica e, dal 2000, prese il timone del neonato Ingv che guidò fino al 2011, istituendo la prima rete italiana di controllo sui fenomeni sismici e vulcanici, che comprende il monitoraggio di tutti i vulcani attivi del Paese. Già dagli anni '80 fu una figura di riferimento per la prevenzione del rischio, in particolare per i terremoti. Membro della Commissione grandi rischi, nella sezione sismica, in quello che si chiamava Ministero per il coordinamento della Protezione Civile.

La previsione del terremoto: lo sgombero della Garfagnana. Boschi e l'allora ministro Giuseppe Zamberletti, ministro della Protezione civile del governo Craxi, presero la decisione di far sgomberare i comuni della Garfagnana (in provincia di Lucca), in previsione di un terremoto che non avvenne mai. Per un rischio sismico incombente, dati anomali che facevano presagire una forte scossa, furono evacuate circa 100.000 persone. La questione dei “precursori sismici” e della “prevedibilità” dei terremoti è stato un tema dibattuto negli ultimi anni. Enzo Boschi si è sempre rifiutato di accettare la valenza scientifica di presunti “segnali” fisici dell'imminenza di un sisma, come il radon.

L'Aquila e il processo alla Commissione grandi rischi. Nell'aprile 2009, poco prima che la terra tremasse devastando L'Aquila e i comuni del cratere, la Commissione grandi rischi, di cui faceva parte anche Boschi, si riunì per decidere il da farsi, viste le continue scosse che andavano avanti da settimane. Il messaggio che uscì da quella riunione fu di rassicurazione alla popolazione, cioè l'improbabilità di una forte scossa. A seguito del sisma aquilano, Boschi e gli altri membri della Commissione (Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva e Mauro Dolce) furono imputati per omicidio colposo e lesioni, assieme all'allora capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Condannati in primo grado e assolti in appello e infine in Cassazione. L'unica condanna fu per Bernardo De Bernardinis, definitiva a due anni, per le dichiarazioni rese in un servizio tv in cui rassicurava la popolazione. Il dibattito sulla responsabilità della Commissione divenne infuocato, perché al centro della discussione fu proprio la sottovalutazione del rischio terremoto, secondo molti scienziati che difesero l'operato della Commissione con l'accusa assurda di non aver saputo prevedere quello d'Abruzzo.

Esperto di livello internazionale. Ritenuto un esperto di terremoti a livello internazionale, Enzo Boschi ha ricevuto una serie di riconoscimenti da numerose istituzioni tra cui Royal Astronomical Society e AAAS. Dal 1991 fellow dell'American Geophysical Union, nello stesso anno è stato nominato Grande ufficiale della Repubblica italiana. Socio dell'Accademia Europea nel 1992, medaglia d'oro del Presidente della Repubblica come Benemerito della Cultura. Dal 2002 fellow dell'American Association for the Advancement of Science. Dal 2006 è cavaliere di Gran Croce e socio Benemerito della Società Italiana di Fisica nel 2008.

L'attività di divulgazione. Nel 1989 ricevette il premio Glaxo per la divulgazione scientifica, un'attività che ha continuato durante tutta la sua carriera attraverso libri divulgativi come Non sta mai ferma. Un romanzo per capire il fenomeno dei terremoti. Volto noto anche in tv, chiamato come esperto per spiegare la scienza dei terremoti e sensibilizzare sulla prevenzione del rischio sismico, in particolare sulla tenuta e la messa in sicurezza delle costruzioni: “A uccidere, lo ripeto, sono gli edifici costruiti male con l'unico scopo di arricchire i costruttori” diceva.

Addio ad un grande combattente della scienza. Quella vera. ​Enzo Boschi non era solo uno scienziato. Aveva fatto della conoscenza il suo motivo di vita, scrive Emanuele Perugini il 22 dicembre 2018 su Agi. Enzo Boschi era uno scienziato di primissimo livello e un grande combattente. Di quelli che, è il caso di dirlo, non si tirano mai indietro. Fino all’ultimo, fino a quando ha avuto le forze per farlo, non si è mai risparmiato né come scienziato né come divulgatore. A muoverlo era la consapevolezza che studiare i terremoti in Italia ha un significato molto particolare perché vuol dire fare di tutto per cercare di salvare vite umane. Enzo Boschi non ha mai dimenticato questo aspetto particolare del suo lavoro e per tutta la sua lunga attività si è sempre sforzato di costruire un sistema di ricerca che non fosse confinato nelle aule delle università o degli istituti, ma che fosse il più possibile sul campo, capace cioè di supportare lo Stato in ogni processo decisionale, di essere cioè operativo.

L’intuizione della rete di rilevamento sismico. Sua l’idea di dotare l’Italia di un Istituto di ricerca - l’Istituto di Geofisica e Vulcanologia, INGV - che fosse anche un centro operativo 24 ore su 24, capace cioè di poter contare su una rete capillare di sensori e di ricercatori in grado di intervenire tempestivamente, quasi in tempo reale, al fianco della Protezione Civile, con informazioni validate, mappe e analisi puntuali dei processi sismici in atto. Se oggi in Italia abbiamo una delle reti di rilevamento sismico tra le più avanzate al mondo, il merito, è in gran parte di Enzo Boschi. Del resto il suo impegno di ricercatore è stato fin dall’inizio segnato dai terremoti. Non solo sotto il profilo geofisico, ma anche, e soprattutto, sui molteplici aspetti, di natura politica legati a questo fenomeno naturale. Dalla evacuazione della Garfagnana (1985), e fino al processo alla Commissione Grandi Rischi a seguito del terremoto de L’Aquila (2009), la sua attività di ricercatore si è sempre intrecciata con questi delicati meccanismi.

Imprevedibile, calcolabile. Non c’è stato sciame sismico in questi anni, che non sia stato accompagnato da un suo diretto interessamento diretto come scienziato o da un suo commento come divulgatore scientifico. Del resto questi sono stati i piani su cui amava lavorare: ricerca, operatività e divulgazione. In un paese a rischio sismico, il suo più grande sforzo era quello di cercare di far comprendere ai cittadini, ma anche ai decisori politici, che è inutile pensare di poter prevedere l’arrivo di una scossa, mentre è utile conoscere il rischio che si corre con la massima precisione possibile. Per Boschi, non si muore per effetto dei terremoti, ma per le case che ti crollano in testa. “Le vittime dei terremoti sono attribuibili all’abusivismo, alle irregolarità, alla sciatteria, che hanno molti corresponsabili”, aveva scritto dopo il terremoto di Casamicciola.

Contro le fake news. Lo ha detto in ogni occasione e in tutte le salse: in maniera ufficiale avviando quel progetto di ricerca che ha permesso di elaborare le mappe di rischio sismiche del nostro paese, che in maniera divulgativa attraverso interviste, editoriali ed articoli. Per esempio, su Blog Italia, aveva pubblicato un vero e proprio decalogo contro le fake news relative ai terremoti. Nei suoi post ha affrontato questioni anche molto delicate, come per esempio quelle legate ai risarcimenti per i danni creati dai terremoti. “Dal 1970 ad oggi, 7 dei 10 terremoti più costosi d’Europa si sono verificati in Italia, paese doppiamente esposto per la vulnerabilità del suo patrimonio artistico e per le costruzioni edificate in assenza o in barba alla normativa antisismica. Questo dovrebbe far riflettere sulla concessione del risarcimento a tutti, comunque e nonostante le responsabilità di taluni, pubblici o privati che siano”.

Controcorrente. Da grande combattente, Enzo Boschi non si è mai risparmiato una polemica. Come quella nei confronti di Milena Gabanelli, che dalle pagine del Corriere della Sera aveva proposto di introdurre un’assicurazione contro i terremoti. Oppure quella nei confronti dell’ex premier Mario Monti, che nei giorni del terremoto di Ferrara si era lasciato sfuggire una previsione in merito a una probabile scossa proprio su Ferrara. Non usava mezze parole: “se il 70% del patrimonio immobiliare di un territorio sismico come l’Italia, risulta inadeguato a scosse di medie magnitudo, è anche grazie alla sconsideratezza con la quale gli amministratori locali spesso, non hanno vietato l’edificabilità in aree a rischio. Casamicciola è solo l’ultimo dei tanti casi” aveva scritto proprio l’indomani del terremoto a Ischia. Durissimo poi con la politica dei condoni. “Decisamente scellerata poi è la piaga dei condoni, la cui madre di tutte le regolarizzazioni dell’abusivismo è la legge 47 del 1985 del governo Berlusconi. Una sanatoria per la quale grande fu la protesta affinché almeno i territori dichiarati sismici fossero esclusi da questa delittuosa fittizia idoneità assegnata per default all’edificazione precaria, fuori norma, illecita” aveva scritto sempre dopo il terremoto di Ischia. C’era però un cruccio che lo affliggeva che lo ha accompagnato fino agli ultimi giorni: era il distacco, da lui sofferto e vissuto in maniera non sempre serena verso l’Ingv e la comunità di ricercatori e scienziati che fanno riferimento a questo ente di ricerca. Per chi gli è stato vicino, si è trattato di un dolore profondo che lo ha segnato in maniera indelebile.

L'ultimo post per l'Agi. Dal 2017 era uno degli autori di BlogItalia e nel suo ultimo post parlava del rischio di uno tsunami nel Mediterraneo. "E' possibile che si generino tsunami che possono arrivare anche ad essere devastanti" scriveva "Ce lo dice la storia geologica del nostro mare. La placca euroasiatica, quella africana e quella anatolica si scontrano proprio sotto i fondali del mar Jonio e da questo scontro nascono terremoti e vulcani che possono generare tsunami. Fu proprio l’eruzione di un vulcano, quello di Santorini, in Grecia, nel Mar Egeo, uno dei tanti che si trovano nel Mediterraneo, anche vicino alle coste italiane, che ha generato forse l’evento più distruttivo che si sia mai verificato nel mondo e che forse ha provocato la fine della civiltà Minoica".

Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, Enzo Boschi scrive al Corriere della Sera, scrive "Il Foglietto" il 26 Novembre 2015. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviata dal geofisico Enzo Boschi al direttore del Corriere della Sera, all’indomani della sua piena assoluzione in Cassazione. “Caro Direttore, a pagina 25 del suo giornale del 21 novembre 2015, in basso a destra, in una decina di righe di una piccola frazione di colonna, con il titolo "Sisma all'Aquila. Assolti gli Scienziati", è apparsa la notizia che la Cassazione ci ha assolto definitivamente. Eravamo già stati assolti con formula piena un anno fa nel processo d'appello. Ovviamente lei è padrone di pubblicare come meglio crede ciò che crede opportuno. Tuttavia, giornali prestigiosi come La Repubblica, La Stampa e Il Messaggero ... hanno dato un adeguato risalto alla notizia. Lo scopo di questa mia lettera non è quindi di recriminare con lei, ci mancherebbe. Piuttosto vorrei farle notare la sproporzione fra il trafiletto di sabato e il lungo articolo apparso sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2012, all'indomani della nostra condanna nel processo di primo grado. È un articolo scritto da un'anziana Signora, autrice di libri dimenticabili e dimenticati. Non ha mai seguito il processo svoltosi a L'Aquila, dove peraltro non mi sembra siano capitati giornalisti del Corriere. Ciononostante, la Signora sembra far fatica, nell'empito del suo sfogo, nel trattenersi dal chiedere per noi la pena di morte per impiccagione. Ebbene, se avesse seguito il processo, cioè se avesse provato l'esperienza di scrivere di cose a lei note, forse si sarebbe accorta di qualche incongruenza. Per esempio, il Sindaco Cialente durante la sua deposizione al processo dichiara che era rimasto fortemente impressionato dalle mie dichiarazioni sulla pericolosità sismica abruzzese, tanto da prendere misure cautelari. La cosa può essere verificata senza dubbi di sorta! Lo dichiara anche in un’intervista successiva alla deposizione, che può essere trovata sul web. Addirittura arriverà a chiedere lo stato di emergenza per la sua città. Il 2 aprile 2009, quattro giorni prima del terremoto, Il Centro, il più importante giornale abruzzese, dedicherà a questa sua richiesta un'intera pagina. L'incongruenza, che poteva esser compresa anche dalla Signora, risiede nel fatto che il PM e il Giudice di primo grado hanno ignorato le dichiarazioni di Cialente mentre sono state uno degli argomenti che hanno portato il Giudice del processo d'appello ad assolverci con formula piena. Inoltre, se la Signora era così convinta nell'accusarci di aver rassicurato gli aquilani, l'avrà senz'altro fatto sulla base di riscontri. Strano che nessuno abbia trovato alcunché che giustifichi la sua indignazione. Mi rendo conto che a una certa età anche un viaggio Roma-L'Aquila-Roma può essere faticoso ... Potrebbe allora coltivare il dubbio come fanno le persone colte e intelligenti e di conseguenza informarsi. Invece, nell'articolo, la Signora ci indica come riferimento morale la Senatrice Pezzopane, all'epoca, credo, Presidente della Provincia de L'Aquila. Ebbene la invito, caro Direttore, ad ascoltare sul web alcune conversazioni fra la Pezzopane e la Stati, all'epoca Assessora per la Protezione Civile della Regione Abruzzo, cioè (titolo V della Costituzione) la massima e unica autorità in materia di sicurezza dei cittadini abruzzesi. Per sua comodità le allego una pagina della trascrizione del dialogo "illuminante" Pezzopane-Stati ...Mi farebbe piacere che anche la nostra spietata accusatrice ne prendesse visione ... forse potrebbe anche trovarne una qualche ispirazione per uno dei suoi romanzetti. Non credo che lei pubblicherà questa mia lettera. In fondo quando uscì l'articolo, il Corriere era diretto da altri. Mi piacerebbe tuttavia conoscere la sua opinione su un fatto: perché, secondo lei, la richiesta di stato di emergenza non fu concessa? Se fosse stata concessa forse non ci sarebbero state vittime ... o sarebbero state molte meno. E perché, secondo lei, nessun giornale si è posto questa domanda? Una ragione ci sarà, c'è sempre una ragione ...Grazie per l'attenzione. Enzo Boschi”.

Addio al nostro Stefano Livadiotti, uomo indomito, giornalista senza paura. Sfrontato, elegante, indifferente alle conseguenze che poteva avere su di lui quello che aveva scoperto e scritto. Così ci piace ricordarlo ed è così che gli vogliamo bene. Tutta la redazione de L'Espresso si stringe alla sua famiglia. E resterà la sua casa, scrivono Marco Damilano, Lirio Abbate e Alessandro Gilioli il 23 dicembre 2018 su "L'Espresso". Qualche settimana fa, in un momento importante e delicato del giornale, lo abbiamo chiamato quando stava facendo notte perché avevamo bisogno di lui, della sua saggezza, e lui è arrivato, nonostante l'ora tarda e la malattia. In abito scuro e con una bellissima cravatta color senape, elegante come sempre. Era un uomo elegante, spiritoso, corrosivo, Stefano Livadiotti. Era dunque nato per essere giornalista dell'Espresso. Del nostro giornale condivideva il dna, le virtù e i vizi, la passione per la verità, la scrittura acuminata, il gusto di rompere le scatole al potente di turno. Non aveva paura, Stefano. Non aveva mai paura di scrivere quello che pensava o che scopriva, non aveva paura dei potenti e - alla fine - non aveva avuto paura nemmeno della malattia. Era così: sfrontato, indomito, senza inchini, né timidezze, né prudenze. Indifferente alle conseguenze che poteva avere su di lui quello che aveva scoperto e scritto, perché scoprire e scrivere dava il senso alla sua vita più di qualsiasi encomio o vantaggio personale. Un giornalista verticale, un uomo verticale. Privo di schemi ideologici, non considerava nessuno intoccabile, specie rara tra chi si occupa di economia e di poteri economici. Per L'Espresso ha scritto centinaia - forse migliaia - di inchieste, ritratti, interviste, analisi economiche, quasi sempre finiva per dare fastidio a qualcuno. Si raccontava anni fa che un presidente di Confindustria fosse impazzito per scoprire le fonti dei suoi articoli. Ogni volta che pensava di aver interrotto i canali di informazione, Stefano tornava in pagina, con un documento esclusivo, una indiscrezione, una battuta feroce: tutto quel che ci voleva per rovinare la giornata all'interessato. Ha raccontato l'evaporare dei poteri forti di questi anni: imprenditori, banchieri, boiardi. Uomo di sinistra, non aveva avuto paura di scrivere un libro sulle incrostazioni dei sindacati. Uomo di legalità, aveva scritto un best seller sulla casta dei magistrati. E di altrettanto successo erano stati i suoi libri-inchiesta sugli evasori fiscali e sui privilegi del Vaticano: tutti temi che aveva affrontato mescolando uno straordinario lavoro di documentazione e verifica a una penna fluida che lasciava il segno per efficacia polemica. È questa l'essenza del nostro mestiere: pubblicare qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato. Stefano la interpretava al meglio, senza sconti per nessuno, quale che fosse il suo partito, la sua cordata, il suo potere. «Il giornalismo è notizia, Zavalita, mettitelo in mente. Io morirò nella cronaca e basta», afferma un vecchio della redazione nella prima pagina di Conversazioni nella Cattedrale di Mario Vargas Llosa. Stefano è morto sabato notte. Ci ha dato l'esempio di come si combatte una battaglia durissima e dolorosa, con coraggio, senza perdere il buon umore, in una trincea in cui parava e sparava colpi ogni giorno, proprio come viveva la sua vocazione giornalistica: da combattente indomito. Aveva 60 anni, li avrebbe compiuti il giorno dopo Natale. Prima delle vacanze era venuto in redazione a fare programmi, a decidere insieme cosa e come fare l'anno prossimo. Era così, Stefano, ed è così che gli vogliamo bene. L'Espresso - giornalisti, collaboratori, amici, lettori - si stringe alla sua famiglia. E resterà la sua casa.

Livadiotti: «La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato», scrive Chiara Rizzo il 10 febbraio 2012 su Tempi. Intervista a Stefano Livadiotti, giornalista dell’Espresso che ha scritto il libro inchiesta “Magistrati. L’Ultracasta”: «È inutile chiedere una maggiore severità della sezione disciplinare del Csm: il 93 per cento dei procedimenti non vengono neanche ammessi». Stefano Livadiotti, giornalista de l’Espresso, è autore di numerose inchieste. Una di queste, molto densa, è sfociata qualche anno fa in un libro di successo: Magistrati. L’Ultracasta. Livadiotti, infatti, per primo è entrato nelle segrete della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, rivelando gli aspetti significativi, e spesso involontariamente comici, della giustizia italiana quando è esercitata nei confronti di colleghi togati. Eppure oggi l’intervento disciplinare severo è da alcuni, ad esempio dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, additato come esempio che la giustizia sui magistrati funziona, e che non occorre l’introduzione di una responsabilità civile dei magistrati.

Data la sua conoscenza del sistema disciplinare e giudiziario, da osservatore esterno cosa ne pensa dell’emendamento che introduce la responsabilità civile diretta per i magistrati?

«Vorrei ricordare a chi (compresa l’Anm di Palamara) parla di intimidazione, ritorsione o vendetta sulla magistratura che la responsabilità civile è stata votata con una maggioranza schiacciante nel referendum del 1987, in cui parteciparono 26 milioni di italiani: e l’80 per cento votò sì. I magistrati devono pagare come qualsiasi professionista. La reazione a questo emendamento mi sembra il solito tentativo dei magistrati di mantenere dei privilegi ammantando tutto, come al solito, con la scusa dell’indipendenza della magistratura. Non penso affatto che ci saranno magistrati che firmeranno sentenze con mano tremolanti: non è che i chirurghi hanno smesso di operare perché sono responsabili direttamente. Dal 1988, quando è nata la legge Vassalli n.117 che ha introdotto la responsabilità civile per i giudici dopo il referendum, lo Stato si è rivalso sul magistrato in 4 casi. Praticamente mai. Si vede che così non funziona».

Chi è contrario alla responsabilità civile diretta del magistrato ammette il problema ma sostiene che piuttosto si deve intervenire con una maggiore severità della sezione disciplinare. Cosa ne pensa?

«Potrei essere anche d’accordo, se ci fosse una sezione disciplinare che funzionasse. Tra il 1995 e il 2002  i magistrati che hanno perso la poltrona per un procedimento disciplinare sono stati lo 0,065 per cento. A titolo d’esempio ne L’Ultracasta raccontavo il caso di un magistrato pedofilo sorpreso nei bagni di un cinema: al Csm sono riusciti a riabilitare persino lui, è evidente che la disciplina non funziona. Rinviare la soluzione alla maggiore severità della sezione disciplinare mi pare il solito sistema di dire di no. Solo che appena le toghe hanno detto che sarebbero saliti sulle barricate contro la responsabilità civile, anche il governo dei tecnici, come prima quelli politici di centrodestra o di centrosinistra, ha fatto un passo indietro. Questo dimostra che la politica ha paura della magistratura. Credo che se oggi si rivotasse quel referendum dell’87, gli italiani sceglierebbero di nuovo per la responsabilità civile: perché non capiscono il motivo per cui una casta non vada punita»

Come commenta i dati sui procedimenti disciplinari avviati nel 2011 e resi noti dal Procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, all’apertura dell’anno giudiziario 2012?

«Oggi, proprio come tre anni fa quando scrissi il mio libro, il 93 per cento dei procedimenti non supera neppure il filtro della Cassazione, che decide se la pratica merita di andare al Csm oppure no. Per quanto riguarda poi gli esiti dei procedimenti, nel mio libro scrivevo che tra il 99 e il 2006 c’erano stati 1.004 procedimenti disciplinari. L’80,9 per cento di questi è finito con assoluzione o proscioglimento. Per quanto riguarda le condanne invece: 126 magistrati sono stati puniti con l’ammonizione, un richiamo lieve; 38 con la censura, quello che definisco una “tirata d’orecchie” più forte; 22 i magistrati puniti con la perdita di anzianità, 2 con la rimozione e 4 con la destituzione. Mi pare che i numeri parlino da soli. Dei dati citati dal pg di Cassazione dico anche che non mi pare una buona notizia nemmeno «il sensibile aumento delle iniziative per “violazione di norme processuali penali e civili”» o le «abbastanza elevate percentuali di procedure “per commissione di reati” e “per ritardi e negligenza nelle attività d’ufficio”». I ritardi non vanno sottovalutati: ricordo il caso, ad esempio, di un extracomunitario che rimase 15 mesi in più in carcere per colpa di un ritardo nel deposito degli atti da parte del magistrato. Ci vanno di mezzo le vite, per un ritardo. Ora però passiamo dal magistrato cialtrone a uno anche peggiore. Quando ho scritto L’Ultracasta, ho parlato anche di una carriera in cui automaticamente, dopo 28 anni dalla prima volta che si indossava la toga, e con qualsiasi incarico, si arrivava comunque all’apice per grado e stipendio. È come se un giornalista, appena assunto, sapesse a priori che dopo 28 anni di carriera arriverebbe alla qualifica, allo stipendio e al grado del direttore del Corriere della Sera. Quando in una professione si sa di andare avanti a prescindere dall’incarico e dalla bravura, le cose come funzionano? Uno giustamente se ne va a giocare a tennis. La carriera automatica è il primo de-motivo per cui non funziona la magistratura. Aggiungiamo il fatto che gli esami per passare da un livello all’altro sono stati per decenni una farsa, e che la sezione disciplinare del Csm non funziona, e il gioco è fatto. La magistratura è un sistema talmente malato e marcio che va cambiato. Ci fu una sentenza del Csm, ricordo, che stabiliva il numero di ore lavorative di una toga: 1560 ore all’anno. Una media di 4, 2 ore al giorno cioè. Dopo ci credo che abbiamo milioni di processi arretrati. È davvero un’ultracasta: e direi proprio che lo è rimasta. Infatti dinanzi all’ennesima proposta che intacca un loro privilegio hanno ripreso a minacciare».

È morta Grazia Nidasio, caposcuola del fumetto italiano con Stefi e Valentina Mela Verde. Fumettista e illustratrice, aveva 87 anni. Nella lunga carriera creò personaggi pubblicati in tutto il mondo ottenendo prestigiosi riconoscimenti, scrive Rita Celi il 25 dicembre 2018 su "La Repubblica". È morta nella notte di Natale, nella sua casa di Certosa di Pavia, Grazia Nidasio. Considerata la regina italiana del fumetto, è stata illustratrice e sceneggiatrice dal tratto e dall'ironia inconfondibili. Aveva 87 anni. Come scrive la Provincia Pavese, la camera ardente sarà allestita nel suo ufficio-studio. Grazia Nidasio, nata a Milano il 9 febbraio 1931, diplomata al liceo artistico e poi all'Accademia di Brera, entrò negli anni 60 al Corriere dei Piccoli come disegnatrice e redattrice. Il 12 ottobre 1968 uscì la prima storia di Valentina Mela Verde, con cui ottiene grande popolarità non solo in Italia: i suoi personaggi sono stati pubblicati con successo in Francia, Argentina e Brasile. Quando dal Corrierino nacque il Corriere dei Ragazzi, le storie adolescenziali di Valentina e della famiglia Morandini migrarono sulla nuova rivista in cui per quasi un decennio saranno assolute protagoniste. La sorellina Stefi vivrà poi una vita propria come opinionista del Corriere della Sera e protagonista di fumetti, libri e serie animata in tv - migrarono sulla nuova rivista in cui per quasi un decennio saranno assolute protagoniste. Considerata un’illustratrice geniale, in molti le hanno riconosciuto il ruolo di caposcuola. Tiziano Sclavi iniziò a pubblicare racconti e fumetti grazie alle sue presentazioni e di recente Leo Ortolani su Repubblica ha scritto: "Non sarei narratore di storie a fumetti se non avessi ancora sotto pelle, come l'inchiostro di un tatuaggio, le storie di Grazia Nidasio, l'autrice di Valentina Mela Verde. La capacità di narrare il quotidiano, la vita che ognuno di noi viveva in quegli anni 70-80, ha alzato l'asticella di qualunque sceneggiatore di fumetti. Perché è facile raccontare di viaggi interdimensionali, minacciati da Kractus, il dio della quinta dimensione, che poi va bene anche una quarta, a seconda della marca - prosegue il creatore di Rat-Man - Difficile è raccontare la vita di una famiglia normale, in un condominio normale di una città normale e lasciarti il desiderio di sapere come prosegue la storia, la settimana dopo". Nel corso della sua lunga carriera Grazia Nidasio ha creato e disegnato molti personaggi come Scaramacai, Alibella, Dottor Oss, Nicoletta e il Piccolo mugnaio bianco, protagonista della campagna pubblicitaria del Mulino Bianco negli anni 80. Negli anni non ha mai smesso d’illustrare libri per ragazzi per tutti i più importanti editori, collaborando con molte riviste e case editrici: tra gli altri, Mondadori, Einaudi Ragazzi, Salani, Universo, Smemoranda. Uno dei suoi ultimi lavori, in cui ha dato ancora una volta un saggio delle sue qualità di illustratrice, è L’Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, uscito per Mondadori nel 2009. Con Valentina Mela Verde vinse lo Yellow Kid, premio assegnato al miglior fumetto, al Salone Internazionale dei Comics del 1972. Fu insignita del prestigioso premio Andersen come miglior autore nel 1987, con una menzione speciale alla carriera nel 2001. Dal 1984 al 1987 è stata presidente dell'Associazione illustratori. Inoltre è stata presidente sin dalla fondazione nel 2000 del Silf, il sindacato di categoria dei lavoratori settori fumetto, illustrazione, animazione e comunicazione visiva, carica tenuta fino al 2008. Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non riceviamo finanziamenti pubblici, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano a Rep:. Se vi interessa continuare ad ascoltare un'altra campana, magari imperfetta e certi giorni irritante, continuate a farlo con convinzione.

CHI CI HA LASCIATI…

Da Sergio Marchionne a Davide Astori a Aretha Franklin: chi ci ha lasciato nel 2018. I personaggi del mondo dello sport, della cultura, dello spettacolo e dell’imprenditoria che se ne sono andati negli ultimi dodici mesi, scrive Annalisa Grandi il 18 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Il 2018 è stato l’anno della scomparsa dell’uomo che ha cambiato la Fiat: Sergio Marchionne si è spento il 25 luglio nelle clinica di Zurigo in cui era ricoverato da diversi mesi. Prima un intervento alla spalla, poi il peggioramento, il coma e infine la scomparsa. «Sono stanco», aveva confessato pochi mesi prima, a Maranello. Aveva 66 anni.

Davide Astori. Il 4 marzo 2018 il mondo dello sport è sconvolto dalla morte improvvisa, a 31 anni, del capitano della Fiorentina Davide Astori. Era in ritiro con la sua squadra, a Udine, la sera prima sembrava tutto assolutamente normale. Poi la tragedia, il suo corpo ritrovato senza vita nella stanza d’albergo in cui dormiva da solo. A stroncarlo una tachiaritimia, tradito da un cuore che fino ad allora sembrava assolutamente sano. Una tragedia per la sua squadra, per tutto il mondo del calcio, e soprattutto per la compagna Francesca Fioretti e la loro bambina, Vittoria, di appena due anni.

Fabrizio Frizzi. Il 26 marzo 2018 se ne va uno dei volti più amati della televisione italiana: a 60 muore per una emorragia cerebrale Fabrizio Frizzi. A ottobre del 2017 il popolare conduttore aveva avuto un’ischemia durante la registrazione di una puntata del programma «L’Eredità». Poi era tornato in televisione, a dicembre, sempre alla guida dello stesso programma. In onda fino alla sera prima della morte, la sua scomparsa sconvolge il mondo della tv ed è enorme l’ondata di commozione fra i volti noti, così come quella popolare.

Stephen Hawking. Il 14 marzo muore a 76 anni Stephen Hawking, lo scienziato della «teoria del tutto», il più grande cosmologo della sua generazione, per tre decenni docente di matematica all’Università di Cambridge, la stessa cattedra di Isaac Newton. Impegno scientifico e ricerca portati avanti incessantemente, quelli di Hawking, e nonostante la grave malattia, l’atrofia muscolare progressiva, i cui primi sintomi si erano presentati già a 13 anni, che l’avevano costretto sulla sedia a rotelle, e gli avevano causato la perdita delle corde vocali, tanto che la comunicazione avveniva grazie a un sintetizzatore vocale ideato per lui.

Ennio Fantastichini. «La mia mina vagante se n’è andata» ha scritto Ferzan Ozpetek per dirgli addio. Lui è Ennio Fantastichini, l’attore italiano stroncato a 63 anni dalla leucemia. Nel 2010 aveva vinto un David di Donatello per «Mine Vaganti», proprio di Ozpetek. Ma il suo era un volto noto e amatissimo anche per le numerose fiction televisive a cui aveva preso parte.

Sandro Mayer. Il 30 novembre 2018 scompare a 77 anni Sandro Mayer: il popolare giornalista per vent’anni direttore di «Gente» e dal 2004 delle testate di Cairo Editore, «Dipiù» e «Dipiù Tv». Il record di copie vendute, aveva raccontato lui stesso, era arrivato con «Gente» e con «Edwige Fenech in costume da bagno, un milione e mezzo di copie. Ero convinto che a vendere fosse stata la sua bellezza, invece il distributore mi disse che era stata la dieta di Rosanna Lambertucci». Volto popolare anche in televisione, era stato spesso chiamato a fare l’opinionista e il giudice in numerose trasmissioni.

Sara Anzanello. Il 25 ottobre muore a 38 anni la pallavolista Sara Anzanello, ex nazionale azzurra, nel 2013 era stata colpita da una grave forma di epatite e aveva subito un trapianto. Poi, un linfoma, che aveva combattuto fino all’ultimo: «Ho paura, il mio sogno è vivere» era stato il suo ultimo messaggio, pubblicato su Facebook dopo la sua morte.

Gigi Radice e Emiliano Mondonico. Il 7 dicembre muore a 83 anni Gigi Radice, giocatore del Milan ma soprattutto allenatore dello storico scudetto del Torino nel 1976. È il terzo allenatore granata a scomparire nel 2018, prima di lui Gustavo Giagnoni, l’ “allenatore col colbacco”, il 7 agosto e Emiliano Mondonico, scomparso il 29 marzo.

Luigi Necco. Il 13 marzo 2018 muore a 84 anni Luigi Necco, telecronista a storico volto di 90° minuto. Rimasti nella storia i suoi collegamenti dallo stadio San Paolo, fu lui a coniare l’espressione: «Milano chiama, Napoli risponde».

George H.W. Bush. Il 30 novembre 2018 muore George H. W. Bush, 41esimo presidente americano, padre di George W. Bush. Sette mesi prima se n’era andata la moglie Barbara. A capo della Casa Bianca dal 1989 al 1993, è stato il presidente americano cha ha guidato gli Usa alla fine della Guerra Fredda.

Marina e Carlo Ripa di Meana. Il 5 gennaio muore a 77 anni Marina Ripa di Meana, al secolo Marina Elide Puntunieri, da sedici anni combatteva contro il cancro. Si è spenta nella sua casa di Roma, e meno di due mesi dopo, il 2 marzo, si spegne anche suo marito Carlo che di lei aveva detto: «L’ho amata disperatamente».

Maurizio Zanfanti, «Zanza». Il 26 settembre muore Maurizio Zanfanti, detto «Zanza», il re dei playboy di Rimini. Aveva 63 anni, raccontava di aver avuto migliaia di donne, praticamente tutte turiste. In un'intervista si era vantato di una media di 150-170 conquiste a stagione.

Azeglio Vicini. Il 30 gennaio 2018 muore Azeglio Vicini: si spegne a 84 anni il ct dell’Italia dal 1986 al 1991, il tecnico di Italia 90 appunto. E a ricordarlo sono proprio tra gli altri gli azzurri di quel Mondiale, uno su tutti Totò Schillaci che di lui scrive: «Se sono quello che sono l’80% del merito è suo, per me aveva anche consigli da padre».

Federico Leardini. Il 3 febbraio 2018 muore improvvisamente, per un arresto cardiaco, a soli 38 anni, il giornalista di Sky Tg24 Federico Leardini. Una morte che lascia sconvolti amici e colleghi: Federico lascia la moglie e una figlia piccola. Il malore fatale mentre si allenava in palestra.

Bibi Ballandi. Il 15 febbraio 2018 muore Bibi Ballandi, storico produttore degli show del sabato sera, aveva 71 anni. Choc e dolore nel mondo della televisione, tra le più colpite Milly Carlucci: Ballandi aveva prodotto «Ballando con le Stelle», lei apprende in diretta della sua scomparsa e non riesce a nascondere la commozione. Ballandi era malato da tempo.

Gian Marco Moratti. Il 26 febbraio muore Gian Marco Moratti, marito di Letizia, fratello di Massimo e presidente della Saras. Aveva 81 anni ed era malato da tempo.

Luigi De Filippo. Si spegne il 31 marzo, all’età di 87 anni, Luigi De Filippo. Ultimo erede della grande dinastia di attori, è morto mentre si preparava a un nuovo debutto. Diceva sempre: «In palcoscenico gli anni non pesano, semmai pesano fuori dal palcoscenico, quando si fa sentire qualche acciacco. Ma appena si alza il sipario, tutto sparisce. Il teatro è una cura per l’età, ma è anche la malattia, una specie di droga».

Milos Forman. Il 13 aprile 2018 muore improvvisamente a 86 anni il regista ceco Milos Forman. Aveva diretto «Qualcuno volò sul nido del cuculo», «Hair» e «Amadeus». I suoi film avevano conquistato quattro Golden Globe e un Orso d’oro a Berlino.

Isabella Biagini. Il 13 aprile muore a 74 anni Isabella Biagini, era stata colpita un mese prima da un’ischemia. Attrice, showgirl e imitatrice, ironica e dissacrante, ribattezzata la «Marilyn Monroe» italiana, era stata presenza fissa nei varietà dalla metà degli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta.

Philip Roth. Il 22 maggio 2018 muore lo scrittore Philip Roth, considerato il più influente e complesso della letteratura contemporanea, autore di oltre trenta romanzi, dal primo d’esordio «Addio, Columbus», a «Il lamento di Portnoy» a «La macchia umana» a «Nemesi». Prima di morire aveva dato disposizione che i suoi archivi venissero distrutti.

Anthony Bourdain. L’ 8 giugno muore suicida lo chef Anthony Bourdain. Nato a New York nel 1956, celebre per i suoi numerosi programmi televisivi, aveva cucinato anche per Barack Obama ed era stato definito dallo Smithsonian la «rockstar originale» del mondo della cucina o «l’Elvis degli chef bad boy». Era stato legato ad Asia Argento, l’attrice racconterà tutto il suo strazio per la morte di Bourdain.

Carlo Vanzina. Si è spento a Roma a 67 anni l’8 luglio 2018 Carlo Vanzina: il registra, produttore e sceneggiatore, ha formato con il fratello Enrico una delle coppie più prolifiche del cinema italiano. A lui si deve l’invenzione del cinepanettone, la famosa saga «Vacanze di Natale» su tutte, ma porta la sua firma anche «Sapore di mare», giusto per citare alcuni titoli. «Per me Carlo era tutto», scrive dopo la sua morte Enrico.

Franco Mandelli. Il 15 luglio muore l’ematologo Franco Mandelli, luminare nella lotta contro la leucemia, famoso in tutto il mondo per le sue ricerche e fondatore dell’Ail, l’Associazione Italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma, di cui era anche presidente onorario. Migliaia i messaggi di cordoglio e ringraziamento di collaboratori ed ex pazienti.

Rita Borsellino. Il 15 agosto 2018 muore a 73 anni Rita Borsellino: la sorella del giudice Paolo si spegne in ospedale dopo una lunga malattia. Dopo la strage di via D’Amelio, in cui aveva perso la vita il fratello, si era impegnata attivamente come testimone della lotta alla criminalità organizzata, prima vicepresidente di Libera, l’associazione antimafia di Don Ciotti, e poi presidente onoraria, aveva contribuito all’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni immobili confiscati alle mafie. Era stata europarlamentare del Partito Democratico dal 2009 al 2014.

Aretha Franklin. Il 16 agosto 2018 muore a 76 anni Aretha Franklin, la Regina del Soul, vincitrice di 18 Grammy Awards, prima donna ad entrare nella Rock and Roll Hall of Fame. La sua voce era esplosa negli anni Sessanta, con il singolo «(You make me feel like) a natural woman» e poi «Think».

Kofi Annan. Il 18 agosto 2018 muore l’ex segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Aveva 80 anni e nel 2010 aveva ricevuto il premo Nobel per la pace: era stato il primo africano a ricoprire la carica di segretario delle Nazioni Unite, e per due mandati, dal 1997 al 2006.

John McCain. Il 25 agosto 2018 muore John McCain,81 anni, senatore repubblicano, veterano del Vietnam, dove fu imprigionato e subì pestaggi e torture, due tentativi di arrivare alla Casa Bianca, viene stroncato da un tumore al cervello che gli era stato diagnosticato un anno prima.

Jamal Khashoggi. Diventa un caso internazionale la morte il 2 ottobre del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso da un commando di 15 persone e poi fatto a pezzi. L’Arabia Saudita diverse settimane dopo ammette che si tratta di un «omicidio premeditato». Il settimanale americano «The Time» l’ha nominato persona dell’anno, insieme ad altri giornalisti finiti nel mirino dei regimi autoritari.

Vichai Srivaddhanaprabha. Il 27 ottobre precipita davanti al King Power Stadium l’elicottero con a bordo il patron del Leicester Vichai Srivaddhanaprabha: 61 anni, per lui non c’è scampo, così come per le altre quattro persone a bordo. Aveva comprato il club nel 2010, portandolo nel 2016 alla prima vittoria della sua storia in Premier League.

Bernardo Bertolucci. Il 26 novembre 2018 muore Bernardo Bertolucci, aveva 77 anni: aveva diretto tra gli altri «Ultimo tango a Parigi», «Novecento», nel 2007 aveva ricevuto il Leone d’Oro alla carriera a Venezia, e prima, nel 1988 aveva vinto l’Oscar come miglior regista per «L’ultimo imperatore».

Avicii. Il 20 aprile 2018 muore il deejay Avicii, al secolo Tim Bergling, aveva 28 anni. Inizialmente le cause della morte paiono avvolte dal mistero, finché il sito americano Tmz rivela che il dj si è tolto la vita, tagliandosi i polsi con dei cocci di bottiglia.

Amos Oz. È morto dopo una lunga malattia lo scrittore Amos Oz (Gerusalemme, 4 maggio 1939 – 28 dicembre 2018) autore di romanzi come Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli, 2002), in cui ha narrato insieme la storia della sua famiglia e la vicenda storica della nascita di Israele. Docente di letteratura ebraica all’Università Ben Gurion del Negev, sostenitore della «soluzione dei due stati» del conflitto arabo-israeliano, ha ottenuto per i suoi numerosi romanzi molti riconoscimenti, tra cui il premio Bialik (1986), il Prix Femina (Parigi, 1989), il premio Israele (1998), assegnato nonostante le proteste della destra israeliana. Tra gli altri riconoscimenti letterari, il Premio Príncipe de Asturias de las Letras e il premio Fondazione Carical Grinzane per la cultura mediterranea nel 2007. Tra i suoi libri più recenti, il romanzo Finché morte non sopraggiunga (Feltrinelli, 2018), il romanzo Tocca l’acqua, tocca il vento (traduzione di Elena Loewenthal) e il saggio Cari fanatici. 

Chi ci ha lasciato nel mese di DICEMBRE.

Umberto Marzotto, imprenditore ex marito di Marta, 92 anni (12 aprile 1926 - 28 dicembre 2018)

Amos Oz, scrittore, 79 anni (4 maggio 1939 - 28 dicembre 2018)

Carlo Maria Maggi, ex terrorista, 83 anni (29 dicembre 1934 - 26 dicembre 2018)

Andrea G. Pinketts, scrittore, 57 anni (12 agosto 1961 - 20 dicembre 2018)

Luigi detto Gigi Radice, allenatore e calciatore, 83 anni (15 gennaio 1935 - 7 dicembre 2018)

Ennio Fantastichini, attore, 63 anni (Gallese, 20 febbraio 1955 – Napoli, 1º dicembre 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di NOVEMBRE

George Herbert Walker, Bush ex presidente USA 94 anni, (Milton, 12 giugno 1924 – Houston, 30 novembre 2018) 

Sandro Mayer, giornalista, 77 anni (21 dicembre 1940 - 30 novembre 2018)

Bernardo Bertolucci, regista, 77 anni (16 marzo 1941 - 26 novembre 2018)

Eimuntas Nekrosius, regista teatrale, 65 anni (21 novembre 1952 - 20 novembre 2018)

Stan Lee, fumettista, 95 anni (28 dicembre 1922 - 12 novembre 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di OTTOBRE

Paul Allen, informatico e co-fondatore di Microsoft, 65 anni (21 gennaio 1953 - 15 ottobre 2018)

Venantino Venantini, attore, 88 anni (17 aprile 1930 - 9 ottobre 2018)

Montserrat Caballé, soprano, 85 anni (12 aprile 1933 - 6 ottobre 2018)

Charles Aznavour, cantautore, 94 anni (22 maggio 1924 - 1 ottobre 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di SETTEMBRE

Luigi Agnolin, arbitro e dirigente sportivo, 75 anni (21 marzo 1943 - 29 settembre 2018)

Inge Schönthal Feltrinelli, editrice, 87 anni (24 novembre 1930 - 20 settembre 2018)

Guido Ceronetti, poeta, 91 anni (24 agosto 1927 - 13 settembre 2018) 

Burt Reynolds, attore, 82 anni (11 febbraio 1936 - 6 settembre 2018) 

Randy Weston, pianista jazz, 92 anni (6 aprile 1926 - 1 settembre 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di AGOSTO

Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista, 96 anni (25 gennaio 1922 - 31 agosto 2018) 

Simon Neil, drammaturgo e sceneggiatore, 91 anni (4 luglio 1927 - 26 agosto 2018)

John McCain, senatore statunitense, 81 anni (29 agosto 1936 - 25 agosto 2018)

Lindsay Kemp, coreografo e mimo, 80 anni (3 maggio 1938 - 24 agosto 2018)

Vincino ovvero Vincenzo Gallo, vignettista, 72 anni (30 maggio 1946 - 21 agosto 2018)

Kofi Annan, diplomatico ex Segretario Onu, 80 anni (8 aprile 1938 - 18 agosto 2018)

Gaetano Gifuni, ex ministro e funzionario, 86 anni (25 giugno 1932 - 18 agosto 2018)

Claudio Lolli, cantautore, 68 anni (28 marzo 1950 - 17 agosto 2018)

Aretha Franklin, cantante, 76 anni (25 marzo 1942 - 16 agosto 2018)

Rita Borsellino, sorella di Paolo, politica, 73 anni (2 giugno 1945 - 15 agosto 2018)

Vidiadhar Surajprasad Naipaul, scrittore, 85 anni (17 agosto 1932 - 11 agosto 2018)

Charlotte Rae, attrice, 92 anni (22 aprile 1926 - 5 agosto 2018)

Joël Robuchon, chef, 73 anni (7 aprile 1945 - 6 agosto 2018)

Rick Genest, noto come Zombie Boy, modello, 32 anni (7 agosto 1985 - 1 agosto 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di LUGLIO

Sergio Marchionne, dirigente d'azienda, 66 anni (17 giugno 1952 - 25 luglio 2018)

Franco Mandelli, medico ed ematologo, 87 anni (12 maggio 1931 - 15 luglio 2018)

Carlo Vanzina, regista e sceneggiatore, 67 anni (13 marzo 1951 - 8 luglio 2018) 

Chi ci ha lasciato nel mese di GIUGNO

Luciana Riccardi, madre della giornalista Ilaria Alpi, 84 anni (3 agosto 1933 - 12 giugno 2018)

Gino Santercole, cantautore, 77 anni (3 novembre 1940 - 8 giugno 2018)

Anthony Bourdain, chef, 61 anni (25 giugno 1956 - 8 giugno 2018)

Pierre Carniti, sindacalista e politico, 81 anni (25 settembre 1936 - 5 giugno 2018)

Kate Spade, stilista, stilista, 55 anni (24 dicembre 1962 - 5 giugno 2018)

Alessandra Appiano, scrittrice e giornalista, 59 anni (30 maggio 1959 - 3 giugno 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di MAGGIO

Pippo Caruso, compositore e direttore d'orchestra, 82 anni (22 dicembre 1935 - 28 maggio 2018)

Philip Roth, scrittore, 85 anni (19 marzo 1933 - 22 maggio 2018) 

Anna Maria Ferrero, attrice, 84 anni (18 febbraio 1934 - 21 maggio 2018)

Carol Mann, golfista, 77 anni (3 febbraio 1941 - 20 maggio 2018)

Robert Indiana, artista e scenografo, 89 anni (13 settembre 1928 - 19 maggio 2018)

Salvatore Ligresti, imprenditore, 86 anni (13 marzo 1932 - 15 maggio 2018)

Tom Wolfe, giornalista e scrittore, 87 anni (2 marzo 1931 - 14 maggio 2018)

Margot Kidder, attrice, 69 anni (17 ottobre 1948 - 13 maggio 2018) 

Ermanno Olmi, regista, 86 anni (24 luglio 1931 - 5 maggio 2018)

Paolo Ferrari, attore, 88 anni (26 febbraio 1929 - 6 maggio 2018)  

Chi ci ha lasciato nel mese di APRILE

Pietro Marzotto, imprenditore, 80 anni (11 dicembre 1937 - 26 aprile 2018)

Giuseppe Nardini, imprenditore, 90 anni (04 luglio 1927 - 26 aprile 2018)

Mario Galbusera, imprenditore, 93 anni (21 giugno 1924 - 23 aprile 2018)

Giovanni Galloni, ex ministro e fondatore Dc, 90 anni (16 giugno 1927 - 23 aprile 2018)

Nabi Tajima, la donna più anziana al mondo, 117 anni (4 agosto 1900 - 21 aprile 2018)

Avicii, disc jockey, 28 anni (8 settembre 1989 - 20 aprile 2018)

Barbara Bush, moglie e madre di due presidenti Usa, 92 anni (8 giugno 1925 - 17 aprile 2018)

Ronald Lee Ermey, militare e attore, 74 anni (24 marzo 1944 - 15 aprile 2018)

Vittorio Taviani, regista, 88 anni (20 settembre 1929 - 15 aprile 2018) 

Isabella Biagini, attrice e showgirl, 74 anni (19 dicembre 1943 - 14 aprile 2018)

Milo? Forman, regista, 86 anni (18 febbraio 1932 - 13 aprile 2018)

Michael Goolaerts, ciclista, 23 anni (24 luglio 1994 - 8 aprile 2018)

Isao Takahata, animatore e regista, 82 anni (29 ottobre 1935 - 5 aprile 2018) 

Winnie Mandela, politica ed ex moglie di Nelson Mandela, 81 anni (26 settembre 1936 - 2 aprile 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di MARZO

Luigi De Filippo, attore, 87 anni (Napoli 10 agosto 1930 – Roma 31 marzo 2018)

Emiliano Mondonico, allenatore, 71 anni (Rivolta d'Adda, 9 marzo 1947 – Milano, 29 marzo 2018)

Stéphane Audran, attrice, 85 anni (2 novembre 1932 - 27 marzo 2018)

Fabrizio Frizzi, condutture televisivo, 60 anni (5 febbraio 1958 - 26 marzo 2018)

Linda Carol Brown, simbolo dei diritti afromericani, 75 anni (1943 - 25 marzo 2018)

José Antonio Abreu, musicista ed educatore, 78 anni (7 maggio 1939 - 24 marzo 2018)

Arnaud Beltrame, poliziotto eroe dell'attentato di Trèbes, 45 anni (18 aprile 1973 - 24 marzo 2018)

Marielle Franco, attivista brasiliana assassinata, 38 anni (27 luglio 1979 - 14 marzo 2018) 

Stephen Hawking, astrofisico, 76 anni (8 gennaio 1942 - 14 marzo 2018) 

Ivano Beggio, imprenditore, ex presidente Aprilia, 73 anni (31 agosto 1944 - 13 marzo 2018)

Luigi Necco, giornalista sportivo, 83 anni (8 maggio 1934 - 13 marzo 2018)

Giuseppe Soffiantini, imprenditore sequestrato nel 1997, 83 anni (6 marzo 1935 - 12 marzo 2018)

Hubert de Givenchy, stilista, 91 anni (21 febbraio 1927 - 10 marzo 2018)

Oskar Gröning, criminale nazista, 96 anni (10 giugno 1921 - 9 marzo 2018)

Davide Astori, calciatore, 31 anni (7 gennaio 1987 - 4 marzo 2018) 

Gillo Dorfles, critico d'arte, 107 anni  (12 aprile 1910 - 2 marzo 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di FEBBRAIO

Gian Marco Moratti, imprenditore, 81 anni (29 novembre 1936 - 26 febbraio 2018)

Sridevi, attrice, 54 anni (13 agosto 1963 - 24 febbraio 2018)

Folco Quilici, documentarista e scrittore, 87 anni (9 aprile 1930 - 24 febbraio 2018)

Bibi Ballandi, produttore televisivo, 71 anni (26 giugno 1946 - 15 febbraio 2018)  

Henrik, principe consorte di Danimarca, 83 anni (11 giugno 1934 - 13 febbraio 2018)

Giuseppe Galasso, storico e politico, 88 anni (19 nomvebre 1929 - 12 febbraio 2018)

Esmond Bradley Martin, investigatore contro il traffico d'avorio, 76 anni (17 aprile 1941 - 4 febbraio 2018)

Chi ci ha lasciato nel mese di GENNAIO

Azeglio Vicini, ex calciatore e allenatore, 84 anni (20 marzo 1933 - 31 gennaio 2018) 

Mark Salling, attore, 35 anni (17 agosto 1982 - 30 gennaio 2018) 

Ingvar Kamprad, fondatore Ikea, 91 anni (30 marzo 1926 - 28 gennaio 2018)

Giuseppe Sgarbi, scrittore, farmacista, 97 anni (15 gennaio 1921 - 23 gennaio 2018)

Ursula K. Le Guin, scrittrice, 88 anni (21 ottobre 1929 - 22 gennaio 2018)

Oscar Pérez, ex poliziotto venezuelano anti-Maduro, 36 anni (1981 - 15 gennaio 2018)

Dolores O'Riordan, cantante, 46 anni (6 settembre 1971 - 15 gennaio 2018)

Marina Ripa di Meana, stilista e jet-setter, 76 anni (21 ottobre 1941 - 4 gennaio 2018)

Ferdinando Imposimato, magistrato, 81 anni (9 aprile 1936 - 2 gennaio 2018)

IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.

Le foibe della memoria, scrive il 9 febbraio 2018 Luigi Iannone su "Il Giornale". Le foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e mai hanno la forza necessaria per palesarsi. Quando fu istituito il Giorno del ricordo l’intento era chiaro: fare in modo che non vi fosse alcun silenzio su fatti accertati e tenuti nascosti per troppo tempo, e si ricordasse il sacrificio di tutti gli uomini, le donne e i bambini colpevoli solo di essere italiani. E invece tutto è diventato sulfureo come la polvere e il buio di quelle cavità nelle rocce. Financo le alte cariche dello Stato, come capitato anche in anni recenti, si dimenticano di celebrare con dignità e piena consapevolezza un tale abominio. Qualche citazione, una frase di circostanza negli abituali e noiosi discorsi preparati dagli uffici stampa o da asettici ghostwriter, e nulla più. In realtà, quello che accade ai primi di febbraio di ogni anno, è vergognoso e disperante. Il dibattito si accende ma prende una piega laterale e sbagliata, ponendo questo tema con sofisticata scaltrezza ad una parte consistente dell’opinione pubblica che già di suo poco sa e poco vuole sapere. E pur tuttavia, la questione viene sempre presa per il verso sbagliato. E così c’è sempre qualche mente illuminata dell’Anpi che cerca di circoscrivere il fenomeno in parametri ristretti o addirittura negarlo; chi, pur riconoscendo una tale vergogna, indirettamente costruisce plausibili motivazioni di politica estera, di rancore bellico; chi mette in mezzo i fascisti e la loro precedente violenza e via così. La vicenda di Simone Cristicchi di qualche anno fa risulta ancora paradigmatica. Il suo spettacolo Magazzino 18 ebbe tanti e tali impedimenti, manifestazioni contro e attacchi di vario genere, nemmeno si fosse peritato di declamare con orgoglio e fierezza le pagine più tetre del Mein Kampf. E invece stava rappresentando fatti accaduti alcuni decenni fa e che hanno visto, purtroppo, tanti nostri connazionali essere assassinati per il solo fatto di appartenere ad una comunità. Ma la sua vicenda è una delle tante che si sommano in lungo e in largo sul nostro territorio. Come la squallida routine impone, anche quest’anno l’andazzo pare infatti simile. Frotte di nostalgici di ogni schieramento che deviano l’interpretazione dei fatti su binari poco consoni alla verità, l’associazione dei partigiani che nel migliore dei casi fa "buon viso a cattivo gioco" oppure, per fortuna in casi isolati, ancora nega l’evidenza, e alte cariche istituzionali che, con malcelata fatica, riescono a profferire qualche parola solo poche ore prima del 10 febbraio svelando così una adesione al contesto generale di commemorazione più imposta da obblighi istituzionali che da reale e partecipato dolore. Le foibe restano una cavità che squarcia ancora la nostra memoria e da essa fanno capolino i fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche e di mestieranti della cultura. A distanza di tanti decenni non si riesce a dare un senso a quel dolore e a rivolgere una solidale e collettiva preghiera per quegli innocenti, senza incomprensibili distinguo o paventate e inconsapevoli giustificazioni. E fin quando il nostro Paese non si scollerà di dosso i cascami di una dialettica politica sempre combinata con la falsa e capziosa storiografia sarà preda degli spasmi di ogni sorta di radicalismo e mai potrà porre la parola ‘fine’ su questa interminabile, penosa e logorante guerra civile.

Il ricordo per vincere il silenzio sul dramma di esuli e infoibati. A partire dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, scrive Marianna Di Piazza, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Oltre 10mila italiani torturati e uccisi nelle foibe. Più di 300mila quelli scappati dalla loro case per sfuggire alla violenza dei partigiani di Tito. Ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo e per non dimenticare questa drammatica pagina della nostra storia, siamo andati nei luoghi dove si è consumata la tragedia all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Sul Carso triestino, la foiba di Basovizza, pozzo minerario scavato agli inizi del 1900, è diventata il simbolo di tutte le atrocità commesse dai partigiani jugoslavi. "In quest'area gli uomini di Tito hanno realizzato un massacro veramente immane. Uno strumento di terrore con il quale il maresciallo costruiva il suo nuovo Stato rivoluzionario comunista sul sangue versato da italiani, sloveni e croati", ha dichiarato il presidente della Lega Nazionale, Paolo Sardos Albertini.

Le foibe. Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso, l'altipiano alle spalle della città di Trieste e dell'Istria. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i partigiani di Tito le utilizzarono per scaricare al loro interno migliaia di persone. Spogliate e legate l’una con l’altra con un fil di ferro stretto ai polsi, le vittime venivano schierate sugli argini delle cavità. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Coloro che non morivano sul colpo, erano condannati a soffrire per giorni. Furono circa 10 mila gli italiani infoibati, ma anche 150mila sloveni e 900mila croati finirono vittime del maresciallo Tito. "Nel territorio di Trieste ci sono decine di foibe. Ma oltre confine, in Slovenia, vengono continuamente scoperte nuove foibe con cadaveri all'interno", ha spiegato Albertini.

Le vittime. "Con lo strumento delle foibe, si volevano eliminare le persone che avrebbero potuto dare fastidio al nuovo Stato comunista jugoslavo", ha affermato il presidente Albertini. "Le truppe di Tito, entrate a Trieste, avevano con loro un elenco delle persone che andavano infoibate. Il meccanismo delle foibe era finalizzato a creare una situazione di terrore. E il terrore è tale anche se colpisce in maniera assolutamente casuale". A Basovizza una lapide ricorda l'infoibamento di un gruppo di finanzieri. Prelevati dai partigiani titini con la scusa di dover essere sottoposti ad alcuni controlli, gli uomini sono stati invece infoibati. Pochi giorni prima avevano partecipato all'insurrezione di Trieste contro i tedeschi. "Questa è stata la loro colpa", ha raccontato Albertini. Ma le foibe non sono state l'unico strumento di repressione titino. Migliaia di persone sono state deportate nei campi di concentramento comunisti di tutta la Jugoslavia. "Mia mamma ha cercato mio padre per anni", ha sussurrato con dolore Annamaria Muiesan, esule di Pirano. "Si è fatta portare più volte vicino ai campi, ma non lo ha mai trovato". La donna, dopo essere scappata da bambina insieme alla madre e alla sorella, ha raccontato della mattina in cui hanno portato via suo padre: "I collaboratori dei titini hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non ho più rivisto mio papà".

La foiba n.149. A guerra finita, il primo maggio 1945 Tito entra a Trieste. Per oltre un mese le forze jugoslave si abbandonano alle violenze, in quelli che a oggi sono ricordati come i "40 giorni del terrore". I partigiani portano i prigionieri, con i vagoni merci, fino alla foiba di Monrupino, meglio conosciuta come foiba 149 (guarda il video). Pochi, difficili passi lungo la scarpata, poi la condanna a morte: le vittime vengono fatte precipitare nel baratro. Secondo alcune stime, in questa foiba hanno trovato la morte circa 2.000 persone.

Quei rastrellamenti partigiani rimasti nascosti per 75 anni. Inedita testimonianza sui giorni dopo l'armistizio: «A Sussak fecero sparire un migliaio di corpi trasformandoli in sapone», scrivono Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". I partigiani di Tito portavano in una cartiera i «nemici del popolo» con un furgone della polizia italiana, che avevano sequestrato, per ridurli letteralmente a pezzi in barbare esecuzioni. Poi si disfacevano per sempre dei resti nel vicino saponificio, come i nazisti.

La testimonianza inedita. L'orrore perpetrato vicino a Fiume subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 viene rivelato per la prima volta da un'inedita testimonianza scritta anni fa e mai resa pubblica, in possesso del Giornale. La mattanza di prigionieri croati o italiani andò avanti per giorni, come in altre parte dell'Istria, dove i partigiani jugoslavi assunsero il controllo fra il settembre ed il novembre 1943 nella prima ondata delle foibe. «Questo fatto che ora vado a raccontare sembra inverosimile e lo dico come lo ebbi a sapere» scrive l'autore dell'inedita violenza alle porte di Fiume, che nel 1943 aveva poco più di vent'anni e faceva il servizio militare a Sussak, a pochi chilometri dal capoluogo del Quarnaro. Al Giornale ha chiesto di restare anonimo perché, sembra incredibile, ma dopo 75 anni continua ad avere paura. I testimoni di questa terribile storia delle violenze titine furono disarmati diversi giorni dopo l'8 settembre e trasferiti a Pola dai tedeschi, che dopo un mese ripresero il pieno controllo dell'Istria con altrettanta brutalità. «Quando fummo concentrati nel campo sportivo militare fuori della città di Pola, mi sentii chiamare venendomi incontro il carabiniere Moscatello (che era accantonato a Sussak, nda) - si legge nella testimonianza scritta - Piuttosto agitato mi disse: Ti ricordi Hai presente che il giorno dopo l'armistizio dell'otto settembre per due giorni si vedeva passare diverse volte e per tutto il giorno un va e vieni del furgone nero della Polizia Italiana?». A Sussak si era insediato il comando del II corpo d'armata Slovenia-Dalmazia del nostro esercito. Nel vuoto provocato dall'8 settembre i partigiani occuparono il centro abitato per una settimana fino alla controffensiva tedesca. E molti soldati italiani allo sbando rimasero sul posto. Il testimone ancora in vita ricorda che «andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, figlio dell'oste del paese». In poco meno di un mese i partigiani di Tito dichiararono l'annessione dell'Istria alla futura Jugoslavia cominciando a perseguitare chi rappresentava l'Italia. Maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti furono prelevati e uccisi. Gli italiani trucidati risultarono almeno un migliaio, ma anche i croati poco allineati con Tito, non solo militari, erano condannati ad una brutta fine. Nel 1943 il carabiniere Moscatello raccontò al testimone ancora in vita, che il cellulare della nostra polizia sequestrato dai partigiani andava a prelevare i nemici del popolo e «...velocemente entrava nello stabilimento della cartiera...» di Sussak. Il carabiniere confidò al commilitone «che di nascosto entrò nella cartiera... e assistette a una cosa impressionante». Dal furgone della polizia «appena entrato facevano scendere le persone all'interno e le ammazzavano facendole immediatamente a pezzi». Brutali esecuzioni sommarie, ma sapendo che ben presto sarebbero tornati i tedeschi in forze, i partigiani non volevano lasciare tracce di cadaveri infoibati o fosse comuni. «Moscatello ebbe anche a vedere che poi i pezzi venivano messi sulle cassette di legno per essere trasportate con il carretto nell'adiacente saponificio - si legge nella testimonianza scritta - passando per un piccolo ponticello in legno attraversando il fiume Eneo». I resti umani venivano fatti sparire per sempre trasformandoli in saponi. Il carabiniere testimone della mattanza potrebbe essere Venanzio Moscatello, classe 1910, scomparso da tempo. Fra il 1942 e 1943 è stato in servizio al comando italiano Slovenia-Dalmazia a Sussak, come dimostrano gli attestati militari. Purtroppo anche il figlio è morto, ma il Giornale è riuscito a recuperare una foto del carabiniere. Il commilitone che raccolse la sua terribile rivelazione nel 1943 lo ha riconosciuto: «È lui senza dubbio». E nel suo scritto ricorda come il testimone sia scampato alle esecuzioni nella cartiera della morte vicino a Fiume: «Moscatello mi disse che inorridito, sempre di nascosto si ritirò non potendo fare niente. Se lo avessero visto avrebbe certamente fatto la stessa fine».

Le pagine sulle foibe (che non scandalizzano i benpensanti). Pagine sulle foibe, sui Marò da buttare nelle cavità carsiche, sugli "idoli delle foibe" e così via. Sul web la pacificazione nazionale appare lontana, scrive Francesco Boezi, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Il web, si sa, è un luogo colorito: si trova di tutto. Perfino pagine apertamente satiriche sulla tragedia delle foibe. Una, forse in modo meno ironico, è intitolata: "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe". Basta scorrere un minuto con il mouse per comprendere il taglio dato allo spazio social in questione: "Come fu che i nostri Marò vollero entrare in politica e si scavarono la foiba con le loro mani" recita la foto di un post condiviso dalla pagina "Libri vintage per l'infanzia". Satira, certo, su quella che dovrebbe essere riconosciuta pacificamente come una tragedia nazionale. E sui Marò del caso dell'Enrica Lexie, che in qualche modo vengono etichettati a simbolo politico di destra, quindi passibili di scherno e risibilità. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" è il nome di un'altra di queste pagine facilmente reperibile su Facebook. "Quest'anno le foibe non se l'è inculate nessuno... questa precarietà esistenziale non risparmia proprio nulla", si può leggere nel primo post visibile (almeno per chi non ha cliccato "mi piace"), risalente al 12 febbraio 2014. E subito dopo un murales recitante la seguente scritta: "Tu mi porti su e poi mi lasci cadere #foibe". Satira, evidentemente. Condivisa questa volta da "Anti Rac (Ama la Musica Odia il Razzismo)". In un post del 10 febbraio 2014, quindi durante Il Giorno del Ricordo, si trova scritto: "Anche Dante ha parlato del dramma delle foibe, poi non dite che non ci sono le fonti "Tanto gentile e tanto onesta pare la foiba mia quand'ellla altrui vi salta, ch'ogne lingua devan tremando muta e li occhi no l'ardiscon di guardare". Gli eccidi ai danni della popolazione italiana residente in Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia, quindi, "canzonati" alla maniera dell'Alighieri. L'autore, certamente, avrà voluto rendere omaggio in modo post-datato agli infoibati.

Poi, ancora, c'è la pagina "E i marò is the new "E le foibe?". In questo caso viene ripreso un famoso siparietto dell'attrice Caterina Guzzanti che, nei panni di una militante di Casapound, incalzata dall'intervistatore, ripeteva sempre la medesima frase sulle foibe. "E i marò", dunque, sarebbe in qualche modo diventata l'unica argomentazione rimasta a disposizione di un militante di destra. Oppure, a seconda delle interpretazioni, l'unica conosciuta. Un'altra pagina curiosa è "Tirare fuori a caso le foibe nei commenti". Qui gli inghiottitoi carsici sono finiti, attraverso un fotomontaggio, sui bigliettini dei Baci Perugina. Infoibamenti e dolcezze, insomma. Più difficile, invece, dedurre il collegamento pensato tra il titolo di "Idoli delle foibe", l'ennesima di queste pagine, e i personaggi selezionati per i post pubblicati: Fabrizio Corona, Enzo Salvi, Alvaro Vitali e così via.

I lettori, sicuramente, ricorderanno la chiusura di "Scl", che faceva (e fa) "satira non di sinistra". I contenuti elencati nelle circostanze citate, invece, sembrano non indignare i benpensanti e i cosiddetti controllori del web. Nessun appello pubblico, almeno sino ad ora, è stato fatto per rimuovere alcuni di questi contenuti. Se la "satira" non provoca scandalo in chi la recepisce, del resto, non sarebbe tale. E "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe", in particolare, è un'espressione trovata in una di queste pagine ovviamente tutelata dal diritto alla libertà di espressione. Oppure no?

Ecco il saggio per comprendere la ferocia dei miliziani di Tito. «Foibe» documenta con precisione la pulizia etnica anti italiana, scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Le violenze compiute dai partigiani titini in Istria, Dalmazia, e in molte altre zone della Venezia Giulia sono state a lungo ignorate dalla storiografia. Quando sono tornate a essere oggetto di discussione, anche perché le violente pulizie etniche dei conflitti nella ex Jugoslavia hanno reso impossibile ignorare i precedenti, il tema è stato rapidamente politicizzato. Le formazioni politiche vicine al mondo comunista hanno spesso cercato di minimizzare ciò che per anni avevano contribuito a nascondere sotto il tappeto. Quelle di destra hanno cercato di «monetizzare» politicamente il proprio merito di aver lottato per mantenere in vita il ricordo di ciò che era toccato in sorte a questi italiani scomodi, di confine. Esiste invece la necessità di una indagine degli eventi rigorosa e il meno possibile di parte. Ecco perché da oggi troverete in edicola con il Giornale il saggio scritto da Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe (pagg. 254, euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). Il volume inquadra con chiarezza, mettendo a disposizione del lettore i fatti, anche con un gran numero di documenti. E con le parole, proprio a partire da «Foibe». Inutili le discussioni su quante siano state le persone realmente gettate nelle cavità carsiche. «Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme provocarono alcune migliaia di vittime». È in questo senso ampio che va considerato il dramma commemorato oggi nel Giorno del ricordo. Quelli perpetrati sul bordo degli inghiottitoi carsici sono solo alcuni degli eccidi perpetrati. Ciò ha contribuito a rendere particolarmente sterile il dibattito sul numero degli uccisi. Più interessante è riflettere su quale fu la metodica delle violenze, concentrate soprattutto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Le violenze furono caratterizzate da un preciso odio etnico. Le vittime non furono soltanto esponenti del regime fascista, come spesso è stato detto da parte jugoslava. Come spiegano Pupo e Spazzali, già subito dopo l'8 settembre «vennero fatti sparire i rappresentanti dello Stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali». Una precisa volontà di «spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana». Poi la strage si estese ai possidenti terrieri e anche ai partigiani italiani non disposti a farsi assimilare. I dati sono anche più chiari per la primavera del 1945. I campi in cui vennero inviati i prigionieri italiani, come quello di Borovnica, erano sostanzialmente strutturati per liquidarne il più possibile. E che di nuovo si trattasse di un preciso piano di occupazione e pulizia etnica lo provano le subitanee e spietate iniziative contro membri dei Cln di Gorizia e Trieste. Uccidere i partigiani italiani che davano segno di autonomia. Se a questa equazione «italiano = fascista» sponsorizzata dall'alto si sommano gli odi personali e lo spazio lasciato alla criminalità comune, si capisce l'entità delle violenze e del terrore che provocarono. L'ultima parte del libro è poi dedicata specificatamente ai luoghi, con mappe che indicano la collocazione delle foibe.

Rivelazioni. Istria 1946: a Vergarolla fu vera strage, scrive Lucia Bellaspiga, giovedì 12 giugno 2014 su "Avvenire". Il 18 agosto del 1946 è una domenica e a Vergarolla, la spiaggia di Pola, migliaia di polesi sono radunati per le gare di nuoto e l’anniversario della Pietas Julia, la società nautica cittadina, di chiaro orientamento patriottico. In quel momento gli eccidi e le foibe hanno già insanguinato Istria, Fiume e Dalmazia, ma da un anno a Pola un governo militare angloamericano protegge la città dai titini intanto che a Parigi le grandi potenze ancora discutono sul suo destino e ridisegnano i confini adriatici. Quel giorno, dunque, la popolazione assiste a una gara sportiva di forte valore filoitaliano, tantissimi sono i bambini, il caldo ha attratto nel bel mare istriano almeno duemila persone. È lì tra loro che alle 14.10 un’esplosione gigantesca letteralmente polverizza decine e decine di corpi (i soccorritori dovranno recuperare i poveri resti sugli alberi fino a grande distanza). Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti. Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno. Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di 'incidente', perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i due storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria. «È già un risultato epocale – commenta Paolo Radivo, direttore dell’Arena di Polae consigliere del Lcpe –: da molti anni ogni 18 agosto ci rechiamo a Vergarolla, oggi Croazia, per celebrare i nostri morti insieme alla comunità degli italiani rimasti a Pola». Lo scorso agosto l’onorevole Laura Garavini del Pd ha mandato un ampio messaggio e annunciato un’interrogazione parlamentare: «Era la prima volta». Aria nuova anche in Regione Friuli Venezia Giulia, dove la presidente Debora Serracchiani (Pd) inviò un suo contributo sulla mattanza che «per le modalità subdole con cui fu perpetrata e per la cortina di silenzio e travisamenti che a lungo la avvolse è uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così nei mesi scorsi William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre l’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Sì, perché ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. «Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani», spiega Radivo. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna («negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta »), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del Pci italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo «le attività terroristiche e criminali». Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto. Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: «Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate». Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di «mettere da parte le memorie» dei testimoni, perché teme che «involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre», ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: «Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi». Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove. «È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità – commenta Radivo –, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza». Secondo Radivo, dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, «e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia». D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ’45, già in tempo di pace, la nave Campanella carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ’46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi  assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina... per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la «volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva». Non scordiamo che il 17 agosto del ’46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. «I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre»: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle.

I SOLITI FATTI DI CRONACA.

"Quando ho detto a mio figlio che la mamma aveva ucciso Lorys". Esce il libro del padre di Lorys Stival, ucciso nel novembre 2014 a Santa Croce Camerina, quando aveva 8 anni. Accusata dell'omicidio Veronica Panarello, condannata a 30 anni di carcere, scrive Alessandro Ziniti il 7 febbraio 2018 su "La Repubblica". Alla fine il giorno che avrebbe voluto non arrivasse mai è arrivato. In macchina, di ritorno dal cimitero dove aveva portato un giocattolo sulla tomba del fratello. “Papà, come è morto Lorys? Chi è stato?”. Sono passati due anni da quel tragico sabato di novembre 2014 quando il corpo di un bambino di otto anni fu ritrovato senza vita in fondo ad un canalone alla periferia di Santa Croce Camerina, in provincia di Ragusa, e pochi giorni dalla condanna a 30 anni di carcere della mamma, Veronica Panarello. E Davide Stival, ormai separato da quella giovane donna che senza un perché gli ha ucciso il primogenito stringendogli attorno al collo una fascetta da elettricista, si ritrova a dover dire la verità al figlio più piccolo. Aveva solo tre anni quando nel giro di pochi giorni dal suo orizzonte scomparvero prima il fratello e poi la madre (arrestata dieci giorni dopo il delitto) e il bambino non ha mai chiesto nulla, ma ora davanti alla domanda cruciale, Davide non può che dire la verità. Sceglie con cura le parole e dice: “La polizia ha fatto delle indagini, ha guardato i filmati delle telecamere e ha scoperto che la mamma un giorno non l’ha accompagnato a scuola. Da qui si è capito che forse è stata lei a fargli del male”. Oggi, che di anni dall’omicidio di Lorys ne sono passati tre e che è in corso il processo d’appello a Veronica, Davide Stival ha deciso di raccontare il suo dramma in un libro “Nel nome di Lorys” scritto per le edizioni Piemme con il giornalista Simone Toscano e con il suo avvocato Daniele Scrofani. Un libro in cui, oltre a ripercorrere i tragici giorni dal delitto di Lorys all’arresto di sua moglie, il travaglio che lo ha portato a non credere alla versione di Veronica, lo sconcerto per i sospetti di una relazione tra suo padre e sua moglie, questo giovanissimo padre trovatosi a dover portare un peso molto più grande di lui, racconta anche il silenzioso dramma del suo figlio più piccolo, messo di fronte alla agghiacciante notizia che la sua mamma, quella mamma che non vede ormai da più di tre anni, è l’assassina di suo fratello. Davide racconta così il momento in cui il piccolo gli ha chiesto chi avesse ucciso Lorys. “A me si è gelato il sangue nelle vene, anche se ero preparato a questa domanda. Sapevo che sarebbe arrivata e avevo chiesto agli psicologi come avrei dovuto comportarmi: ma sentire tuo figlio di cinque anni parlare di questi argomenti ti fa male, ti riporta alla tragedia che ha colpito le nostre vite”. Come ha reagito il bambino alla verità così cruda? “Lui mi ha guardato e si è ammutolito. Non ha pianto. Io non ho più voluto toccare l’argomento, non gli ho mai parlato male di lei né ho condiviso i miei pensieri”. Purtroppo, però, non è finita lì. Come naturalmente accade a qualsiasi bambino si trovi a dover affrontare una tragedia così grande come quella che si è vissuta a casa Stival, il fratellino di Lorys ha elaborato dentro di sé non solo il lutto e la mancanza della madre ma anche il senso della responsabilità. Che ha affidato, nel modo più crudo possibile ad un disegno. E’ successo in occasione della Festa della mamma quando a scuola l’insegnante ha chiesto agli alunni di disegnare il proprio nucleo familiare. E cos’ha disegnato il piccolo Stival? “Anziché una famiglia normale ha tratteggiato una figura nera con un coltello. E un bambino a terra in una pozza di sangue. So che è un’immagine devastante – dice ancora il papà – ma ho deciso di raccontarla nella speranza che si capisca ancora di più che i bambini sono esseri puliti e che tutte le cose brutte che gli adulti fanno purtroppo sono destinate a ricadere anche su di loro”. Quel disegno poi, quando il papà e gli psicologi gli hanno chiesto di spiegarlo, il bimbo lo ha completato aggiungendo un poliziotto con una pistola rivolta verso la figura nera. “Poi l’ha preso e mi ha detto: ‘Adesso non sono più triste’. E ha continuato disegnando una nuova famiglia, composta da lui, dal papà e dagli zii, una casa e un arcobaleno. Nei giorni scorsi, il tribunale di Ragusa ha tolto la patria potestà a Veronica Panarello negandole anche il diritto a vederlo e ad essere aggiornata sulla crescita e sull’evoluzione del figlio. “A Diego non manca nulla, per ora sono io a pensare a lui – dice Davide – A lui sono rimasto io e a me è rimasto lui: siamo noi due. A Veronica voglio solo dire che ha distrutto tutti, compresa se stessa. E che per colpa sua purtroppo nulla potrà mai tornare come prima”.

IL SOLITO 25 APRILE.

Marcello Veneziani da godere: liberateci da Gad Lerner e dagli avvoltoi del 25 Aprile, scrive il 25 Aprile 2018 "Libero Quotidiano". La festa degli avvoltoi. Di quelli che la usano per le loro battaglie di retroguardia, come coloro che hanno avuto l'idea di far sfilare i palestinesi nel corteo di Roma per la Festa della Liberazione. O coloro che tutti gli anni, in questa data, ricordano i partigiani dimenticando di dire anche solo una parola per ringraziare i milioni di soldati americani e inglesi che sono morti per liberarci da nazismo e fascismo. Marcello Veneziani su Il Tempo dedica un'intera pagina agli "avvoltoi del 25 aprile". Tra i quali non mancano, ovviamente, quelli televisivi: primo fra tutti Gad Lerner, che l'altro giorno ha fatto il suo ritorno in tv con un programma dedicato all'immigrazione e intitolato "La difesa della razza", riprendendo il titolo di una rivista del Ventennio e attaccando frontalmente il quotidiano romano "reo" di occuparne con la sua redazione la stessa sede e "reo", soprattutto, di aver messo in prima pagina qualche settimana fa Benito Mussolini "Uomo dell'anno" dopo che nei giorni immediatamente precedenti le elezioni del 4 marzo giornali e tv rosse avevano strillato al "ritorno del fascismo" dopo che un pazzo aveva sparato da un'auto contro alcuni immigrati a Macerata.

La liberazione dalla retorica, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 25 aprile 2018. Cosa ne direste se facessimo un programma televisivo intitolato Arcipelago Gulag? Che ce ne siamo andati di testa, il gulag è chiuso da svariati decenni. È storia vecchia. E invece c’è un programma nuovo di zecca, intitolato La difesa della Razza, di Gad Lerner, dedicato a una rivista e agli eventi terribili di ottant’anni fa. Eventi evocati tre volte al giorno dopo i pasti. Il programma ha l’evidente funzione di soffiare sul fuoco dell’antirazzismo e di stabilire un ponte infame tra i razzisti del passato e la stampa di centro-destra d’oggi. Partendo proprio da Il Tempo, a cui Lerner ha voluto dedicare l’incipit del programma, attaccandosi al fatto che quella rivista infame, molto letta (e a volte anche scritta) da tanti che poi diventeranno comunisti, socialisti, laici, democristiani, ebbe la sua sede nello stesso palazzo de Il Tempo. Se le colpe ricadono pure sugli inquilini dei palazzi, figuratevi che colpe dovrebbero ricadere su chi ha militato in movimenti che decretarono di uccidere per esempio il commissario Calabresi. Gad Lerner militava in Lotta Continua in anni assai più recenti del ’38 ma nessuno si sognerebbe oggi di rinfacciargli il suo passato militante; immaginate con che spirito si possa rinfacciare a uno che è nato molti anni dopo la caduta del fascismo e che mai ha sostenuto tesi razziste, qualche legame con la difesa della razza… E invece lui ci ha provato e ha preso a pretesto la prima pagina de Il Tempo su Mussolini uomo dell’anno per stabilire un ponte infame tra il razzismo e questa testata. Ignorando in malafede il senso evidente di quella pagina e di quel testo, ribaditogli anche dal Direttore Chiocci: col vostro antifascismo fuori tempo e fuori senno avete reso Mussolini il personaggio più attuale dell’anno. Questo per dirvi che i secoli passano, e perfino i millenni, ma intorno al 25 aprile gli avvoltoi spiccano puntuali il loro volo, tra carogne e carcasse. E noi che ci chiedevamo: come sarà quest’anno il 25 aprile dopo la sfuriata antifascista dello scorso anno, dopo la cacciata delle sue vestali e l’avvento del magma grillino e del destro-leghismo? Rientreranno i toni e gli allarmi che hanno vistosamente stancato gli italiani o riprenderanno comunque, nonostante appaiano alla popolazione irreali, subdoli e posticci? Lerner su Raitre ti fa cadere le braccia e le residua fiducia nel buon senso, nell’onestà storica e nella voglia di voltare pagina. Una decina d’anni fa ci fu un tentativo di rendere la Liberazione un patrimonio di tutti. Fu quando Berlusconi al governo volle ribattezzarla Festa della Libertà, implicando la conciliazione tra vincitori e vinti e l’integrazione con la Libertas dello Scudo crociato e la freedom in senso atlantico e occidentale. Ma il tentativo non attecchì, la sinistra militante si votò all’Urfascismo e all’antifascismo eterno. Quando l’uso carognesco della storia finirà di incombere nella carne e nello spirito dei figli, dei nipoti e dei pronipoti? Un tempo pensavo che vi potesse essere nel nome dell’Italia una pacificazione tra eredi e posteri del fascismo e dell’antifascismo, ma la pacificazione fallì e la tensione nel tempo crebbe anziché spegnersi. Lo ha confermato il maestrino della sinistra ricreativa, Fazio. Poi pensavo che avremmo digerito il fascismo quando lo avremmo sottratto alla politica e restituito alla storia. Ciascuno ha i suoi giudizi storici divergenti, ma senza alcuna ricaduta nel presente o tra i presenti, nella politica e addirittura nel futuro. Ma la storicizzazione del fascismo tarda a diventare senso comune, prevale il Precetto. E la Dannazione. Infine pensai che ci avrebbe pensato l’oblio, la rimozione di ogni passato in un’epoca che non ricorda ma si vive addosso, campa solo del momento. Quel processo avviene in ogni campo e uccide ogni memoria, meno che in tema di fascismo, elevato a totem e tabù. E con gli anni peggiora. Cresce il vilipendio dei cadaveri, l’oltraggio ai morti e la loro dannazione, la discriminazione tra morti e morti. L’industria delle pompe funebri lavora a tempo pieno. E come ogni impresa funebre non è finalizzata alla memoria e all’onorata sepoltura ma al profitto. Politico. Ma veniamo al 25 aprile. Da italiano avrei voluto che la Resistenza avesse davvero liberato l’Italia, scacciando l’invasore. Avrei voluto che la Resistenza fosse stata il secondo Risorgimento d’Italia. E avrei voluto che il 25 aprile avesse unito un’Italia lacerata. Sarei stato fiero di poter dire che l’Italia si era data con le sue stesse mani il suo destino di nazione sovrana e di patria libera. Ma devo purtroppo dire che l’Italia non fu liberata dai partigiani ma dagli alleati. Il concorso dei partigiani fu secondario. Sanguinoso ma secondario. La sconfitta del nazismo sarebbe avvenuta comunque. I partigiani, poi, duole dirlo, non agirono col favore degli italiani ma di una minoranza: ci furono altre due italie, una che rimase fascista e l’altra che si ritirò dalla contesa e ripiegò neutrale e spaventata nel privato o altrove. Devo purtroppo aggiungere che almeno la metà dei partigiani non voleva restituire la patria alla libertà e alla sovranità nazionale e popolare ma voleva instaurare una dittatura comunista internazionale. Altro che risorgimento. E il proposito di unire gli italiani non rientrò mai nelle celebrazioni in rosso sangue del 25 aprile. Fu sempre una festa contro. Non posso poi dimenticare tre cose. La prima è che la guerra partigiana ebbe episodi di valore e di coraggio ma anche di gratuita, feroce e impunita violenza. Dimenticare gli uni o gli altri è un oltraggio alla verità e alla memoria dei suoi eroi e delle sue vittime. La seconda è che molti italiani che restarono fascisti fino alla fine combatterono e morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà a un’idea, a uno Stato e a una Nazione; mezza classe dirigente dell’Italia di domani, e anche di più, fu falciata dalla guerra civile. Molti di loro furono risorgimentali autentici, mazziniani e patrioti. Sia tra gli antifascisti che tra i fascisti vi furono coloro che pensarono, credettero e combatterono nel nome della patria. Reputo il fascismo morto e sepolto da una montagna di anni, definitivamente. Ma non sono disposto a negare, attutire o rimuovere la verità e calpestare il sacrificio di quei ragazzi. Il sangue dei vinti. Infine reputo l’antifascismo una pagina di dignità, fierezza e libertà quando il fascismo era imperante; ma non altrettanto reputo l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo sconfitto e finito. Era coraggioso opporsi al regime fascista, non giurargli fedeltà, ma non fu coraggioso sputare sul suo cadavere e oltraggiarlo. E più infame è farlo ancora oggi, oltre settant’anni dopo. Nonostante tutto reputo la Resistenza una pagina decisiva nella storia d’Italia ma reputo infami le stragi di civili, i vili agguati e poi le uccisioni a guerra finita. Si fa peccato a dire tutto questo? Sono pronto a peccare, nel nome della verità, della dignità e della libertà di giudizio.  MV, Il Tempo 25 aprile 2018

LA SOLITA VIOLENZA POLITICA SINISTROIDE.

Quei bravi ragazzi che uccisero Ramelli con le spranghe, scrive Paolo Delgado il 23 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Nel circolo vizioso di aggressioni e rappresaglie tra rossi e neri che costellarono gli anni ‘ 70 – quelli che con notevole incoscienza una parte della stampa cerca oggi di resuscitare evocando quelli che allora si chiamavano “opposti estremismi” – di episodi efferati e tragici se ne contarono a decine da entrambe le parti. Alcuni però furono e restano ancora oggi più impressionanti, più orridi degli altri, anche se non più tragici. Fu il caso dell’uccisione di Sergio Ramelli, 19 anni, dirigente di medio calibro del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Msi. La sera del 13 marzo 1975 fu aggredito da un gruppo di militanti di Avanguardia operaia mentre tornava a casa. Usarono chiavi inglesi Hazel 36, un’ “arma impropria” molto usata a Milano, e in nessuna altra parte d’Italia, prima dai militanti del Movimento studentesco della Statale, poi anche da Avanguardia operaia. L’agonia di Ramelli fu lunghissima. Resistette 48 giorni in ospedale e quel lento stillicidio fu uno degli elementi che rese quella vicenda per certi versi più feroce delle tante altre che si ripetevano in quei mesi un po’ ovunque ma soprattutto a Roma e Milano. Un altro fu la inconcepibile reazione di una parte del consiglio comunale di Milano che alla notizia dell’aggressione, mentre nell’aula si sfiorava la rissa applaudì spudoratamente. Il terzo elemento anomalo furono le modalità dell’attacco. I picchiatori non conoscevano Ramelli. Gli era stato indicato dagli ex compagni di scuola in modo che nessuno potesse sospettare di loro: “gli idraulici” agirono in un certo senso su commissione. Erano chiamati così proprio per l’abitudine di adoperare le Hazel 36, 40 cm di lunghezza, pesantissime. Entravano in ballo spesso, nei giorni dell’antifascismo militante. Tra il 1972 e il 1977 furono adoperate in 140 aggressioni, non poche finite con lesioni gravi. Ramelli era a sua volta un fascista anomalo, almeno nell’aspetto. Non si uniformava al tipico look nero dell’epoca, dettato dai “sanbabilini”, i duri che stazionavano in piazza San Babila e che giravano già nella prima metà del decennio con la pistola in tasca. Portava i capelli lunghi, a prima vista lo si sarebbe detto “un compagno”. Studiava chimica industriale al “Molinari”, una scuola rossa, e se era certamente neofascista non era però un picchiatore. Quella era però la stagione d’oro dei servizi d’ordine e dell’antifascismo militante, arrivata alla fine del grande ciclo di lotte operaie 1969- 73, nel quale l’antifascismo era stato in realtà periferico, e precedente alla fase finale quando la parola sarebbe passata direttamente alle armi da fuoco, spesso impugnate dagli stessi ragazzi che si erano fatti le ossa nei servizi d’ordine. La campagna per rendere “inagibili” scuole, università e posti di lavoro per i neofascisti era in pieno svolgimento, Ramelli fu individuato, denunciato come fascista con un manifesto appeso nella scuola, poi aggredito persino in classe. Il caso- Ramelli diventò una specie di emergenza nella scuola, con tanto di assemblee affollate chiamate a decidere. Alla fine Ramelli cambiò scuola. Non fu dimenticato. Furono proprio alcuni studenti del “Molinari” aderenti ad Avanguardia operaia a chiedere al servizio d’ordine di fare il lavoro sporco, in modo che loro non potessero essere individuati. La squadra era composta da 8 persone più una staffetta, una ragazza. A colpire però furono solo in due, uno dei quali però spiegò al processo di non aver usato la Hazel 36: «La mia era una Beta 35, più corta di tre cm e più leggera». Non volevano uccidere, gli era solo sfuggita la mano. «Fu un tragico errore» avrebbe commentato anni più tardi, minimizzando il fattaccio, Mario Capanna, leader di quel Movimento studentesco che a Milano aveva inaugurato la politica della spranga, soprattutto in funzione antifascista ma senza sdegnare qualche sonora legnata ai militanti della sinistra extraparlamentare, sventolando il manifesto di Peppone Stalin. Ramelli morì il 29 aprile. Tra l’aggressione e la fine c’era stata l’uccisione di Claudio Varalli, ammazzato con un colpo di pistola da un militante di Avanguardia nazionale. Il fascista era stato attaccato da un gruppo dell’Mls, erede del Movimento della Statale, nel quadro della stessa mobilitazione antifascista di cui era stato vittima Ramelli. Aveva risposto sparando. Il giorno dopo, nel corso della manifestazione di protesta e dei puntuali scontri che la accompagnarono, una camionetta della polizia aveva investito e ucciso un altro militante di sinistra, Giannino Zibecchi. La situazione era incandescente. Ai funerali di Ramelli fu proibita qualsiasi manifestazione politica. I colpevoli furono individuati e poi condannati per omicidio ma (giustamente) senza premeditazione solo dieci anni dopo, grazie alla deposizione di un pentito. Nel frattempo erano diventati tutti professionisti affermati, per lo più medici. Il magistrato che gestiva l’inchiesta, Guido Salvini, pur essendo di sinistra fu accusato di voler processare il Movimento degli anni ‘ 70 e in particolare Democrazia proletaria, dove erano finiti molti dei dirigenti di Ao dei tempi della Hazel 36. Alla cecità dettata dall’ideologia spesso non c’è limite.

Violenza politica? No, è barbarie, scrive Paolo Delgado il 22 Febbraio 2018, su "Il Dubbio".  La “guerra” iniziò dopo che 200 picchiatori del Msi, guidati da Giorgio Almirante, attaccarono l’università di Roma occupata. Tira un’ariaccia livida, un vento maligno che sembra provenire dal passato soffia sulla campagna elettorale e rischia di renderla drammatica. Il dirigente di Forza Nuova pestato in pieno centro a Palermo, Massimo Ursino, non è uno stinco di santo. Ha all’attivo un paio di rapine e pestaggi ai danni di ambulanti extracomunitari, una condanna in primo grado a due anni e mezzo, più varie ed eventuali. Non è stato scelto a caso ma individuato con precisione per rendere l’azione «esemplare», come spiega il comunicato diffuso dagli aggressori. La dinamica dell’episodio rischia di segnare un salto di qualità nella resurrezione della violenza politica proprio perché non ha colpito alla cieca, come nelle risse politiche che pure negli ultimi tempi non sono mancate, ma ha cercato il gesto esemplare con tanto di rivendicazione spedita alle redazioni e filmino della spedizione. Nemmeno 24 ore dopo il gioco del botta e risposta si è ripetuto a Perugia dove è stato accoltellato un militante di Potere al Popolo (ma potrebbero essere due) mentre attacchinava un manifesto elettorale. Il ragazzo se l’è cavata con un colpo di striscio e anche i danni del pestaggio di Palermo sono limitati: naso rotto, qualche ematoma, sospetta lesione alla spalla. Non ci sono state tragedie né a Palermo né a Perugia, ma qualcosa di pericoloso e drammatico sta succedendo davvero: il ritorno di quella guerriglia civile strisciante che insanguinò l’Italia negli anni ‘ 70, fece troppe vittime da una e dall’altra parte, ed era già, in fondo, una ripetizione della guerra civile, vera e per nulla strisciante, del 1943/45. Quando si parla di violenza politica, a proposito di quegli anni, ci si riferisce soprattutto alle azioni clamorose e più sanguinarie: le stragi che, a partire da piazza Fontana, avevano davvero dietro la regia di una parte del neofascismo di allora, nella prima metà del decennio, la lotta armata rossa nella seconda. In realtà la stragrande maggioranza dei 4290 “episodi di violenza” censiti riguardarono la battaglia di strada tra neofascisti e militanti soprattutto della sinistra extraparlamentare ma anche del Pci. Quella ripetizione in formato minore della guerra civile che all’epoca era un ricordo vicino, poco più di vent’anni, ha una data d’inizio precisa: 16 marzo 1968. Duecento picchiatori del Msi, guidati da Giorgio Almirante non ancora segretario e da Giulio Caradonna, ai tempi uno dei capi del neofascismo tosto romano, attaccarono l’università di Roma occupata. In realtà volevano menare suocera perché nuora intendesse, e la ‘ nuora’ in questo caso erano i militanti di estrema destra che sembravano soggiacere al fascino della rivoluzione e avevano addirittura partecipato agli scontri con la polizia di Valle Giulia. Bisognava rimettere le cose a posto e una bella spedizione punitiva sembrava la via più semplice. Ci rimise Oreste Scalzone. Quando la controffensiva del Movimento assediò Giurisprudenza i neo fascisti asserragliati nella facoltà nera per antonomasia reagirono con un lancio di banchi e armadi che colpirono di brutto Scalzone. Quasi un anno dopo il 29 febbraio 1969, in occasione della visita del presidente americano Nixon a Roma un corteo neofascista si produsse nel solito assedio di una facoltà occupata, quella di magistero. Uno degli occupanti, Domenico Congedo, tentò la fuga camminando su un cornicione, precipitò e ci rimise la vita. Da quel momento lo stillicidio di botte, coltellate, agguati notturni sotto casa, pestaggi, città divise in zone rosse o nere a macchia di leopardo, ciascuna preclusa ai militanti dell’altra parte se non a forte rischio di aggressione, diventò quotidiano. La lista delle vittime è lunga, dall’una e dall’altra parte, e destinata ad allungarsi ulteriormente quando, nella seconda metà del decennio, le armi da fuoco si aggiunsero alle mazze e ai coltelli. Non era uno scontro simmetrico. Almeno fino al 1974 l’80% delle aggressioni censite dalla polizia partivano dai neofascisti e i rossi rispondevano. Come quando, nel luglio 1970, due operai furono accoltellati da una squadra fascista a Trento e due degli accoltellatori, legati, furono costretti a sfilare per le vie della città con al collo il cartello “sono un fascista assassino”. Quella del Msi, guidato a partire dal 1969 da Giorgio Almirante, era una strategia precisa. Gli attacchi e le conseguenti risposte creavano un clima diffuso di violenza politica che spaventava la cosiddetta "maggioranza silenziosa", il partito neofascista si presentava poi come partito d’ordine incassando i dividendi politici del clima che contribuiva largamente a creare. Il gioco funzionò alla perfezione nelle elezioni amministrative del 1971, quando il Msi raggiunse un picco storico superato solo, ma di poco dalla An di Fini oltre vent’anni dopo e in quelle politiche del 1972, quando raddoppiò i consensi. Il crollo fu repentino. Il 12 aprile 1973 una manifestazione neofascista non autorizzata a Milano si concluse con scontri durissimi nei quali morì un poliziotto, Antonio Marino. Almirante tentò di correre ai ripari denunciando due dei militanti che avevano partecipato agli scontri e tirato la bomba Srcm che aveva ucciso Marino ma era troppo tardi. L’immagine del Msi ‘ partito d’ordine’ era esplosa con quella bomba e il declino elettorale fu irreversibile. Nelle strade invece gli scontri continuarono quanto e più di prima: anche solo quelli più gravi sono troppi per elencarli. I picchi dell’orrore furono raggiunti a Roma, il 16 aprile 1973, quando un gruppo di militanti di Po, senza avvertire l’organizzazione, diedero fuoco alla porta di casa del segretario della sezione di Primavalle del Msi. Non avevano previsto il rogo, che soffocò due dei suoi figli, Virgilio di 22 anni e Stefano, di appena 10. Oppure quando, nel febbraio 1980, il militante di sinistra Valerio Verbano fu ucciso all’interno dell’appartamento in cui viveva, di fronte agli occhi dei genitori legati. O ancora quando a Milano il giovanissimo fascista Sergio Ramelli fu attaccato da una squadra di Avanguardia operaia a colpi di chiave inglese. L’agonia durò due giorni. Quando arrivò la notizia dell’aggressione un parte del Consiglio comunale applaudì apertamente. Nella seconda metà degli anni ‘ 70 le armi da fuoco si fecero sentire sempre più spesso. Da entrambe le parti. La lista dei morti ammazzati sotto casa o di fronte alle sedi di partito diventò lunghissima. Della stagione della grande rivolta la guerriglia tra neri e rossi è stato il capitolo più triste e tragico. Solo dei totali irresponsabili, da destra come da sinistra, dall’alto e dal basso, possono soffiare per ravvivare quel fuoco spento, non importa in nome di quale alto ideale.

Giorgia Meloni, negata la manifestazione a Roma: ma i quattro cortei di sinistra possono sfilare, scrive il 23 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Chi sono i veri fascisti? Già, in questa grottesca campagna elettorale dove da sinistra si grida al ritorno del fascismo, all'onda nera, l'unica a cui tappano la bocca - con un'operazione, appunto, dal sapore fascista - è Giorgia Meloni. Infatti domani, sabato 24 febbraio, a Roma ci sarà spazio per tutti, quattro manifestazioni politiche di sinistra. Per tutti tranne Fratelli d'Italia, anche se la Capitale non è certo un piccolo borgo nel quale cinque eventi contemporanei sono impossibili da organizzare. Il punto è che per l'amministrazione, una manifestazione della Meloni è "pericolosa" poiché per in più parti della città sfilerà la sinistra. Nel dettaglio, ci sarà l'evento "Mai più fascismi, mai più intolleranza", organizzato da Pd e Cgil. Dunque i Cobas contro il Jobs Act; quindi i gruppi antagonisti al Cie di Ponte Galeria per protestare contro le condizioni dei migranti; infine, a San Giovanni, si raduneranno i No Vax. Eventi che, come sottolinea Il Tempo, coinvolgeranno migliaia di persone e che impegneranno le forze dell'ordine. Talmente impegnate da negare l'autorizzazione alla Meloni di scendere in piazza. Permesso negato. E la Meloni sbotta: "Continuano a impedire a Fratelli d'Italia di manifestare sul territorio nazionale. Ci hanno vietato di manifestare questo sabato a piazza Vittorio a Roma, nell'ambito di una mobilitazione nazionale nel corso della quale porteremo enormi bandiere tricolori per chiedere che lo Stato rientri in quartieri ormai abbandonati al degrado e all'insicurezza". La leader di FdI continua sottolineando che "siamo le prime vittime di questo clima brutto, da anni '70 costruito purtroppo ad arte da una sinistra, che ha passato la campagna elettorale a usare slogan di quarant'anni fa per la difficoltà di spiegare ai cittadini perché al governo della Nazione aveva dato soldi alle banche e agli immigrati e non ai poveri". E insomma, gli unici a cui tappano la bocca sono quelli di destra. Chi sono, dunque, i veri fascisti? A voi la risposta. Per certo, la Meloni non molla: "Sabato - ha annunciato - saremo comunque a manifestare a piazza Vittorio".

Torino, violenza antifascista per impedire il comizio del leader di Casapound Simone De Stefano, scrive il 22 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Come promesso, antagonisti e centri sociali in piazza contro CasaPound a Torino: tensioni e violenze "antifasciste" contro l'appuntamento organizzato dal leader del movimento di estrema destra, Simone Di Stefano, in un albergo del capoluogo piemontese. Il corteo dei centri sociali ha sfilato per le strade della città e per due volte ha tentato di forzare il cordone di forze dell'ordine in tenuta antisommossa che bloccava su Corso Vittorio l'accesso all'hotel, distante alcune centinaia di metri. I manifestanti sono stati fatti indietreggiare dalle forze dell'ordine che hanno azionato gli idranti per respingerli.

Sono fuori dal tempo gli “utili idioti” dell’antifa, scrive il 21/02/2018 Nino Spirlì su "Il Giornale". Inevitabile. Annunciato, perfino. Il pestaggio violentissimo avvenuto a Palermo, nella centralissima via Dante, alle sette di sera, con tutti i negozi ancora aperti e la gente a passeggio lungo i marciapiedi, e patito da Massimo Ursino, responsabile provinciale diForza Nuova è il frutto di questa stramaledetta campagna di odio sociale portata avanti da tutta la sinistra Sinistra e da ogni esponente di quella parte politica. L’esasperata esecrabile partigianeria, fuori luogo e fuori tempo, sta infervorando gli animi peggiori. E, mentre la Destra sta dimostrando solidità e autocontrollo (probabilmente, imparata in decenni di provocazioni), la Sinistra, salottiera o da marciapiede che sia, si rivela, giorno dopo giorno, violenta e spaventevole, sia a parole che coi fatti. Volgari e razzisti, violenti e provocatori, post e tweet, link e video, spingono all’odio e alla battaglia civile. Tentano di seminare guerre e divisioni anche all’interno delle famiglie, già minate dalle politiche laceranti ideate e attuate dagli ultimi malgoverni massocomunisti. Nelle ultime settimane, malazioni violente contro esponenti della Destra se ne sono registrate a decine per tutta la Penisola. Urlacci, sputi, lancio di oggetti, assalti contro le Forze dell’Ordine, provocazioni agli esponenti di Partito. Una guerra vera e propria. Combattuta col laido compiacimento radical chic di certo comunistume di Palazzo, che blatera di cose finite, come il fascismo, istigando, in nome di una maledizione universale come il comunismo, squadracce di sobillatori analfabeti della vera Storia. Anche le massime cariche dello Stato dovrebbero cercare e trovare la giusta serenità d’animo; invece, spesso, è proprio da loro che parte una sorta di larvato invito all’inimicizia fra gli Italiani. Chi lo dice che i Partiti politici di Destra siano la continuazione del PNF? Noi lo abbiamo ben assimilato che il fascismo sia morto nel 1945.  Difendiamo il diritto alla verità storica, questo sì, ma solo perché la catasta di menzogne partorite dal PCI e soci nel dopoguerra è stata così evidente che, oggi, è un sacrilegio tenerla ancora in piedi.  Ma sappiamo benissimo che esiste una Costituzione repubblicana che onoriamo e che, peraltro, siamo stati gli UNICI a difendere dall’assalto di tutta la Sinistra, che avrebbe voluto cambiarla, a proprio piacimento, non più di un anno fa. Se solo se lo ricordassero, certi Italiani! Questo fiele politico porterà gravissimi lutti e ci scapperà il morto. E temo che, se sarà di Destra, “se l’è cercato”, mentre se a restare sull’asfalto sarà qualche provocatore da centro sociale o qualche immigrato clandestino, politicizzato suo malgrado, o, peggio, un qualche stupidotto universitario a lunga scadenza, col pugno chiuso e il culo pieno di soldi di famiglia, allora si griderà all’assassinio fascista, alla strage, al terrore nero. I giornali servi titoleranno a caratteri cubitali. Le televisioni di regime si consumeranno di dirette di funerali di Stato e gli ultimi stalinisti rispolvereranno i cappottacci neri col collo d’astrakan (“ecologico” al petrolio, chiaramente). E la pantomima antifascista sarà spalmata su tutta la loro giornata. E, malgrado noi, sulla nostra. O, forse, non è veramente più tempo! I social, oggi, traboccano di commenti di gente comune che urla il proprio BASTA! Il popolo ha capito che queste violenze sono figlie della scemità di certe suffragette da dozzina, di certi tromboni stonati e in via di definitiva rottamazione. L’Italia non si fa infinocchiare! Ascolta e sceglie. I finti belati dei lupi travestiti da agnelli non inteneriscono più nessun cuore. Sembrano, piuttosto, i rantoli demoniaci di zombi senz’anima che stanno scendendo, per l’ultima volta, negli abissi, senza trovare rassegnazione. Che Palermo sia stato l’ultimo teatro di questa vergogna d’Italia! E Massimo Ursino, l’ultimo offeso!

I servizi segreti: anarchici più pericolosi dei jihadisti. L'ultimo rapporto dell'intelligence: in un anno oltre 100 tra attentati e scontri rivendicati dall'estremismo rosso, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Domenico Ferrara, Venerdì 23/02/2018, su "Il Giornale". L'allarme sul ritorno del fascismo e sulla violenza dell'estrema destra? Una fake news. O meglio, una pagliuzza rispetto a una trave grossa quanto una casa. E dal colore rosso. Già, perché la sinistra non fa altro che puntare il dito contro l'onda nera ma non si accorge che il vero pericolo costante e quotidiano in Italia è la galassia che va dagli anarchici ai centri sociali passando per antagonisti e collettivi studenteschi. Lo hanno scritto nero su bianco i Servizi di intelligence nella relazione annuale del 2017 trasmessa al Parlamento. Una decina di pagine dedicate alla minaccia anarco-insurrezionalista considerata più tangibile di quella jihadista. Nell'anno passato infatti gli ambienti più radicali dell'eversione rossa hanno colpito undici volte in sette città italiane. Come? Pacchi esplosivi, attentati incendiari e danneggiamenti a Genova, Torino, Modena, Olmeneta (Cr) e Firenze. Senza dimenticare il ritorno sulla scena della Federazione anarchica informale con l'ordigno esploso davanti alla stazione dei carabinieri di San Giovanni a Roma lo scorso 7 dicembre. L'estremismo antagonista si è infiltrato poi nelle mobilitazioni No Tav e No Tap, ma non solo. Nel dossier c'è spazio anche per le lotte di matrice «marxista-leninista» finalizzate «a tramandare alle nuove generazioni la memoria brigatista, nella prospettiva di contribuire alla formazione di futuri militanti». Dal 2017 a oggi si contano 99 casi di bombe, gazebo assaltati, scontri con la polizia e violenze di altro genere. In pratica un assalto ogni quattro giorni. Con un bilancio di 67 agenti feriti. Ma se si annoverano anche le minacce e le sassaiole dei No Tav, i feriti totali sono oltre cento: un vero e proprio bollettino di guerra. Nel dossier degli 007 si fa anche una disamina del pericolo jihadista in tutto l'Occidente. Eppure in merito alla situazione italiana vengono scritte solo un paio di pagine. Sul documento si legge: «Nel 2017 non si sono registrate nuove partenze in direzione del teatro siro-iracheno fenomeno in linea con una generale riduzione dell'afflusso di aspiranti jihadisti verso quel quadrante e gli ulteriori casi di foreign fighters a vario titolo collegati con l'Italia nel contempo emersi sono da riferire per lo più a trasferimenti verso il campo di battaglia verificatisi in anni precedenti». Più inquietante invece l'analisi dell'intelligence sugli anarchici: «È rimasta alta, nel corso dell'anno, anche l'attenzione in direzione della minaccia eversiva e dell'attivismo estremista. I circuiti anarco-insurrezionalisti si sono dimostrati determinati a rilanciare l'area sul piano operativo (...) Inoltre, campagne aggressive contro la repressione, e in solidarietà con militanti detenuti, hanno riproposto sintonie e sinergie tra ambienti anarchici italiani e omologhe realtà straniere, soprattutto greche e spagnole, tutti interessati a ribadire l'estensione del progetto eversivo al di fuori dei rispettivi confini nazionali». E ancora: «Il fronte antagonista resta composito, fluido e privo di un percorso comune. Iniziative di contestazione hanno riguardato soprattutto le politiche europee e i temi sociali, quali il lavoro e l'emergenza abitativa. Convergenze tra settori della sinistra antagonista ed area anarchica hanno concorso ad animare le proteste sul versante delle lotte ambientaliste. Seppure declinato in forme diverse, un comune cavallo di battaglia si è rivelata la lotta alle politiche migratorie e al sistema di accoglienza e gestione dei migranti, tradottasi tanto in azioni dirette in puro stile anarchico quanto in manifestazioni di piazza». E il «pericolo fascista»? Per i nostri 007 quello che la sinistra chiama «rigurgito» vale appena due paginette.

Anarchici devono al Comune affitti per quasi 100mila euro. Il tribunale ha convalidato lo sfratto diciassette anni fa ma il gruppo Bruzzi-Malatesta resiste in via Torricelli, scrive Chiara Campo, Venerdì 23/02/2018, su "Il Giornale". Qualche giorno fa si è saputo che la Corte dei Conti ha chiesto approfondimenti al Comune sugli affitti non incassati dal 2003 nelle case popolari. Un buco nero che si aggira intorno ai 350 milioni di euro. Palazzo Marino non riesce a recuperare circa la metà degli affitti, inserisce i mancati incassi nel capitolo dei «fondi di dubbia esigibilità» e copre la voragine con le tasse. «Bisogna affinare la lotta ai furbi che non pagano e agli abusivi, incrociando banche dati e informazioni» ha incalzato subito il consigliere di Forza Italia Fabrizio De Pasquale. Che è andato avanti con la ricerca, perchè se tra chi non paga nelle case Erp ci sono tanti morosi incolpevoli, famiglie che hanno perso il lavoro e non riescono, anche volendo, a rispettare la rata, ci sono centri sociali che vivacchiano gratis negli spazi comunali, facendo affari rigorosamente esentasse. Del Torchiera che occupa la cascina di fronte al cimitero Monumentale o di Macao, che subaffitta pure gli spazi dell'ex Macello a eventi della moda o come albergo low cost, si è ampiamente parlato. Ora che le palazzine liberty di viale Molise sono tornate in mano al Comune (giorni fa è stato approvato in consiglio comunale il piano di rilancio dell'Ortomercato, e nell'accordo lo spazio occupato da Macao viene restituito da Sogemi all'amministrazione), «ci aspettiamo che il sindaco chiami finalmente il questore e chieda lo sgombero, ora non ha più scuse» afferma De Pasquale. Ma tra gli inquilini morosi del Comune c'è pure il Centro sociale anarchico «Bruzzi-Malatesta», occupa uno spazio «ad uso diverso dall'abitativo» in via Torricelli 19, zona San Gottardo, in virtù di un contratto di locazione stipulato il 24 luglio del 1985. Il gruppo anarchico in realtà è presente nell'immobile da oltre quarant'anni: prima era di proprietà privata, poi fu ceduto a prezzo simbolico al Comune. Già il 14 settembre del '99, a fronte dell'ingente debito maturato dagli inquilini dopo 14 anni - pari a 42.160,98 euro - il Comune tramite l'Avvocatura avviò il procedimento di sfratto per morosità, una richiesta convalidata dal Tribunale di Milano il 6 ottobre 2000. Diciassette anni dopo, il centro sociale è ancora lì. De Pasquale ha chiesto all'amministrazione il conto dei debiti maturati fino ad oggi. Totale: 93.313,96 euro. Negli anni sono stati effettuati 65 tentativi di sfratto, tutti rinviati, l'ultimo giusto quattro giorni fa. Intorno alle 10 del mattino si è presentata all'esterno la Digos, sono passati mezzi della polizia, ma l'ufficiale giudiziario ha semplicemente consegnato l'avviso del prossimo intervento, fissato per il prossimo il 21 giugno. Altri quattro mesi di relax. «Nonostante questa minaccia, noi continueremo il nostro cammino, intenzionati più che mai a continuare nell'attività programmata» l'avvertimento degli anarchici su Facebook. L'azzurro De Pasquale accusa il Comune: «Basta con questa inerzia nei confronti dei centri sociali, oltre a disagi per chi ci vive accanto arrecano anche un danno economico ai cittadini. Via Torricelli ad esempio è in una zona commerciale ambita. É arrivato il momento di chiedere lo sgombero».

Filippo Facci il 22 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": "Mandiamoli in Corea". Quelli del "collettivo bolognese Hobo" (roba di centri sociali) vogliono regalare una birra a chiunque stracci la tessera elettorale: il 1° marzo faranno una festa nella facoltà di scienze politiche (classica location per feste) e a chi strapperà la tessera verrà dato da bere. C' è anche lo slogan, una cosa nuova: «Mandarli tutti a casa». Forse non hanno capito il meccanismo, forse non sanno che è contro la legge, forse sono degli idioti: ma vien meno anche la retorica per rimbrottarli. Tipo ricordare che si vota per dare al Paese un governo alla meno peggio, o perché si è tifosi, perché vuoi che perdano gli altri, perché odi quel leader, perché ti è simpatico caio, perché hai venduto il tuo voto, perché ti hanno promesso un lavoro, perché quel giorno non andrai a sciare. Oppure si può non votare per altrettanti e legittimi motivi: anche il menefreghismo è un lusso della libertà e di una democrazia navigata, anche l'indifferenza è un frutto del benessere maturato da una civiltà che ti lascia libero di fottertene. È nei paesi più ricchi e democratici che la gente non va a votare. Oppure è in quelli più poveri e dittatoriali, dove ci sono persone che vengono uccise perché vogliono la stessa tessera che gli idioti vogliono strappare. Ma è inutile dire che quelli del collettivo bolognese andrebbero spediti in Guinea Equatoriale, in Eritrea, in Corea del Nord, in Sudan o in Turkmenistan. No, devono restare qui a offrire birra: noi, in cambio, gli offriremo qualcosa che alla birra assomiglia molto. Filippo Facci

Il sindaco Pd disertò la fiaccolata per Pamela. Non il sit-in antifascista, scrive Nino Materi, Lunedì 19/02/2018, su "Il Giornale". C'è qualcosa che non quadra nel comportamento del sindaco Pd di Macerata, Romano Carancini. Il quale è certo una persona perbene e un bravo amministratore. Che però ieri ha sbagliato. Non tanto partecipando a un corteo - «antirazzista», ma perché all'indomani della tragedia di Pamela Mastropietro, lo stesso Carancini, non aderì alla fiaccolata promossa dalla famiglia della 18enne massacrata da un branco di spacciatori nigeriani. Carancini fa l'avvocato ed è abituato a difendere i più deboli. Ma in questo caso non l'ha fatto, considerato che «più deboli», nel dramma di Pamela, sono i genitori della ragazza. Dietro lo striscione «Una luce per Pamela», chiedevano solo giustizia; eppure durante quel pellegrinaggio di commozione popolare, il sindaco (pur dichiarandosi «solidale») non ha ritenuto di sfilare a fianco del papà e della mamma di Pamela. Un errore, sul piano morale e civile. Ieri, invece, Carancini ha aderito al corteo «Macerata è libera». Ma «libera» da chi? Dalle bestie che hanno fatto a pezzi una ragazza innocente? No, dai «razzisti» e dai «fascisti» che - come quell'esaltato folle di Luca Traini - se la prendono con i migranti di colore. Un corteo «per Pamela, e per Jennifer, Gideon, Omar, Wilson, Mohamed, Festus», ricorda il sindaco Romano Carancini in piazza della Libertà. E no, caro sindaco, Pamela non può - e non deve - essere paragonata a nessun'altra persona. Il suo supplizio è stato unico, per crudeltà e disumanità. Un calvario d'orrore. Che ha avuto il «merito» di far emergere il marcio di cui è intrisa Macerata. Oggi i tre pusher nigeriani hanno difensori d'ufficio, a fine processo sarà lo Stato italiano a pagare le loro parcelle. «Un principio di civiltà giuridica cui è giusto abbiano diritto tutti, compresi i mostri che hanno dilaniato la povera Pamela», sottolinea l'avvocato Rosario Alberghina, una vita trascorsa nei tribunali in nome della Legge. Che però non sempre è giusta, e uguale per tutti.

Centri sociali contro gli agenti: è guerriglia anche a Napoli. Gli antagonisti in piazza contro il comizio di Casapound. Ai poliziotti: "Il mondo vi detesta, siete dalla parte dei fascisti", scrive Chiara Sarra, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". "Il mondo vi detesta. Siete dalla parte dei fascisti". Lo hanno urlato - come riporta RaiNews24 - gli antagonisti dei centri sociali ai poliziotti schierati in assetto anti sommossa a Napoli, dove un corteo antifascista è sceso in strada per protestare contro un meeting elettorale di Casapound. Il leader della formazione di estrema destra Simone Di Stefano, infatti, partecipa a un incontro del movimento all'hotel Ramada, in via Galileo Ferraris, non lontano dalla stazione Centrale. Ed è proprio fuori dalla stazione che si sono concentrati i centri sociali, che hanno marciato con uno striscione che recita: "Stop razzismo e fascismo". Ad applaudirli, mentre sfilavano per le strade del quartiere Vasto, anche gli immigrati residenti nella zona. Le forze dell'ordine hanno blindato l'area circostante l'hotel e non sono mancati momenti di tensione e guerriglia, con bombe carta e fumogeni lanciati in direzione degli agenti, tra automobilisti e passanti spaventati. Un gruppo formato da una trentina di attivisti è stato poi fermato: gli agenti ha fatto piazzare gli antagonisti per qualche minuto contro un muro. Negli scontri due manifestanti sono stati feriti e portati in ospedale per le medicazioni.

Così il sindaco dem di Bologna finanzia chi pesta i poliziotti. Merola prende le distanze dai violenti, ma la giunta concede aiuti e immobili. Ecco la galassia antagonista, scrivono Lodovica Bulian e Giuseppe De Lorenzo, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Troppo facile prendere le distanze una volta fatta la frittata. Virginio Merola, sindaco Pd di Bologna, dopo le violenze degli antagonisti si è affrettato di definire «ridicola» l'etichetta «antifascista» con cui i manifestanti hanno caricato le forze dell'ordine. Peccato che i distinguo facciano a pugni con l'ambiguità con cui l'amministrazione comunale bolognese da anni coccola i centri sociali. Solo tre giorni prima degli scontri di venerdì, per esempio, la giunta piddina ha rinnovato la concessione di un immobile alle associazioni «Ya Basta!» e «Atash», realtà afferenti al centro sociale Tpo, in prima linea per impedire il comizio di Forza Nuova. Non c'è da stupirsi. In fondo il Comune sopporta o supporta tutte le altre realtà antagoniste scese in piazza. A partire dall'XM24, centrale organizzativa per No Tav, da 15 anni padrone di uno stabile concesso dalla giunta Pd. La convenzione è scaduta a giugno e ora sono abusivi, ma il sindaco ha rimandato lo sgombero a novembre preferendo il «confronto». Ovviamente gli attivisti sono ancora lì. Simile il caso di Labàs: il «collettivo politico» l'anno scorso è stato sfrattato da un'ex caserma occupata da 5 anni. Qualche settimana dopo, però, l'amministrazione ha emesso un bando con cui Làbas si è aggiudicato la gestione di una struttura da cui portare avanti le sue battaglie. Tra cui il sit-in in Piazza Verdi di due anni fa, quando blindarono una piazza con balle di fieno contro Salvini. Tra i manifestanti c'erano anche gli attivisti del Vag61. Cacciati su richiesta dei Monopoli di Stato, in poche settimane trovarono grazie al Comune un edificio tutto per loro. È probabile otterrà una sistemazione pure il «Laboratorio Crash», visto che dopo lo sgombero di agosto l'assessore si è impegnato a trovare un'alternativa. E pensare che è proprio da lì che è partito Lorenzo Canti, uno dei tre arrestati per il pestaggio del carabiniere a Piacenza. Si tratta di un antagonista collegato anche a «Guernica», lo stesso collettivo modenese a cui nel 2016 vennero notificate 11 misure cautelari per gli scontri nello sgombero di un'ex caserma. Guerriglia, lacrimogeni, bottiglie e bombe carta. Il copione si ripete da nord a sud a ogni ricorrenza, evento, summit o semplice sgombero. Nella galassia dell'antagonismo composta da centinaia di sigle in tutta Italia, sotto la lente forze ordine ci sono 11 centri in Lombardia, 7 in Piemonte, 12 in Veneto e altrettanti in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 20 in Campania, 3 in Sicilia. La città rossa di Merola è anche il feudo del collettivo Hobo, quello della campagna violenta contro il docente di Scienze politiche Angelo Panebianco. Due giorni fa prima di scendere in piazza ha fatto irruzione in consiglio comunale, dove sono rimasti contusi altri due vigili. Nel nome dell'antifascismo e dell'antirazzismo a Padova i centri sociali hanno inaugurato vere e proprie ronde che però hanno già lasciato sul loro percorso dei contusi: «Facciamo semplici passeggiate contro fenomeni razzisti». La formazione antagonista qui è composta dal centro sociale Pedro, da Bios lab e Gramigna. Un attivista riconducibile a quest'ultimo era finito tra i 39 denunciati per gli scontri alla festa dell'unità di Catania nel 2016: tra le accuse, resistenza a pubblico ufficiale aggravata dall'uso di armi e corpi contundenti. Nel corteo anti renziano erano confluiti sodalizi antagonisti etnei quali Adelph, «ExKarcere», «Anomalia» di Palermo, «Rialzo» di Cosenza e «Insurgencia» di Napoli. Che raggruppa universitari, precari, e due consiglieri comunali della lista di Luigi de Magistris. Nella città partenopea ci sono anche i collettivi di «Generazione ribelle» e il Movimento «Magnammoce o persone», per il diritto all'abitare. Proprio sotto le bandiere della lotta alla casa si nascondono frange già protagoniste di sgomberi come quello di via Curtatone a Roma nel settembre scorso, o del quartiere Montagnola con membri di «Action». Poi ci sono gli affiliati sotto il cartello dei «no alle grandi opere»: No tav, No tap, No grandi Navi. Formazioni trasversali. A ottobre scorso uno dei leader del centro torinese Askatasuna ed esponente No Tav venne stato arrestato per la protesta anti-G7 alla reggia di Venaria Reale. L'accusa? Aver picchiato un poliziotto, procurandogli delle ferite guaribili in più di 40 giorni.

Cara Boldrini, ora fai chiudere i centri sociali. Vuole sciogliere "i movimenti neofascisti" per solleticare la pancia dei compagni. Ma tace sugli antagonisti che pestano le persone, scrive Giannino della Frattina, Lunedì 19/02/2018, su "Il Giornale". Ma come si fa a essere «anti», senza prima riuscire a essere qualcosa? Ad avere una qualche idea positiva da raccontare, mentre si chiede con odio di chiudere la bocca a qualcuno, violentando così la regola somma della democrazia e della Costituzione che si può definire antifascista solo nella preoccupazione dei padri fondatori di impedire il ritorno di un fascismo storico già sepolto da una Guerra mondiale e non certo nella pretesa di impedire a qualcuno di pensare allo stesso modo di Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Gentile, Giuseppe Berto, Gabriele D'Annunzio, Antonio Sant'Elia, Giuseppe Terragni, Primo Carnera e mille altri. E allora si capisce quanto vuoto morale e soprattutto intellettuale ci sia nella richiesta fatta ieri dalla presidente della Camera Laura Boldrini che violentando ancora una volta l'austerità che la terza carica dello Stato richiederebbe, ha nuovamente fatto bieca campagna elettorale solleticando la pancia dei compagni con la richiesta di sciogliere «i movimenti neofascisti». A partire, probabilmente, da quella CasaPound che è stato l'unico partito costretto a raccogliere le migliaia di firme necessarie a presentarsi alle elezioni. Il sigillo del popolo sulla richiesta di far parte a pieno titolo della vita democratica del Paese. Diritto sacro e inviolabile che la Boldrini vorrebbe togliere, continuando invece ad accarezzare i delinquenti dei centri sociali che hanno spaccato la spalla a un carabiniere colpevole solo di aver fatto il suo dovere e aggredito Giorgia Meloni, probabilmente l'unica donna che la Boldrini non chiede di proteggere. Perché la Boldrini non pretende la chiusura dei centri sociali da dove partono le squadracce che picchiano le persone? O l'abolizione di quei gruppuscoli che si ispirano al comunismo, un'ideologia che ha sulla coscienza 100 milioni di morti e che ancor oggi riempie le galere di dissidenti e omosessuali torturati? Quelli vanno bene, a quelli la presidenta dalla penna rossa non chiede conto di nulla. Più facile la scontata retorica antifascista di una sinistra che fa finta di non vedere che per la prima volta nella storia repubblicana nessuno ha il coraggio di inserire proprio la parola «sinistra» nel simbolo elettorale. Troppa la paura di essere schifati dagli elettori. Meglio cercare di distrarsi con gli «aiuto, al lupo» (fascista). Perché se può essere vero che la Costituzione è nata (anche) dall'antifascismo e non dall'anticomunismo, dobbiamo ricordare che se abbiamo vissuto decenni di benessere (materiale e umano) e la possibilità di pensare e parlare, lo si deve a chi proprio a quei comunisti ha impedito di portarci a Mosca. Se lo ricordi bene la presidenta Boldrini. E magari faccia un salto alla Fondazione Prada che ha appena inaugurato «Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 19181943», una bellissima mostra a cura di Germano Celant che parla dell'arte e della cultura (e quindi della politica) di anni che sarà ben difficile cancellare. Con buona pace della Boldrini.

Centri a-sociali, scrive il 17 febbraio 2018 Michele Dessi su "Il Giornale". Cosa avranno mai di sociale i centri sociali? “Na beata minchia!!” Direbbe l’ormai celeberrimo Cetto Laqualunque. Attività socioculturale, zero. A detta di chi ne ha visitati tanti. Io mi sono astenuto, finora, dal farlo. Mi è bastato vederli in azione per le strade e le piazze delle nostre città. Quando arrivano si presentano come facinorosi, violenti e distruttivi. Una buona parte di loro, senza tema di smentita, proviene dalla “buona borghesia” italiana: papà e mamma professionisti, magari di sinistra, magari post sessantottini, magari disattenti nell’unico compito che dovrebbe preoccupare un genitore: l’educazione dei propri figli. Si, perché sono maleducati e volgari. Senza rispetto delle regole e, soprattutto, delle persone. Basta pensarla diversamente da loro per essere accusato, insultato, denigrato e sputato in faccia. Figli di papà con il portafoglio pieno di soldi e il cuore pieno di rabbia, pronti a tutto pur di portare scompiglio e odio. Gli striscioni e i cartelloni che li precedono nei cortei (pacifici) la dicono lunga sul loro conto. Molti li abbiamo visti nella “manifestazione” di Macerata. Questi ragazzi, abbandonati a se stessi, si abbandonano a loro volta a droghe, alcol e atteggiamenti violenti. Si proclamano democratici, pacifisti e anti fascisti, anti razzisti e accoglienti, ma, di fatto, dimostrano ad ogni uscita pubblica l’esatto contrario. Dalle uova marce, alle molotov, dagli sputi ai sassi, dalle spranghe alle bottiglie rotte, usano di tutto per provocare e aggredire. Incappucciati, coperti quasi sempre con le kefiah palestinesi si scagliano contro le forze dell’ordine, attaccando lo Stato democratico, repubblicano, anti fascista, anti razzista e accogliente. Dunque, c’è qualcosa che non torna! In cosa crede realmente questo piccolo esercito sgangherato e confuso dai fumi degli stupefacenti? Una cosa è certa ed evidente: dove arrivano loro, scoppia la rissa, i danneggiamenti, i feriti e, a volte, il morto. A pagare, oltre ai cittadini, carabinieri e polizia, padri di famiglia che, per pochi spiccioli, si fanno massacrare dai fancazzisti. Sempre rossi. Come accaduto a Piacenza. Dieci contro cento, un massacro!

ED ANCORA IL SOLITO FASCISMO. I SOLITI RAZZISTI. I SOLITI SCIACALLI.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Massimo Giletti, la lezione sul fascismo a PiazzaPulita: "Basta parlare di guerre puniche", scrive il 16 Febbraio 2018 Libero Quotidiano". A PiazzaPulita, tra gli ospiti, c'era anche Massimo Giletti, conduttore di La7 al pari di Corrado Formigli, il padrone di casa. E nel programma, ancora una volta, si è a lungo disquisito del presunto pericolo fascista, dell'orda nera immaginaria sbandierata da sinistra in campagna elettorale. Una discussione stucchevole che ha fatto sbottare Giorgia Meloni, presente in studio: "Mi avete rotto le palle". Ma anche Giletti ha mostrato tutto il suo dissenso. Già, perché dopo una domanda alla Meloni proprio sul fascismo, è stato interpellato anche Giletti. Il quale ha esordito così: "Invece di parlare delle guerre puniche...". Insomma, anche per lui il dibattito sul fascismo era surreale e superato. Una lezione a Formigli e compagni.

Giorgia Meloni zittisce Marco Damilano: "Avete rotto le palle col fascismo". Gelo in studio da Corrado Formigli, scrive il 16 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". I sinistra, da mesi, hanno messo in scena la storiella del ritorno immaginario del fascismo, ottimo spauracchio da campagna elettorale. E Marco Damilano, rossissimo direttore de L'Espresso, non può fare altro che cavalcare la storiella dell'onda nera. Lo ha fatto anche a PiazzaPulita di Corrado Formigli, dove era ospite in studio insieme a Giorgia Meloni. E la leader di Fratelli d'Italia, all'ennesima domanda su fascismo e dintorni, ha sbottato: "Se volete farmi ogni volta un esame di storia facciamolo". E ancora: "Non posso mai parlare dei miei programmi perché ogni volta mi chiedete cosa penso del fascismo e delle guerre puniche. Mi sono rotta le palle, ve lo devo dire. Voglio parlare dei miei programmi". Infine, ha concluso: "Non ho niente da farmi perdonare, semmai ho dato qualche lezione di democrazia al Pd. Vi prego, possiamo parlare di questo millennio?". Damilano colpito e affondato.

STAZZEMA. Nasce l'anagrafe virtuale antifascista ed è boom delle adesioni online. Dopo aver lanciato la Carta dei valori, il comune teatro dell'eccidio del 1944 (560 vittime) apre anche le iscrizioni online, scrive Marco Gasperetti il 30 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Il comune virtuale antifascista cresce minuto dopo minuto da quando l'amministrazione di Stazzema, simbolo della repressione nazi-fascista e teatro dell'eccidio del 12 agosto nel 1944 durante il quale nella frazione di Sant'Anna i massacratori delle SS, accompagnati da alcuni repubblichini italiani, sterminarono 560 persone, donne, vecchi, bambini e persino un neonato di venti giorni. Dopo aver lanciato l'iniziativa, il comune toscano ha ricevuto migliaia di adesioni che adesso con la possibilità di iscriversi via web stanno aumentando vertiginosamente. In poche ore le iscrizioni sono state migliaia e in questo momento stanno sfiorando quota 13 mila. E' stata anche sottoscritta una Carta nella quale sono elencati i valori dell'antifascismo e soprattutto viene illustrata e lanciata una nuova visione dell'antifascismo includente con alla base il concesso dell'essere per e non essere contro. L'iniziativa del comune di Stazzema è anche "una risposta a quanto sta accadendo intorno a noi, per non restare indifferenti - si legge in una nota - perché si riaffacciano simboli, parole, atteggiamenti, gesti ed ideologie che dovrebbero appartenere al passato e si fanno largo sentimenti generalizzati di sfiducia, insofferenza, rabbia, che si traducono in atteggiamenti e azioni di intolleranza, discriminazione, violenza verbale".  Secondo il sindaco di Stazzema, Maurizio Verona, "sottoscrivere la Carta ed aderire all'Anagrafe significa prendersi un impegno per la democrazia e a sostegno dei valori della nostra Costituzione".

L'ultima trovata dei partigiani moderni: l'anagrafe antifascista. A Stazzema il sindaco vara il "registro" per chi rigetta nostalgie del passato: è polemica, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 27/12/2017, su "Il Giornale". Di antifascista, a Stazzema, c'è Stazzema. Chi visita Sant'Anna e il Parco della Pace ci va per non dimenticare quella strage nazifascista, l'eccidio di 560 persone avvenuto il 12 agosto del 1944, una pagina infame della nostra storia, sporca del sangue di uomini, donne e bambini innocenti. Ora, però, per iniziativa del sindaco del comune toscano, Maurizio Verona, Stazzema varerà un'«anagrafe antifascista». Una sorta di comune virtuale al quale potrà iscriversi chi condivide i principi elencati in una carta, al momento ancora in via di redazione. Oltre la costituzione, oltre gli statuti comunali, oltre la stessa accettazione delle regole democratiche su cui è fondata la nostra Repubblica. Ce n'è bisogno? Secondo il primo cittadino sì: l'anagrafe antifascista è una risposta ai casi di «ritorno in auge di simboli e ideologie che dovrebbero appartenere al passato». E l'iniziativa, giura, «non vuole escludere qualcuno» ma unire, e «difendere le minoranze». Peccato che l'iniziativa sia fatta anche per escludere, visto che le associazioni che vorranno manifestare sul territorio del comune, dopo il varo dell'Anagrafe antifascista, dovranno dimostrare di essersi iscritte oppure nisba. Che fa un po' a pugni con lo scopo dichiarato, «impegnarsi per la libertà di tutti di esprimere il proprio pensiero». Insomma, lo scontro sulle nostalgie vere o presunte, sui «rigurgiti fascisti», sulla guerra ai simboli del Ventennio, passata dalle parole della Boldrini contro i monumenti alla legge Fiano, fino ai blitz dei naziskin comaschi e alle bandiere del Secondo Reich fotografate in caserma a Firenze non accenna a placarsi. E purtroppo un luogo della memoria diventa l'occasione per rilanciare una polemica che divide. E che non nasce certo nel piccolo comune in provincia di Lucca. Già la scorsa settimana, infatti, Firenze aveva per esempio approvato il «patentino antifascista». E modificato il proprio statuto per rimarcare che «il Comune opera contrastando l'ideologia nazifascista», come se non bastasse, appunto, la Costituzione. Un patentino che dividerà «buoni» da «cattivi», perché, stando a un emendamento approvato, «chiunque intenderà organizzare un'iniziativa su area pubblica dovrà farlo nel rispetto dei principi dello statuto e della Costituzione impegnandosi con una dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall'ordinamento repubblicano». Prima di Stazzema, oltre a Firenze iniziative simili sono state adottate da diverse città, toscane (Siena, Pisa, Prato) e non solo (Bologna, Cuneo, Pavia). Ma la patente per bocciare i pensieri cattivi suona illiberale per molti. Come i consiglieri toscani di opposizione, con Fi e Fdi che definiscono «inutile se non illegittima» l'iniziativa, perché «niente cambia rispetto a quanto prevede la legge italiana sulla libertà di parola». Così, sul caso Stazzema, paradossalmente i primi a evocare la Costituzione non sono i «cittadini antifa doc» che sogna il sindaco, ma i cattivoni di Casapound Versilia. Che ricordano al sindaco come «vietare ed emarginare chi non la pensa come lei va contro i principi della Costituzione. Proprio quella che lei sventola in nome dell'antifascismo ma, che forse, non ha letto e compreso veramente».

La caccia al fascista comincia all'anagrafe: "Sono ben 276 i milanesi di nome Benito". Lombardia Progressista spulcia gli elenchi elettorali: "Risultato inquietante", scrive Luca Fazzo, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". C'è chi vuole demolire i monumenti costruiti nel Ventennio, c'è chi propone di cambiare i nomi alle strade intitolate agli uomini del Regime. E chi si spinge ancora più in là, utilizzando gli elenchi elettorali per lanciare un nuovo allarme sulla recrudescenza fascista: c'è in giro troppa gente che si chiama Benito. Pazienza se in spagnolo Benito vuol dire Benedetto, se un martire con questo nome si festeggia il 23 agosto; e pazienza, sul versante opposto, se a rendere popolare nell'Ottocento il nome fu la luminosa figura di Benito Juarez. Niente da fare. Di Benito per gli indignati dell'anagrafe ce n'è stato uno solo, Mussolini. E che centinaia di milanesi (e verosimilmente qualche migliaio di italiani) si ostinino a chiamarsi come il Duce, senza sentire il dovere civico di correre a farsi sbattezzare, diventa un segno del persistere nel paese di sentimenti antidemocratici. A prendersi la briga di andare a spulciare gli elenchi elettorali di Milano alla ricerca degli omonimi del maestro di Predappio è stato uno dei sostenitori della lista «Lombardia Progressista», l'ala gauchiste dello schieramento che sostiene la candidatura di Giorgio Gori alle prossime elezioni regionali. Come gli sia venuto il ghiribizzo, il fan di Gori non lo spiega. Ma ieri ha pubblicato su Facebook i risultati della sua ricerca, sotto il simbolo della sua lista. «Ho avuto modo di consultare - scrive - l'elenco degli elettori di Milano e ho cercato quelli che avevano Benito" nel nome proprio. Questo è l'inquietante risultato». E via, con l'elenco dettagliato: fortunatamente senza cognomi. Si scopre così che il 4 marzo saranno chiamati alle urne ben 276 milanesi che al momento della nascita sono stati battezzati semplicemente Benito: e va a sapere se per omaggio al Duce, a Juarez, a san Benito o a cos'altro. C'è poi la sfilza dettagliata di quelli che portano Benito insieme ad altri nomi. In alcuni, la scelta ideologica appare difficilmente contestabile: cinque elettori sono stati battezzati Benito Adolfo, e ad uno - perché non ci fossero dubbi - il babbo ha dato come secondo nome Mussolini. Riconducibili alla figura del Duce sono forse anche i due Benito Arnaldo (Arnaldo era il fratello minore del leader) e magari anche i tre Benito Romano. Ma ad affollare la classifica sono una quantità di incolpevoli cittadini, che portano l'odioso marchio solo come secondo, terzo o addirittura quarto nome (esiste un Francesco Gabriele Ferdinando Benito Romano): magari era il nome del nonno. E chi lo porta insieme ad altri protagonisti della storia patria, come il signor Valeriano Benito Nazario Sauro. Ma tutto fa brodo per lanciare la nuova allerta: i fascisti sono tra noi. E si chiamano Benito.

Renzi disperato: va in pellegrinaggio a Stazzema e si iscrive all’anagrafe antifascista, scrive Ezio Miles giovedì 15 febbraio 2018 "Il Secolo D’Italia”. Fino a poco tempo fa, passava per leader “post-ideologico”, per uno cioè che s’era messo alle spalle le mitologie forti del Novecento. Ora però, nel momento più delicato della sua carriera politica, l’ex aspirante statista Matteo Renzi, cambia passo e cambia volto: la svolta antifascista della sinistra ha contagiato anche lui. Con buona pace di qualche suo ingenuo ammiratore di “destra”, il Renzi ammaccato ma sempre ruspante s’è recato in pellegrinaggio oggi a Stazzema dove ha concionato la folla sul valori resistenziali e ha aderito solennemente all' “anagrafe antifascista” ivi concepita e lanciata tra le fanfare mediatiche di mezza Italia. “Post-ideologia” addio? Diciamo che Renzi non vuole lasciare scoperto il fianco sinistro del Pd e punta a riprendersi la scena, che in questi giorni, dopo i fatti di Macerata, gli è stata rubata dagli antifascistissimi Grasso e Boldrini. Ma vediamo che ha detto Renzi a Stazzema: «Noi abbiamo fiducia nelle nostre istituzioni: non siamo qui perchè temiamo che domani torni la dittatura fascista. Non esiste questo rischio. Siamo qui, a ottanta anni dalle leggi razziali, per ricordare che il nostro Paese non è stato innocente ma ha avuto grandi responsabilità».  E poi ha aggiunto contrito: «Abbiamo il dovere della memoria: è fondativa per il futuro. Solo tenendo viva l’attenzione verso l’ideale democratico noi possiamo costruire una prospettiva. Il fascismo appartiene al passato ma sono ideologie che vanno combattute». Di qui il fatidico annuncio: «L’antifascismo è un valore che appartiene a tutti e oggi siamo qua per aderire all’anagrafe di coloro che dicono no al nazifascismo: è il male assoluto».  Ma, insomma, il fascismo può “tornare” o no? E, se no, perché evocarne continuamente la “minacciosa” presenza? Renzi non chiarisce il dubbio. Non gli conviene. Un manciata di voti in più val bene un’incoerenza. Ma è proprio sicuro, Renzi, che l’antifascismo sia oggi un tema elettoralmente efficace?

Sinistra, imbecillità senza limiti: istituita l'anagrafe antifascista. Lampi del pensiero di Diego Fusaro: hanno istituito l'Anagrafe antifascista. Imbecillità senza limiti. Scrive Diego Fusaro Venerdì, 16 febbraio 2018, su Affari Italiani. Hanno istituito l'Anagrafe antifascista. Imbecillità senza limiti. L’ho detto e lo ridico. Il benemerito ed eroico antifascismo di Gramsci era patriottico, anticapitalista e in presenza reale di fascismo. L’antifascismo patetico e vile odierno delle sinistre è globalista, ultracapitalista e in assenza totale di fascismo.

Aderite all'anagrafe anticomunista. Ecco la nostra risposta alla farsa antifascista, scrive Marcello Veneziani il 15 Febbraio 2018 su "Il Tempo". Italiani, aderite compatti all'anagrafe nazionale anticomunista. Diventate cittadini onorari di Fiume e di Porzus, dell'Istria e della Dalmazia, del Triangolo rosso dell'Emilia e di mille altri luoghi in cui il comunismo ha lasciato vittime. Diventate cittadini onorari dei tanti luoghi in cui le Brigate rosse e le altre formazioni terroristiche hanno ucciso borghesi e proletari, ragazzi e militanti di destra, magistrati e politici, giornalisti, professori e casalinghe nel nome del comunismo. E mi limito all'Italia perché se dovessimo prendere la cittadinanza onoraria di tutti i luoghi della terra in cui il comunismo ha calpestato la vita, i popoli, la libertà e la dignità umana, allora dovremmo diventare cittadini di mezzo mondo, di tre continenti e di non so quanti Paesi oppressi dalla bandiera rossa. L'iniziativa de Il Tempo di indire l'anagrafe nazionale anticomunista è una risposta in rima a Renzi e a tutta la processione antifascista che in pieno 2018, anzi in pieno carnevale elettorale, ha deciso questa grande festa in maschera: l'anagrafe nazionale antifascista, dove tutta la sinistra fa a gara a mostrare il suo volto eroico di sfidare un regime che è morto da più di settant'anni. “Vile, tu uccidi un uomo morto”, diceva Ferrucci a Maramaldo; una tragedia storica che poi mutò in farsa, nel teatrino dei Pupi. Esattamente come sta accadendo con l'antifascismo riesumato al tempo di Pinocchietto Renzi. L'antifascismo ai tempi del fascismo fu una cosa seria, coraggiosa, rispettabile. L'antifascismo 80 anni dopo il fascismo, è un caso patologico di psicosi indotta, è vilipendio di cadavere, è sfruttamento di morti per mantenere il potere... E' ridicolo e patetico che il rottamatore dei padri sia diventato poi il restauratore dei nonni; e abbia liquidato la vecchia sinistra per attaccarsi al vecchissimo antifascismo formato Anpi. O partigiano, portali via...

Perché invece un'anagrafe nazionale anticomunista? Perché il comunismo è il regime totalitario che ha mietuto più vittime di tutti i tempi, in più paesi e in tempi diversi, e con due particolarità efferate: ha ucciso di più in tempo di pace che in tempo di guerra e ha fatto strage soprattutto di connazionali. E ancora. Perché è il regime totalitario che ha retto sul terrore poliziesco e sulla cancellazione di ogni realtà al di fuori del comunismo: nessuno spazio per la religione, per il capitale, per la proprietà privata, per le tradizioni nazionali che restavano in piedi perfino sotto il nazismo. Perché il comunismo è il regime totalitario più vicino al nostro tempo, rimosso pochi anni fa in Unione Sovietica ma ancora imperante nel paese più popoloso del mondo, la Cina. Perché l'ultimo dittatore che è morto non è Mussolini o Hitler, e nemmeno Franco o Pinochet, ma il comunista Fidel Castro. Perché il comunismo è stato una tragedia ovunque abbia governato, senza eccezioni, a dimostrazione che il difetto non era nel singolo regime o dittatore, Stalin, Mao o PolPot, ma nel manico, cioè nel dna del comunismo stesso, nella sua teoria prima ancora che nella sua prassi.

Iscrivetevi all'anagrafe nazionale anticomunista anche per celebrare lo scampato pericolo: quest'anno è il settantesimo anniversario del '48, l'anno in cui l'Italia evitò di diventare una Repubblica Comunista Sovietica con la vittoria del Fronte popolare degli staliniani di casa nostra. Fatelo da patrioti e da europei, da cattolici e da ebrei, da borghesi e da contadini, da missini e da democristiani, da liberali e da socialdemocratici, da monarchici e perfino da anarchici (che furono vittime del comunismo più di ogni altro regime, dalla Spagna alla Russia). Ricordate pure a tutte le femministe che celebrano il voto delle donne, che alle prime elezioni politiche le donne furono determinanti per battere il comunismo e far vincere lo scudo crociato, la libertà, l'Occidente (lo dice uno che non è né democristiano né filoamericano).

Se leggete il testo che sottoscrivono per assumere la cittadinanza antifascista, vi accorgerete che mutando le parole antifasciste in parole anticomuniste, il discorso fila perfino meglio. Tra i vari demeriti che ha questa iniziativa della sinistra italiana per campare sull'antifascismo al tempo delle elezioni (lo ripeto, l'antifascismo è l'ultimo rifugio dei farabutti) ce n'è uno che mi preme ricordare: costringe tutti a una regressione stupida e grottesca al passato più truce. Costringe gente come me a dissotterrare il comunismo; ero uno che non si definiva più anticomunista da una vita - perché si è anti qualcosa in presenza del qualcosa, non in assenza o in memoria – uno che amava dialogare con tutti, comunisti inclusi, uno che distingueva tra l'errore da condannare e gli erranti con cui dialogare, uno che aveva stima e considerazione di gente che si è professata comunista, perché l'ideologia e il giudizio storico-politico non deve mai offuscare la verità dei fatti, il riconoscimento dei meriti, e il rispetto delle persone. E invece, grazie alle comiche finali di questi antifascisti ai saldi, a caccia dell'ultimo voto tramite l'ultimo veto, siamo costretti a tirar fuori dalle soffitte gli arsenali antiquati dell'anticomunismo, le vignette di Guareschi sui trinariciuti, Dio che ti vede nell'urna e l'Anpi no, le Madonne piangenti e i morti ammazzati, e tutto il vintage, il reliquiario del passato. Il comunismo non passerà, zazà.

Firenze, Salvini: “L’anagrafe antifascista di Sant’Anna di Stazzema? C’è quella canina”. Lo ha detto il segretario della Lega parlando dell'iniziativa lanciata per festeggiare i 70 anni della Costituzione da Maurizio Verona, sindaco della cittadina toscana teatro dell'eccidio operato dai nazifascisti il 12 agosto 1944, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 7 febbraio 2018. L’anagrafe antifascista di Sant’Anna di Stazzema? Matteo Salvini la mette sullo stesso piano di quella canina. “Cosa penso dell’anagrafe antifascista di Stazzema? Vabbè, l’anagrafe io la lascerei per l’anagrafe canina”, ha detto il segretario della Lega a Firenze, a margine di una iniziativa elettorale all’auditorium in via de’ Cerretani, parlando dell’iniziativa lanciata per festeggiare i 70 anni della Costituzione da Maurizio Verona, sindaco della cittadina toscana teatro dell’eccidio operato dai nazifascisti il 12 agosto 1944. “Sono contro i regimi, sono pacifico, nonviolento. Rossi e neri hanno creato abbastanza disastri, sono stati condannati dalla storia”, ha tenuto a specificare il leader della seconda forza politica di una eventuale coalizione di centrodestra. “A me fanno ridere e sorridere – ha aggiunto Salvini – quelli che parlano di un pericolo di ritorno fascista. Non torneranno né il fascismo né il comunismo. Io voglio vivere in base alle regole: purtroppo in Italia c’è qualche fenomeno di sinistra che pensa che chiedere regole, limiti, rispetto, doveri oltre che diritti, sia fascista. Penso che sia semplicemente buon senso da padre di famiglia”. Ai giornalisti che gli chiedevano se si definisse antifascista, oltre che anticomunista, il segretario della Lega ha risposto dicendo di essere “contro tutti i tipi di regimi, rossi, verdi, gialli, bianchi… io sono per la libertà di pensiero e di parola”.

La cogestione del Manzoni? Lezioni di guerriglia e ius soli. Nel programma condiviso tra dirigente, prof e alunni Interventi di candidati Pd, Anpi e dei centri sociali, scrive Marta Bravi, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". È finito oggi il programma di cogestione al liceo civico Manzoni. Una settimana di lezioni «che tanto hanno il sapore di campagna elettorale mista a lavaggio del cervello». Il calendario - a frequenza obbligatoria - è stato concordato a livello di consiglio di istituto quindi tra docenti, rappresentanti degli studenti, dei genitori e dirigente scolastico, ma «ai genitori il programma è arrivato già confezionato solo qualche giorno prima». «Un programma molto politicizzato e di parte», denuncia Francesco Giani, responsabile del Movimento studentesco per la Lega a Milano. «Si tratta di un evidente indottrinamento politico, l'ennesima dopo la teoria gender nelle scuole. Ciò che fa più specie è che i convegni siano organizzati in cogestione, con responsabilità del dirigente scolastico e del consiglio di istituto» attacca Samuele Piscina presidente del Municipio 2 (Lega). Scorrendo l'articolato programma, ricco di ospiti come la parlamentare Pd e candidata alle politiche Lia Quartapelle, l'europarlamentare sempre Pd Brando Benifei. Ma c'è anche la «Guida alle elezioni politiche con esponenti dei partiti interessati», guarda caso Pietro Bussolati capolista alla Regionali per il Pd e Eugenio Casalino, candidato per il Movimento 5 Stelle. Ancora terrà una lezione Pape Kouma, tra i promotori dello «ius soli», mentre Roberto Cenati, presidente Anpi provinciale e Giuseppe Natale presidente Anpi Crescenzago parleranno di neofascismi. In calendario anche interventi di Arcigay e sul femminismo, testimonianze dall'Argentina e dal Venezuela di ieri e di oggi, della figlia di Pinelli e in difesa di Carlo Giuliani. Si alternano incontri sulla interruzione volontaria di gravidanza e sul testamento biologico. Come se non bastasse ecco una lezione sulla guerriglia urbana tenuta da Pietro Bolzoni, che si definisce «elemento di disturbo del centro sociale Lambretta» dal titolo «Un corso per imparare le dinamiche da chi di manifestazioni se ne intende». «Nulla vieta che gli studenti scelgano dei temi da affrontare durante la cogestione ma c'è da chiedersi chi abbia pilotato interlocutori e argomenti» polemizza il consigliere comunale della Lega Max Bastoni. «Ormai nei licei l'indottrinamento è sempre più preoccupante e patetico» commenta Silvia Sardone, consigliere di Forza Italia. Difende le scelte il dirigente Giuseppe Polissena: «Quando gli studenti mi hanno parlato dell'esigenza di fare un approfondimento sulle elezioni, mi sono raccomandato che chiamassero esponenti di tutti gli schieramenti e così hanno fatto. Poi qualcuno non è venuto. Noi garantiamo nella scuola il pluralismo, la libertà di discussione e l'assoluta esclusione di ogni forma di violenza. Le scelte le hanno fatte gli studenti, noi abbiamo controllato». «Il livello dei corsi di approfondimento proposti, i cui contenuti sono tra i più variegati, è stato molto alto» per l'assessore all'Educazione Anna Scavuzzo -. Il Liceo Civico Manzoni è sempre stata scuola di eccellenza, palestra di libertà, aperta a tutte le idee e le prospettive, e vuole continuare a esserlo».

Ci risiamo con i "compagni che sbagliano". Entrambi i casi sono la prova che il moralismo è sempre merce avariata, quello che conta è solo la moralità dei singoli uomini, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 15/02/2018, su "Il Giornale". Che cosa lega lo scandalo delle molestie sessuali su donne disperate da parte dei volontari delle organizzazioni umanitarie a quello dei rimborsi grillini? Apparentemente nulla, ma non è così. Entrambi i casi sono la prova che il moralismo è sempre merce avariata, quello che conta è solo la moralità dei singoli uomini. Ci hanno fatto credere che i volontari - soprattutto se terzomondisti - e i grillini sono santi per definizione, quasi per legge, e chi invece non condivide le loro tesi, dei poco di buono. Dividere gli uomini per come la pensano e non per quello che sono è razzista più che dividerli per il colore della pelle. E noi di destra, in questo senso, siamo alla stregua dei perseguitati. Che differenza c'è tra il fascista di Macerata (pazzo) che spara agli immigrati e il comunista di Piacenza che attenta alla vita dei carabinieri? Perché quelli di CasaPound, ma anche la stessa Meloni, per alcuni sindaci di sinistra non possono sfilare o fare comizi in campagna elettorale mentre a Toni Negri, ideologo pregiudicato delle Brigate rosse e dei suoi assassini vengono spalancate le porte delle università per tenere lezioni ai nostri ragazzi? Nei grillini, nelle organizzazioni umanitarie e nella sinistra c'è del marcio esattamente come in qualsiasi altro ambito. Ed è un marcio più pericoloso perché negato, mascherato, minimizzato dai mondi di appartenenza e purtroppo spesso anche dal sistema mediatico. C'è voluto l'avvento di Trump per rompere il muro di omertà che proteggeva l'immoralità e la violenza privata del magico mondo di Hollywood che per anni ha sostenuto i Clinton e la sinistra americana (altro che le cene eleganti e innocenti - di Arcore portate proprio da loro a simbolo dell'inferiorità etica della destra). Questo giornale è nato per dare almeno una voce a chi non voleva sottomettersi alla falsa e pericolosa verità di Toni Negri. Nel nostro piccolo, anni dopo, continuiamo a farlo non accettando lezioni, tanto più di morale ed etica, da grillini e terzomondisti che, come dimostrano i fatti di questi giorni, urlano a «ladri», «fascisti» e «razzisti» solo per poter rubare e menare loro in santa pace o fare orge, con i soldi delle nostre donazioni, insieme alle donne di colore che dovrebbero salvare e redimere. E non crediamo alla favola dei «compagni che sbagliano», usata ieri dai comunisti e oggi da Di Maio per non ammettere di essere ciò che erano e sono: incubatori di terroristi i primi, e di ladroni i secondi.

Sesso coi fascisti, la Strada insiste: "Rifarei quella battuta". La figlia del fondatore di Emergency non ritratta la battuta sui rapporti fra fascisti e antifascisti e anzi rincara la dose, scrive Ivan Francese, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". Si aggiunge un altro capitolo alla polemica - che per la verità sta diventando anche un po' stucchevole - fra Cecilia Strada, Ignazio La Russa e Vittorio Sgarbi sull'opportunità o meno di fare sesso fra fascisti e antifascisti. Cinque giorni dopo aver condiviso sul proprio profilo Facebook un post in cui invitava a non fare sesso con i fascisti, la figlia del fondatore di Emergency rincara la dose. Intervistata a Circo Massimo su Radio Capital denuncia di essere stata attaccata e minacciata da estremisti di destra ma non per questo rinuncia ad affermare che quel post lo ripubblicherebbe eccome: "Mi dicono che il clima è teso e non è il caso di fare battute, ma rinunciare a fare battute su un'ideologia come quella fascista, già condannata dalla storia, sarebbe autocensura. Quindi lo ripubblicherei". Nel frattempo ci sono state le risposte al vetriolo di La Russa, che ha invitato le persone di destra a "farlo anche con le comuniste", e di Vittorio Sgarbi, che invece ha sostenuto che l'ex presidente di Emergency "non si deve preoccupare perché non corre pericolo". Due messaggi diversi che hanno ottenuto reazioni diverse nella destinataria. La Strada ritiene infatti che mentre il secondo sia "privo di senso dell'umorismo, una risposta sul livello di 'sei cessa'", il primo è stato "più ironico, sullo stesso tenore, sullo stesso registro". Ad ogni modo, però, respinge al mittente le accuse di essere razzista verso i fascisti: "Il razzismo si esplicita in ragione delle qualità ascritte dell'individuo, quelle con cui nasci, e non delle acquisite. Essere fascisti è evidentemente qualcosa che si sceglie di fare, per cui non è razzismo criticare l'ideologia fascista".

La politica resti fuori dal letto. Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency, ha dichiarato: "Non fate sesso con i fascisti, non fateli riprodurre". Non avevo mai pensato a un erotismo ideologico o antifascista, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 15/02/2018, su "Il Giornale". Cecilia Strada, la figlia del fondatore di Emergency, ha dichiarato: «Non fate sesso con i fascisti, non fateli riprodurre, anche solo per non dare loro una gioia». Non avevo mai pensato a un erotismo ideologico o antifascista. Il piacere è liberazione degli istinti, anche contraddittori, non elaborazione razionale e tantomeno programmatica. Lo sfogo non è della Strada, in verità, ma è la trascrizione di una scritta murale. Appena fatto proprio da lei, il pensiero ha raccolto su Facebook centinaia di commenti, tutti negativi e non solo per contrasto politico: «È la testimonianza di quanto la miseria umana può annidarsi in un essere spregevole e pieno di odio verso il prossimo». Ovvero: «Come se qualcuno avesse il coraggio perverso di avvicinarla». O ancora: «Non sono fascista, ma se costei dovesse mai provarci, posso sempre dichiararmi tale...». Da quello che si capisce, la figlia di Gino Strada può stare tranquilla. Non troverà fascista che voglia fare sesso con lei e tantomeno riprodursi in lei; o che vorrà darle una gioia, proponendosi. Bisogna riconoscere che il sesso è un'altra cosa e non ha orientamento politico. Per questo temo che la Strada faticherà a trovare anche comunisti disposti a fare l'amore con lei. Diciamo che la questione non è politica e la finirei qui. O Michele Serra, che ancora non ha commentato, è pronto a offrirsi?

Signori benpensanti (come diceva lui) lasciate stare De André…, scrive Piero Sansonetti il 15 Febbraio 2018, su "Il Dubbio".  Un artista anarchico può piacere a Salvini e Saviano? Ha avuto un gran successo di pubblico il film su Fabrizio De André mandato in onda ieri e l’altro ieri sera sul primo canale della Tv. Perfino un tipo come Matteo Salvini, sempre polemico, stavolta ha fatto i complimenti alla Rai: ha detto che Faber (che è il soprannome che aveva De André) è un mito. Ha avuto successo il film o ha avuto successo De André? Cioè: ha avuto successo l’immagine di quel personaggio anarchico e romantico, bello, ribelle, e che cantava con una voce molto suggestiva canzoni fantastiche e originali? Oppure ha avuto successo il messaggio che De André ci ha lasciato dopo circa 40 anni sulla scena? La reazione di Salvini fa pensare alla prima ipotesi. A Salvini piace De André per la sua carica di protesta. Per la potenza poetica del suo messaggio antisistema. E la mia impressione è che sia questo l’aspetto di De André che ha ottenuto l’applauso universale. Ma nessuno, forse, ha voglia di fare i conti con il De André vero. Cioè con il grande intellettuale genovese, anarchico e libertario, provocatore purissimo, che era contro l’autorità costituita, contro la legalità borghese, che si schierava con i reietti, con gli ultimi, con gli emarginati, con gli assassini, con le puttane. Il pensiero e il sentimento di De André sono talmente lontani dal sentire comune che oggi costituisce il nocciolo duro dello spirito pubblico, da essere considerati una specie di metafora, una forzatura letteraria. Non un’idea reale. Oggi sembrano incompatibili con la realtà, e quindi accettabili solo in quanto fantastici. Invece De André aveva una idea vera, concreta di società: ed era coerente. La sua idea era irricevibile dal senso comune di oggi. Colpisce il fatto che il leader di uno schieramento che usa slogan come quelli che Salvini usa per chiedere l’espulsione dei migranti, l’ergastolo per i malfattori, la fucilazione per i ladri di appartamento (“se entrano in casa, devono uscire coi piedi davanti… se li metti in carcere devi buttare la chiave… ”), colpisce che poi esalti la figura e le canzoni di De André. E del resto colpisce anche come De André venga santificato da buona parte della sinistra ultra legalitaria e girotondina, quella del Fatto quotidiano, di Saviano, di Fazio, ma non solo, e poi dai 5 Stelle e da ampi settori ultra giustizialisti della sinistra radicale.

Qualunque sia il giudizio su De André, una cosa è certa, e cioè che aveva due bersagli, due idiosincrasie: la legalità e i giudici. Faber identificava il potere proprio lì: nella legalità e nella magistratura. Una delle sue canzoni più belle – anche se non la scrisse lui ma il suo maestro francese Georges Brassens – è quella che racconta in modo un po’ scurrile la storia di un gorilla che sodomizza un giudice. Il giudice è preso come simbolo di tutte le miserie, gli egoismi e l’idiozia umana. Trascrivo gli esilaranti (e amari) versi finali di quella canzone: “… piangeva il giudice come un vitello / e negli intervalli gridava mamma / gridava mamma come quel tale / che il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po’ originale / aveva fatto tirare il collo…”. De Andrè era anti-legalitario, anticonformista e libertario. Ha scritto canzoni contro la legge, contro la violenza (ma anche per la violenza) contro i sindacati (specialmente la Cgil), contro il Pci, contro la borghesia, contro il maschilismo, contro la polizia, contro la sessuofobia, ha difeso il movimento del ‘77, gli anarchici, e persino la lotta armata. È assolutamente inutilizzabile da un punto di vista legalitario e tantopiù da un punto di vista leghista.Il suo disco che ho amato di più è “Storia di un impiegato”. Lo ho amato più di tutti gli altri sui dischi anche se molti musicologi pensano, al contrario, che sia la sua opera meno riuscita. È un’opera del 1973, durissima, quasi violenta. Un racconto. Parte dal maggio francese (la rivolta degli studenti nel 1968) e finisce con un inno alla rivolta dei detenuti.

Trascrivo solo pochissimi versi della canzone finale: «tante le grinte, le ghigne, i musi, / vagli a spiegare che è primavera /e poi lo sanno ma preferiscono / vederla togliere a chi va in galera. Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire /che non ci sono poteri buoni. /E adesso imparo un sacco di cose / in mezzo agli altri vestiti uguali / tranne qual è il crimine giusto /per non passare da criminali. / Ci hanno insegnato la meraviglia / verso la gente che ruba il pane / ora sappiamo che è un delitto / il non rubare quando si ha fame. Voi ve lo immaginate Salvini che a un comizio della Lega canticchia questa canzone? Ma non solo Salvini: Travaglio, o Grillo, o Bersani, o Grasso, o Rosy Bindi…Forse il capolavoro di De André, la sua provocazione più estrema, è stata la canzone don Raffaè, dedicata a Raffaele Cutolo, il capo della camorra. Cutolo è in prigione dagli anni sessanta. Credo che abbia battuto tutti i record nella lunghezza della detenzione. Negli anni ottanta era considerato un boss più o meno del rango di Riina e Provenzano. Don Raffaé è un brano del 1990. Ogni tanto provo a pensare cosa succederebbe oggi a un cantante che volesse dedicare una canzone, non dico a Riina, ma a un qualunque povero cristo che sta in prigione, magari ingiustamente, come per esempio Dell’Utri. Lo farebbero a fette. Datemi retta: lasciate stare De André. Era unico. Lasciatelo stare, “signori benpensanti”, come diceva lui. Non è roba per voi. Faber ha diritto a un po’ di rispetto, no?

Matteo Salvini, per Marco Travaglio sta con il folle che ha sparato a Macerata, scrive "Libero Quotidiano" il 4 Febbraio 2018. Non basta la netta condanna del gesto di Luca Traini, l'uomo che ha aperto il fuoco contro gli immigrati a Macerata. Non basta a Laura Boldrini ma neppure a Marco Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano, in prima pagina, si cimenta in un titolo vergognoso sulla vicenda. Nel mirino c'è Matteo Salvini. Dunque, il titolo: "Fascio-leghista spara sui migranti: Salvini e Forza Nuova con lui". Insomma, secondo il Fatto di Travaglio il leader del Carroccio starebbe con Luca Trani. Una totale falsità. Discorso differente per Forza Nuova che è apertamente scesa in campo al fianco dello squilibrato affermando di volerne pagare le spese legali.

Matteo Salvini, per Marco Travaglio sta con il folle che ha sparato a Macerata, scrive "Libero Quotidiano" il 4 Febbraio 2018. Non basta la netta condanna del gesto di Luca Traini, l'uomo che ha aperto il fuoco contro gli immigrati a Macerata. Non basta a Laura Boldrini ma neppure a Marco Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano, in prima pagina, si cimenta in un titolo vergognoso sulla vicenda. Nel mirino c'è Matteo Salvini. Dunque, il titolo: "Fascio-leghista spara sui migranti: Salvini e Forza Nuova con lui". Insomma, secondo il Fatto di Travaglio il leader del Carroccio starebbe con Luca Trani. Una totale falsità. Discorso differente per Forza Nuova che è apertamente scesa in campo al fianco dello squilibrato affermando di volerne pagare le spese legali.

Il razzista e gli sciacalli. Raid a Macerata: un folle spara, ferisce 6 stranieri e grida «Viva l'Italia» Era candidato per la Lega. E la sinistra attacca: «Salvini è il mandante» L'omicidio di Pamela ultima scintilla. L'Italia rischia il collasso sociale, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 04/02/2018, su "Il Giornale". Tanto tuonò che piovve. Una tempesta si è abbattuta ieri sulla campagna elettorale seminando lo scompiglio. Un segno profondo che ha la faccia poco rassicurante di un ragazzo di Macerata che ieri ha scorrazzato in auto per la città sparando a tutti gli immigrati che gli si presentavano a tiro. Si chiama Luca Traini, ha 28 anni, è in cura psichiatrica. Quando lo hanno fermato aveva già ferito sei persone. Non ha opposto resistenza, si è avvolto le spalle con un tricolore e ha fatto il saluto romano davanti a un monumento dei caduti. Questa è una storia di follia mixata a odio e violenza, dello sfregio alla nostra bandiera che mai potrà sventolare come paravento di un assassino, per di più razzista. Ma in questa storia tragica c'è di più, cioè non aver voluto ascoltare i tuoni che da anni rimbombano nelle nostre città esasperate da una criminalità d'importazione impunita e che negli ultimi giorni scuotevano proprio l'aria di Macerata. Città nella quale un immigrato nigeriano, pregiudicato e spacciatore - da tempo doveva essere espulso - ha prima ucciso e tagliato a pezzi una giovane, Pamela, poi occultato i resti dentro due valigie. Un pazzo italiano che si vendica di un pazzo clandestino nigeriano. Parlare del primo più che del secondo è pericoloso, soddisfa le esigenze elettorali della Boldrini ma non porta alla soluzione del problema. Se, come le sinistre sostengono in queste ore (io non ci credo) Luca Traini è la prova che stiamo diventando un Paese razzista, allora gli stessi devono ammettere che il nigeriano di Macerata che ha fatto a pezzi Pamela è la prova che l'immigrazione, così come la politica e la magistratura l'hanno permessa e gestita, è un fenomeno criminale da combattere e stroncare. Luca Traini passerà giustamente tanti anni in carcere, e la società non ne sentirà la mancanza. Ma proprio per questo pretendiamo che altrettanto rigore a norma di legge venga messo in atto con chiunque si trovi sul suolo nazionale. E il nigeriano assassino di Pamela non avrebbe dovuto trovarsi a Macerata, ma in galera o a casa sua. Il fatto che ciò non sia avvenuto non giustifica nulla, tanto meno un raid razzista. Ma adesso basta giocare col fuoco, perché - matti o non matti - era evidente che prima o poi ci si sarebbe scottati. E ai piromani bisogna togliere il combustibile, altrimenti rischiamo l'incendio.

Traini, il fascista perfetto, scrive Luigi Iannone il 4 febbraio su "Il Giornale". Luca Traini è il fascista perfetto. L’uomo che ha terrorizzato la città di Macerata, esplodendo colpi da un’auto in corsa verso tutte le persone di colore, nella stessa zona dove abitava quel nigeriano che ha seviziato la giovane Pamela per poi farla a pezzi e riporla in due valigie, è il fascista perfetto. È il fascista perfetto perché pare avesse alle spalle una candidatura alle comunali per la Lega di Salvini e dunque ha le stimmate per essere considerato tale. Quando poi è stato preso dalle forze dell’ordine, si è tolto il giubbotto, si è messo sulle spalle una bandiera italiana e ha ostentato il saluto romano dai gradini del monumento collocato nella piazza del paese. Cosa volete di più? Sì, Luca Traini è il fascista perfetto nella basica e fanciullesca suddivisione del mondo e degli uomini da parte delle Boldrine e dei Fiano. Fanciullesca ma non ingenua. Quale infatti migliore sintesi del male, della propaganda razzista, del nostalgismo imperante, della figura reale di uno che spara all’impazzata contro gli africani? Quale migliore simbologia per testimoniare la ‘bontà’ di quanto va dicendo il deputato Emanuele Fiano sui rigurgiti neofascisti? Quale liturgia sarebbe stata superiore e più accattivante per ridestare certa estetica? Quale miglior fantoccio da apporre nella cosmogonia democratico-progressista che sempre si fonda su fratture di tipo manicheo. Un bianco che spara ai neri, già candidato con la Lega e che, nel momento dell’arresto, si avvolge col tricolore e fa il saluto romano, è il compendio visivo di tutto quanto detto in questi ultimi mesi. È la chiusura del cerchio; la dimostrazione che punire apologia e propaganda è solo il minimo che si possa fare, la premessa per un impianto legislativo ancora tutto da costruire e quindi ai primordi. Da questo punto di vista (dal loro punto di vista) la questione è risolta. La tipologia del nero (il ‘fascista’, non il ‘nigeriano’) collima ampiamente con quella che frulla nella testa dei progressisti nostrani e fornisce prove che i problemi sociali siano alimentati da uno schieramento politico-culturale che artatamente alimenta la fiammella dell’intolleranza. Non esistono problematiche di tali dimensioni e pervasività sociale, oppure esistono ma in misura circoscritta, mentre sarebbero esclusiva colpa dei deliranti strepitii delle varie destre e il rivoltante livello demagogico ad alzare l’asticella. E perciò Luca Traini, oltre al fatto criminale in sé, all’idea folle e insulsa di punire una intera etnia, all’aver messo in pericolo la vita di decine di innocenti e aver spaventato a morte una intera comunità, ha completato l’opera con una liturgia simbolica che, nei prossimi giorni, diventerà solluchero per molti subdoli opinionisti i quali non vedevano l’ora di farci ripiombare al clima degli anni Settanta mediante la solita caccia alle streghe generalizzata. E allora, non più solo il fascista ipotetico o reale, ma il leghista, il destrista, il conservatore e anche tutti coloro che hanno una visione ed una idea dell’immigrazione molto lontana da quella ecumenica e fondata sull’accoglienza deregolamentata, saranno messi all’indice e intimati al silenzio. Pena l’accusa di istigazione al crimine. Nel nostro Paese, il dibattito sul fenomeno migratorio è penoso di per sé e si connota di schematismi a volte reali, quasi sempre invece pretestuosi e utili alla propaganda dell’una e dell’altra parte. Mai duramente articolato e complesso rispetto ad una realtà contemporanea che è, invece, complicata e satura di contraddizioni. Ora che si è però materializzato il fascista perfetto nella figura di questo Luca Traini, nelle menti dei progressisti nostrani scatterà la libido del trofeo da mostrare; il giocattolo da esibire ogni qual volta un interlocutore mostrerà con la dovuta asprezza le sue posizioni nette sul tema dell’immigrazione.

Macerata, la sinistra strumentalizza. Ma gli italiani sono davvero fascisti? Scrive Marcello Foa il 4 febbraio 2018 su "Il Giornale". Questa mattina ho partecipato alla puntata di Omnibus su La 7, condotta da Frediano Finucci, e dedicata ai fatti di Macerata. Puntata vivacissima durante la quale ho contestato le tesi di alcuni ospiti, in particolare dell’esponente della lista Più Europa della Bonino Piercamillo Falasca e dello scrittore Fulvio Abbate. In particolare disapprovo il tentativo di criminalizzare chiunque abbia delle riserve sull’immigrazione incontrollata, perché è questo discorso che sta emergendo a sinistra e sostenuto dalla narrativa di molti media, a dispetto del fatto che l’immigrazione sia considerata una minaccia dal 60% degli italiani, come emerso dai sondaggi spiegati in studio da Elena Melchioni. Lo scopo del mondo “progressista” è di cambiare il giudizio collettivo, facendo leva sul senso di colpa e lasciando intendere che il gesto di Luca Traini non sia quello di un disadattato squilibrato, come io ritengo, bensì il sintomo di un rinascente fascismo in Italia. In studio si sono sentite affermazioni come quelle secondo cui l’animo dell’80% degli italiani è fascista (parola di Abbate), che io ho contestato duramente: grazie al cielo dal 1945 l’animo degli italiani è profondamente democratico e la presenza di liste politiche così variegate lo dimostra. Catalogare come fascisti la stragrande maggioranza degli italiani è grave e inaccettabile. Falasca ha persino proposto l’equazione, presentandola come un dato di fatto, che chi è sovranista (e dunque è contro l’Unione europea e per l’uscita dall’euro) è razzista e fascista. Un’altra operazione, vergognosa, di manipolazione semantica.

Ho l’impressione che queste scomposte reazioni della sinistra ai fatti di Macerata finiranno per ritorcersi contro chi li promuove, per una ragione molto semplice. Tutti gli italiani di buon senso, e sono la quasi totalità, inorridiscono di fronte ai folli tentativi di vendetta di Traini, ma molti di loro – a mio giudizio la maggioranza – si ribella alle strumentalizzazioni di chi, in seguito a un singolo episodio, pretende di spalancare le porte dell’Italia ai migranti e, soprattutto, di mettere a tacere chi dice basta a un’immigrazione incontrollata. Più la sinistra darà voce ai Saviano, agli Abbate e ai Falasca e più Matteo Salvini guadagnerà consensi, anziché perderne. Ricordatevelo.

Nicola Porro: Macerata e gli Sciacalli contro Salvini, scrive il 3 febbraio 2018 Imola Oggi. Il delinquente di Macerata e i commenti di Saviano, Boldrini e Grasso che come prima cosa attaccano Salvini. Ecco perchè li metto allo stesso livello degli haters dei social network…“Quanto accaduto oggi a Macerata dimostra che incitare all’odio e sdoganare il fascismo, come fa Salvini, ha delle conseguenze: può provocare azioni violente e trasforma le nostre città in un far west seminando panico tra i cittadini. Basta odio, Salvini chieda scusa per tutto quello che sta accadendo”. Lo ha scritto la finta nemica dell’odio, Laura Boldrini, su Facebook. “Le notizie che arrivano da Macerata mi lasciano attonito e inorridito. Chi, come Salvini, strumentalizza fatti di cronaca e tragedie per scopi elettorali è tra i responsabili di questa spirale di odio e di violenza che dobbiamo fermare al più presto. Odio e violenza che oggi hanno rischiato di trasformarsi in una strage razziale”. Lo afferma l’altro finto nemico dell’odio, Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, su facebook. “Il nostro paese – prosegue – ha già conosciuto il fascismo e le sue leggi razziali. Non possiamo più voltarci dall’altra parte, non possiamo più minimizzare”. A poche ore dai fatti, Roberto Saviano scrive un post su Facebook in cui punta il dito contro Matteo Salvini: “ll mandante morale dei fatti di Macerata è Matteo Salvini. Lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta democratica. Chi oggi, soprattutto ai massimi livelli istituzionali, non se ne rende conto, sta ipotecando il nostro futuro”. Poco dopo lo scrittore partenopeo scrive un tweet, sempre in merito alla vicenda, rivolto però ai media: “Invito gli organi di informazione a definire i fatti di Macerata per quello che sono: un atto terroristico di matrice fascista. Ogni tentativo di edulcorare o rendere neutra la notizia è connivenza”.

Due miliardi per le espulsioni. Ma l'accoglienza ne costa dieci. In Italia 600mila clandestini, fra i 3 e i 4mila euro per ogni rimpatrio. In tre anni abbiamo speso cinque volte di più, scrive Antonella Aldrighetti, Giovedì 08/02/2018, su "Il Giornale". Il piano per il rimpatrio degli immigrati irregolari che il presidente Silvio Berlusconi vuole attuare per riportare nel paese d'origine i 600 mila stranieri, che non hanno diritto all'asilo e alla protezione internazionale e che costerebbe attorno ai 2 miliardi di euro, si dimostra addirittura a buon mercato rispetto a quanto l'Italia ha impegnato per l'accoglienza negli ultimi tre anni: ben 10 miliardi. Le risorse del piano rimpatri servirebbero essenzialmente a far funzionare il meccanismo a partire dall'abolizione dei permessi umanitari, alla velocizzazione delle pratiche burocratiche in capo alle prefetture fino a destinare, una piccola parte dei soldi impiegati oggi per l'accoglienza, ai percorsi di accompagnamento nella terra d'origine dei singoli stranieri. Vale a dire che se ne spenderebbero 2 a fronte di 10. Diversamente l'Italia potrà essere costretta a sborsare annualmente la medesima quantità di risorse per quella che di fatto non è mera accoglienza piuttosto una completa presa in carico dell'immigrato. Già perché nei 10 miliardi di euro impegnati tra il 2015 e il 2017 è compreso l'intero pacchetto di servizi che i faccendieri della solidarietà (cooperative sociali, ong e onlus), ossia attori economicamente forti in fatto di numeri e capacità gestionali, offrono alle prefetture da nord a sud dividendosi e subappaltando efficacemente fette omogenee di mercato. Sono loro infatti che si assicurano i contratti per l'ospitalità, organizzano la gestione dei centri d'accoglienza straordinari, quelli dei minori non accompagnati, i servizi per i richiedenti asilo e non ultimo, curano l'interpretariato e la mediazione culturale. La quota giornaliera per ogni immigrato assistito è di 45 euro lordi (35 euro più iva) e comprende alloggio, vitto, abbigliamento, assistenza sociale, linguistica e psicologica e sanitaria. Nell'intero calmiere del dispendio non possono mancare i servizi di supporto alla commissione territoriale durante i colloqui di chi richiede l'asilo. Parcelle orarie, per traduttori di lingue sconosciute ai più, dialetti e idiomi quasi estinti, che partono dai 20 euro fino a 27. Oltre alla quota parte, dell'ordine delle centinaia di migliaia di euro, destinata al trasporto degli stranieri, nonché i contributi per i progetti cosiddetti Sprar (Servizi protezione richiedenti asilo e rifugiati) destinati direttamente ai singoli comuni. Voci di spesa aggiuntive sono quelle riferite ai programmi di rimpatrio volontario assistito: un flop in piena regola che per il biennio corrente sta costando 8 milioni di euro e avrebbe lo scopo di reintegrare a casa propria un centinaio di migranti economici. E non è finita qui. Non è da trascurare anche la spesa extra per le manutenzioni ordinarie e straordinarie dei centri hotspot. Per quello di Lampedusa ad esempio sono a disposizione 980 mila euro per la prossima ristrutturazione del complesso. Soldi erogati direttamente dal ministero dell'Interno alla prefettura, stazione appaltante Invitalia. Negli ultimi due anni la presa in carico dei migranti è stata arricchita e affiancata da programmi aggiuntivi in sinergia tra istituzioni e terzo settore. Pubblicazioni patinate dispendiose, firmate da autorevoli figure istituzionali dei vari dipartimenti del Viminale. Molto spesso sono le stesse coop e onlus che gestiscono i servizi primari a ingegnarsi per stilare progetti dai titoli e dalle apposizioni ridondanti e ipocritamente accorate che sottendono concetti di integrazione e inclusione sociale. Spesso solo chiacchiere che denotano il fardello dell'approccio italiano alla gestione della migrazione e il perché di una quantità di denaro impressionante.

I conti delle coop sui migranti nascosti dai siti del governo. Sui siti delle prefetture lacune sulle rendicontazioni dei costi dell'accoglienza ai migranti: dati mancanti o presentati in confusione, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 02/11/2017, su "Il Giornale". La parola magica è “Amministrazione trasparente”. O almeno dovrebbe esserlo. In tanti l’hanno invocata, ma in pochi sembrano praticarla. Soprattutto in tema di immigrazione. Già, perché per quanto nel lontano 2014 Matteo Renzi avesse promesso di mettere online “ogni singolo centesimo di spesa pubblica”, in realtà i buoni intenti sono rimasti lettera morta. E dove servirebbe chiarezza, come nella gestione delle ingenti risorse destinate ai migranti, in realtà regna il grigiore. Ad aprile (dati del Ministero dell'Interno) sui 177.505 stranieri presenti sul territorio nazionale, ben 137.599 vivevano nelle strutture temporanee (Cas) gestiti dalle Prefetture e solo 23.867 nei posti "d'eccellenza" Sprar coordinati dai Comuni. Poi ci sono altri 2.204 migranti sistemati negli Hotspot e 13.835 negli hub di primo soccorso. Tradotto in percentuali, significa che l'80% degli stranieri (e delle risorse economiche) finisce nelle mani di imprenditori che hanno fatto dell'immigrazione una nuova attività economica. Un po' di chiarezza su come vengono spesi i soldi sarebbe necessaria, no?

Speranza vana. I dati dei pagamenti risultano occultati, presentati in confusione o nascosti nei luoghi più improbabili dei siti internet delle Prefetture. Il risultato? Per un normale cittadino diventa impossibile sapere quanti milioni di euro delle sue tasse finiscono a questa o a quell’altra cooperativa. Un governo “trasparente” dovrebbe fornire in maniera semplice e rapida alcune delucidazioni ai contribuenti: quali sono i centri di accoglienza in ogni provincia, quali le associazioni impegnate coi profughi e quanto incassano ogni anno. Ma nessuno di questi dati è facilmente accessibile online. E pensare che la legge sull’anti corruzione prevede che le “stazioni appaltanti” siano tenute a pubblicare nei loro siti web istituzionali le informazioni base sulle procedure di tutte le gare, comprese quelle sull’accoglienza. Una tabella ordinata dovrebbe indicare la struttura proponente, l’oggetto del bando, l’elenco degli operatori invitati a presentare le offerte, l’aggiudicatario, l’importo complessivo e pure le somme liquidate alle singole coop. Le prefetture in effetti mettono a disposizione un’apposita sezione chiamata - appunto - “Amministrazione trasparente”. All’interno ci si aspetta di trovare l’Eldorado dei documenti, ma spesso si rimane delusi. La prefettura di Ragusa ha la pubblicazione delle gare (secondo la L. 190/2012) ferma al 2013. Un po’ in ritardo, non pensate? Roma fa un po’ meglio, ma non va oltre il 2015. Siena? Idem. Salerno invece ha rendicontato 720 euro per la manutenzione dell'impianto elettrico della Polstrada, ma non le spese per i migranti. Vibo Valentia lo stesso, eppure l’appalto l’anno scorso è stato vinto da qualcuno: l’associazione “Da donna a donna” qualche somma l’avrà pure incassata, no? Frosinone invece fornisce solo il dato aggregato: accordo quadro da oltre 28 milioni di euro e poi giù una sfilza di vincitori. Ma le singole coop, quanto si beccano?

Per carità: ci sono anche esempi lodevoli, amministrazioni che divulgano l’elenco completo delle procedure d’appalto. Ma in generale regna il caos. Soprattutto quando si cerca di ricostruire il processo di assegnazione dei milionari bandi dell’accoglienza. Dei contratti dettagliati tra Stato e cooperative, neppure a parlarne. La lista delle strutture con il numero di immigrati presenti? Solo Napoli, Aosta, Cosenza e poche altre. La maggioranza delle prefetture non la fornisce. Latitano pure i verbali delle commissioni, gli avvisi di post-informazione e le aggiudicazioni definitive. E pensare che la legge parla chiaro: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale alle informazioni” della Pa, così da permettere il controllo “sull'utilizzo delle risorse pubbliche” da parte del cittadino. Solo parole: fatta la legge, trovato il cavillo. Quando a fine 2015 la campagna “InCAStrati” fece ufficiale istanza di accesso civico per conoscere il numero complessivo dei centri profughi, la loro ubicazione e chi fossero gli enti gestori, Ministero e prefetture risposero picche. Affermando che le “informazioni richieste non sono soggette ad obbligo di pubblicazione”. Viene da chiedersi allora per quale motivo alcuni enti territoriali del governo abbiano i documenti completi e visibili (per esempio: Torino e Firenze), mentre molti preferiscano divulgare dati incompleti o del tutto inutili. A Udine l’albo dei fornitori è fermo al 2014. A Oristano se si cercano dettagli sui “contratti” si trova solo una cartella vuota. A Cesena la sezione degli “avvisi di aggiudicazione” è “in corso di aggiornamento”. E chissà da quanto. Una cosa è certa: tutta questa confusione, se non è serve ad occultare i costi dell’accoglienza, di certo non aiuta a sollevare il velo di mistero che li avvolge. Alla faccia della trasparenza.

Milena Gabanelli: "Sparatoria contro gli immigrati solo un orrendo fatto di cronaca nera", scrive il 7 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Una lezione a tutta la sinistra e ai suoi toni apocalittici sul "ritorno del fascismo". E' quella che Milena Gabanelli, ex anima storica di Report e oggi giornalista per il Corriere della Sera, ha impartito stamattina parlando del caso di Macerata ai microfoni di Radio Cusano Campus. "Penso che di questi fatti più ne parliamo più si innesca un effetto detonatore. Preferirei circoscriverlo ad un orrendo fatto di delinquenza. L'effetto che si produce rischia di essere quello di aizzare gli animi torbidi. Bisogna riferire il fatto di cronaca in sé e basta. Il pericolo che ci siano tanti Traini in giro per l'Italia? In ognuno di noi c'è un potenziale animale, quindi penso che il problema sia un altro. Invece di continuare ad analizzare un animo umano disagiato penserei a come risolvere un disagio reale che sta fuori. Vale a dire, come gestiamo questa accoglienza? Il problema da risolvere è quello. Il resto sono patologie che devono essere prese in cura da un altro tipo di professionisti".

Pamela Mastropietro, lo strazio della mamma in piazza a Macerata: incontra un nigeriano, la sua reazione, scrive il 7 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano". Un gesto a sorpresa, che ha spiazzato Macerata e ridato sollievo e speranza a una comunità distrutta dal dolore. Alessandra Verni, mamma della povera Pamela Mastropietro, la 18enne romana morta e fatta a pezzi dopo essere scappata da una comunità di recupero di Corridonia, è scesa in piazza nella cittadina marchigiana per una fiaccolata insieme al padre e allo zio della ragazza. Tra le 200 persone che hanno partecipato alla manifestazione si è fatto avanti un ragazzo nigeriano, connazionale dei due spacciatori finora accusati di vilipendio e soppressione di cadavere (non di omicidio, perché il sospetto è che Pamela possa essere morta per overdose). "Voglio chiedere scusa per tutto quello che le è stato fatto - ha detto alla signora Verni -, non so se può servire, ma chiedo scusa a nome di tutta la mia comunità. Prego Dio che le violenze finiscano qua, che non ci sia altro sangue, dobbiamo unirci per la pace". La mamma di Pamela, commossa, l'ha abbracciato: "Non sei tu che hai fatto a pezzi mia figlia". Una straordinaria lezione di umanità dopo le polemiche suscitate da un'altra dichiarazione della Verni, che ringraziava Luca Traini (l'uomo che ha cercato di fare strage di africani dopo la morte di Pamela) per aver acceso un cero nel luogo in cui sono stati trovati i poveri resti della figlia.

Macerata, quelle dichiarazioni e quel business che non ci piacciono…scrive Nicola Porro il 7 febbraio 2018. Sui fatti di Macerata si continua a parlare. E quasi sempre a vanvera. Sentite cosa dice Giancarlo Borgani, avvocato del nigeriano accusato di essere il complice di Innocent Oseghale. Roba da non credere! E non finisce qui. Nella seconda parte di questo breve video, insieme al giornalista Carlo Cambi, tratto di un business che a Macerata è fiorito… 

Gli affari d’oro dei profughi di Macerata, su "La Verità (direttore Maurizio Belpietro) del 7 febbraio 2017. L’accoglienza è la prima industria della città. La Onlus che ospitò il nigeriano accusato del massacro di Pamela ha oltre 400 dipendenti e bilanci milionari, in continua crescita, che però non certifica. E nei quali spuntano misteriose donazioni.

Gus, dai profughi al terremoto: bilancio di 20 milioni di euro. L’intervista, Bernabucci: lavoriamo bene ed è tutto controllato, scrive Paola Pagnanelli il 23 luglio 2017 su “Il Resto del Carlino”. Partito da Macerata nel 1993 in seguito all’emergenza umanitaria nei Balcani, il Gruppo umana solidarietà «Guido Puletti» ha chiuso il 2016 con un bilancio di 20 milioni di euro: una cifra impressionante, che infatti ha attirato l’attenzione della stampa nazionale. Come si legge dal bilancio pubblicato sul sito della onlus, tra le entrate del Gus ci sono nove milioni di euro di crediti dalle prefetture e altri sette milioni di crediti dal sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il bilancio è cresciuto progressivamente negli anni, man mano che l’associazione vinceva bandi pubblici, soprattutto per l’accoglienza agli immigrati che segue per 24 Comuni italiani, ma anche per la gestione delle emergenze dall’Emilia all’Abruzzo per il terremoto, e i progetti di sostegno al disagio: tante iniziative, che hanno portato la onlus guidata Paolo Bernabucci anche all’estero, in Nepal, in Sri Lanka e poi altrove. Ma questo, assicura il presidente, non è un business, e non ci sono polemiche da montare: «La verità è che la nostra è una realtà che funziona: diamo lavoro a quasi 500 persone, e chi ci sceglie lo fa perché vede come lavoriamo».

«Il nostro bilancio è pubblico, come ogni anno lo abbiamo messo sul sito e tutti possono vedere da cosa è composto e come sono utilizzati i soldi». Il presidente del Gus Paolo Bernabucci non vuole sentire parlare di polemiche sul business degli immigrati, sebbene la sua onlus abbia un bilancio annuale di venti milioni di euro. 

Ma come si arriva a una cifra così elevata? 

«Noi lavoriamo molto e in tante città. Non è volontariato: ci sono poco meno di 500 persone che abbiamo assunto regolarmente in tutta Italia, psicologi, assistenti sociali, commercialisti, gli appartamenti e gli alberghi e altro, che vanno pagati. C’è un’organizzazione che nasce a Macerata e poi ha iniziato a lavorare anche fuori di qui. Non capisco dove sia il problema, forse siamo troppo grossi per Macerata».

Il problema nasce perché tutti questi soldi fanno pensare a un grosso affare. 

«Se ci sono organizzazioni truffaldine, che sfruttano i progetti sugli immigrati, non vuol dire che siano tutte così, o che il Gus sia così. Anche il Filo d’oro o Emergency hanno bilanci importanti. Noi lavoriamo per le prefetture e i Comuni, con i bandi pubblici, non prendiamo soldi dopo trattative private, e quello che facciamo viene continuamente controllato dalle prefetture e dal ministero. I soldi che riceviamo servono per erogare servizi, e dal bilancio si vede: siamo trasparenti».

Molti si lamentano, perché dicono che in città ci sono moltissimi immigrati che ciondolano in giro senza far nulla. 

«Macerata città ospita meno richiedenti asilo di Ancona o Ascoli, e il dato provinciale invece è nella media. I ragazzi che seguiamo noi fanno corsi di italiano e molte altre attività, come di recente i mondiali antirazzisti. Poi bisogna dire due cose: in primo luogo non tutti i richiedenti asilo in città sono seguiti dal Gus, e poi ci sarà anche qualcuno che va a spasso, ma se dà fastidio che ci siano persone di colore in giro, è un’altra questione. Ma non credo ci siano tante lamentele su questo, qualcuno sta cercando di montare una polemica che non esiste». 

Le proteste ci sono, sia sul giro di soldi che sul numero di richiedenti asilo in città.

«Ma non hanno senso. Il nostro lavoro è soggetto a continue verifiche e ispezioni, e aggiungo anche che siamo valutati tra i migliori in Italia nel nostro campo. Per questo lavoriamo molto e il bilancio aumenta. Pensi solo che per l’emergenza sisma il Gus ha raccolto quasi 500mila euro di donazioni, arrivate da realtà come la Fondazione La Stampa di Torino o il gruppo De Agostini: se hanno scelto noi per le donazioni, è perché evidentemente si fidano di come usiamo questi fondi».

E come li avete usati?

«Sull’emergenza sisma siamo al lavoro dal 24 agosto senza interruzioni. Abbiamo risolto moltissimi problemi pratici dei terremotati di Abruzzo e Marche, dal modulo per l’allevatore che deve rimanere vicino alla sua azienda al generatore di corrente, arrivando prima dello Stato. Dieci persone di media lavorano gratuitamente per fronteggiare le necessità di questo ultimo terremoto, come fatto in passato. Ma di questo si preferisce non parlare». 

FdI: «Macerata non è razzista, il problema sono droga e accoglienza opaca».  LE REAZIONI - I rappresentanti di Fratelli d'Italia sulla morte di Pamela e l'attacco di Traini. Renna: «Finalmente il sindaco ammette la situazione». Ciccioli: «Le associazioni che gestiscono gli arrivi hanno rovinato la città» e aggiunge «lotta senza quartiere alla malavita per cui gli immigrati che escono dai progetti sono manodopera gratis». Domani nel capoluogo manifestano Forza Nuova e Movimento nazionale, scrive lunedì 5 febbraio 2018 Federica Nardi su "Cronache Maceratesi". «A Macerata gira troppa droga. Togliamoci i tappi dagli occhi e combattiamola. Pretendo dal prefetto la lotta alla droga e al degrado», dice Paolo Renna. Carlo Ciccioli, a domanda diretta risponde: «lotta senza quartiere alla malavita, alla Camorra, che sono soddisfattissimi di questo esercito di disperati (gli immigrati, ndr) che per loro è manovalanza a costo zero». Al centro Carlo Ciccioli regionale, Stefano Benvenuti Gostoli, altro candidato e Andrea Blarasin, coordinatore comunale, a tracciare un filo rosso tra il mercato della droga in mano alla malavita, la morte di Pamela Mastropietro per cui è accusato il nigeriano Innocent Oseghale e la follia stragista di Luca Traini, 29enne dell’ultradestra che sabato ha seminato il panico in città puntando la sua Glock contro persone a caso, colpevoli solo di avere il colore della pelle nero, perché, come ha riferito agli inquirenti, ha “sbroccato dopo l’omicidio di Pamela”. «Un borderline – dice Ciccioli, che è psichiatra – che per fortuna non ha ucciso nessuno. Ma il suo brutto gesto è inquadrabile nella patologia. Traini è in cura al centro di salute mentale. I borderline si scompensano con eventi emotivi stressanti. In questi giorni si è creata la miscela doc per creare l'”acting out”. Ha preso di mira chi per lui è motivo di fattore stressante. In questo caso la sua fissazione era politica, il gesto legato alla sua percezione della realtà. Il suo è stato un rodeo, con finale istrionico. Questo lo scenario e vi parlo da psichiatra». Anche su chi ha presumibilmente ucciso Pamela (le indagini sono in corso per capire la causa della morte) e poi l’ha fatta a pezzi (accusato Oseghale), Ciccioli parla di «un matto. Pamela – ha aggiunto – è morta per le leggi che si è data l’Italia, dove non c’è una norma per vietare a chi è in cura in una comunità di uscire. Al suo corpo manca il cuore e altri pezzi di cadavere (ipotesi fermamente smentita dagli inquirenti, ndr). La sensazione è chi ha eseguito questo rito fosse fuori di testa». Da sinistra Luca Traini e Innocent Oseghale C’è l’orrore per la morte di Pamela, per l’attacco di Traini. Ma il fattore comune per FdI è la droga e la malavita che ne gestisce lo smercio. Oseghale era uno spacciatore. «E’ un caso che arriva tutto a Macerata? E’ un caso l’Hotel House? – chiede Ciccioli -. Là c’è il nucleo della criminalità non controllata e autorizzata». Dall’altro lato le Ong. «A Macerata – dice Ciccioli – c’è il Vadano a portare organizzazione in Africa invece di far venire qui gli immigrati. Queste persone pagano un prezzo altissimo per andarsene e poi fuori dai progetti finiscono preda della criminalità organizzata. Queste associazioni di accoglienza stanno massacrando Macerata, che prima era un’isola felice. Hanno creato il terreno per il gesto di Traini, un brutto gesto. Bisogna liberare l’Italia dalle finanziarie dell’accoglienza, che con tutte le buone intenzioni fanno solo male». In carcere, conclude il coordinatore regionale, «il 45 percento dei detenuti sono stranieri. A Montacuto ci sono 101 stranieri e 179 italiani, e questi ultimi sono quasi tutti non marchigiani. Considerando che gli stranieri regolari in Italia sono il 9 percento della popolazione, il tasso di criminalità è altissimo». Da sinistra Paolo Renna e Andrea Blarasin Renna torna poi sul “caso Macerata”, diventata terreno di scontro nazionale della battaglia politica in vista delle elezioni. «Finalmente – dice il consigliere – il sindaco Romano Carancini ha ammesso che il problema esiste, noi siamo a disposizione. Ma diciamo no alla speculazione politica. Macerata non è razzista, è sempre stata multiculturale e ora merita un po’ di pace. A chi fa accoglienza chiedo più trasparenza. Perché l’ignoranza nasce dalla non conoscenza. Abbiamo fatto domande precise al Gus e deve darci risposte. Ci dovrebbero essere 139 migranti e invece ce ne sono 372 e ne sono previsti 250 in più. Sospendiamo l’accoglienza». Andrea Blarasin aggiunge che rispetto ai due fatti drammatici «c’è stata una reazione incontrollata sui social. Riportiamo un po’ i fatti sul piano della realtà: due eventi criminosi che nulla hanno a che vedere con responsabilità di destra o sinistra. Bisogna riportare i maceratesi a un’unità – continua –. Ed essere più efficaci nella prevenzione, sottovalutata negli ultimi anni. La politica tenga piedi saldi a terra e torni a dare risposte». Elena Leonardi aggiunge che «va data solidarietà alla famiglia di Pamela, che ha trovato la morte in modo così crudele. Così come alle persone ferita dalla mano del folle Traini. Credo che sia importante che la politica si interroghi anche fuori dai confini della regione. Bisogna affrontare il problema della droga e dell’accoglienza a livello nazionale. Innocent era già stato fermato per spaccio a minorenni. Chi pone un problema del genere non è razzista. Si rischiano focolai sociali nella parte più debole della società. Mi sarebbe piaciuto – aggiunge Leonardi – che la presenza dello Stato fosse stata solerte anche subito dopo l’omicidio di Pamela. Un crimine che si lega al problema della droga. Lo Stato deve essere più forte anche nei confronti di quelle che saranno le pene. Questi episodi fanno male anche alle comunità di immigrati che si sono integrate e che vanno distinte nettamente da chi entra in Italia con altre finalità e da chi vive di criminalità. Le scelte politiche sull’accoglienza non stanno facendo il bene del Paese». Anche per Stefano Benvenuti Gostoli «non si tratta di episodi sporadici ma di un reale problema sociale. Per troppi anni la destra che ha sollevato i problemi dell’immigrazione fuori controllo e della criminalità è stata bollata come xenofoba. Purtroppo si è arrivati all’esasperazione del problema e c’è stato il gesto del folle e anche il crimine efferato». Dalla destra sono arrivati anche altri annunci. Forza Nuova sfilerà domani in piazza della Libertà con il coordinatore nazionale Roberto Fiore. Sempre domani Movimento nazionale di Alemanno ha in programma una fiaccolata che dovrebbe partire alle 21 dai cancelli di accesso al centro storico.

Immigrazione a Macerata, il consigliere Marchiori: "Il grande inganno dell'accoglienza", scrive "Picchio News" il 2/11/2017. Un bilancio della situazione accoglienza a Macerata, attraverso i dati ufficiali di Prefettura e Comune, raccolti grazie all'interrogazione fatta dal consigliere comunale di Forza Italia Andrea Marchiori, il quale ha illustrato il punto della situazione sino ad oggi. "Il grande inganno dell’accoglienza. Così potrebbe essere il titolo del progetto ministeriale che in questi anni ha coinvolti gli enti locali e le associazioni nella gestione del fenomeno migratorio. La stragrande maggioranza degli individui coinvolti nella selezione per beneficiare del percorso di integrazione, non ha diritto di accesso ai medesimi progetti con la conseguenza che dopo pochi mesi, nelle migliori occasioni, o pochi giorni, vengono estromessi dalle tutele. Facciamo un esempio: il progetto Sprar “Macerata Accoglie”, che vede il Comune di Macerata quale ente affidatario ed il Gus quale ente gestore, prevede un numero complessivo di 110 richiedenti asilo da inserire in un programma triennale di accoglienza. Il percorso prevede una serie di attività volte sia all’assistenza alla persona che all’integrazione (assistenza sanitaria, alfabetizzazione, inserimento abitativo, inserimento lavorativo, ecc.) che richiede evidentemente un tempo di prolungata permanenza; purtroppo i dati dicono che troppo spesso i richiedenti asilo non posseggono i requisiti per il riconoscimento dello status sicché vengono esclusi e subito avvicendati con altri aspiranti al fine di non far perdere all’ente gestore il contributo ministeriale. Ma che fine fanno coloro che vengono allontanati? Diventano vagabondi con in tasca un documento di identità e con l’amarezza di aver perso all’improvviso quella forma artificiosa di sostentamento che, evidentemente, poco ha a che fare con l’umana solidarietà. Il fenomeno non è di poco conto se si considera che nella nostra città gli immigrati accolti nei vari progetti sono attualmente 373 di cui 101 del solo Sprar del Comune. A tale ultimo riguardo un argomento di esame molto significativo è rappresentato dall’esiguo numero di donne che attualmente è solo di quattro; facile comprendere come non vi sia alcuna possibilità di una prospettiva di integrazione familiare e come dai paesi afflitti dalle guerre riescano a fuggire solo i maschi giovani, lasciando indifesi i bambini, le donne e gli anziani. Viene, poi, naturale domandarsi perché a Macerata, che non è centro di prima accoglienza, giungono immigrati nei cui confronti non è stato ancora accertato lo status e che, ciononostante, riescono ad inserirsi nei progetti ministeriali di accoglienza. In tale contesto vi è senz’altro un grande inganno che mina fortemente la credibilità del progetto nazionale il quale, a luglio 2017, contava 31.313 posti finanziati dislocati in oltre 1.100 comuni. Altro aspetto critico della questione è il rapporto tra popolazione residente e numero di migranti. Il piano c.d. Morcone, che prende il nome dal prefetto Mario Morcone, capo dipartimento immigrazione del Viminale, a seguito dell’accordo siglato tra Ministero ed Anci, prevede l’inserimento nei comuni di un numero pari 2,5 immigrati per ogni 1.000 abitanti. La scheda ministeriale indica per la nostra città un numero massimo di 139 destinatari da inserire in progetti di accoglienza. Il citato Prefetto, lo scorso anno, ebbe a dichiarare: “I sindaci non possono decidere quello che gli pare sui migranti. Dobbiamo avere sì rispetto per chi è stato eletto, ma si presta giuramento alla Repubblica italiana e non si può interpretare questo giuramento a seconda della convenienza politica”; un monito evidentemente rivolto ai Sindaci che non favorivano l’inserimento dei progetti di accoglienza nei propri comuni nel rispetto delle quota suindicata. Ebbene nel nostro Comune il rimprovero al Sindaco dovrebbe essere mosso a contrario dato che il numero ufficiale censito è di 373, ovvero di quasi il triplo oltre il limite suggerito. Se, poi, a questi si aggiungono le centinaia di persone che non risultano ufficialmente risiedere nel comune ma che, tuttavia, vi dimorano, si comprende bene come il problema diventi rilevante anche in termini di convivenza e controllo. Proprio sul controllo va fatta l’ultima osservazione. Anzitutto si deve considerare che tutti i migranti che vengono inseriti nei vari progetti di accoglienza hanno diritto ad ottenere immediatamente il documento di identità, sebbene vi sono stati numerosi casi in cui i dati anagrafici rivelati non hanno trovato coincidenza con quelli reali. Successivamente al rilascio dei documenti il Comune procede all’accertamento dell’effettiva permanenza della residenza nel luogo indicato ed in molte occasione si è appurato che ciò non corrispondeva più in quanto il soggetto aveva, di fatto, abbandonato il progetto di integrazione e con esso la residenza a cui era stato destinato. Un notevole sacrificio di energie da parte del personale dell’Ente e del corpo dei Vigili Urbani, spesso vanificato dalla situazione reale che diventa ingovernabile. A questo punto, tenuto conto dell’evidente presenza sul territorio di immigrati senza meta, che vivono di espedienti, si innesca un enorme lavoro di prevenzione e repressione di crimini da parte di tutte le Forze dell’Ordine che da molti mesi stanno presidiando in modo encomiabile le zone della città più sensibili. Ma la gestione del fenomeno migratorio ed il corretto funzionamento dei progetti di accoglienza non può essere rimesso al controllo sulle strade da parte delle FF.OO. perché il problema di fondo rimane quello di migliaia di immigrati abbandonati a se stessi. Ad oggi vi sono ben 112 soggetti a cui è stato negato lo status i quali hanno presentato ricorso amministrativo ancora pendente ed altri 105 la cui domanda è in fase di esame: quanti di questi potranno inserirsi nei progetti e raggiungere l’obiettivo di una vera integrazione che gli possa garantire un futuro dignitoso nel nostro Paese? Qui sta il concetto del grande inganno che, peraltro, costa milioni di euro e diventa veramente un business incomprensibile."

Profughi, l’accoglienza vale oro: bilancio da 20 milioni per il Gus “Ma i cittadini sono all’oscuro”, scrive Giovanni De Franceschi su cronachemaceratesi.it il 21.7. 2017. Da una parte ci sono uomini, donne e bambini che scappano da guerre e persecuzioni. Viaggi della speranza che diventano troppo spesso disperati tentativi di sopravvivenza. Con cadaveri che galleggiano nelle acque del Mediterraneo. Dall’altra c’è un fiume carsico di soldi pubblici gestiti da una onlus che ha raggiunto il bilancio di un’azienda degna di Piazza Affari. In mezzo scorre implacabile quello che inevitabilmente è diventato un vero e proprio business: l’accoglienza dei profughi. Milioni di euro che Comuni, Prefetture e governo spendono ogni giorno per cercare di regalare una nuova vita a chi ha perso tutto. Ma il punto non è se sia giusto o meno spendere quei soldi, piuttosto capire come realmente vengono gestiti. Una questione di trasparenza, insomma. Ed è proprio quella che sembra mancare qui a Macerata. Veniamo ai numeri. Il Comune di Macerata, con due delibere di giunta dell’ottobre scorso, si è fatto carico di proseguire per il triennio 2017-2019 due progetti Sprar (Sistema di protezione per profughi e richiedenti asilo) già avviati negli anni precedenti: “MaceratAccoglie” e “Mosaico”. Il primo è prettamente comunale e riguarda l’accoglienza di 65 profughi (50+15 posti aggiuntivi). Sul piatto ci sono poco più di 2,9 milioni di euro in tutto: 2,7 a carico del ministero e 150mila euro scarsi del Comune. L’altro invece era il progetto gestito dalla Provincia che ha deciso di non rinnovarlo a fine 2016. Ha chiesto di farsene carico sempre il comune di Macerata: prevede l’accoglienza di altri 45 profughi. Un totale di 110 persone da ospitare: il Ministero ha accolto entrambe le richieste e per la seconda sono disponibili 674.662 euro all’anno, più 33mila euro di cofinanziamento comunale. Per un totale di altri 2 milioni di euro e rotti.

I responsabili del Gus. Ma chi è gestisce questa mole considerevole di soldi pubblici? Fino adesso è stata la onlus Gruppo Umano Solidarietà. Per i nuovi due progetti bisognerà rifare una gara d’appalto, ma nel frattempo il Comune ha chiesto che sia concessa una proroga per la gestione del Gus, e ha ottenuto l’autorizzazione. E finché non sarà fatta la gara al Gus andranno 56.221 euro al mese. Il bilancio 2016 del Gus è di 20milioni di euro, con crediti vantati verso gli enti pubblici di tutta Italia per 17milioni circa (9,3 milioni dalle prefetture e 7,2 per i progetti Sprar). L’avanzo di esercizio ammonta a circa 195mila euro. Di questo giro d’affari se n’era occupato anche Il Giornale. E per capire quanto sia aumentato, basti pensare che nel 2013 il Gus aveva un bilancio di 8,2 milioni. In tre anni è più che raddoppiato. Tutto legittimo, per carità, ma i cittadini avrebbero almeno il diritto di sapere nel dettaglio come vengono spesi i circa 40 euro al giorno per ogni profugo che la onlus riceve e gestisce, visto che si tratta di soldi pubblici. Ed è qui che entra in gioco il Comune. Ne sa qualcosa il consigliere d’opposizione di Forza Italia Andrea Marchiori che, a suon di mozioni, ordini del giorno e interrogazioni, sta cercando di rendere più trasparente possibile la vicenda.

Andrea Marchiori. “Quello che a me interessa – spiega il consigliere – non sono tanto i conti interni del Gus, quanto i rendiconti del progetto “MaceratAccoglie”. Il ministero infatti impone al Comune di presentare ogni anno un rendiconto dettagliato delle spese sostenute per l’accoglienza. L’associazione lo redige, lo gira al Comune che a sua volta informa il ministero. Sostanzialmente si tratta dell’atto principale che va a giustificare tutto il progetto. Ora, non si capisce perché la giunta ha sempre evitato di discutere di questo rendiconto in Consiglio, opponendosi alla mia richiesta di renderlo pubblico. Hanno detto che è una questione di privacy, renderlo pubblico, secondo loro, violerebbe i diritti di ogni singolo immigrato. A parte che basterebbe oscurare i nomi e lasciare solo le voci di spesa così come viene fatto in molte altre delibere, ma non si capisce perché, trattandosi di soldi pubblici, c’è tutta questa ritrosia ad essere trasparenti. Non sto criticando il progetto in sé, o i soldi spesi, perché è giusto accogliere chi scappa dalla guerra, non sono certo loro i privilegiati. E’ la mancanza di trasparenza che non è accettabile, la giunta tende a tenere tutto nascosto, in Consiglio non se ne discute. Al contrario, far conoscere come vengono gestiti i soldi pubblici, oltre ad essere un dovere, darebbe modo al Gus di dimostrare che è tutto in regola e eviterebbe di alimentare sospetti e polemiche inutili”. Tra l’altro i consiglieri hanno accesso a questo famoso rendiconto delle spese, ma non possono renderlo pubblico. Come se fosse un atto che riguarderebbe solo pochi e non tutta la cittadinanza.

Dossier sul Gus: “Su 26 milioni di euro nel bilancio non tutto è chiaro e trasparente”, scrive Gabriele Censi su cronachemaceratesi.it il 6.10.2017. Obiettivo trasparenza sulla gestione di 26 milioni di euro di fondi pubblici che compaiono nel bilancio della onlus maceratese che si occupa di accoglienza, il Gus. E’ l’iniziativa del capogruppo di Forza Italia Riccardo Sacchi affiancato da altri rappresentanti dell’opposizione comunale consiliare e non (Francesco Luciani di Idea Macerata, Paolo Renna di Fdi, l’ex consigliera di Macerata nel Cuore Francesca D’Alessandro, Mattia Orioli del Cdu, Anna Menghi e Stefano Migliorelli della Lega). “Rilanciamo dopo le dichiarazioni del presidente del Gruppo Umana Solidarietà, Paolo Bernabucci che ha parlato di trasparenza dell’associazione con i dati pubblicati sul loro sito – spiega Sacchi -. Ho chiesto così a due tecnici di analizzarli e ne è scaturita una relazione che ha invece molte mancanze di trasparenza. Speriamo che siano chiarite, altrimenti andremo avanti in questa iniziativa. Perchè in un momento di grave crisi che viviamo vogliamo saper come vengono gestiti imponenti fondi pubblici, fermo restando la meritoria attività di chi fa accoglienza. Non per aprire una sterile e banale polemica sui tema dell’immigrazione. Tale tematica o problematica è, infatti, di dimensioni epocali e talmente complessa da richiedere un approccio transnazionale più che locale”.

Il dossier è stato elaborato da Massimo Raparo, analista finanziario e Raffaele Pallotto, commercialista, e si concentra su statuto e numeri trovati sul sito del Gus. “L’ultimo bilancio integrale pubblicato è quello del 2015. Il bilancio 2016 non contiene proventi ed oneri. Ad oggi – spiegano i due tecnici – non appare sul sito nessuna delibera assembleare dei soci dell’associazione in riferimento all’approvazione dei bilanci. L’unica certificazione è quella relativa al 2013. Lo statuto recita: “Per l’attuazione dei propri fini statutari l’associazione si avvale in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali volontarie e gratuite dei propri associati salvo i casi di particolare necessità in cui può assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo…”.  Ciò sembra in apparente contrasto con il numero di dipendenti che risulta al 31 dicembre 2016 di 407 unità”. Gli analisti si chiedono se alla luce di ciò la struttura si configuri ancora come attività a carattere volontario come da statuto o abbia una natura diversa: “Non è specificato il numero degli associati”. Altro punto evidenziato: “Non sono previsti organi di controllo di gestione, chi lo effettua?”.  Poi si chiedono chiarimenti anche su immobili esposti nel 2013 in bilancio per 600mila euro senza un fondo di ammortamento. Nel 2014 compare un fabbricato e un terreno per 482mila euro con relativo fondo di ammortamento di un terzo. Evidenziata anche la voce Marchex, società privata che gestisce un circuito di scambi commerciali facente parte del gruppo Sardex. “30mila euro nel 2014 e 190mila nel 2015 riferiti rispettivamente a crediti e proventi. Perchè il Gus partecipa ad attività prettamente commerciali?”. Altro punto su cui si soffermano i tecnici sono le disponibilità liquide: “455mila euro nel 2015 senza dettaglio, 1,724 milioni nel 2016 comprensive di 75mila in cassa. Le norme sul limite al contante fissano in 3mila euro il valore massimo”.

Il dossier prosegue sulle poste di proventi e oneri: “Oneri accessori e oneri di supporto senza nessuna specifica per 120mila euro e 250mila euro nel 2012 e 2013. Nel 2014 1,5 milioni per vitto e abbigliamento, 100mila per ‘altre spese’, un milione per altre spese non identificabili come consulenze, rimborsi spese, donazioni in uscita, contributi straordinari, incontri, corsi e convegni. Nel 2015 scompare la specifica relativa alle spese, i ricavi salgono a 18 milioni, gli oneri per assistenza sono 6,5 milioni, i costi del personale 4,5 milioni e la gestione degli immobili a 2,8 milioni. 150mila euro per oneri diversi”. Nel 2016 ci sono 950mila euro per crediti diversi: “Non si trova alcune specifica su una così rilevante voce”. Attendiamo i chiarimenti e approfondimenti del Gus – conclude Sacchi – per un’ampia condivisione con i cittadini e contribuenti maceratesi”. Intanto sempre sul fronte rifugiati il consigliere Prenna annuncia una interrogazione comunale in merito alla gestione di chi esce dal programma di accoglienza e seppure con un teorico foglio di via resta “abbandonato per la città”. “Ce ne sono ora una ventina e aumenteranno ad un centinaio, come vuole intervenire l’amministrazione?”

Caccia rossa a Salvini. Grasso e Saviano accusano: il leader leghista è responsabile dell’odio. Ma sono loro a odiare il centrodestra, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale".  Forse non odieranno i neri, ma sicuramente Roberto Saviano, Pietro Grasso, Laura Boldrini e compagnia odiano i bianchi. Uno in particolare: Matteo Salvini. Contro il quale hanno aperto, dopo i fatti di Macerata, una campagna violenta e razzista, quella contro la «razza leghista». Saviano è arrivato a scrivere che Salvini (ma con lui tutto il centrodestra) è il mandante politico e morale del pazzo, quello sì razzista, che a Macerata ha aperto il fuoco contro i passanti di colore. Quando superbia, odio e ignoranza si mischiano tra loro - e in Saviano accade spesso - la miscela è esplosiva. Ci dicano questi signori, che per raccogliere due voti in più dei quattro che hanno sono pronti a tutto, un solo atto ufficiale o politico in cui Salvini e il centrodestra abbiano teorizzato l’uccisione di immigrati, regolari o clandestini che siano. Che io sappia, la Lega e i suoi alleati sono più che favorevoli all’unica immigrazione possibile in un Paese civile, ovvero quella controllata e compatibile con un’accoglienza dignitosa. Che a me risulti, Salvini si sgola da anni, come Berlusconi, contro l’illegalità in cui si muovono migliaia di immigrati e contro il lassismo dello Stato che la permette. Salvini, non Saviano, da tempo mette in guardia che, andando avanti così, prima o poi ci sarebbe scappato il morto, perché il matto è sempre in agguato. Cattivi maestri sono semmai Boldrini, Grasso e Saviano, che con la loro politica e i loro scritti hanno fatto credere al nigeriano di Macerata che fosse un suo diritto stare in Italia, nonostante già condannato, a spacciare droga e a fare a pezzi ragazze. Il bello è che quelli che parlano di «cattivi maestri» per il caso di Macerata sono gli stessi che ne negano l’esistenza nel caso dei terroristi islamici, declassati a «cani sciolti». Quando invece lo sterminio degli occidentali è, quello sì, teorizzato dal cattivo maestro Allah, nel Corano, e da centinaia di imam nelle moschee, oltre che da alcuni leader di Stati islamici. Quelli che, per esempio, negano il diritto di esistere di Israele o che pianificano - come il turco Erdogan, che oggi sarà in Italia, ricevuto con tutti gli onori - lo sterminio dei curdi e il carcere o la pena di morte per gli oppositori, politici o giornalisti che siano. La verità è che la salvezza degli immigrati sta proprio nella ricetta di Salvini e Berlusconi. Al contrario, la loro fine razzista, mascherata da buonismo, è di continuare a dare credito a Saviano e Grasso, che evidentemente, fin da piccoli, hanno avuto cattivi maestri. Tornate a scuola, studiate e smettetela di seminare odio tra gli italiani. Il fatto che non utilizziate la pistola non vi rende migliori di chi la impugna.

Meloni: "Per la sinistra immigrato ​vince su donna stuprata". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo: al centro l'immigrazione, scrive Franco Grilli, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Giorgia Meloni prosegue nella sua corsa per la campagna elettorale di Fratelli d'Italia in vista del voto del prossimo 4 marzo. La leader di Fratelli d'Italia durante un'iniziativa elettorale a Firenze ha parlato del tema dell'immigrazione. E su questo punto la Meloni sottolinea le differenze tra il centrodestra e la sinistra: "Va bene tutelare le donne, ma nella gerarchia della sinistra immigrato vince su donna violentata e questa non è la mia Italia: la mia Italia è un Paese in cui si rispettano le regole". Inevitabile un commento anche sulla vicenda di Pamela Mastropietro, la ragazza fatta a pezzi da un nigeriano e ritrovata dentro due trolley: "Purtroppo dal Pd, da Renzi, dalle istituzioni non mi aspettavo un atteggiamento omertoso verso alcuni fatti di cronaca, come il caso della povera Pamela, perché significa riconoscere che la politica ha sbagliato qualcosa. C'è un nesso, dimostrato dai dati del Viminale, tra l'aumento dell'immigrazione incontrollata e l'aumento dei reati. Siccome la politica questo non lo può riconoscere fa finta che questi fatti non esistano. Io sono stata la prima a chiamare la mamma di Pamela, e mi fa specie che ci siano file di ministri che sono andati a Macerata all'indomani della sparatoria di quel pazzo ma il giorno prima, quando c'era una madre che piangeva sua figlia, non abbiano sentito il bisogno di farsi vedere o sentire la madre", ha affermato la Meloni. Infine riassume il suo programma così: "Nella nostra Italia chi rispetta le regole verrà aiutato, chi non le rispetta no".

Roma, le tre figlie di Giacobbo aggredite per strada a Trastevere. Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere, scrive Luca Romano, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". Le tre figlie di Roberto Giacobbo, cronista Rai e conduttore di "Voyager" sono state aggredite a Roma nella zona di Trastevere. Le tre sorelle stavano facendo una passeggiata in uno dei quartieri più turistici della Capitale. Un marocchino di 29 anni, Abdel Jebar El Karafli, le avrebbe minacciate con una bottiglia in mano. L'obiettivo del malvivente erano i loro telefonini. Una delle figlie del conduttore ha inziato ad urlare e ha chiesto aiuto. A questo punto, come riporta il Corriere, il marocchino ha provato a colpirla alla testa con la bottiglia. L'uomo poi è fuggito ma è stato fermato da una pattuglia della polizia. Immediatamente è scattato l'arresto e adesso l'uomo si trova nel carcere romano di Regina Coeli. Di fatto gli investigatori adesso pensano che dietro ad altri furti e rapine possa esserci lo stesso marocchino. I colpi sarebbero stati messi a segno sempre a Trastevere e a Borgo Pio. Le figlie di Giocobbo sono state poi soccorse dagli stessi agenti della polizia e dal 118.

Il nigeriano e il buonista, scrive Giampaolo Rossi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". PRIMO E SECONDO

Il primo è un nigeriano. Il secondo è un buonista.

Il primo è un criminale. Il secondo è un idiota.

Il primo fa lo spacciatore, a volte il ladro e forse anche l’assassino e il macellaio sui corpi di povere ragazze. Il secondo fa il politico di sinistra, l’intellettuale impegnato, il volontario delle Ong con i soldi di Soros, il fighetto radical-chic con il culo degli altri.

Il primo è un nigeriano, il secondo è un buonista. Il primo è un criminale, il secondo è un idiota.

Il primo è un immigrato irregolare con precedenti penali che gira libero per le nostre città a spacciare e a delinquere come se niente fosse. Il secondo è un italiano regolare a cui dell’Italia non frega nulla ma grazie alle sue idee sballate, alla sua ipocrisia pelosa, ci sta riempiendo di rifiuti umani che vengono a distruggere la nostra già difficile convivenza civile.

Il primo, il nigeriano, è scappato dal suo Paese a causa della guerra, ci dicono. Ma da che mondo è mondo dalle guerre scappano le donne e i bambini mentre lui è un uomo di 28 anni. E francamente è strana questa immigrazione che porta in Europa masse di giovani sani di corpo e di mente e lascia sotto le bombe e le persecuzioni i più indifesi. Il secondo, il buonista, vive da sempre qui, gode della libertà e della sicurezza che gli sono garantiti ed è così stupido da convincersi che facendo entrare tutti, lui faccia il bene di queste persone e di se stesso, mentre fa solo il bene dell’élite globalista che pilota questo esodo di nuovi schiavi.

Il nigeriano, quello che si traveste da profugo, da povero, da diseredato, è solo uno schifoso delinquente che si approfitta della possibilità che noi diamo a lui per farsi manovalanza delle organizzazioni criminali, in cambio di facili guadagni.

Il buonista, quello che si veste di solidarietà, è solo uno schifoso schiavista, uno di quelli che è convinto che gli immigrati ci pagheranno le pensioni o che è meglio farli entrare tutti così li mettiamo a raccogliere i pomodori come dice Emma Bonino (e questo solo perché in Italia non coltiviamo cotone come nella Virginia del XIX secolo).

NON SOLO…

Il nigeriano non è solo il nigeriano; è anche il tunisino, il marocchino, il bosniaco insomma è tutti quelli che chiamiamo clandestini e che una volta in Italia si mettono a rubare, stuprare, spacciare, assassinare, rafforzando la già folta fauna di delinquenti nativi.

Il buonista non è solo il buonista; è anche l’antirazzista, il progressista, il catto-comunista, l’umanitarista, il prete arcobaleno, la femminista, insomma tutta quella poltiglia di retorica ed ipocrisia che alimenta una sottocultura che sta mandando in malora la nostra Nazione.

Sia chiara una cosa: il nigeriano e quelli come lui non hanno nulla da spartire con gli stranieri che in Italia vengono a lavorare, che rispettano le leggi e che magari sognano un giorno di diventare cittadini di questo Paese. A loro va il nostro aiuto e la nostra vera amicizia. Mentre al contrario, il nigeriano e il buonista, l’irregolare e il suo complice italiano, il criminale che abusa della nostra libertà e l’idiota che lo legittima e lo fa entrare, rappresentano la feccia di questo Paese. Entrambi vanno messi nella condizione di non nuocere: il primo, il nigeriano, ficcandolo in galera il tempo che occorre e poi rispedendolo a casa sua a calci nel sedere. Il secondo, il buonista, impedendogli democraticamente di continuare a governare questo Paese e a perpetrare i danni fin qui fatti.

Gli immigrati stanno sostituendo gli italiani,  Andrea Pasini, scrive il 6 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un Paese senza ​natalità è uguale ad un paese destinato all’estinzione. ​Gli immigrati intanto sostituiscono gli italiani. Ma la vergogna più assolta e che ​nessun partito politico in corsa per queste elezioni è capace di proporre ​una soluzione concreta per ​porre un argine a ​questa tragica problematica. Sono Andrea Pasini un giovane imprenditore di Trezzano Sul Naviglio e non mi vergogno di dire che grazie all’incompetenza della classe politica italiana il nostro paese tra non molti anni diventare patria di nessuno e il popolo italiano si estinguerà. Il futuro di una Nazione sono i suoi figli, ma in Italia si è smesso di procreare. I dati sono impietosi, per non dire vergognosi. Al primo gennaio 2017 l’Istat parlava chiaro, sì è passati dai 486mila neonati dal 2015 (minimo storico dal 1861 ad oggi) a 474mila nuove nascite. Negli astri delle culle l’oblio della scomparsa. La fecondità per ogni singola donna è di 1,34 figli, portato verso l’alto dalle straniere che toccano punte di 1,95, mentre le italiani si attestano, dati del 2015, a 1,27 figli. La fotografia sulla situazione attuale è molto facile da tratteggiare. I dati sul processo di invecchiamento della popolazione in Italia sono a due poco catastrofici. Al primo gennaio 2017 l’età media dei residenti, secondo l’istituto di statistica, è di 44,9 anni, due decimi in più rispetto al 2016 (corrispondenti a circa due mesi e mezzo) e due anni esatti in più rispetto al 2007. Gli individui di 65 anni e più superano i 13,5 milioni e rappresentano il 22,3% della popolazione totale (11,7 milioni nel 2007, pari al 20,1%). Ma sono soprattutto gli ultranovantenni a registrare un aumento sensibile: al 1 gennaio 2017 sono 727 mila, un numero superiore a quello dei residenti in una grande città come Palermo”. L’Italia, spiace constatarlo, non è un Paese per giovani. Più morti che vivi. Uno scenario alla zombie di Romero, dove la Grande Sostituzione, tema centrale negli scritti di Renaud Camus, diventa una realtà allarmante che i nostri governanti non sanno (o non vogliono) vedere. Una diaspora. Centomila persone in meno nel 2014 nel computo tra nati e deceduti, come se Udine o Piacenza scomparissero in una notte, in un amen. La nostra è una preghiera che però rimane inascoltata. Nascosta in un cassetto, laddove nessuno può sentire il lamento sordo di un popolo caduto nel precipizio della storia. Una guerra combattuta senza armi materiali, ma a colpi di decreti, a colpi di disoccupazione, a colpi di lavoro che non c’è. Questi sono concetti che devono far riflettere. Detto questo come è possibile biasimare le giovani famiglie, impossibilitate a mettere al mondo figli perché altrimenti non riuscirebbero a mantenerli? Uno stipendio da 1000 euro non basta per due persone, figuriamoci se il nucleo familiare si allarga a tre. L’Italia muore, ma non per volontà degli italiani. Il governo, la politica ci uccide giorno dopo giorno, un passo alla volta, con nuove tasse, con nuove leggi che ci distraggono dal nostro presente e annullano il futuro dei nostri figli. Ormai da troppo tempo i soldi degli italiani non vengono investiti e nemmeno redistribuiti ai cittadini. Le politiche sociali stanno conoscendo un’agonia irreversibile. Dove vanno, vi starete chiedendo, tutti questi miliardi di euro? Finiscono per alimentare il sistema clientelare, marcio ed appestato, che mantiene in vita una manciata di politicanti da strapazzo. Colate laviche di danaro sugli stranieri e nulla per chi da millenni occupa questo lembo di terra. Difficile a credersi, ma è così. 1050 euro al mese per ogni immigrato, 480 euro al mese per una pensione sociale e 40 euro al mese per un neonato. Questo è quanto spende lo Stato in termini di Welfare State. Dunque quando parlo di sostituzione di popolo non racconto una favola populista, ma racconto una realtà agghiacciante. Un Paese non può crescere senza soldi. Una coppia non può mettere al mondo dei figli quando non ha abbastanza danaro per fare la spesa. Viviamo in un Paese che garantisce maggiori diritti agli stranieri rispetto ai suoi cittadini. I nostri avversari sono un gruppo di politici che cercano di accaparrarsi voti millantando doti caritatevoli. L’Italia muore e chi la uccide ha lo sguardo fisso verso il mare. Mi viene da sorridere pensando alle dichiarazioni di Boldrini&Co. in campagna elettorale. Prima promotori di un coro unanime a favore degli immigrati, ora redarguiscono Salvini. Perché non si occupano abbastanza degli italiani. Pazzia. Tremenda pazzia. Mentre rischiamo di scomparire nel volgere di qualche generazione. A nessuno sembra importare nulla dell’avvenire italiano. Le proposte dei leader dei partiti, in campo in questa campagna elettorale, sono molteplici, ma non ho ancora sentito proporre un piano preciso e dettagliato che incentivi concretamente la natalità. I nascituri sono la linfa vitale di un Paese sano, incapace di arrendersi ad un destino nefasto, ma che soprattutto non vuole estinguersi. Eppure la politica 2.0 sembra non interessarsene. Ed i parlamentari, capaci solamente di blaterare, devono pensare al domani di un’Italia appesa ad un filo. Tutto questo risulta vergognoso.

Vittorio Feltri il 4 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": chiudiamo le frontiere, o sarà soltanto l'inizio. A forza di condannare il razzismo che non c’era, il razzismo è arrivato, come nel nostro piccolo avevamo previsto. L’accoglienza indiscriminata e continuativa di immigrati, specialmente neri, ha provocato il rigetto. Era ovvio che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato all’invasione degli africani. Gli imbecilli che hanno spalancato le porte agli stranieri sono stati pregati da noi di non esagerare, nel timore che nel breve il casino sarebbe scoppiato. Non ci hanno dato retta, anzi si sono abbandonati a una serie di attacchi nei nostri confronti come se auspicassimo l’esplosione di episodi di violenza contro la gente di colore, verso la quale non nutriamo alcun sentimento negativo. Anzi, facciamo di tutto affinché riceva l’assistenza che merita. Il problema, che abbiamo sempre fatto presente ai fessi del governo e in generale della sinistra acefala di stampo boldriniano, è un altro: l’aumento degli ingressi nel nostro Paese, se non controllato, era fatale che avrebbe acceso la miccia del razzismo. Ciò in effetti è avvenuto nelle Marche come dimostra l’ultimo fatto di cronaca: un cittadino di Macerata, arbitrariamente interprete di una esasperazione diffusa, ha premuto il grilletto a casaccio contro poveri nigeriani incolpevoli, simbolicamente responsabili di aver ridotto l’Italia a ricettacolo di spacciatori di droga e di assassini capaci di uccidere e di fare a pezzi una ragazza indigena di 18 anni. Non possiamo non condannare una simile azione disgustosa; è altrettanto vero che per giudicarla occorre comprenderne il movente. Che è esattamente quello che abbiamo indicato: il sovraffollamento di extracomunitari non viene sopportato dalla massa, che pertanto si ribella anche in forme violente. Nessuno in linea di principio ce l’ha coi signori dalla pelle scura, ma se costoro si impadroniscono delle città e incrementano attività delinquenziali, fatalmente vanno incontro a reazioni da parte di nostri connazionali privi di scrupoli. Non c’è da stupirsi se i neri dilaganti nel ramo della delinquenza incrementano il razzismo, poiché i nostri concittadini si sentono assediati da uomini sconosciuti e pronti a delinquere. I quali non hanno altri mezzi che non siano criminali per sopravvivere in una società che proclama di accogliere chiunque senza poterlo fare. Chiudere le frontiere significa evitare guai, però la nostra politica non è in grado di farlo per mancanza di coraggio e dignità. La fabbrica del razzismo ormai è aperta e tra un po’ ci azzanneremo per le strade: sarà battaglia tra bianchi e neri che non saranno razze, ma sono diversi. Basta guardarli in faccia. Vittorio Feltri

Vuoi una frase da duro? Leggi Plutarco. Nei suoi "Detti memorabili" trionfa l'etica militare degli spartani, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Gli antichi greci li chiamavano apoftegmi, li consideravano il sale della politica e della retorica e amavano raccoglierli. Cosa sono? La parola viene dal verbo apophtheggomai, «enunciare una cosa in forma definitiva», e indica una massima, spesso pronunciata da un personaggio importante e ritenuta così brillante da meritare di essere tramandata e riutilizzata alla bisogna. Erano davvero così efficaci? Winston Churchill ha modellato molti dei suoi discorsi più noti pescando dai repertori della letteratura classica greca e latina. Ora arriva in libreria il meglio del frasario raccolto dal più grande biografo dell'antichità, Plutarco (48 - 127 d.C.). L'autore delle Vite parallele nella sua opera principale aveva sciolto molti di questi memorabilia linguistici nella narrazione delle esistenze dei grandi, da Licurgo ad Antonio. Ma già allora si era accorto che il suo pubblico ne era troppo ghiotto e decise di raccoglierle. Ecco allora spiegata la genesi del volume che ora arriva in libreria, a cura di Carlo Carena: Detti memorabili. Di re e generali, di spartani, di spartane (Einaudi, pagg. 234, euro 28). Mancava sino ad ora un'edizione italiana che separasse e rendesse comodamente fruibili e confrontabili queste schegge raccolte o inventate da Plutarco (del resto solo dall'anno scorso esiste una valida edizione dell'insieme dei Moralia fatta da Bompiani). La prima delle tre raccolte lo storico greco la dedicò direttamente all'imperatore Traiano, in modo che potesse farsi consigliare dai suoi pari, i monarchi precedenti. Ma che si tratti di questa o delle altre due, ciò che aleggia attraverso tutti i testi è il mito di Sparta. I lacedemoni, maschi e femmine, titolati e non, la fanno da padroni. Con accenti e toni non lontanissimi, se ci consentite un paragone molto pop, da quelli di un fumetto fantastorico come 300 (o dell'omonimo film). Plutarco fa della durezza spartana (che pur sapeva eccessiva) strumento didattico, la parte di cultura greca più facilmente cucinabile in salsa romana. Del resto a quale centurione non starebbe simpatico lo spartano Agide? «Gli spartani non vogliono sapere quanti sono i nemici, ma dove sono». E Cleomene? A chi voleva vendergli dei galli pronti a morire combattendo: «No davvero, dammi di quelli che combattono e uccidono». Ad Agesilao (444 - 360 a.C.) poi vengono attribuite frasi che farebbero la fortuna di ogni sceneggiatore hollywoodiano del genere Swords and sandals. Alla domanda fino a dove si estendevano i confini della Laconia rispode, brandendo la lancia: «Fino a dove giunge questa». Il consiglio a uno spartano zoppo che vuole un cavallo per la battaglia? «Non capisci che in guerra non serve chi fugge ma chi resiste». Ma se Plutarco è l'inventore della Sparta che piace al cinema, leggendolo vi accorgerete che molte delle metafore care agli umanisti, compreso il celebre binomio «Golpe et lione» di machiavelliana memoria, sono in realtà farina degli apoftegmi dello storico greco.

Ma gli italiani sono razzisti? Un saggio di Manconi e Resta, scrive il 4 Febbraio 2018 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha firmato il decreto di conferimento a Luigi Manconi dell’incarico di Coordinatore dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), nell’ambito del Dipartimento per le pari opportunità. Lo ha reso noto Palazzo Chigi. Il professor Manconi è docente di Sociologia dei fenomeni politici. Nel corso della XVII Legislatura ha ricoperto il ruolo di presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. L’incarico presso l’UNAR, che il professor Manconi svolgerà a titolo gratuito, avrà inizio a decorrere dal 24 marzo 2018.

Ridotte al rango di una «breve», le tragedie dei migranti nel Mediterraneo non fanno quasi più notizia. Vige la cinica regola del giornalismo: ciò che diventa consueto non merita grandi titoli. Peccato che sia in gioco la nozione stessa di umanità, come non smette di ammonire papa Francesco. Ieri l’ennesimo naufragio di un barcone carico di pachistani al largo delle coste libiche, costato novanta vite, ha aggiornato il macabro calcolo degli esuli deceduti in mare, che beffardamente chiamiamo ancora mare nostrum. Sono duecentoquarantasei nell’ultimo mese, il peggiore dal giugno scorso, il che smentirebbe l’efficacia del «codice di condotta» per le Ong varato dall’Italia nell’agosto 2017 fra aspre polemiche. E sono dodicimila i morti dal 2014 a oggi, stando all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Ginevra. È una strage che può evocare la Shoah. Identica la tentazione di «girare la testa dall’altra parte», ha ricordato la neo-senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Che fine hanno fatto gli «italiani brava gente» di un celebre film?

Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura è il titolo di un recente saggio di Luigi Manconi e Federica Resta (Feltrinelli ed., pagg. 150, euro 15,00). L’impegno politico di Manconi viene da lontano, dal ‘68, e giunge fino al Senato, dove nella legislatura agli sgoccioli è stato presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani. Un impegno coltivato di pari passo con gli studi sociologici (insegna all’Università IULM di Milano). Federica Resta, di origini pugliesi, è un giovane avvocato, dottore di ricerca in Diritto penale e funzionario del Garante per la protezione dei dati personali, autrice di ricerche sull’11 settembre e le Vecchie e nuove schiavitù (Giuffrè, 2008).

L’Italia è dunque un paese razzista? Manconi e Resta rifuggono dalle semplificazioni, tracciando una rotta innanzitutto linguistica e perciò politica. Difatti la posizione perentoria o l’appello tranchant rispondono a «quel fondamento costitutivo di ogni razzismo che è lo stigma generalizzante». Gli Autori se ne tengono alla larga e invitano piuttosto a percorrere e a scandagliare la linea d’ombra, di volta in volta più scura, tra le nostre auto-rappresentazioni o proiezioni freudiane e il dato di realtà che prende pur sempre le mosse dal lessico. Sicché quell’espressione ricorrente in certi talk show, «Non sono razzista, ma», fa emergere proprio nell’avversativa l’autentica opinione di chi parla: l’ostilità verso l’altro o quanto meno l’ipocrisia.

Certo, gli italiani non possono considerarsi razzisti tout court, scrivono Manconi e Resta. Tuttavia, in nome della guasconata «cattivista» alla Calderoli, va scemando rapidamente il «tabù del razzismo». Le responsabilità sono numerose e sfaccettate, per esempio il venir meno delle «grandi agenzie di formazione del senso comune, dalla chiesa cattolica ai partiti politici». Eppure lo scenario della globalizzazione riguarda, volenti o nolenti, i popoli quanto e più delle merci. E i dati sconsigliano le invettive e fanno riflettere: gli stranieri regolari in Italia sono l’8,2 per cento della popolazione e producono 8 punti di Pil (circa 100 miliardi di euro l’anno). Altro che il presunto «buonismo» attaccato dalla Lega di Salvini! Alla luce del calo demografico, avremmo necessità di più stranieri per garantire la produttività del sistema e il pagamento delle pensioni, come dice Tito Boeri, il presidente dell’Inps.

La proposta del libro? Sovvertire il paradigma: «In ciascuno di noi - dichiarate o censurate - covano forme di intolleranza e pulsioni xenofobe. Negarle è vano e controproducente. Forse vale la pena adottare, per contrastarle, una strategia minimale e, per così dire, di riduzione del danno... Rovesciamo quella frase e iniziamo a pensare e a dire: “Io sono (un po’) razzista, ma...”. E quel “ma” significa: voglio capire, voglio sapere». In tal modo, sostengono Manconi e Resta, riusciremo forse a evitare o a contenere la guerra tra gli ultimi (gli immigrati) e i penultimi (gli italiani poveri). Essa infiamma i quartieri più degradati delle nostre città, nell’impotenza della politica e delle élite, in primis della sinistra accusata di essere accogliente perché «se lo può permettere». L’«ideologia del guscio» segnalata dallo storico Aldo Schiavone, cova in nuce, appunto, «nuove» manifestazioni di fascismo e un timor panico incontrollabile che è fra i motivi profondi del declino europeo. Non si può fermare un flusso di umanità, mentre ogni frontiera è una formidabile occasione di rigenerare visioni e caratteri collettivi, mette in gioco chi è al sicuro non meno di chi rischia la vita in mare per attraversarla. È una «metafora dell’esistenza» perché il naufragio coinvolge «lo spettatore» sulla terra ferma, secondo il filosofo tedesco Hans Blumenberg, che prende le mosse dal De rerum natura di Lucrezio in un saggio edito in Italia dal Mulino. D’altronde è arduo concepire una società aperta senza un afflato di generosità. Soprattutto, a proposito di minoranze (le comunità rom e sinti tra le altre), vale il principio per cui «la violazione di un diritto si ripercuote sull’intero sistema dei diritti». Discernere, dare il nome alle cose e alle persone, e alle vittime del mare oltraggiate dall’anonimato... Ecco un impegno contro l’indifferenza, ecco la Politica di ogni giorno.

Macerata assediata dai girotondi antifascisti. Città impaurita e blindata nel giorno del corteo Gentiloni: «Il Ventennio è fuori dalla Costituzione», scrive Massimo Malpica, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale".  Fa più paura un corteo del pistolero Traini. Fa più paura una manifestazione - ora autorizzata - del timore di uno spacciatore che fa a pezzi una ragazza. Macerata si sente sotto assedio. Ma più dei fatti di cronaca che le hanno regalato questa improvvisa e per niente voluta notorietà, a spaventarla è proprio questa attenzione. Di Macerata parla anche il premier Paolo Gentiloni. «Atteggiamenti e discorsi che si rifanno al nazismo e al fascismo - ha detto - sono fuori dalla Costituzione». E in città ci sono giornalisti, telecamere, i politici che sfilano ogni giorno, la polizia e i carabinieri mai così presenti e visibili: tutte cose che la bella cinta muraria cinquecentesca di Macerata non può certo arginare. Proprio intorno alle mura, oggi, sfilerà il corteo antifascista e antirazzista. Prima negato, poi autorizzato. Ci saranno i centro sociali, la Fiom, annunciati pure Gino Strada e Pippo Civati, Sabina Guzzanti e Nicola Fratoianni, l'Arci, Potere al Popolo, rappresentanti dell'Anpi «a titolo personale», Libera e via dicendo. Ci saranno anche maceratesi, ma il grosso della città guarda con diffidenza a cortei e manifestazioni. Di qualsiasi colore. Non certo perché si sente vicina a Traini, o perché approva il tiro a segno all'immigrato andato in scena una settimana fa. Semplicemente vuole voltare pagina. E in molti invece si sentono tirati per la giacca, usati dalla politica per meri fini elettorali. Così oggi la città chiude, nemmeno fosse davvero sotto attacco. Niente scuole, anche se la manifestazione inizierà alle 14. Stop anche ai trasporti pubblici. E persino i negozi del centro, che pure dovrebbe restare fuori dal percorso del serpentone antifascista, dicono di voler lasciare le serrande abbassate, «perché non si sa mai». Ci sono gli allarmisti («rischiamo di fare una Genova», esagera un tabaccaio a due passi da piazza della Libertà), i prudenti («alle 13 si chiude, poi vediamo che succede e decidiamo», spiegano in una boutique del centro) e i nauseati. Come Carla, commessa di un negozio di abbigliamento dai bei soffitti affrescati, che allarga le braccia e sbuffa. «Qui non siamo abituati a 'ste cose. Scontri di piazza, cortei, giornalisti ovunque. La cosa triste è che quello che è successo non conta niente, l'hanno buttata in politica con le elezioni tra meno di un mese e questo mi fa schifo». «Ora - continua - vengono ministri e big politici, la polizia arresta un pusher al giorno e la vita tranquilla è sconvolta. Poi tutto tornerà come prima. Anche i problemi però, perché gli spacciatori ai giardini Diaz ci sono sempre e scommetto che torneranno presto pure loro, appena il circo leverà le tende». Intanto sulle vetrine di molti negozi, ieri, sono apparsi cartelli rossi con la scritta «Peace in Macerata» circondata da un cuore. Un'iniziativa di Paolo, titolare del bar Hab, che pure qualche sassolino dalla scarpa se lo vuole togliere. Perché mercoledì è bastato che il leader di Casapound Simone Di Stefano si fermasse lì a prendere un caffè per etichettare il locale e lo stesso Paolo come «fascisti». Qualcuno ha addirittura postato sulla pagina Facebook del corteo odierno una foto del bar, indicandolo come «il posto che oggi ha ospitato Casapound» e invitando a boicottarlo. «Si è beccato una denuncia alla Digos», ringhia ora il titolare del locale. «Servire un cliente ti fa connotare politicamente? Sono tutti impazziti. Macerata è sacrificata sull'altare di una strumentalizzazione da parte delle forze politiche, tutte affannosamente intente a cavalcare in chiave elettorale gli ultimi fatti di cronaca». «Purtroppo - conclude - questa città è pavida, perché ha la tranquillità nel suo Dna. Altrimenti dovremmo scendere in piazza noi, pretendendo una sola cosa. Rispetto per Macerata».

La manifestazione antifascista di Macerata? L’ultimo chiodo sulla bara della sinistra italiana. Non c’è errore più grande di una manifestazione anti-fascista a Macerata. Un assist clamoroso alla destra securitaria. Ma soprattutto la prova provata che la sinistra non ha capito perché i “penultimi” l'hanno abbandonata. E continua pervicace ad accanirsi su di loro, scrive Francesco Cancellato su "L’Inkiesta” il 9 Febbraio 2018. Fantastico. Con la polemica sulla manifestazione sì o no di sabato prossimo a Macerata, con la presumibile presenza di centri sociali e neofascisti che se le daranno di santa ragione, con le successive dichiarazioni di Salvini e dei suoi antagonisti che terranno banco la settimana successiva, a occhio e croce arriveremo al 4 marzo parlando di immigrazione e ordine pubblico. E chiuderemo questa meravigliosa campagna elettorale a riflettere pensosi sullo smottamento a destra del Paese, a chiederci per l’ennesima volta se il fascismo sia o meno l’autobiografia della nazione, a prometterci di tornare sui territori, da domani, per capire cosa non avevamo capito. Le cose, in realtà, sono molto più semplici di così. C’è stato un doppio caso di cronaca - l’omicidio di Pamela Mastropietro, la caccia al migrante di Luca Traini- che ha fornito a destra e sinistra le prove delle proprie ossessioni: il coinvolgimento di uno spacciatore nigeriano clandestino ha offerto alla destra la prova inconfutabile che la grande invasione degli stranieri è un fenomeno sociale incontrollabile; la folle azione di Luca Traini ha convinto la sinistra che siamo praticamente in Germania, nel 1933. Nessuna delle due ossessioni è vera - né a Macerata, né nel resto del Paese - e nessun numero è in grado di suffragarla. Ma evidentemente siamo in una di quelle fasi della storia di questo Paese in cui la ragione si prende un anno sabbatico. Soprattutto a sinistra, perdonate l’assenza di equidistanza, dove alcuni ancora faticano a capire quanto la manifestazione di sabato sia in realtà uno dei più clamorosi boomerang possibili.

Primo: perché genera problemi di ordine pubblico in una realtà traumatizzata da problemi di ordine pubblico. E indovinate da che parte si vota, quando il problema è l’ordine pubblico. È francamente paradossale vedere i terzultimi che se la prendono coi penultimi perché si accaniscono sugli ultimi, mentre i primi, i secondi e i terzi si godono lo spettacolo alla televisione, sgranocchiando popcorn.

Secondo: perché mostra impietosa la follia di uno schieramento progressista che marcia unito contro il pericolo fascista, ma poi si presenta balcanizzato alle urne, tra tre settimane. Delle due, una, ragazzi: o siamo nell’imminenza di una dittatura, e allora si va tutti assieme a sparare in montagna. Oppure mettete giù il fucile e il fazzoletto rosso e discutiamo tutti insieme di Jobs Act e Buona Scuola. 

Terzo, perché confonde causa ed effetto, perpetrando la teoria che il neofascismo faccia proseliti perché ha visibilità in piazza, o da Mentana, o da Formigli, laddove invece è esattamente il contrario: la visibilità arriva perché il neofascismo fa proseliti nei luoghi - fabbriche, periferie, aree di crisi - che la sinistra ha abbandonato.

Quarto, più importante: perché è francamente paradossale vedere i terzultimi che se la prendono coi penultimi perché si accaniscono sugli ultimi, mentre i primi, i secondi e i terzi si godono lo spettacolo alla televisione, sgranocchiando popcorn. Già: quei penultimi che un tempo, quand'erano ultimi, votavano proprio a sinistra. E che sono stati definiti dei lobotomizzati catodici quando si sono messi a votare Berlusconi, dei razzisti quando hanno barrato il simbolo di Alberto da Giussano, analfabeti funzionali se folgorati dal Movimento Cinque Stelle. Senza che mai si provasse davvero a comprenderne il disagio, senza che mai vi fosse qualcuno che chiedesse conto del loro smarrimento: “La cosa più stupida che possa accadere nei prossimi mesi è una riedizione dell’antifascismo militante, con scaramucce nelle strade e nelle piazze, morti e feriti soprattutto dalla nostra parte. Nei confronti dei miserabili occorre esercitare la pietà, l’ironia terapeutica e la pazienza. Perdona loro perché non sanno quello che fanno. Perdona loro perché sono vittime come le loro stesse vittime”, scrive Franco “Bifo” Berardi, ancora oggi uno dei più radicali e lucidi teorici dell'antagonismo di sinistra, in un articolo intitolato “Antifascismo? No grazie”. E forse non poteva essere detta meglio. Finirà malissimo.

Luca Traini, il suo avvocato attacca la sinistra: "Orlando e Grasso sono venuti qui a fare comizi", scrive il 9 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Poche ore dopo l'arresto di Luca Traini, a Macerata si sono fiondati il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente del Senato Pietro Grasso. Nulla a che fare con la volontà delle istituzioni di essere presenti in un luogo travolto da due terribili fatti di cronaca, la morte atroce della 18enne Pamela Mastropietro e la sparatoria scatenata da Traini. Per Orlando e Grasso l'occasione era troppo ghiotta, in piena campagna elettorale, per non approfittarne. Una strumentalizzazione bella buona, come dice al Tempo l'avvocato del ragazzo, Giancarlo Giulianelli: "Non si può far campagna elettorale sulla pelle di Luca Traini. È gesto che i magistrati si possano esprimere in modo sereno sul mio cliente. Invece - ha aggiunto l'avvocato - l'arrivo in città del ministro della Giustizia e della seconda carica dello Stato, entrambi candidati alle elezioni, potrebbero creare condizionamenti". Il timore dell'avvocato è che Traini sia condannato ben prima che il procedimento a suo carico cominci. I presupposti per renderne il colpevole perfetto in fondo ci sono tutti. Traini è un simpatizzante dell'estrema destra, in casa sua i carabinieri hanno ritrovato libri e bandiere inneggianti al nazismo. Per non parlare del suo aspetto fisico, dal tatuaggio della runa sulla tempia destra, da cui il soprannome "Lupo", al fisico imponente e l'aria da perenne arrabbiato. Per la sinistra insomma è già bastato vederlo in faccia per decidere di gettarlo in cella e buttare le chiavi. Il comportamento del ministro, secondo l'avvocato Giulianelli, si commenta da solo: "Orlando sta facendo comizi elettorale, pur essendo ancora ministro, con un ruolo che dovrebbe essere super partes. Luca Traini deve essere giudicato da giudici di cui lui sovraintende l'organizzazione giudiziaria". L'unica speranza per l'avvocato è che i magistrati maceratesi continuino sereni con il proprio lavoro: "Sono certo comunque che i giudici del Tribunale di Macerata, e gli stessi inquirenti, non si lasceranno influenzare dalla diatriba politica che ha suscitato questo caso".

Sputi, cori e lanci di bottiglie: centri sociali aggrediscono la Meloni. I centri sociali aggrediscono la leader di FdI intonando "Bella Ciao". Lei: "Sono i soliti vigliacchi, volete stare con loro?", scrive Chiara Sarra, Martedì 13/02/2018, su "Il Giornale". Sputi, cori e lanci di bottiglie. Intonando Bella Ciao i centri sociali hanno aggredito Giorgia Meloni, a Livorno per incontrare i commercianti. Il tutto documentato in un video pubblicato su Facebook dalla stessa leader di Fratelli d'Italia e girato mentre le forze dell'ordine la proteggevano dall'assalto. "A Livorno oggi le due Italie che si confrontano il prossimo 4 marzo", ha spiegato poi la Meloni alla stampa, "Da una parte Fratelli d'Italia che parla con i commercianti, con le persone comuni, di sicurezza, di tutela del piccolo commercio, di identità, di marchio italiano. Dall'altra i soliti quattro deficienti dei centri sociali che quattro giorni fa in branco prendevano a calci un brigadiere dei carabinieri mentre era a terra e che oggi vogliono impedire a me di parlare. Scegliete da che parte stare, italiani. Scegliete se stare dalla parte degli antidemocratici o della democrazia e della libertà. Ringrazio il lavoro impagabile delle nostre forze dell'ordine che hanno svolto anche oggi un servizio esemplare per fronteggiare i soliti vigliacchi dei centri sociali che volevano impedirmi di passeggiare e incontrare i commercianti".

Ignazio La Russa umilia sessualmente Cecilia Strada: "Scopate con le comuniste, anche solo per...", scrive il 14 Febbraio 2018 Libero Quotidiano". Una risata li seppellirà, e verrà da destra. Ignazio La Russa umilia Cecilia Strada, figlia del fondatore di Emergency Gino Strada, nell'unico modo possibile: l'ironia. La stellina di sinistra su Facebook aveva invitato a "non scopare con i fascisti, non fateli riprodurre", aggiungendo poi quella che doveva essere un'altra battutina, "anche solo per non dar loro una gioia". E La Russa, fondatore di Fratelli d'Italia, su Twitter ha replicato invitando tutti a scopare "anche con le comuniste! Anche solo per dar loro una gioia che non hanno mai avuto". 

Roberto Saviano sul Guardian: "Il fascismo è tornato, e sta paralizzando l'Italia". Il quotidiano britannico pubblica un editoriale dello scrittore: "I partiti italiani hanno paura di perdere i voti degli xenofobi". Macerata, l'omicidio di Pamela Mastropietro, ma anche il silenzio stampa: "Perché i media hanno difficoltà a definire ciò che succede come un attacco terroristico di ispirazione fascista?" Scrive Katia Riccardi il 13 febbraio 2018 su "La Repubblica". Il fascismo è tornato in Italia, e sta paralizzando il sistema politico. Con il suo stile conciso che non lascia spazio a frasi fatte, titola così il britannico The Guardian l'articolo pubblicato oggi di Roberto Saviano. "Partiti di destra e di sinistra stanno spingendo le persone a non parlare di un incidente in cui sono stati feriti a colpi di arma da fuoco sei immigrati. Hanno paura di alienarsi un elettorato in aumento e sempre più xenofobo". Subito dopo, la foto dell'arresto di Luca Traini, Macerata, 3 febbraio. Guardarsi da fuori è come sentir leggere un libro che si pensa di conoscere. Diverso. Saviano parte dai fatti, li racconta in poche righe. "Macerata, una cittadina della provincia dell'Italia centrale", i colpi sparati "da una Alfa Romeo nera" in movimento. Su Facebook, il sindaco che chiede ai cittadini di restare al riparo, in casa perché "un uomo armato sta sparando". Poi un accenno alla puntata precedente. "Un paio di giorni prima a Macerata, il cadavere, tagliato a pezzi, di una giovane donna, Pamela Mastropietro, trovato in una valigia e uno spacciatore nigeriano, Innocent Oseghale, arrestato per omicidio". Premessa fatta, si torna a Traini. Preso dai carabinieri ancora avvolto nel tricolore italiano. "Sparare agli immigrati, il saluto fascista, il tricolore, cos'altro serve per chiamare ciò che è successo con il suo vero nome?" chiede Saviano. Il suo stupore è rivolto ai media che non hanno il coraggio di usare la parola fascismo. "Perché i media italiani hanno tanta difficoltà a definire quello che è successo come un attacco terroristico di ispirazione fascista? Mi venne subito in mente un tweet che Matteo Salvini, il leader della Lega Nord, il partito xenofobo alleato di Silvio Berlusconi alle prossime elezioni, aveva postato due giorni prima dell'attacco, riferendosi alla morte di Pamela Mastropietro e all'arresto di Oseghale: “Cosa stava ancora facendo questo verme in Italia? [...] La sinistra ha il sangue sulle sue mani". Definisce i media, timidi: "L'atto di un pazzo", le definizioni, "Non parliamo di fascismo", "Mantieni i toni bassi in modo da evitare che siano sfruttati". Pochissimi politici parlano delle vittime dell'attacco perché prendere la parte degli immigrati significa perdere voti. "Solo un piccolo partito, il Potere al popolo, subito dopo l'attacco, ha visitato i feriti in ospedale. Wilson, Jennifer, Gideon, Mahamadou, Festus e Omar sono i loro nomi, tutti molto giovani che cercano di farsi strada in Italia". Tempo di elezioni nel nostro Paese, spiega lo scrittore, "un clima di continue campagne elettorali ha innescato una reazione a catena che nessuno sembra in grado di tenere a bada: l'intera campagna politica è incentrata sul tema dell'immigrazione". Il Guardian sceglie poi una foto di Lugi Di Maio, con la didascalia che spiega come il Movimento 5 Stelle sia pronto a contestare il 4 marzo le prossime elezioni. Guardarsi da fuori. Gli immigrati sono percepiti come la ragione principale della longevità della crisi economica e persino del rischio di attacchi in corso. "Ma se gli italiani hanno paura, ci deve essere una ragione per questo" scrive Saviano. "È quasi una perdita di tempo fornire dati e sottolineare che l'immigrazione non è una crisi, ma un fenomeno che, se gestito responsabilmente e con lungimiranza, siamo in grado di controllare". La sua resta una battaglia contro una coda che continua a mordersi. "Più parlo di migranti, più sono accusato di incoraggiare l'odio verso di loro. È una specie di logica back-to-front: come è possibile, mi chiedo, che se racconto quello che sta accadendo in Libia nei centri di detenzione, se parlo della macchina del fango contro le ONG che operano nel Mediterraneo, ottengo l'effetto contrario di ciò che sto cercando di fare?" Non si salva nessuno, destra, sinistra, nessuno. "Dopo l'attacco, è successo qualcosa che in Europa finora non ha precedenti: Matteo Renzi, segretario del Pd e Luigi Di Maio, leader del M5S, hanno invitato tutti a tacere sugli eventi. Perché? Per non perdere i voti dell'elettorato xenofobo: questa è la loro paura, la conseguenza di un sistema politico ormai vacuo". Vuoto, spaventato e utilitarista.

Di Vaio: «Saviano cattivo maestro? No, ma parla solo alla borghesia reazionaria». Gaetano Di Vaio oggi è produttore cinematografico di successo, un successo raggiunto passando per l’inferno della povertà e del carcere, scrive Simona Musco il 13 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «Se i giovani sono violenti è perché soffrono la mancanza di affettività. I ragazzini più deboli diventano meteore impazzite, sui quali nessuno vuole avere controllo, salvo quando aggrediscono in maniera così lampante». Gaetano Di Vaio oggi è produttore cinematografico di successo, un successo raggiunto passando per l’inferno della povertà e del carcere. Fino alla rinascita, a Poggioreale, grazie ad un incontro che gli ha aperto le porte su un mondo nuovo e prima sconosciuto. Nasce da qui il suo sguardo lucido, una lente di ingrandimento sui fenomeni sociali e sulla violenza che serpeggia tra i più giovani, destabilizzati dai modelli negativi «propinati dalla politica». La società, racconta al Dubbio, «è incapace di interagire con quei ragazzi».

Parliamo di baby gang: come se le spiega?

«È un fenomeno trasversale, che colpisce ovunque e qualsiasi ceto sociale, anche se Napoli attira di più i media. Il problema è la rete sociale: quando salta, in un momento in cui i media e i social diventano più selvaggi, i ragazzi più deboli e senza strumenti diventano meteore impazzite, di cui a nessuno importa, tranne quando succedono cose eclatanti. Dove c’è maggiore disagio sociale e familiare ti ritrovi in questo tipo di situazione».

Si dà la colpa a modelli considerati negativi, come la serie “Gomorra”. Quanto c’è di vero in questa analisi?

«L’efferatezza che vedo in questi ragazzini nasce ben prima della serie. Chi si giustifica così non vuole evidentemente assumersi responsabilità. Il vero problema sta nei modelli totalmente devianti che vengono diffusi. La realtà è molto più cruda di Gomorra e mi preoccupano di più cose come “Uomini e donne”, perché viene inculcato il culto dell’apparire. Ho a che fare con i ragazzi tutti i giorni e usano le frasi del film in modo ironico. Volete censurarlo? Prima eliminate ciò che è diseducativo».

Si riferisce alla politica?

«Certo, il Governo è come un padre di famiglia. Se la politica non comunica con i ragazzi è un disastro. I giovani di oggi non hanno un modello positivo, i politici che sentono parlare in televisione trasmettono tutto tranne che valori positivi. Non è che i ragazzi sono degli imbecilli. Anche lo stesso Saviano, che fa il divo anticamorra, non parla al loro cuore ma al cervello di una borghesia reazionaria. Ma è a loro che dobbiamo parlare e a chi ha voglia di cambiare le cose. Io ero un suo grande sostenitore ma ormai mi scoccio a sentirlo parlare. Per come si pone, perché lui poteva essere un faro e non lo è».

Il mondo della comunicazione e la scuola hanno delle responsabilità?

«Basta vedere i servizi sulle baby gang: è terrorismo, non si può utilizzare bambini così piccoli in quel modo, facendoli parlare e sentire così più esaltati quando si rivedono “coraggiosi” a casa in tv. Quando vedi Gomorra tu sai che è finzione a tutti gli effetti, quando vedi quel tipo di servizio tu sai che è realtà. È un’aggressione mediatica, più grave di quella fisica. La scuola poi non è in grado di stare dietro ai fenomeni, anzi li genera pure, perché tende ad allontanare questi ragazzi anziché accoglierli. Così nascono i complessi. I ragazzi più disagiati sono messi ai margini, sono respinti. Loro lo avvertono e trasformano tutto questo in aggressività. Le vere gang sono gli adulti, non i bambini».

Parliamo della sua storia: com’è finito in carcere e come ne è uscito?

«Quello che mi ha portato in prigione da bambino è stata la povertà. I primi sette anni della mia vita sono stato quasi sempre lontano dalla mia famiglia: erano poveri e pensavano che dentro un istituto avrei potuto studiare. Invece lì dentro, 400 bambini per istituto, tutti poveri, subivamo violenze. Non ci stavo bene e così scappavo. Dormivo per strada e per vivere ho cominciato a rubare. La prima volta in carcere è stata invece a 17 anni, per un furto d’auto. Ci sono rimasto tre mesi. Dentro facevamo delle attività, io mi ero molto fissato con l’informatica e speravo di poter approfondire fuori ma una volta uscito tornavi ad essere solo. Non avevo riferimenti e così, una volta fuori, sono andato al tribunale dei minori, chiedendo aiuto. Ma i servizi sociali mi dissero che non ero più di loro competenza. Mi sono detto: ma com’è, nun ce sta’ speranza, allora? Vidi il buio ed è una cosa che non posso dimenticare».

Quindi tornò sulla strada.

«Divenni il leader di una piazza di spaccio, facevo rapine, furti. Tornai in carcere e passai 3 anni e 5 mesi in prigione, poi altri 3 in affidamento in prova ai servizi sociali».

Cosa cambiò la sua vita?

«Un incontro a Poggioreale con un detenuto, avevo 23 anni. Era innocente e stava sempre in disparte, a leggere. Io avevo la quinta elementare, non avevo studiato ma lui mi incuriosiva. Nacque un grande rapporto di amicizia che mi ha fornito degli strumenti culturali che una volta uscito si sono rivelati fondamentali per affrontare la realtà quotidiana a Scampia. Credo di aver retto il carcere proprio per quell’incontro, così come ha aiutato questa persona a sopportare la galera da innocente. È costata tanta fatica ma è andata bene. Poi ho incontrato l’arte e tutto è cambiato».

La soluzione sta nella cultura quindi?

«Se hai strumenti culturali anche da povero puoi liberarti di una situazione che è prima di tutto mentale e poi diventa in materiale. Spesso però la povertà non c’entra, c’è la solitudine. Non serve per forza il papà in prigione, c’è un disagio enorme che i ragazzi riescono ad esprimere in gruppo. Aggrediscono per esistere».

Qual è la soluzione?

«Serve giustizia sociale. Ma soprattutto, è importante che i governi tornino ad un modello educativo positivo, cancellando la pornografia del consumo. Questo è il telefilm più spaventoso».

Saviano è un disco rotto, al Guardian: “Il fascismo è tornato”, scrive il 13 febbraio 2018 Vittoria Fiore su Primato Nazionale. Roberto Saviano è ormai un generatore compulsivo di banalità. Oscillante tra il piacione che lancia occhiate libidinose alle sue telespettatrici radical chic e la vecchia zia che lancia allarmi surreali, lo scrittore napoletano non perde occasione per replicare all’infinito il verbo dominante. L’ultima perla in ordine di tempo ce l’ha regalata dalle colonne del Guardian, il noto quotidiano britannico. Titolo: Il fascismo è tornato e sta paralizzando il sistema politico italiano. Si tratta in sostanza di un’invettiva contro una presunta congiura del silenzio sui fatti di Macerata. Ovviamente il prode Saviano non si riferisce all’assassinio e allo squartamento con rituale mafioso di Pamela Mastropietro. Nossignore, il newyorchese Saviano parla dei sei immigrati feriti da Luca Traini. Si badi che l’articolo è stato pubblicato dopo che si era appena svolta nel capoluogo marchigiano la “manifestazione antirazzista” indetta da alcuni gruppi di antifascisti, con tanto di codazzo di sedicenti intellettuali e politici al seguito, tra cui la presidente della Camera Laura Boldrini, ossia la terza Carica dello Stato. Ma, al di là di questo, Saviano non gradisce che non si sia parlato di “fascismo”. Secondo la sua tesi sopraffina, «un clima di continue campagne elettorali ha innescato una reazione a catena che nessuno sembra in grado di tenere a bada: l’intera campagna politica è incentrata sul tema dell’immigrazione». Politici e media, dunque, avrebbero timore a definire “fascista” Traini perché, così facendo, perderebbero il consenso di una popolazione (quella autoctona) che sarebbe diventata essa stessa “xenofoba”, anzi “fascista”. Ma all’«antitaliano» Saviano, sempre pronto a rampognare il popolaccio sporco e razzista, non è proprio venuto in mente che, se l’immigrazione è diventata argomento principale di discussione, forse è perché qualche problema, questa immigrazione di massa, l’ha effettivamente creato? Certo, in questo caso bisognerebbe fare un’analisi un attimo più approfondita. Ma sarebbe quel genere di analisi che non troverebbe spazio sulle pagine patinate del Guardian. Quindi, tanto vale continuare a savianeggiare, ossia lanciare a random appelli contro la rinascita del fascismo. Hai visto mai che, per una volta, ci azzecca. Vittoria Fiore

La sinistra strombazza un fascismo di ritorno e non conosce la lezione dell’intellettuale Pier Paolo Pasolini, scrive Carlo Franza il 13 febbraio 2018 su "Il Giornale". Il rabbioso antifascismo esploso a Macerata, presentato con striscioni, ma manifestato anche  verbalmente  e materialmente, e la  vergognosa caccia-assalto  ai Carabinieri a cui abbiamo assistito  con il pestaggio di  uno a quattrocento, nelle immagini trasmesse in tutta Italia,  la dice lunga su questo Stato che  Renzi, Delrio, Gentiloni, la Boldrini, Cecile Kyenge,  il Fiano della  risibile legge contro il Fascismo  e compagni  di “o bella ciao” vanno presentando  come assalito dal “nuovo fascismo”. La sinistra -oggi è piuttosto un fantasma-  si reinventa il fascismo, non avendo più materia per il suo programma, diversamente non avrebbe più propositi oggettivi per intervenire e imbonire il popolino. Il quotidiano La Repubblica ha aperto ieri-l’altro la prima pagina con l’apocalittico annuncio del ministro Delrio: “Il fascismo è tornato, la politica non può più tacere”. Di questo signor Ministro in tempi passati Sindaco di Reggio Emilia, me ne ha fatto un quadro singolare e chiarissimo Don Franco Ranza - amico fraterno e compagno di studi in anni lontani - parroco delle centralissime parrocchie di S. Francesco e S. Nicolò a Reggio Emilia.   Ma sa Delrio che il fascismo è finito 70 anni fa? La cosa che semmai preoccupa gli italiani è avere un governo fatto di ministri come Delrio, che essendo Ministro dei Trasporti, avrebbe dovuto casomai occuparsi della situazione in cui versano le autostrade (vedi il salato rincaro delle loro tariffe) e le Ferrovie dello Stato e del fatto che i treni di Italo sono appena finiti in mano straniera; invece Delrio è noto solo per il suo ridicolo sciopero della fame per lo Ius soli. Questa è la vera tragedia. Il fascio è morto e sepolto, ma lo sfascio prodotto dal PD e da questa classe dirigente sta travolgendo il Paese. Mi fermo qui, le elezioni sono alle porte, gli italiani non devono lasciarsi ingannare da questi incantatori di serpenti con promesse che non saranno mai saldate. Renzi e compagni sono da mettere in cantina ben inscatolati.  Desidero chiudere con un pensiero di Pierpaolo Pasolini in un dialogo con Alberto Moravia nel 1973 (entrambi gli autori avevano ben vissuto Ventennio e guerra mondiale): “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda.”. Ecco, una lettura vera della storia che dovrebbe essere recepita da questi politicanti da quattro soldi che parlano a vanvera di fascismo e antifascismo, ad uso a loro conveniente. Ma statene sicuri, perché il 4 marzo 2018 gli italiani torneranno a riaprire porte e finestre, inizia la primavera. Carlo Franza  

Caro lettore di sinistra…, scrive Augusto Bassi il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale". Inserisco come articolo la risposta che ho dato questa notte all’amico e lettore di sinistra Damiano, il quale, legittimamente, trovava la storia di ieri un poco assurda. Caro Damiano, vorrei tanto che la mia fosse solo una suggestione letteraria con qualche vuoto di sceneggiatura. Al contrario, è una posizione troppo meditata per darmi grosse speranze di errore. Dalle opere di Horkheimer e Adorno (che mi sono permesso di inserire subliminalmente in alcuni passaggi di quel testo), all’Uomo a una dimensione di Marcuse, passando all’Italia attraverso Pasolini, gli studi gramsciani fino a Bagnai e Fusaro… si rileva come il pensiero da sinistra abbia intercettato lucidamente il nemico. E il nemico, post grandi narrazioni ma ancor più totalitario, ha sempre la stessa radice, benché venga chiamato con nomi diversi, talvolta confondendo il soggetto con i suoi mezzi: capitalismo avanzato, dominio, industria culturale, società dei consumi, pensiero unico, globalismo, mondializzazione, plutocrazia egualitaria, finanzocrazia. Semplifico, sapendola uomo di cultura. Se prima la supremazia si esercitava governando il mito, poi attraverso la divinità (l’Islam può ancora farlo), quindi con i grandi ideali (la Patria, la Rivoluzione), nell’Occidente secolarizzato e post-ideologico (espressione ironica, va da sé) si esercita con la forza persuasiva del capitale al servizio di se stesso. Le masse non sono composte da cittadini, ma da zombi… perché il dominio, anziché adattarsi ai bisogni e ai valori degli elettori democratici, li inventa. Li inculca. E’ fondato sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi, come le manifestazione paciaiole oppure i black friday rappresentano eloquentemente. E ne riutilizza la prassi attraverso tutti i medium di cui dispone (cinema, tv, stampa, web, smartphone), innestando la nuova ideologia. Il linguaggio appiattito e comprensibile a tutti ma con improvvise ingiunzioni oscure e dogmatiche («spaventano i mercati», «pericolo spread», «fiscal compact», «ce lo chiede l’Europa»), apparentemente necessarie e ineluttabili («la globalizzazione è inarrestabile»), i valori semplici eppure seducenti, capaci di creare rapida intesa, tranquillizzano le coscienze e solleticano la vanità di appartenenza (le persone civili, sofisticate, cool, votano a sinistra). Il loro prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli inesistenti. E i cittadini democratici diventano morti viventi. Se lei osserva e ascolta la macchina culturale politicamente corretta, che è globale, da New York a Parigi fino a Macerata… noterà che ha sempre il tono della strega che intende ammaliare il bambino mentre lo avvelena: «Buona la minestrina? Ti piace tanto la minestrina! Ti farà tanto bene, tanto bene». Ma caliamo il tutto in propaganda politica. Alla fine delle grandi narrazioni la sinistra ha tradito il popolo e venduto l’anima al capitale. E il capitale ha capito che per dominare le masse era utile servirsi di valori che fingessero di tutelarle. Così si arriva, mutatis mutandis, al «abbiamo una banca!» di Fassino. Il vecchio sentimento di invidia sociale dell’ex comunista ha trovato ristoro nel danaro, mentre l’epica plutocratica, già paventata da Mussolini, ironicamente, ha trovato nei valori della sinistra sociale la sua maschera ideale. Per cui i Pd di questo mondo attirano voti fingendosi dalla parte degli ultimi, e mentre lo fanno servono i primi e si arricchiscono; perché questo meccanismo funziona allo stesso modo per i democratici americani o per i marciatori di Macron in Francia. Da Fassino-Bersani a Renzi-Leopolda c’è solo una mutazione antropologica per rendere lo strumento più adatto ai tempi, più potabile per i nuovi elettori (con una lotta intestina fra resistenze e rampantismi). Le élite dell’industria culturale (Hollywood come Favino fino al Vaticano di Francesco) ripetono, ritualmente, consapevolmente o meno, l’incantesimo di questo inganno… e gli zombi si commuovono per poi marciare. Un incantesimo che ha le sue ferali formulette, fra le quali l’antifascismo appunto. Quest’ultimo oggi non è sbandierato da chi sa che cosa fu il fascismo; perché chi lo sa è consapevole del suo decesso. Ma da chi lo rivendica per posa o per poter esercitare violenza dalla parte della ragione “autorizzata”, in una necrofilia esplicita verso quella violenza che non c’è più. Per questi ultimi vale la frase di Flaiano: esistono due tipi di fascisti, quelli comunemente intesi e gli antifascisti. Mentre chi si lascia piegare dall’influsso delle altre formule magiche, quelle dell’egualitarismo, dell’accoglienza, dell’amore per il diverso purché esotico, dal profugo al ristorantino etnico, lo fa con la stolta ingenuità di cui parlava Gramsci. Che porta noi tutti alla sciagura. Un mondo dove L’1% della popolazione possiede una ricchezza pari a quella del restante 99% e dove quello stesso 1% persuade la classe media planetaria che i disperati della terra vanno aiutati qui da noi. E quella classe media se ne convince senza chiedersi chi pagherà il prezzo. Quindi tutta questa impalcatura va oltre il bieco-opportunismo elettorale a termine che citava lei ed è piuttosto una sinistra macchina elettorale totalizzante e sempre in funzione, che plagia, soggioga, irretisce prima ancora che la coscienza della falsità emerga. E arriva a plagiare alcuni fra gli stessi aguzzini, come nel caso della Boldrini. Quando dichiara… «abitiamo un mondo globale, in cui circolano liberamente i capitali, le merci e le informazioni. I migranti sono l’elemento umano della globalizzazione, l’avanguardia del mondo futuro»… senza rendersene conto sta già trattando gli uomini come cose. E senza saperlo è messaggera e carceriera (al femminile) di un nuovo sfruttamento. La vita non vive. Proprio come nel nazifascismo e nello stalinismo. Se là si esisteva nei campi di concentramento o nei gulag, qui si viene deportati in un sonno ipnotico di schiavitù a deambulare per la pace, per l’antifascismo, per i diritti delle donne, degli omosessuali, degli irredentisti bengalesi… come fosse un nutrimento per la libertà quando è invece la minestrina della strega. Ma se c’è qualcosa che può ridestare le coscienze cadute in stato di ecoprassia… è la disperazione. Quanto a Berlusconi (che pure ha i suoi zombi nell’armadio), sventolava lo spauracchio rosso, sì… ed era una banalizzazione. Ma con concetti di senso comune come “cuore a sinistra, portafoglio a destra”, grossolanamente, semplicisticamente, indicava proprio questa commistione fra ex comunisti e nuovi capitalisti, la contraddizione in termini fra difesa del proletariato e turboliberismo. Additava i De Benedetti. Che degli zombi sono sempre stati gli animatori culturali. Da sincero uomo di sinistra, spero che ora le sembri tutto ancor più assurdo.

Dalle Foibe al Carabiniere aggredito, la follia dell’antifascismo non conosce limiti, scrive Andrea Pasini il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un sabato (anti) italiano. Pensate. Risulta sempre curioso osservare “pacifici” manifestanti, così come vengono descritti dai media coccola centri (a)sociali, muoversi con bastoni, passamontagna e cieca violenza contro i Carabinieri, in tenuta antisommossa, lo scorso fine settimana in quel di Piacenza. Indisturbati difensori del globalismo marciano tra le strade d’Italia, figli di un culto politico che vuole annientare questo Paese facendolo bruciare tra le fiamme del politicamente corretto. Il tutto mentre un difensore dello Stato, un brigadiere appartenente all’Arma dei Carabinieri, viene abbandonato al suo destino fatto di calci e pugni elargiti, senza parsimonia, dagli antifascisti che hanno sfilato per le vie de la Primogenita. Con quale motivazione? Per protestare contro l’apertura, avvenuta sabato 3 febbraio, della sede cittadina di CasaPound. Rossi, ma di vergogna. Immagini planate in mondovisione, che rimbalzano da un lato all’altro del globo, e mostrano una Nazione senza polso, allo sbando, che lascia un suo indefesso servitore nelle mani dei traditori della Patria. E lo lascia, abbandonando ognuno di noi, davanti ad un destino nefasto con 40 giorni di prognosi ed una spalla fratturata. Con la consapevolezza di aver assistito ad una tragedia, fortunatamente, sfiorata. Altrettanto curioso è vedere in azione, sempre loro gli antifascisti della porta accanto, a Torino armati, pacificamente sia chiaro, di sassi, bottiglie e chi più ne ha più ne metta da scagliare contro gli agenti di Polizia. La sinistra, nel frattempo, non prende le distanze, canta “ma che belle le Foibe da Trieste in giù”, proprio nel giorno del ricordo dei Martiri italiani infoibati dall’odio comunista. Impuniti ed arroganti, si vogliono fregiare del diritto di elargire patenti di democrazia, quando sono loro ad essere gli unici non democratici all’interno del panorama politico. Oppure, continuando a scavare nell’ambito delle curiosità, fa sorridere sentire i paladini di pace e di solidarietà, nella manifestazione di Macerata gremita di “indignati”, forse senza specchi in casa per osservare attentamente l’unica indegnità di questa Italia, pronti a ribellarsi contro Fascismo e razzismo, ma sempre propensi a lanciare un canto, quello citato nello scorso paragrafo, per irridere una pagina nera del panorama storico tricolore. Chi è ammantato dalla vergogna scagli la prima pietra. Le pietre dei cortei antifascisti. Una situazione rivoltante, che non sarebbe dovuta accadere. Perché, per chi se lo fosse dimenticato, il dramma delle Foibe colpì centinaia di migliaia, tra morti ed esuli, macchiando indelebilmente le pagine di quei giorni. Un fardello che il 10 febbraio viene ricordato, nel 2004 venne istituita la Giornata del ricordo, ma che trova il modo di dividere e far indignare la sinistra. Sinistra che sputa sulla bandiera tracciando una linea sottile di divisione tra defunti di serie A e defunti di serie B. Negli occhi i nostri connazionali fuggiti dall’Istria, dalla Dalmazia e da Fiume che lasciarono alle loro spalle la vita, per cercarne un’altra. Tutto per mano e volontà del Maresciallo Tito. L’Italia non li volle, rifiutò quei suoi figli per un netto contrasto con la propria coscienza. Una diaspora da quelle terre verso il mondo. Con l’accusa di essere semplicemente italiani. Stiamo assistendo ad una strumentale paura del ritorno del Fascismo. Fenomeno politico morto 70 anni fa, ma che per mascherare le malefatte della sinistra viene mantenuto in vita artificiosamente. Quindi se il Fascismo è morto, perché si continua a parlare di un suo possibile nuovo avvento? Per mascherare l’inettitudine della politiche attuale.

Perché la sinistra mette sotto accusa movimenti come Forza Nuova o CasaPound? Ricordiamolo ai democratici, forze politiche presenti in cabina elettorale. Forze politiche, soprattutto CasaPound, che raccolgono voti e consensi e che potrebbero, se sostenute concretamente dagli elettori, sedere in Parlamento? La risposta è molto semplice. Il Fascismo rappresenta, da esattamente 73 anni, la coperta di Linus delle sinistre. Trapunta che serve a mascherare la mancanza di progettualità politica, di argomenti, di interessi nazionali. I “democratici” non vogliono che si parli dell’assenza di risposte concrete, date agli italiani, durante l’ultima legislatura. La peggiore di sempre. Nulla di fatto sia per quanto riguarda l’immigrazione che per la povertà. Ma non finisce qui, basta osservare il sistema della banche e le migliori imprese tricolori svendute ad acquirenti esteri. Aldilà delle rispettive posizioni ideologiche è inquietante che si continui a parlare di Fascismo. E questo solo per il fatto che un delinquente, Luca Traini, ha scatenato in quel di Macerata la sua rabbia contro inermi vittime. L’assurdità è queste accuse vengono utilizzate per mascherare l’orrendo omicidio di Pamela Mastropietro, assassinata barbaramente da un gruppo di nigeriani dediti allo spaccio ed al voodoo. Dobbiamo dire basta a queste strumentalizzazioni, rivolgere lo sguardo al 2018 e indicare i colpevoli del folle business dell’immigrazione. Il rischio tangibile non è il ritorno delle camice nere o del razzismo. Il vero pericolo sta nella diffusione della paura, veicolo portato in grembo da una sinistra resasi conto che, questa volta, potrebbe perdere gran parte del suo consenso elettorale. 

Caro antifascista…, scrive Giampaolo Rossi il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale".

NÈ ODIO, NÈ DISPREZZO. Caro antifascista del 2000 che inneggi a Tito e prendi per il culo le donne e i bambini infoibati, io non ti odio; perché l’odio è un sentimento nobile, è un “liquore prezioso” come scrisse Baudelaire, “e bisogna esserne avari”. Quindi conservo questo nettare distillato del mio cuore a chi ha la dignità di essere un mio nemico, a chi vale tanto quanto me. E in fondo, caro antifascista, nemmeno ti disprezzo perché “nel disprezzo c’è un’invidia segreta” come diceva Paul Valéry: “vi consolate col disprezzo la felicità che non avete, la libertà che non vi concedete, il coraggio che vi manca”. E quando ti vedo insieme ai tuoi eroici compagni pestare in 10 un uomo a terra, colpevole di difendere la dignità di questo Paese, mi rendo conto che non ho proprio nulla da invidiarti: né la felicità che il tuo pavido cuore non conosce, né una libertà che tu, servo, non sai rispettare, né un coraggio che non puoi avere perché tutta la tua storia è senza coraggio. Ah, se solo avessi letto una sola volta in vita tua Pasolini, comunista e antifascista, libero uomo perseguitato da una destra intollerante e da una sinistra conformista; lui, nella carne della sua diversità, aveva compreso il male insito nella tua essenza distruttiva e in quella ipocrisia che alimenta la tua violenza, già in quel 1968 da cui tu sei nato: “Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono i figli dei poveri”. Incise nella pietra, queste parole rimangono l’evocazione incancellabile di ciò che tu rappresenti nella storia di questo Paese. Ieri come oggi.

CARO ANTIFASCISTA TI RINGRAZIO. E allora, caro antifascista del 2000, non odiandoti e non disprezzandoti, sento in cuor mio di ringraziarti. E lo dico con stupore: io ti ringrazio. Ti ringrazio perché tu mostri ciò che io potrei diventare se dovessi cedere all’ignoranza, alla violenza, all’intolleranza, alla paura di leggere la complessità del mondo; insomma, se dovessi diventare come te. Sei un continuo monito affinché io uccida il demone che alberga in ogni natura umana: il demone della superbia e della spudorata pretesa di ritenersi sempre dalla parte del giusto. Perché ogni volta che vedo la tua rabbia scaricarsi nelle piazze cariche di odio, nelle parole dei tuoi intellettuali vigliacchi, nei gesti dei tuoi politici ignoranti; ogni volta che vedo l’ipocrisia pelosa del tuo falso umanitarismo, della tua infida tolleranza, mi rendo conto di ciò che io non devo e non voglio mai essere.

NO, NON SIAMO UGUALI. Anche in questi giorni hai mostrato te stesso e per questo ti ringrazio. Hai deciso di inscenare le tue manifestazioni antirazziste ipocrite e antifasciste fuori tempo storico, nel Giorno del Ricordo; quel 10 Febbraio in cui questa Nazione dovrebbe fermarsi a ricordare le migliaia di vittime italiane uccise e martirizzate da assassini comunisti slavi, protetti da vigliacchi comunisti italiani. Perché una nazione senza memoria è una nazione senza futuro. E lo hai fatto apposta proprio per evitare che si parlasse delle Foibe, delle complicità di quella mattanza disumana; affinché si nascondesse nell’oblìo delle tue grida di piazza, quello che l’Unità scriveva in quegli anni: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città”.

Quando la sinistra cacciava dalle città i profughi istriano-dalmati (donne e bambini non spacciatori nigeriani); quando sequestrava loro il cibo e l’acqua o picchettava i porti dell’Adriatico e le stazioni delle città italiane per impedire ai piroscafi e ai treni carichi dei nostri connazionali di riparare in Italia; perché erano testimoni scomodi di quel mondo di orrore che i tuoi padri difendevano e volevano replicare da noi. Hai fatto di tutto perché nel Giorno del Ricordo, non si ricordasse. E in fondo ce l’hai fatta. Hai vinto tu. Ma nonostante questo io ti ringrazio ugualmente perché per l’ennesima volta mi hai mostrato il volto di una verità negata dal mondo: e cioè che gli uomini non sono uguali. Tu non sei uguale a me. Io non sono uguale a te. Come scrisse Ernst Jünger cantore del vero Ribelle: “gli uomini sono fratelli ma non uguali”. Forse ci rende fratelli la natura. Di sicuro ci rende diseguali l’anima. La mia, io la custodisco gelosamente nella pienezza di una libertà che mi spinge a riconoscere dignità al mio nemico, ad onorare i suoi morti, a rispettare i suoi dolori e la sua storia. La tua, l’hai venduta al mercato della tua vigliaccheria. No, io e te, caro antifascista del 2000 fuori tempo massimo, non siamo uguali; e ti ringrazio proprio perché la tua stupidità mi ricorda continuamente questa grandiosa verità.

10 Carabinieri costretti a scappare contro 400 schifosi delinquenti. L’immagine della fine di uno Stato indegno, scrive Emanuele Ricucci l'11 febbraio 2018 su "Il Giornale". Perdonate lo sfogo. Che grande schifo. Ricorderemo questo 10 febbraio come un chiodo arrugginito che va a chiudere la bara d’Italia. Il mio Paese mi fa male.

Da Pastrengo, a Macerata. Dalla carica a cavallo, ai dieci Carabinieri contro i 400 delinquenti. E qui, in questa assurda favoletta nel quinto anno dell’Era della tolleranza, in questa immagine, prima di tutto, prima di ogni rinnovata considerazione sui centri sociali, sull’antifascismo militante, ormai assurto al livello superiore di montagna di merda, sul silenzio contraddittorio della sinistra che blatera di moralità a targhe alterne, sul PD che ha creato ad arte uno scenario di contrapposizione civile surreale, confermato dal suo non esprimersi, rispolverando i fantasmi del passato per distrarre dal presente, divide et impera, su una frantumazione di un popolo adolescente, mai stato veramente tale, prima di ogni altra analisi, in questa immagine sta la fine epica, etica ed estetica dello Stato. In quei 10 Carabinieri costretti a scappare di fronte a 400 bimbi viziati, figli di babbo, delinquenti. Scarto ed insulto di una generazione che farà fallire la continuità della gente d’Italia. Già indebolita dalla propria cocente mediocrità di provincia. Truccata male, vestita peggio, mai nata, mai risorta. Abortita alla messa la domenica. Tra una preghiera, un gossip, due bei baffi neri, un pregiudizio sul vicino, un compito da fare per pulirsi la coscienza di bravo cittadino e un piatto di spaghetti all’acido.

E allora viene da chiedersi, senza mezzi termini: lo Stato, cazzo, dov’è? Autorizzare un corteo zeppo di rancore gratuito, ben noto, di clandestini e di “bandiere” dell’Anpi, in un giorno di memoria nazionale, istituito per Legge, nel Giorno del Ricordo, in una città ancora in lacrime, in cui una ragazza è stata ammazzata e fatta a pezzi da un clandestino. Una manifestazione per la tolleranza che canta contro i morti infoibati dei cori da stadio. A strafottersene di quanto buia e profonda sia la foiba della coscienza.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando i propri figli si dividono il quartiere in una misera guerra tra poveracci. Corvi che beccano i resti. E su qualche brandello si ammazzano. In nome di un problema inesistente: il fascismo. Il fascismo. Il fascismo. Vomito.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Lo Stato che non è più padre, non è più confine. Né fine. Se non servitù della sovranazionalità. Non è garante, ne equilibrio delle forze sociali. Non è primus inter pares. È una paresi. E una parentesi, assieme.

Lo Stato, cazzo, dov’era? Quando ha lasciato dieci Carabinieri a prendere le botte, senza neanche qualche lacrimogeno. Così da poter disperdere quella mandria di maiali. Che per tutta risposta si avventano su uno di loro, che cade, e lo pestano tutti insieme. Niente lacrimogeni, in sotto numero. Ma perché?

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando si tratta di applicare la legge. E di pensarne una nuova, se necessario, per garantire la serenità dei cittadini e la dignità della propria stessa essenza. Come la Legge Cossiga, come la Legge Reale. Dov’è l’inasprimento delle pene per la sovversione, per il vandalismo e la violenza politica di grave entità? Dov’è il suo pugno duro? Dove sono le sue palle di marmo? Dove sono i provvedimenti contro le scorribande dell’estrema sinistra, contro i centri sociali? Leggi “speciali” impossibili da realizzare nell’epoca che vuole discolparsi da tutto, evitando, per incompetenza e vigliaccheria, di assumersi responsabilità.

E allora come può essere Stato? Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando si tratta di bilanciare i significati, di prendere per mano la propria gente e condurla nella lucidità del confronto democratico. Dove? Quando si tratta di garantire un pareggio nella battaglia semantica che si sta combattendo. Secondo cui, se manifesti contro le discriminazioni, non vai insultando i morti. Se manifesti per la pace, e contro il fascismo, non vai a tirare mazzate ai Carabinieri. Se vai a manifestare per l’evoluzione di modernità di un Paese, per il progresso, non vai a ripescare i fascisti con tutti i treni in orario, i balilla e l’obelisco del Foro Italico. E se ti senti di sinistra, e sai che gli italiani in condizione di povertà che piangono di nascosto dai figli sono milioni, non ti senti anche un po’ stronzo a pensare che il tuo unico obiettivo è prendertela con chi gli porta la spesa in periferia, perché non ti frega dei poveri, ma della visibilità elettorale che ha il tuo avversario?

Lo Stato, cazzo, dov’è? Non si sentono parlare i suoi rappresentanti. Che, già lo so, oggi tireranno fuori la criptica critichetta della domenica, in cui si capisce fin troppo bene da che parte stanno, come a farci un’elemosina di Stato, appunto. Ed oggi, oh disgrazia, sarà il più scolorito Presidente della Repubblica della storia recente a doversi spacchettare dal ghiaccio dei silenzi in cui si mantiene in vita, a riaccendersi di colore, dal grigio che lo perseguita, evocando, magari, calma, tranquillità, democrazia; di dare sempre la precedenza, di ringraziare e di salutare quando si esce dalla salumeria. All’indomani di una giornata VERGOGNOSA per la decenza di ogni cittadino onesto e rispettabile. Sempre che non tiri in ballo il fascismo.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Dov’è Minniti? O nel girone dei mandanti morali? E chi sono a questo giro i mandanti morali, eh Boldrini, Saviano et similia?

Lo Stato cazzo dov’era? Quando moriva Pamela, quando avviene la grande mistificazione, che riesce a trasformare un prodotto della sua superficialità, nell’esatto opposto, ovvero in un’azione da ricondurre specificamente alla bontà della visione antifascista? Da Oseghale a Traini, il passo è breve e, anche qui, surreale. Ma non c’è equilibrio, subito la condanna: Oseghale pagherà, ma Traini è il vero cancro di questo tempo. Un tempo che è…Stato.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Quando deve specificare la propria posizione, e prendere le distanze, in nome dei valori dell’antifascismo, di cui si riempie tanto la bocca, tramite i suoi figuri. A sentirlo, l’antifascismo è il più alto e moderno valore repubblicano. Eppure, nello stesso calderone c’è lo Stato, e le teste di cavolo manesche dei centri sociali; ci sono i bambini portati in gita da piccoli a osannare la prima copia della Costituzione, e c’è chi si rifiuta di mettere a disposizione un sala comunale ad un movimento, come Casa Pound, ad esempio, che, democraticamente l’ha richiesta, ha più di cento sedi in Italia, ha raccolto ben più firme di quelle necessarie per la candidatura, e sarà presente e “votabile”, quindi, in tutti i collegi del Paese? Un movimento perfettamente riconosciuto dalla democrazia, dotato di uno specifico programma complesso e dettagliato, di un’alternativa, quindi non di una cartelletto elettorale senz’arte, né parte, né significato.

Lo Stato cazzo dov’è? Quando si tratterà di tirare la linea del rigore, di richiamare tutti all’attenzione, all’ordine, impedendo, come possibile, che si minimizzi ciò che è accaduto oggi tra Piacenza e Macerata. L’anarchia più perfida, più infima, sporca, viscida, come quella pelle butterata, quei capelli arruffati, quell’eskimo sporco di chi oggi ha sputato sui morti, cantando “com’è bello far le foibe da Trieste in giù”, e rendendo noto a tutti che non esistono morti di serie A e di serie B, ma direttamente che del Giorno del Ricordo, in questo Paese, non frega quasi un cazzo a nessuno. Percepito com’è, lontano nella storia, lontano negli eventi, a causa di una corruzione ideologica, dell’impronta che l’egemonia culturale imperante gli ha attribuito, legandolo, in una perfetta operazione psicosociale, tipica delle sinistre, anche solo nell’evocazione, alla destra estrema, nazionalista, possibilmente fascista, e quindi di conseguenza, all’immagine del razzismo, della fazione, dell’intolleranza verso il resto, insomma, ad una questione “di parte”.

Lo Stato, cazzo, dov’è? Lo Stato chi è? È Stato perché? Questo Stato non c’è. Questo Stato puzza di morto, è un’offesa, è un cavillo, è un pezzo di colla di trattati internazionali, è una vena sottopelle fina, invisibile, che non dà più sangue. Si tiene in piedi a forza, è una convenzione, un’abitudine. Questo Stato è maleducato, incapace di formare, di essere esempio, di assumersi delle responsabilità. Di permanere, di rimanere, di ricordare. E alla fine di tutto questo, dove finisce lo Stato, in Italia, inizia la società (in)civile. E proprio in questo settore, qualcuno ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta a deviare l’attenzione, a prosciugare quel ruscello fino e quasi rinsecchito di attenzione che il Giorno del Ricordo ha in questo Paese. In un esperimento psicosociale tristissimo, quasi assimilabile a quello dei cani di Pavlov, che appena sentivano il campanello, correvano a sbavare. Per riflesso condizionato. Come quei cani, tanti italiani. Che nella pigrizia di sviluppare un proprio pensiero critico, assoceranno il Giorno del Ricordo ai fascisti rancorosi, a qualcosa di destra, banalmente e brutalmente inteso, dimenticando, per l’appunto, che settanta anni fa si trattava di italiani, di connazionali, di fratelli, e non di fascisti. Ma alla fine di una giornata così vergognosamente amara, viene da chiedersi, più e più volte, con le vene del collo gonfie di sangue che è benzina, aspra e bruciante: lo Stato dov’era? E a tutti quei connazionali guardano in silenzio da dietro le tapparelle, ricordo solo che gli italiani di oggi, senza quelli di ieri, della Pietas, della Misericordia e del rispetto, della ferrea moralità romana, finanche cattolica, sono solo una vaga e stereotipata espressione geografica, sono solo dei portatori sani di baffi neri, pizza e mandolino. Inutili alla storia.

“Il mio Paese mi fa male in questi empi anni,

per i giuramenti non mantenuti,

per il suo abbandono e per il destino,

e per il grave fardello che grava i suoi passi”

(Robert Brasillach, poeta)

"Pd ipocrita, non basta definirsi antifascisti per essere democratici". È il retaggio culturale degli eredi del Partito comunista mettere all'indice tutte le idee a loro contrarie. Compresa la famiglia, scrive Matteo Forte, Consigliere comunale, martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". È tornata la parolina magica che la sinistra milanese rispolvera in vista della prossima campagna elettorale: antifascismo. Ed ecco che a Palazzo Marino viene presentata una bella mozione che di più democratiche non ce n'è. La mozione, firmata in pompa magna da tutti i consiglieri di maggioranza, sottomette la concessione di spazi pubblici, contributi e patrocini ad una dichiarazione in cui il richiedente certifica il suo antifascismo e il suo essere contro il razzismo, le discriminazioni di genere e d'orientamento. A più di settant'anni, però, è giunto il momento che qualcuno di insospettabile dica una cosa che ormai anche nella storiografia più recente è stata sdoganata: non basta essere antifascisti per dirsi democratici. Il concetto di antifascismo fu egemonizzato fin da subito dall'Unione sovietica di Stalin che, vedendo nel fascismo nient'altro che l'ultimo stadio dello stato borghese, lo faceva coincidere con l'anticapitalismo. Da allora è passata l'idea che antifascisti, e quindi sinceramente democratici, sono solo quelli di sinistra. Tale retaggio culturale affligge ancora oggi gli eredi del Pci, quelli che il «comunismo italiano era un'altra cosa» e i loro giovani nipotini dem. I democratici di oggi finiscono per rigettare nel campo del fascismo tutte le idee che loro osteggiano. È fascista chi, per esempio, si oppone alla «colonizzazione ideologica» nelle scuole medie statali da parte di esponenti dell'Arcigay, com'è capitato all'assessore Deborh Giovanati del Municipio 9. Lei ha sollevato il caso di sedicenti «corsi contro la discriminazione» in cui si parlava a ragazzini adolescenti di «pansessualismo» e si invitava una consigliera Pd a presentare il suo libro su Islam e integrazione. Giovanati ha chiesto semplicemente se i genitori fossero stati opportunamente informati e se, nel caso, fosse prevista una pluralità di voci su temi così delicati in cui risulta violento andare contro le convinzioni più intime delle famiglie. Apriti cielo. Sono fioccati interventi sdegnati di parlamentari Pd contro la presunta ingerenza del Municipio nell'autonomia della scuola. Sono fioccate mozioni di censura contro l'assessore. È intervenuta l'Anpi zonale durante una seduta dell'ex consiglio di zona. La libertà è solo quella di poter esprimere le idee politicamente corrette e più accreditate. Le altre sono semplicemente fasciste. Ecco perché nella mozione liberticida ancora in discussione a Palazzo Marino si richiede l'autocertificazione pure contro le discriminazioni di genere e d'orientamento sessuale. Del resto non è un caso che la madrina delle unioni civili, la senatrice Cirinnà, abbia espressamente minacciato: «L'intuizione del grande sociologo Bauman è ormai da tempo una dura realtà: la società liquida, nella quale abbiamo dovuto abituarci a vivere, ci pone quotidianamente di fronte a nuove sfide culturali, sociali, intellettuali, per cui il tema della libertà d'espressione è indubbiamente la nuova frontiera che dobbiamo definire». In un regime sotto il Patto di Varsavia non avrebbero saputo fare di meglio. Per questo ancora oggi non basta dirsi solo antifascisti per difendere la libertà.

I comunisti e i fan del politicamente corretto sono sostenitori morali anche del terrorismo, scrive il 16 dicembre 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". Esiste un confine, netto, tra l’umana paura ed il sostegno morale al terrorismo. Oggi quel confine è stato varcato da migliaia di persone. In ogni canale mediatico, in centinaia di discussioni ed in milioni di coscienze è sbocciato un nuovo fiore del male. È il loto che erode la percezione. Cancella la memoria, annebbia i fatti. Ci suggerisce che la soluzione migliore sia arrendersi. Dialogare. Ci dice che queste cose sono inevitabili, che qualsiasi cosa facciamo è inutile. E fa guardare a chi lotta, a chi non si arrende, a chi chiama le cose col proprio nome come ad un molesto provocatore. Una voce da soffocare nella diffamazione. Negli anni ’70 le Brigate Rosse divennero un mostro perché nessuno ebbe il coraggio di riconoscerle. Decide di morti sulla loro scia, nel silenzio e l’assenso dei molti, della porporata intellighenzia di sinistra. Oggi viviamo la stessa fase di rimozione. In tanti cominciano con i distinguo e le profonde analisi politologiche. Tutto pur di non affrontare la realtà. Riecheggiano le auliche parole. I grandi ragionamenti si sprecano. Con il sangue ancora caldo ci dicono che chi ha sparato, chi si è fatto esplodere o chi con un camion ha investito e ucciso decine e decine di persone sono un caso isolato. Un pazzo senza matrice razziale. Rifiutano il fatto che il terrorismo sia, in diversi di questi casi, di matrice islamica. Un terrorismo figlio dell’odio religioso. No. Basta, è ora di cominciare a dire la verità. Urlarla per le strade. Dalle finestre. Sui social network. I morti in Francia, Belgio, Spagna e Regno Unito sono vittime del terrorismo islamico. Chi ha sparato era devoto all’Islam. Non satanisti sotto mentite spoglie. Non sono alieni, ma nuovi barbari. Sono uomini con un passato ed un presente forgiato nei nostri Paesi. Figli dell’oblio culturale frutto del tramonto dell’Occidente, per dirla citando Oswald Spengler. Alcuni di loro sono stati nostri vicini di casa. Frutto di quel melting pot culturale che riecheggia fin dagli anni ’80 ed è esploso, in questi giorni, con la generazione Erasmus. Erano assistiti dallo Stato, che li imboccava, sparsi per l’Europa, con sussidi, ma non nutriva la loro anima lasciandoli, per dirla questa volta alla Massimo Fini, allo scoperto del nostro vizio oscuro dell’Occidente. Erano tra noi. Come lo erano gli attentatori di Charlie Hebdo. Come lo erano i terroristi di Londra. Ammetterlo è il primo passo. Serve per rendere onore ai morti, seppellendoli senza bugie e false parole. Raccontare ai loro cari la realtà, sono morti per le negligenze di questa società, complice di chi è armato dalla fede islamica. È rendere un servizio ai vivi. Indicando il nemico e dando ad ognuno la possibilità di difendersi. Questo aspetto ad alcuni fa paura. Ma come, si domandano questi soloni, come possiamo permettere che la gente sappia e si tuteli? La violenza potrebbe diffondersi. Il razzismo rinascere. Per questo dobbiamo negare. Dobbiamo distinguere. Spiegare. Catechizzare all’amore incondizionato verso il diverso. Ma soprattutto sradicare, eliminare e tacitare di razzismo chiunque denunci questo malcostume. La gente, libera di vedere, diverrebbe una belva. Questo pensano i buonisti. Questo pensano i complici. Ora basta, guardiamo in faccia la realtà. Chi difende i terroristi per elevare la radicazione di una cultura informe rispetto alla nostra non è un libero pensatore, ma semplicemente un venduto. Sulle sue mani c’è il sangue dei caduti. Dei nostri fratelli. Parliamo di un vile Caino. L’odio contro di noi come occidentali, come cristiani, come europei e come uomini e donne liberi esiste. Fatevene una ragione. Se vogliamo che questo odio non ci conduca nell’abisso non arrenderci è la soluzione. Dobbiamo combattere. Putin, nei giorni scorsi, a mezzo stampa dopo essere stato in Siria ha dichiarato: “Abbiamo sconfitto Isis, ora ritiro truppe”, ma dobbiamo ricordarci che siamo un bersaglio. Siamo il bersaglio di chi vuole mettere in ginocchio il nostro stile di vita. Dobbiamo con coraggio e lealtà reagire per non farci sottomettere e conquistare. Questo tipo di Islam non è nostro amico. Non resta che tenere la guardia alta, lo sguardo concentrato per non cadere nella trappola del nemico che ci vuole gambizzati. Caduti nell’oblio del nulla. 

Non chiamateli antifascisti. Chiamateli col loro nome: terroristi, scrive il 24 febbraio 2018 Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Torino. Dentro parlano. Fuori menano alla Polizia per impedire che quelli dentro parlino. Neanche la democrazia è più certificazione di legittimità. Dalle Leggi Cossiga e Reale, dai blindati, la pistola da poter sfoderare, carica, se strettamente necessario per sparare ad altezza uomo o in aria, quando lo Stato voleva, poteva, almeno per dare una parvenza di esistenza, ai chiodi conficcati nelle gambe degli agenti del Reparto Mobile, come accaduto a Torino. E allora fermiamo un attimo il lunapark della tensione e facciamoci una domanda: questa benedetta Repubblica va difesa, oppure no? E soprattutto da chi? Da terroristi. Diamo un nome alle cose. Quelli impiegati a Torino contro le Forze dell’Ordine possono essere definiti IED (Improvised Explosive Device), ordigni esplosivi improvvisati. Pieni di chiodi e cocci, volutamente preparati per ferire, possibilmente in modo grave, e coprire un raggio d’impatto ampio. Armi fatte in casa, per impedire che una compagine politica, col il proprio simbolo sulla scheda, si confronti con i propri elettori. Nell’epoca in cui stiamo perdendo miseramente la battaglia semantica, ed in cui anche la leziosa fretta giornalistica non distingue un iraqueno da un giapponese e li definisce tutti kamikaze, non fa differenza e chiama tutti fascisti, in assenza di fascismo, e senza giustificazione concettuale, occorre dare un nome alle cose. Che serva a definire i contorni del reale. Uno Ied è prerogativa di un’organizzazione terroristica che, secondo precisa definizione, inquadra le azioni di un gruppo organizzato che pratica terrorismo. Ovvero «azione e metodo di lotta politica (per sovvertire o destabilizzare una struttura di potere) che, per imporsi, fa uso di atti di estrema violenza, come attentati e sabotaggi, anche nei confronti di persone innocenti». Così si esprime la lingua italiana. E la domanda è sempre quella che ci siamo posti: lo Stato, oltre le dichiarazioni spicciole, dov’è? Se lo chiede anche il Generale dell’Arma dei Carabinieri Gino Briganti, su Facebook: «In uno Stato serio, dopo i fatti di Torino, alle prime luci dell’alba, sarebbero scattate perquisizioni in tutti i centri sociali d’Italia alla ricerca di armi, ex art.41 del T.U.L.P.S.. E ciò anche senza autorizzazione della magistratura, stante la necessità e l’urgenza, evidenziata dalla acclarata disponibilità di questa organizzazione criminale di stampo mafioso-terroristico, di strumenti atti ad offendere, considerati armi dal suddetto Testo di leggi.  Sono convinto che troverebbero arsenali di ogni tipo che stanno accantonando per il 5 marzo p.v. Sono catastrofico? No, semplicemente realista alla luce del susseguirsi di gravi fatti». E le cose, a norma di legge, dovrebbero cambiare. Dai “compagni che sbagliano”, a stronzi che ragliano, e che, nel silenzio del piccolo garage di periferia, li vedi ridere mentre caricano di chiodi l’involucro, passandosi una canna d’erba e motteggiandosi di brutto: “Oh zio cazzo zio! Alla Madama la mettiamo in groce a zio! Io con i fasciocazzozio non ci parlo! A quelli di razzifascio cazzo Pound gli facciamo la festa”. Non credete sia andata così? Non credete abbiano detto cose simili? Pensate che col loro maglione a girocollo e il cappello di lana in testa, la sera in cui fabbricavano i “regalini” per la Polizia, parlassero di Marcuse o del socialismo libertario di Chomsky, integrandolo, magari, con interessantissime tesi sul proletariato 2.0, quello che fra un po’, per non fare un cazzo si beccherà pure il reddito di cittadinanza, magari mentre guarda Netflix mangiando due cavallette alla cannella, parafrasando Simone Di Stefano? Non credete, allora guardate qui.

Siamo sempre a Torino. Gianni Tonelli, segretario del Sindacato Autonomo di Polizia e candidato per Lega, si “confronta” con due creature del bosco antifascista: Qualcosa di più di una bravata cantando Bella Ciao sotto la doccia. Non a caso, come riportato anche dal Giornale, da parte di antagonisti, anarchici et similia, si contano, dal 2017 a oggi, «99 casi di bombe, gazebo assaltati, scontri con la polizia e violenze di altro genere. In pratica un assalto ogni quattro giorni. Con un bilancio di 67 agenti feriti. Ma se si annoverano anche le minacce e le sassaiole dei No Tav, i feriti totali sono oltre cento: un vero e proprio bollettino di guerra». Numeri e dati che fanno parte di un rapporto dei servizi segreti che testimonia, in maniera scritta, ovviamente, ed ufficiale, che il mondo anarchico-antagonista sia, in questo Paese, ben più pericoloso della minaccia terroristica jihadista. Una decina di pagine dedicate alla minaccia anarco-insurrezionalista considerata più tangibile di quella jihadista, con 7 azioni in 11 città italiane. Attività eversive che hanno visto l’utilizzo di pacchi esplosivi, attentanti incendiari e danneggiamenti, come a Genova, Torino, Modena, Firenze, e in altri luoghi. Nel frattempo la Polizia s’incazza, e non fantozzianamente parlando. La Polizia s’incazza ma non fa rumore, l’ennesimo comunicato che cade nel vuoto. Non c’è eco, per lei, se non quello dell’Ur-fascismo, da citare necessariamente a due anni dalla morte, forse l’unica scusa per ricordare il suo trapasso. A imbestialirsi è il Coisp, Coordinamento per l’indipendenza sindacale delle Forze di Polizia, che con la voce del suo segretario Domenico Pianese, si esprime in un comunicato: «Ma quale antifascisti, hanno tentato di uccidere gli Agenti. Sei Poliziotti feriti gravemente. Punire questi criminali e dire basta. La strategia del disordine messa in atto da movimenti che si definiscono antifascisti – incalza Pianese – e che con questo cercano invano di mascherare i loro chiari intenti criminali, è sempre più evidente, e si diffonde a macchia d’olio in maniera niente affatto casuale elevando il livello dello scontro ad un punto tale che lo Stato non può più ignorarlo né restare inerme. Questi criminali devono essere assicurati alla giustizia e ricevere pene severissime». Sempre il Coisp, in un altro comunicato, aveva definito la situazione caldissima di questi giorni e il mondo anarchico-antagonista «plotoni di pacifisti organizzati per fare la guerriglia» e «annoiati simil-rivoluzionari». Ecco, appunto. Diamo un nome alle cose. E intanto ci domandiamo: che differenza c’è tra lo Stato che porta in gita i bimbi a vedere la prima copia della Costituzione, e il delinquente dei centri (a)sociali che tira blocchetti alla Polizia in decine di città italiane? Nel silenzio e nella permissione, nessuna. E un’altra fugace riflessione.  Nel 2001 il fronte No Global che distrusse Genova, facendoci scappare il morto, Agnoletto & co., erano tutti contro il capitalismo, la globalizzazione. Tutti figli di Chomsky.  17 anni dopo, dovresti trovarli, paradossalmente ma secondo logica post-ideologica e coerenza ideale, per meccanismo visionario e urgenze dei tempi, al fianco simbolico, certamente, di Casa Pound o della Lega, a morte contro questa sinistra che ha dimenticato gli ultimi, le periferie e le fabbriche, per abbracciare il culto estremo della globalizzazione e del capitalismo. Tutti figli di Calamandrei. E invece no. Hanno preferito abortire la propria identità, per odiare quella altrui. Esempio tra tanti. Ecco perché l’antifascismo non è un’identità, ma un tentativo disperato di sembrare di averne una per continuare ad esistere. 50 anni fa, nel ’68, almeno volevano fare la colorata rivoluzione culturale, in un’orgia di peli, schizzi, pugni chiusi e fantasia. Magari da mandare al potere, lei sì. La fantasia…

Gli sponsor "sinistri" degli antagonisti. A parole i sindaci condannano i violenti. Ma da Torino a Napoli, da Milano a Roma li sostengono con soldi e sedi gratis, scrive Il Giornale Domenica 25/02/2018. Eccoli lì, con la fascia tricolore quando ci scappano i feriti anche seri, a dire no ai violenti dei centri sociali, a stigmatizzare, a prendere le distanze. Eppure. Eppure sono proprio i sindaci, spesso, a foraggiarli e ad aver foraggiato i centri sociali. Ad averli anche coccolati, in vista delle elezioni. Niente finanziamenti diretti, magari, anche se ci sono pure quelli. Ma quando un centro sociale occupa abusivamente un immobile comunale e tu sindaco non lo reclami, anzi non ne chiedi neppure lo sgombero per quieto vivere o per condivisione della causa, non è una forma di finanziamento? E quando un centro sociale cresce, tanto che i suoi attivisti si spostano poi da una città all'altra pronti a lanciar pietre e bottiglie contro i poliziotti, la colpa non è anche un pochino di chi li aiuta a prosperare? Facciamo un focus su quattro città, Milano, Torino - sei agenti feriti proprio qualche giorno fa - Padova e Napoli. Proprio il capoluogo partenopeo è l'emblema della commistione enti locali-centri sociali. Il sindaco Luigi de Magistris li aiuta, li foraggia direttamente o indirettamente. E li coccola sperando che lo aiutino a traslocare in Europa.

Torino - La Appendino regalerà loro altri immobili del Comune.

Milano - Sala segue l'esempio di Pisapia. Resta intoccabile chi "okkupa".

Padova - Il neo capo delle tute bianche sostiene il primo cittadino.

Napoli -De Magistris scherza col fuoco per avere un seggio in Europa.

E Potere al Popolo vuole l'amnistia se il reato è per la "lotta sociale".

La polizia contro i "pacifisti" di Amnesty: "Recuperate il senso della vergogna".

Poliziotti già a terra pestati selvaggiamente, bombe riempite di chiodi contro gli agenti. Ma Amnesty si muove per tutelare i centri sociali. Il Coisp: "Soffia sul fuoco dell'odio verso le forze dell'ordine", scrive Andrea Indini, Domenica 25/02/2018, su "Il Giornale".  "Se gli interessi tutelati sono quello dei diritti umani, quegli stessi diritti non li può vantare il carabiniere pestato a terra o il poliziotto con la gamba massacrata dai pezzi di ferro di una bomba carta?". Dal Dipartimento della pubblica sicurezza trapela una fortissima indignazione per l'ultima (vile) campagna di Amnesty Internetional: seguire il corteo dell'Anpi per filmare il comportamento della polizia e denunciare eventuali violazioni dei diritti umani. Diritti che, alle ultime manifestazioni, sono stati puntualmente violati da antagonisti, no global e centri sociali ai danni degli agenti che in piazza cercavano solo di mantenere l'ordine pubblico. "Se proprio vogliono riprendere qualche violazione dei diritti umani - commenta Domenico Pianese, segretario generale del Coisp - allora pensino a immortalare i criminali che lanciano bombe carta piene di schegge ai poliziotti". Lo scorso 10 febbraio, durante una manifestazione a Piacenza, un carabiniere stava indietreggiando insieme ai commilitoni di fronte alla violenza dei manifestanti quando è inciampato ed è stato circondato dagli antagonisti. Lo hanno colpito con calci, pugni e bastoni (guarda il video). Lì non c'erano i volontari di Amnesty a filmare le nefandezze dei centri sociali. Qualche giorno dopo, a Palermo, il segretario di Forza Nuova Massimo Ursino è stato bloccato da un gruppetto di otto facinorosi: lo hanno legato e pestato (guarda il video). Anche lì non si erano visti in giro i paladini dei diritti umani. E ancora: a Torino, durante il comizio di CasaPound, i centri sociali hanno lanciato contro gli agenti bombe carta piene di chiodi e pezzi di coccio. Ordigni pensati appositamente per aumentarne la pericolosità. E forse anche per uccidere. Di Amnesty, nel capoluogo piemontese, neanche l'ombra. Ieri, invece, si è "scomodata" per marcare ogni poliziotto e assicurarsi che non torcesse un capello ai manifestanti che, in più di un'occasione, hanno pure provato a forzare i blocchi. "Il problema di queste settimane è proprio questo inasprirsi delle parti - fanno sapere dal Dipartimento della pubblica sicurezza - fascisti e antifascisti, democratici e antidemocratici. Buoni e cattivi". Almeno da una associazione come Amnesty International gli agenti si sarebbero aspettati una solo differenza: quella contro i violenti. Sul profilo ufficiale della Polizia di Stato è apparso anche un tweet ironico: "Alla manifestazione promossa dall'Anpi presenti osservatori di Amnesty Italia contro violazioni diritti umani. Dopo violenze subite a Piacenza e a Torino le Forze dell'Ordine si sono sentite tutelate". Ma, all'indomani di una giornata di lavoro che ieri ha visto svolgersi in Italia "senza significativi incidenti" ben 119 manifestazioni in 30 province che hanno impegnato circa 5.000 unità delle forze dell'ordine, il Coisp non è disposto a dimenticare facilmente il sodalizio tra Amnesty e i violenti. "I soliti 'pacifisti' tentano da giorni di ammazzare qualcuno in divisa - tuona Pianese - e c'è chi non esita a soffiare sul fuoco dell'odio verso le forze dell'ordine". Da qui l'invito del sindacato a "ritrovare un po' di senso della vergogna". "Invece che difendere i criminali, state senza se e senza ma dalla parte di chi difende i cittadini dai rigurgiti eversivi che stanno avvelenando questa campagna elettorale".

Antifascisti e CasaPound, parla il giudice Salvini: "Vi dico cosa sono davvero i centri sociali", scrive il 25 Febbraio 2018 Libero Quotidiano". "Che cosa mi ha colpito di più in questi giorni? Le bombe con i chiodi a Torino contro i poliziotti". A parlare è Guido Salvini, gip a Milano e giudice istruttore negli anni di piombo, e probabilmente anche lui verrà accusato a sinistra di essere un "fascista". Intervistato dal Messaggero, la toga colpisce duro i centri sociali e gli antagonisti violenti: "Quelle bombe dimostrano la volontà di fare del male, non solo di manifestare in forma violenta". Il paragone con gli Anni 70 secondo Salvini è eccessivo: "Allora si sparava e c'erano le stragi. Da molti anni non ci sono più morti causati da una guerra civile nelle strade. La tensione oggi nasce dalla presenza alle elezioni, con un discreto seguito, di movimenti come Forza Nuova e CasaPound". Anche in questo caso, però, l'allarme è esagerato. Laura Boldrini e Liberi e Uguali hanno già proposto di sciogliere quelle forze di estrema destra: "Non concordo - ribatte Salvini -. Si consegnerebbero alla illegalità non piccoli gruppi già al di fuori della legalità, ma decine di migliaia di persone. Oltretutto sarebbe incostituzionale". Perché, sottolinea, il "fascismo storico, cui si riferisce anche la Legge Scelba del '52, non sembra essere oggi il programma delle forze di destra anche estrema. Non vi sono elementi che possano giustificare uno scioglimento giudiziario". Gli "antifascisti" inorridiscono per le idee su immigrazione e case popolari solo agli italiani e nel dubbio picchiano. "Ci si deve confrontare sul piano politico - è la lezione del gip -. Questa è l'essenza della democrazia, pensare di fare diversamente è poco illuminista. È un errore considerare l'estrema destra solo un problema criminale e non un avversario politico". In molti riflettono sulle "cattive idee" della destra estrema, ma a sinistra? "Dal '70 c'è una cultura politica che non si è mai estinta, che considera la violenza un'arma abituale di lotta politica, e che decide con la violenza chi può parlare e chi no. Un tempo si esprimeva nei servizi d' ordine, oggi nei centri sociali con il loro antifascismo di stampo squadristico molto pericoloso". Salvini si avventura anche in un confronto di piazza: "L'ideologia dei centri sociali dagli anni '70 è sempre quella, autoreferenziale: più che cercare consensi, i centri sociali vivono dentro sé stessi, più che fare la rivoluzione vogliono preservare il proprio spazio privato. I cortei della destra hanno un atteggiamento più legalitario, danno un'idea di ordine, neanche una cartaccia per terra. Dobbiamo però chiederci se questa scelta sia definitiva o solo strategica. A me hanno detto di avere scelto definitivamente la democrazia parlamentare. Spero sia vero". 

Roberto Fiore: “Magistrati di Palermo deviati come 40 anni fa”. Quando Falcone voleva interrogarlo per il caso Mattarella. Il leader di Forza Nuova attacca la magistratura per la scarcerazione dei presunti aggressori di Ursino ma fa un riferimento esplicito: parla di pm deviati "oggi come 40 anni fa". Negli anni '80, infatti, il giudice ucciso a Capaci voleva interrogarlo per l'assassinio del presidente della Regione e i legami con Fioravanti. Lui, però, era latitante a Londra dove sarebbe rimasto fino al 1999, quando la sua condanna per banda armata e associazione sovversiva finirà prescritta, scrive Giuseppe Pipitone il 25 febbraio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Definisce la magistratura di Palermo “infiltrata”, addirittura “deviata”, “oggi come quaranta anni fa”. Il motivo? La scarcerazione dei Giovanni Codraro e Carlo Mancuso, i due attivisti dei centri sociali accusati del pestaggio del segretario provinciale di Forza Nuova, Massimiliano Ursino. È un attacco frontale alle toghe siciliane quello di Roberto Fiore, il leader della formazione di estrema destra arrivato sabato a Palermo per un comizio elettorale che ha surriscaldato il clima in città. Le accuse lanciate contro i giudici, però, non sembrano legate solo dalla decisione presa dal gip che ha liberato i presunti aggressori di Ursino. Il leader di Forza Nuova, infatti, definendo la magistratura di Palermo come “deviata” fa un riferimento esplicito. Parla di “quarant’anni fa“. E lo fa nella stessa giornata in cui riemergono dal passato i rapporti che lo legano proprio alla procura di Palermo negli anni ’80.

Le domande di Falcone e la strage di Bologna – Il giudice Giovanni Falcone, come ha raccontato il giornalista Salvo Palazzolo su Repubblica, voleva interrogare Fiore. Il motivo? L’omicidio di Piersanti Mattarella, il governatore della Regione Siciliana e fratello dell’attuale capo dello Stato, ucciso da Cosa nostra il 6 gennaio del 1980, 38 anni fa esatti. “È a conoscenza di qualche fatto o circostanza che potrebbe far luce sull’uccisione di Mattarella?”, è la domanda che il giudice ammazzato nella strage di Capaci voleva rivolgere a Fiore, all’epoca latitante a Londra. L’uomo che oggi definisce la magistratura deviata, infatti, è condannato in via definitiva a cinque anni e mezzo di reclusione per banda armata e associazione sovversiva. Fiore, però, non ha mai trascorso neanche mezza giornata in carcere. Nel 1980, infatti, scappa all’estero proprio alla vigilia di una retata che decapita Terza Posizione, il gruppo armato di estrema destra da lui fondato negli anni Settanta e di cui facevano parte una serie di terroristi neri poi confluiti nei Nuclei armati rivoluzionari. Sono nomi noti degli anni di piombo come Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, gli autori della strage di Bologna. Fioravanti e Mambro sono stati condannati anche per l’omicidio di Francesco Mangiameli, dirigente siciliano di Terza Posizione, ucciso il 9 settembre del 1980. Si è spesso ipotizzato come Mangiameli fosse stato ammazzato perché sapeva la verità sulla strage della stazione bolognese. La corte di Cassazione, nella sentenza definitiva sull’eccidio del 2 agosto del 1980, ha scritto che Fiore e altri dirigenti di Terza Posizione si sono dati alla latitanza proprio per evitare di fare la stessa fine di Mangiameli.

L’omicidio Mattarella e lo scambio neri – Cosa nostra –Giovanni Falcone, invece, la pensava in modo diverso. Il giudice palermitano collegava l’omicidio Mangiameli a quello di Mattarella. Per Falcone, infatti, poteva esserci stato uno “scambio di favori” tra i terroristi neri e Cosa nostra. I Nar di Fioravanti, processato e assolto per il delitto Mattarella, avrebbero ucciso il fratello del presidente della Repubblica. I boss di Cosa nostra, invece, avrebbero aiutato il nero Pierluigi Concutelli a evadere dal carcere Ucciardone. Siamo alla fine del 1979 e proprio di quell’evasione si sarebbe interessato Fiore, insieme allo stesso Mangiameli, poi ucciso da Mambro e Fioravanti. È per questo che muore Mangiameli? Perché sapeva del patto tra neri e Cosa nostra sullo sfondo dell’omidicio Mattarella? O perché era a conoscenza dei segreti della strage di Bologna? Ed è questo il motivo che spinge Fiore a fuggire all’estero? Domande senza risposta. O meglio domande alle quali può rispondere solo l’attuale leader di Forza Nuova. Difficile che lo faccia oggi l’uomo rimasto latitante fino al 1999, quando la sua condanna viene prescritta: pena non eseguibile per scadenza dei termini. A quel punto Fiore torna in Italia ma ha una faccia diversa da quella dell’estremista nero: partito ventenne da latitante, rientra da Londra con un profilo più moderato e un conto in banca molto più florido. Fonda dunque il suo nuovo movimento e comincia a comportarsi da leader che non si sporca mai le mani. Quasi due decenni nel Regno Unito, infatti, gli hanno cambiato la vita. Anche grazie a una serie di colpi di fortuna.

Servizi segreti inglesi e mafiosi siciliani- Come nel 1982 quando un giudice di Sua Maestrà respinge la richiesta di estradizione inviata dall’Italia. O come il 22 dicembre del 1987, quando le autorità inglesi ammettono la richiesta di rogatoria inviata 17 mesi prima da Falcone, ma non concedono al giudice palermitano di andare a Londra per interrogare Fiore. Sarebbe stata la corte londinese di Bow Street a porre al futuro leader di Forza Nuova le cinque domande inviate da Palermo. Per l’ex esponente di Terza Posizione, dunque, rispondere ai giudici inglesi è molto più semplice rispetto a quanto possa essere un incontro faccia a faccia con Falcone. Prima domanda: ha mai incontrato Mangiameli? Risposta: “Fra il 1978 e il 1979“. Ha mai incontrato Valerio e Cristiano Fioravanti? “Poche volte, casualmente, in strada o al bar”. È vero che presentò Mangiameli a Valerio Fioravanti? “Non ricordo”. Era a conoscenza di un piano per l’evasione di Concutelli? “Ne ho letto sui giornali”. E l’omicidio Mattarella? “Non so nulla dell’uccisione di Mattarella”. “Le risposte sono state estremamente generiche, ma purtroppo l’assenza del giudice istruttore non ha potuto colmare le evidenti lacune”, annota Falcone nelle carte dell’inchiesta. In cui ricorda che a Fiore avrebbe voluto contestare le parole di Mauro Ansaldi, uno dei collaboratori di giustizia di Terza Posizione. “Roberto – mette a verbale il pentito – mi confidò che dietro Fioravanti c’erano la P2 e Gelli”. È vero quello che dice Ansaldi, ex camerata di Fiore? E che ne pensa l’attuale leader di Forza Nuova di quanto messo a verbale nel 2000 dal deputato di Alleanza Nazionale, Enzo Fragalà, davanti alla commissione d’inchiesta sulle stragi? Il presidente chiede: “Ritiene che Fiore e Morsello (altro leader di Terza Posizione) fossero agenti del servizio inglese? “Non ritengo, c’è scritto, è un dato obiettivo, mai smentito da nessuno. D’altro canto, altrimenti come si fa a immaginare che due latitanti italiani, segnalati come pericolosi, possano costruire lì in Inghilterra un impero economico con 1.300 appartamenti?”, risponde Fragalà. Che oggi non può più argomentare quelle accuse a Fiore: sarà ucciso da Cosa nostra a Palermo nel 2010. Per i pm fu una punizione perché aveva convinto alcuni suoi clienti mafiosi a collaborare con la magistratura, ma non esiste ancora una sentenza definitiva che certifichi questa ricostruzione.

L’impero economico e i donatori anonimi – Anche il riferimento di Fragalà all’impero economico di Fiore, però, merita un approfondimento. Il leader di Forza Nuova, infatti, da latitante, riesce a mettere insieme una serie di proprietà che lo fanno tornare in Italia da uomo ricco. Oggi si tratta soprattutto di alcune società specializzate in viaggi studio a Londra, che possiedono centinaia di immobili. Come racconta l’Espresso, in un’inchiesta dedicata al politico di estrema destra, si incrociano con il nome di Fiore anche tre trust, cioè società fiduciarie in cui i titolari possono rimanere anonimi. Come anonimi rimangono i donatori che hanno letteralmente inondato i conti dei tre trust. Negli ultimi quattro anni, per esempio, alla società fiduciaria intitolata all’Arcangelo Michele sono arrivati 475mila euro di elargizioni liberali. Gran parte di quei soldi sono stati poi girati a tre aziende controllate dalla famiglia Fiore. Da chi arriva tanta generosità? Chi è che devolve tanto denaro poi finito nelle disponibilità del leader di Forza Nuova? Non si sa. Come non si conosce il motivo per cui fino al 2016 Fiore è stato azionista della Vis Ecologia. È una società che dovrebbe occuparsi di “riciclo di materiali” ma non ha dipendenti né alcun sito internet. È stata registrata a Cipro per “scopi fiscali” ma è impossibile sapere quanto denaro abbia amministrato: non ha mai depositato un bilancio.

Scarcerati aggressori Ursino, Fiore: “Magistratura deviata”. Ma per il Gip non volevano uccidere, scrive il 25 febbraio 2018 “L’Eco del Sud. “Per il Gip colpire un forzanovista non è un reato, sono solo lesioni, invece di sequestro e tentato omicidio. Mentre a Roma Giuliano Castellino e Consuelo Benedetti sono agli arresti da 6 mesi per aver impedito uno sfratto. Sono senza parole”. Così sui social il leader del Forza nuova, Roberto Fiore, sulla scarcerazione dei due attivisti arrestati per l’aggressione a Palermo a Massimo Ursino, il segretario provinciale palermitano dei forzanovisti, vittima martedì sera di un pestaggio ad opera di 8 persone. Ieri, il Gip del Tribunale di Palermo, Roberto Riggio, ha scarcerato Gianmarco Codraro e Carlo Mancuso, i due estremisti di sinistra legati al mondo dei centri sociali, accusati del tentato omicidio del responsabile provinciale di Forza Nuova Marcello Ursino. L’accusa è stata derubricata in lesioni personali gravi e i due indagati sono stati sottoposti al divieto di dimora a Palermo. Lo stesso Fiore, ieri, parlando con i giornalisti aveva dichiarato: “La scarcerazione degli aggressori è uno scandalo. Tutti gli italiani hanno visto ciò che è avvenuto, e vedere le persone coinvolte oggi uscire dal carcere dopo due giorni fa ridere. Ricordo che ci sono due militanti a Roma, anche lì ci sono i filmati, che dimostrano che non hanno torto un capello a nessuno e da cinque mesi sono agli arresti. Questo fa capire che oggi come 40 anni fa la magistratura italiana e di Palermo è deviata, ed è infiltrata da coloro che vogliono seminare odio in Italia”. Intanto sono stati resi noti i motivi della derubricazione del reato e successiva scarcerazione dei due aggressori: Indossavano scarpe da tennis e non scarponi chiodati, non erano armati e lo hanno legato con il nastro adesivo, segno che l’intenzione non era quella di uccidere ma di umiliare. Inoltre anche la realizzazione del video che lascia una traccia dell’evento e la rivendicazione sono la dimostrazione che non c’era intenzione omicida.

Forza Nuova, parla Roberto Fiore. "Noi non siamo fuorilegge", scrive Live Sicilia Sabato 24 Febbraio 2018. Dopo il corteo antifascista di piazza Verdi, attesa a Palermo per il comizio del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, a piazza Croci. Inizio previsto per le 18.30. LA DIRETTA

20.20. "Massimo Ursino è imbattibile, come i militanti di Forza Nuova e della Fiamma tricolore. Non ci si può legare per più di due minuti o tenerci in carcere per più di qualche mese. Organizzatevi per il 4 marzo: quella è la prima delle battaglie. Sì sta aprendo un'era straordinaria che porterà alla liberazione dell'Italia dai poteri forti che vogliono morto il nostro Paese" così Roberto Fiore nel corso di un intervento in un hotel del centro di Palermo.

20.15. "Le persone che hanno colpito Massimo Ursino sono fuori". Quando Roberto Fiore pronuncia questa frase, esplode la rabbia nella sala: "Vergogna, vergogna". "Non possiamo vedere il sangue dei nostri fratelli sul selciato delle città, i nostri patrioti uccisi o in carcere - prosegue Fiore - la magistratura non si accorge della mafia nigeriana ma si impegna a chiedere a noi la verifica di alcune firme. Noi siamo orgogliosi della repressione, perché sappiamo che questa è la base della rivoluzione".

20.03. "Non siamo fuorilegge visto che siamo qui a fare la nostra campagna elettorale. Facciano passi giuridici per metterci al bando, ci hanno provato 15 anni fa e non ci sono riusciti. Vogliono fare i tribunali sovietici, lo facciano. Noi non abbiamo paura, siamo qui ad aspettarli". Lo ha detto il leader di Forza Nuova Roberto Fiore a margine della conferenza stampa che si sta tenendo a Palermo. Fiore ha ribadito di rispettare il fascismo per la cose buone che ha fatto "come molti italiani del resto", ha detto. Sul rischio di una deriva violenta del dibattito politico il leader di FN ha detto: "non dipenderà da noi. Noi lo abbiamo dimostrato. Avremmo potuto rispondere all'aggressione dei giorni scorsi in altro modo, invece la disciplina del movimento è stata ferrea".

19.57.  Parla Giuseppe Provenzale: "Li chiamano ragazzi dei centri sociali, ma sono persone che compiono violenze e sequestri di persone. Se fosse accaduto a un 'giovane dei centri sociali' oggi cosa sarebbe successo? A quanti anni sarebbe stato condannato quel criminale fascista, nazista, alieno? Assistiamo alla demonizzazione di uomini che compiono azioni per la propria famiglia e per Dio. Ma è giusto, perché ormai è impossibile comprendere che esistono uomini del genere. Vanno alle commemorazioni di Paolo Borsellino, ma chi farebbe quello che ha fatto lui, mettendo a rischio la propria vita? Paolo Borsellino era un fascista. Così come Beppe Alfano".

19.12. Parlano Fiore e Ursino. Fiore: "Ursino condannato? Sì dodici anni fa... per questo motivo non abbiamo diritto di parlare e dobbiamo essere trattati in questo modo? Chi ha sbagliato ha pagato ma rivendica il suo diritto di fare politica. Il fascismo? Lo rispettiamo in molte cose. Ha fatto cose buone, ma anche cose negative. Noi stiamo prendendo gente che non è fascista, ma gente di sinistra e persino antifascista. È questo il motivo per cui ci stanno attaccando".

Ursino: "Io sto bene. I miei precedenti? Quel processo non arrivò alla verità. I miei avvocati non riuscirono a dimostrare la verità dei fatti. Io ero intervenuto in difesa di un nostro militante. Chi vuole un confronto con me, dal punto di vista politica, lo avrà sempre. La scarcerazione? La Procura di Palermo non brilla e non lo diciamo solo noi. L'accusa di tentato omicidio era esagerata? Ricordo quanto era successo pochi anni fa per un ragazzo ucciso in discoteca per un calcio in testa. Se cerchiamo vendetta? Non lo faremo come non abbiamo fatto in tutti questi anni. Ho già subito una aggressione mentre ero in un locale pubblico insieme a mia moglie. Ho visto incendiato il mio posto di lavoro. Questa è solo delinquenza. Le passeggiate che abbiamo organizzato? La gente è dalla nostra parte. E giudica utili queste passeggiate. Le persone che mi hanno aggredito? Le conosco perché provano a fare politica ma non ci riescono. Fanno solo delinquenza quando il sole cala, e solo alle spalle"...

19.01. Fiore parla con i cronisti ai margini del comizio: "I media e i centro sociali vogliono fare polemica su qualcosa che non esiste più cioè lo scontro tra fascismo e e antifascismo. Avremmo potuto rispondere diversamente ma il movimento ha deciso di rispondere pacificamente. La scarcerazione dei due militanti? Uno scandalo: vederli uscire dopo due giorni fa ridere. Ci sono due militanti di Forza Nuova ancora in carcere da cinque mesi per lo stesso motivo. Questo dimostra che la magistratura italiana e siciliana è deviata. Noi ci costituiremo parte civile contro Orlando perché dando i locali a certi centri sociali ha creato queste condizioni".

18.51. Al grido "Massimo Ursino orgoglio nazionale"' i militanti di Forza nuova hanno accolto il loro segretario provinciale aggredito martedì a Palermo arrivato al comizio del leader nazionale Roberto Fiore, atteso all'hotel Excelsior. Una quarantina gli esponenti di destra al momento presenti. Non sono stati fatti entrare i giornalisti di Repubblica e Ismaele La Vardera de Le Iene. (ANSA).

I SOLITI GIUSTIZIALISTI A SENSO UNICO.

«Diciotti, il pm di Agrigento non ha invaso il campo della politica». Intervista di Giovanni M. Jacobazzi l'1 Settembre 2018 su "Il Dubbio" a Oliviero Mazza, professore di procedura penale a Milano Bicocca. «La notizia di reato astrattamente c’era. Stiamo parlando di soggetti che erano in Italia, su una imbarcazione italiana, privati della libertà personale», dice Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale presso l’Università di Milano Bicocca.

Professore, il procuratore di Agrigento non ha invaso il campo della politica indagando il ministro dell’Interno?

«Nessuna invasione di campo. Ricordo che vige il principio dell’habeas corpus, garantito dall’art. 13 della Costituzione. Ad ogni persona, cittadina o no, va garantita la libertà personale. Libertà che può essere limitata solo in forza di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria. E il ministro dell’Interno non ha questo potere. Non si è trattato in questo caso di un respingimento».

L’iscrizione di Salvini è stato un atto dovuto da parte del magistrato Luigi Patronaggio?

«Sì. Nel nostro Paese esiste l’obbligatorietà dell’azione penale. Non sono consentiti al magistrato margini di discrezionalità o di valutazione politica a fronte di una notizia di reato».

Ieri è stato trasmesso al Tribunale dei ministri il fascicolo. Ci spiega l’iter?

«La legge prevede che il pm entro 15 giorni, accertata la natura ministeriale del reato, trasmetta gli atti al Tribunale dei ministri competente. Sarà questo organo inquirente composto da tre giudici a svolgere poi le indagini preliminari. Ove il collegio istruttorio intenda richiedere l’autorizzazione a procedere anziché archiviare dovrà trasmettere gli atti alla Camera di appartenenza del ministro. Questo quindi l’iter da seguire indipendentemente dall’eventuale rinuncia all’immunità annunciata da Salvini».

Previsioni?

«Nel caso in cui il Tribunale dei ministri decidesse di non archiviare, l’autorizzazione sarà respinta perché nella condotta di Salvini sarà ravvisata la sussistenza di un preminente interesse pubblico. Un voto diverso sarebbe una sfiducia nei confronti di Salvini e del governo, che dovrebbe dimettersi».

E se Salvini dovesse invece affrontare un processo?

«Dando per scontato che il fatto tipico ci sia nei termini indicati, ritengo che la questione si incentrerà sulla presenza o meno del dolo. Salvini ha agito nella convinzione di impedire l’ingresso illegale di persone in Italia. Non certo per limitarne la libertà personale».

Cosa doveva fare allora Salvini?

«Far scendere i migranti e trasferirli in un centro di identificazione. Non esiste l’arresto per il reato di ingresso clandestino. In caso ci fosse, si pensi alla ricadute enormi sul sistema penitenziario».

È stata una prova di forza del ministro?

«Sì. Mossa da un errore percettivo dello status di queste persone. Salvini sicuramente persegue il fine politico prevalente di contrastare l’immigrazione clandestina verso il Paese».

Il procuratore di Agrigento è stato accusato di essere andato oltre le sue competenze. Gli atti andavano trasmessi al Tribunale dei ministri “omessa ogni indagine”. A Palermo è arrivato un fascicolo di 50 pagine.

«Qui c’è un vulnus nella norma. Diciamo che il procuratore ha svolto delle indagini “preliminari” proprio per accertate che fosse davanti ad un reato ministeriale».

Caro Caselli, il blocco dei soccorsi lo ha realizzato un magistrato, scrive Piero Sansonetti il 30 agosto 2018 su "Il Dubbio".  Nell’intervista molto ampia e argomentata che ci ha rilasciato, e che abbiamo pubblicato sul giornale di ieri, Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Torino e di Palermo che nella sua vita è stato per lunghi anni impegnato in primissima linea, e con buoni successi, nell’attività investigativa su terrorismo e mafia ha sostenuto diverse idee che in buona parte non condivido. Caro Caselli, il blocco dei soccorsi lo ha realizzato un magistrato. Qui però mi interessa discutere su due soli punti, che mi sono sembrati i più importanti nella sua esposizione. Il primo riguarda l’anomalia italiana in fatto di rapporti tra politica e magistratura. Il secondo riguarda l’intervento della magistratura in questioni che forse – a mio, ma non a suo giudizio – dovrebbero essere di competenza esclusiva della politica. Sul primo punto Gian Carlo Caselli ha una tesi molto chiara che riassumo trascrivendo due brevi frasi pronunciate nell’intervista alla nostra Giulia Merlo. Prima frase: «Ed ecco lo scatenarsi, ormai da oltre 25 anni, di una crociata anti- giudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali». Seconda frase: «Nel nostro paese è antico e diffuso il malvezzo di ostacolare i magistrati scomodi perché adempiono il loro dovere senza riguardi per nessuno e con troppa indipendenza». Ora io faccio questa considerazione. Chiedo: a parità di livelli di corruzione (come ci dicono molti dati statistici raccolti dall’Eurispes e da vari altri istituti internazionali di statistica, l’Italia è nella media europea) esistono altri paesi, in Occidente, dove siano stati inquisiti in più occasioni il Presidente del Consiglio, più una trentina di ministri, più i governatori di quasi tutte le Regioni (o forse tutte: vado a memoria e non ricordo governatori inquisiti solo in Toscana)? Per non contare i sindaci: a occhio in questo quarto di secolo ne sono stati inquisiti più di mille. No, non esiste nessun altro paese. E oltretutto la grandissima maggioranza di questi esponenti della politica è stata prosciolta o assolta (basta dire che il capofila degli inquisiti, e cioè Berlusconi, ha collezionato almeno 70 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, e solo una condanna, per evasione fiscale, peraltro assai discutibile e comminata in via definitiva da un magistrato che è oggi un abituale commentatore del Fatto di Travaglio). Non mi risulta che tra i magistrati che hanno condotto in questo venticinquennio l’azione contro la politica ci siano molte teste cadute, o che qualcuno di loro abbia pagato un prezzo (tranne, forse, lo stesso Caselli, che fu sbarrato dalla politica quando concorreva per diventare Procuratore nazionale antimafia). Ci sono dei magistrati che hanno perso processi su processi contro i politici (o i loro parenti) e continuano ad operare, peraltro godendo di molta fama e sostenuti come eroi da diversi giornali. Mi pare difficile dire che c’è stato un assalto della politica alla magistratura e non il contrario. Chiedo ancora: qualcuno, in questi anni, ha toccato l’indipendenza della magistratura, fissata dalla Costituzione? No. Qualcuno ha separato le carriere dei magistrati? No. E poi chiedo: Qualcuno ha toccato l’immunità parlamentare o quella dei ministri? Sì, è stata abolita l’autorizzazione a procedere, stabilita anch’essa dalla Costituzione. Qualcuno ha varato qualche legge che rende incandidabile e ineleggibile un esponente politico condannato da un tribunale in primo grado? Si, l’ha varata il governo Monti a furor di Parlamento. Passo al secondo punto, che è quello più attuale. L’opportunità dell’intervento del Procuratore di Agrigento Patronaggio che ha indagato Salvini. Caselli difende Patronaggio, sostenendo che ha solo fatto il suo dovere, avendo riscontrato un reato, e cioè la limitazione della libertà dei 150 eritrei, e avendo riscontrato anche la violazione dell’articolo 13 della Costituzione che regola il diritto alla libertà personale. Anch’io penso che Salvini abbia violato l’articolo 13 della Costituzione. Ma questa è una questione assolutamente politica, oppure è una questione che riguarda la legittimità delle sue decisioni di impedire lo sbarco. Assumere una iniziativa politica in contrasto con la Costituzione è una cosa molto grave, in termini politici, ma di per sé non costituisce il reato. A Caselli io vorrei porre questa semplice domanda: non crede che l’intervento della magistratura nelle scelte politiche dei governi sia estremamente pericoloso per la tenuta della democrazia ( e anche per la tenuta e la credibilità della magistratura)? Per questa semplice ragione: che il singolo magistrato – il singolo: una persona sola – ha un potere spropositato. Vi ricordo che la situazione nella quale Salvini ha operato, bloccando la Diciotti, si è creata perché precedentemente era stato realizzato (non da Salvini) il blocco dei soccorritori nel Mediterraneo. Questo blocco non era stato provocato o deciso dalla politica, ma proprio da un magistrato: da un singolo magistrato. Il procuratore di Catania, che ha aperto un’inchiesta – con forte sostegno di stampa – contro le Ong e le navi dei soccorritori. L’inchiesta non aveva alcuna base giuridica – e infatti si è conclusa con un flop – ma aveva una gigantesca potenza politica. Il Procuratore di Catania con quell’inchiesta – e quella campagna di stampa – ha scardinato e demolito l’intero sistema dei soccorsi in mare, ed in questa situazione favorevole è poi intervenuto Salvini. La scomparsa della navi di soccorso ha provocato un incredibile aumento dei morti nei naufragi. Siamo sicuri che questa scelta – assolutamente politica – di ripulire il mare dalle Ong spettasse a un magistrato, e siamo sicuri che non mettesse a rischio la Costituzione assai più delle trovate propagandistiche e un po’ ciniche di Salvini?

Mi piacerebbe se si riuscisse a discutere più approfonditamente di queste cose. Non si tratta solo di discutere sulla divisione dei poteri tra politica e magistratura. Ma anche di controllo dei poteri. Di questi poteri. Un parlamentare non possiede neanche un’oncia del potere che ha in mano un giovanissimo sostituto procuratore (anche perché, come sappiamo tutti, il contrappeso dei Gip è, di solito, praticamente inesistente). E’ giusto lasciare che le cose restino così, e che i magistrati (non la magistratura) abbiano un potere politico molto superiore a quello dei politici? In nome di che? Di un’idea dell’Etica, francamente, molto discutibile.

Svelate tutte le accuse contro il pm anti-Salvini. È stata presentata oggi in Procura la denuncia contro Luigi Patronaggio, annunciata dal leader del Movimento Nazionale per la Sovranità. Ecco quali sono tutte le ipotesi di reato contestate, scrive Elena Barlozzari, Venerdì 31/08/2018, su "Il Giornale". Verrà inviata dalla procura di Roma a quella di Caltanissetta la denuncia contro il procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio. Come anticipato da Il Giornale.it qualche giorno fa, infatti, il j’accuse di Gianni Alemanno nei confronti del magistrato che indaga su Matteo Salvini e il suo capo di gabinetto è andato ben al di là dei proclami. Nell’atto depositato stamattina dal leader del Movimento Sovranista si chiede alla magistratura di accertare “eventuali comportamenti scorretti o illegittimi posti in essere dalla Procura di Agrigento”. Scorrendo l’elenco dei reati ipotizzati a carico del pm anti-Salvini non c’è più solo quello di “Attentato contro i diritti politici del cittadino” di cui all’articolo 294 del codice penale. L’ipotesi è che Patronaggio abbia violato anche gli articoli 338 cp (“Violenza o minaccia ad un corpo politico”), 347 cp (“Usurpazione di funzioni pubbliche”), 326 cp (“Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”). La denuncia parte dalla presunzione di innocenza del vicepremier che, secondo Gianni Alemanno, ha tenuto una condotta “trasparente e lineare”. “Noi non vogliamo difendere Matteo Salvini - specifica Alemanno - ma vogliamo difendere il nostro diritto di elettori a veder rispettato un mandato elettorale ben preciso: Salvini e la Lega hanno ottenuto voti promettendo di bloccare i flussi migratori, il contratto di governo che è stato votato dal parlamento recepisce questo impegno, ed è giusto che il ministro degli Interni vada avanti su questa strada”. Ecco, allora, perché la prima ipotesi di reato citata nella denuncia è proprio quella di “attentato ai diritti politici dei cittadini”. Ma non solo. L’aver preannunciato le eventuali conseguenze giudiziarie di un atto, invece, squisitamente politico “potrebbe concretare gli estremi dell’avvertimento esplicito o della velata minaccia”, spiega l’avvocato del Movimento, Domenico Naccari. Quindi l’usurpazione di pubbliche funzioni “quantomeno nella forma del tentativo” poiché “avendo dato comunicazione dei nominativi iscritti nel registro degli indagati, prima dell’autorizzazione all’ingresso nel territorio dello Stato dei migranti della Diciotti, la Procura potrebbe aver contribuito a determinare il via libera allo sbarco, usurpando una prerogativa non sua”. Ed infine, “il solo fatto di aver rivelato nel corso delle indagini i nomi degli indagati con specificazione delle gravi e infamanti notizie di reato a loro carico potrebbe configurare la violazione del segreto istruttorio”. Adesso, spetta al procuratore della Repubblica di Caltanissetta verificare la fondatezza delle accuse mosse da Alemanno. Nel caso in cui la richiesta dovesse essere accolta, il paradosso vorrebbe che il pm anti-Salvini si verrebbe a trovare nelle stesse condizioni del suo indagato. "Mi arrestò da innocente: ecco il pm che indaga Salvini".

Parla l'avvocato Arnone, che il procuratore di Agrigento mandò in cella in base a "prove" smontate dal Riesame, scrive Luca Fazzo, Domenica 02/09/2018, su "Il Giornale". In attesa di vedere che sorte avrà l'indagine per sequestro di persona e altri gravi reati aperta contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini, dal curriculum del suo protagonista, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, emergono precedenti non tutti tranquillizzanti. In almeno un caso, all'eclatante impatto mediatico delle manette scattate con la benedizione di Patronaggio è seguita la totale sconfessione dell'operato della Procura siciliana da parte sia del Riesame sia della Cassazione. Accade, fa parte del gioco: ma, almeno in quel caso, si può dire che le manette erano state usate a sproposito. Per non parlare di quanto accade dopo: davanti allo smantellamento delle accuse, Patronaggio non fa nessuna delle cose che potrebbe fare: non va avanti con l'inchiesta, ma nemmeno l'archivia. Semplicemente la lascia lì, a mollo, per due anni, con buona pace della legge che imporrebbe, a termini scaduti, di tirare le fila. Il caso finì sulle prime pagine e in tv: a venire sbattuto in galera fu l'avvocato Peppe Arnone, personaggio stranoto in Sicilia tanto per le sue battaglie ambientaliste e antimafia quanto per il carattere focoso ed estroverso: a lungo tessera del Pci, poi del Pd, oggi dichiarato elettore grillino benché «berlingueriano e latorriano». Il 12 novembre 2016 la Procura lo fece arrestare in flagrante per estorsione, all'uscita dello studio di un collega con due assegni in tasca per un totale di 14mila euro. La prima tranche ottenuta in seguito a un ricatto bello e buono, per la Procura. Una normale transazione, condotta alla luce del sole per conto di una cliente, secondo Arnone. Il gip conferma l'arresto. E in difesa del pm che ha disposto la cattura di Arnone scende in campo Luigi Patronaggio, all'epoca di fresca nomina a procuratore di Agrigento, che il 13 novembre dirama un comunicato stampa (ovviamente «al fine di fornire alla opinione pubblica una corretta e non fuorviante rappresentazione dei fatti») parlando di «robuste prove» a carico dell'avvocato. Dopo tre giorni di galera Arnone va ai domiciliari, ma il 25 novembre la Procura ottiene che sia rimesso in galera. Sullo sfondo si muovono ombre tutte siciliane: fantasmi e veleni. Arnone dal carcere fa sapere di ritenere il suo arresto conseguenza diretta della guerra condotta ai «poteri forti» che governerebbero la città, patria dell'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano: poteri forti di cui secondo Arnone farebbero parte a pieno titolo anche pezzi della magistratura, cui - con espressione decisamente vivida - l'avvocato «berlingueriano» rimprovera di «avere calpestato le leggi dello Stato come uva da mosto». Vero, non vero? Sta di fatto che dopo essere stato rimesso in cella, Arnone fa ricorso al tribunale del Riesame. E qui la tesi della Procura viene fatta a pezzetti, i giudici scrivono che una estorsione come quella teorizzata dai pm, passata da avvocati ad avvocati e pagata alla luce del sole, non si è mai vista: «Una condotta così veicolata e una richiesta di denaro avanzata e soddisfatta con assegni circolari, per altro posta in essere da un avvocato penalista, non appare certo univocamente sintomatica» né del reato di estorsione e nemmeno di quello assai più blando di «esercizio arbitrario delle proprie ragioni». Patronaggio non si arrende, e ricorre in Cassazione: il 6 aprile 2017, nuova batosta per la Procura, che reagisce abbandonando il fascicolo in un cassetto. E ora Arnone si prende una piccola rivincita. Scrive a Matteo Salvini: «Io Patronaggio lo conosco bene. Se vuole, la difendo io». 

«Ha abusato del suo ruolo di Pm: faccia il Pm in un’altra città». L’ex magistrato di Siracusa ha preso servizio a Sassari. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Siracusa, Favi: «Notizia sconcertante», scrive Giulia Merlo il 2 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Non può più fare il pm, anzi sì ma a Sassari. L’ex sostituto procuratore di Siracusa, Maurizio Musco, condannato in via definitiva a 18 mesi per abuso d’ufficio commesso nell’esercizio delle sue funzioni e poi indagato a Messina nell’ambito dell’inchiesta “Veleni in Procura”, ha infatti preso servizio nei giorni scorsi alla Procura sarda. Secondo i complessi meccanismi del Csm, questo è possibile nonostante il procedimento disciplinare a suo carico, che però è ancora in corso e che si era interrotto per attendere le motivazioni della sentenza di Cassazione. Dunque, per ora e in pendenza di procedimento, Musco può insediarsi nello stesso ruolo che ricopriva a Siracusa ma in diversa sede, quella dove era stato trasferito cinque anni fa dall’allora Guardasigilli Paola Severino, per incompatibilità ambientale. Per ricostruire come sia stato possibile, è necessario partire dalla vicenda processuale. Nel marzo 2017, viene confermata in Cassazione la condanna di Musco per avere (in concorso con il suo superiore di allora, l’ex procuratore capo Ugo Rossi) nel 2009 «violato consapevolmente il dovere di astensione» in un procedimento penale per diffamazione e dovuto ai suoi stretti rapporti di amicizia ed economici con l’avvocato Piero Amara (indagato poi nell’inchiesta “Veleni in Procura”). In questo modo il pm ha “pilotato” lo svolgimento del processo, rallentandone la definizione e «arrecando intenzionalmente un danno ingiusto alle parti civili», due avversari politici del padre di Amara. Prima della sentenza di condanna definitiva nel procedimento, tuttavia, il pm siracusano è già stato trasferito a Sassari per incompatibilità ambientale dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino, anche se nella pratica non prende servizio, perchè in un congedo ordinario per motivi di salute. Successivamente, scoppia il caso dei procedimenti penali gestiti illecitamente a Siracusa da una rete di avvocati, magistrati e imprenditori, oggetto di indagine in seguito alle denunce della stampa locale, agli esposti degli stessi magistrati e alle segnalazioni dell’Ordine degli Avvocati. Così, nel 2017, un’inchiesta congiunta delle procure di Roma e Messina porta all’ar- resto di 15 professionisti, tra i quali gli avvocati Amara e Giuseppe Calafiore e l’ex pm siracusano Giancarlo Longo. Secondo questo filone d’inchiesta, i rapporti di Logo e Amara erano una sorta di «prosecuzione sottotraccia» delle relazioni che Musco aveva con lo stesso Amara e lo stesso Musco è oggetto d’indagine. Prima che l’inchiesta deflagri con gli arresti, però, Musco chiede spontaneamente al Csm (che non ha ancora adottato una soluzione definitiva per la sua posizione, in attesa delle motivazioni di Cassazione sul procedimento del 2009 per abuso d’ufficio) di venire trasferito a Caltanissetta, nell’ufficio del giudice civile. In questo modo, si blocca il procedimento disciplinare a suo carico. È così che oggi, anche se la condanna è divenuta definitiva, Musco – rientrato dal congedo è stato inviato di nuovo alla Procura Sassari dal Csm uscente, in attesa che si svolga il procedimento disciplinare a suo carico (che potrebbe anche determinare la sua destituzione dal ruolo). Ecco che così si concretizza una situazione quantomeno anomala, frutto di barocchismi procedurali che, nei fatti, permettono – almeno temporaneamente – a un magistrato condannato per abuso d’ufficio di indagare altri per lo stesso reato, però in una diversa procura. «Una notizia sconcertante», ha commentato sul punto il presidente dell’Ordine di Siracusa, Francesco Favi: «Il pensiero va a tutti gli altri pubblici funzionari che, davanti a sentenze passate in giudicato, vengono sanzionati anche con la perdita del posto di lavoro». Ora, tuttavia, non resta che attendere l’insediamento del nuovo Csm (e il prosieguo dell’inchiesta “Veleni in Procura”) per l’epilogo della vicenda. Fino ad allora, la cronaca dice che Musco ha appena preso possesso del suo nuovo ufficio al terzo piano del palazzo di giustizia di via Roma, a Sassari.

Quanti ridono delle disgrazie (degli altri), scrive Domenica 2 settembre 2018 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Lo sventurato festeggiò. A Livorno, al telefono, c’era chi si diceva pronto a brindare per l’alluvione del settembre 2017 che provocò otto morti: sacchi di sale pagati a peso d’oro, la gara per il servizio di allerta meteo truccata. E intercettazioni con una frase agghiacciante: «Brinderemo all’alluvione». C’è questo e altro nelle accuse che hanno portato agli arresti di Riccardo Stefanini, ex coordinatore della protezione civile del Comune di Livorno (già nei guai per l’accusa di peculato) ed Emanuele Fiaschi, imprenditore e titolare della ditta Tecnospurghi. Qualcosa del genere era già successo a L’Aquila per il terremoto del 2009. Francesco Piscicelli e suo cognato Pierfrancesco Gagliardi ridevano alla notizia del terremoto che aveva appena devastato L’Aquila, parlando degli «affari» che si sarebbero potuti fare in Abruzzo con la ricostruzione. Altre sinistre risate sono state intercettate in Emilia, dopo il terremoto del 2012: le cosche calabresi pregustavano i soldi della ricostruzione. A Genova, qualcuno sta ridendo? Ormai, di fronte alle immani tragedie, non c’è più ritegno, non c’è più rispetto: il sipario è sempre aperto. Ma questi sono solo sventurati che ridono delle sventure altrui? Sono solo delinquenti che cercano di trasformare i disastri in opportunità? Sì, certo. Mai dimenticare, però, che le grandi fortune di alcuni — tutte, o quasi tutte — nascono da una rovina altrui.

Prescrizione: tu quoque, Lilli Gruber…, scrive Piero Sansonetti il 31 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La polemica. Persino Lilli Gruber, che pure è una giornalista molto esperta, intelligente e di ottima cultura, ieri non ha resistito alla tentazione di gettarsi, lancia in resta, contro la prescrizione. Indicandola come il simbolo e il cuore dei problemi della giustizia italiana. Lo ha fatto scrivendo sul “7” (il settimanale del Corriere della Sera), in risposta alla lettera di un lettore. Tu quoque, Lilli Gruber, appoggi la campagna contro la prescrizione? Questo lettore (Mauro Chiostri), dopo una serie di osservazioni molto serie e garbate sui politici che hanno usato il disastro di Genova come ottima occasione per fare propaganda, tocca, con una certa indignazione, il tema della prescrizione, sostenendo che probabilmente salverà tutti i colpevoli. Lilli Gruber gli risponde dandogli ragione, e raccontando di come, all’inizio degli anni settanta, per poche settimane la prescrizione non salvò alcuni dei responsabili del disastro del Vajont. E infine esprimendo l’augurio che il nuovo governo sia in grado, su questo terreno, di dimostrare le proprie capacità riformatrici. Intendendo dire immagino – che il governo- Conte potrebbe dar prova delle sue capacità attuando il programma dei 5 Stelle e abolendo, o almeno allungando molto, i termini di prescrizione. Del disastro del Vajont abbiamo già parlato nei giorni scorsi. E’ stato una delle più grandi tragedie nazionali del dopoguerra. Quasi duemila morti travolti da una inondazione gigantesca e violentissima che ridusse in sassi e polvere un intero paese, Longarone, in provincia di Belluno. L’inondazione fu provocata da un pezzo del monte Toc, che si staccò e piombò nel bacino della diga, appunto la diga del Vajont (che è ancora lì, forte e maestosa) che era una costruzione recente e realizzata ad opera d’arte in tutto e per tutto tranne che per un particolare: il rischio di frana del Monte Toc, che i geologi conoscevano e che alcuni giornalisti coraggiosi avevano denunciato, prendendosi improperi e sberleffi da imprenditori, politici e dai mostri sacri del giornalismo italiano.

Eravamo nel novembre del 1963. Il processo si concluse otto anni dopo. Effettivamente alla vigilia della prescrizione. Allora c’era un altro codice di procedura penale, un’altra magistratura, un’altra stampa. Anche il codice penale era diverso, molto meno attento ai reati ambientali. Le imputazioni contro i responsabili furono abbastanza leggere, e questo accorciò i termini di prescrizione. I due imputati maggiori furono condannati a sei e a quattro anni e mezzo di prigione.

Oggi, per Genova, c’è il rischio della prescrizione? Naturalmente, essendo passati pochi giorni dalla tragedia del ponte crollato, è difficile immaginare se ci saranno imputati, per quali reati, e in che tempi. E’ un’indagine molto complessa, e individuare le responsabilità non sarà facile. La frase del premier Conte (“non possiamo aspettare i tempi della giustizia”) è stata infelice, una vera e propria gaffe, fortunatamente criticata un po’ da tutti. Quello che sappiamo è che i rischi di prescrizione, se saranno individuati gli imputati, sono molto bassi. Proviamo a immaginare i reati. Disastro colposo e/ o omicidio plurimo colposo. Nel primo caso credo che la prescrizione potrebbe scattare dopo 12 anni, nel secondo caso (abbastanza probabile perché ci sono 43 morti) credo che la prescrizione scatti dopo 30 anni.

Basteranno? Ammettiamo anche – per assurdo – che non bastino, e che nell’agosto del 2048 il processo sia ancora in corso. Sarebbe in quel caso giusto o no cercare di andare avanti per condannare magari nel 2040 o nel 2045 eventuali imputati rimasti in vita e ragionevolmente ultraottantenni? Vedi, amica Gruber, il problema è questo: nel “senso comune” ormai è affermatissima l’idea che il male della giustizia sia la prescrizione, e che la prescrizione sia una norma salva- manigoldi, abilmente usata dagli avvocati, e voluta sostanzialmente da Berlusconi per coprire i suoi magheggi. Beh: è una fake news. Esattamente come tante altre fake news che avvelenano il nostro dibattito politico, a partire da quelle su l’invasione dei migranti, sull’aumento degli sbarchi, sull’impennarsi della criminalità, e sull’aumento esponenziale della corruzione politica. La prescrizione non è affatto il male della nostra giustizia, non è affatto un marchigengo degli avvocati, non è affatto un’invenzione di Berlusconi: è semplicemente una misura che in parte – solo in parte – attenua gli effetti deleteri di una giustizia lentissima e che funziona male. E’ chiaro che uno dei nostri problemi è la lentezza della giustizia. I tribunali sono intasati. Non si risolve sicuramente questo problema concedendo ai magistrati il diritto al processo infinito. Il processo infinito è peggio del processo lunghissimo. E ha tra i suoi effetti quello di rendere ancora più lunga la giustizia. Il processo sul Vajont, nelle sue ultime fasi, fu affrettato proprio per evitare la prescrizione. Altrimenti sarebbe durato anni ancora. La prescrizione è una misura che serve a garantire un minimo di giustizia. Il diritto a un processo giusto e rapido, affermato nell’articolo 111 della Costituzione, riguarda sicuramente le vittime dei reati, ma anche gli imputati. I quali, per altro, come si sa, non sempre sono colpevoli. La lunghezza del processo è già una condanna insopportabile e sommamente ingiusta per un imputato innocente. Ma è una ingiustizia anche una condanna che arriva venti o trenta anni dopo il reato, quando l’imputato è una persona molto diversa da quella che aveva commesso il delitto. Poi c’è un’altra cosa da dire, così, solo perché si sappia: non è vero che sono gli avvocati quelli che lavorano per giungere alla prescrizione. Nel 70 per cento dei casi la prescrizione scatta prima che il processo cominci, e dunque prima che l’avvocato possa neppure iniziare a muoversi. Vedi, Gruber, quanti luoghi comuni? Sono molto pericolosi perché spingono l’opinione pubblica a scagliarsi contro il diritto alla difesa e al giusto processo. Specie in coincidenza con le grandi emozioni nazionali, prodotte da sciagure come quella di Genova. Ma allora come si può fare per sveltire la giustizia? Bisognerebbe investire un po’ di soldi, per rafforzare le strutture e aumentare il personale. Questo è essenziale. E poi si potrebbero fare alcune piccole riforme a costo zero. Per esempio: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, rinuncia all’appello da parte dell’accusa (come in molti paesi occidentali), responsabilità civile dei magistrati. Poi io penso che si potrebbe prendere un’altra misura molto utile (richiesta da anni dagli amici radicali: una robusta amnistia. Piccole cose? No, probabilmente dimezzerebbero i tempi della giustizia, senza offendere lo stato di diritto. Il problema è che non piacciono a una parte della magistratura. Che è sempre riuscita a bloccarle.

A Otto e mezzo uno show giustizialista. Dodici domande a Lilli Gruber, scrive Piero Sansonetti il 18 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Marco Travaglio, Nicola Gratteri e Beppe Severgnini ospiti di La7 in un dibattito su politica e giustizia pieno di false informazioni e privo di contraddittorio. Ma questo è buon giornalismo? Indiscutibilmente Lilli Gruber è una delle giornaliste più prestigiose della televisione italiana. È preparata, ha carisma. Però ogni tanto sbaglia anche lei. Spesso sbaglia l’assortimento degli ospiti. E se commette questo errore senza conoscere troppo bene l’argomento del quale si parla, e dunque senza poter esercitare lei stessa l’obbligo della critica, finisce per fornire ai lettori un cattivo servizio, e per confondere le idee un po’ a tutti. Così è stato venerdì scorso, durante la puntata di “Otto e Mezzo”. Tema, la Giustizia. Ospiti: Nicola Gratteri (da Gruber definito Pm e saggista) Marco Travaglio e Beppe Severgnini. Dov’era l’errore nell’assortimento? I tre, sui temi in discussione, avevano idee perfettamente collimanti. E così non solo nessuno dissentiva, ma venivano lasciate passar per buone (cioè per vere) affermazioni del tutto infondate, o false, o quantomeno discutibilissime. Uno degli ospiti parlava, e gli altri due (ma anche Lilli Gruber, talvolta) annuivano, con la testa o coi sorrisi, in un clima sicuramente idilliaco ma che aveva a che fare poco poco sia col giornalismo, o con l’informazione, sia, ovviamente, col dibattito politico. Qui riassumo – senza commentare, o quasi… – in dodici punti solo le principali affermazioni non vere (o contestabilissime) che mi sono segnato su un taccuino. E provo a smentirle, sulla base dei fatti, e dei codici, e delle leggi. O anche del buonsenso.

Il processo a distanza. Il dottor Gratteri ha spiegato tutti i vantaggi del processo a distanza. Che funziona così: l’imputato non è presente in aula ma sta in carcere ed è collegato per via telematica in video e in audio. Dunque non ha il suo avvocato al fianco, non può consultarsi con lui in tempo reale, non è di fronte ai testimoni di accusa, né al pubblico ministero, non può intervenire, non può vedere documenti che eventualmente l’accusa esibisce, eccetera eccetera. Gratteri però questi inconvenienti non li ha elencati. Ha solo detto che comunque l’imputato può eventualmente consultarsi con l’avvocato via cellulare. E poi ha spiegato che in questo modo si risparmiano 70 milioni all’anno, facendoci capire che più che dello Stato di diritto è bene occuparsi del bilancio. Ha ragione Gratteri? No, ha torto. Il processo a distanza indubbiamente danneggia l’imputato e le sue possibilità di difesa. E lo costringe (se ha i soldi per pagarseli) ad avere due avvocati, uno in aula e uno accanto a lui in carcere. Ma se è povero, niente da fare. E soprattutto Gratteri ha torto perché esiste l’articolo 111 della Costituzione che dice così: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato (…) abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico (…)». In coscienza, qualcuno può ritenere che il processo a distanza, nel quale l’imputato, ad esempio, non può mai trovarsi faccia a faccia davanti al testimone d’accusa, e neppure davanti al giudice, è compatibile con questa norma della Costituzione? L’altro giorno persino il nuovo presidente dell’Anm (associazione nazionale magistrati) ha detto che il processo a distanza non sta in piedi. In trasmissione non si è neppure fatto cenno a questa circostanza.

«Gli avvocati difendono lo status quo». Questa è stata la motivazione fornita da Beppe Severgnini (editorialista del “Corriere della Sera” e direttore del settimanale “Sette”) per spiegare l’opposizione degli avvocati al processo a distanza. Eppure gli avvocati da molti e molti anni chiedono profondissime riforme della giustizia: la separazione delle carriere, per esempio, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la riforma della carcerazione preventiva, la regolamentazione delle intercettazioni e tante altre. A opporsi a queste riforme è stata una parte della magistratura, mai gli avvocati. Cosa c’entra lo Status quo? Il problema è la difesa dello Stato di diritto. Che alcuni considerano un orpello, una cosa antimoderna, incompatibile con una giustizia severa ed economica, e che gli avvocati invece difendono coi denti.

Carceri affollate per mancanza di personale. Gratteri ha sostenuto che non esisterebbe il sovraffollamento delle carceri se ci fosse il personale sufficiente per usare tutte le celle a disposizione. Ma siccome il personale è usato per i trasferimenti dei detenuti (che potrebbero essere aboliti col processo a distanza) le celle restano vuote. Non è vero. Le carceri sono sovraffollate semplicemente perché la massima capienza (e cioè 45 mila posti letto) è inferiore al numero dei detenuti (55 mila).

Detenuti stranieri. Gratteri ha fatto notare che in Africa il costo della vita è molto basso. E dunque ha auspicato che i detenuti in Italia, di nazionalità africana, siano rispediti nei paesi d’origine, con accordi che prevedano che l’Italia paghi loro il vitto. In questo modo – ha spiegato – svuoteremmo le carceri e risparmieremmo un sacco di soldi, perché il vitto africano costa poco. Applausi di Severgnini. Purtroppo nessuno ha fatto notare a Gratteri che in alcune carceri africane (per esempio in Libia) spesso si applica la tortura, e gli standard umani sono inferiori a qualunque principio costituzionale italiano.

Carcere duro. Gratteri – in contrasto con il linguaggio usato solitamente in magistratura – ha affermato che il famoso articolo 41 bis consiste nel carcere duro. Probabilmente è stata una disattenzione. I magistrati hanno sempre sostenuto che è solo una forma di maggiore vigilanza sull’attività del detenuti. Se il 41 bis è carcere duro come dice Gratteri (e su questo, probabilmente, ha ragione) è una forma incostituzionale e illegale di detenzione che va immediatamente abolita.

Prescrizione. Sempre Gratteri ha sostenuto che non va allungata la prescrizione ma ne vanno abolite le cause. E le cause sono la lunghezza dei processi. Anche qui: d’accordo. E qual è la causa principale della lunghezza dei processi? Dice Gratteri: il mancato processo a distanza. E se invece – chiediamo – si abolisse l’obbligatorietà dell’azione penale, come in tanti paesi occidentali, e si dimezzasse, o più, il numero dei processi? E se si abolisse il diritto dell’accusa di fare appello dopo una assoluzione in primo grado, dal momento che una sentenza di assoluzione in primo grado è di per se un “ragionevole dubbio” sulla possibile colpevolezza?

Tasso di impunità. 1. Marco Travaglio ha sostenuto che il provvedimento cosiddetto “svuota- carceri” ha disposto che sia impossibile, anche dopo la sentenza definitiva, mettere in prigione qualcuno se è stato condannato a meno di 4 anni. Prima – ha detto Travaglio – il limite era tre anni, ora l’hanno aumentato. Non è vero. Travaglio probabilmente ha fatto parecchia confusione. Esistono vari provvedimenti e non si capisce bene a quale lui si riferisca. Uno è la riforma carceraria di trent’anni fa, quella firmata dal parlamentare cattolico di sinistra Mario Gozzini, e approvata all’unanimità (tranne i neofascisti), che prevedeva la possibilità di varie misure alternative alla detenzione per i detenuti considerati non pericolosi. Tra queste misure c’era la possibilità di scontare la pena, o una parte della pena, in forme diverse dalla detenzione in cella. Il giudice di sorveglianza ha la possibilità di sospendere la pena per un certo numero di mesi, in caso di condanna a meno di tre anni, per dare il tempo dal condannato di chiedere le misure alternative. Ha la facoltà – attenzione – non l’obbligo. La decisione spetta solo a lui, non al parlamento. L’idea di portare dai tre ai quattro anni il tetto per ottenere queste misure, non è stata ancora realizzata. E’ una legge delega che aspetta i decreti attuativi. Non riguarda tutti i carcerati ma solo le donne incinta, i padri con bambini sotto dieci anni, i malati, gli anziani e i ragazzi sotto i 21 anni. Io non dico che tutti debbano conoscere per filo e per segno le leggi, ma insomma è proprio necessario parlare in tv, con prosa apodittica, di cose che non si conoscono? (Scusate il commento, mi è scappato…)

Tasso di impunità. 2. Travaglio sostiene che in questi ultimi anni le carceri si sono svuotate e i tassi di impunità aumentano, perché i politici fanno leggi per non andare loro in galera, e, con effetto- domino, finisce che aiutano anche i delinquenti di strada. E così il crimine aumenta. I delinquenti restano a piede libero, e la gente si spaventa e si arma. È giusta questa analisi? No, è sbagliata. Le carceri, in questi anni, non si sono svuotate ma riempite. E i delitti – viceversa – non sono aumentati ma diminuiti. Per l’esattezza, nel 1970 i detenuti erano circa 25.000. Nel 1990 erano circa 30 mila. Ora sono 55 mila. Negli anni 70 il tasso di delinquenza era circa il doppio, rispetto ad oggi. Gli omicidi circa 4 volte di più. Diciamo che viviamo in una società molto più sicura, molto più legale e anche molto più repressiva rispetto a quella di 30 o 40 anni fa.

Reati dei colletti bianchi. Beppe Severgnini ha sostenuto che in Italia esistono solo 230 colletti bianchi messi in prigione per reati finanziari. In Germania – ha detto – sono 18 volte di più. Ignoro l’origine di questi dati. Ho dato un’occhiata al foglio ufficiale del Dap (il dipartimento penitenziario). Prendo qualche numero a caso. Detenuti per bancarotta l’ultimo giorno dello scorso anno: 517. Per appropriazione indebita: 342. Per insolvenza fraudolenta: 726. Peculato: 341. Omissione d’atti d’ufficio: 401. Non voglio conteggiare truffa (1505) o altri reati simili, perché riguardano sia i colletti bianchi che la povera gente. Ho citato solo alcuni reati a caso. Ne mancano moltissimi altri, fra i reati dei colletti bianchi. Solo con questi che ho citato (e senza conteggiare le truffe) siamo oltre i 2400 detenuti. Da dove esce quel dato di 240? Nelle prigioni italiane ci sono un senatore in carica (Antonio Caridi) e due parlamentari della scorsa legislatura (Dell’Utri e Cosentino) più alcuni che sono ai domiciliari. Non sono sicurissimo che esistano molti altri paesi europei con dei parlamentari in prigione.

Carcerazione preventiva. Marco Travaglio ha spiegato che in Italia è difficile ottenere la carcerazione preventiva, perché per ottenerla bisogna beccare il reo mentre sta tenendo un testimone col coltello alla gola. Cioè bisogna dimostrare che sta cercando di fuggire, o di inquinare le prove, o di reiterare il reato. Non è vero. E’ sufficiente il rischio. Il Pm e il Gip, a loro discrezione, decidono se esiste o no il rischio di inquinamento fuga o reiterazione. L’Italia infatti è il paese occidentale con la percentuale più alta di carcerazione preventiva. Circa il 33 per cento. Cioè più di 15 mila persone. Dei quali almeno la metà risulterà innocente. Negli ultimi 10 anni le ingiuste detenzioni accertate sono state 7000 all’anno. Cioè, più o meno, venti al giorno. Non bastano ancora?

Il capitan “Riscrivo” (Consip). Travaglio ha difeso il capitano dei carabinieri (capo del Noe) accusato dalla Procura di Roma di falso per aver consegnato una “informativa” nella quale si sosteneva che l’imprenditore Romeo era stato intercettato mentre diceva di avere incontrato Tiziano Renzi. L’informativa – sulla quale si è costruito un clamoroso scandalo sui giornali – era sbagliata, perché non era Romeo ma era l’ex parlamentare Italo Bocchino quello che diceva di avere incontrato Renzi, e si riferiva non a Tiziano ma a Matteo, che Bocchino, in quanto ex parlamentare, incontra spesso nei corridoi di Montecitorio. Travaglio ha detto che il capitano probabilmente ha solo commesso un errore “di svista”, perché ha sbagliato nell’informativa ma non nella trascrizione dell’intercettazione che invece riporta giustamente il nome di Bocchino. Già, ma Travaglio non ha detto che la trascrizione non l’ha eseguita il capitano, l’hanno eseguita un brigadiere e un maresciallo, i quali l’hanno consegnata al capitano, correttamente, e il capitano ha poi compilato l’informativa, e l’ha consegnata alla magistratura, invertendo i nomi.

Che forse il capitan Riscrivo sia innocente, e abbia solo commesso un errore involontario, è possibilissimo. Solo stupisce l’eccesso di garantismo di Travaglio, abbastanza insolito, e qualche omissione nel riferire i fatti. Forse anche perché il Noe del capitan “Riscrivo” (come è stato scherzosamente ribattezzato) tempo fa aveva fornito presumibilmente al “Fatto” una intercettazione di Renzi che parlava male di Enrico Letta col comandante della Gdf (intercettazione priva di rilievo penale e che quindi andava distrutta e non passata i giornali).

Intercettazioni. Il dottor Gratteri ha sostenuto che la giustizia italiana vive di intercettazioni – a differenza degli altri paesi occidentali – perché sono economiche. Dice che altri metodi d’indagine, più concreti – accertamenti, pedinamenti, riscontri, testimonianze, eccetera – costano troppo. Severgnini a questo punto lo ha proposto come ministro della Giustizia. A me sembrerebbe più adatto a fare il ministro dell’economia. Mi fermo qui. Non è successo niente di grave, naturalmente. Tutti errori veniali. Ma il numero di informazioni inesatte fornite ai telespettatori in 38 minuti di trasmissione è stato davvero altissimo. Io dico solo, sommessamente, che questo non è buon giornalismo. Può succedere. E’ che sui temi della giustizia succede spesso. Magari sarebbe opportuno, talvolta, quando si parla di giustizia, invitare non solo fans del “Fatto”, ma anche qualche esperto, qualche avvocato, qualcuno che conosce bene le cose e le ha studiate un po’. Voi direte: ma Gratteri le conosce bene! Non mi pare, francamente.

Facci: «Casaleggio “torchiato” dai suoi dipendenti. Che brutta fine il giornalismo». «La trasmissione di Lilli Gruber era una cosa organizzata tra amici: un ipersistema di protezione che alla fine si è ritorto contro il manager grillino», scrive Giulia Merlo l'8 Aprile 2017 su "Il Dubbio". «Alla fine anche i grillini hanno capito che, purtroppo per loro, l’80% degli italiani si informano attraverso la televisione e i giornali». La firma di Libero Filippo Facci analizza l’intervista televisiva di Davide Casaleggio – «un tentativo per ora goffo di accreditarsi davanti a un pubblico strategico» – frutto del modo «scandaloso» con cui alcuni giornalisti accettano di sottostare alle pretese dei 5 Stelle, pur di averli in video.

L’altra sera Davide Casaleggio era a Otto e mezzo da Lilli Gruber. Che cosa non ha funzionato?

«Per ora a non aver funzionato è stato lui. E questo per le regole classiche, secondo cui alcuni personaggi funzionano e altri no: gli mancavano gli elementi necessari, ovvero la telegenia e l’apparente spontaneità. Davide Casaleggio, lo abbiamo visto tutti in prima serata, parla in modo palesemente automatico – “imparato”, per dirla alla siciliana – a scatti e con frasi fatte. Insomma, tecnicamente non è stato in grado di catturare lo spettatore».

E a livello di contenuti?

«A furia di non volersi sbilanciare, Casaleggio era più abbottonato di un vecchio segretario democristiano. Del resto, la trasmissione era una cosa organizzata tra amici: un ipersistema di protezione che gli si è ritorto contro, perchè ne è uscito un prodotto televisivo ingessatissimo. Di più, non si è capito assolutamente nulla di ciò che ha detto».

Poco mordente da parte degli intervistatori?

«Basta guardare chi era seduto intorno a quel tavolo. Da una parte un personaggio come Gianluigi Nuzzi, che insieme alla società della moglie, la VisVerbi, sta organizzando la manifestazione di Casaleggio a Ivrea. Dall’altra Domenico De Masi, uno che in quella società veleggia spesso pur – per essere precisi – non essendone socio».

Due nomi troppo contigui al Movimento?

«Più che altro una sorta di cordone sanitario che lo stesso Davide Casaleggio si è costruito intorno. Ho la vaga impressione che, almeno Nuzzi, alla fine della trasmissione si sia accorto che qualcosa non funzionava. L’unica che lo ha capito davvero lì per lì, però, è stata Lilli Gruber. Si è resa conto che la puntata non decollava e ha osato fare anche ciò che altrimenti mancava: delle domande».

Ma come spiega questo tentativo, per quanto goffo sia risultato, di avvicinarsi ai tanto detestati talk show?

«I 5 Stelle puntano a cambiare il loro rapporto con la stampa, ma la vorrebbero asservita a uno schema che di nuovo e rivoluzionario ha davvero poco. Per questo cominciano sì ad andare nei programmi e nei talk show, ma lo fanno ponendo condizioni inaccettabili, come abbiamo visto a Otto e mezzo dalla Gruber».

Ma non dicevano che il giornalismo italiano è fatto solo di zombie?

«Ci hanno mandati, secondo il loro verbo, affanculo con i primi Vaffaday, ma ora ci vengono a cercare. Stanno prendendo atto che i famosi “giornalisti morti” sono tutti vivi e che anche i giornali, alla fine, sono ancora lì e pigliano persino le sovvenzioni pubbliche. Insomma, hanno capito di avere bisogno dei mezzi con cui, purtroppo per loro, l’80% degli italiani ancora si informa, ovvero la carta stampata e soprattutto la televisione».

E’ un po’ colpa anche dei giornalisti, però, se predispongono ai 5 Stelle salotti pubblici così comodi…

«Io considero inaccettabile l’approccio dei grillini e altrettanto scandaloso anche il modo in alcuni giornalisti accettano i loro inviti e li ricambiano».

Parla dell’invito della Gruber in trasmissione o dei colleghi che intervengono alla convention di Casaleggio a Ivrea?

«Entrambi. E’ inaccettabile che i giornalisti vadano a Ivrea dopo aver assecondato le condizioni dei grillini e soprattutto è inaccettabile la maniera con cui colleghi e conduttori cedano alle loro richieste pur di averli nelle loro trasmissioni».

E perchè lo fanno?

«L’incontro di Ivrea si intitola “Costruire il futuro” e forse molti giornalisti si preoccupano di costruire il loro di futuro, senza badare al presente. Un presente fatto delle condizioni che i grillini pongono per partecipare ai programmi televisivi, alle interviste che concedono o che negano. Insomma, loro immaginano un sistema di informazione terribilmente vecchio e di sicuro poco democratico. In fin dei conti, di che cosa ci stiamo occupando, parlando dell’intervista di Casaleggio? Di consacrare il legame e la discendenza di sangue di uno che vale uno solo in quanto figlio di Gianroberto Casaleggio».

Secondo lei Davide Casaleggio punta a un ruolo meno da eminenza grigia rispetto a quello del padre?

«Forse cerca una via di mezzo tra il dietro le quinte e la politica di piazza. Sicuramente dalle parti di Grillo si sono accorti che, al di là dei roboanti propositi da fine del mondo, i giornali e la televisione sono ancora un territorio strategico, che loro devono occupare e soprattutto rassicurare».

Perchè rassicurare?

«Perchè c’è tutta la parte adulta e anziana della popolazione che non li conosce, dato che non frequenta il web. Così si spiega l’incursione in prima serata dalla Gruber: un tentativo di accreditarsi.

Un tentativo che però non sembra riuscito.

«Sì, almeno per ora lo hanno fatto in modo goffo. Tutte le protezioni che che Casaleggio si è costruito intorno alla fine lo hanno incastrato e reso anche un po’ ridicolo. Insomma, tutto si può dire tranne che la trasmissione abbia funzionato».

La democrazia italiana e il potere ROSSO che la soffoca, scrive il 26 agosto 2018 Salvo Serra su Il Circolaccio. Gli assenti hanno sempre torto. Almeno secondo il famoso detto, chi non c’è o no si schiera ha sempre torto. Il caso Salvini, non è solo una questione di migranti ma è, soprattutto, un grave sintomo di una democrazia alla deriva a prescindere dalla posizione assunta. In Italia, da un ventennio a questa parte, non si capisce più se il potere democratico appartiene al popolo o ai magistrati politicizzati. E ieri sera chi si è perso la sceneggiata della Procura di Agrigento definita “rossa” dai leghisti, ha bucato un vero show di antidemocrazia. Le decisioni del Ministro Salvini che è opportuno ricordare in questa singolare circostanza, si trova al Viminale per volontà del popolo e non per avere vinto un concorso o per raccomandazioni specifiche, possono essere opinabili ma non di certo essere oggetto di indagine. L’ omologazione di pensiero tanto, cara ai regimi comunisti attuali e passati, come quella dei regimi fascisti del 900, finiscono solo per annichilire un popolo. Nessuno della sinistra parla dell’invasione cinese avvenuta in Italia con gente scappata dalle cattiverie del comunismo asiatico. La sinistra e Salvini parlano poco dei cinesi che hanno distrutto il commercio al dettaglio italiano. Si parla di migranti che arrivano senza permesso. Accusare un Ministro con l’uso facile dell’avviso di garanzia, cosa molto gradita ai magistrati rossi, solo perché intende portare avanti il programma per cui è stato votato è di certo, un grave attacco alla democrazia. Qui non si tratta di storie libertine, di spaccio o corruzione. Salvini ha solo applicato il suo programma politico chiedendo all’ Europa di intervenire. Nel suo Programma che è stato votato da milioni di italiani era stato ampiamente detto l’eventuale opposizione ha il diritto di manifestare le proprie idee. L’ opposizione rossa la deve smettere di usare le procure per limitare la politica altrui e sguazzare nell’ illegalità dimostrata di molti affiliati alle loro sezioni. Questo sistema del giustizialismo politico, ha finito per distruggere un Paese e non ha limitati i veti fenomeni corruttivi e malavitosi. Il caso Montante dimostra come sotto l’ombrellone rosso, si sono nascoste le più vergognose truffe a carico dei cittadini. Il caso Salvini apre una piaga che rimaneva solo sotto traccia poiché a governare è stato il Pd. La gran loggia dei Dem con l’aiuto della magistratura e ella stampa alleata ha favorito le potenti lobby finanziare sputando merda sui nemici. Il caso Monte dei Paschi, Autostrade, Banca Etruria e del fratello di Renzi docet. Miliardi di Euro di imbrogli che sono stati poco visti dalle procure amiche. Un dibattito o una conferenza come tante ma una vera e propria lezione sul “potere rosso” che domina le città e il suo contado. Ha posto in evidenza il potere di sinistra e cosa si rischia a mettersi contro antimafia e gruppi di sinistra. L’occasione della presentazione del libro (Mussari: un’autobiografia non autorizzata), ha consentito all’autore più detestato dalla casta senese, roccaforte Pd, una ricognizione su modi, metodi, personaggi e disavventure di un sistema incentrato sul Monte dei paschi e sul Pd. L’ autore del libro   aderente ai Dem non lobbysti, ha parlato del perchè la grande stampa locale nazionale non si azzarda a sfiorare certi temi e certi personaggi. Di come l’opposizione politica tradizionale sia più interessata a far parte del “grande gioco” che a scalzare gli attuali signori. Di come gli alleati minori del Pd venivano ridotti a nient’altro che damigelle di compagnia. Di come in tutti i modi hanno cercato di nascondere una questione morale ormai evidente. Ascheri ha spiegato il perchè del successo dei suoi libri-inchiesta: nessuno aveva mai osato puntare i riflettori in certi palazzi e su certi personaggi. Siena è diventato un caso nazionale dopo le traversie della terza banca italiana, se ne sono occupati poco i giornali nazionali e internazionali (non solo quelli economici), se ne occupano pochissimo trasmissioni televisive alleate come Piazza Pulita e Ballarò. Solo certi media locali si limitano a segnalare avvicendamenti al vertice, dismissioni, cessioni di pacchetti azionari senza battere ciglio. E pure quella che sembrava essere l’ultima spiaggia, la trincea da tenere ad ogni costo: la senesità del Monte, è ormai bella che andata. I tempi d’oro dei sodi distribuiti dalla Fonazione a piene mani sono finiti per sempre, e sarà un bel guaio. Perchè non tutti sono stati dissipati in opere inutili o sovradimensionate come la pensilona e il nuovo stadio. E mentre il potere rosso cerca in tutti i modi di salvare se stesso senza voler fare i conti con il disastro che ha combinato e che si sta riversando sulle nostre zone anche la società civile sembra solo ora cominciare a prenderne coscienza. Non sono stupidi. Sanno che i poteri forti mafio-politico-finanziari se non riescono ad arginare il populismo, li molleranno. Il Pd conta ancora perché può agire suo nemico con la collaborazione delle Procure amiche e di apparati lottizzati dentro le istituzioni capaci dì inventarsi ogni cosa per abbattere i nemici. Altro che potere al popolo.

La sinistra confonde il garantismo con il servilismo, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Garantismo. Ecco la parola magica di giornali e politici fino ad ora giustizialisti di ferro. La Repubblica chiedeva a gran voce, ogni giorno, le dimissioni di Silvio Berlusconi sulla base di intercettazioni e fughe di notizie dalle procure. Una campagna giacobina e moralista durata anni. Teoremi mai provati, interviste-ricatto, telefonate private. Trasmissioni a senso unico, inchieste grottesche, paparazzate. Andava tutto bene per buttare fuori dalla politica il leader che aveva battuto più volte i post comunisti. Stesso trattamento per qualunque inchiesta, e sono molte, che abbia toccato o almeno lambito il centrodestra in tutte le sue incarnazioni. Adesso è tutto cambiato. I nemici della sinistra, Lega e 5 stelle, sono appena arrivati al governo e gli amici Benetton sono palesemente nei guai a causa del crollo del ponte Morandi di Genova. Difficile imputare colpe al nuovo esecutivo. Impossibile allontanare il sospetto che la gestione di Autostrade, che dipende da Atlantia, società dei Benetton, sia stata manchevole. Ed ecco nuovi, inattesi garantisti a giorni alterni: se i giudici o le circostanze accusano un amico sono appunto garantisti; se accusano un nemico sono giustizialisti. È stato un crescendo dal crollo a oggi. Per una settimana i garantisti dell'ultima ora non sono neppure riusciti a pronunciare, se non farfugliando, il nome «Benetton». Poi hanno dovuto sgombrare questo bastione indifendibile e si sono arroccati nel chiedere pacatezza. In nome della giustizia. Chi fino a ieri ha usato le inchieste come un randello adesso suggerisce il «rispetto delle procedure» e l'attesa delle «verifiche» anche per non danneggiare «una società quotata in borsa». E addentrandosi nei rapporti con la politica: Enrico Letta non ha mai avuto conflitti d'interesse con Atlantia, Graziano Delrio poteva non sapere che il ponte era a rischio, Romano Prodi c'entra niente con le privatizzazioni balorde. Qualche esempio tra i mille possibili. Mario Calabresi, direttore de la Repubblica, parlando della voglia di giustizia, scrive: «Il rischio però è che la sentenza sia emessa in nome del sentimento o del risentimento popolare, solo per dare un colpevole in pasto ai cittadini stanchi e furiosi». Il governo deve quindi evitare «scorciatoie pericolose» e accelerare l'iter della giustizia. Renzi in un'intervista a la Repubblica, fa il bullo con tutti, ad esempio con l'esecutivo: «A loro non interessa la verità, basta un capro espiatorio: non cercano soluzioni, fabbricano colpevoli». Ma quando si arriva ai Benetton, la tigre Renzi diventa un gattino: «Che Autostrade abbia poco da difendere e molto da chiarire è evidente: ma tocca ai giudici, non a noi». Prendiamo nota quindi del garantismo nuovo di zecca de la Repubblica e del Partito democratico, di cui Renzi è padrone anche se non segretario. Piccolo problema: queste prediche non sono credibili. Essere garantisti solo con gli amici (e gli amici degli amici) non è garantismo. È servilismo.

Quel pregiudizio anti industriale che c'è in tutte le trasmissioni tv. Uno studio di Centromarca sulla guerra televisiva contro l’ortodossia del consumo che punta a screditare il cattivo di turno senza tutelare e valorizzare l’attività di impresa, scrive Stefano Cianciotta su "Il Foglio" il 9 Aprile 2017. La contraffazione alimentare fa perdere alle produzioni tipiche italiane 4 miliardi di euro ogni anno (fonte Confagricoltura), una montagna di denaro che si traduce, stando al Censis, in oltre 20 mila posti di lavoro in meno. Il business del fake food è dilagante, mette a rischio la salute dei consumatori, danneggia le aziende produttrici e la credibilità del nostro paese. Eppure il dibattito televisivo sull’alimentazione si caratterizza da sempre per un forte indirizzo anti industriale con l’obiettivo di screditare il cattivo di turno, puntando l’indice contro questa o quella azienda, questo o quel prodotto, senza invece tutelare e valorizzare l’attività di impresa e contribuire a una informazione corretta. La tv, insomma, ha preferito orientare le preferenze degli italiani prediligendo una via morale e ideologica alla educazione nel piatto. Anche i primi format televisivi come Di tasca nostra e Mi manda Lubrano, istituiti con finalità di servizio, si sono poi connotati per un forte taglio antindustriale. La deriva giustizialista del paese ha preso il sopravvento anche in tv, e in questa guerra manichea senza esclusione di colpi al “cattivo” non resta che analizzare in profondità cosa sta accadendo per mettere in campo una strategia di difesa credibile, che ristabilisca un principio di equilibrio. Centromarca è l’associazione italiana dell’industria di marca, punto di riferimento per le più importanti industrie che producono beni di largo consumo alimentari e non alimentari. Aziende che valgono circa il 65 per cento del mercato e che firmando i loro prodotti vivono di reputazione, qualità, innovazione e sostenibilità. Attraverso l’analisi condotta dall’Osservatorio di Pavia, Centromarca ha esaminato le trasmissioni tv nelle quali i temi alimentare e antindustriale continuano a essere prevalenti. Ne viene fuori una saga dei pregiudizi e della retorica, con un uso della lingua italiana che implicitamente vuole richiamare ad una guerra santa contro l’ortodossia del consumo (“Cannibali” è il titolo della prima puntata della serie tv “Animali come noi” condotta da Giulia Innocenzi). “Il monitoraggio permanente e l’analisi costante di una molteplicità di programmi televisivi dedicati ai temi dell’industria di largo consumo, con particolare riferimento a quella alimentare ma non solo, si legge nella ricerca, induce a delineare un quadro preciso e a rilevare delle tendenze ben definite, fatte pur le debite eccezioni. Nello specifico, si ravvisa un atteggiamento di pregiudizio nei confronti dell’industria, si coglie una predominanza di fattori culturali soggettivi degli autori, che finiscono per pre-orientare e predeterminare le tesi e i contenuti presenti nei programmi. Vi sono alcuni tratti molto ricorrenti, come la Natura sempre buona in sé, mentre è l’intervento trasformativo (industria) che la corrompe; in linea col punto precedente, una visione naif del mondo agricolo e della piccola impresa e una visione apocalittica del mondo industriale. Le argomentazioni delle critiche avanzate al prodotto industriale, all’interno di un contesto predeterminato, sono molto spesso accompagnate da elementi di sussidio, che possono compromettere l’obiettivo di spiegare e informare, come la presenza di musiche suggestive (sbeffeggianti o drammatiche quando si parla di industria; liriche e rassicuranti quando al centro vi sono contadini e artigiani); associazioni di immagini (fumi, insetti, sporcizia per l’industria; igiene e “colori della natura” per gli altri); accostamento semiotico dei termini (chimica, veleni, cancro per l’industria; natura, salute, benefici per gli altri) e di eventi (incidenti, ma solo quelli industriali); montaggio di interviste seguite da commenti (l’ultima parola, spesso una battuta dell’autore, annulla, rende vano se non ridicolo quanto detto dall’intervistato, se esponente dell’industria)”. Anche gli attuali driver di consumo (qualità dei prodotti, trasparenza, etica, tutela ambientale, sostenibilità), sono declinati come se fossero esclusivo patrimonio del mondo agricolo, omettendo spesso di informare sugli sforzi e gli investimenti delle imprese per perseguirli. Questi driver, invece, costituiscono dei punti di forza oggetto di ingenti investimenti da parte delle aziende per tutelare il valore della propria reputazione, anche con iniziative importanti di responsabilità sociale, il cui trend non a caso è in crescita. “Ogni tanto spunta qualcuno che continua a vedere la realtà attraverso le lenti delle ideologie ostili all’economia di mercato e all’attività di impresa”, osserva Luigi Bordoni, presidente Centromarca, “sospettose verso efficienza e meritato successo. Sono residuati delle forze che nel Novecento hanno dominato il nostro paese, creando nel tempo un contesto inospitale e ostile alle imprese, con incrostazioni che ancora oggi scoraggiano gli investimenti e impediscono crescita, creazione di lavoro e benessere”. E se le associazioni di categoria commissionano ricerche e studi per tutelarsi, multinazionali come Eni e Coca-Cola investono su strategie di comunicazione innovative per contrastare gli strali di trasmissioni cult come “Report”, così potente da distruggere perfino Antonio Di Pietro, il leader maximo del giustizialismo italiano (sul declino politico di Di Pietro molto ha pesato l’inchiesta nella quale si chiedeva conto all’ex giudice di Mani Pulite della proprietà degli immobili iscritti in bilancio nell’Italia dei Valori). Il mondo dell’industria, quindi, rinnova le proprie strategie con linguaggi e strumenti al passo con i tempi, come dimostrano #EnivsReport e #NienteDaNascondere, gli hashtag creati da Eni e Coca-Cola per polarizzare le discussioni e spostare il focus dalla tv. Del resto il successo dei No Tav e dei No Triv era stato favorito anche dalla inadeguatezza delle aziende nel comunicare. Sulla capacità di rinnovare la narrazione e la comunicazione del lavoro (anche in un’ottica di Industria40) invece, si giocherà la grande sfida del prossimo futuro.

Viva le Iene, gli unici superstiti dell'inchiesta in tv (mentre Gabanelli, Santoro e co sono finiti). I servizi delle Iene avranno anche tanti problemi, saranno anche nazionalpopolari, ma quando c'è da sollevare un polverone ci mettono sempre la faccia. In tv sono rimasti solo loro a fare delle vere inchieste: quando si muovono tutti se ne accorgono, sarà un caso? Scrive Lady V il 15 Febbraio 2018 su "L'Inkiesta". Se l’unico vero scoop della campagna elettorale – quello della Rimborsopoli del M5S - l’ha regalato un programma di intrattenimento, le Iene, siamo messi male. Oltretutto non è nemmeno andato in onda in tv a causa della legge sulla par condicio perché non è un programma di informazione, dunque l’astuto Davide Parenti, padre del format, ha messo tutto online, dove il terreno è libero da leggi e paletti. Siamo messi male ma poteva andare peggio. Potevamo avere solo le Berlinguer, i Fazio e i Giletti, invece c’è un programma di satira che è più sul pezzo dei professori del giornalismo. Se il programma in fondo più grillino che esiste fa una battaglia contro i grillini, qualcosa rimane. Lo stesso Filippo Roma, autore dell’inchiesta, al Tempo dice che la trasmissione di Italia 1, con il suo tampinare i politici per strada, con il giustizialismo armato solo di microfono e gli agguati davanti a Montecitorio, è stata “il background culturale del Movimento 5 Stelle. L' antipolitica l'abbiamo introdotta noi. All'inizio della legislatura, quando realizzavo i servizi fuori dalla Camera e dal Senato, molti parlamentari del MoVimento 5 Stelle si venivano a fare la foto con me, perché dicevano che erano cresciuti con le Iene”. Invece adesso si trovano gli invasati di Grillo a insultarli su Facebook. La trasmissione nata alla fine degli anni 90 da un format argentino vive i mille conflitti di interessi interni e le contraddizioni come un valore in più, non in meno. Vanno in onda con ottimi ascolti (domenica scorsa con il 12% erano la seconda rete) sulla tv della famiglia Berlusconi, ma sono di sinistra sino al midollo, a cominciare dal papà Davide Parenti, e sono state inventate dall’ex consigliere di Renzi Giorgio Gori quando era un giovanissimo direttore di Italia 1. Adesso nella loro squadra c’è anche Giulia Innocenzi, che si occupa del sito (Michele Santoro lo sa?). Piacciono tanto a Renzi, che giorni fa ha twittato in lode di Nadia Toffa e del suo coraggioso coming out sul cancro, ma fanno a pezzi il suo amico Fausto Brizzi, ospite fisso della Leopolda e sostenitore dell’ex premier: lo hanno fatto nel discusso servizio sulle molestie del cinema italiano, in cui dieci attrici accusavano l’ex autore dei cinepanettoni, un’inchiesta che sembrava una gigantesca bolla, per non chiamarla macchina del fango, senza vere e proprie denunce, salvo il fatto che ieri le denunce sono arrivate davvero, una almeno, alla procura di Roma che ha aperto un’inchiesta, anche se il diretto interessato dice che non gli risulta. E chi firmava quel controverso servizio? Dino Giarrusso, 43enne catanese, oggi candidato alla Camera nel collegio Roma 10. Per chi? Per il Movimento 5 Stelle, scelta per cui si è beccato del “traditore” dalla Toffa che insieme agli altri del branco non ha gradito il salto della quaglia del collega che abbandona il giornalismo d’inchiesta per un comoda poltrona. Le Iene sono un po’ grilline ma fanno pelo e contropelo ai grillini, dicevamo. Contro il M5s hanno realizzato il servizio-bomba che ha scoperchiato la storiaccia del Rimborsopoli, con nomi e cognomi dei furbetti del bonifichino che hanno falsificato le restituzioni di parte degli stipendi al Fondo per il microcredito. E via di insulti pentastellati sui social: “Gli altri rubano i nostri soldi e voi non dite niente”, “Voterò 5 Stelle”, “Fate il pelo a Berlusconi e al Pd, se avete il coraggio”. Report non esiste più, la Gabanelli fa micro inchieste sul Corriere che per adesso fanno poco rumore, Michele Santoro è sparito, gli altri chiacchierano. Così gli unici che manganellano e scavano sotto le belle parole della campagna elettorale sono Le Iene, e lo fanno da Italia 1, la rete giovane di Mediaset, mentre le altri tv dormono, parlano, parlano o soccombono sotto la par condicio e l’altra trasmissione “giustizialista” per eccellenza, Striscia la notizia, si occupa di gossip. Il tutto è andato in onda non in tv, ma sul sito delle Iene. Il programma non è una testata giornalistica quindi la messa in onda avrebbe violato la par condicio. Spiega Mediaset: “La ragion d’essere di un editore è pubblicare servizi di grande rilievo che diano prestigio editoriale e assicurino la maggiore diffusione di copie o – nel nostro caso – di ascolti tv. (..) Ma visto che in questo periodo la messa in onda di questo genere di servizi in programmi televisivi non sotto testata violerebbe la disciplina della par condicio, Mediaset dà quindi la massima visibilità video all’inchiesta delle Iene su un mezzo – il web – su cui invece la legge sulla par condicio non si applica”. Anche ieri sera, nessun cenno in tv sul caso. Report non esiste più, la Gabanelli fa micro inchieste sul Corriere che per adesso fanno poco rumore, Michele Santoro è sparito, gli altri chiacchierano. Così gli unici che manganellano e scavano sotto le belle parole della campagna elettorale sono Le Iene, e lo fanno da Italia 1, la rete giovane di Mediaset, mentre le altri tv dormono, parlano, parlano o soccombono sotto la par condicio e l’altra trasmissione “giustizialista” per eccellenza, Striscia la notizia, si occupa di gossip: dalle presunte censure di Magnolia, casa di produzione tv, sul caso della cannabis all’Isola dei famosi alle sospette irregolarità sul vincitore del Festival di Sanremo, il cui nome si conosceva 20 minuti prima della proclamazione. Striscia mal sopporta le Iene. Pare che ci sia Antonio Ricci dietro la mancata promozione del format su Canale 5. Non che le Iene siano senza macchie, spesso camminano sulla sottile linea che divide lo scoop dalla bufala, le rivelazioni clamorose dalle balle galattiche, come nel caso dei servizi sul fantomatico fenomeno del Blue Whale, quella sfida social che spingerebbe i ragazzi ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino a quella finale: togliersi la vita. “Quei filmati sui suicidi sono falsi”, hanno ammesso. Ma tutto sommato non hanno perso credibilità, anche se quando davano credito al metodo Stamina di Davide Vannoni ci sono andati vicini.

Spingevano affinché quel metodo, che prometteva cure a tante malattie neurodegenerative, venisse messo a carico del Sistema Sanitario Nazionale. All’indomani dei servizi, però, la validità scientifica di Stamina fu contestata anche dalla magistratura. E le Iene furono accusate di fare disinformazione, particolarmente grave perché dava false speranze ai malati. Aldo Grasso, scrivendo di Nadia Toffa che ha parlato della chemioterpia, “l’unica cosa che serve”, ha ricordato quando Le Iene “si sono recate a Cuba a intervistare un allevatore di scorpioni da cui si ricavava una cura anticancro”. Adesso staranno più attente, aggiunge. Chi non fa, non rischia. E loro fanno tanto, bisogna ammetterlo.

Angelo Mascolo: troppi copia e incolla del giudice “pistolero”, scarcerato l’assassino, scrive la Redazione di Blitz Quotidiano il 9 febbraio 2018. Angelo Mascolo: troppi copia e incolla del giudice “pistolero”, scarcerato l’uomo che uccise la compagna. E’ colpa del giudice di Treviso Angelo Mascolo, quello che diceva di girare armato perché lo Stato ha fallito nel garantire la sicurezza dei cittadini, se un uomo finito in carcere per l’omicidio preterintenzionale della compagna ora può girare libero. Almeno è quanto hanno messo nero su bianco i magistrati del Tribunale del Riesame che, rilevando troppi errori nella sua ordinanza (troppi copia e incolla), hanno annullato il provvedimento di carcerazione. Mascolo torna dunque a far parlare di sé, questa volta non per un’intervista, come in passato, in cui affermava di essere pronto a circolare armato per legittima difesa, né per la sua discesa in campo in politica (poi ritirata) con ‘Noi per l’Italia’, bensì per un suo provvedimento sonoramente bocciato dai giudici del Riesame di Venezia che hanno scarcerato Luca Furlan, 49 anni di Preganziol, ex compagno di Elda Tandura, morta a 66 anni a Vittorio Veneto dove era stata ricoverata per profonde ferite alla testa. I giudici, le cui motivazioni saranno rese note nei prossimi giorni, hanno sostanzialmente accolto le argomentazioni dell’avvocato Alessandra Nava. Secondo il difensore ci si trovava in presenza di una violazione della legge la quale impone “un’autonoma valutazione” da parte del giudice degli elementi di prova mentre Mascolo avrebbe “ricopiato” in buona parte le argomentazioni contenute nella richiesta del pm “senza nulla aggiungere quanto alla valutazione critica” degli indizi. “Epurando dall’ordinanza genetica tutti i passaggi ricopiati (pur con minime modifiche in qualche punto), la parte in cui il gip ha aggiunto proprie valutazioni sono totalmente assenti”, ha scritto il legale nel ricorso in difesa di Furlan, indagato per omicidio preterintenzionale. Mascolo reagisce con un certo aplomb: “Ho letto e riletto la mia ordinanza – commenta – e sono convinto di averla scritta bene, non è stato un copia e incolla. Le prove erano estremamente chiare e il pm aveva ragione nel motivare le sue contestazioni, sostenendo che erano state le percosse a cagionare la morte della donna”. “Rispetto i giudici del Tribunale della libertà, per carità, non critico nessuno – prosegue – ma credo di non aver sbagliato”, aggiunge Mascolo, secondo il quale, la questione “era così chiara e così ben delineata” da non richiedere ulteriori argomentazioni oltre a quelle esposte dal pm”. Una tesi evidentemente non condivisa dai giudici veneziani che hanno disposto l’immediata scarcerazione del presunto omicida, che invece doveva stare in carcere per il giudice trevigiano. Mascolo, prima in una lettera ai quotidiani veneti e poi in alcune interviste, una anno fa, aveva affermato che lo Stato “non è più in condizioni di garantire la sicurezza dei cittadini, anzi semplicemente non c’è più. D’ora in poi faccio da me: quando esco di casa mi metto in tasca la pistola”.

Cosa ne è rimasto della giustizia Italiana? Scrive il 9 febbraio 2018 Luca Rampazzo su "Milano Post". Il cadavere della povera Pamela, dopo essere stato scientificamente dissezionato, è stato anche meticolosamente lavato. E non sono tate asportate alcune parti. Non il cuore, come qualcuno ha ipotizzato, ma di sicuro il monte di Venere ed il collo. Queste le risultanze del secondo esame autoptico. Attenzione, va capito un dettaglio: il lavaggio con candeggina ha devastato l’intero scenario. Non c’è più alcuna traccia. Nulla di nulla. Però, anche qui dobbiamo essere chiari: non c’è più nessuna traccia SU UN CADAVERE FATTO A PEZZI E LAVATO CON CANDEGGINA. La prima ipotesi della morte era overdose. Oggi vacilla anche quella. Tant’è che lo spacciatore non è stato arrestato. La dose ceduta era modestissima. Modestissima. Sul tronco è presente una ferita al costato. Come quella di Nostro Signore in Croce. Resta da capire se sia stata letale. Ma non lo sapremo mai. Il cadere non lo consente. E noi siamo in fase ipergarantista. Quindi il tizio che ha fatto tutto questo non ha visto convalidato il proprio arresto per omicidio. Solo vilipendio di cadavere. Perché si deve essere fascioleghisti per dire che l’abbia uccisa. Dove sono le prove, eh? Non ci sono. E perché non ci sono? Perché l’amico ha, scusate se abuso del maiuscolo, DISSEZIONATO E CANDEGGIATO IL CADAVERE. Almeno questo, oggetto della sua confessione, lo vogliamo dire? Per inchiodare Stasi vi è servito molto di più? A me non pare. Per rovinare la vita a Bossetti? Nemmeno. Ma per Innocent non basta. Non sia mai che applichiamo la logica. Ed il senso di opportunità. Siamo seduti su una polveriera e voi vi state accendendo con nonchalance una sigaretta per riflettere. L’uomo della strada, così come chiunque non sia davvero addentro certo esoterismo giuridico, di fronte a tutto questo scuote la testa. I tifosi delle due fazioni che si fronteggiano, invece prendono la rincorsa, pronti a gettarsi contro il primo innocente che passa. La prima, quella degli estremisti di certa destra, ha avuto già il primo crimine. La seconda, quella degli antirazzisti, non ancora. Ma nella storia dopo il primo ne seguono a decine.

Dall’altra parte abbiamo Traini. Uno che merita il carcere a vita. Che però è in galera per strage. Strage. Senza un morto. Ma ugualmente strage. Io ricordavo, e da codice ex articolo 422 c.p. è ancora così, che ci volesse almeno un morto. Allora su cosa si basa la conferma dell’arresto? Ipotizzo sull’articolo 285. Quello di eversione. Sì, Luca Traini avrebbe attentato all’integrità dello Stato, cercando di provocare una strage. Attentato allo Stato, con il subdolo mezzo di sparare ad un gruppo di presunti spacciatori. Questa linea può portare a due conseguenze. La prima è che il delirio continui inalterato fino alla Cassazione. Il secondo è che non superi la Corte d’Appello, fra un paio d’anni, screditando completamente quella che chiamiamo giustizia Italiana. Perché se non ci sono le prove che uno squartatore reo confesso, candeggiatore di cadaveri, asportatore di pezzi di corpo sia un assassino, ne esistono a vagonate che Traini volesse fare la rivoluzione. Sipario, signori e signore. E usciamo dal teatro col sinistro applauso che lo ha accolto in carcere. Statisticamente la maggior parte dei presenti è là per droga. Eppure hanno applaudito. Molti erano stranieri, eppure la cosa non ha turbato nessuno. E non mi sorprenderebbe se tra chi ha battuto le mani ci fossero anche loro. Quello che li ha convinti è stato il fatto che Traini, nel suo mondo atroce e delirante, ha fatto quello che i togati si sono simbolicamente rifiutati di fare. Ha portato giustizia. E questo, signore e signori, è la morte dello stato di diritto. Ed un pericolo per chiunque.

Il manifesto & il Giornale: la gara gioiosa a chi è più feroce con Caino, scrive Piero Sansonetti l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il Giornale e il manifesto opposti giustizialismi. Ieri mattina ho dato un’occhiata a due giornali importanti nel panorama editoriale italiano, i quali, tra l’altro, sono nati tutti e due, a breve distanza, nei primi anni settanta. Lontanissimi tra loro per impostazione e idee politiche e culturali: il manifesto, fondato da Luigi Pintor e Rossana Rossanda nel 1971, e Il Giornale fondato da Indro Montanelli nel 1974, e successivamente vent’anni dopo – ristrutturato da Berlusconi. Il manifesto nacque per rompere il conformismo di sinistra, soprattutto quello comunista. Il Giornale per rompere il conformismo borghese. Mi ha colpito una cosa: pur restando distanti sul piano delle idee, sono molto vicini quando si tratta di titillare gli istinti giustizialisti dei lettori. Il manifesto lo fa mettendo sotto accusa il libertinismo di Berlusconi e poi esprimendo indignazione contro il diritto alla difesa dei fascisti. Il Giornale, viceversa, si indigna per il fatto che un nigeriano (diciamo pure: un “negro”…) la fa franca. Lasciamo stare per questa volta il tema dell’antiberlusconismo che spinge il manifesto a una posizione moralista e molto antica sulla prostituzione. Parliamo solo del giustizialismo da tribunale. Il titolo del manifesto è questo: «L’onda nera non molla Macerata. Forza Nuova pagherà le spese legali di Luca Traini». Il titolo del Giornale, a tutta prima pagina, è questo: «Stai a vedere che alla fine il nigeriano la fa franca». Occhiello: «follie giudiziarie». Sottotitolo: «Ha fatto a pezzi Pamela ma per i giudici non l’ha uccisa».

Partiamo dal manifesto. (Solo tra parentesi osservando che la notizia che in Germania i lavoratori hanno ottenuto la settimana da 28 ore è appena un richiamino, mentre l’urlo contro Berlusconi puttaniere è il titolo principale con una foto grandissima: a dimostrare che la vecchia lotta di classe è stata interamente sostituita dal moralismo). Il manifesto si indigna perché qualcuno pagherà le spese legali a Luca Traini. Io francamente, con tutto l’orrore che provo per le idee di fondo di Forza Nuova, non riesco a capire cosa ci sia di male nell’adoperarsi per garantire una difesa forte e giusta a un imputato. Non so come spiegare agli amici del manifesto (che peraltro, negli anni, hanno avuto tra i loro collaboratori dei giganti del garantismo, e persino tra i propri fondatori) che il diritto alla difesa è un diritto, appunto, ed è essenziale nella vita di una democrazia, e che il diritto alla difesa esiste solo se è per tutti, e non può essere considerato un diritto per i più buoni, o per i meno colpevoli, o per quelli che ci sono più amici o hanno idee vicine alle nostre. Garantire un’ottima difesa a Luca Traini dovrebbe essere un’aspirazione di tutti noi. E indignarsi perché Forza Nuova, per una volta, fa una cosa intelligente, è assurdo.

La posizione del Giornale è speculare. Così come il manifesto, furioso giustamente per l’azione di Traini, vede non di buon occhio la sua difesa, così il Giornale, furioso giustamente per l’uccisione di Pamela, non ammette che sia scarcerato il nigeriano. Perché il giudice lo scarcera? Perché si è convinto che non ha ucciso Pamela. Il problema non è che la fa franca, il problema è che non l’ha uccisa, e non è un male che si sia scoperto che non l’ha uccisa anche se nelle prime ore sembrava accertato che l’avesse uccisa lui, e nessun giornale, proprio nessuno, ha messo in dubbio questa verità. Hanno sbagliato i giornali a dar per certa la notizia che lui era l’assassino, non il giudice che ha scoperto che non lo è. Scrive il Giornale: «L’ha fatta a pezzi ma per il giudice non l’ha uccisa». Lasciando capire che il giudice è un pazzo, perché ritiene che si possa fare a pezzi una persona senza ucciderla. Invece il giudice ha accertato che la ragazza è stata fatta a pezzi dopo che era morta, e che l’imputato non è in nessun modo responsabile di omicidio. Ora bisognerà accertare se è responsabile di vilipendio di cadavere, reato orrendo, ma evidentemente diverso dall’omicidio.

Voi direte. Vabbè, ma sono due casi di giustizialismo veniale. Può darsi. Mi ha colpito la coincidenza. La volontà di colpire con la mannaia l’imputato che ci è nemico politicamente per qualche ragione. Mi ha colpito la stessa furia, identica, a destra e a sinistra: colpite Caino, punitelo, impiccatelo, spogliatelo dei suoi diritti. Così noi ci sentiremo tutti più Abele, sempre più Abele.

«L’orrore giustizialista non ha colore», scrive Alessandro Fioroni il 6 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «L’orrore non ha colore». Si esprime così Maria Brucale, avvocato che fa parte del direttivo di Nessuno tocchi Caino. Il riferimento è a Pamela la ragazza uccisa nelle Marche e allo scempio fatto del suo corpo. I fatti che sono seguiti sembrano essere una tragica conferma delle sue parole. «La tragica vicenda di questa ragazza fatta a pezzi in se è un fatto raccapricciante e invece fa urlare alla necessità di buttare fuori lo straniero – dice la Brucale -. E in questo momento viene cavalcata con grandissima forza senza vedere che chiunque può commettere cose atroci». Necessità inevitabili della campagna elettorale si potrebbe argomentare, in realtà cause ed effetti di un clima che si sta creando nel paese con conseguenze nefaste, dove a farne le spese sono i più deboli. In realtà, Maria Brucale è partita con un post su facebook, domandandosi cosa sia l’onestà. Quale riflesso, questo concetto contraddittorio e scivoloso, abbia poi nella campagna elettorale in corso. «Il mio post era provocatorio – dice l’avvocato – nel senso che volevo venisse fuori questa difficoltà di definire in modo chiaro il concetto di onestà. Mi domandavo ad esempio se era onesto proporsi alla guida di un paese quando non si hanno le capacità per mettere in fila un discorso in italiano oppure mettere in riga un programma sulla giustizia che tenga conto della Costituzione». Se tra le proposte di un partito «ci sono cose come abolire la reformatio in peius nei giudizi di appello. Oppure eliminare la prescrizione» è chiaro che si sta andando verso una distorsione del diritto per convenienza elettorale. Anche gli avvocati sembrano abdicare, in qualche caso, al loro ruolo di garanzia per gli imputati. «Ci sono anche avvocati che ti parlano di ergastolo per il femminicidio, di legittima difesa che mette sullo stesso piano il bene vita con il bene patrimonio – ricorda Maria Brucale». Così l’onestà intesa come categoria della politica diventa il sudario che copre un imbarbarimento sempre più veloce che ostacola ogni tentativo di migliorare l’ordinamento penale. Per l’avvocato Brucale questo imbarbarimento è già in atto. «Ho avuto il privilegio di far parte delle commissioni per la riforma dell’ordinamento penitenziario – spiega –, adesso una micro parte di questa riforma sulla quale c’era la delega sta correndo verso l’approvazione nei limiti di questa legislatura.  Ma tutte le altre sono finite in un cassetto, come quella relativa all’ordinamento penitenziario minorile, alla giustizia riparativa, alle misure di sicurezza.  La reazione che c’è stata a tutto ciò è stata se non ostile sicuramente fredda».

Buemi: «Dell’Utri non uscirà: spesso i magistrati sono ostaggio dei giustizialisti». Intervista di Errico Novi dell'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «Temo abbia ragione sua moglie: i giudici hanno paura di scarcerarlo, se lo facessero su di loro calerebbe la ghigliottina». «Sul magistrato che dovesse ordinare la scarcerazione di Dell’Utri cadrebbe una ghigliottina mediatica. E in una situazione del genere, dubito che l’ex senatore di Forza Italia abbia una qualche speranza di curarsi fuori dalle strutture penitenziarie». Il giorno dopo la decisione di tenere in carcere l’ex parlamentare di Fi condannato per concorso esterno, il senatore Buemi prova a trovare una ragione di quella scelta e concede ai giudici una sorta di “attenuante generica”: «Non c’è dubbio – dice – che su di loro viene scaricata una responsabilità politica». «Io non sono in grado di valutare se Marcello Dell’Utri debba essere scarcerato. So però che neppure i giudici chiamati a decidere sono nelle condizioni di farlo».

In che senso, senatore Buemi?

«Nel senso che l’opinione pubblica esercita una pressione ai limiti dell’insostenibile: sul magistrato che dovesse ordinare la scarcerazione di Dell’Utri cadrebbe in ogni caso una ghigliottina mediatica. E in una situazione del genere, dubito che l’ex senatore di Forza Italia abbia una qualche speranza di curarsi fuori dalle strutture penitenziarie». Enrico Buemi, socialista e garantista doc, è tra i pochissimi parlamentari che nel corso della legislatura si siano battuti per rivedere la responsabilità civile delle toghe. Ne è stato anzi, di fatto, il coautore insieme con il guardasigilli Andrea Orlando. Le norme entrate in vigore da tre anni sono state criticate per eccesso di tenuità, ma all’epoca della loro approvazione l’Anm insorse. Oggi però Buemi, candidato del centrosinistra nel collegio di Moncalieri in Piemonte, capovolge in attenuante generica il suo riconosciuto rigore nei confronti dei magistrati. «Su di loro viene scaricata una responsabilità politica, per quanto insensato possa sembrare».

Si spieghi meglio.

«Prima di tutto abbiamo nel nostro Paese un’opinione pubblica incoerente. Volubile. Sulla giustizia innanzitutto. I cinquestelle ne sono un riflesso esemplare: hanno modificato i criteri di tollerabilità dei carichi giudiziari in base alle vicende dei loro rappresentanti, secondo convenienza. Speso tra i cittadini avviene la stessa cosa: si applica a Dell’Utri, o magari al nigeriano indagato a Macerata, un rigore che non vale per altri politici o, nel secondo caso, per i sospettati di analoghe efferatezze che non siano stranieri».

Ma perché i magistrati dovrebbero farsi condizionare?

«Inutile illudersi che un giudice chiamato a decidere su Dell’Utri non subisca un condizionamento psicologico. Non è libero di valutare la situazione clinica dell’ex senatore».

Quindi ha ragione la moglie di Dell’Utri quando dice che i magistrati hanno letteralmente paura di scarcerare suo marito.

«Il rischio c’è tutto. Lo dico, sia chiaro, senza aver maturato un’opinione compiuta sul diritto dell’ex parlamentare alla sospensione della pena. Sua moglie non ha dubbi, ed è nel pieno diritto di non averne. Ma il dato oggettivo non conta, a questo punto. E non mi sfugge la difficoltà dei magistrati su cui cade la responsabilità di una simile decisione».

Sentenze e ordinanze non restrittive sono diventate un tabù?

«Il processo è stato trasfigurato dai media: i tre gradi di giudizio sono schiacciati dal peso che le indagini hanno assunto in tv. È una dinamica che dalle mie parti è stata denunciata con coraggio dal presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi. E non è facilmente risolvibile: gran parte dell’opinione pubblica è travolta dal martellamento dei media su determinate notizie e restituisce questa ossessione allo stesso circuito informativo».

Ma perché un’ordinanza favorevole a Dell’Utri genererebbe tanto disdegno? In fondo nei confronti dello stesso Berlusconi la furia giustizialista sembra essersi placata, in questa campagna elettorale.

«È quell’ipocrisia di cui le ho detto all’inizio. C’è una selettività nei destinatari dell’inquisizione. In effetti basta seguire le trasmissioni alle quali Berlusconi interviene: le domande sulle sue vicende giudiziarie siano praticamente scomparse. In passato erano l’argomento quasi esclusivo. In un quadro simile, Dell’Utri è utilissimo a pacificare la coscienza di ognuno: dei politici, dei magistrati e dei cittadini. Serve a preservare l’apparenza di un assoluto rigore rispetto alle contaminazioni criminali nel nostro Paese».

Praticamente è un totem.

«Esatto. Serve a certificare il seguente assunto: guardate che sul piano del rigore non cediamo».

Quindi non ha speranze di ottenere un’ordinanza diversa da quella di due giorni fa.

«Temo di no, ci vorrebbe un coraggio enorme per prendere una decisione che vada a sbattere contro il mood generale».

E lei dice che nei confronti del nigeriano indagato a Macerata grava un pregiudizio simile.

«Assolutamente sì. Di italiani riconosciuti colpevoli di incredibili efferatezze ce ne sono stati eccome, ma solo nel caso di Oseghale c’è una parte del Paese, della politica, dei media, che dà per scontata la sua colpevolezza».

E davvero c’è un’osmosi tra sentimento diffuso e decisioni della magistratura?

«Una cosa è sotto gli occhi di tutti: le decisioni prese dall’autorità giudiziaria nelle vicende di grande risonanza vengono lette dai cittadini in chiave politica. Nel caso di Oseghale, la definitiva esclusione dell’accusa di omicidio sarebbe messa all’indice come una forzatura partigiana. Di leggere gli atti relativi a quell’eventuale decisione, non si degnerebbe nessuno».

LA SOLITA GOGNA ED INGIUSTIZIA.

Ad Avola quel giorno i poliziotti colpivano per uccidere. Cinquanta anni fa la strage dei braccianti siciliani nel racconto di chi c’era…, scrive il 2 Dicembre 2018 Salvatore Bonadonna su "Il Dubbio". Quella mattina il freddo era pungente. Più delle altre quindici mattinate precedenti a Chiusa di Carlo, la località meglio intesa dagli avolesi come “Sant’Antuninu” dall’edicola al santo dedicata e posta al bivio per la marina di Avola. La sera prima, dopo l’assemblea, ero tornato a casa, a Siracusa, perché era Domenica e perché l’indomani sarebbero venuti i trasportatori a caricare i pochi mobili e i libri per il mio trasferimento a Porto Marghera, deciso qualche mese prima, perché Vittorio Foa me lo aveva proposto e mi aveva convinto. Era l’ultima vertenza che avrei seguito a Siracusa e con il gruppo dirigente dei braccianti, e di Avola in particolare, avevo un rapporto molto forte. Avevo partecipato alla elaborazione della piattaforma e allo sviluppo quotidiano della vertenza. Non potevo mancare il giorno dello sciopero generale. Arrivai che ancora era buio. Peppe Vaccarella, il segretario della Camera del Lavoro, una vita da bracciante, era già li con la sua coppola calcata sulla pelata. Andiamo, come al solito, a prendere il caffè nel bar del riquadro della Piazza riservato ai braccianti. Si, perché in un altro riquadro ci stanno i commercianti, nell’altro i contadini coltivatori diretti, nell’altro ancora gli agrari e gli altri proprietari e i professionisti, con i loro circoli e i loro bar. Peppe, uomo calmo, coraggioso e deciso, è inquieto: l’incontro sindacale di ieri, strappato al Prefetto qualche giorno prima, si era risolto in una beffa degli agrari che avevano mandato un funzionario per ribadire che non c’era nulla da trattare, poi l’intervento della polizia persino nella giornata di Domenica, con l’inseguimento dei braccianti nella Piazza e nelle strade, ha esasperato gli animi. La tensione la sente direttamente con il suo carattere di bracciante avolese e l’ha raccolta nei capannelli in piazza, dopo l’assemblea che ha proclamato lo sciopero generale. Infatti, l’assemblea della sera aveva espresso l’orgoglio per avere respinto, nella mattinata, l’attacco dei celerini e aveva segnalato la determinazione a intensificare la lotta per chiudere la vertenza. I braccianti ci avevano detto delle pressioni e dei ricatti dei “caporali” mandati dagli agrari anche con promesse di premi in danaro per chi avesse rotto il blocco e l’unità. Si rivolgevano con blandizie ai più giovani e con ricatti ai più anziani padri di famiglia. Ormai è l’alba dello sciopero generale. La piattaforma rivendicativa, preparata e discussa in decine di assemblee in tutte le leghe bracciantili della zona Sud, da Siracusa a Noto e Pachino, è impegnativa e risente del clima delle lotte studentesche ed operaie che in quel ’ 68 avevano segnato l’Europa e l’America. I giovani politicizzati, e non sono pochi, portano anche nelle famiglie dei braccianti l’eco del Maggio francese: nei Licei ci sono le prime assemblee e le occupazioni e dall’Università di Catania giungono i volantini che invitano all’unità degli studenti e degli operai. I braccianti di Avola si sentivano discriminati da un vecchio accordo sindacale che divideva la Provincia in due zone. Nella zona Nord, quella dell’agrumeto, attorno a Lentini, classificata “A”, un salario giornaliero di 3.480 lire per sette ore e mezza di lavoro; nella zona Sud, quella dell’ortofrutta, attorno ad Avola, classificata “B”, il salario è di 3.110 lire per otto ore di lavoro. Si rivendicava, dunque, il superamento di tale differenza e un aumento della paga del 10%, circa 350 lire giornaliere. Del resto, CGIL, CISL e UIL chiedevano di superare le “gabbie salariali” tra le zone del paese e rivendicavano la parità retributiva tra uomini e donne: a uguale lavoro uguale salario! Ma la rivendicazione più di ogni altra sentita dai braccianti come conquista di dignità e di libertà era eliminare il caporalato. È evidente il motivo della resistenza oltranzista degli agrari che vedevano messo in discussione il proprio potere. Per questo lo scontro fu molto aspro. Venerdì 29 il conflitto si era indurito e la situazione era diventata sempre più tesa; le notizie di arrivi notturni di squadre di crumiri avevano irrigidito il blocco sulla strada di Avola. Una delegazione formata dal Sindaco, dal deputato Nino Piscitello segretario della Federazione Comunista, dal Pretore di Avola che aveva tentato una mediazione per togliere il blocco, e dal segretario della Federbraccianti, il giovane Orazio Agosta, viene mandata dal Prefetto a chiedere una convocazione urgente delle parti. Quando tornano ci dicono che la convocazione è in corso e i braccianti, anche se poco convinti, liberano la strada. Qualche ora dopo, ottenuto lo sgombero, il Prefetto rinvia l’incontro all’indomani. E l’indomani gli agrari non si presentano. Dice, beffardamente, il Prefetto, «perché impediti dai blocchi stradali» che rendono difficile la circolazione nella Provincia. E quindi nuovo rinvio, prima a Martedì 3 Dicembre e poi, dato il crescere della tensione, alla giornata di Domenica quando un funzionario della Associazione Agricoltori, senza poteri e senza mandati, ci dice che per loro non c’è nulla da trattare della nostra piattaforma. Gli interventi di Denaro e di Salvatore Corallo del PSIUP, deputati regionali, sulla Giunta non sortiscono alcun effetto. Quelli sul Governo Leone, dimissionario, ancor meno. Noi, con i mezzi disponibili, chiamando dai bar coi telefoni a gettone, ci tenevamo in contatto con Carlo Cicerchia, con Giacinto Militello, con Feliciano Rossitto dirigenti regionali e nazionali della CGIL e della Federbraccianti che, a loro volta, cercavano contatti con il Governo per sbloccare la vertenza. Era, dunque, inevitabile che l’assemblea di Domenica sera proclamasse lo sciopero generale e il blocco di tutte le attività. Commentavamo e ragionavamo di queste cose con Peppe mentre osservavamo l’arrivo dei braccianti, il formarsi dei capannelli e notavamo che solo il bar del lato “nostro” era aperto, per spirito di servizio. Quando arriviamo a Sant’Antuninu il blocco è in corso e c’è un vero e proprio raduno di parecchie migliaia di braccianti. Attorno ad alcuni fuochi, seduti sulle pietre, braccianti mangiano pane con le olive nere o col formaggio o con le sarde salate. Nei capannelli si commenta e Peppe, con l’altoparlante, torna a parlare dei motivi della lotta e invita alla calma e alla autodisciplina. La pattuglia di polizia e carabinieri, che ormai staziona dall’inizio dei blocchi, dice che bisogna sgombrare la strada; il funzionario presente fa intendere che questa mattina arriveranno i rinforzi da Catania, il reparto Celere. Abbiamo la conferma delle nostre preoccupazioni quando arriva il Sindaco Denaro che, salutando con calore e ansia persino me, dopo quasi un anno di polemiche per la mia uscita dal PSI, ci dice che il Prefetto D’Urso l’ha chiamato quasi ad intimargli che «il blocco della strada deve sparire». Eravamo preoccupati ma eravamo anche più di cinquemila; difficilmente – pensavamo – la celere tenterà una carica in queste condizioni. E, in effetti, la Celere non caricò questa volta. Quando i gipponi della polizia arrivano ad un centinaio di metri dal blocco, gli agenti scendono armati di mitra, moschetti e zaini pieni di bombe lacrimogene e si schierano come per una battaglia; prima fila in ginocchio con i lacrimogeni innestati ai moschetti, seconda fila in piedi con altri fucili e mitra. Non sono armati di sfollagente. Il vice questore Camperisi – divenuto famoso nella circostanza – è pronto a comandare l’attacco. Il Sindaco fa un estremo tentativo per convincere il Prefetto ad evitare un attacco che avrebbe potuto portare gravi conseguenze sulla popolazione inerme, anche di donne e bambini, che si era aggiunta al raduno. Quando torna dalla telefonata ci dice che il prefetto, per tutta risposta, gli aveva intimato di dare man forte alla polizia per togliere il blocco. È evidente che l’ordine viene dall’alto e non lascia margini. Il vicequestore, sequestrando di fatto una betoniera che era stata fermata ai margini della strada, ordina ai suoi uomini di porla trasversalmente alla strada, davanti al reparto schierato. Quando lo schieramento è pronto, indossa la fascia tricolore e fa suonare i tre squilli di tromba che, normalmente, preludono all’ordine di sgombero. Questa volta sono, invece, il segnale dell’attacco. Parte, da dietro la betoniera, una salva impressionante di bombe lacrimogene; i braccianti rispondono con lanci di pietre disperdendosi al riparo dei muri a secco che costeggiano la strada e dividono i campi per scampare ai fumi dei lacrimogeni. E lanciano pietre sulla strada per evitare che la polizia possa caricare direttamente dalle camionette, come aveva cominciato a fare, creando il panico in mezzo a migliaia di persone. Cerchiamo di metterci al riparo; è inutile persino pensare ad un tentativo di parlamentare con la polizia. I funzionari e i comandanti sembrano invasati, vogliono colpire alla cieca, terrorizzare. Presto ci rendiamo conto, e con noi i braccianti, che, contrariamente alle aspettative dei poliziotti, il vento porta i fumi dei lacrimogeni proprio addosso a loro; ma un candelotto è esploso praticamente addosso ad un bracciante. I suoi compagni cercano di allontanarlo. Investi dal gas dei lacrimogeni, i poliziotti lasciano la loro postazione dietro la betoniera e vengono addosso ai braccianti sparando all’impazzata. Le pietre disperate non possono nulla contro le raffiche di mitra. Il vicequestore chiama rinforzi che arrivano alle nostre spalle; siamo presi tra due fuochi. Noi inermi, con i lanci di sassi dei braccianti più giovani e la polizia armata che, con un ordine preciso, ormai inizia a sparare raffiche di mitra e colpi di moschetto ad altezza d’uomo. Sparano tutti; sparano direttamente i funzionari con le loro pistole e, per spronare gli uomini, uno di loro prende un moschetto dalle mani di un agente e spara diritto su un gruppo che cerca riparo dietro un muretto. Mentre i braccianti in fuga si disperdono nei campi e cercano riparo dietro i muri a secco e qualche albero di ulivo, la polizia organizza un inseguimento forsennato continuando a sparare; una sorta di feroce caccia all’uomo. Cominciamo a sentire attorno le grida di dolore dei feriti, i pianti, i lamenti, le imprecazioni, urla selvagge dei poliziotti; e gli spari e le raffiche. Gridiamo a squarciagola «basta, ci sono feriti, forse ci sono morti». Proviamo a sventolare qualche fazzoletto. Quando dopo quasi mezzora di quest’inferno, che sembrava non dovesse finire mai, sentiamo smettere i colpi e i comandanti richiamare gli agenti, intuiamo che la situazione è drammatica, più di quanto potevamo vedere dal nostro rifugio dietro un muro a secco. Ci organizziamo per raggiungere e soccorrere i feriti sparsi come in un campo di battaglia. Le ferite sono tutte da armi da fuoco; i feriti perdono molto sangue. Alcuni sono in condizioni molto gravi. Ci sono macchine in fiamme e altre crivellate di proiettili; anche le moto dei braccianti addossate ai muretti hanno i serbatoi forati dalle raffiche. Orazio Agosta aveva visto cadere Sebastiano Agostino, un bracciante colpito al petto, poco distante da lui. Si organizza, in ogni modo, con le poche auto disponibili e funzionanti, per portare i feriti in ospedale. I reparti di polizia, evidentemente paghi della loro impresa e per sfuggire all’indignazione generale anche di quanti accorrono dalla città, crescente alla vista della strage, si organizzano per tornare in caserma portandosi dietro decine di fermati. I feriti sono in un raggio di oltre trecento metri dal blocco stradale e Giuseppe Scibilia, 47 anni, bracciante di Avola, è morto colpito al petto a ridosso di un albero, a trecento metri dalla strada. Il mio racconto in diretta dal luogo della strage finisce qui. In serata si fa il bilancio. In tutta Italia sono in atto manifestazioni di protesta e si preparano scioperi per l’indomani. Gli agrari sono stati costretti alla trattativa da subito e con la partecipazione dei dirigenti nazionali e i segretari confederali di CGIL CISL UIL. Ad Avola però si contano le vittime. Angelo Sigona, di 25 anni, è morto all’ospedale di Siracusa dopo essere stato raccolto dietro ad un muretto colpito come per una fucilazione. Finiscono in ospedale Paolo Caldarella, ferito alla mano che aveva alzato in segno di tregua, Giorgio Garofalo con l’intestino perforato, Giuseppe Buscemi, Rosario Migneco, Orazio Di Natale, colpiti, come Caldarella, da colpi di pistola, quindi direttamente dai funzionari. Scrivo di Avola tanti anni dopo, per raccontare la condizione e la lotta dei braccianti di Avola ai nuovi braccianti immigrati che vivono una condizione persino peggiore. Quella lotta è parte costitutiva del movimento che ha fatto fare un salto di civiltà al Paese e al mondo del lavoro: ha portato allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, alla riforma della scuola e dell’Università che ha acceso tante speranze. Quei morti e quei feriti non hanno avuto giustizia; ma il neo Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista di allora, era ai loro funerali e Angelo e Giuseppe sono gli ultimi lavoratori uccisi dalla polizia in un conflitto di lavoro. La tesi che quel massacro fu prodotto da alcuni agenti che avevano perso l’orientamento e la testa, come raccontò il Governo in Parlamento, ovviamente, non ha retto. Chili di bossoli esibiti alla Camera sono stati argomento convincente anche se non accettato.

 ‘NDRANGHETA, VINCENZO IAQUINTA DOPO LA CONDANNA. Video Le Iene: “Siamo stati marchiati per delle voci”. ‘Ndrangheta, Vincenzo Iaquinta dopo la condanna parla a Le Iene, video. La rabbia del calciatore: “Io e mio padre siamo innocenti, non mafiosi”, scrive il 4.11.2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". «Non è uscito niente su mio padre, stiamo parlando del nulla». Così Vincenzo Iaquinta parla a “Le Iene” della condanna a 19 anni di suo padre Giuseppe. L’ex attaccante di Udinese e Juventus ha ricostruito con Giulio Golia le tappe dell’inchiesta che ha portato al processo e alla condanna. «Mi fa paura sentire questa parola, essere accostati alla ‘ndrangheta è la cosa più brutta che poteva capitarmi. Avevo fiducia nella giustizia, ma ora è arrivato il momento di far capire alla gente che mio padre è innocente. Sono stanco di questa situazione». Iaquinta parla di accanimento nei confronti della sua famiglia. «Essere calabrese non vuol dire essere ‘ndranghetista. Ho paura solo a parlarne, sto tremando. Sono stato marchiato». Iaquinta ha raccontato le lacrime dei figli per le condanne e il dolore di sua madre, malata di tumore da quattro anni. «Io avevo preso il porto d’armi, le armi sono rimaste sempre a casa mia. Mia sorella chiese di andare ad abitare in quella casa, allora mio padre se l’è portate a casa sua per sicurezza, e quella è stata un’ingenuità perché dovevo denunciare lo spostamento. Sono stato condannato perché ho dato le armi ad un mafioso, che sarebbe mio padre». Nelle carte del processo si parla però di frequentazioni del padre con presunti capi della ‘Ndrangheta. «Mio padre ha detto che li conosceva, ma non ha fatto niente con loro, e le carte lo dimostrano. Conoscere certe persone non è reato, tutti si conoscono in paese. Ma questo non vuol dire che ha fatto qualcosa di sbagliato». Ma a Iaquinta fa male anche sapere che qualcuno insinua facilitazioni per i presunti legami con la ‘Ndrangheta: «Non mi hanno mai chiesto niente a parte qualche maglietta o foto. Questa è mafia?». (agg. di Silvana Palazzo)

Vincenzo Iaquinta parla a “Le Iene” dopo la sua condanna a due anninel processo più grande mai celebrato al Nord sulla mafia calabrese. L’ex attaccante di Udinese, Juventus e Nazionale proclama con rabbia la sua innocenza ai microfoni di Giulio Golia, e fa lo stesso per il padre, che è stato condannato invece a 19 anni. «Siamo innocenti», dichiara nell’intervista rilasciata al programma di Italia 1. Si tratta della prima intervista rilasciata dal calciatore dopo la sentenza. Parlando con la Iena, Iaquinta sostiene che lui e suo padre sono stati condannati perché calabresi di Cutro, paese da cui viene il boss principale al centro del processo Aemilia, Nicolino Grande Aracri. Tra le accuse c’è quella che la ‘Ndrangheta avrebbe facilitato la sua carriera. «Ma stiamo scherzando, tutte fesserie! È la cosa più schifosa che hanno detto i pentiti: io ho fatto 90 gol in serie A e 40 presenze in Nazionale».

Vincenzo Iaquinta si è fatto un’idea sul processo Aemilia, per il quale il 31 ottobre scorso c’è stata la prima sentenza, quella in primo grado. «Può essere che questo processo, se assolvevano mio padre, poteva cadere perché non c’era più un’immagine per i media». L’ex attaccante di Udinese e Juventus sostiene che il processo ruoti solo attorno al suo nome, che si regga in piedi per questo. «Lo stiamo tenendo su noi questo processo: Iaquinta…, Iaquinta…, su tutti i giornali. Ci sono state 119 condanne, hanno parlato solo di Iaquinta Giuseppe e Vincenzo Iaquinta», prosegue il calciatore. La popolarità ha i suoi pro e contro, sottolinea Iaquinta. «I giornali mettono solo: due anni a Iaquinta per ‘Ndrangheta, maledizione!». Per Iaquinta questa è la cosa più brutta che possa capitare: «Un giorno mi sono fermato al McDonald’s. Una signora che era alla cassa mi ha riconosciuto: “Ah, c’è Iaquinta”. E di là quello che lavava i piatti ha detto: “Ah, quel mafioso!”. E io c’avevo i bambini in macchina».

A “Le Iene Show” la prima intervista di Vincenzo Iaquinta dopo la condanna a due anni nel processo “Aemilia”, scrive Antonio Galluzzo su spettacolinews.it il 5 novembre 2018. Durante la puntata di oggi, domenica 4 novembre, de “Le Iene Show” (in onda in prima serata su Italia 1) verrà trasmessa la prima intervista a Vincenzo Iaquinta dopo la condanna a due anni subita al termine del primo grado del processo “Aemilia”, il più grande mai celebrato contro la ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. L’ex attaccante della Juventus e della Nazionale campione del Mondo 2006 è stato condannato per “reati di armi”. Il calciatore avrebbe lasciato nella disponibilità del padre Giuseppe (condannato a 19 anni nello stesso processo) armi legittimamente detenute e munizioni. Giuseppe Iaquinta aveva però ricevuto un provvedimento dal prefetto di Reggio Emilia, nel 2012, che gli vietava di detenere armamenti e pallottole a causa delle segnalazioni relative alla frequentazione con alcuni degli indagati. Di seguito la trascrizione di alcuni passi dell’intervista realizzata da Giulio Golia. Insieme a Vincenzo Iaquinta, è presente anche sua moglie Arianna.

Iena: Il campione del mondo che è legato alla ‘ndrangheta?

Iaquinta: Mi fa paura sentire questa parola qua. Essere accostati a questa ‘ndrangheta è la cosa più brutta che mi poteva capitare.

Iena: Tu non hai mai parlato.

Iaquinta: No, mai, perché io avevo fiducia in questa giustizia. Ho aspettato però adesso basta, è arrivato il momento di far capire alla gente che mio padre non c'entra niente in tutto questo. Veramente, è innocente. Sono stanco, Giulio, sono veramente stanco di questa situazione. Sono stanco. Ieri, dopo la condanna, sono arrivato a casa… i miei bambini che piangevano… mia madre che è malata di tumore da 4 anni… ma un cuore ce l'ha questa gente o no? Ce l'ha un cuore?

Mio padre è calabrese, anche io sono calabrese, sono di Cutro. Essere di quel paese non vuol dire che tu sia ‘ndranghetista. È questo che non capisco. Hanno fatto di tutta un'erba un fascio. Oggi tu dai la carta d'identità a Reggio Emilia, "Sei di Cutro? Sei mafioso - qua dicono - sei ‘ndranghetista".

Iena: Che significa ‘ndrangheta per te?

Iaquinta: La ‘ndrangheta a me non interessa, Giulio. È una cosa che nella mia famiglia deve stare lontana perché non fa parte di noi. Ho paura a parlare solo di ‘ndrangheta, vedi che sto tremando. Scusa la tensione ma sono così io, sono genuino come mi vedete. Non c’è cosa più brutta di venire marchiato col nome della ‘ndrangheta, non c’è cosa più brutta. A mio padre hanno tolto la White List (il certificato per lavorare con gli enti pubblici, ndr) e non riusciva a capirne il motivo, il perché. È andato mio padre alla DDA di Bologna a dire ‘Venite a controllare’ perché lui era pulito, non aveva fatto niente. Io ho preso il porto d’armi con due armi dichiarate.

Iena: Andavi a sparare al poligono?

Iaquinta: Sono stato al poligono una volta, quando le ho prese, poi non ci sono più andato. Ero sempre a Torino, così le armi sono rimaste sempre a casa mia. Nel 2014 mia sorella mi chiese se poteva andare ad abitare a casa mia, dove io detenevo regolarmente queste armi. Mio padre, a mia insaputa, per sicurezza ha preso queste armi, le ha trasferite a casa sua, in cassaforte. È stata un'ingenuità di mio padre. Quando vengono ad arrestare mio padre, nel 2015, le armi non le avevano trovate. Dopo tre giorni ritornano questi della DDA e gli ho detto io che c'erano le mie armi. Ho detto: "Guardate che mio padre ha preso le armi, le ha prese per sicurezza", gli ho spiegato tutta la storia.

Iena: E loro che ti hanno detto?

Iaquinta: "Stai tranquillo, vedrai che sarà una cosa amministrativa". Dopo 15 giorni, invece, mi chiamano alla caserma di Quattro Castella dove c'era una notifica che diceva che io queste armi le ho date in mano alla ‘ndrangheta, che sarebbe mio padre… dandomi l'articolo 7 (l’aggravante mafiosa, ndr). Con la sentenza l'articolo 7 è caduto perché non c'era l'aggravante mafiosa.

Iena: È possibile che tuo padre abbia preso alla leggera determinate amicizie?

Iaquinta: Ma può anche essere, ma mio padre andava a mangiare con quelli. C’è scritto anche agli atti che conosceva tutti, ma conoscerle è reato? Se conoscerle è un reato alziamo le mani e si fa 19 anni di carcere, ma non è così. Mio padre deve aver fatto qualcosa con questi qua per essere condannato, ma mio padre non ha fatto niente perché le carte lo dimostrano al processo. Cutro è un paese normale, dove tutti si conoscono. Mio padre conosce tutti al paese, ma questo conoscere non vuol dire conoscere persone che hanno fatto del male, non vuol dire che mio padre ha fatto del male anche lui, perché mio padre in tutta questa storia non c'entra nulla, assolutamente. È pulito mio padre, e si chiedeva “Perché mi devono fare qualcosa se io sono pulito?”. Se la gente ha commesso dei reati perché non sta in carcere? Perché io sono un uomo pulito e ho paura ad andare al bar e incontrare una persona che è delinquente e se la conosco non la devo salutare? Quel delinquente tienilo in carcere così mio padre può andare al bar tranquillo. Alla cena di Pagliani c’erano avvocati e giornalisti. Mio padre si è fermato dieci minuti e non sapeva neanche di cosa stavano parlando. Il signor Pagliani non lo conosceva neanche, lo ha conosciuto poi in carcere.

Iena: Nel momento in cui uno che tu sai vicino a una famiglia mafiosa ti chiama e ti invita a cena, uno perché ci va?

Iaquinta: Perché una volta gli dici di no, la seconda gli dici di no, venti volte gli dici di no, poi ci devi andare. Quello può dire "perché non viene da me? Che paura ha?". È un'offesa per loro e poi ci vai. Mio cugino si è sposato la figlia di Grande Aracri (boss della ‘ndrangheta, ndr), mio padre e mia madre sono stati invitati a questo matrimonio e ci sono andati, basta. Per rispetto in Calabria si va ai funerali e si va ai matrimoni.

Iena: Le persone che conoscevano tuo padre tu le conoscevi?

Iaquinta: Certo che le conoscevo, ma conoscere queste persone non vuol dire che io sia ‘ndranghetista. Ma stiamo scherzando? Abbiamo la casa in questo villaggio, di fianco a casa mia abita il fratello di Nicolino Grande Aracri. Un giorno Nicola è entrato a casa mia, è venuto lì per salutarci perché c'ero io… Queste persone erano orgogliose di me, di quello che ho fatto a livello calcistico, io sono diventato campione del mondo. E abbiamo fatto questa foto, e questa foto qua poi è andata su Facebook ed è agli atti dicendo che quello era un summit di ‘ndrangheta. A mezzogiorno, con dei bambini, c'erano i miei figli, c'erano i miei cognati. C'era un summit e tu vai a pubblicarlo su Facebook?

Iena: Voi sapevate chi erano?

Moglie: Ma certo che lo sapevamo chi era.

Iaquinta: Come faccio a dirgli di uscire perché è ‘ndranghetista?

Moglie: Non è che quando arriva si presentano con armi… Tu puoi evitare di farci un affare perché sai chi è, ma non puoi evitare di salutare o dare la mano o fare la foto.

Iaquinta: Perché, per un po' di paura, non lo so.

Iena: Se si offende uno che sai che appartiene alla ‘ndrangheta qualche scrupolo te lo fai.

Iaquinta: E certo, quello sì, sicuramente.

Moglie: Ma noi abbiamo quattro bambini…

Iaquinta: Tutti si farebbero qualche scrupolo. Solo del nome ‘ndrangheta ho paura.

Iena: Hai facilitato delle volte delle persone?

Iaquinta: Mai, mai. A me queste persone non hanno mai chiesto niente.

Iena: Qualche maglietta?

Iaquinta: Magliette, palloni, fotografie. Perché, non posso fare fotografie o dare una maglietta? È un reato? È mafia? Ma in quanti si fanno la foto con me che io non so neanche chi siano? Può essere il più delinquente del mondo, perché io devo dire di no? Ma dai, ma stiamo scherzando? Quando toccano la tua dignità è impossibile stare zitti o stare fermi, è impossibile! Penso che se una persona si arrabbia è perché non ha fatto niente. Si sono attaccati a robe allucinanti, ci sono i pentiti che hanno parlato che mio padre faceva fatturazione falsa, e dove sono queste fatture false?

Iena: Hanno detto che la ‘ndrangheta ti ha facilitato nel mondo…

Iaquinta: Ma ha facilitato cosa? A me non ha facilitato nulla… Perché non ho bisogno della ‘ndrangheta. Io ho guadagnato dei soldi, secondo te ho bisogno dei soldi della ‘ndrangheta o mio padre aveva bisogno dei soldi della ‘ndrangheta, ma stiamo scherzando?

Iena: Vengono messe in discussione tutta una serie di cose: come ci sei arrivato a giocare in nazionale…

Iaquinta: Quella è la cosa più schifosa che hanno detto i pentiti. Tutte fesserie, balle. Io ho fatto 90 gol in Serie A, sono arrivato in Nazionale: 40 presenze in Nazionale, ho vinto un Mondiale. Perché queste cattiverie su di noi? Sulla questione emersa durante il dibattimento processuale riguardo agli ombrelloni nel villaggio a Cutro di Giuseppe Iaquinta, l’ex attaccante della Nazionale risponde: Hanno rubato due ombrelloni che noi avevamo pagato, un amico di infanzia di mio padre ha chiamato un personaggio di questi dicendo che a Iaquinta avevano rubato questi due ombrelloni e non c'è più rispetto. I PM l'hanno girata come se mio padre era una persona importante, no? Ci sono stati ridati gli ombrelloni ma pagati, non è perché ce li ha portati la ‘ndrangheta, capito? Abbiamo la fattura e le abbiamo portate anche agli atti queste cose qua. L'amministratore di questo villaggio è venuto a fare dichiarazioni e non gli hanno neanche creduto.

Iena: E dalle indagini non è uscito un collegamento per appalti…

Iaquinta: Assolutamente, mai. Mio padre gli ha portato un faldone così di roba che ha chiesto al commercialista e ha detto "Ecco qua, controllate".

Iena: Ha avuto qualcuno a lavorare di qualche famiglia ‘ndranghetista?

Iaquinta: No, no mai.

Iena: Qualcosa ci deve essere…

Iaquinta: Se c’era stato veniva fuori. Ma non è venuto fuori niente, Giulio. Su mio padre non c’è un’intercettazione telefonica, sono sempre gli altri che parlano del nostro cognome. Non è che è uscito fuori ‘Tuo padre ha fatto questo’. No, stiamo parlando del nulla. Io ero convinto che mio padre ne sarebbe uscito pulito, invece no.  Solo per una cena, perché sei andato al matrimonio o al funerale, parliamo di due ombrelloni! Può essere che questo processo, se avessero assolto mio padre, sarebbe potuto cadere perché non c’era più un’immagine per i media? Lo stiamo tenendo su noi sto processo ‘Iaquinta, Iaquinta’, tutti i giornali… Ci sono state non so quante condanne, cento e passa condanne ieri…

Iena: 119!

Iaquinta: Ma hanno parlato di Giuseppe e Vincenzo Iaquinta. Essere famosi ha i suoi pro e i suoi contro. I giornali mettono solo due anni a Iaquinta per ‘ndrangheta. Maledizione, maledizione. È la cosa più brutta che ti può capitare, un giorno mi sono fermato al Mc Donald e una signorina, quella che era alla cassa, mi ha riconosciuto ‘Ah c’è Iaquinta’ e di là quello che lavava i piatti ha detto "Ah quel mafioso". E io avevo i bambini in macchina, capito? Perché mio padre è ancora in carcere? Dopo una condanna di primo grado già in carcere? Sono andati a prenderlo ieri, ieri sera. Non lo so perché questo accanimento contro di noi, non lo so. Non è emerso niente su mio padre che poteva esserci una associazione, non è emerso niente. Partiamo dal fondo della famiglia Iaquinta, chi è stata la famiglia Iaquinta e cosa si è costruito mio padre a 16 anni che è venuto a lavorare in fabbrica a Milano con suo fratello che dormiva in fabbrica. E si è costruito tutto da solo, tutto da solo senza l’aiuto di nessuno. Come mi sono fatto io tutto da solo, ad arrivare a certi livelli. E questi qua in un secondo vogliono rovinare la famiglia Iaquinta, in un secondo dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto? È così che funziona l’Italia, è così? Per tre giudici? Per due PM? O per un pentito che ha detto solo cazzate nel processo? Un pentito che ha fatto le cose e va a buttare merda addosso alla gente, è questa l’Italia? No Giulio, non è così. Basta! Mi sono rotto le palle di stare zitto, c’è da parlare. Io lotterò fino alla morte per l’innocenza per mio padre. Perché io lo conosco talmente bene, è una persona che non si permetterebbe mai di far del male a me. Io sono nato a Crotone, e siccome mia madre e mio padre abitavano in una casa piena di umidità, dove il bagno era fuori e avevano paura che se mi portavano lì morivo con tutta quella umidità. Mi hanno lasciato due mesi da mia nonna e da mio nonno. Loro sono tornati qua perché mio padre lavorava e dopo mi sono venuti a prendere. La gente deve capire da dove siamo partiti anche noi. Abbiamo altri due gradi giudizio e la verità deve venire fuori, per forza. Ho fiducia nella giustizia, Giulio.

Iena: Tu hai fiducia?

Iaquinta: Al 100% sull’innocenza di mio padre.

Milano, scarcerato grazie a una lettera aperta dopo 13 anni. Era una condanna definitiva in un caso di violenza su minore. I giudici e le parole del compagno suicida, scrive Luigi Ferrarella l'1 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". C’è un uomo che urla dalla tomba. E il suo grido postumo di innocenza, affidato prima di suicidarsi nel 2005 a una lettera in busta sigillata conservata a lungo in una stazione dei carabinieri e mai aperta per 13 anni, ora convince i giudici a precipitarsi a tirar fuori dal carcere un altro uomo, il suo compagno, benché questi stia scontando una condanna definitiva per concorso in violenze sessuali nel 2002 sulla nipotina di 4 anni. E così la Procura generale di Milano, competente sull’esecuzione della pena del detenuto nel carcere di Pavia, riceve dalla II Corte d’Appello di Brescia l’ordine di appunto sospendere immediatamente l’espiazione e liberare il condannato, da subito e fino a quando la Corte non avrà deciso nel merito l’istanza straordinaria presentata dal difensore Guglielmo Gulotta per un giudizio di revisione della condanna definitiva: il presidente Deantoni, la giudice relatrice Milesi e il consigliere Vacchiano, infatti, reputano «che il prudente apprezzamento» della lettera, e della proposta difensiva di nuovi test di neuroscienze oggi ancora controversi ma che 15 anni fa comunque non esistevano, «faccia apparire non infondato il rischio che il condannato protragga l’espiazione di una pena che potrebbe rivelarsi ingiusta». Andrà dunque ai (molto rari) tempi supplementari questo processo dagli esiti altalenanti, che aveva visto l’imputato assolto in primo grado con rito abbreviato a Busto Arsizio nel 2007 dall’ccusa di aver concorso (fotografandole) nelle violenze sessuali, asseritamente commesse nell’autunno 2002 dal suo compagno (poi suicida il 15 luglio 2005) sulla figlia di 4 anni della sorella. In Appello, però, nel 2009 i giudici ribaltarono l’assoluzione in condanna, a sua volta tuttavia annullata nel 2010 dalla Corte di Cassazione con rinvio a un nuovo giudizio di secondo grado. Ma nel 2014 questa Corte d’Appello bis ricondannò l’imputato, e al secondo passaggio in Cassazione nel 2016 anche gli ermellini confermarono la sentenza di colpevolezza, rendendo definitivi 4 anni di condanna (fine pena il Ferragosto 2020). Un’altalena di verdetti tutti ruotanti attorno alle differenti valutazioni dei consulenti tecnici sull’affidabilità scientifica o meno dei ricordi (sotto forma di «brutto sogno») della bimbetta, visto che per il resto la perquisizione a casa non aveva trovato alcun materiale pedopornografico, e negativo era stato anche l’esito della perizia sulla pellicola inserita nella macchina fotografica sequestrata. Ma il 6 settembre 2017 in una stazione dei carabinieri, quella dove nel 2005 erano finiti gli effetti personali del suicida, uno dei succedutisi avvocati recupera la busta chiusa che fino ad allora nessuno — né i familiari, né i legali, né gli inquirenti — aveva evidentemente voluto acquisire e aprire. Nella lettera datata 3 e 11 luglio 2005 lo zio materno della bimba, prima di uccidersi il 15 luglio, appare prostrato per «l’infamia» che da un lato scrive gli stia rovinando la vita, ma contro la quale dall’altro lato confessa di non avere più la forza di combattere: «Quello che posso dire è che non ho fatto niente di così schifoso. Sono innocente, che mi crediate o no». E prima di chiedere che «l’avvocato vada fino in fondo», l’uomo che sta per uccidersi chiede perdono al suo compagno (e coimputato) per un gesto «aberrante» che lo lascerà da solo: «Mi sento in colpa solo verso di lui, che ho tradito, solo per questo».

Beatrice Cenci, il fantasma dell’ingiustizia. Il suo processo fu una farsa, la sua barbara esecuzione l’11 settembre 1599 venne seguita da migliaia di persone, scrive Daniele Zaccaria il 13 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; e grida, singhiozzi, ululati provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco. E mentre la processione attraversa Santa Maria di Monserrato, i Banchi, Tordinona, e si avvicina al luogo dell’esecuzione l’aria è satura di calore: quell’ 11 settembre 1599 a Roma fa un caldo torrido, l’estate sembra non voler finire più. C’è un momento però in cui la schiera si azzittisce, un istante sospeso, quasi a raccogliere pensieri e spiriti animali prima del supplizio: la figura sdegnosa di Beatrice appare sul ciglio di San Celso, neanche uno sguardo rivolto agli astanti, gli occhi dritti su ponte S. Angelo dove di lì a poco verrà decollata, ceppo e mannaia, l’ombra del boia già occhieggia sinistra sul palco. Sul carro, dietro di lei, la matrigna Lucrezia Petroni tremante e inebetita, e il corpo già afflitto ma ancora in vita del fratello Giacomo: durante il tragitto lo hanno mazzolato sul cranio, divelto con tenaglie roventi, alla fine morirà per squartamento nel più brutale dei martirii. Lucrezia non sopporta la scena e perde i sensi, Beatrice, che è già il suo fantasma, rimane muta e altera. Al fratello Bernardo, che ha appena 15 anni, viene risparmiato il patibolo ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari, anche lui perde i sensi per l’orrore e rimane svenuto per mezz’ora. La prima testa a cadere è quella di Lucrezia, tagliata di netto dallo spadone del boia. Poi tocca a Beatrice, la star, ha 22 anni, ed è di una bellezza rara. Le cronache raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che le vibrasse il colpo fatale: «Intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda». In piazza quel giorno c’erano migliaia di persone, tra di loro anche un giovane pittore lombardo, Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. In dodici persero la vita, chi per insolazione, chi schiacciato nella calca, chi affogato nel Tevere. Una cupa giornata di morte e di delirio, quell’ 11 settembre 1599. Erano stati condannati alla pena capitale direttamente da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo e marito di Lucrezia, sua seconda moglie. Un delitto premeditato per porre fine alle violenze di quell’uomo malvagio di cui tutti dicevano un gran male. Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia (aveva violentato il figlio 12enne di un popolano) era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà. La figlia maggiore Antonina scrive addirittura a Clemente VIII per sfuggire agli abusi paterni, il pontefice, che non aveva alcuna simpatia per Francesco, accoglie la richiesta combinandole un matrimonio con un nobiluomo di Gubbio. Costretto a pagare una ricca dote si sfoga su Beatrice che fa segregare assieme a Lucrezia in un castello in provincia di Rieti che appartiene alla famiglia Colonna, nel territorio del Regno di Napoli. È il 1595 e, fino alla morte avvenuta nel 1598, il castello sarà teatro di sevizie e percosse, di continue umiliazioni, accentuati dall’animo sempre più incarognito di Francesco, malato di gotta e di rogna e assediato dai debiti e dai creditori. Con l’aiuto dei domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, Lucrezia, Beatrice e Giacomo tentano di ucciderlo per ben tre volte, provando ad avve- lenarlo, tentando di pagare dei briganti locali, stordendolo con l’oppio. Alla fine è Olimpio a ucciderlo nel sonno, a colpi di martello e a chiodate. Ufficialmente Francesco Cenci è morto per una brutta caduta da una balaustra, ma la messa in scena è goffa, amatoriale. Fanno ritrovare il corpo in un orto ai piedi del castello. Non ci vuole molto agli investigatori mandati sia dal viceré del Regno di Napoli che dal Vaticano per capire che quello non era un incidente, ma un delitto. Riesumano il cadavere, trovano i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo, due chirurghi certificano l’omicidio. Il movente è limpido: tutti sapevano delle brutalità del conte nei confronti dei familiari che avevano più di una buona ragione per liberarsi di lui. I Cenci vengono portati a Roma, in un primo momento ai domiciliari nel loro palazzo sotto la sorveglianza delle guardie pontificie. Si dichiarano innocenti, sono una famiglia molto in vista, dei “vip” e il loro processo, che oggi verrebbe definito uno show mediatico, calamita l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica ed è condotto dai più noti giuristi dell’epoca. Il dibattimento vede affrontarsi infatti due autentici principi del foro, Pompeo Molella per la pubblica accusa e Prospero Farinacci per la difesa, il giudice è Ulisse Moscato che due secoli più tardi il francese Stendhal (grande appassionato della tragedia dei Cenci) descrive nelle sue Cronache Romane come «uomo dalla profonda sapienza e dalla superiore sagacità dell’intelletto». Ma Clemente VIII, lo stesso che l’anno successivo farà ardere vivo Giordano Bruno, non può accettare una sentenza che non si concluda con la morte per gli accusati. L’avidità, la cupidigia untuosa di Papa Aldobrandini, beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci, rende il processo una farsa, fosse stato per lui non ci sarebbe stato nessun processo, li avrebbe fatti squartare tutti appena arrivati a Roma. Irritato dalla ragionevolezza e dalla moderazione di Moscato e preoccupato che possa venire colpito dalla grazia della giovane, lo fa sostituire dal giudice Cesare Luciani, noto per la facilità con cui spedisce gli imputati dal boia fin dai cupi tempi di Sisto V, soprannominato “il Papa della delazione e delle forche”. Ma soprattutto c’è Beatrice, superba e altezzosa, che rifiuta di ammettere le violenze e gli stupri del padre, un po’ per scongiurare il movente, un po’ per orgoglio e vergogna. A nulla servono le suppliche del suo avvocato, che la invita ad ammettere l’omicidio ma anche a elencare tutti gli abusi subiti da quell’orrendo genitore, abusi che potranno servire da altrettante attenuanti e a risparmiarle la vita. Niente da fare, lei rigetta con sdegno ogni accusa. Molella porta in aula a testimoniare il domestico Marzio che alla vigilia aveva confessato sotto tortura, ma alla vista di Beatrice, di cui era perdutamente innamorato, scoppia a piangere e ritratta tutto. Viene ucciso qualche giorno dopo a colpi di mazza dagli aguzzini del Papa. Olimpio, l’altro domestico che aveva partecipato alla congiura era invece riuscito a darsi alla macchia prima degli arresti, ma viene ritrovato da un simpatizzante dei Cenci che lo ammazza per impedirgli di testimoniare. La sentenza di condanna a morte è scontata, tanto che viene emessa in assenza di Farinacci, ancor prima che possa pronunciare l’arringa difensiva. Soltanto al piccolo Bernardo è risparmiato il supplizio, lo condannano ai “remi perpeutui” nelle galere delle Stato Pontificio (comprerà la sua libertà qualche anno dopo pagando un’ingente somma). Immediatamente i Cenci sono portati in prigione, Lucrezia e Beatrice rinchie nella Corte Savella, Giacomo e Bernardo nel carcere di Tordinona, prima dell’esecuzione ci sarà la tortura. Clemente VIII vuole infatti che i Cenci confessino e vuole eliminarli prima che la pietà possa far breccia nei sentimenti del popolo, incuriosito e appassionato da quella tragica vicenda. Confesseranno tutti, l’ultima a piegarsi è proprio Beatrice, sottoposta al trattamento della “corda” che consiste nel sollevare il corpo tramite una carrucola mentre delle grosse funi ti spezzano giunture e articolazioni. Si piega per il dolore fisico, insopportabile, ma anche perché capisce che tutto è ormai perduto, che i suoi familiari hanno confessato, che niente e nessuno potrà salvarla dallo spadone affilato del boia. Il suo processo e la sua esecuzione, il barbaro squartamento del fratello Giacomo, simbolo di una giustizia vendicativa e ancella del potere, ha colpito a fondo l’immaginario collettivo del popolo e degli artisti e intellettuali. E nei secoli ha ricevuto il tributo di scrittori come Stendhal, Shelley, Dumas, Artaud, Moravia, di pittori come Caravaggio, Artemisia Gentileschi (anche lei in piazza il giorno della morte), Guido Reni, di musicisti come Rota e Goldschmidt, di cineasti come Mario Camerini e Lucio Fulci. La leggenda vuole che ogni 11 settembre, annunciato da una gelida brezza, il fantasma di Beatrice Cenci appaia all’imbrunire sui balconi di Castel S. Angelo. La testa appoggiata sulle mani bianche come la luna, la camminata leggera e altezzosa, una luce malinconica nello sguardo, e un sorriso beffardo da regalare ai romani, proprio come quando era in vita.

«Quella madre era malata: non doveva stare in cella». Parla l’avvocato della donna detenuta a Rebibbia che ha ucciso i due figli, scrive Simona Musco, il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Non avrebbe dovuto stare in carcere, Alice Sebesta, la 33enne di origini tedesche che martedì, a Rebibbia, ha scaraventato violentemente i figli giù per le scale del nido del carcere, uccidendo sul colpo la più piccola, Faith, di 4 mesi, e ferendo in modo gravissimo Divine, di 19 mesi, per il quale è stata decretata la morte cerebrale. La madre, attualmente sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Pertini, non ha potuto dare l’ok all’intervento per l’espianto degli organi. La donna, dicono oggi le cronache, «era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli», tanto che il personale del carcere aveva segnalato «la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico», secondo quanto contenuto in un documento firmato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, visionato dall’Ansa. Informazioni che al suo legale, Andrea Palmiero, non sono state, però, mai comunicate. «L’istanza per farle avere i domiciliari spiega al Dubbio l’avvocato, che ieri ha parlato di nuovo con la donna in ospedale – è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari come fosse acqua fresca. Se il ministro della Giustizia vuole capire davvero come sono andate le cose allora lo invito a leggere questi documenti».

Avvocato, cosa sapeva dello stato di salute di Alice prima che avvenisse la tragedia?

«No, in questi 20 giorni nessuno mi ha mai segnalato nulla. Non mi sono stati comunicati episodi che lasciassero anche solo immaginare un epilogo del genere e non ho mai letto la nota del Dap di cui si parla in queste ore. Se queste informazioni dovessero rivelarsi vere, la cosa sarebbe davvero molto grave: avrei dovuto certamente essere informato di certe circostanze. Invece non ho mai saputo nulla».

Lei aveva presentato istanza affinché la donna andasse ai domiciliari. Come sono andate le cose?

«La mia richiesta è stata rigettata per ben due volte. Nel primo caso si poneva un problema effettivo: la donna, che non si trovava nel proprio paese, non aveva una casa in cui poter eleggere domicilio, così la prima volta la mia istanza è stata respinta. Mi sono impegnato per trovare una casa in cui potesse passare questo periodo di custodia cautelare ai domiciliari e alla fine ci sono riuscito. Così ho presentato per la seconda volta istanza, ad un nuovo giudice, in quanto nel frattempo era cambiato. Ma, inspiegabilmente, è stata rigettata una seconda volta, senza alcuna giustificazione a mio avviso plausibile: secondo il gip, la difesa non aveva portato alcun elemento nuovo. In realtà, però, l’elemento nuovo c’era: la casa, appunto. Non so davvero spiegarmelo».

Parliamo di com’è finita in carcere il 26 agosto scorso, quando è stata arrestata in flagranza. È possibile che per spaccio di marijuana, con due figli piccolissimi dietro, si trovasse lì?

«Sicuramente non possiamo parlare di un reato minore, per via dell’ingente quantitativo di sostanza stupefacente che aveva con sé (10 chili nascosti in macchina tra i pannolini dei bambini, ndr). Ma comunque parliamo di marijuana, in un periodo storico in cui si sta andando verso la liberalizzazione… Non si tratta certo di droghe pesanti, di cocaina o eroina. Ritengo che non potesse stare in carcere. Io il domicilio alternativo l’avevo proposto, ma non è comunque servito. Ma al di là di questo, nel caso in cui si fosse arrivati ad una condanna definitiva, per questo reato la scarcerazione sarebbe stata obbligatoria. In ogni caso, dunque, non avrebbe dovuto trovarsi lì».

Aveva già commesso altri reati?

«No, questo era il suo primo arresto. Non stiamo parlando, quindi, di una persona recidiva, ma di una persona che affrontava questa esperienza per la prima volta, in un paese straniero, che non le apparteneva, per giunta. L’ho vista molto spaesata, com’è comprensibile. Ma nulla poteva farmi pensare che le cose sarebbero andate a finire in questo modo».

E dopo la tragedia come l’ha vista?

«L’ho vista insofferente, depressa. Oggi (ieri per chi legge, ndr) sono andata a trovarla in ospedale, ma di quanto ci siamo detti preferisco non dire nulla, perché domani ( oggi, ndr) ci sarà l’udienza di convalida e riferirò tutto al giudice. Di sicuro, prima che si verificassero questi eventi non mi era stato fatto presente nulla circa il suo stato di salute».

Durante i vostri colloqui non era emerso nessun elemento che potesse anche solo lasciare immaginare, dunque?

«Lei non mi ha mai detto nulla. Ero io a vederla sempre un po’ sofferente, ma in un colloquio di dieci minuti sono poche le cose di cui si può parlare. Avevo notato che si presentava sempre un po’ più trascurata, ma da qui a pensare che potesse accadere una cosa del genere…»

Il ministro della giustizia ha sospeso i vertici del carcere…

«Non so chi abbia responsabilità, non tocca a me dirlo. So soltanto che questi bambini li abbiamo pianti soltanto noi. Chi lavora in carcere vive gomito a gomito con queste persone, con i detenuti, e non credo che le responsabilità si debbano cercare lì o che non avessero a cuore queste persone. Invito, piuttosto, il ministro ad andare a visionare il fascicolo con il rigetto dell’istanza di carcerazione domiciliare. Vada a vedere lì se c’è qualcosa che non quadra».

Carcere e bambini: perché quello che si fa non basta. Il caso della detenuta che ha ucciso i 2 figli a Rebibbia getta sale sulla ferita dei bimbi in prigione, scrive Barbara Massaro il 20 settembre 2018 su "Panorama". "Ora almeno loro sono finalmente liberi". Lo ha detto Alice S., 33 anni, di nazionalità tedesca, detenuta da agosto presso il carcere di Rebibbia per essere stata colta in flagranza di reato con 14 chili di marijuana. Lo ha detto a proposito della morte dei suoi due figli, un bimbo di meno di due anni e una neonata. A ucciderli è stata lei, la madre Medea di questa tragedia greca drammaticamente contemporanea. La donna, interrogata dagli psichiatri del carcere, con fredda lucidità ha dichiarato: "Sapevo che era in programma l'udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati, adesso sono in Paradiso". "Ora sono liberi". Per questa donna donare la vita è stato meno importante che concedere la morte e piuttosto che trattenere i suoi figli, nati liberi, in prigione ha preferito ucciderli gettandoli dalle scale del nido carcerario in cui vivevano. Per il gravissimo episodio il Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso la direttrice della sezione femminile del penitenziario e la sua vice responsabili di non aver fatto abbastanza per prevedere la tragedia. La donna - si legge in un documento firmato dal capo del Dap, Francesco Basentini e riportato da Ansa "Era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli" e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato "La necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico". Ad appurare responsabilità ed eventuali omissioni ci penserà l'inchiesta giudiziaria già avviata, quel che resta alla fine di questa storia è il dramma sempre attuale dei bambini tra gli zero e i tre anni che, pur nati liberi, vivono i propri primi mille giorni da detenuti.

Bambini in carcere. I bimbi uccisi dalla madre, meno di due anni in due, dal 28 agosto alloggiavano all'interno del nido di Rebibbia, uno dei 15 asili nido che si trovano nelle sezioni femminili delle carceri italiane. A Rebibbia il nido si trova in una sezione distaccata. Ogni cella ha una culla in legno per i bambini e in reparto ci sono una ludoteca e una piccola cucina. I bambini sono assistiti da pediatri e terapeuti e anche le madri sono sostenute dal supporto psicologico, o per lo meno dovrebbero esserlo, ma comunque sempre di carcere si parla. In Italia al momento dietro le sbarre ci sono 62 bambini figli di 52 madri detenute. La legge prevede che una donna madre di bimbi molto piccoli venga tutelata nel suo diritto a mantenere la genitorialità e per questo in Italia esistono 15 nidi all'interno delle strutture carcerarie.

Gli Icam. Molto meglio delle ludoteche dietro le sbarre, però, sarebbero di ICAM, istituti a custodia attenuata per madri. Il problema è che in tutto il territorio nazionale sono solo 5. Si tratta di luoghi che assomigliano più a una casa che a un carcere (pur essendolo a tutti gli effetti) dove le madri sono sottoposte a una sorta di custodia domiciliare sotto tutela dell'istituzione carceraria. Pur non potendo uscire dagli ICAM e pur essendoci sbarre alle finestre e guardie fino a fine pena le madri possono condurre un'esistenza tutto sommato normale e i bambini vivono in maniera meno intensa il trauma del carcere. Il problema è che per gestire questi istituti servono fondi che non ci sono e quindi restano nel ridicolo numero di 5 su territorio nazionale. Ci sarebbe anche l'opzione delle case famiglia protette, ma in questo caso va anche peggio visto che in Italia ce ne sono solo due. Mancano strutture, investimenti e soprattutto volontà politico istituzionale di costruirle.

Cosa dice la legge. Va precisato che una madre non ha l'obbligo di portare il figlio in carcere con sé, ma spesso coloro che scelgono questa opzione è perché sono sole al mondo e non saprebbero dove lasciare le proprie creature. Si tratta di un problema non solo logistico, ma anche etico ed educativo a proposito del quale esiste un'ampia giurisprudenza e che coinvolge un intero nucleo famigliare che il carcere avrebbe il compito di rieducare alla vita. Il problema è capire come. L'episodio di Rebibbia pone l'accento, tra l'altro, sul dramma della depressione tra le neo-madri già violenta per donne libere e ancora più drammatica con l'aggravante della prigione. Perché si tratta di donne che hanno problemi con la giustizia penale, ma che non perdono le prerogative genitoriali e lo Stato ha l'obbligo di preservare il diritto del minore a vivere con la propria madre.

Un bimbo muore a Rebibbia. Che civiltà è questa? Scrive Damiano Aliprandi il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Dramma nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Una detenuta tedesca ha tentato di uccidere i suoi figli: la neonata di 4 mesi è morta sul colpo, per l’altro è in programma l’accertamento di morte cerebrale. Dramma nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Una detenuta tedesca ha tentato di uccidere i suoi figli, di fatto, ristretti nel carcere: la neonata di 4 mesi è morta sul colpo, l’altro, di due anni, ha lottato tra la vita e la morte all’ospedale del Bambin Gesù ed ora è in programma l’avvio della procedura di accertamento di morte cerebrale. Il ministro ha sospeso la direttrice e la vicedirettrice della sezione femminile del carcere e inoltre il vicecomandante del reparto di Polizia Penitenziaria. Prima di compiere il terribile gesto, la donna ha atteso che le altre detenute sfilassero prima di lei per poi rimanere in disparte e sbattere ripetutamente, con forza, il corpo dei suoi due bimbi per terra. Una volta compreso quanto stava accadendo, sono intervenute alcune agenti della polizia penitenziaria e diverse detenute rom per cercare di fermare la furia della donna. La donna, 33 anni, nata in Germania ma di cittadinanza Georgiana, era stata arrestata in flagranza di reato il 26 agosto scorso a Roma per concorso in detenzione di sostanze stupefacenti. Nei giorni scorsi avrebbe manifestato segnali di disagio nel ritrovarsi in carcere con una bimba di pochi mesi e uno di appena due anni. Ma non solo, qualche giorno fa, la donna aveva parlato con l’avvocato a cui aveva fatto presente di soffrire di depressione e di non reggere la situazione carceraria. Appena giunta la notizia, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede si è dapprima recato al carcere per avere chiarezza della situazione, dopodiché ha raggiunto l’ospedale per constatare le condizioni di salute del bambino ricoverato in codice rosso. Il guardasigilli ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità. A Rebibbia si è recata anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori. Avvierà una indagine per omicidio e tentato omicidio. Sono in corso anche i rilievi tecnici dei carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci per ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti. A dare per prima la tragica notizia è Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria e responsabile della struttura romana protetta per le detenute madri “Casa di Leda”. «Ho appreso la notizia direttamente dai volontari e operatori che operano nella struttura – spiega a Il Dubbio Di Mauro -, e tutto il personale è sconvolto visto la loro attenzione alle questioni che riguardano i bambini». Lillo Di Mauro ha colto anche l’occasione per dire a Il Dubbio che questa tragedia si poteva evitare visto che i bambini – per legge – non ci devono proprio stare in carcere. Si riferisce alla legge del 2011 la quale prevede che le detenute madri devono scontare la pena con i loro figli fino al compimento del sesto anno di vita del bambino, non più solo fino al terzo, ma non in carcere. L’intento della norma è di facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative. La pena deve essere quindi scontata in istituti a custodia attenuata (ICAM), luoghi colorati, senza sbarre, a misura di bambino. Sono però in media circa 60, in Italia, i bambini al di sotto dei tre anni che ogni anno entrano in carcere con le mamme. In alcuni casi sono ospitati in asili nido colorati, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita anche che un bambino o una bambina debba crescere dietro le sbarre, scontando la pena per una colpa che non ha commesso. Oltre all’ICAM, sempre secondo la legge del 2011 si dovrebbe privilegiare la casa famiglia protetta dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare. Ad oggi ne esiste solo una, ed è proprio “Casa di Leda” inaugurata un anno fa. La casa non a caso è intitolata a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute. Morì nel 2011, all’età di 82 anni, in seguito a un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione – tuttora attiva – “A Roma Insieme” aveva promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere romano di Rebibbia con le loro madri. Il responsabile della “casa di Leda” ha spiegato a Il Dubbio che la struttura è nata per ospitare sei madri con bambini fino al decimo anno di età. «Ma da tempo – denuncia Lillo Di Mauro – ne ospitiamo solo quattro, ci sono due posti liberi: come mai alcune di quelle madri ristrette a Rebibbia non sono state fatte giungere qui?». Il responsabile conclude con un auspicio: «Questa tragedia deve sollecitare il parlamento a trovare la soluzione definitiva di questo problema relativo ai bambini in carcere!».

Mai più bimbi in galera. Ma in Italia sono almeno 60. È lunga la lista dei minori costretti a vivere dietro le sbarre, scrive Simona Musco il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Sessantadue bambini dietro le sbarre. Anzi 60 da ieri, dopo la morte del bimbo di quattro mesi e il ferimento grave del fratellino di due anni, che i medici stanno tentando di strappare alla morte. Numeri in crescita: a dicembre 2017 erano infatti 56 i minori costretti a vivere in carcere assieme alle proprie madri, 37 a fine 2016. I dati, pubblicati sul sito del ministero dell’Interno, fotografano la situazione in tutta Italia al 31 agosto. Nel nostro paese si contano 2551 detenute, 52 delle quali vivono in compagnia dei propri figli, troppo piccoli per allontanarsi dalle madri. Sono 15 gli istituti che ospitano madri e figli: 27 sono italiane, in cella assieme a 33 bambini. Venticinque le madri straniere, che si prendono cura in stato di detenzione di 29 bambini, in una condizione lontana anni luce da una normale infanzia. I numeri più alti sono quelli di Rebibbia, dove ieri si è consumata la tragedia: al “Germana Stefanini” sono presenti 16 bambini a seguito di 13 madri. Un carcere sovraffollato, dove sono presenti 353 donne su 276 posti disponibili. A seguire c’è il Lauro Icam – istituto a custodia attenuata per detenute madri -, in Campania, con 12 bambini e 10 madri. Un istituto che rientra nelle strategie stabilite dalla legge 62/ 2011, pensata per valorizzare il rapporto tra le madri e i loro figli all’interno del penitenziario, in ambienti pensati come una casa- famiglia, per tenere i bambini il più possibile lontani dal clima carcerario. Anni dopo quella legge, però, sono soltanto cinque gli Icam attivati: Milano San Vittore, da dove è partito il primo progetto e dove vivono quattro bambini con le loro madri, Venezia Giudecca (dove sono presenti sei minori e cinque madri), Torino “Lorusso e Cutugno” ( dove si trovano 10 bambini e sette madri), Cagliari e, appunto, Avellino Lauro. E dove gli Icam non esistono, come nel caso di Rebibbia, i bambini finiscono “reclusi”, fino ai 3 anni, nelle sezioni nido nei penitenziari femminili. La legge rimane dunque attuata a metà, facendo, di fatto, ricadere le colpe delle madri sui figli. Come nel “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, dove è presente una madre straniera assieme ai suoi due bambini, il “Rocco D’Amato” di Bologna, con due madri straniere e due bambini, il “Bollate” di Milano, con tre madri e tre bambini, e una madre con un bambino a seguito negli istituti di Brescia, Foggia, Lecce, Sassari, Messina, Firenze e Perugia. «La tragedia di Rebibbia ci ricorda il dramma dei tanti troppi – bambini che crescono e vivono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato, da innocenti», ha commentato Mara Carfagna, vice presidente della Camera e deputato di Forza Italia. Sette anni dopo la legge sull’istituzione degli Icam, «sono solo cinque le strutture dedicate e insufficienti le case protette: troppi bambini sono oggi condannati a crescere dietro le sbarre. È inaccettabile, oltre che pericoloso. Forza Italia chiederà conto del ritardo accumulato negli anni – ha concluso – e pretenderà che nella legge di Bilancio vengano stanziate le risorse necessarie», conclude. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la collega di partito e deputata Renata Polverini. «I bambini non devono pagare le colpe dei genitori e non è giusto che vivano in certe realtà – ha commentato -. Esistono case protette ma non sempre vengono utilizzate. Bisogna riflettere davanti a certe tragedie e se il caso cambiare qualcosa nella legge». Sul caso, la consigliera regionale del Lazio del Pd, Michela De Biase, ha chiesto di ascoltare il VII Commissione welfare il garante dei detenuti e il garante dell’infanzia e dell’adolescenza del Lazio. «Mi auguro si apra presto un dibattito serio sulla presenza dei minori nelle carceri – ha dichiarato -. Le istituzioni hanno il dovere di difendere e tutelare la vita dei minori».

La morte di Cucchi ha lasciato il segno sulla nostra pelle. Successo e polemiche per il film che racconta gli ultimi giorni del giovane ucciso in carcere, scrive Boris Sollazzo il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Quando smetterete di cadere per le scale?». A chiederlo è un secondino, un agente di polizia penitenziaria. «Quando smetteranno di picchiarci». A rispondere è Stefano Cucchi. Questo dialogo è diventato una sorta di parola d’ordine sui social, copiato e incollato ovunque, nelle discussioni fuori sui cinema o sui prati e nei centri sociali. Sulla mia pelle, come non succedeva da anni – neanche per La grande bellezza, che pure era entrato prepotentemente nel dibattito pubblico – ha riportato un film all’interno della dialettica di un paese. Non si parla d’altro, tutti vogliono vederlo. Un miracolo per una realtà marginale, commercialmente e purtroppo culturalmente, come il cinema italiano. Ora tutti sembrano darlo per scontato, eppure la storia di Stefano Cucchi poteva essere respingente e quindi fallimentare. Tanti, troppi di fronte alle prime recensioni positive, hanno reagito istintivamente con un “non so se ce la farò a vederlo”. Lo stesso accadde per lo splendido Diaz di Daniele Vicari con cui Sulla mia pelle di Alessio Cremonini condivide una fedeltà e un’onestà intellettuale verso il materiale processuale e verso la ricerca della verità quasi insopportabile. Ma rispetto a Diaz, che pure ebbe successo in Italia ( 2 milioni di incasso) e fu venduto all’estero, ora c’è Netflix. Ovvero 130 milioni di utenti per 190 paesi e la novità di un’uscita contemporanea in streaming legale e in sala. Il luddismo conservatore tipico di un’Italia pigra e corporativa ha reagito violentemente: in particolare l’Anec e l’Anica, che l’hanno visto come un attacco alla sacralità della sala. Senza capire, purtroppo, che l’enorme visibilità e l’incredibile successo di questo film, anche in sala (seconda media per sala delle ultime uscite), nasce proprio da quel pubblico raggiunto in poche ore. Più che un passaparola, uno tsunami, sottolineato da quella commovente seppur ambigua ondata di proiezioni gratuite pirata che non fanno altro che aumentare il “mito” del film. Commovente, perché costituita da giovani avidi di una storia dura, dolorosa, terribile, di farsi parte di un’indignazione civile. Ambigua perché chi ha “approfittato” del film – che pure era stato messo a disposizione di queste iniziative sociali dal 12 ottobre dai produttori con l’avallo della famiglia Cucchi, che in proposito ha fatto un appello esplicito – ha deciso di agire contro quel produttore, Lucky Red, che ha rischiato di suo per raccontare quella storia che, “piratata”, potrebbe non convenire narrare ad altri. Lo hanno fatto alla luce del sole (spesso troppa, tanto da non riuscire a vedere le immagini sui lenzuoli appesi in questi immensi consessi) perché sapevano che mai, visto il tema di quel film, avrebbe chiamato le forze dell’ordine per impedirlo. E hanno fatto vedere un bellissimo film nelle condizioni peggiori. Una storia italiana, fin troppo. Perché mentre Stefano faceva tanti miracoli, dal far diventare di massa una storia che aveva trovato l’attenzione mediatica solo grazie all’eroismo di Ilaria Cucchi, al far tornare il cinema al centro di tutto, mostrandoci un pubblico avido di storie difficili e impegnate, ci si dedicava al tafazzismo. Gli esercenti, per dire, hanno pensato bene, in gran parte, di boicottare il film. E giustamente il loro rappresentante, guarda un po’ quell’Andrea Occhipinti di Lucky Red che ha messo parecchio di suo per costruire il film e poi ha puntato su questa doppia distribuzione contemporanea, ha mollato. «Ho deciso di dimettermi perché la nostra scelta di distribuire Sulla mia pelle di Alessio Cremonini in contemporanea nelle sale e su Netflix ha creato molte tensioni tra gli esercenti che lo hanno programmato (pochi) e quelli che hanno scelto di non farlo ( molti). II successo del film ha aumentato queste tensioni. Nonostante esistessero dei precedenti in Italia e ci sia un acceso dibattito a livello internazionale, non voglio che una scelta puramente aziendale venga considerata come una posizione della sezione distributori dell’Anica, visto il mio ruolo. Per non creare ombre o imbarazzo ai miei colleghi, ritengo quindi opportuno lasciare la carica di Presidente». Una dichiarazione dura nella parte iniziale e solo apparentemente conciliante nella seconda che fa capire quanto sia lontano il mondo dell’industria cinematografica non solo dalle esigenze del pubblico (altrimenti quelle sale indegne le terrebbero meglio) ma addirittura dalla propria stessa convenienza. Senza Netflix, senza i pirati sociali, senza la fame di questa storia alimentata di ora in ora, non ci sarebbe stato questo clamoroso successo di pubblico (non economico, ed essendo il cinema anche un’industria, è un problema) e questa penetrazione nell’immaginario collettivo. Merito di Alessandro Borghi, che ha il talento cristallino dei migliori interpreti americani degli anni ’ 70 e una modernità di sguardo e recitazione straordinari, della scrittura limpida e tesa di Lisa Nur Sultan, della regia impietosa di Alessio Cremonini, di un Max Tortora sontuoso e di una Jasmine Trinca come sempre perfetta. Ma soprattutto di Stefano Cucchi. Che ha lasciato abbastanza semi per far germogliare una storia tragicamente vera, spudoratamente onesta, raccolta da chi non ne ha voluto fare un santo, pur essendo morto da martire. Questo non è solo un film. Stefano Cucchi siamo noi, per questo lo sentiamo tanto sulla nostra pelle. Stefano, e quindi Alessandro, è tutti noi che le abbiamo prese da chi avrebbe dovuto proteggerci, tutti voi che potreste ogni giorno inciampare in scale che non smettono di picchiarvi. Quest’omicidio di stato ci rimane tatuato addosso nella sua verità, nella disperazione di un ragazzo indifeso che sbaglia troppe scelte e muore perché non trova rami a cui aggrapparsi. Non smettiamo di andarlo a vedere. Sosteniamo il film, sosteniamo la famiglia Cucchi che rimane uno dei pochi motivi per essere fieri di essere italiani. Continuiamo a sentire questa ingiustizia, questa infamia sulla nostra pelle. Ogni giorno, ogni volta che avremo la tentazione di voltare lo sguardo dall’altra parte. Perché Stefano ha cominciato a morire per le botte di quei carabinieri, ma il colpo di grazia l’ha ricevuto dall’indifferenza complice di tutti coloro, con camici e divise e toghe, che non lo hanno aiutato e difeso. Solo facendo valere i suoi diritti. Abbiamo il dovere di non rimanere indifferenti. E di andare in sala, perché non si smetta di raccontare le storie che non vorremmo vedere. Ma dobbiamo.

E Grillo pubblica la lettera di Musumeci al Guardasigilli. Beppe Grillo ha pubblicato sul suo blog una lettera dell’ergastolano Carmelo Musumeci rivolta al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, scrive Damiano Aliprandi il 4 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Mentre il governo legastellato svuota il pilastro principale della riforma dell’ordinamento penitenziario che punta all’allargamento delle pene alternative, Beppe Grillo – il padre del Movimento Cinque Stelle – ha pubblicato sul suo blog, per la seconda volta, un contenuto critico al sistema carcerocentrico. Questa volta apre alla messa in discussione dell’ergastolo e dell’utilità del 41 bis. Lo fa pubblicando una lettera dell’ergastolano Carmelo Musumeci rivolta al ministro della giustizia Alfonso Bonafede. «Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail da Carmelo Musumeci, un ergastolano attualmente in semilibertà. Ha indirizzato la sua lettera al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e in copia a me. Voglio condividerla con voi perchè so che sarà sicuramente fonte di grande dibattito», così introduce la lettera dell’ergastolano. «Continuo comunque a lottare scrive Musumeci nella lettera contro la pena dell’ergastolo, perché io sono l’eccezione che con- ferma la regola e, purtroppo, stando così le cose, molti miei compagni usciranno solo cadaveri dalle loro celle». Per eccezione, Carmelo, intende che dopo più di un quarto di secolo di carcere duro, sono ormai 20 mesi che è sottoposto al regime di semilibertà, anche se il suo fine pena rimane, come per tutti gli ergastolani, il 31 dicembre 9999. Si rivolge al ministro chiedendo cosa ne pensa della pena dell’ergastolo. «Non crede – scrive l’ergastolano – che pretendere di migliorare una persona per poi farla marcire dentro sia una pura cattiveria? Anche perché in carcere se uno rimane cattivo soffre di meno». Sottolinea al ministro che una persona in carcere «dovrebbe perdere solo la libertà e non la dignità, la speranza, la salute, l’amore e, a volte, anche la vita». Musumeci spiega che «quasi sempre si finisce in questi posti per avere commesso dei reati, ma poi nella maggioranza dei casi si va, di fatto, in un luogo che nega la legalità e dove la legge infrange la sua stessa legge». L’ergastolano denuncia le condizioni del carcere che «in Italia sembra di stare in un cimitero, con molti detenuti nelle brande sotto le coperte a guardare i soffitti, imbottiti di psicofarmaci». Aggiunge che molti di loro «non sono ancora morti, anche se a volte ci comportiamo come se lo fossimo. Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti». E quelli che riescono a sopravvivere? Musumeci scrive nella lettera rivolta a Bonafede che «una volta fuori, saranno peggio di quando sono entrati». L’ergastolano insiste sull’inutilità delle carceri e di come incattiviscono le persone. Un pensiero che rispecchia esattamente quello di Grillo quando pubblicò l’articolo contro l’istituzione carceraria. Poi denuncia il carcere duro. «Cosa c’entra la sicurezza sociale con tutte le privazioni previste dal regime di tortura del 41 bis?», scrive sempre Musumeci. «Io credo che alla lunga – sottolinea l’ergastolano – il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi» . Parla della funzione rieducativa espressa dalla nostra Costituzione, che si oppone alla vendetta. «E la pena – scrive l’ergastolano non deve essere certa, ma ci dev’essere la certezza del recupero, per cui in carcere un condannato dovrebbe stare né un giorno in più, né uno in meno di quanto serva. Io aggiungo che ci dovrebbe stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato». L’intento di Musumeci è far venire qualche dubbio al ministro. Così come, pubblicando la lettera, vuole farlo venire anche Beppe Grillo.

Carmelo Musumeci scarcerato, era all’ergastolo ostativo. Per i giudici che gli hanno concesso la liberazione condizionale, Carmelo Musumeci è un'uomo “nuovo”, scrive il 17 Agosto 2018 "Il Dubbio". Con un provvedimento “storico”, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha concesso la liberazione condizionale a Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo per reati di criminalità organizzata e in carcere dall’ottobre del 1991. A dare notizia della scarcerazione è lo stesso Musumeci ieri sul suo profilo Facebook: ‘ L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita. Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perchè devo essere scarcerato’. Per i giudici che gli hanno concesso la liberazione condizionale, Carmelo Musumeci è un ‘ uomo nuovo’, com’è testimoniato anche dal fatto che persegue il suo ‘ riscatto dal passato impegnandosi quotidianamente ad assistere la disabilità’ in una casa famiglia. Nella decisione, il Tribunale della Sorveglianza di Perugia argomenta il provvedimento col quale viene concessa la liberazione condizionale a un ergastolano ostativo evidenziando pure "il percorso di grande crescita personale che ha portato Musumeci a leggere e studiare in carcere con granitica volontà, così da lasciarsi alle spalle la mera licenza elementare posseduta all’avvio della detenzione per fregiarsi di tre lauree". Musumeci, si legge ancora nel provvedimento, ‘ è inoltre divenuto scrittore e conferenziere, principalmente sulle tematiche dell’ergastolo ostativo e in tale veste collabora con studenti universitari delle facoltà giuridiche che a lui si rivolgono’. Maria Brucale, avvocato ed esponente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” spiega all’Agi la portata del provvedimento firmato dai giudici umbri: "Non mi risultano altre casi di liberazione condizionale concessi a ergastolani ostativi. Musumeci godeva già della semilibertà da due anni, dopo che i giudici avevano riconosciuto l'inesigibilità della collaborazione”. È una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio. Gli ergastolano ostativi, a differenza di quelli comuni, non hanno diritto a benefici penitenziari in assenza di una condotta collaborante con la giustizia, salvo i casi, rari, in cui venga riconosciuta l’inesigibilità della collaborazione. Musumeci durante il periodo di semilibertà lavorava di giorno in una casa famiglia di don Oreste Benzi e di notte faceva rientro in carcere. Ora, con la decisione dei giudici non dovrà invece far rientro dietro le sbarre, ovviamente rispettando le prescrizioni imposte. L’ex boss della Versilia, 63 anni, entrato in carcere con la licenza elementare ne esce con due lauree, una in Legge e l’altra in Sociologia. Tra le sue opere anche “L’urlo di un uomo ombra”. Nei giorni scorsi, ha scritto una lettera sul tema del carcere al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, pubblicata anche dal blog di Beppe Grillo. ‘ Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni – le parole di Musumeci – senza dirle quando finirà la sua pena. Lasciandola in questa situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e dopo un simile trattamento anche il peggior assassino si sentirà innocente’’.

Con il suo blog dalla prigione (i testi erano affidati a persone a lui vicine che provvedevano a pubblicarli in rete) e alcuni libri, uno scritto col costituzionalista Andrea Pugiotto, Musumeci è diventato la voce degli “uomini ombra”, cioè i reclusi la cui pena detentiva coincide con la durate della vita e una data che non lascia speranze: 31/12/99999.

Musumeci: «All’ergastolo il carcere da medicina diventa malattia», scrive Damiano Aliprandi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Mi sono sentito l’uomo più felice dell’universo il giorno che mi è arrivata la telefonata dal carcere di Perugia per dirmi che devo essere scarcerato». È Carmelo Musumeci a spiegare a Il Dubbio quei momenti inaspettati visto che aveva perso ogni speranza per ottenete la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. È riuscito a creare un ponte con l’esterno, ha scritto diversi libri con prefazioni autorevoli della comunità scientifica come Margherita Hack o Umberto Veronesi. Ha intrapreso dialoghi con Agnese, la figlia di Aldo Moro. È entrato con la licenza elementare ed è uscito con tre lauree. Ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Carmelo ha sempre rifiutato quest’ultima opzione. Ma perché? Nel 1990 fu vittima di un agguato teso dal clan rivale. Fu raggiunto da sei colpi di arma da fuoco, riuscì miracolosamente a salvarsi. Dopo essersi rimesso in sesto, assieme ad altri componenti della banda, organizzò la vendetta e la portò a compimento. Viene arrestato nel ‘ 91 e condannato all’ergastolo ostativo. Se solo avesse voluto, ne avrebbe fatti meno di anni. «Ma avrei messo un altro al mio posto e non me lo sarei mai perdonato», spiega Musumeci. Due anni fa aveva ottenuto la “collaborazione impossibile”: i reati per cui è stato arrestato, infatti, erano finiti in prescrizione. Fare i nomi non sarebbe comunque più servito. Così era riuscito ad ottenere la semilibertà. Oggi, finalmente, è in libertà condizionale grazie alla tenacia del suo avvocato Carlo Fiorio, un professore straordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Perugia che fu anche relatore della tesi di laurea di Musumeci proprio sull’ergastolo ostativo che non a caso era intitolata “la pena di morte viva”.

La scarcerazione è stata una notizia inaspettata?

«Il passo successivo alla semilibertà, ottenuta due anni fa, è l’ottenimento della libertà condizionale. Ho provato a fare l’istanza già due volte, e tutte e due è stata rinviata soprattutto per un ostacolo».

Quale?

«Il risarcimento. È uno dei requisiti per ottenere la liberazione anticipata. Per rimuovere quell’ostacolo ho dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che avevo ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ho subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Sì, lo so, è paradossale che da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ho fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che mi spettavano».

Ora lei vivrà in libertà, ma per cinque anni a determinate condizioni. Come si vede proiettato nel futuro?

«Sì, ovviamente in questi cinque anni dovrò firmare un giorno a settimana alla caserma dei carabinieri di Bevagna (comune della provincia di Perugia ndr.), non mi posso ovviamente allontanare dalla provincia, posso uscire al mattino alle 6 e rientrare alle 10. Non è una libertà piena, ma finalmente vivo fuori dal carcere e dimoro presso la comunità Papa Giovanni XIII di don Benzi. In questi cinque anni continuerò a fare il volontariato presso la comunità e lo faccio ben volentieri perché è un modo anche per rimediare al male causato facendo del bene. Finiti i cinque anni, l’ergastolo sarà estinto e in quel momento chiederò la riabilitazione per poi – è il mio sogno – aprire uno studio legale che si occupi dell’esecuzione penale. Il mio scopo è quello di continuare ad aiutare – questa volta fuori dalle mura – soprattutto gli ergastolani che sono dentro fin da quando erano giovanissimi».

Facciamo un enorme passo indietro. Lei è entrato in carcere nel ‘91. Come ha acquisito la coscienza che l’ha portata a intraprendere la battaglia contro l’ergastolo?

«Deve sapere che ero un delinquente anomalo. Fin da giovane ero un ribelle, simpatizzavo per la sinistra ed ero molto vicino agli ideali anarchici. Ma a causa di certe condizioni ambientali ero finito per fare il delinquente. Dal momento che mi hanno dato l’ergastolo è scattato un meccanismo mentale paradossale. “Finalmente posso essere me stesso perché non ho nulla da perdere visto che la società mi ha condannato ad essere colpevole per sempre”, mi dicevo. Da lì che è cominciata una mia crescita interiore. Ma essere se stessi, in carcere la paghi cara».

Perché?

«Se studi, ti arricchisci, cominci ad acquisire strumenti che ti permettono di riconoscere i propri diritti, ti scontri inevitabilmente con l’istituzione carceraria. Anche per questo motivo, per me, furono anni duri, difficili, venivo spesso punito perché facevo istanze, reclami, chiedevo ai parlamentari di entrare in carcere per fargli comprendere quello che accadeva, soprattutto all’Asinara. Ma mi sono dovuto scontrare anche con i miei compagni».

Quindi lei si scontrava anche con i detenuti?

«Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili. Deve sapere che a 15 anni mi sono fatto il primo carcere: il minorile di Marassi per una rapina in un ufficio postale. Noi stavamo al piano terra, i maggiorenni al primo piano. Uscii peggio di prima. A 16 anni rapinai una bisca clandestina con due amici. Poi ne sono diventato socio. E da lì è iniziata la mia carriera criminale. Ritornando al discorso del mio scontro contro tutti all’interno del carcere, erano momenti che mi ritrovai solo: sia contro la ferocia di quel tipo di Stato, sia contro quelli che rappresentavano “l’antistato”. L’atteggiamento dei boss mafiosi, paradossalmente, convenivano alla direzione del carcere. Quando venivano i parlamentari a far visita ispettiva, le uniche denunce arrivavano da me e pochi altri».

A proposito di solitudine, quando è nato il primo ponte con l’esterno, soprattutto per rendere visibili le sue battaglie contro l’ergastolo ostativo?

«I primi furono gli anarchici che dimostravano solidarietà fuori dal carcere di Spoleto o di Nuoro. Attraverso volantini e comunicati pubblicati tramite internet davano voce agli scioperi della fame degli ergastolani che organizzavo. Ero isolato da tutti e da tutto. Quindi gli devo molto. E poi pian piano sono riuscito a crearmi delle relazioni con altre personalità del mondo libero».

La svolta è stata il suo contatto con un’associazione cattolica.

«Sì, la comunità Papa Giovanni XIII di don Oreste Benzi. Parliamo del 2007 e tutto nacque con un incontro. Pensi che io ero – e lo sono tuttora – un ateo convinto e avevo dei pregiudizi nei confronti dei cattolici. Li consideravo dei “buoni” che andavano a messa e prendevano la comunione. Tutto lì. Era il periodo che provocatoriamente avevamo raccolto petizioni per chiedere di tramutare l’ergastolo ostativo in pena di morte. Quel giorno, al carcere di Spoleto, organizzammo un convegno e si presentò don Oreste Benzi. Lo sfidai ad appoggiare lo sciopero della fame promosso da ergastolani mafiosi. Io, che dei preti non mi fidavo, pensavo che avrebbe risposto di no, invece mi spiazzò perché, sorridendo, accettò immediatamente. Assieme a lui c’erano altri membri della comunità come Nadia Bizzotto, e don Benzi disse loro di appoggiarci e seguirci. Fu lì che si realizzò un grande ponte verso la società esterna e nello stesso tempo, per la prima volta, mi sentii davvero un “colpevole”. Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato».

Lei dice che l’ergastolo è inutile perché è “pena di morte viva”, però lei alla fine ce l’ha fatta a liberarsi.

«L’ergastolo non serve a nulla. Se non hai la speranza di uscire prima o poi, ti dimentichi di essere colpevole e ti ritieni una vittima. Il carcere all’inizio dovrebbe essere una medicina ma a lungo andare diventa una malattia. Io sono un caso eccezionale, ma che conferma la regola. Voglio dire agli ergastolani che sono entrati a 19 anni e sono invecchiati dentro quelle mura che devono lottare, non devono delegare, ma combattere in prima persona partendo dall’istruzione, la lettura dei libri, acquisire una coscienza e liberarsi anche da quell’idea che loro si sentono meno colpevoli di tanti altri detenuti che magari hanno commesso altre atrocità. Ci vuole un cambiamento culturale anche tra i detenuti, non solo dall’alto».

Durante tutti questi anni di prigione, ha mai pensato al suicidio?

«È inevitabile pensarci, soprattutto in quei momenti di sconforto, oppure quando sei in isolamento e ti tolgono tutto. Quando non vedi nessuna via di uscita, pensi di farla finita. Questa sofferenza aumenta ancora di più quando acquisisci una coscienza, ti istruisci, ti alimenti di cultura. In quel momento ti senti diverso dagli altri. Farsi la galera dopo aver acquisito una certa sensibilità, non solo soffri per te stesso, ma anche per gli altri. A volte reagivo io per loro e questo mi portava scontri con le direzioni delle carceri. Io ci ho pensato al suicidio e ricordo di averlo fatto capire alla mia compagna. Lei me lo vietò, perché mi fece capire che avrei fatto del male a lei e ai miei figli. Non sarebbe stato giusto».

In cella 7 anni dopo il reato: la prescrizione è davvero inutile? Il caso di uno chef e di una accusa controversa di violenza sessuale, con la condanna definitiva l’uomo ha perso tutto, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La certezza della pena: la storia di S. B. dovrebbe far riflettere tutti quelli che la invocano come panacea dei mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. S. B è uno chef che ha appena compiuto 50 anni. Nato a Venezia, fin da giovane ha avuto una grande passione per la cucina, e ha lavorato in molti ristoranti in Italia e all’estero. Trasferitosi a Parma agli inizi del 2000, decide di fare il grande passo e di mettersi in proprio aprendo un ristorante di pesce nella patria del prosciutto e del parmigiano. Il successo è immediato. Nonostante il locale sempre pieno, come tutti gli chef, anche S. B. dopo qualche tempo sente il bisogno di rimettersi in gioco e di tentare l’avventura altrove. Nella primavera del 2011 la scelta dunque di vendere il locale di Parma per aprirne uno alle Cinque Terre. La trattativa si rivela alquanto complicata. L’acquirente, una donna della città emiliana, tergiversa, tratta sul prezzo, allunga i tempi. S. B ha invece fretta, avendo già versato un importante acconto per il nuovo ristorante in Liguria. Quei soldi sono quindi indispensabili. Una sera di giugno di quell’anno, quando sembra che finalmente tutto si è sistemato, la donna ci ripensa e si presenta nel ristorante per comunicarglielo. La discussione è molto accesa. Volano parole grosse. S. B. alza anche le mani. La donna esce dal locale e corre subito dai carabinieri. «S. B. l’ha violentata», scrivono i militari, allegando il referto del pronto soccorso che parla di «abrasione ad un braccio». Passano solo pochi giorni e S. B. si ritrova nel carcere di massima sicurezza di Parma. «Tentata violenza sessuale», l’accusa riportata sull’ordine di custodia cautelare. Inutili i tentativi di difendersi. La parola della donna contro quella di S. B. E poi quel referto medico. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere, i domiciliari. Poi l’obbligo di dimora. Finché agli inizi del 2012 S. B. è completamente libero. Il progetto di trasferirsi alle Cinque Terre è rimasto nella testa di S. B. ed è difficile rimanere a Parma dopo quanto successo. Il sogno di avere un locale nel frattempo è sfumato e i soldi dell’anticipo definitivamente persi. Arriva l’estate e S. B. riparte dalla cucina di un ristorante vicino al porto di La Spezia come aiuto cuoco con un contratto a chiamata. Le indagini si chiudono nel 2014. Il processo inizia l’anno dopo. Arriva la condanna in primo ed in secondo grado: 4 anni e mezzo. Nel frattempo S. B. si è sposato, ha comprato casa con un mutuo, ed è tornato a fare lo chef in un importante ristorante delle Cinque Terre. Ma agli inizi di quest’estate la Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nonostante il “presofferto”, S. B. deve andare in carcere: i reati di violenza sessuale non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione. I carabinieri lo vengono a prendere all’alba della scorsa settimana. Secondo la legge deve effettuare un percorso di rieducazione, dietro le sbarre. Anche se S. B. il percorso di rieducazione in questi anni l’ha già fatto da solo: si è sposato, ha rifatto la gavetta fino a guadagnarsi un lavoro a tempo indeterminato (un miraggio di questi tempi), ha comprato casa. Ieri S. B. è stato licenziato: la moglie, a carico, sta cercando urgentemente lavoro. La richiesta alla banca di sospensione del mutuo verrà presentata oggi. Ultima nota. Il ristorante in cui S. B. lavorava è rimasto senza chef proprio nel periodo clou della stagione. La certezza della pena.

La Cassazione: «È innocente» Ma ha fatto 7 anni di carcere. Armando Chiaro per il pm era «uomo di camorra», scrive Simone De Meo, Lunedì 02/07/2018, su "Il Giornale". L'ex coordinatore flegreo del Pdl Armando Chiaro ha già scontato una pena a sei anni e mezzo di galera per un reato da cui è stato assolto due giorni fa. Carcere preventivo, carcere ingiusto nel suo caso. Accusato di essere l'uomo di collegamento tra la camorra di Marano - il potente clan Polverino, che ha ramificazioni in mezz'Europa - e la macchina comunale. C'erano i pentiti, c'erano le intercettazioni, c'era il teorema della Procura. Ma l'inchiesta è crollata in Cassazione, e la condanna - inflitta in primo grado e confermata, con un piccolo sconto di sei mesi sui sette anni iniziali, in Appello - è stata cancellata. Era l'epoca della caccia alle streghe nel centrodestra campano, il 2011. Con una compagine di pm e investigatori convinti che il Pdl vincesse e triturasse record elettorali nei feudi della sinistra per aver venduto l'anima al diavolo con lupara e coppola. Ipotesi, suggestioni in alcuni casi che, però, furono trasfuse in atti giudiziari. Come l'indagine che, il 3 maggio di quell'anno, portò alla cattura di 38 presunti fiancheggiatori della cosca di Peppe Polverino, soprannominato o barone per i modi aristocratici. Tra loro, tra estorsori, trafficanti di droga e faccendieri in odore di zolfo, anche Armando Chiaro, consigliere comunale uscente e coordinatore del Pdl per Marano e i Comuni vicini. Indicato nelle conversazioni spiate dalle forze dell'ordine col duplice soprannome di «onorevole» o «assessore Mesillo», dal nome di fantasia di un politico corrotto del film Il Camorrista di Giuseppe Tornatore. Ci sono voluti sette (anni che Chiaro ha trascorso tra carcere e domiciliari) per scoprire che è innocente. Durante il processo, furono trascritte e depositate addirittura le intercettazioni tra Chiaro e Luigi Cesaro, l'allora presidente della Provincia di Napoli. Di che cosa parlavano, i due esponenti del Pdl? Di politica, di accordi elettorali, di strategie e alleanze per vincere le elezioni amministrative. Di tutto quello che, normalmente, è argomento del giorno per un politico. Materiale «scottante», invece, per gli inquirenti che ritennero usarlo come ulteriore indizio per dimostrare la colpevolezza di un sistema, a loro dire, malato. Falso, tutto ribaltato dagli ermellini che, oltre ad assolvere Chiaro, hanno disposto il dissequestro dei beni e la cancellazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Pur detenuto, Chiaro risultò eletto alle comunali. Ottenne 385 preferenze, i suoi sostenitori e gli amici di sempre avevano tappezzato Marano di manifesti in sua difesa. Fu poi il prefetto a intervenire e a disporre la sostituzione in consiglio comunale. Quella dimostrazione di affetto, però, divenne prova del grado di condizionamento - che certo esiste - della criminalità organizzata a Marano. All'epoca, si segnalò per l'attivismo a favore di una politica tutta manette e gogna mediatica l'allora senatrice del Partito democratico Teresa Armato. Firmò due interrogazioni parlamentari e chiese l'intervento del ministro dell'Interno. Chissà che cosa dirà, oggi.

Assolta? Alla Corte dei conti non basta: «Restituisca 12 milioni di euro». Il caso nella procura di Torre annunziata: accusata di corruzione rinuncia alla prescrizione per ottenere giustizia, viene dichiarata innocente ma è costretta lo stesso a risarcire lo Stato, scrive Simona Musco l'1 luglio 2018 su "Il Dubbio". Quasi vent’anni di calvario giudiziario e un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Ma poi la beffa: nonostante non abbia commesso alcun delitto, Emilia Salomone, assistente giudiziario al Tribunale di Torre Annunziata per 40 anni, dovrà pagare circa 12 milioni di euro di danni erariali. Sette milioni di euro in solido con il “cancelliere d’oro” Domenico Vernola e 5 milioni e 700mila euro (in concorrenza) con l’allora procuratore Alfredo Ormanni. A stabilirlo è stata la Corte dei conti in sede d’appello, che nonostante l’assoluzione nel processo ordinario ha deciso che l’assistente giudiziario ha contribuito a far intascare a Vernola circa 30 miliardi di lire, sgraffignati allo Stato grazie ad una serie di falsi mandati di pagamento. «Per la Corte dei conti la mia non sarebbe un’assoluzione piena – racconta la donna al Dubbio –. Questo nonostante io sia un dipendente di sesto livello e non dovrei quindi nemmeno comparirci, davanti alla magistratura contabile. Era il dirigente a doverne rispondere». Quella storia, per la Procura campana, fu un vero e proprio terremoto. Tutto ruotava attorno alla figura di Vernola, che per anni avrebbe falsificato i mandati di pagamento, collezionandone dal 1995 al 2002 ben 176, con i quali si era fatto rimborsare, assieme ad alcuni agenti della polizia giudiziaria finiti con lui a processo, circa 16 milioni di euro, con il “visto” per liquidazione, appunto, dall’ex procuratore Ormanni. La colpa di Salomone era stata quella di aver registrato, con la propria firma, 103 ordinativi al cosiddetto modello 12. Senza dolo, secondo il Tribunale di Roma che l’ha assolta in appello, dopo che la donna aveva rinunciato alla prescrizione per dimostrare la propria innocenza. Con «una ripetitività e continuità tale da renderla quantomeno pienamente consapevole della assoluta anomalia di mandati intestati sempre a Vernola», invece, secondo la Corte dei conti, che nella sentenza 117 del 2017 parla di «dolosa acquiscenza (…) al sistema fraudolento ordito da Vernola». Si trattava di pagamenti effettuati in assenza di documentazione, per procedimenti penali inesistenti, missioni mai effettuate, anche durante periodi di ferie e congedi. Pagamenti ingiustificati e esorbitanti, anche da 7mila euro a missione. Anomalie delle quali Salomone si accorse, segnalandole al proprio superiore, che però la tranquillizzò. «Appena mi sono accorta che qualcosa non andava – spiega – per prima cosa ho riferito tutto al mio dirigente, che mi ha rassicurata, dicendo che erano spese coperte da segreto e, perciò, autointestate. Glielo dissi due volte e a dire la verità ero preoccupata, ma più per un fatto amministrativo: non ho mai pensato che Vernola stesse rubando». Nessun sospetto, infatti, aveva sfiorato Salomone: del cancelliere si fidava. «Era un tipo sui generis e molto disordinato nel suo lavoro, quindi attribuivo a questo le sue mancanze», spiega. Ma a creare il sospetto della Procura prima e della Corte dei conti poi è stato un prestito da parte di Vernola alla donna. «Io non gli ho mai chiesto quei soldi – racconta –, gli avevo soltanto chiesto di presentarmi il direttore della banca, perché sapevo che tra loro c’erano buoni rapporti». Quei soldi servivano per l’acquisto di una proprietà, acquisto per il quale Salomone avrebbe voluto accedere ad un prestito agevolato. Ma Vernola non ha mai presentato il direttore alla donna, proponendo un’altra soluzione. «Mi disse che sua sorella, vedova di un generale e senza figli, aveva molti soldi da parte e che lo avrebbe fatto con piacere, anche perché così avrebbe pagato meno tasse – racconta –. Facemmo anche una scrittura privata, dissero che non volevano niente in cambio. Mi dovevo solo limitare a restituire 5 milioni l’anno». Salomone e suo marito ricevettero 50 milioni a testa, tutti versati tramite assegni, dei quali restituirono 25 milioni, sempre a mezzo assegni. «Dopo il suo arresto, non avendo contatti con la sorella, mi sono fermata», aggiunge. Ma quel prestito, per la Corte dei conti, sarebbe stata la prova della partecipazione della Salomone a quel piano fraudolento messo in piedi da Vernola. «Io non ho mai falsificato nulla – sottolinea –. Mi limitavo ad annotare i pagamenti, in un registro che poi veniva controllato dalla Procura. Quella davanti alla Corte dei conti doveva essere una causa civile, invece mi sono sentita di nuovo giudicata. Hanno deciso di condannarmi, ma in realtà io non ho fatto niente. E vorrei si sapesse». I mandati di pagamento che Vernola intestava a se stesso, infatti, venivano controllati dall’ufficio postale passando, da ultimo, dalla Ragioneria dello Stato e dalla Corte dei conti. «Quindi chi mi condanna è chi, con più competenze di me, ha poi controllato quei mandati ritenendoli validi», aggiunge. Ma come detto la colpa di Salomone, secondo la Corte dei conti, sarebbe stata quella di non aver denunciato, dopo essersi accorta delle anomalie, continuando a registrare i mandati di pagamento. Per i giudici contabili ci sarebbe stato, dunque, un effettivo apporto causale. Se avesse segnalato il tutto, contestano, il danno erariale sarebbe stato infatti arginato e il tutto scoperto anni prima.

Quel prestito, dunque, per i giudici sarebbe stato il modo di Vernola di “comprarla”, nonostante tale evenienza sia stata esclusa dai giudici di merito. E nonostante sia stato lo stesso cancelliere a scagionarla, riferendo ai pm di aver tratto in inganno la donna. Salomone ha ora presentato una revocatoria, sperando che la situazione possa risolversi. «Spero che qualche magistrato mi ascolti – racconta ancora –. Quando arrivò la prima condanna per me fu una doccia fredda. Fui allontanata dal lavoro per più di tre anni, la gente mi guardava come una ladra. Ho rinunciato alla prescrizione perché volevo dimostrare a tutti di essere innocente. Altri non l’hanno fatto. E nonostante la sentenza di assoluzione sia passata in giudicato ad ottobre 2016, ho ricominciato a lavorare solo a settembre dell’anno successivo. I soldi che mi chiedono non li saprei nemmeno contare – conclude – ma dovrò pagare questa tassa a vita, pur non avendo fatto niente».

Benedetto, recluso a Rebibbia ma lui non sa neanche il perché. Si trova detenuto nel poliambulatorio di Rebibbia, condannato a quattro anni in contumacia, ha un problema cognitivo, scrive Damiano Aliprandi il 30 giugno 2018 su "Il Dubbio". «Ho visitato numerose carceri in tutti questi anni, ma non ho mai visto un caso del genere». Così denuncia a Il Dubbio Irene Testa, membro della presidenza del Partito Radicale, a proposito della visita al carcere di Rebibbia effettuata assieme a Maria Antonietta Farina Coscioni. Una visita particolare perché indirizzata ad una sezione specifica del carcere, il poliambulatorio. Un reparto, quello del G14, nel quale vi sono reclusi detenuti malati, disabili, anche con sofferenze psichiche evidenti. Tra loro c’è l’ex senatore Marcello Dell’Utri che è gravemente malato, così come tanti altri ristretti che potrebbero scontare una pena alternativa al carcere. Ma è anche emerso un caso di uno che non sa nemmeno perché si trova in carcere ed ha 4 anni da scontare. «A differenza degli altri detenuti che hanno sempre qualcosa da chiedere e segnalare – spiega Irene Testa –, non diceva nulla. I suoi compagni di cella hanno insistito perché ci parlassi». L’esponente radicale sottolinea che si era resa conto da sola che qualcosa non andava in lui, perché aveva lo sguardo assente. È un ragazzo e si chiama Benedetto. «Mi sono trovata davanti non un tossico – continua Irene Testa -, non un malato con problemi psichiatrici, non un delinquente, ma un ragazzo, orfano e senza altri familiari che si occupino di lui, che a seguito di un incidente occorsogli in giovane età ha un grave ritardo mentale con invalidità annessa». Ovviamente è tutto da verificare visto che non hanno potuto accedere alla sua documentazione, ma la storia che emerge, se confermata, ha dell’incredibile. Benedetto forse era stato raggirato, una firma a sua insaputa e denunciato per questo. Al processo non si sarebbe presentato, perché neanche sapeva dove si sarebbe dovuto recare. «Secondo il suo racconto – spiega l’esponente radicale Irene Testa – è stato quindi condannato a quattro anni in contumacia». Quindi senza che il giudice lo abbia visto. «Credo che se l’avesse visto -, il magistrato avrebbe capito che qualcosa in lui non andava, un evidente ritardo mentale e che quindi non sarebbe stato in grado di firmare coscientemente».

Benedetto è solo, non ha nessuno. La madre, unico familiare rimasto, sarebbe morta qualche anno fa. Sembrerebbe che sia stato difeso da un avvocato d’ufficio, ma che non avrebbe mai visto di persona. Una storia, ripetiamo se confermata, parla di un buco nero, la scomparsa del mondo esterno e lui, rinchiuso là dentro, in carcere, senza saperne il motivo e senza sapere che cosa gli aspetta. Irene Testa, che tra l’altro è candidata a Garante dei Detenuti della Regione Sardegna, ha denunciato questa storia prendendo spunto da un post su Facebook pubblicato dal grillino Alessandro Di Battista dove si legge che al primo posto vengono i diritti economici, prima ancora di quelli umani e civili. «Una vicenda come questa – denuncia l’esponente radicale – fa capire l’importanza dello Stato di Diritto e che i diritti in generale non diventino di serie A e di serie B». Ora del caso di Benedetto, anche per verificarne la veridicità della sua narrazione, se ne sta occupando il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa. Un intervento autorevole che servirà per attivare tutte le garanzie del caso. Può finire in prigione, 4 anni di carcere da scontare, una persona che probabilmente presenta dei problemi cognitivi?

Sabella: «Io, innocente, per la Corte dei conti resto il “boia del G8”». Intervista al magistrato condannato a un risarcimento milionario per i fatti di Genova, scrive Simona Musco il 27 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «Fa comodo mantenere una situazione in cui è vero tutto e il contrario di tutto. Su Genova non si conosce la verità. Sono note le responsabilità dei criminali della Diaz e di Bolzaneto, ma su chi ha fomentato quelle mani nessuno ha mai indagato». Il magistrato Alfonso Sabella, giudice del Riesame a Napoli, racconta quella parentesi del G8 come una ferita aperta. Che sanguina, perché da innocente, come stabilito dal tribunale che archiviò la sua posizione, si ritrova ora con «una condanna a morte», come lui stesso l’ha definita: per i giudici della Corte dei conti di Genova, Sabella, durante il G8 a capo del servizio ispettivo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, deve sborsare circa 3 milioni e mezzo di euro. A lui viene infatti addebitata una responsabilità «sussidiaria», per non aver vigilato sull’operato di chi compì quelle violenze. Per la procura della Corte dei conti, infatti, «vi erano molteplici elementi» di cui Sabella era a conoscenza, «che avrebbero imposto» maggiore controllo sul sito di Bolzaneto. Il magistrato, però, annuncia ricorso e denuncia: «Non mi hanno consentito di difendermi. Non chiedo di essere prosciolto, voglio solo poter essere giudicato secondo le regole in cui credo».

Lei dovrà risarcire parte del danno erariale per i soldi che lo Stato ha dovuto liquidare ai detenuti torturati a Bolzaneto. Quali responsabilità le attribuiscono?

«Una responsabilità sussidiaria praticamente su ogni cosa. Ma che c’entro io con i medici, con le visite, con i certificati falsi? Avrei dovuto fare tutto da solo, secondo i giudici. Ma io avevo ben altri compiti e quello di controllo sulle condotte delle forze di polizia era affidato al più alto in grado possibile. C’erano strutture dislocate su quattro regioni ed io sono stato fisicamente bloccato a Forte San Giuliano (sede del comando regionale ligure dei Carabinieri, ndr) il 20 e il 21 luglio, per via degli assalti. Lì, però, non è stato torto un capello a nessuno, mentre è dove non c’ero che sono state commesse quelle nefandezze.

La sua posizione, nel corso del processo penale, è stata archiviata perché non può ritenersi accertata la sua piena consapevolezza di quanto accadeva a Bolzaneto. Com’è possibile che la Corte dei conti ribalti questo assunto?

«Chiariamo un punto: la Corte dei conti ha diritto a processarmi, ma io ho diritto di difendermi. Però me l’hanno impedito. Affermano falsamente, e mi dispiace dirlo, che tutti i testi da me richiesti fossero finalizzati a dimostrare le mie presenze a Bolzaneto. Poi, però, dicono che tali presenze non sono provate. In realtà i miei testi – che non sono stati ammessi – avrebbero dovuto riferire su cose che erano responsabilità di altri. Ma è chiaro che c’è un interesse affinché non si sappia. Il risarcimento non è proporzionato alla mia presunta colpa, che non dicono quale sia. Nel primo invito a dedurre la richiesta era addirittura di 12 milioni. Secondo l’accusa, io avrei avuto responsabilità praticamente su tutte le forze di polizia. Ma io ero un funzionario della pubblica amministrazione. Era una tesi insostenibile, così alla fine il danno è stato quantificato in quattro milioni, da dividere tra me e il colonnello Oronzo Doria (all’epoca dei fatti colonnello del Corpo degli agenti di custodia, ndr). Ma la cosa allucinante è che sono stato condannato per responsabilità sussidiaria anche in merito alle lesioni. Se fossi davvero responsabile, allora avrebbero dovuto fare un processo penale per concorso colposo. Perchè non sono stato processato? Per non farmi difendere.

In un’intervista ha fatto trapelare propositi suicidari per non lasciare in eredità a sua figlia questo debito. Ci ha pensato sul serio?

«È stato solo un momento, un pensiero accantonato subito. Ma è chiaro che uno ci pensa, una volta che ti mettono davanti all’alternativa “o paghi o ti ammazzi”.

Torniamo alla vicenda penale. Lei ha chiesto di essere processato. Perché?

«Ho ricusato la remissione delle querele e sono l’unico nella storia d’Italia a essersi associato all’opposizione delle parti civili alla richiesta di archiviazione del pm. Volevo avere la possibilità di produrre documenti, controinterrogare. Ora, 17 anni dopo e senza aver mai subito il processo, mi condannano a morte. Eppure sono stato io il primo a fornire le prove per far emergere il clima di omertà che c’era a Bolzaneto e molti sono stati condannati perché non mi hanno riferito quanto accadeva. Non mi avrebbero mai fatto sapere quanto stava accadendo e questo lo scrivono anche il pm e il gip.

Nessuno si è accorto di nulla?

«Nemmeno il ministro (della Giustizia, Roberto Castelli, ndr) che visitò la caserma si accorse di niente. Non ci facevano vedere nulla. Lì erano tutti poliziotti, carabinieri e agenti penitenziari e tra questi nessuno ha avvisato i propri superiori. Quegli uomini dipendevano gerarchicamente dal procuratore. E nessuno dei pm ha pensato di andare a vedere come venissero gestiti gli arresti. Ho visto solo una cosa: dei ragazzi in piedi – ma in alcuni momenti anche seduti -, con il viso al muro e le mani appoggiate alle pareti. Chiesi spiegazioni e diedi disposizione di tenere gli arrestati in quella posizione solo per il tempo necessario a compiere le operazioni di perquisizione. Nonostante, dunque, io abbia segnalato quella anomalia mi accollano tutte le responsabilità, anche quelle degli altri.

Quali responsabilità ci sono?

«La prima violazione è stata non concedere alle persone arrestate di parlare con gli avvocati. E chi l’ha commessa? Il procuratore di Genova, con un provvedimento illegittimo in cui vietava i colloqui prima ancora che qualcuno venisse arrestato. Lo stesso magistrato che poi ha investigato su quei fatti. La magistratura di Genova ha precise responsabilità, se mi avessero processato magari sarebbero venute fuori. Forse si voleva evitare che io parlassi di fatti connessi a quella indagine, come il piano degli arresti preventivi, condiviso dalla magistratura. Io avevo messo nero su bianco quanto fosse sbagliato, avevo proposto l’alternativa di portare tutti al carcere di Marassi, che non sarebbe stato attaccabile. Ma quel piano c’era, quindi andavano tutti portati lontano da Genova. Poi, però, venne cambiato.

Secondo lei perché?

«Non mi accorsi che era stato modificato in corso d’opera. Forse lo scopo era proprio quello di aizzare gli animi. Forse non doveva essere Carlo Giuliani a morire, ma un membro della polizia. Posso immaginare chi lo volesse, ho fornito tutti gli elementi sul punto, ma non hanno indagato.

Secondo lei i fatti di Genova e la sua condanna davanti alla Corte dei conti sono legati?

«Non posso mettere in relazione le due cose, non ho elementi per dirlo. Tendo a non credere al complotto. Certo è che non capisco questo trattamento di sfavore. Sono stato l’unico, tra quelli che non sono stati condannati, a non aver fatto carriera, l’unico con l’avanzamento bloccato, l’unico a pagare realmente.

Perché?

«Il problema è che io sono un magistrato indipendente. Nel decreto di archiviazione vengono usate parole infamanti, definendo il mio comportamento «negligente», come se il G8 lo avessi organizzato io. Siccome non potevo impugnare l’archiviazione, feci un esposto al Csm.

Che fine fece?

«Andò perso. Come i tabulati telefonici dei miei cellulari. Chiesi al gip Lucia Vignale di acquisirli per accertare i miei movimenti in ogni istante, in modo da provare dove fossi. Si trattava di 1.500 telefonate in due giorni, praticamente una ogni 172 secondi. Ma acquisiti i tabulati, tutte le celle impegnate in uscita erano state cancellate. Dissero che non era possibile identificare la cella, perché ce n’erano diverse. Eppure capire quale fosse il ripetitore che agganciava Bolzaneto era un gioco da ragazzi e ancora oggi è verificabile. Quando mi accorsi che il Csm aveva perso il mio esposto, che conteneva anche una memoria dettagliata sui fatti di Genova e sulle omissioni dei colleghi, ho presentato un’istanza per sapere dove fossero finite quelle carte e ho scoperto che sono state archiviate ed espunte dal mio fasci- colo. Ma non solo: la stessa sera venne comunicato all’Ansa, falsamente, che mi ero candidato con An alle politiche e che avevo chiesto un’aspettativa. Così, per l’opinione pubblica, il “boia di Bolzaneto” era stato ricompensato con un candidatura.

Come sparirono quelle carte?

«Non me lo so spiegare. Voglio addebitare tutto questo alla mia sfortuna. Solo che mi sembra di essere un po’ troppo sfortunato. Sono fiducioso nell’autonomia dei giudici, ma devo prendere atto che il clima non è dei migliori. Mi auguro soltanto che la sezione d’appello mi dia la possibilità di avere un processo, portare prove e testimoni. Per me è importante potermi difendere. L’esito, poi, sia quel che sia: i magistrati sbagliano anche in perfetta buona fede. Il mio scoramento è dettato proprio da questo: ho sempre creduto nella giustizia e io, da magistrato, ho consentito anche ai peggiori criminali di difendersi. Ma se lo Stato ritiene di poter bypassare le proprie regole si mette allo stesso livello della criminalità organizzata.

Ci sono ancora verità nascoste sui fatti del G8?

«Su Genova non è stato detto tutto. Sono note solo le verità sui criminali della Diaz e di Bolzaneto. Ma su chi ha fomentato le loro mani indagini non ne sono state proprio fatte. Non interessa a nessuno. Al di là di chi ha subito i pestaggi, la vera parte offesa è la dignità di questo Paese, calpestata da questi comportamenti ignobili. E non a caso il reato di tortura, per anni, è rimasto congelato negli scranni del Parlamento.

Quali punti rimangono ancora oscuri?

«Che fine hanno fatto i verbali del comitato per l’ordine e la sicurezza? E le notizie dei servizi segreti? Perché i respingimenti alla frontiera, all’ultimo minuto, non sono stati fatti? Perché il personale esperto è stato messo solo nella zona rossa e fuori c’era gente magari con un solo anno di anzianità? Chi ha deciso tutto questo e perché? Ci sono tantissime domande. Io ho provato a dire quel poco che so, ma non sono stato ascoltato.

Cosa farà se il ricorso in appello dovesse andare male?

«Mi rivolgerò alla Corte europea. Non ho avuto nemmeno una contestazione chiara dei miei addebiti, perché viene cambiata ogni volta. Una volta mi ritengono responsabile per non essere andato a Bolzaneto, una volta per esserci andato troppo spesso, una volta per esserci andato e non essere entrato. Insomma, non si capisce cosa abbia fatto. Spero che i giudici europei mi ascoltino, perché in quella sede dirò cosa non ha fatto il nostro Paese per accertare la verità sui fatti del G8.

'Ndrangheta: Zambetti, sono vittima. Ex assessore, meritavo l'assoluzione. Crespi, sono innocente, scrive il 23 Maggio 2018 "La Gazzettadelmezzogiorno.it". "Sono una vittima e non sono un carnefice. Dovevo essere assolto perché non ho fatto nulla. Speravo di chiuderla qui, con il processo in appello". Sono le parole a caldo dell'ex assessore regionale Domenico Zambetti che, occhi lucidi per la rabbia, ha espresso il suo rammarico per la sentenza dei giudici di secondo grado che, comunque, gli hanno quasi dimezzato la pena inflitta dal Tribunale. Zambetti, accusato di aver comprato 4000 voti dalla 'ndrangheta per le regionali del 2010, oltre ad annunciare ricorso, ha notato che, vista la riduzione delle pene a lui e ad Ambrogio Crespi, fratello dell'ex sondaggista di Berlusconi, "qualcosa forse non ha funzionato in primo grado". Crespi ha invece affermato: "Credo ancora nella giustizia, sono innocente. Cercherò di riprendermela andando in Cassazione. Se la giustizia ha un suo corso, lo rispetto ma non lo condivido".

Solidarietà bipartisan per il regista Ambrogio Crespi alla vigilia della sentenza. Un processo tra dubbi e prove fragili. Un nuovo caso Enzo Tortora per alcuni giornali. Anche Marco Pannella si schierò per l'innocenza del regista, scrive Angelo Amante il 20/02/2018 su "Huffingtonpost.it". Il secondo capitolo della discussa vicenda giudiziaria del regista Ambrogio Crespi si concluderà domani, di fronte alla corte d'Appello di Milano. Un iter lungo quasi sei anni, che a Crespi, tirato in ballo da una serie di intercettazioni, è già costato duecento giorni di carcere e una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda risale alle elezioni regionali in Lombardia del 2010, le ultime vinte da Roberto Formigoni. Il tribunale ha ritenuto Crespi colpevole di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa di quella giunta, servendosi di conoscenze in ambienti criminali. Un nuovo caso Enzo Tortora, hanno scritto alcuni giornali, facendo un parallelo con il presentatore condannato per reati che non aveva commesso dopo un lungo calvario tra carceri e tribunali. Il processo è andato avanti tra dubbi sull'impianto accusatorio, a causa di prove fragili e ritrattazioni da parte degli intercettati. Dal mondo della politica è giunta una solidarietà bipartisan, che coinvolge esponenti del centrodestra, tra cui Mara Carfagna e Gianni Alemanno, e del centrosinistra, come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi. All'epoca dell'arresto, anche Pannella si schierò per l'innocenza del regista, autore di numerosi film e documentari, tra cui "Spes contra spem - Liberi dentro", presentato nel 2016 alla mostra del cinema di Venezia. La sentenza di primo grado è arrivata a febbraio dello scorso anno. Il pm aveva chiesto una condanna a sei anni. Ne sono arrivati dodici, nonostante Crespi, in aula, "abbia ricevuto le scuse del suo principale accusatore, Eugenio Costantino", dice l'avvocato Giuseppe Rossodivita. Costantino ha ammesso di aver soltanto finto di conoscere il regista nelle conversazioni intercettate dagli inquirenti. L'obiettivo era accreditarsi agli occhi del gruppo criminale di cui faceva parte, millantando contatti di alto livello. "Costantino le sparava a tutto spiano. Non mi spiego perché Ambrogio sia stato condannato al massimo della pena. È stato trattato alla stregua di un associato all'organizzazione". Dopo essere stato arrestato a Roma nell'ottobre del 2012, il regista ha trascorso quasi sette mesi tra Regina Coeli e Opera, due dei quali in isolamento. Per l'accusa, avrebbe contributo a un sistema che provvedeva a raccattare voti in cambio di soldi. Denaro che andava a finire nelle tasche dell'organizzazione, che si serviva di una rete di "controllori" per indirizzare i consensi di interi condomini sul candidato preferito. Zambetti avrebbe pagato circa 200 mila euro per 4 mila voti. 2.500 di questi, stando alle intercettazioni, sarebbero stati procurati da Crespi. Il regista nega di conoscere sia Costantino, che avrebbe incontrato per la prima volta in carcere, che Zambetti. Crespi è stato scarcerato ad aprile 2013. Il gip Alessandro Santangelo escludeva non soltanto ogni collegamento abituale tra l'imputato e la criminalità organizzata, ma dava per scontata la sua volontà di difendersi. A Crespi fu infatti offerta da Francesco Storace una candidatura in parlamento. In caso di elezione, l'immunità penale garantita agli onorevoli lo avrebbe messo parzialmente al riparo dall'azione della magistratura. Ma preferì rifiutare e andare avanti nell'iter giudiziario. Crespi parla in un'intercettazione telefonica con Alessandro Gugliotta. Sospettato di avere legami con la 'ndrangheta, Gugliotta ha conosciuto Crespi durante l'infanzia trascorsa nelle case popolari del quartiere Baggio, periferia Ovest di Milano: "Agli occhi di Ambrogio, era soltanto una persona che viveva di piccoli espedienti. Un giorno si sono rincontrati, e Gugliotta gli si è attaccato dietro", dice ancora Rossodivita. Nella telefonata, Gugliotta chiede a Crespi di dare una mano a sostenere Sara Giudice, una candidata al consiglio comunale di Milano nel 2011. Richieste che Crespi liquidò evasivamente, senza offrire nulla più che una possibile intervista sul quotidiano che allora dirigeva. O al massimo un sondaggio, confezionato dal fratello Luigi. Crespi è accusato di aver presentato Gugliotta a Giuseppe D'Agostino, altro uomo dei clan. «Ma non è vero. Si tratta di una ricostruzione già smentita nel corso del processo di primo grado», afferma il legale. Secondo la difesa, organizzata da Rossodivita assieme al collega Marcello Elia, la tesi dei condomini "orientati" non regge. Spiega ancora l'avvocato: "Tutti gli abitanti di un condominio votano nella stessa sezione elettorale. Se ci fossero stati 10 o 12 condomini gestiti da malavitosi, questo avrebbe dovuto produrre picchi di preferenze concentrati in alcune zone della città". Non è così, sostengono gli avvocati. "Il massimo ottenuto da Zambetti in una singola sezione sono 38 preferenze. In qualche altra, si oscilla tra le 15 e le 20", aggiunge il legale. Sarebbe anche esagerato, aggiungono i difensori, credere che Crespi abbia il potere di muovere 2500 voti. Nel 2006, il regista si candidò a sindaco di Milano. A sceglierlo furono 1086 elettori. Meno della metà di quelli che, per merito suo, avrebbero barrato il nome di Zambetti.

Se 11 assoluzioni vi sembran poche…, scrive Simona Musco il 25 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  L’odissea giudiziaria di un dipendente comunale. Undici processi, tutti archiviati o finiti con un’assoluzione con formula piena. «Sei anni di calvario», dice l’avvocato Paolo Frank raccontando la storia del suo cliente. Ilvo Calzia, ex dirigente del settore Urbanistica del Comune di Imperia, è per tutti un recordman: indagato, processato e assolto ogni volta, ma comunque sospeso dal lavoro, con lo stipendio ridotto all’osso per circa tre anni, nonostante la legge Severino richieda almeno una condanna per giustificare una sospensione. Tutto comincia nel 2012, con l’indagine sul porto turistico d’Imperia, che coinvolge anche l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone e l’ex ministro Claudio Scajola. «Durante la fase delle indagini – spiega l’avvocato Frank Calzia è stato più volte sentito a sommarie informazioni dalla Procura e dalla polizia giudiziaria perché considerato una persona attendibile e onesta e anche perché si tratta di un tecnico, un architetto competentissimo, che conosce perfettamente le norme». Non viene sentito dunque in qualità di indagato, ma solo come persona informata sui fatti. Una situazione che però, ad un certo punto, cambia completamente: «quando il pm ha tirato le fila delle indagini ha chiesto la misura cautelare per concorso in associazione a delinquere anche per Calzia», spiega l’avvocato. Una richiesta che non convince il gip, secondo cui può essere contestato, al limite, l’abuso d’ufficio. Viene così chiesta soltanto l’interdizione per due mesi. «Durante l’interrogatorio – racconta il legale, Calzia ha spiegato in maniera dettagliata la sua posizione e così, passati i due mesi, la misura interdittiva ha perso efficacia». Il dirigente torna dunque a lavoro, convinto che tutto torni come prima. Ma il Comune decide di chiudergli le porte in faccia con una nuova sospensione cautelare. Motivo: «volevano attendere l’esito dell’udienza preliminare». L’udienza preliminare si rivela ulteriormente deleteria: Calzia viene rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e per un presunto falso omissivo relativo a una dichiarazione fatta su una variante al piano regolatore. E mentre attende la fine del processo, rimane forzatamente a casa. «La Severino – spiega il suo avvocato – prevede la sospensione solo dopo una condanna, non basta un rinvio a giudizio. Ma nonostante questo, Calzia è stato sospeso con lo stipendio al 30 percento». Una situazione che dura per due anni e mezzo, fino alla fine del primo grado di giudizio, celebrato a Torino, «perché ad Imperia non sono stati trovati tre giudici in grado di farlo», sottolinea Frank. Il pro- cesso si chiude con un’assoluzione con formula piena, impugnata dal pm per quanto riguarda l’accusa di falso e poi confermata anche in appello. Ma nonostante ciò i problemi sul posto di lavoro non sono terminati: «una volta assolto in primo grado – spiega il legale -, Calzia si è presentato con la sentenza in mano chiedendo il reintegro. Prima di farlo, però, ci hanno pensato un po’, facendo consulti e prendendo tempo». Risultato: viene sì reintegrato, ma in un ufficio diverso. Prima finisce al Patrimonio, con un settore creato appositamente il giorno prima e privo, dunque, di mansioni da svolgere, e poi al settore Ecologia, dove lo stipendio è più basso e per il quale, comunque, Calzia non ha la preparazione adatta. Ma non sembra bastare: per il dirigente arriva infatti una nuova sospensione cautelare. «Quando era al minimo di stipendio e non lavorava ha fatto un po’ di attività privata – evidenzia Frank -. Ma secondo il Comune non avrebbe potuto farlo, sulla base di un regolamento interno. Quindi è stata sospeso per altri due mesi, come se la sentenza di assoluzione per loro non fosse valida». Un calvario condito da una trafila di indagini nate una dopo l’altra dopo quella sul porto, tutte chiuse con archiviazione o assoluzione. «La Procura di Imperia ha setacciato tutta la sua vita privata, sia come dirigente pubblico sia come professionista privato e su nove processi siamo andati a giudizio solo in tre casi, finiti tutti con un’assoluzione con formula piena», spiega Frank. Processi nati da «consulenze fatte male», dimostrate inattendibili e «pagate con soldi pubblici». Un particolare che si legge anche nelle motivazioni dell’ultima assoluzione, relativa ad un presunto abuso d’ufficio per l’autorizzazione di un complesso edilizio vicino al mare, per il quale, secondo la Procura, sarebbe stata necessaria una autorizzazione doganale. «La normativa non prevede che venga chiesta oltre i 30 metri rispetto alla linea demaniale – spiega il difensore -, ma il consulente si era rifatto a vecchie cartine catastali, tanto che la reale distanza non era inferiore a 30 metri, come contestato dall’accusa, ma addirittura sopra i 150 metri». Un punto evidenziato anche dai giudici: il consulente, si legge in sentenza, «ha dichiarato di non essere a conoscenza dell’approvazione del piano regolatore del porto di Imperia: all’evidenza, egli non lo ha, dunque, valutato nel proprio elaborato». Una svista non da poco, essendo costata a Calvia l’ennesimo processo e l’ennesima gogna. Il dirigente ha ora fatto causa al Comune, per vedersi risarcito il danno subito e ingigantito dal clima forcaiolo nato a seguito dell’indagine sul porto. «È stato un capro espiatorio», contesta ora la famiglia. Che chiede giustizia.

In libreria: INNOCENTI. Il nuovo libro di Alberto Matano, scrive l'1 aprile 2018 "Da Sapere". “L’errore umano esiste in ogni campo, ma dobbiamo ricordarcelo, prima di puntare il dito su chiunque venga anche solo indagato, figuriamoci se viene arrestato. Potrebbe capitare anche a noi. La realtà è complessa, il sistema giudiziario affaticato, la giustizia, parola meravigliosa, a volte sembra un’utopia. Non per questo dobbiamo smettere di crederci e di pretenderla”.

Dalla Prefazione di Daria Bignardi. Gridare la propria innocenza e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con un marchio indelebile. È l’incubo che ciascuno di noi potrebbe trovarsi a vivere, con le foto segnaletiche, le impronte digitali, i processi, gli sguardi della gente e i titoli sui giornali, l’esperienza atroce del carcere tra pericoli e privazioni. Un inferno, e in mezzo a tutto questo sei innocente. È una ferita che rimane aperta, anche a distanza di anni, nonostante le assoluzioni e – non sempre – le compensazioni economiche. Lo sanno e lo raccontano i protagonisti di questo libro, presunti colpevoli, riconosciuti innocenti. Maria Andò, accusata di una rapina e di un tentato omicidio avvenuti in una città in cui non è mai stata. Giuseppe Gulotta, la cui odissea di processi e detenzioni in seguito a un clamoroso errore giudiziario dura quarant’anni, di cui ventidue in carcere. Diego Olivieri, onesto commerciante che finisce in carcere per una storia di droga, per colpa di un’intercettazione male interpretata. E gli altri protagonisti di queste pagine, che raccontano le loro esperienze e i loro incontri, i loro traumi e la loro ostinata volontà di rinascita. Alberto Matano costruisce in questo libro una narrazione intensa e cruda, in cui ogni singola vicenda è un capitolo avvincente di una storia più grande, quella dell’ordinaria ingiustizia che accade accanto a ognuno di noi, senza che la vediamo. Un invito a esercitare la nostra attenzione e la nostra umanità, ogni giorno. “Quando finisci in carcere e dici di essere innocente non ti crede nessuno, lì sono tutti innocenti”. Immaginatevi, soltanto per qualche secondo, di trovarvi in questa situazione, di finire dietro le sbarre, senza neanche capire perché, e con la consapevolezza di non aver fatto nulla. Gridare la propria innocenza, e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con quel marchio indelebile, anche a distanza di anni quando tutto è finito, quando la giustizia, che ha sbagliato, alla fine è giusta. È l’incubo che ciascuno di noi può trovarsi a vivere e di cui sappiamo spesso troppo poco.

Alberto Matano, giornalista, conduttore del Tg1 delle 20, dal 2017 è autore e conduttore della trasmissione di Rai3 “Sono Innocente”, giunta alla sua seconda edizione.

L’8 aprile torna, su Rai3, “Sono Innocente”. Alberto Matano racconta le novità della nuova edizione, scrive il 31.03. 2018 Renato Franco su Il Corriere della Sera. L’impersonalità della legge e la fallibilità dell’uomo, la giustizia che diventa ingiusta, persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo. È in questo perimetro narrativo in cui si muove «Sono innocente», il programma condotto da Alberto Matano che torna da domenica 8 aprile in prima serata su Rai3. «Raccontiamo storie di gente come noi, persone comuni, che all’improvviso si ritrovano in una prospettiva di vita ribaltata — spiega il giornalista —. Persone che senza sapere bene perché finiscono ingiustamente in carcere». In questa nuova stagione il racconto si dividerà in tre momenti, con tre storie differenti tra loro: le vicende di persone comuni; quelle di persone famose; quelle a tinte più oscure che trattano di pedofilia, satanismo e omicidi efferati. Cosa c’è alla radice di questi clamorosi errori giudiziari? «Indagini frettolose e fatte male, la necessità di trovare un colpevole, in molti casi uno scambio di persona, spesso il pregiudizio: sulla famiglia di origine, sulle frequentazioni, sul luogo dove si vive, come è successo a due ragazzi — uno di Scampia e l’altro di Casal di Principe — che sono stati accusati e condannati per il solo motivo di abitare nel luogo sbagliato. L’errore è umano, ma quando si può influire così tanto sulla vita delle persone, un supplemento di responsabilità e rigore è necessario». Sulla storia più dura Matano non ha dubbi: «La vicenda di Aldo Scardella, lo studente universitario di Cagliari, ingiustamente accusato di omicidio e morto suicida in carcere». «Sono innocente» rievoca anche quei casi di ingiustizia di rilevanza nazionale che hanno segnato il vissuto collettivo: da Enzo Tortora, con la presenza in studio della figlia Gaia, al delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba. Anche lo chef Filippo La Mantia finì in carcere negli anni 80 per un delitto di mafia: «All’epoca faceva il fotoreporter a Palermo e fu accusato di favoreggiamento nell’ambito delle indagini sull’omicidio Cassarà. La Mantia racconta che nelle cucine del carcere sviluppò quell’attenzione al gusto che è poi è diventata la passione della sua vita». Il risarcimento però è una magra consolazione. Chi baratterebbe 22 anni di carcere con 6 milioni di euro quando esci a 60 anni? «Tutti gli innocenti ingiustamente condannati dicono la stessa cosa, nessun risarcimento ti darà indietro quello che hai vissuto, quello che hai provato, quello che hai perso». Anche la riabilitazione sociale non ha lo stesso impatto che hanno avuto le condanne sulla vita delle persone: «Quando la giustizia rimette le cose a posto, l’eco è decisamente minore rispetto al clamore precedente. Vito Gamberale, il dirigente pubblico arrestato con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, mostrerà la rassegna stampa che lo riguarda: centinaia di pagine sulla sua condanna, appena tre fogli sull’assoluzione con formula piena».

Vite distrutte dalla (mala) giustizia. Troppi innocenti all’angolo. Arresti mai commessi, accuse inesistenti, risarcimenti dopo 30 anni per negligenze di giudici e avvocati: già oltre 7mila segnalazioni all’Associazione che li segue, scrive Paola D’Amico il 15 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Stordite, incapaci di reagire, risucchiate in un labirinto senza uscita. Così le vittime di malagiustizia raccontano di essersi sentite il giorno in cui si sono trovate coinvolte in una vicenda giudiziaria di cui erano totalmente all’oscuro. Chi ha dovuto affrontare un giudice fallimentare senza sapere perché, chi è stato portato in carcere per reati mai commessi, chi s’è trovato il decreto di sequestro preventivo sulla casa. Choc destinato a perpetuarsi nel tempo: riavere la fedina penale immacolata può richiedere decenni. Mentre la vittima invischiata in un’oscura vicenda giudiziaria viene trascinata in basso, i risarcimenti (spesso) restano un miraggio. Infine, può suonare come una beffa il fatto che, quand’anche una Corte avrà dettato l’agognata formula («assolto perché il fatto non sussiste»), non ci sarà tribunale disposto a portare sul banco degli imputati l’autore/autori dell’errore.

Tunnel senza uscita. Questa è la storia di Michele Tedesco, imprenditore di Bari assolto con formula piena nove anni dopo l’arresto per traffico internazionale di stupefacenti: nove anni che gli hanno distrutto la vita. Che dire, poi, della vicenda del piccolo Angelo, morto a 3 anni, investito da un pirata della strada: era il maggio 1984. Il risarcimento ai genitori è arrivato 33 anni dopo. E ancora Luca, bollato come delinquente abituale per uno scambio di persona: gli fu vietato di far ritorno nella frazione di Frosinone dove lavorava. Fu riabilitato dopo un’istanza al Ministero dell’Interno. La direzione centrale della Polizia Criminale cancellò i dati erronei. Ma lui ne fu informato solo due anni dopo. Chi entra in questa spirale - spiega Mario Caizzone, che ha fondato nel 2012 l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm)- viene triturato dal sistema». Ne è testimone diretto. Nel ‘92, nel clima rovente di Mani Pulite, fu arrestato per colpe non sue: «Sono trascorsi 22 anni per poter riavere la fedina penale immacolata». Per dieci non ha potuto svolgere l’attività di commercialista: «Mi ha salvato la mia famiglia. Ho sempre detto che se ne uscivo vivo - aggiunge - avrei fatto qualcosa per gli altri. Ero benestante, sono finito sul lastrico». Le vittime, dice, sono i «nuovi poveri». Come loro, «all’epoca fui sopraffatto dal panico, incapace di reagire». Nell’ufficio milanese che s’affaccia sulla Stazione Centrale, in piazza Luigi di Savoia 22, ogni giorno s’alternano 4/5 volontari: Valentina, Carlo, Nicola e Tea, che ricorda il caso di un’anziana «alla quale l’amministratore di sostegno sottrasse 40 mila euro». Molti sono laureandi in giurisprudenza o esperti di marketing e comunicazione. Alle spalle hanno un pool di consulenti. Il supporto alle «vittime» di malagiustizia è totalmente gratuito. Il telefono squilla con insistenza. È una donna: «Non so cosa devo fare», dice. Da due mesi scrive all’avvocato di fiducia per sapere com’è finita la transazione con l’ex socio. L’udienza in tribunale è imminente. «Chieda al giudice un rinvio, intanto prendiamo in mano il caso», risponde Caizzone, che precisa: «Non rappresentiamo in giudizio queste persone ma le aiutiamo a sbrogliare la matassa, le facciamo uscire dall’angolo».

Segnalazioni. In sei anni Aivm ha raccolto la segnalazioni di 7 mila persone. Uomini, donne, giovanissimi e pensionati, oltre la metà nei guai con la giustizia penale, altri a causa di banali querelle familiari divenute per incanto tragedie apocalittiche. «Non di rado a monte di tutto c’è la negligenza di un avvocato - aggiunge Caizzone - che perde la causa, perché non fa le giuste contestazioni o non presenta il ricorso nei tempi corretti». L’associazione, su invito della Commissione Giustizia della Camera ha proposto la revisione della carcerazione preventiva: «Non ha senso, distrugge la persona». Ha poi chiesto «la creazione di un intergruppo parlamentare per ridiscutere il gratuito patrocinio a spese dello Stato». Attualmente, per come è strutturato, «non dà garanzia. Chi controlla l’operato dell’avvocato d’ufficio?». Infine, Aivm sottolinea un aspetto cruciale: «I nomi degli imputati non devono essere divulgati fino all’udienza preliminare o al rinvio a giudizio, per dare la possibilità agli imputati stessi di difendersi». Il tema al centro è, innanzi tutto, la professionalità di avvocati e magistrati. «La giustizia arranca». Serve una sorta di «tribunale del malato, una Corte di giustizia - conclude Caizzone - che, oltre a dare supporto a chi si sente abbandonato, possa entrare nel merito del loro operato».

Dentro il call center che ascolta le vittime della malagiustizia. Innocenti in carcere e sentenze scandalose. L'Aivm ha raccolto un dossier con 5mila casi, scrive Nino Materi, Lunedì 09/04/2018, su "Il Giornale". C'è chi giura di aver visto l'ombra di Marco Rivasi entrare nel portone in piazza Luigi di Savoia 22, a Milano, proprio difronte alla stazione Centrale. Qui, al quarto piano, c'è la sede dell'Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm). Marco Rivasi non esiste in carne ed ossa; lui è solo il personaggio letterario protagonista di Malanni di stagione (Cairo Editore): riflessivo romanzo fresco di stampa del giornalista Rai, Oreste Lo Pomo, imperniato appunto su un caso di malagiustizia. Vicenda immaginaria, ma con trama terribilmente verosimile. Marco Rivasi viene arrestato dopo che un imprenditore ha ammesso di aver corrotto politici e funzionari per ottenere le autorizzazioni necessarie alla propria azienda. «È solo un equivoco e presto verrà chiarito», ripete Davide, l'amico che fa il cronista di giudiziaria. Ad affiorare è invece il nervo scoperto di un sistema malato, capace di infettare chi si ritrova con corpo e anima maciullati nel tritacarne dei tribunali. Un'esperienza dolorosa che Mario Caizzone, presidente dell'Aivm, conosce bene per averla patita direttamente. Caizzone infatti - a differenza del Mario Rivasi uscito dalla penna di Lo Pomo - della malagiustizia è stato una vittima reale, e proprio da questa sventura nel 2011 nacque l'idea di fondare l'Aivm. In sei anni di attività l'associazione ha seguito circa 5 mila casi di persone che si sono trovati a combattere contro il moloc di una scritta falsamente rassicurante: «La Legge è uguale per tutti». «La legge non è uguale per tutti, ma - ciò che è più grave - la legge non sempre è giusta - dice Caizzone, portandoci in una stanza dove due studentesse di Giurisprudenza si dividono tra computer e telefono -. Il nostro è un osservatorio e un centro di ascolto unico nel suo genere. In Italia non c'è nulla di simile, perché non interessa a nessuno aiutare gratuitamente chi si perde nei labirinti dei codici o delle aule giudiziarie». E questo in un Paese considerato la culla del diritto. Un diritto che spesso rischia di essere inghiottito nelle sabbie mobili dei tempi lunghi, dimenticando che - come ripeteva Indro Montanelli - una giustizia che arriva dopo anni di attesa è sempre una giustizia negata, anche (e soprattutto) in caso di assoluzione. In galera, da innocenti; vite distrutte, da innocenti; esistenze segnate, da innocenti. In questa sorta di «call center della malagiustizia» che è l'Aivm, di storie simili ne passano decine ogni settimana. «Un'esperienza umana e professionale coinvolgente che vale più di tante lezioni universitarie», ci dicono le «giuriste» volontarie dell'Associazione. «Voi giornalisti non avete il coraggio di raccontare certe vicende - ci sfida Caizzone -. Come quella di un avvocato che, pur sapendo che i termini per il ricorso in Cassazione erano scaduti, lo ha presentato ugualmente e - cosa ancor più grave - si è fatto pagare la parcella: denaro, tra l'altro, incassato senza rilasciare alcuna fattura. Il suo cliente lo ha denunciato, ma non è riuscito a trovare nessun avvocato disposto a difenderlo. E sa il motivo? Perché il legale denunciato è il presidente dell'Ordine degli avvocati della sua regione. Abbiamo segnalato il caso in procura, ma il risultato è che abbiamo trovato in foto quello stesso avvocato insieme con il magistrato che avrebbe dovuto dare corso alla nostra denuncia». Sul sito dell'Aivm scorrono le vicende di Luca, «cui è stato vietato di far ritorno nel suo paese, per reati che non ha mai commesso»; di Michele che «è rimasto vittima di un errore giudiziario che gli ha stravolto la vita»; di Giuseppe «titolare di un'attività di alimentari truffato dal suo legale di fiducia». Odissee che ricordano i drammi trattati da Sono innocente la trasmissione di Rai3 di Alberto Matano che, proprio da quel programma, ha ora tratto un libro: «Non sarebbe male se i soldi guadagnati col libro fossero destinati alla nostra associazione - scherza Caizzone -. Nella sua trasmissione Matano ha trattato un caso seguito dall'Aivm, ma la parte in cui il protagonista ci ringraziava non l'ha mandata in onda. Inoltre perché Matano non cita mai i nomi dei giudici? Cosa fa, in concreto, Matano per le vittime del sistema giudiziario? Pubblicizzare in tv le loro storie può rivelarsi più dannoso che utile, riaprendo vecchie ferite». Sarà d'accordo anche Marco Rivasi?

Sono Innocente: Alberto Matano torna su Rai3 con nuovi casi di «giustizia ingiusta», scrive domenica 8 aprile 2018 Marco Leardi su "Davide Maggio".  Se, da una parte, i nuovi programmi di Rai3 faticano a decollare negli ascolti (Cyranosta addirittura cadendo in picchiata), dall’altra il canale diretto da Stefano Coletta può contare su un ritorno che, in tal senso, fa almeno nutrire qualche speranza. Ci riferiamo al debutto della seconda edizione di Sono Innocente, il programma condotto da Alberto Matano e dedicato ai casi di “giustizia ingiusta”. La trasmissione ripartirà stasera in prime time con un ciclo di sei nuove puntate. Al centro del racconto, guidato dall’anchorman del Tg1 approdato a Rai3 sotto la direzione di Daria Bignardi, ci saranno ancora storie di errori giudiziari, di innocenti condannati ingiustamente, detenuti, poi scarcerati e risarciti dallo Stato. Veri e propri drammi consumatisi nelle aule di tribunale, ma anche vicende di riscatto presentate attraverso la voce dei loro protagonisti e delle persone che le hanno condivise. Le testimonianze saranno supportate da dettagliate ricostruzioni. In questa nuova stagione, il racconto si dividerà in tre momenti distinti, con tre storie differenti tra loro, ma con lo stesso denominatore: la “giustizia ingiusta”. La prima puntata si aprirà con la storia di Elaine Silva, una ballerina di origini brasiliane giunta in Italia all’età di 23 anni per lavorare come barista e animatrice nei parchi acquatici della riviera romagnola. La sua vita cambia quando viene arrestata per traffico di droga. Nell’appartamento che condivide con un’amica, una sera, a sua insaputa, si ferma a dormire uno spacciatore internazionale. Il giorno successivo si trova coinvolta in una retata effettuata all’interno dell’abitazione. Elaine viene così portata via e rinchiusa in carcere. Passeranno 9 mesi prima che possa essere riconosciuta innocente. Il secondo caso è considerato l’errore giudiziario più clamoroso dei nostri tempi. La notte del 17 giugno del 1983 avviene il blitz anticamorra più spettacolare della storia. Vengono arrestati camorristi, assassini, ergastolani e spacciatori. Fra di loro spicca però un uomo insospettabile: Enzo Tortora. L’accusa è di partecipazione alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Sono dei pentiti ad accusarlo di essere un affiliato alla NCO, nonché un trafficante di droga. Il carcere, l’umiliazione delle manette, la gogna mediatica. Per diversi mesi Enzo Tortora è il mostro da sbattere in prima pagina. Dopo sette mesi in prigione, gli vengono concessi gli arresti domiciliari; si candida alle elezioni europee con i radicali per poter portare il suo caso in Europa. E’ il giugno del 1984 quando viene eletto, pochi mesi prima della condanna in I° grado: 10 anni per spaccio di droga. In appello, dopo una potente arringa di 20 minuti contro i suoi accusatori, viene assolto. Muore nel 1988 dopo una lunga malattia. Alberto Matano ne parlerà in studio con la figlia Gaia Tortora. Lorena Morselli, protagonista dell’ultima vicenda, è stata accusata del crimine peggiore che si possa immaginare: aver abusato dei propri figli e di altri bambini con la complicità di un gruppo di adulti. A puntare il dito contro di lei, suo marito e altre 18 persone, tutte residenti nella provincia di Modena, sono gli stessi bambini, che tra il 1997 e il 1998, ascoltati da un’assistente sociale dell’Asl di Mirandola, raccontano di abusi sessuali, messe nere e riti satanici con sacrifici umani. Uno scenario da film horror che, dopo quasi vent’anni di processi, si rivelerà essere uno dei più gravi errori giudiziari del nostro Paese.

La ballerina di Rimini e Riccione condannata, poi assolta, stasera su Rai 3, scrive l'8 aprile 2018 romagnauno.it. Alberto Matano torna questa sera, domenica 8 aprile, con la nuova stagione di Sono innocente, in onda su Rai3 a partire dalle 21.25. Apre la serie Eliana, la ballerina brasiliana di Rimini e Riccione, condannata per traffico di droga ingiustamente e scarcerata dopo un anno di galera. Elaine, una ballerina di origini brasiliane che si esibiva nei locali tra Rimini e Riccione: è stata accusata di traffico di droga. Nella stessa casa dove era ospite aveva dormito uno spacciatore e tanto è bastato a inguaiarla. Ma lei non lo conosceva neppure. La ragazza, bellissima, si era semplicemente trovata al posto sbagliato al momento sbagliato. Fidandosi degli amici connazionali, aveva accettato la loro ospitalità. Mai avrebbe immaginato che quella sera sarebbe giunto dall’Olanda un uomo imbottito di droga, che aveva ingoiato decine e decine di ovuli colorati pieni zeppi di cocaina. E mai avrebbe pensato che quel trafficante internazionale alloggiava proprio lì, a casa degli amici che le avevano offerto ospitalità per qualche tempo. Quando il giorno dopo aveva aperto allibita ai carabinieri di La Spezia che senza tanti complimenti le avevano infilato le manette ai polsi, lei aveva urlato la sua innocenza a più non posso.  E così Elaine Arauco Da Silva, questo il suo nome, si è trovata carcere dove è rimasta per un anno. Il 10 novembre del 2009 è stata pronunciata la parola fine sul quell’incubo. Un incubo che per lei è stato ancora più brutto perché le ha spazzato via un sogno, quello di sposare il suo bel Emin Boztepe, campione di arti marzali di origine turca, diventato poi divo di Hollywood. L’uomo era volato dalla California a Rimini per testimoniare davanti ai giudici e spiegare che la ragazza con quell’affare di droga non poteva centrare nulla, visto che i due avevano altri progetti, tra cui i fiori d’arancio. Ma poi, chiusa la parentesi, il bel giovane aveva rotto il fidanzamento, forse temendo un coinvolgimento che avrebbe potuto danneggiare la sua immagine di divo. Stasera in Tv parla Eliana.

Elaine Arauco Da Silva. La ballerina brasiliana assolta dopo 1 anno di galera: ma perde tutto (Sono innocente). Il caso di Elaine Arauco Da Silva, ballerina brasiliana assolta dopo un anno di galera, sarà al centro della prima puntata di "Sono innocente" in onda su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". L'incubo di Elaine Arauco Da Silva è ormai finito anni fa, in seguito all'accusa per droga e al successivo arresto. A causa di quella vicenda tuttavia la ballerina brasiliana ha perso tutto, amici, connazionali e persino l'uomo che avrebbe voluto sposare. Tutto inizia nella notte del 2008, quando un uomo imbottito di droga, Gabriel Arcangel Sanchez Guerrero, viene arrestato in seguito all'arrivo in Italia dall'Olanda e durante un soggiorno a casa di alcuni amici della donna. Il caso di Elaine Arauco Da Silva verrà approfondito nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 8 aprile 2018, grazie al programma di Rai 3. Nessuno all'epoca decide di credere alla donna, che viene fermata dai carabinieri di La Spezia e trasportata in carcere. A nulla serve che sottolinei la propria innocenza: nessuno vuole crederle. Rimarrà quindi in carcere per un anno, sottolinea Romagna Noi, e la sua vicenda giudiziaria si concluderà solo sei mesi più tardi. Il mancato matrimonio con il campione di arti marziali, il turco Emin Boztepe, è solo una delle conseguenze di quel giorno: l'uomo verrà convocato a Rimini per testimoniare a favore dell'imputata, ma deciderà comunque di rompere il loro fidanzamento. 

Le accuse e la fine del fidanzamento. La sua colpa è stata di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato: Elaine Arauco Da Silva pagherà caro l'ospitalità richiesta ad alcuni amici di Rimini, alcuni giorni prima dell'arresto di un Olandese ritrovato con un forte carico di droga nel corpo. La ballerina brasiliana in quei giorni crede di trovarsi in vacanza, mentre il fidanzato Emin Boztepe la aspetta in California. I due stanno organizzando il loro matrimonio imminente, frutto di un fidanzamento pieno di passione. Eppure quel giorno tutto è destinato a cambiare: i Carabinieri si presenteranno alla porta di quell'appartamento in cui Elaine si trova da pochi giorni e l'arrestano. L'uomo arrestato è stato infatti trovato con decine e decine di ovuli di cocaina che ha ingoiato prima del suo viaggio che dall'Olanda lo ha portato fino in Italia. A nulla serviranno le parole della donna, che si dichiarerà subito innocente. Ed a nulla servirà la testimonianza del fidanzato, che confermerà di fronte ai giudici come i loro progetti in comune non prevedano di certo il traffico internazionale di droga. Elaine verrà rilasciata solo diverso tempo dopo e perderà la possibilità di sposare il divo californiano, che ha deciso di lasciarla sola al suo destino. Elaine non è la sola ad essere stata arrestata quel giorno: tutte le altre persone che in quel giorno si trovano nello stesso appartamento verranno tradotte in carcere. Fra queste, sottolinea Errori Giudiziari, anche la madre anziana di una delle inquiline. In seguito i giudici stabiliranno come la colpa fosse solo di Sanchez Guerrero, condannato a 8 anni per traffico di droga. Grazie all'aiuto del legale, l'avvocato Piero Venturi, Elaine verrà infine riconosciuta come innocente e chiederà allo Stato Italiano un risarcimento che comprenda i danni morali per via del matrimonio mancato, oltre che per la detenzione ingiusta. Sembra che un anno dopo abbia ritrovato l'amore grazie all'incontro con un altro uomo, riuscendo a coronare il suo sogno di diventare madre. La tragedia vissuta tuttavia rimarrà sul suo corpo come una cicatrice indelebile.

I motivi dell’arresto. Perché le autorità italiane hanno deciso di prolungare il carcere di Elaine Arauco Da Silva, la ballerina brasiliana che nel 2008 è stata accusata di traffico internazionale di droga? Tutto parte dalle indagini dei Carabinieri di La Spezia su Gabriel Arcangel Sanchez Guerrero, che al fianco di altre undici persone verrà individuato come spacciatore di un cartello che comprende diverse regioni e Paesi. Dall'Emilia Romagna fino all'Olanda e dalla Spagna fino alla Toscana. Il gruppo di criminali opera su diversi territori grazie allo spaccio di cocaina ed eroina. Guerrero, all'epoca dei fatti 34enne, viene individuato come parte dell'anello di congiunzione fra l'estero e Rimini, dove operava al fianco della madre Olinda Santiago Ogando, di 70 anni, e la sorella Matilde. Quest'ultima avrebbe coinvolto, secondo quanto sottolinea Il Secolo XIX, l'amica e ballerina Elaine Arauco Da Silva. In quegli anni appena 30enne, la ragazza infatti soggiornava nell'appartamento della famiglia Sanchez Guerrero proprio nei giorni in cui vengono effettuati i primi arresti all'interno del cartello. In seguito al fermo di Francisca Gomez, una connazionale e corriere di droga, Guerrero avrebbe infatti deciso di ritirare di persona il carico in Olanda.

Enzo Tortora. Dopo 30 anni le scuse del pm che fece arrestare il giornalista (Sono Innocente). Il caso di Enzo Tortora, giornalista accusato di essere colluso con la camorra, sarà trattato nella prima puntata di "Sono innocente", in onda questa sera su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". A distanza di trent'anni dalla sua morte, Enzo Tortora rimane il simbolo dell'ingiustizia giudiziaria. Il giornalista è stato infatti al centro di un'oscura vicenda che lo ha portato dietro le sbarre da innocente, anche se riconosciuto come tale solo diversi anni dopo il suo arresto. Il caso di Enzo Tortora verrà discusso nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 8 aprile 2018, grazie alla prima puntata del programma di Rai 3. Rimangono nella storia le lettere che il conduttore di Portobello scrisse all'epoca a Francesca Scopelliti, la sua compagna, in seguito a quella retata che lo confinò in carcere con l'accusa di collusione con la Camorra. Sono recenti invece le scuse del Magistrato Diego Marmo, che durante il maxi processo di Raffaele Cutolo fu fra i più grandi accusatori di Tortora. "Dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto", ha detto Marmo a Rai News nel 2014. Parole che l'ex magistrato, oggi in pensione, ha pronunciato tra l'altro per la prima volta in seguito alle critiche ricevute riguardo alla sua entrata in politica. 

Le lettere a Francesca. Il caso di Enzo Tortora verrà sempre associato all'ingiustizia giudiziaria. Il giornalista, negli anni Ottanta fra i più in vista della tv italiana, viene accusato nel giugno dell'83 in base ad alcune parole di un pentito della Camorra. L'arresto è immediato: è qui che inizia il calvario di Tortora, che lo spingerà a impegnarsi in modo attivo nella difesa dei diritti umani. La sua assoluzione arriva solo quattro anni più tardi grazie a una sentenza della Cassazione, ma ormai il suo caso è diventato simbolo del malfunzionamento delle ruote della giustizia italiana. Di quegli anni trascorsi dietro le sbarre rimangono come documento storico le lettere che a pochi giorni dal suo arresto invia alla compagna Francesca Scopelliti. Dalla sua cella 16 bis di Regina Coeli, Tortora spedisce una lettera in cui denuncia il proprio dolore per via di quelle accuse che lo vedono come trafficante di droga al soldo della camorra. Sarà il primo di 45 testi che in seguito formeranno il libro edito da Pacini e dal titolo “Lettere a Francesca”, come sottolinea La Repubblica. Nei suoi scritti Enzo Tortora sottolinea come sia rimasto colpito dall'arresto, avvenuto grazie ad una maxi retata che porterà in manette 856 persone. Nelle sue parole il dramma di quel momento, soprattutto per le condizioni in cui è costretto a vivere e per l'impossibilità di avere un confronto diretto con chi lo ha accusato. 

Enzo Tortora e l’arresto nel 1983. L'arresto di Enzo Tortora viene effettuato nel giugno del 1983, grazie all'intervento dei Carabinieri di Roma che bussano alla sua porta alle quattro del mattino. Le accuse di traffico di droga e associazione a organizzazione di stampo mafioso sono dovute alle rivelazioni di Giovanni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, pentiti mafiosi che al fianco di altri otto imputati, indicheranno nel giornalista uno dei conniventi della camorra. Il tutto viene avvalorato grazie a un'agendina ritrovata nell'abitazione del camorrista Giuseppe Puca, in cui è presente il nome del giornalista. Un elemento che in seguito venne attribuito a un errore calligrafico, in cui la lettera “r” del cognome di Tortora era stata scambiata per la “n” del nome scritto in realtà fra quelle pagine. Emergono nei giorni seguenti altri particolari, fra cui alcuni centrini che Giovanni Pandico invia al conduttore perché li vendesse all'asta grazie al programma di cui è a guida, Portobello. In seguito allo smarrimento degli oggetti, Tortora scrive infatti una lettera di scuse al camorrista, allegando un assegno di rimborso. 

Il sostegno di Indro Montanelli e Enzo Biagi. Da non sottovalutare l'impatto mediatico ed emotivo che ha avuto sulla popolazione l'arresto di Enzo Tortora. All'epoca infatti il caso crea un grande scandalo nazionale, tanto che tv e stampa continuano a pubblicare e trasmettere le immagini che inquadrano il giornalista in manette, in occasione del suo arresto. Tortora viene tra l'altro attaccato anche in ambiente giornalistico, soprattutto per via di quella fuga di notizie avvenuta pochi giorni prima il suo arresto, e tale da permettere a diversi colleghi di affondare il colpo. Dalla parte di Tortora si schierano invece grandi firme, come quella di Indro Montanelli e Enzo Biagi. Soprattutto quest'ultimo decide di andare contro corrente e scrivere una lettera al presidente Sandro Pertini, pubblicandola su La Repubblica nell'agosto del 1983 e con cui chiede che possa intervenire nel caso di Enzo Tortora. Biagi in particolare non riesce a spiegarsi come mai 200 arrestati in quella stessa maxi retata erano riusciti a ritornare in libertà, mentre il collega continuava a rimanere in carcere, senza alcuna possibilità di difendersi.

Enzo Tortora chi? Trent’anni dopo il gioco a far finta di niente. Il giornalista liberale perseguitato dalla magistratura e dai giornalisti e difeso solo dai radicali moriva ucciso da un cancro maturato durante la detenzione ingiusta, scrive Piero Sansonetti il 18 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Trent’anni fa moriva Enzo Tortora. Il 18 maggio del 1988. Era un grande giornalista, conservatore e liberale. Aveva subìto una persecuzione giudiziaria feroce e assolutamente irragionevole. Tortora è stato il testimone di come la giustizia possa esercitare il suo enorme potere in modo malvagio e in spregio del diritto. Assecondata e applaudita dal giornalismo. Fu arrestato all’alba del 17 giugno del 1983, a Roma, trascinato in manette in una caserma dei carabinieri e poi, in manette, mostrato ai giornalisti e ai fotografi e infine, a sera, chiuso in cella per sette mesi. Più molti altri mesi di arresti domiciliari. Era accusato di essere un camorrista, uno spacciatore di droga e un mercante di morte. Era del tutto, del tutto, del tutto innocente. Qualche giorno dopo il suo arresto Camilla Cederna, giornalista ultra- liberal, di sinistra, indipendente, spregiudicata, cronista di inchiesta e di prima linea, prestigiosissima, scrisse: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno del cuore della notte se non ci sono buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto». C’è tutto in questa breve frase. C’è il cuore del colpevolismo cieco (” se lo hanno arrestato vuol dire che qualcosa l’ha fatta”: pare che sia la stessa frase che fu ripetuta migliaia di volte in Argentina, dopo il golpe di Videla e gli arresti di massa degli oppositori). C’è l’idea che l’accusa è essa stessa dimostrazione della colpa. C’è l’infallibilità dei giudici. C’è l’antipatia personale come prova a carico. C’è il principio dell’intoccabilità rovesciata, e cioè la convinzione che il prestigio personale, o la fama, o il potere di una persona, presunta intoccabile, siano in realtà evidenze certe di reato. Tortora era innocentissimo ma l’intera stampa italiana si schierò contro di lui e lo riempì di fango, tranne pochissime eccezioni: Biagi, Montanelli. E l’intera magistratura diede totale copertura prima al giudice istruttore che lo aveva fatto incarcerare senza prove e senza indizi, e poi ai pubblici ministeri che – senza prove e senza indizi – lo fecero condannare a 10 anni di carcere. La magistratura poi si riscattò, con la sentenza di appello, che fu di piena assoluzione e di furiosa e appassionata condanna del lavoro sciatto e indegno svolto dai magistrati che lo avevano condannato. Tortora fu condannato sulla semplice testimonianza di alcuni pentiti, del tutto inaffidabili, e teleguidati – che ottennero in cambio sconti di pena – senza la possibilità del minimo riscontro. In appello gli indizi e le testimonianze furono smontati uno ad uno, in modo inconfutabile, ma erano stati già smontati nel primo grado e in istruttoria, però i giudici del primo grado e dell’istruttoria se ne erano infischiati delle prove a difesa. La magistratura si riscattò con la sentenza d’appello. Il giornalismo non si riscattò mai. Anche la politica ebbe in gran parte un atteggiamento infame sul caso Tortora. Più o meno tutto il mondo politico, eccetto, naturalmente, i radicali (che si batterono al suo fianco in modo eroico, subissati dalle critiche e dagli scherni), e i socialisti. E’ stato il caso più famoso di errore giudiziario. Voluto, cercato, difeso con arroganza dal potere. Il più famoso: non l’unico, tranquilli, non l’unico. Dal caso Tortora nacque il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, vinto dai radicali, ma poi smantellato dal governo. E dal caso Tortora nacquero le prime battaglie garantiste, che piano piano ottennero dei risultati: gracili, sparuti, ma non inesistenti. Oggi il trentesimo anniversario della morte di Tortora, ucciso da un cancro che aveva maturato in carcere, coincide con la presentazione del programma del nuovo governo. E in questo programma ci sono delle proposte di riforma della macchina giudiziaria che fanno tremare le vene e i polsi. Più intercettazioni (oggi siamo il paese con più intercettazioni al mondo, ne abbiamo cento volte cento – più della Gran Bretagna), riduzione o cancellazione della prescrizione, aumento delle pene per i reati contro il patrimonio e per la corruzione, fine delle conquiste di politica carceraria ottenute dagli anni ottanta (riforma Gozzini) in poi dalle forze democratiche, introduzione degli agenti provocatori che si affiancherebbero ai pentiti in una logica vicinissima a quella che guidò i Pm del caso Tortora ( i quali Pm, salvo uno, non hanno mai chiesto scusa). E’ molto triste questa coincidenza. È anche molto preoccupante. Per fortuna un programma di governo non è legge. Va portato in Parlamento, va discusso, deve superare il vaglio della Corte Costituzionale. Esistono in Parlamento le forze liberali in grado di opporsi a questa svolta di ispirazione autoritaria, che non ha precedenti nella storia della Repubblica? Avranno, queste forze, la capacità e il coraggio per battersi e per fermare questa svolta? Dipenderà anche dai giornali, dalle Tv. Dall’atteggiamento che assumeranno nei confronti del programma di governo. A leggere i giornali di questi giorni si ha l’impressione che l’intellettualità italiana, e il giornalismo, non siano molto preoccupati per il futuro della giustizia. Li indigna, forse giustamente, l’organo di garanzia previsto dal “contratto” e probabilmente incostituzionale, ma nessuno è indignato, o colpito, anzi nessuno si occupa, della proposta di mettere in prigione i bambini. E questo non è di buon auspicio. Possibile che il giornalismo italiano sia rimasto quello delle frasi tremende di Camilla Cederna?

Enzo Tortora, la pagina più nera per il giornalismo e la magistratura. Trent’anni fa moriva il giornalista, stroncato da un tumore dopo aver subito anni di persecuzione giudiziaria e mediatica volontaria e in malafede, scrive Valter Vecellio il 18 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Riavvolgere il nastro del ricordo, perché il caso Tortora non scolorisca nella memoria collettiva e individuale; e perché tanti sono quelli che possiamo definire “gli eroi della sesta giornata”: coloro che ora si “esibiscono” nel tentativo di accaparrarsi dei meriti che non hanno, ben altro è stato a suo tempo il comportamento tenuto; ben altre le posizioni assunte. Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Anni dopo, Carlo Verdelli (non l’ho mai fatto, me ne dolgo, lo ringrazio ora), su “Repubblica”, scrive: “Non fosse stato per i radicali (da Pannella a Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora con un editoriale controcorrente: “E se Tortora fosse innocente?”. Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima”. Tortora è arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. Con Enzo nasce una solida amicizia; conservo parecchie sue lettere, scritte dal carcere, a rileggerle ancora oggi, trascorsi tanti anni, corre un brivido.

16 settembre 1983: “Da tempo volevo dirti grazie… Hai “scommesso” su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua “puntata”. Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il “caso Tortora è il caso Italia”. Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non “onorevoli”. Se dal mio male può venire un po’ di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo”.

2 maggio 1984: “… Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l’Italia “ha abolito la pena di morte”. Abbiamo un boja in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in “attesa” di un giudizio che non arriva mai. L’uomo qui è niente, ricordatevelo. L’uomo qui può, anzi deve attendere. L’uomo qui è una “pratica” che va “evasa” con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale…”.

15 luglio 1985: “… In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell’obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s’è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d’ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente”.

7 ottobre 1985: “… Sono stato condannato e processato dalla N. G. O., Nuova Giustizia Organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita…”.

2 aprile 1986: “… Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all’estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano…”.

17 agosto 1987: “… Siamo molti… ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l’incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito… Sono ancora lì, al loro posto… Staremo a vedere…”.

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché?”. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della DC, Cuto- lo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post- terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post- terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘ o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricorda-no di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori – compensati poi con gli appalti – e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti- cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture. Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il “TG2” con Silvia, la figlia di Enzo.

Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era?

“Nulla”.

Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista?

“No, mai”.

Intercettazioni telefoniche?

“Nessuna”.

Ispezioni patrimoniali, bancarie?

“Nessuna”.

Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre?

“Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”.

Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove?

“Nessuna”.

Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove?

Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”.

Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto?

“No”. Candidato al Parlamento Europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

Lorena Morselli. Assolta col marito dalle accuse di pedofilia non vede i 4 figli da 20 anni (Sono Innocente). Il caso di Lorena Morselli e del marito Delfino Covezzi sarà al centro della prima puntata di "Sono innocenti", in onda domenica 8 aprile su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". A quasi vent'anni di distanza dalla sua assoluzione, Lorena Morselli e il marito Delfino Covezzi sono ancora alla ricerca di giustizia. I coniugi di Massa Finalese sono stati accusati infatti alla fine degli anni Novanta di pedofilia, motivo per cui le autorità avevano ordinato un anno prima l'allontanamento dei quatto figli dalla casa di famiglia. Covezzi è morto a causa di un infarto nel 2013 e questo ha spinto Lorena ad assumere da sola il testimone e il fardello che porta sulle sue spalle nonostante l'assoluzione decisa dalla Cassazione nel dicembre del 2014. Il caso di Lorena Morselli verrà approfondito nel corso della puntata di Sono Innocente di questa domenica, 8 aprile 2018. Il calvario dei coniugi Covezzi è durato sedici anni, fra udienze e accuse che si sono dissolte di fronte alla conferma della loro innocenza. Tutto è iniziato nel marzo del 1999, quando Lorena e il marito Delfino ricevono il primo avviso di garanzia: l'inizio di un incubo che non sembra avere una soluzione. 

L’allontanamento dai figli. Anche se dichiarata innocente dell'accusa di pedofilia, Lorena Morselli non è mai riuscita a riabbracciare i quattro figli che le sono stati tolti per via di un errore giudiziario. Alla donna e al marito Delfino Covezzi non è mai stato permesso di poter vedere i figli, come sottolinea a Quotidiano.net, che così hanno finito per credere di essere stati abbandonati. Un particolare che la primogenita aveva riferito alla zia Anna Rosa, la sorella di Lorena, in un'occasione. L'unica che le era stata concessa per vedere i nipoti. Mentre i genitori sono stati incarcerati e sottoposti a diversi processi, i figli sono stati inoltre separati e affidati ad altre famiglie. L'unico figlio che è riuscito a rimanere al fianco della madre Lorena Morselli è il quinto, Stefano, di cui era incinta nel 1999. Oggi la donna vive in Francia, dove ha dato alla luce il suo ultimo figlio e dove ha deciso di mettere radici. Ed è proprio in Provenza che il marito Delfino ha esalato l'ultimo respiro, a causa di un infarto che lo ha spento nell'agosto del 2013. 

La lettera del figlio Stefano. Lorena Morselli non ha mai smesso di cercare giustizia per sé e per il defunto marito Delfino Covezzi. Entrambi assolti dalle accuse di pedofilia, non sono riusciti a poter riabbracciare i quattro figli che le autorità hanno deciso di affidare ad altre famiglie. La donna ha ripercorso il suo calvario durante una puntata de I Fatti Vostri, sottolineando come alla fine anche il figlio Stefano, l'unico che è riuscita a tenere al proprio fianco, è stato privato della possibilità di conoscere i suoi fratelli. Proprio per questo Lorena ha deciso di lanciare un nuovo appello tramite le tv nazionali, non chiedendo di poter essere perdonata dai figli, ma di permettere ai fratelli di poter trovare un punto di incontro. Di recente è intervenuto anche don Erio Castellucci, il Vescovo di Modena che lo scorso febbraio ha deciso di dare il proprio aiuto a Stefano Covezzi. Il figlio di Lorena Morselli aveva infatti scritto una lettera commovente al senatore Giovanardi, chiedendo di poter finalmente chiudere la tragedia che ha colpito tutta la sua famiglia. Lo stesso scritto infatti era stato inviato a don Erio perché Agnese, Paolo, Enrico e Valeria, i suoi fratelli, potessero almeno incontrarlo. 

La lettera ai figli. All'epoca dell'arresto di Lorena Morselli e Delfino Covezzi, i quattro figli avevano solo 11, 9, 8 e 3 anni. Ora più che maggiorenni, i figli della coppia vivrebbero nel Reggiano in quattro famiglie diverse, una decisione che le autorità hanno preso andando contro la richiesta della coppia di poter tenere uniti i fratelli. Secondo le ultime notizie riportate da Il Resto del Carlino e diffuse dalla stessa Lorena, solo la figlia Agnese sarebbe andata a vivere in provincia di Parma. Nel corso degli anni, la donna si è dovuta difendere da pesanti accuse, additata come pedofila e parte di accuse di massa che nello stesso periodo hanno colpito diverse famiglie. Alcune delle vittime hanno confermato una volta maggiorenni gli abusi subiti dagli stessi familiari, come sottolinea La Repubblica, anche se queste accuse non riguardano i figli di Lorena. Quest'ultima invece ha approfittato della riapertura del dibattito in seguito a un'inchiesta del quotidiano nazionale per scrivere una lettera indirizzata ai quattro figli, quelli che non ha potuto crescere e di cui non ha mai avuto notizie. La “mamma dei quattro fratellini di Massa Finalese”, come è stata spesso indicata in seguito allo scandalo, si difende. Nel suo lungo scritto sottolinea di non aver mai accusato i figli di aver mentito, scegliendo di contro di manifestare ancora una volta l'affetto che l'ha sempre legata ai suoi bambini.

Sono Innocente torna in onda domenica 15 aprile 2018 con Alberto Matano: le storie di Domenico Morrone, Stefano Messore e Aldo Scardella al centro della puntata, scrive Stella Di Benedetto il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Oggi, domenica 15 aprile, alle 21.20 su Raitre, torna l’appuntamento con Sono Innocente, il programma condotto dal giornalista Alberto Matano che racconta le storie di persone che si sono ritrovati ad essere coinvolti in vicende giudiziarie pur essendo innocenti. Storie di uomini e donne che, da un giorno all’altro, si ritrovano in carcere pur essendo totalmente estranei alla vicenda. Mesi, in alcuni casi anni trascorso dietro le sbarre di una cella non riuscendo a spiegarsi il motivo. In ogni puntata, Alberto Matano racconta tre casi giudiziari diversi e uguali allo stesso tempo.

IL CASO DI DOMENICO MORRONE. Il primo caso della serata è quello di Domenico Morrone, pescatore tarantino di 27 anni, che nel 1991 è stato accusato dell’omicidio di due ragazzini minorenni. Gli inquirenti non hanno dubbi convinti che Morrone abbia agito per vendicarsi di un affronto subito da uno dei ragazzini. L’uomo viene condannato a 21 anni di reclusione. La sua innocenza è stata dimostrata dopo 15 anni unitamente alla testimonianza di due pentiti e a cinque richieste di revisione di processo.

IL CASO DI STEFANO MOSSORE. La seconda storia della puntata odierna di Sono Innocente è quella di Stefano Mossore, ex paracadutista della Folgore, da molti anni impegnato nel volontariato, dopo il terremoto del 2016 che ha distrutto il Centro Italia, decide di andare ad aiutare quelle popolazioni. Affitta così un furgone, lo riempie di cibo, vestiti, giocattoli e con un amico parte per Amatrice. Mossore si impegna per aiutare quelle popolazioni e contribuisce a costruire anche la tendopoli. Il 3 settembre 2016 torna a casa sua dove, ad attenderlo, trova i carabinieri che lo accusano di sciacallaggio. Mossore trascorre cinquanta giorni di carcere e dieci mesi agli arresti ai domiciliari. Prima di essere assolto, Stefano Mossore ha subito anche il dramma di perdere il lavoro.

IL CASO DI ALDO SCARDELLA.

La terza ed ultima storia dell’appuntamento di oggi con Sono Innocente è quella di Aldo Scardella che nel 1985 a soli 25 anni, viene accusato dell’omicidio del titolare di un piccolo market di liquori durante un tentativo di rapina. La banda è formata da tre persone, ma viene arrestato solo Aldo Scardella. Gli inquirenti sono convinti che sia uno dei colpevoli perché nei pressi del palazzo dove abita viene ritrovato uno dei passamontagna usati dai banditi e sulle testimonianze di alcuni, che nei giorni precedenti lo avrebbero visto nei pressi del locale rapinato. Aldo viene arrestato e trascorre quasi sei mesi dietro le sbarre in regime di totale isolamento, senza poter vedere i suoi avvocati e i suoi familiari. Non reggendo il peso della situazione e non potendo dimostrare la sua innocenza, Aldo si impicca nella sua cella il 2 luglio del 1986. Prima di togliersi la vita lascia un biglietto che si conclude con le seguenti parole: "Muoio innocente".

DOMENICO MORRONE. Risarcito dopo 15 anni di carcere: “Ma la libertà non ha prezzo” (Sono innocente). Questa sera, domenica 15 aprile, a Sono innocente sarà raccontata la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere prima di essere assolto dall'accusa di duplice omicidio, scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". “Sono innocente” ha raccontato nella puntata di oggi la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva per il duplice omicidio di due studenti minorenni. Era il 1991 e a Taranto era in corso una guerra tra clan. L'unica colpa di Morrone è quella di aver litigato con un ragazzino che è stato poi ucciso. Contro di lui c'è un movente fortissimo: si sarebbe vendicato dell'agguato subito, quindi viene arrestato. Testimoni oculari, un esame dello stub dall'esito incerto e un movente fortissimo: questi sono gli elementi che lo portano in cella. Morrone durante il processo tira in ballo due testimoni che confermano il suo alibi, ma entrambi vengono denunciati per falsa testimonianza. Il caso si tinge di giallo quando dall'ufficio corpi di reato spariscono prove che lo scagionano. Nei 15 anni di carcere ha però conosciuto l'umanità di guardie e operatori carcerari. Dopo nove anni dietro le sbarre ottiene un permesso di tre giorni che decise di trascorrere con sua madre. In due pentiti ripose le sue uniche speranze di scarcerazione. Per i suoi 15 anni trascorsi in carcere da innocente ha ricevuto 4 milioni di euro di risarcimento. A tal proposito ha dichiarato: «La libertà di ogni singolo giorno della nostra vita non ha prezzo». (agg. di Silvana Palazzo)

Oggi 55enne, Domenico Morrone aveva 42 anni quando è stato riconosciuto innocente per l'accusa di duplice omicidio ai danni di due studenti minorenni. Il tarantino dovrà trascorrere infatti 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva, prima di poter riavere la propria libertà. Il caso di Domenico Morrone si chiuderà definitivamente nel 2006, quando la Corte d'Appello di Lecce stabilirà grazie al processo di revisione che si è trattato di un errore giudiziario. Quanto accaduto a Domenico Morrone verrà raccontato nella puntata di oggi, domenica 15 aprile 2018, del programma “Sono Innocente”. Si tratta forse del caso più eclatante di errore giudiziario della storia italiana, come ha sottolineato il suo legale, l'avvocato Claudio DeFilippi, pochi giorni prima del rilascio del suo assistito. All'epoca dell'arresto, Morrone è incensurato ed è un pescatore di Taranto dalla fedina impeccabile. Il giorno del suo arresto non perderà tuttavia solo la propria libertà e dignità, ma anche la fidanzata. Ed anche se affermerà fin dalle prime ore di non essere colpevole del duplice delitto dei due studenti, gli inquirenti saranno convinti della sua colpevolezza. A dimostrarlo delle prove inconfondibili per il pm Vincenzo Petrocelli, ricorda Il Corriere della Sera, due testimonianze che affermano di averlo visto sulla scena del crimine. 

Domenico Morrone e l’omicidio di due minorenni. Domenico Morrone verrà considerato per 15 anni il responsabile della morte di Giovanni Battista, all'epoca dei fatti 17enne, e del quindicenne Antonio Sebastio. I due ragazzi infatti sono stati uccisi mentre si trovavano di fronte alla scuola alla periferia di Taranto che frequentavano entrambi. Un delitto brutale, compiuto con una calibro 22 da un sicario che ha sparato diversi colpi verso le due vittime. Secondo gli inquirenti, Morrone ha ucciso i due studenti per via di una lite avvenuta con Battista qualche giorno prima e durante la quale era stato ferito. Alcuni testimoni riferiranno in sede processuale di aver sentito l'imputato minacciare di morte le due vittime, accusandoli di essere legali alla criminalità locale. A nulla sono servite le prove portate all'attenzione dei giudici dal difensore Claudio DeFilippi. Secondo il legale di Morrone, infatti, i due delitti erano da collegare ad uno scippo messo in atto dalle due vittime ai danni di una donna. Eppure la condanna per omicidio verrà confermata, anche se l'imputato fornirà subito un alibi confermato nel corso dell'iter processuale. La Cassazione infatti, ricorda Il Corriere della Sera, non terrà in considerazione il fatto e della conferma dei coniugi Masone, che come la madre di Morrone verranno accusati invece di falsa testimonianza. 

In carcere a 27 anni. Il giorno del suo arresto Domenico Morrone aveva appena 27 anni e riuscirà a uscire dal carcere solo in età adulta. L'esperienza carceraria non impedirà solo all'uomo di poter vivere la sua vita da incensurato, ma provocherà nel suo animo profondi turbamenti. Al momento del rilascio, Morrone infatti mostrerà un fisico stravolto dalla sofferenza, in preda a forti depressioni e malattie virali. Oltre al danno anche la beffa: Morrone perderà a causa della condanna anche la fidanzata, mentre la madre verrà ridotta in povertà. La donna infatti riusciva a sostenersi solo grazie al lavoro di pescatore del figlio e in sua assenza non era più in grado di avere una vita agiata. La madre di Morrone tra l'altro morirà l'anno successivo alla scarcerazione del figlio, dietro le sbarre fin dal 1991. Per l'errore giudiziario subito, l'uomo chiederà infine un risarcimento di 12 milioni allo Stato italiano. Soprattutto alla luce dei due annullamenti avvenuti in Cassazione e delle successive conferme della condanna a 21 anni invece messe in atto dalla Corte d'Assise di Bari. I giudici infatti hanno scelto di non tenere in considerazione dell'alibi di Morrone, confermato dai vicini di casa Masone, dalla madre e da un amico appuntato. Il movente del duplice delitto di Giovanni Battista e Antonio Sebastio era riconducibile ai loro occhi a quella denuncia che l'uomo aveva sporto contro i due ragazzini, per via di una strana attività collegata a dei motorini. Per questo e per le testimonianze di due minorenni, sottolinea La Repubblica, verrà considerato autore della tragedia.

STEFANO MESSORE. “Nonostante l'ingiustizia subita, aiuterei ancora i terremotati” (Sono innocente). Stefano Messore è stato accusato di sciacallaggio dopo il terremoto del 24 agosto 2016. Dopo 50 giorni di galera e 10 mesi di domiciliari è stato assolto. La sua storia a "Sono innocente", scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". “Sono innocente” racconta oggi la storia di Stefano Messore, il volontario arrestato per sciacallaggio dopo il terremoto di Amatrice. «Sono solo riuscito a dire: aiuto, mi stanno portando in carcere», ha raccontato in merito al momento dell'arresto. Finito 50 giorni in carcere con l'accusa di sciacallaggio, sente di essersi «ritrovato in una storia surreale». Un racconto doloroso quello di Stefano: «Avevo dato tutto per aiutare i terremotati, ma non rinuncerei mai alla solidarietà». E infatti ha chiesto una cosa alle sue figlie: «Ho detto loro che non dovevano cambiare per quello che mi è successo». E infatti non si è detto pentito di essersi offerto volontario: «Rifarei tutto, nonostante l'ingiustizia subita. Correrei ad aiutare queste popolazioni». L'amarezza però resta: «Chi mi restituirà quei giorni trascorsi in carcere?». Sono innocente ha intervistato anche sua figlia Giada: «La vita è tornata come prima, anche se i miei genitori lavorano di più ora. Ho imparato che, anche se poteva succedere a chiunque, non dobbiamo smettere di aiutare le persone, perché è una cosa bellissima». (agg. di Silvana Palazzo)

Stefano Messore, il volontario arrestato per sciacallaggio. L'incubo di Stefano Messore inizia il 24 agosto del 2016, data che viene ricordata per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Sono stati tanti i cittadini a perdere tutto nel tragico evento, così come molti sono intervenuti in massa per prestare soccorso come volontari. Un'occasione che ha dato modo anche a degli sciacalli di farsi avanti e sottrarre gli aiuti ai disagiati. Messore sarà fra chi cercherà di aiutare i terremotati, ma la sua presenza sul posto lo porterà a finire in galera per 50 giorni. L'accusa è di aver derubato le vittime del terremoto. La storia di Stefano Messore verrà raccontata nella puntata di “Sono Innocente” di oggi, domenica 15 aprile 2018. Originario del quartiere romano Labaro, Messore è un istruttore di arti marziali e gestisce una palestra di sua proprietà. Sposato con tre figlie, non si tirerà indietro di fronte alla possibilità di aiutare quanti hanno perso tutto a causa del terremoto. Il 3 settembre, racconta a Today, stav assistendo le vittime e sta allestendo delle tende ad Acquasanta Terme, quando i Carabinieri lo accusano di aver rubato il materiale che lui stesso ha portato sul posto. Sulle prime Messore crede che si tratti di un equivoco che si risolverà in poco tempo, ma ad attenderlo ci sarà quella cella in cui verrà confinato per oltre un mese.

Stefano Messore, da soccorritore a sciacallo. Stefano Messore è stato etichettato come un criminale nonostante fosse accreditato fra i soccorritori del terremoto del 2016. In quel momento si trovava al fianco di moglie e figlie per aiutare le vittime e gestire i prodotti inviati grazie agli aiuti, gli stessi che poi trasportava con un furgone viaggiando da Labaro fino al Centro Italia. Quel giorno anche Messore si ritroverà a perdere qualcosa. Il primo giorno di scuola di una delle bambine, diversi compleanni e infine anche i clienti della sua palestra. Dopo essere stato rilasciato, Messore infatti dovrà trascorrere dieci mesi agli arresti domiciliari prima di essere riconosciuto innocente delle accuse. Un periodo di tempo che permetterà ai clienti della palestra di disdire le iscrizioni. Una tragedia nella tragedia visto che, come sottolinea a Today, era lui a portare a casa i soldi per sostenere la famiglia, mentre la moglie si dedicava al ruolo di mamma. L'arresto di Messore va comunque visto all'interno di un contesto molto più ampio. Le autorità infatti sospetteranno della sua malafede a causa delle informazioni ricevute sulla malavita presente ad Amatrice per sottrarre gli aiuti destinati ai terremotati. Un'operazione che infine porterà a dieci arresti e diverse denunce. I criminali in questione, ricorda Il Corriere della Sera, si erano fatti accreditare come soccorritori per poter superare i posti di blocco senza problemi. Anche per questo il lasciapassare di Messore non lo aiuterà a dimostrare la propria innocenza.

Arrestato con Massimiliano Pietroletti. Stefano Messore non sarà l'unico accusato di concorso in furto aggravato durante il terremoto di Amatrice del 2016. Quello stesso giorno di settembre, le autorità fermeranno infatti un altro cittadino romano, Massimiliano Pietroletti. Secondo le indagini, entrambi avrebbero approfittato del furgone Doblò che riportava il simbolo della Regione Lazio e della Protezione civile per derubare gli aiuti umanitari, compresi i giocattoli destinati ai bambini. Una volta informate dello sciacallaggio in corso, le forze dell'ordine iniziano a battere a tappeto la zona, aumentando di 20 agenti il contingente già presente sul campo. Vengono controllate le case e le macerie, abitazione inagibili e integre. Fra le dieci persone arrestate non c'è solo un innocente come Stefano Messore, ma anche due pregiudicati con un passato per rapina e di origine romena, oltre ad alcuni soggetti che al momento dell'arresto vengono sorpresi con arnesi da scasso a bordo della propria auto. Lo sciacallaggio verrà visto con estrema gravità soprattutto perché la tragedia ha messo in ginocchio il Centro Italia: la volontà della Polizia è di dare una pena esemplare a chi cerca di approfittarsi di una situazione simile. Anche per questo occorrerà molto tempo prima che Messori venga riconosciuto come innocente. Nemmeno la prima udienza, sottolinea Il Corriere della Sera, in cui l'uomo accuserà Pietroletti di averlo ingannato e di essersi approfittato della sua buona fede per portare via del materiale.

ALDO SCARDELLA. Lo studente sardo che si suicidò dopo dopo 185 giorni in prigione (Sono innocente). Questa sera nella trasmissione “Sono innocente” su Rai3 si parlerà della tragica vicenda dello studente universitario Aldo Scardella, accusato ingiustamente di omicidio nel 1985, scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Il caso Aldo Scardella rimarrà nella storia degli errori giudiziari commessi in Italia. E non solo perché il giovane studente di Cagliari verrà ritenuto responsabile dell'omicidio dell'imprenditore Giovanni Battista Pinna: i 185 giorni che Scardella trascorrerà in carcere lo spingeranno infine verso il suicidio. Le accuse contro il ragazzo riguardano un omicidio avvenuto due giorni prima di Natale, nel 1985. In quel giorno due (o tre) criminali vengono avvistati mentre prendono di mira il titolare di una rivendita di liquori sita a Cagliari, mentre sta preparando la chiusura. Nonostante non ci fosse alcuna prova, sarà l'universitario cagliaritano a essere accusato del delitto e infine rinchiuso in una cella di isolamento del penitenziario di Oristano. La storia di Aldo Scardella verrà raccontata da “Sono Innocente”, il programma di Rai 3, nella puntata di oggi, domenica 15 aprile 2018. Una storia agghiacciante che dimostra come il ragazzo sia stato costretto non solo a subire un'accusa ingiusta, ma anche a rimanere del tutto isolato. Gli inquirenti infatti stabiliranno che nessuno, né la famiglia né il suo difensore, possano avvicinarlo. Da quel carcere, ricorda Il Giornale, Scardella uscirà solo una volta morto, nei primi giorni di luglio del 1986.

Il passamontagna trovato nel giardino di casa Scardella. Perché Aldo Scardella è stato considerato colpevole del delitto di Giovanni Battista Pinna? Tutto ruota attorno a un passamontagna che i killer dell'imprenditore cagliaritano lasceranno nel giardino dello studente, a poche centinaia di metri dalla scena del crimine. Secondo le prime ricostruzioni, l'omicidio di Pinna è avvenuto per la rapina messa in atto dai due killer, intenzionati a derubare il titolare del Bevimarket dell'incasso. Tre giorni dopo l'omicidio, la Squadra Mobile di Cagliari entrerà nella casa di Aldo Scardella per perquisirla e il giovane verrà interrogato. Anche se il 24enne riuscirà a fornire subito un alibi e non verranno riscontrate tracce sul passamontagna, nessuno crederà all'innocenza di Aldo, che verrà quindi trasportato nel penitenziario di Oristano. Eppure il capo d'accusa citerà la presenza di indizi di colpevolezza sufficienti a poterlo indicare come responsabile dell'omicidio Pinna e anche a rinchiuderlo in isolamento forzato per dieci giorni. Il motivo è da ricondurre a quegli indizi, scrive Il Giornale, che anche se non dimostrano con certezza la colpevolezza di Scardella, sono sufficienti per le autorità per metterlo sotto pressione. Un tentativo di farlo crollare tramite torture morali che in seguito alla sua morte verrà messo al vaglio del Parlamento italiano. Solo dieci anni dopo il suicidio di Aldo si riuscirà a scoprire i colpevoli dell'omicidio Pinna, Walter Camba e Adriano Peddio, grazie a un collaboratore di giustizia.

Enzo Tortora si occupò del caso. Il suicidio di Aldo Scardella ha messo l'accento su tanti punti interrogativi. Le lacune sul modus operandi della Procura di Cagliari sono state sottolineate da diverse interrogazioni parlamentari richieste dai cittadini italiani, con cui si sono messi in luce i diversi errori. A partire dal fatto che la famiglia di Aldo è stata informata del carcere in cui si trovava rinchiuso solo diversi giorni dopo il suo arresto. Senza considerare, ricorda Il Giornale, che al ragazzo è stato impedito non solo di avere un contatto con la propria famiglia, ma anche con il difensore. L'avvocato tra l'altro non è riuscito a parlare con lo studente cagliaritano nemmeno nei mesi successivi al suo arresto, mentre la famiglia lo incontrerà 3 volte in tutto. Aldo Scardella tuttavia non è mai stato dimenticato, soprattutto da chi si è ritrovato a condividere con il 24enne, seppur a distanza di tanti anni, lo stesso crudele destino. Rimane nella memoria il desiderio di Enzo Tortora infatti di voler deporre dei fiori sulla tomba del giovane. E non solo, perché per uno scherzo del destino anche il collaboratore di giustizia Antonio Fanni, che dodici anni dopo la tragedia ha scagionato Scardella da ogni accusa, si ucciderà nel carcere di Spoleto. Il pregiudicato era conosciuto come membro della banda Is Mirrionis, ricorda Repubblica, una gang che negli anni Ottanta ha messo in ginocchio Cagliari a causa di furti, rapine, attentati e omicidi.

Sono Innocente su Rai3: casi del 22 aprile 2018, scrive Debora Marighetti su Notizie tv, Rai, Rai3. Stasera, domenica 22 aprile 2018, alle 21.20 circa su Rai3 tornerà Sono Innocente, il programma condotto dal giornalista Alberto Matano che racconta storie di errori giudiziari, di innocenti condannati ingiustamente, detenuti e poi scarcerati e risarciti dallo Stato. Si tratta della terza puntata stagionale.

Si inizierà con la storia di Maria Vittoria Pichi. Ha 27 anni e lavora come dipendente in una farmacia quando, il 17 dicembre del 1981, a Verona, un commando delle Brigate Rosse rapisce il generale della Nato James Lee Dozier. In poche ore la notizia fa il giro del mondo. La risposta delle forze dell’ordine è immediata. Perquisizioni e posti di blocco si alternano senza sosta in ogni angolo della città. A 10 giorni dal rapimento vengono arrestati alcuni giovani: tra loro c’è anche Maria Vittoria che, in quel periodo, fa parte di un movimento studentesco. Con il sequestro lei non ha niente a che fare eppure, prima di dimostrarlo, dovrà trascorrere quasi tre mesi nel carcere della Giudecca a Venezia.

La seconda storia parla di casi giudiziari che hanno avuto una grande risonanza mediatica. In particolare in studio con Alberto Matano ci sarà Patrick Lumumba, accusato del delitto di Meredith Kercher. Arrivato a Perugia per studiare all’Università per Stranieri, conosce una ragazza polacca con la quale mette su famiglia. Abbandona gli studi e apre un piccolo locale frequentato particolarmente da studenti. Conosce Meredith Kercher e Amanda Knox perché lavorano nel suo pub. E’ probabilmente questa la ragione del suo coinvolgimento in uno dei casi di cronaca nera più clamorosi della nostra storia recente: Lumumba viene accusato da Amanda Knox di avere ucciso Meredith. Trascorre due settimane in carcere prima di essere scagionato e prima di vedere Amanda condannata per calunnia. Adesso Patrick vive in Polonia.

L’ultima testimonianza vede protagonista Alberto Ogaristi. A Casal di Principe, nel 2002, è in atto una vera e propria guerra di camorra. A febbraio avviene un omicidio per il quale è condannato un ragazzo del posto di 25 anni, Alberto. Viene identificato da un testimone ma lui, con il fatto di sangue, non c’entra nulla. In quel momento si trovava alla festa di compleanno della nipote. Nessuno gli crede e, dopo vari processi, viene condannato all’ergastolo. Ma la famiglia non si arrende; i suoi parenti si attivano e riescono a scoprire la verità grazie alla testimonianza di un camorrista che aveva partecipato realmente all’omicidio. Le sue parole scagionano Alberto che, dopo un tormentato processo di revisione, viene assolto per non aver commesso il fatto.

Maria Vittoria Pichi. Arrestata per il sequestro di James Lee Dozier: 100 giorni in prigione (Sono Innocente). Il 28 dicembre 1981 Maria Vittoria Pichi viene arrestata nell’ambito delle indagini sul sequestro del generale americano James Lee Dozier, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La storia di Maria Vittoria Pichi, una farmacista delle Marche, inizia nel dicembre del 1981. È in questa data che i Carabinieri arrestano la giovane con l'accusa di sequestro di persona e terrorismo. Un racconto drammatico che la protagonista di quest'incubo ripercorre nel suo libro autobiografico “Come una lama”, edizione Italic. Il suo caso verrà approfondito invece nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 22 aprile 2018, grazie alla ricostruzione con i documenti storici di quanto avvenuto in quei giorni. Maria Vittoria Pichi verrà rinchiusa dietro le sbarre per oltre cento giorni, per un crimine che la vedrà alla fine innocente. La sua unica colpevolezza all'epoca sembra il suo interesse politico e una serie di coincidenze che hanno come sfondo gli anni di piombo italiani. Sono anni difficili, in cui la pressione esterna è tale che l'attenzione di autorità e giustizia sembra concentrarsi più sul trovare dei colpevoli ad ogni costo, scrive la Pichi, piuttosto che a dimostrare tramite prove certe che le accuse sono fondate. E sarà proprio quella giovane farmacista, che in quel momento viveva in un paesino distante da Padova pochi km, a finire in una ragnatela da cui sarà difficile uscire.

Il sequestro di James Lee Dozier Arrestata, condannata e innocente. Maria Vittoria Pichi ha vissuto un vero incubo a partire dal 28 dicembre del 1991, ritrovando alla fine se stessa e scoprendo il suo inedito lato da scrittrice proprio grazie agli eventi che ha vissuto. Le indagini delle autorità sul suo conto iniziano per via del sequestro di James Lee Dozier, un generale americano. Le Brigate Rosse si prenderanno subito il merito dell'azione, soprattutto perché il rapimento dell'ufficiale rappresenta un evento importante che riguarda non solo lo Stato italiano, ma anche l'America e persino la NATO. Le pressioni dall'esterno diventano sempre più forti proprio per le origini del Generale. L'America preme e l'Italia inizia a organizzare retate e perquisizioni di massa negli ambienti politici frequentati dai membri della sinistra estrema. In tutto questo si ritroverà coinvolta Maria Vittoria Pichi, che verrà tratta in arresto al fianco del compagno Paolo. Riuscirà a raccontare quanto le è successo, sottolinea Senigallia Notizie, solo 27 anni dopo quei terribili giorni. Il pretesto del suo arresto sembra riconducibile alla presenza di alcuni volantini di organizzazioni para-terroristiche che verranno trovate nell'auto della coppia. Materiale che a detta della Pichi erano facilmente reperibili e distribuiti in tutte le assemblee della sua fazione politica. E la loro diffusione non implicava necessariamente far parte delle Brigate Rosse, motivo per cui sia Maria Vittoria che Paolo verranno prosciolti in seguito da ogni accusa.

Maria Vittoria Pichi, cento giorni in carcere. Anche se Maria Vittoria Pichi verrà considerata innocente agli occhi della giustizia, dopo 100 giorni di carcere ingiusto, il suo paese d'origine la vedrà per lungo tempo come una terrorista. E ancora di più come una raccomandata. L'ex farmacista verrà additata infatti come una finta innocente dai suoi compaesani, per via del presunto intervento del padre. Per Senigallia la Pichi rimarrà sempre una terrorista, sottolinea in un'intervista al giornale locale, soprattutto perché i titoloni altisonanti con cui è stato trattato il suo arresto colpiranno duramente la popolazione. Di contro, nessuno sembrerà ricordare i successivi, quelli che riguarderanno la sua assoluzione piena. Ed è anche il motivo per cui Maria Vittoria ha voluto scrivere il suo libro Come una lama, per ricordare ciò che è stato dimenticato dalla popolazione e per dire la sua in merito a quanto accaduto. Le accuse dirette alla donna coinvolgeranno tuttavia anche la famiglia, dato che i genitori rimarranno a vivere a Senigallia senza curarsi di ciò che stava avvenendo. E immancabilmente vivranno sulla loro pelle l'onta attribuita alla figlia, che riuscirà a togliersi di dosso solo grazie alla propria coscienza. Anche Maria Vittoria del resto è dovuta ritornare nella sua Senigallia a distanza di tanto tempo, molto dopo quei fatti degli anni Ottanta. Ed è lì che vive ancora, dove per molti rimane "la terrorista".

Patrick Lumumba. Il congolese ingiustamente accusato e incastrato da Amanda Knox (Sono Innocente). Nella puntata di questa sera di "Sono Innocente" si parlerà del delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba che fu ingiustamente accusato, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La vita di Patrick Lumumba verrà segnata in modo inesorabile dal delitto di Meredith Kercher. La studentessa 22enne di Londra viene uccisa nel novembre del 2007 in circostanze che appaiono subito oscure. Al centro delle indagini verranno messi subito tre nomi e non solo quello di Lumumba: Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La prima è la coinquilina della vittima, il secondo il ragazzo che Amanda frequenta in quel periodo. E sarà proprio la ragazza a fare il nome di Lumumba dopo diverse pressioni da parte delle autorità. Il caso di Patrick Lumumba verrà trattato nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 22 aprile 2018, in onda su Rai 3. Qual è il collegamento fra l'uomo e la ragazza di Seattle, oltre che di entrambi con Meredith Kercher? Amanda Knox all'epoca dei fatti lavora come barista nel bar gestito dall'uomo e lo indicherà in tempo record come responsabile del delitto di Meredith. Accuse infondate che le comporteranno una condanna a tre anni per calunnia nei suoi confronti. In un'intervista a La Zanzara, il programma di David Parenzo e Giuseppe Cruciani su Radio24, Lumumba si è dichiarato addolorato della successiva assoluzione della Knox, sicuro che sia in realtà colpevole dell'omicidio della coinquilina: "Sono sicuro che Amanda sa chi ha ucciso la povera Meredith, deve sapere cosa è successo. Sono convinto". Il congolese del resto non ha mai creduto al fatto che la ragazza lo avesse accusato solo per lo stress vissuto durante i molteplici interrogatori. Soprattutto alla luce dei dissapori che i due hanno sempre vissuto durante il loro rapporto di lavoro e che avevano spinto Lumumba a pensare di licenziare la ragazza poco prima dell'orrenda tragedia.

L’accusa di Amanda Knox. Patrick Lumumba verrà accusato dell'omicidio di Meredith Kercher e finirà in carcere per le accuse di una delle sospettate. Alla sua assoluzione verrà risarcito con 8 mila euro per ingiusta detenzione, un trattamento non equo ai suoi occhi. E non solo per quanto riguarda Amanda Knox, colei che lo farà finire in carcere e che volerà nella madre patria America subito dopo l'assoluzione. Anche per quanto riguarda il trattamento che il congolese sente di aver ricevuto dallo Stato italiano. A suo dire la Knox sarebbe inoltre a conoscenza di chi ha davvero compiuto il delitto e sarebbe così abile nel recitare da essere riuscita a farsi beffe persino delle autorità. Come ricorda Il Corriere della Sera, l'omicidio di Meredith verrà attribuito alla fine solo a Rudy Guede, unico dei tre imputati a rimanere dietro le sbarre e a subire la condanna. La Knox e Raffaele Sollecito verranno invece assolti in via definitiva nel corso degli anni successivi. All'epoca dei fatti Lumumba ha solo 37 anni e conosce bene sia la vittima che Amanda Knox. Sarà quest'ultima a indicare il suo nome agli inquirenti, strappandolo alla famiglia. Il congolese trascorrerà infatti due settimane dietro le sbarre prima di essere assolto da ogni accusa. E non per merito della Knox, che intanto non ritratterà mai le sue parole. A dimostrare l'innocenza di Patrick sarà un professore svizzero che testimonierà in suo favore. 

Patrick Lumumba assolto. Il nome di Patrick Lumumba verrà sempre associato all'omicidio di Meredith Kercher, la ragazza di 22 anni che lavorava saltuariamente nel suo bar. Anche in seguito al proscioglimento dalle accuse, il nome del congolese verrà usato spesso negli articoli di stampa a livello internazionale. Il delitto della ragazza americana coinvolge alla fine tre Paesi: il Congo, patria di Lumumba, l'America, che ha dato i natali ad Amanda Knox, amica e coinquilina di Meredith, e l'Italia grazie a Raffaele Sollecito. Non sarà infatti solo le dinamiche orrende con cui verrà compiuto l'omicidio di Meredith ad attirare l'attenzione della stampa internazionale, ma le origini dei tanti volti associati alla vicenda. Ed il nome di Lumumba verrà estratto dal cilindro dei ricordi anche in seguito alla distribuzione del documentario di Amanda Knox distribuito nel 2016 grazie alla piattaforma Netflix. Una carrellata dei fatti visti dal punto di vista di quella che è stata a tutti gli effetti una delle principali indiziate della tragedia. La tesi della ragazza americana negli anni è rimasta la stessa: lei e Sollecito hanno trovato il cadavere di Meredith solo dopo essere rientrati nell'appartamento che la vittima condivideva con altre tre ragazze. Come ricorda il giornale Bustle, Amanda farà leva su un messaggio inviato in risposta a Lumumba per dimostrare di averlo visto in seguito all'omicidio. Sarà materiale di una delle ritrattazioni successive della Knox, che a suo dire sarebbe costretta a parlare di un falso ricordo che la vedeva al fianco del congolese nell'appartamento della Kercher la notte del delitto.

Alberto Ogaristi. Assolto dopo la latitanza e 5 anni in carcere per un delitto non commesso (Sono Innocente). Nella puntata di questa sera di Sono Innocente si parlerà di Alberto Ogaristi, operaio di Casal di Principe arrestato e condannato all'ergastolo per un delitto che non aveva commesso, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". L'arresto di Alberto Ogaristi, avvenuto nel settembre del 2015, ha dato la possibilità alla stampa di additarlo come uno degli ultimi latitanti dei casalesi. Il clan mafioso lo avrebbe visto come uno dei fedelissimi della famiglia Schiavone, ma le autorità erano decise ad acciuffarlo anche per un altro motivo. Ogaristi viene infatti accusato di essere il responsabile dell'omicidio di Antonio Amato, uno degli affiliati della famiglia Tavoletta. Un testimone presente sulla scena del crimine punterà il dito contro l'uomo e spingerà le forze dell'ordine a considerarlo l'unico responsabile, per via della guerra innescata fra il clan della vittima e la famiglia Bidonetti, di cui fa parte l'accusato. Il caso di Alberto Ogaristi verrà trattato nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 22 aprile 2018, in onda su Rai 3. Diverso tempo dopo l'arresto di Ogaristi, mentre prende piede il suo incubo personale, un pentito inizia a indicare Luigi Grassia come il vero responsabile del delitto Amato. Le sue parole tuttavia non verranno prese in considerazione dai giudici, nemmeno quando alla prima rivelazione, scrive il Corriere del Mezzogiorno, si aggiungeranno le parole di altri due pentiti, Oreste Spagnuolo e Emilio Di Caterino. La Corte d'Appello di Roma indicherà infatti nel verdetto che la revisione del processo non può avere luogo, dato che le dichiarazioni dei pentiti sono da considerarsi inattendibili. 

La latitanza di Alberto Ogaristi. Il caso di Alberto Ogaristi inizia 18 febbraio del 2002, quando Antonio Amato viene ucciso nell'ambito della faida di camorra a Villa Literno. Tutto ruota attorno a un testimone che indica Ogaristi come il killer del mafioso. Il testimone è un uomo di origini albanesi legato alla vittima in quanto cognato, fidanzato della sorella di Amato. Ogaristi verrà subito portato in Caserma per un interrogatorio ed anche se informerà subito le forze dell'ordine di essere innocente, fornendo anche un alibi, la fidanzata dell'epoca non conferma le sue parole per un motivo oscuro. Tempo dopo la ragazza avrà modo di ritrattare tutto in tribunale e Ogaristi verrà rilasciato, ma il suo destino è nelle mani del testimone e del pm. Quest'ultimo infatti richiederà in Appello che il verdetto di assoluzione si trasformi in ergastolo per via della parentela dell'accusato con uno dei boss del clan dei Casalesi. Ogaristi tuttavia decide di non finire in carcere e diventa latitante, mentre le autorità iniziano la sua caccia, fino ad acciuffarlo nel luglio del 2007. Come scrive Il Corriere del Mezzogiorno, famiglia e conoscenti faranno petizioni e manifestazioni, ma cadranno tutte nel vuoto. L'uomo verrà condannato in ergastolo per omicidio volontario grazie ad una sentenza della Cassazione. In questo scenario va però tenuto in considerazione un altro particolare. Nello stesso periodo di tempo il testimone che lo ha indicato come assassino sparirà nel nulla. Il riconoscimento del latitante quindi verrà collegato solo alla sua foto segnaletica. 

L’assoluzione dopo cinque anni di carcere da innocente. Quattro anni di carcere prima che la verità inizi a emergere. Alberto Ogaristi dovrà attendere ben di più per ritrovare la sua libertà. Nel 2008, il pentito Massimo Iovine decide di raccontare la verità sul delitto di Antonio Amato e indica come veri responsabili Gaetano Ziello, Luigi Grassia e Luigi Guida, tre che verranno incarcerati nel giro di poco tempo grazie ai riscontri di Vincenzo Caputo, all'epoca gip di Napoli. L'identificazione dei colpevoli avrebbe dovuto di conseguenza permettere ad Ogaristi di ritornare libero, ma non sarà così. Dovrà attendere in tutto 12 anni di accuse perché la Corte d'Appello di Firenze, scrive Il Mattino, lo assolva dalle accuse. Il più grande rammarico del muratore di Casal di Principe sarà di dimostrare la propria innocenza solo in seguito alla morte del padre, a cui dedicherà la sua assoluzione. Il suo nome tuttavia rimarrà impresso nella stampa italiana come il latitante che è riuscito a sfuggire all'operazione “Spartacus reset” dell'Antimafia e associato in modo indelebile al clan Schiavone di Casal di Principe. La sua colpa, a quanto sembra, è principalmente quella di aver vissuto in quella Gomorra fatta di lotte e faide intestine, non solo fra mafia e Stato ma anche fra le famiglie stesse, i clan locali. 

Saverio De Sario. Assolto dopo essere stato condannato per abusi sui figli (Sono Innocente). Il caso di Saverio De Sario verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di domenica 29 aprile 2018, in onda su Rai 3 e condotta da Alberto Matano, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Poco più di un anno fa, Saverio De Sario è riuscito finalmente a rivedere la luce dopo un incubo durato 11 anni. Quattro dei quali trascorsi ingiustamente in carcere con una pesante accusa: aver violentato i due figli di 5 e 11 anni e una nipotina. Un'etichetta pesante da digerire, un'infamia che lo ha portato non solo a perdere la libertà per le denunce degli stessi ragazzini, ma a dover combattere per diversi gradi di giudizio prima di essere riconosciuto come innocente. Quanto accaduto a Saverio De Sario verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, a partire da quell'accusa che diventerà un marchio a fuoco fino alla ritrovata libertà grazie agli stessi figli che, una volta adulti, hanno scagionato il genitore. De Sario infatti viene accusato di violenza su minore e condannato per aver abusato i due ragazzini a dieci anni di carcere. Una sentenza diventata definitiva nel 2015 e poi rivista grazie alla Corte d'Appello di Perugia, in seguito a due richieste, una delle quali andata a vuoto. A permettere a Saverio di rivedere la luce del sole e uscire dal suo incubo personale saranno proprio le testimonianze dei figli Gabriele e Michele, scrive La Repubblica, che confermeranno come in realtà quella falsa confessione sia stata strappata loro dalla madre. 

Il rapporto con i figli. Saverio De Sario e i figli avevano perso ogni speranza di poter ottenere finalmente giustizia. La lotta dell'uomo contro l'accusa di violenza sui figli è stata infatti condivisa con i due ragazzi, oggi più che adulti, e che all'epoca dei fatti erano solo dei bambini. I fatti risalgono al 2001, quando il matrimonio fra De Sario e la moglie si inasprisce a causa dell'affidamento dei due ragazzi. Qualche anno più tardi è la moglie Angela ad aprire quella che sarà l'odissea dell'uomo, riuscendo nel frattempo a ottenere l'affidamento dei due figli in via esclusiva. Una verità emersa già otto anni più tardi grazie a un memoriale del figlio maggiore, Gabriele, ampiamente ignorato dagli educatori della comunità di Brescia a cui era stato affidato. In quello scritto emerge una nuova versione dei fatti: sarebbe stata Angela, come riporta una ricostruzione de La Vita in Diretta, a spingere i due figli ad accusare ingiustamente il padre. Il tutto per un motivo di gelosie e vendette dovute alla separazione in corso. Eppure tutto questo non impedirà a De Sario di ritrovarsi in carcere per due volte, in una realtà disagiata e ostile. Nelle notti nascoste in carcere, sottolinea nell'intervista, è riuscito a rimanere in piedi solo grazie alla consapevolezza di essere innocente e alla certezza che la verità sarebbe presto emersa. Senza dimenticare il sostegno dei due figli, che lo hanno supportato con tutte le loro forze. Gabriele all'epoca era già consapevole che la madre cercasse di manipolare lui ed il fratello in ogni modo, ma non riusciva comunque a dire la verità. Non era solo una violenza psicologica, ha riferito, ma anche fisica: la donna infatti avrebbe picchiato i figli per costringerli a portare avanti le false accuse. 

Le responsabilità della moglie di Saverio De Sario. Anche se i figli hanno contribuito a farlo finire in carcere, Saverio De Sario non ha mai avuto alcun risentimento nei confronti di Gabriele e Michele. Fin dalla prima incarcerazione, era sicuro che le accuse che i due ragazzini gli avevano mosso erano dovute all'influenza di una terza persona. Anzi, durante i primi anni di penitenziario De Sario ha cercato comunque di inviare dei regali ai figli, senza mai riuscirci per via del regime carcerario ristretto. Anche se i due figli hanno ritrattato tutto, la versione dell'ex moglie di De Sario è sempre stata diversa. Gabriele nel memoriale depositato agli atti e utile alla scarcerazione del padre, parla anche di come la madre Angela avrebbe abbandonato entrambi i figli. Come ha sottolineato a La Vita in Diretta, il figlio Gabriele in particolare sarebbe stato testimone dei grandi problemi che erano presenti nel matrimonio dei genitori. I due ragazzi avrebbero cercato poi di dimostrare l'innocenza del padre solo per il forte senso di colpa provato per averlo fatto incarcerare. Gabriele invece non crede che potrà mai perdonare la madre per quello che è successo, anche se sia lui che il fratello Michele hanno deciso di guardare avanti e di lasciarsi tutto alle spalle. Secondo il minore dei De Sario l'errore deve invece essere esteso anche alle autorità che non hanno indagato a fondo sulle accuse ed hanno accettato la denuncia senza alcun tipo di approfondimento.

Filippo La Mantia. Sei mesi all'Ucciardone per errore: da fotografo a chef (Sono Innocente). Lo chef Filippo La Mantia è stato sei mesi nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Entrato come fotoreporter, è uscito come cuoco. La sua vicenda giudiziaria nella puntata di Sono Innocente, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Il nome di Filippo La Mantia, oggi uno degli chef più rinomati d'Italia, è strettamente collegato con Ninni Cassarà. Il vicequestore ucciso da Cosa Nostra nell'agosto del 1985 è stato raggiunto infatti da una raffica di mitra mentre si trovava di sui gradini di casa, la stessa che era stata affittata tempo prima al cuoco. Per questo, in quanto ultimo a risultare inquilino dell'appartamento, La Mantia è stato tradotto in carcere a Palermo, dove ha vissuto sei mesi prima di dimostrare la propria innocenza. La storia di Filippo La Mantia verrà raccontata nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, ripercorrendo i difficili mesi vissuti dal giovane che all'epoca svolgeva la professione di reporter. L'esperienza in carcere, sottolinea lo chef a Il Corriere della Sera, gli ha permesso alla fine di scoprire la passione per la cucina. È infatti in carcere che inizia a destreggiarsi fra i fornelli, cucinando per 11 detenuti con cui condivideva una cella dell'Ucciardone, il penitenziario di Palermo. È forse l'unico modo per il futuro cuoco di rimanere ancorato a quell'infanzia fatta di profumi e sapori di libertà e di affetti. In quel momento La Mantia inizia a sperare ogni giorno di poter dimostrare di essere innocente, soprattutto perché la casa da cui sono partiti i colpi diretti a Cassarà l'aveva abbandonata diversi mesi prima della tragedia. 

Filippo La Mantia: da fotografo a chef. Filippo La Mantia riuscirà alla fine a dimostrare di essere estraneo alla morte di Ninni Cassarà, ma dietro quelle sbarre non finirà solo il giovane 25enne siciliano. Si chiuderà in qualche modo anche la professione che in quattro anni gli hanno permesso di diventare uno dei fotografi più apprezzati di Palermo. La Mantia ricorda bene quel giorno, l'entrata in carcere, le porte del penitenziario che si chiudono dietro di lui e la sicurezza di aver perso anche il suo futuro professionale. È in quel momento che realizza tutto, anche di poter contare solo sui propri sogni. E non solo per quanto riguarda la libertà da ritrovare, ma anche quella passione che presto gli permetterà di diventare famoso come chef italiano. Il provvedimento di Giovanni Falcone lo rende di nuovo un uomo libero sei mesi dopo il suo arresto, ricorda in un'intervista a Il Corriere della Sera, ma occorreranno molti anni prima di riuscire a ingranare davvero come cuoco. Un sogno diventato realtà grazie al trasferimento a Roma, a una dura gavetta e infine all'apertura del suo primo ristorante, avvenuto quando aveva 54 anni, nella cornice di Milano. Un piccolo passo prima della replica del successo, grazie all'apertura di un nuovo locale e alla scalata come oste e cuoco italiano. Di certo non ha mai ambito a riconoscimenti e stelle, confida, ma a realizzare quell'unico obbiettivo che gli ha permesso di rimettersi in pista ed a trasformare un ostacolo in una grande opportunità. 

Lo chef che cucina senza aglio e cipolla. In carcere per un errore, Filippo La Mantia non è riuscito solo a lasciarsi alle spalle quei brutti mesi che ha trascorso dietro le sbarre dell'Ucciardone di Palermo. E non ha solo trasformato quest'esperienza nel suo futuro successo come oste cuoco, come ama definirsi. Anche nella vita privata La Mantia è riuscito a realizzarsi a tutto tondo, grazie al supporto della compagna Chiara Maci e alla nascita del loro primo figlio. In realtà il successo del palermitano avviene molto prima, quando appena ventenne è uno dei fotoreporter più apprezzati in Sicilia. È stato infatti uno dei primi a raggiungere la scena del crimine in cui è stato ucciso il Generale Dalla Chiesa, ricorda Vanity Fair. Eppure basterà un solo dettaglio perché La Mantia venga etichettato come un affiliato della mafia, per via di quell'appartamento coinvolto nella morte del vicequestore Ninni Cassarà. Una casa che lo chef aveva lasciato otto mesi prima, trasferendosi poi a Mondello. Di quel periodo però non ricorda solo il dolore, la sofferenza, ma anche la famiglia e la tradizione. Due elementi che ha cercato di infondere nei piatti che proponeva ai detenuti, soprattutto grazie all'assenza di aglio e cipolla. Due prodotti che non ama e che ha deciso di togliere del tutto dalle proprie creazioni, sicuro che ogni cuoco che si rispetti debba adeguarsi al gusto delle persone e non viceversa. Facendo questa piccola modifica ha scoperto infatti che tante altre persone non sopportano quei due particolari ingredienti e che molti accettano la loro presenza nei piatti solo perché piegati al volere dello chef.

Fulvio Passananti. Scambiato per il ladro, nove mesi in carcere (Sono Innocente). Il caso di Fulvio Passananti, scambiato per il responsabile di una rapina all'Oro Trade di Chirignago, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Il caso di Fulvio Passananti rientra fra gli errori giudiziari del nostro Paese ed inizia nel 2011, quando l'uomo viene accusato di rapina ai danni dell'Oro Trade di Chirignago, in provincia di Venezia, e di sequestro di persona. In quei momenti infatti avrebbe rinchiuso una commessa del contro/vendo oro per due minuti all'interno di un bagno. La ricostruzione dei fatti risale al 19 gennaio di quell'anno ed il volto di Passananti verrà associato a quello del ladro grazie alla testimonianza dell'addetta alle vendite. Quanto accaduto a Fulvio Passananti verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, a partire dall'alibi che l'uomo esibirà nell'immediato alla pm Carlotta Franceschini. Come riporta La Nuova Venezia, il presunto ladro infatti riferirà subito che al momento della rapina si trovava a 15 km di distanza dal negozio, per sostenere un colloquio in un paese vicino. Una distanza che tuttavia agli occhi degli inquirenti avrebbe potuto comunque compiere per poter mettere in atto il crimine. Ma nella storia di Passananti c'è molto di più: la stessa testimone, poche ore dopo il riconoscimento dell'uomo grazie alla foto segnaletica, avrebbe riferito agli investigatori di essersi sbagliata. Un'affermazione che verrà però ascoltata diversi mesi più tardi, nove per l'esattezza, quando l'imputato verrà considerato innocente e rilasciato per ingiusta detenzione. 

La testimonianza della commessa. Il nome di Fulvio Passananti non è di certo sconosciuto alle autorità quando la commessa di un compro/vendo oro della provincia di Venezia riconoscerà nella sua foto l'uomo che ha rapinato il punto vendita. È la donna l'unica testimone di quanto avvenuto in quei momenti, in quel gennaio del 2011, quando un uomo irrompe nel negozio e la spinge contro il muro, intimandole di consegnargli l'incasso prima di rinchiuderla dentro al bagno del locale. Durante la denuncia, la donna riconoscerà Passananti grazie alle foto segnaletiche: l'uomo infatti ha alle spalle diversi precedenti alle spalle. Alcuni specifici, come sottolinea Il Corriere del Veneto. Eppure alcune ore dopo la donna rivede il vero rapinatore all'esterno del negozio e riferirà agli inquirenti di non essere più sicura del riconoscimento precedente, ma non verrà ascoltata. Anche per questo la Procura di Venezia deciderà alla fine di aprire un fascicolo per indagare meglio su quanto avvenuto, mentre il tribunale dichiarerà Passananti come innocente. Una decisione contraria a quanto proposto dal pm Carlotta Franceschetti, che avrebbe invece richiesto l'assoluzione per insufficienza di prove. La testimonianza della commessa si rivelerà alla fine sufficiente per i giudici per dimostrare l'estraneità dell'uomo ai fatti, così come la ricostruzione dell'avvocato difensore. Il legale infatti ha dimostrato durante l'udienza che pochi minuti prima della rapina il suo cliente si trovava a diversi km di distanza dalla scena del crimine, in una località che aveva raggiunto in bicicletta. Per questo non avrebbe potuto percorrere in un così breve lasso di tempo la distanza necessaria per raggiungere il negozio rapinato. 

La famiglia di Fulvio Passananti. La storia di Fulvio Passananti inizia a Napoli, nel quartiere Vomero, dove viveva con i genitori e i fratelli più grandi. Sono diversi i punti cruciali che lo porteranno a seguire poi le cattive amicizie e a percorrere una strada buia che lo spingeranno poi verso l'arresto, anche se come innocente. Appena 18enne perde infatti la madre in un incidente stradale e l'evento spacca la famiglia, provocando dolore nel padre e nei fratelli. "Erano conosciuti come i fidanzatini", dice Passananti a Siamo Noi, il programma di Tv2000, per indicare quanto la coppia fosse legata e innamorata. Alla morte del padre, l'uomo decide di trasferirsi in Veneto, in una provincia in cui cercherà di rifarsi una vita e allontanarsi dal passato, dai reati penali che gli erano già stati imputati. Il giorno della rapina di Chirignago, vicino Mestre, Passananti ricorda di essersi sentito isolato e di aver iniziato a capire che cosa era successo grazie agli articoli dei giornali. Verrà infatti accusato di aver rapinato un negozio del paese e di aver sequestrato una commessa. Trascorrerà nove mesi in carcere, lasciando a casa tre figli, di cui solo uno maggiorenne. L'evento non travolgerà quindi solo il diretto accusato, ma anche i ragazzi che pagheranno sia in termini economici che morali. I figli infatti saranno costretti ad affrontare numerosi viaggi da Napoli, luogo di residenza, fino a Venezia, dove il padre viene incarcerato. Passananti però riuscirà a vedere per la prima volta la famiglia solo dopo alcuni mesi di detenzione, a causa di un rallentamento burocratico.

Vito Gamberale. Le ingiuste accuse di concussione e il racconto della figlia Chiara (Io sono innocente). Vito Gamberale, le ingiuste accuse di concussione e il racconto della figlia Chiara su Rai Tre. La storia dell'uomo arrestato e infine assolto dopo anni, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Arrestato e in carcere, poi agli arresti domiciliari e infine assolto: le accuse contro Vito Gamberale, all'epoca amministratore delegato della Sip, riguardavano alcuni favori richiesti ad una società fornitrice della compagnia telefonica italiana. Il suo arresto avviene nell'ottobre del '93, quando Gamberale viene trasportato nel carcere di Poggioreale, in provincia di Napoli, dove trascorrerà 16 giorni. Il caso di Vito Gamberale verrà approfondito da Sono Innocente nella puntata di questa sera, domenica 6 maggio 2018, a partire dai dettagli dell'accusa. Secondo le indagini, l'amministratore delegato della Sip aveva ridotto le commesse della Ipm, società fornitrice, per via di quattro assunzioni non andate a buon fine e raccomandate da Giulio Di Donato, all'epoca vice segretario del Psi. L'arresto di Gamberale precede tuttavia l'interrogatorio di Paolo De Feo, il titolare dell'Ipm che confermerà un'ora dopo le accuse contro il manager. A questo si aggiunge anche il fatto che Carmine Meloro, un testimone contro il manager, ammetterà alcuni giorni dopo ai legali dell'accusato di aver dichiarato il falso solo per ottenere la libertà. Negli anni successivi, ricorda La Repubblica, si era ventilata persino l'idea di realizzare una fiction sull'arresto di Gamberale. Un'ipotesi ostacolata da Giantomaso de Matteis, deciso a rimanere chiuso nel silenzio, e persino da don Luigi Ciotti. Secondo il prete, da sempre vicino agli oppressi, la Rai avrebbe rischiato di banalizzare con il prodotto tutta la vicenda accaduta al manager.

VITO GAMBERALE E L'INGIUSTA DETENZIONE. 290 milioni delle vecchie lire per Vito Gamberale e l'ingiusta detenzione per l'accusa di concussione. Un risarcimento salato per lo Stato Italiano, che ha dovuto riconoscere l'innocenza di un uomo che ad oggi è considerato uno dei big dell'economia italiana. Negli anni successivi alla vicenda giudiziaria infatti, Gamberale diventerà una figura centrale in Telecom Italia, poi in Autostrade Spa ed infine anche nel settore delle energie rinnovabili. Una sfida continua che inizia anche quel giorno in cui si ritrova agli arresti per accuse che attirarono anche l'attenzione di Oscar Luigi Scalfaro. In quei giorni di carcere, riferisce don Ciotti, ha cercato personalmente di incontrare Gamberale, ma la visita gli venne negata. La richiesta era stata mossa da alcuni amici del sacerdote nel Natale del '93, come racconta a La Repubblica, per permettere al manager di poter raccontare la propria verità. L'incontro fra don Ciotti e Gamberale invece avverrà solo in seguito alla scarcerazione dell'uomo, così come con la figlia Chiara, che non ha mai smesso di supportare il genitore e di inviargli lettere piene di dubbi e di speranza.

IL RACCONTO DELL'EX AMMINISTRATORE DELEGATO DELLA SIP E DELLA FIGLIA CHIARA. La storia di Vito Gamberale verrà raccontata a Io sono Innocente dalla viva voce dell'ex amministratore delegato della Sip e della figlia Chiara. Un pilastro della famiglia dell'uomo, duramente colpita per quanto avvenuto negli anni Novanta. Chiara Gamberale, oggi scrittrice e conduttrice, ha confidato alle pagine del suo Una vita sottile, il primo romanzo scritto nel '99, tutto il dolore provato in quei giorni. Le conseguenze dell'arresto del padre si ripercuoteranno infatti sulla figlia 16enne, quasi cancellata da una fragilità che ha cercato di sconfiggere con la forza della determinazione. Vito Gamberale e la figlia Chiara si ritrovano così a vivere la stessa sofferenza sotto due punti di vista. Per il primo l'arresto rappresenta un'ingiustizia da combattere, mentre per la figlia si tratta di confrontarsi con lo spettro della bulimia e dell'anoressia. Sul punto di uccidersi, quanto vissuto in quei giorni la accompagnerà per tutta la vita. In occasione della diffusione del film dal titolo omonimo al romanzo e diretto da Gianfranco Albano, per Chiara Gamberale è stato impossibile non rievocare quei momenti e soffrire per quel punto di rottura, quel cambiamento che l'ha portata poi a riconciliarsi con se stessa. Anche per Gamberale l'impatto con il film è stato forte, come racconta a La Repubblica, soprattutto nel ricordare quanto sia difficile difendersi quando si è innocenti.

Carmine Belli. Vittima della giustizia, non un mostro: chi ha ucciso Serena Mollicone? (Io sono Innocente). Carmine Belli, una vittima della giustizia e non un mostro. Chi ha ucciso Serena Mollicone? La trasmissione ripercorre i passi con la ricostruzione dell'accusa, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". 17 mesi di carcere prima che Carmine Belli venisse scagionato dall'accusa di aver ucciso Serena Mollicone. Una pagina tragica della cronaca italiana che ferma il tempo a quanto accaduto nel giugno del 2001. A differenza dei sospetti dei familiari, le indagini degli inquirenti si concentrano ad un certo punto sulla figura del carrozziere di Rocca D'Arce, in provincia di Frosinone, per via della mancanza di un alibi che confermasse dove si trovava quella mattina in cui Serena è stata vista entrare nella Caserma di Arce e non uscirne mai più viva. Sono Innocente ripercorrerà la vicenda giudiziaria di Carmine Belli, assolto da ogni accusa grazie al verdetto definitivo della Cassazione, come ricorda La Repubblica, nella puntata di oggi, domenica 6 maggio 2018. Un verdetto che non ha convinto il padre della vittima, Guglielmo Mollicone, sempre più convinto invece della sua colpevolezza. Nel corso del processo, ai suoi occhi Belli avrebbe persino lasciato intendere di aver avuto nei complici. Ed in questo quadro si affianca la richiesta dell'accusa che il carrozziere venisse condannato a 23 anni di detenzione, soprattutto per via di quel famoso bigliettino di proprietà di Serena che è stato ritrovato nell'officina dell'uomo. Un foglietto in cui la ragazza aveva segnato la data e l'orario dell'appuntamento con il dentista.

LA RICOSTRUZIONE DELL'ACCUSA A CARMINE BELLI. La ricostruzione dell'accusa che ha permesso l'incarcerazione di Carmine Belli inizia dall'abitudine di Serena Mollicone di spostarsi grazie all'autostop. Sarebbe in questa occasione che la mattina del giugno del 2001 avrebbe incontrato la ragazza, nell'Isola Liri. Secondo l'accusa il carrozziere avrebbe inoltre fatto delle avances alla ragazza ed al suo rifiuto avrebbe reagito colpendola sul volto con un oggetto. Solo in un secondo momento l'uomo avrebbe ultimato il delitto e si sarebbe sbarazzato del corpo, lasciandolo ormai privo di vita nel boschetto di Anitrella. Una tesi inesistente agli occhi dei legali di Belli, che fin dalle accuse che sono state mosse al loro assistito, hanno evidenziato come non ci fossero prove che confermassero la sua colpevolezza. Una visione che corrisponde con l'assenza di tracce della vittima nell'auto del carrozziere, così come le impronte del Belli sul corpo della ragazza e sui vestiti. A complicare la posizione dell'uomo era stata all'epoca la decisione dell'ex socio di ritirare la propria deposizione. Come ricorda La Repubblica, Pierpaolo Tomaselli aveva infatti inizialmente confermato l'alibi di Belli, indicandolo all'interno dell'officina nell'arco di tempo in cui Serena veniva uccisa.

UNA VITTIMA DELLA GIUSTIZIA, NON UN MOSTRO. Una vittima della giustizia e non un mostro. Si è definito così Carmine Belli in seguito al rilascio atteso per 17 mesi, trascorsi in carcere con l'accusa di essere l'assassino di Serena Mollicone. Il caso della giovane di Arce ha preso nuovo vigore negli ultimi tempi grazie alla determinazione del padre della vittima di non fermarsi e di volere giustizia per la morte della 18enne. Gli inquirenti infatti hanno abbandonato la pista di Belli seguendone un'altra più importante, che accende i riflettori sui Carabinieri presenti nella Caserma di Arce quel triste giorno. Si parla dell'ex Comandante Mottola, del figlio e della moglie, così come di altri due Carabinieri che erano in servizio quel giorno. Anche se il carrozziere è stato assolto, la sua preoccupazione è stata invece cercare di riabilitarsi agli occhi dell'opinione pubblica. Come rivelato a Storie Vere, Belli spera che siano proprio le nuove indagini ad annullare qualsiasi dubbio ancora vivo nella comunità in cui vive. Del giorno del suo arresto, avvenuto nel febbraio del 2003, il carrozziere ricorda la consapevolezza di aver intuito di essere diventato il capro espiatorio per il delitto di Serena Mollicone. I primi sei mesi di carcere sono stati particolarmente duri per Belli, guardato a vista dalle guardie del penitenziario. Solo in seguito la direttrice gli avrebbe offerto un lavoro all'interno della struttura.

Delitto di Arce, la perizia del Ris conferma: "Serena Mollicone uccisa nella caserma dei carabinieri". I militari hanno analizzato i frammenti di legno recuperati nel corso della nuova autopsia sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne uccisa nel 2001, scrive Clemente Pistilli il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Serena Mollicone è stata uccisa all'interno della caserma dei carabinieri di Arce. Al principale sospetto dei magistrati di Cassino, impegnati a distanza di 17 anni dall'omicidio a far luce sulla morte della ragazza, è arrivata ora la conferma dai carabinieri del Ris. Gli investigatori in camice bianco hanno ultimato la perizia sui frammenti di legno recuperati, nel corso della nuova autopsia effettuata sulla salma della vittima, sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne e si sono convinti che quel materiale provenisse dai locali appunto della caserma. Il 1 giugno 2001 Serena Mollicone, 18enne di Arce, in provincia di Frosinone, uscì di casa per recarsi all'ospedale di Isola Liri e nel primo pomeriggio, rientrata nel suo paese, sparì. Il corpo della giovane studentessa venne trovato due giorni dopo da alcuni volontari della Protezione civile in un boschetto di Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, con un sacchetto di plastica sulla testa, e le mani e i piedi legati. Venne presto indagato un carrozziere di Rocca d'Arce, con cui la diciottenne si sospettò avesse un appuntamento, Carmine Belli, ma l’uomo venne prosciolto in via definitiva ed è ora tra quanti invocano giustizia per Serena. Nel 2008 poi si verificò un altro episodio misterioso, il suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che era tra i militari presenti in caserma il giorno della scomparsa della 18enne. Un dramma che ha portato gli investigatori a intensificare le nuove indagini intanto aperte per cercare di scoprire i colpevoli dell’omicidio. In Procura a Cassino si sono man mano convinti che la giovane sia stata picchiata a morte, dopo un violento litigio, all'interno della caserma dell'Arma di Arce, dove si era recata forse per denunciare strani traffici in paese, che sia stata portata agonizzante nel boschetto di Anitrella e che, scoperto che respirava ancora, sia stata soffocata. Un omicidio a cui avrebbe fatto seguito una serie di depistaggi. Sono stati così indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l'ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, il luogotenente Vincenzo Quatrale per concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, e l'appuntato Francesco Suprano per favoreggiamento. Le indagini dei carabinieri di Frosinone, consegnata anche la perizia dei Ris, appaiono ormai concluse e a breve il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo dovrebbe tirare le somme. Forse l'ora della verità su uno dei peggiori cold case italiani è giunta.

Pietro Melis. 18 anni di vita rubata per il rapimento di Vanna Licheri mai commesso (Io sono innocente). Pietro Paolo Melis, 18 anni di vita rubata per il rapimento di Vanna Licheri mai commesso. Su Rai Tre si ripercorrono le tappe di questa storia che ha dell'assurdo, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Per 18 anni Pietro Paolo Melis è stato considerato il responsabile del sequestro di Vanna Licheri, la possidente di Abbasanta rapita in Sardegna nel 1995 e mai più tornata a casa. Il ruolo di Melis per gli inquirenti è chiaro: era lui la mente del sequestro e per questo la richiesta dell'accusa era di 30 anni di carcere. Pietro Paolo Melis verrà invece scarcerato nel luglio del 2016 con formula piena e la sua vicenda processuale verrà raccontata a Sono Innocente nella puntata di oggi, domenica 6 maggio 2018. Al centro della scarcerazione immediata richiesta dalla Corte d'Appello di Perugia la contestazione dei consulenti di parte riguardo alla perizia fonica che incastrava Melis. In un'intercettazione ambientale, la voce di un uomo collegato al rapimento della Licheri era stata riconosciuta come quella dell'imputato. Una tesi smontata dai legali dell'uomo, uscito dal carcere a 54 anni d'età, grazie all'uso di software particolari. Come ricorda la Nuova Sardegna, la morte di Vanna Licheri sarebbe avvenuta a pochi mesi dal suo sequestro, nell'ottobre del '95. E' in questo mese infatti che i rapitori hanno interrotto ogni contatto con i familiari della donna.

PIETRO MELIS, 18 ANNI DI VITA RUBATA. Pietro Paolo Melis non potrà più riavere quei 18 anni trascorsi in carcere con l'accusa ingiusta di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri. Nonostante la durezza dell'esperienza in penitenziario, l'uomo non ha mai perso la speranza di poter dimostrare finalmente la propria innocenza, anche se ogni giorno trascorso dietro le sbarre è apparso sempre più lungo di quanto effettivamente fosse. In un'intervista a Quotidiano, Melis ha sottolineato di essere felice della solidarietà e affetto ricevuti da conoscenti e amici in seguito al suo rilascio. Non si aspettava di poter contare ancora su tante persone. Così come non può dimenticare come l'arresto lo abbia privato di un momento importante della sua vita e carriera, dato che in quel periodo stava realizzando dei passi significativi a livello economico e familiare. Gli è stato impedito di creare quella famiglia che sognava da tempo, un sogno spezzato che non ha potuto più inseguire una volta libero. Studia e cura della propria salute sono stati i salvavita di Melis, che ha cercato di dedicare tutto se stesso all'esercizio fisico ed a diplomarsi in tessitura. La speranza invece non l'ha mai persa, anche nei momenti più bui. Anche di fronte alle condanne, una delusione molto forte che è riuscito a affrontare grazie al sostegno della sorella Rita e degli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci. Sono loro ad aver lottato al suo fianco per tanti anni perché la verità potesse emergere.

ARRESTATO PER IL RAPIMENTO DI VANNA LICHERI. Allevatore della provincia di Nuoro, Pietro Paolo Melis aveva 38 anni quando il dicembre del '98 viene arrestato con l'accusa di essere l'ideatore del rapimento di Vanna Licheri. La donna era scomparsa da Abbasanta, in provincia di Oristano, nel maggio del '95 ed in seguito considerata morta anche se il suo corpo non venne mai ritrovato. Melis non è stato l'unico a finire dietro le sbarre per il rapimento Licheri: la condanna ha colpito anche Giovanni Gaddone, così come per il fratello Sebastiano Gaddone e Tonino Congiu, questi ultimi due considerati i custodi della donna rapita e Salvatore Carta. Uniti nella condanna così come nella revisione del processo, ricorda La Nuova Sardegna: anche Gaddoni avrebbe potuto ottenere la libertà in seguito alla scarcerazione di Melis, evento che tuttavia non è avvenuto. Melis invece è riuscito a dimostrare di non aver mai conosciuto Vanna Licheri, come affermato fin dall'inizio della sua vicenda giudiziaria. Così come conosceva solo di vista Gaddone, colui che nel settembre del '95 avrebbe avuto quella conversazione in auto che avrebbe incastrato l'allevatore. In un'intervista a Panorama, l'uomo racconta come prima dell'arresto avesse già ricevuto un avviso di garanzia per il rapimento della donna e di aver pensato allora che avrebbe potuto chiarire tutto in Commissariato nell'arco di qualche ora.

Sono innocente. Anticipazioni 13 maggio 2018: Alberto Matano incontra i protagonisti della scorsa stagione. Ultimo appuntamento con Sei Innocente: Alberto Matano conduce una puntata speciale incontrando sei protagonisti della scorsa edizione e ripercorrendo la loro storia, scrive il 13 maggio 2018 Stella Di Benedetto su "Il Sussidiario". Oggi, domenica 13 maggio, a partire dalle 21.25 su Raitre, Alberto Matano conduce l’ultimo appuntamento con “Sono innocente”, il programma che racconta i momenti drammatici vissuti da chi, da innocente, si ritrova ad essere accusato di un reato che non ha mai commesso. In alcuni casi, dopo anni trascorsi in carcere, le vittime della legge riescono a riconquistare la libertà e a riprendersi la propria vita. In altri casi, invece, le vicende si concludono nel peggiore dei modi. Quella di questa sera sarà una puntata speciale. Alberto Matano incontra sei protagonisti della scorsa edizione con cui ripercorrerà i momenti drammatici della loro vicenda svelando quello che è successo nel corso dell’ultimo anno. Nell’ultima puntata di Sono Innocente, il conduttore Alberto Matano incontra Giuseppe Gulotta, accusato dell’omicidio di due carabinieri nel 1976 ad Alcamo in provincia di Trapani. Dopo aver trascorso, da innocente, 22 anni in carcere, ha riacquistato la libertà nel 2012 ottenendo un risarcimento da 6 milioni di euro. Maria Andò, nel 2007, è stata accusata di aver partecipato ad una rapina insieme ad un ragazzo e di aver ridotto in fin di vita un tassista di Catania. All’epoca aveva solo 22 anni ed era una studentessa e ha trascorso in carcere ben nove anni. Alberto Matano, inoltre, incontra Diego Olivieri, Corrado Di Giovanni, Lucia Fiumberti e Francesco Raiola, anche loro vittime di una ingiusta detenzione.

Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere per un tragico errore: a che serve ora il risarcimento? (Sono Innocente). Giuseppe Gulotta, il muratore di Firenze è stato in carcere per 22 anni con l'accusa ingiusta di aver ucciso due Carabinieri. Un risarcimento record e una vita incrinata (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussiadiario". 6 milioni e mezzo di euro per risarcire Giuseppe Gulotta, il muratore della provincia di Firenze che è stato detenuto per 22 anni con l'ingiusta accusa di aver ucciso due Carabinieri. Era il 1976 quando l'uomo viene costretto a firmare una confessione in cui ammette il duplice delitto. Una tortura che gli è costata alla fine 33 anni di accuse e l'etichetta di assassino, oltre che a tutta la sua giovinezza e parte della vita adulta. La storia di Giuseppe Gulotta verrà raccontata nella puntata di oggi, domenica 13 maggio 2018, da Sono Innocente, il programma di Alberto Matano sugli errori giudiziari del nostro Paese. Ed è proprio di questo che si tratta, un clamoroso errore, uno degli episodi più bui per la Giustizia italiana. Il nome di Gulotta viene associato alla morte di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, avvenuta in provincia di Trapani a metà degli anni Settanta, come ricorda nel suo libro Alkamar, scritto a due mani con il giornalista Nicola Biondo. Sono anni importanti per la storia del nostro Paese, in cui il clima di paura e violenza vede la Sicilia impegnata in un forte contrasto fra Stato e criminalità. La decisione del colonnello Giuseppe Russo è di ottenere giustizia per i due militari uccisi, anche a costo di torture, finte esecuzioni, pestaggi e molto altro ancora. La macchina da guerra delle autorità si fermerà infine solo quando Giuseppe Gulotta verrà indicato come colpevole, ma non quella di Cosa Nostra, che un anno dopo a quegli eventi, metterà fine alla vita di Russo.

UN PERIODO PARTICOLARE NON SOLO PER IL CARCERE. La vita di Giuseppe Gulotta non finisce solo nel vortice del carcere, in anni in cui lo Stato e la mafia sono divisi da confini sottili. Un periodo in cui perdono la vita importanti icone dell'Antimafia, come il giornalista Mario Francese e molti altri ancora, ma anche in cui i segreti di Stato nascondono eventi che non devono trapelare e sfuggire al clima di silenzio che avvolge la Sicilia. Ed è in questo quadro che Peppino Impastato perde la vita, mentre il Colonnello Russo muove importanti squadroni per torturare chi potrebbe essere in possesso di importanti informazioni. Fra questi c'è anche Giuseppe Gulotta, un ragazzo all'epoca appena 18enne e che non riuscirà a contrastare le torture, le accuse. Come stabilirà la Cassazione diversi decenni dopo, ricorda Il Fatto Quotidiano, le azioni dei Carabinieri non produrranno solo una catena di errori giudiziari, ma vedranno alcuni elementi dell'Arma inventare prove, nascondere altri indizi importanti agli occhi dei giudici. Ed a farne le spese sarà chi, come Gulotta, non avrà i mezzi per smacchiare il proprio nome da accuse così pesanti.

LA STRAGE DI ALCAMO: MARINA E I SUOI COLPEVOLI. La strage di Alcamo Marina vede un crescendo di sospetti che porteranno alla fine all'arresto e la reclusione di Giuseppe Gulotta, al fianco di altri giovani del luogo. Inizialmente si pensa ad un intervento delle Brigate Rosse, sempre più acerbe in quegli anni e forse intenzionate per molti motivi ad uccidere i due Carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. A farne le spese alla fine saranno Gulotta, Giuseppe Vesco, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà. Solo quest'ultimo e Gulotta tuttavia verranno condannati all'ergastolo, nonostante ritratteranno la propria confessione subito dopo. Per parlare di errore giudiziario per il caso Gulotta, sottolinea Oggi, si dovrà però attendere che l'ex brigadiere Renato Olino ammetta che le confessioni sono state estorte grazie a torture che prevedono annegamento simulato, elettroshock e molto altro ancora. Ed anche in quel momento l'allora 18enne sarà fra i pochi a ritrovarsi per decenni dietro le sbarre, visto che Santangelo e Ferrantelli emigreranno in Brasile prima della sentenza definitiva, mentre Mandalà si toglierà la vita in circostanze misteriose nel '98. E forse la beffa non finisce nemmeno quando finalmente le porte del carcere si aprono e Gulotta ritrova quella libertà perduta. La richiesta del difensore, l'avvocato Pardo Cellini, di ottenere 65 milioni di euro per la detenzione ingiusta del suo cliente, verrà accettata solo in minima parte. 6,5 milioni di euro per chi ha perso gran parte della sua vita pur essendo innocente.

Maria Andò. Accusata di rapina e tentato omicidio: a salvarla dei testimoni... (Sono Innocente). Maria Andò, i testimoni furono decisivi nel salvarla dal carcere con l'accusa ingiusta per la 22enne di rapina e tentato omicidio. Un incubo difficile da superare. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Maria Andò non potrà mai dimenticare quel giorno del febbraio 2008, quando i Carabinieri si presentano alla porta della palermitana 22enne e l'arrestano con l'accusa di rapina e tentato omicidio. Un mercoledì come tanti forse, ma non per quella ragazza che ha appena superato la maggiore età e che di certo non si aspetta di ritrovarsi in una cella del carcere Pagliarelli. Maria Andò è già stata ospite di Sono Innocente, il programma che ritornerà oggi, domenica 13 maggio 2018, con una nuova puntata. A distanza di dieci anni da quei nove giorni che trascorrerà in carcere, la donna ha ancora ben chiaro nella mente come abbia avuto bisogno di 24 ore di tempo prima di realizzare che cosa fosse successo. 'Quelle poche volte che riesci a prendere sonno, il risveglio è terribile', riferisce nella sua intervista, perché è proprio in quel momento che si intuisce come l'incubo sia in realtà una realtà da cui non si può sfuggire. Anche se alcuni giorni dopo la ragazza verrà scagionata dalle accuse, Maria non riuscirà mai a ritornare quella di un tempo. All'interno del penitenziario è finita una persona diversa da quella che poi è stata liberata, perché 'una volta entrata in contatto con quel mondo, non ne esci più'. Uno scambio di persona. Sarà questo il vero motivo che spingerà Maria Andò dietro le sbarre, sei mesi dopo una rapina avvenuta a Catania ai danni di un tassista che rischierà la propria vita. In seguito all'arresto dell'allora 22enne, le autorità riescono a stabilire che in realtà la ragazza è innocente e che a picchiare e derubare il tassista sono in realtà due senzatetto che la vittima conosceva bene. La Andò tuttavia finirà in carcere e in custodia cautelare a causa di quella sim telefonica che la sorella aveva regalato al fidanzato della palermitana, oltre ad una descrizione. L'autrice dell'aggressione fatta al tassista verrà infatti identificata come Maria Andò, nonostante le somiglianze siano davvero esigue, solo il taglio di capelli come ricorderà in seguito la siciliana a Sono Innocente. E la sua fortuna alla fine sono state le testimonianze a suo favore, sottolinea Meridiano News, quella dello zio che era andata a trovare nei momenti in cui a diversi km di distanza avveniva la rapina, una collega dell'università e persino la madre a cui aveva fatto visita quello stesso pomeriggio.

MARIA ANDO', I TESTIMONI LA SALVANO DALL'INCARCERAZIONE. Saranno i testimoni a salvare Maria Andò dall'incarcerazione ingiusta e dalle accuse da cui verrà prosciolta nel 2009, a distanza di quasi due anni dalla rapina che le è stata attribuita. La palermitana alla fine è stata scagionata anche dalla confessione dei due giovani che hanno quasi ucciso il tassista rapinato, lo stesso che li aveva preso a cuore ed a cui ogni tanto dava qualcosa da mangiare. Le indagini alla fine proseguiranno anche mentre la Andò si trova in carcere, sottolinea Il Corriere della Sera, riuscendo alla fine a risalire ad una minorenne senzatetto. E ciò che la palermitana invece non riesce ancora a spiegarsi, oltre allo scambio di persona, è come mai sia stata oggetto di misura cautelare nonostante la rapina fosse avvenuta sei mesi prima del suo arresto. Un arco di tempo in cui avrebbe potuto fuggire, nascondersi e non di certo rimanere nella sua Palermo. Ed a questo si aggiunge anche l'incredulità di aver dovuto pagare come innocente, nonostante fosse incensurata, mentre chi ha promosso un errore giudiziario di quello stampo non abbia dovuto invece pagare per il proprio errore.

UN INCUBO DAL PESO INDICIBILE. Maria Andò entra subito sotto shock quella mattina in cui, aprendo la porta, si ritrova di fronte i Carabinieri. Segue un incubo dal peso indicibile, a causa delle accuse di aver rapinato e quasi ucciso un autista di Catania. La ragazza è incredula di fronte a questo evento, specialmente perché non si è mai sposata da Palermo e non capisce come possano associarla ad un crimine simile. Nello stesso giorno viene inoltre arrestato il ragazzo che in coppia con lei avrebbe commesso lo stesso reato, ma che dirà solo giorni più tardi di aver in realtà collaborato con una minorenne senzatetto. A dirigere gli investigatori verso Maria Andò, ricorda La Repubblica, è una sim card che la sorella Federica aveva regalato due anni prima al fidanzato della palermitana, mentre svolgeva il servizio militare a Catania. In quel periodo, il giovane deve evidentemente aver contattato l'autista, dato che quel numero di telefono verrà ricavato dai tabulati telefonici della vittima di rapina. Ed anche se Maria non assomigliava in tanti punti alla ragazza descritta dal tassista aggredito, i Carabinieri riusciranno ad individuare una vecchia fototessera in cui la sospettata assomiglia vagamente alla rapinatrice. A nulla servirà, ricorda il padre Carlo Andò, che le autorità verifichino che la ragazza è una studentessa regolare di Giurisprudenza e non una clochard, come l'aveva già indicata il tassista.

Diego Olivieri. In carcere, isolato, in condizioni precarie: 5 anni per essere scagionato! (Sono Innocente). Diego Olivieri, cinque anni da attendere per la giustizia. L'accusa ingiusta di narcotraffico e un incubo iniziato nell'ottobre del 2007 alle 4 di mattino. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Diego Olivieri ha dovuto attendere cinque anni prima di essere riconosciuto come innocente dall'accusa di narcotraffico. Un incubo iniziato nell'ottobre del 2007, attorno alle 4 del mattino: è questo l'orario che i Carabinieri di Arzignano, in provincia di Vicenza, scelgono per arrestare il mediatore di pellame. Una famiglia quasi perfetta, una casa creata con la fatica di una vita, una barca per coltivare la sua passione per il mare e figli a dargli tante soddisfazioni. Tutto svanito nel giro di pochi minuti, quando il commerciante diventa da rispettabile ad ex cittadino modello. Il caso di Diego Olivieri verrà raccontato a Sono Innocente nella puntata di oggi, domenica 13 maggio 2018, a partire da quei tragici momenti. Attimi in cui viene accusato di riciclaggio, narcotraffico, associazione mafiosa e insider trading, come ricorda Il Corriere del Veneto. Minuti che diventano ore e un fiume di domande a cui non sa rispondere, come riferirà in seguito alla stampa. A peggiorare la situazione la sua impossibilità a trovare risposte alle domande sempre più incalzanti e che lo spingono a rimanere in silenzio, figurando così persino omertoso. Il tutto si conclude con il trasporto a Rebibbia, dove trascorrerà quattro mesi, e poi al San Pio X per via di quell'accusa fatta da un pentito, che lo indica come il principale attivista in fatto di droga. Un'attività che tra l'altro riuscirebbe a gestire grazie alla facciata di vendita di pellame, in cui nasconderebbe della droga. Per Olivieri, che su consiglio di un amico deciderà infine di fingere con gli altri detenuti che le accuse siano fondate, solo per riuscire ad evitare altri guai.

DIEGO OLIVERI, IL CARCERE NEL CARCERE. Il carcere nel carcere è la sezione a cui viene destinato Diego Olivieri in seguito al suo arresto, un settore angusto, fatto di sporcizia e poca illuminazione. Una situazione indescrivibile in cui al neo detenuto è possibile solo usufruire di quelle due ore d'aria concesse al giorno, nell'impossibilità di usare la palestra o gli altri luoghi comuni. Solo 4 ore al mese per le visite dei familiari e urla continue, che a volte indicano solo la protesta dei carcerati, altri invece precedono quei tentativi di suicidio che 'sono all'ordine del giorno', come sottolinea a Il Corriere della Sera. Diego Olivieri verrà considerato parte integrante del narcotraffico, l'ultimo anello che lo collegherebbe a Nick Rizzuto e Vito Don, per cinque anni in tutto e tre processi durissimi da sostenere. Solo allora i giudici si pronunceranno con un verdetto favorevole, sicuri che sia innocente perché il fatto non sussiste, ma nel frattempo il commerciante ha già vissuto un anno dietro le sbarre. Obbligato a rimettersi in piedi a 65 anni, età che aveva al momento del rilascio, e con l'obbiettivo di usare i soldi di risarcimento per ingiusta detenzione per realizzare un ospedale in Tanzania. Ed oggi che il suo incubo è finalmente finito, può affermare con certezza che l'indulto possa essere utile solo se associato ad una totale rivoluzione del sistema carcerario. Fatto di rieducazione e lavoro perché "anche il criminale più incallito può essere recuperato".

OGGI A ME, DOMANI A CHI? Lo scorso aprile Diego Olivieri ha presentato nella provincia di Cosenza il suo Oggi a me domani a chi?, il libro in cui racconta nei dettagli l'esperienza vissuta in carcere fra il 2007 ed il 2008. Un appuntamento previsto nel programma di Aprile d'autore, una rassegna organizzata con il patrocinio del Comune di Diamante. Un'avventura inverosimile quella del commerciante di pellame, accusato ingiustamente di essere colluso con la mafia e di sfruttare l'azienda per promuovere attività di narcotraffico e riciclaggio, come ricorda Cosenza Post. Un'accusa gravissima, che ha spinto Olivieri a vivere un'esperienza ancora più traumatica, dato il sospetto di affiliazione con i vertici della mafia. Per questo, per le misure di sicurezza, verrà rinchiuso in isolamento per diversi mesi. La libertà gli verrà restituita solo un anno dopo il giorno del suo arresto, con una sentenza che la Cassazione dichiarerà irrevocabile. Ed ora che quella pagina di vita è stata girata per fare spazio ad una nuova esistenza, Diego Olivieri non dimentica il passato e si è attivato per mantenere la promessa di aiutare la popolazione grazie ad un'associazione di solidarietà. Futuro per tutti è infatti la Onlus che lo vede come presidente e che ha finanziato lo scorso aprile la spedizione di letti, materassi, mobilio, ventilatori, divise sanitarie, macchine per la fisioterapia e molti altri strumenti utili per migliorare l'esistenza dei ragazzi del Ghana, per una catena di solidarietà a cui si sono uniti anche diversi istituti pubblici e privati del Trevigiano, come ricorda Treviso Today.

Corrado Di Giovanni. Tradimento dell'amico e tentato omicidio: per due bugie perde la libertà (Sono innocente). Corrado Di Giovanni, il tradimento di un amico e una colpa non commessa. Una tragica storia fatta di bugie e di una scoperta incredibile una volta finito in carcere. (Sono innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La libertà è il prezzo che dovrà pagare Corrado Di Giovanni per una colpa che non ha commesso. Il rappresentante di vernici di 49 anni, residente a Rivarotta di Pasiano, verrà infatti accusato di essere un rapinatore. Un'impronta pesante che lo porterà in poco tempo non solo in carcere, ma anche a perdere il posto di lavoro che con tanta fatica è riuscito a portare avanti con successo. Di Giovanni è considerato una delle punte di diamante dell'azienda per il Nord Est, dove riesce ad ottenere contratti con diversi clienti importanti e benestanti. Corrado Di Giovanni ripercorrerà la propria storia grazie alla puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 13 maggio 2018, a distanza di un anno dal suo primo racconto al programma di Alberto Matano. Nelle parole del rappresentante i ricordi di quella bella vita conquistata con successo e fatica e la successiva distruzione, dovuta all'accusa di essere la talpa di una banda di rapinatori che hanno preso di mira le ville di alcuni suoi clienti. Siamo nel 2012, ricorda il programma di Rai 3, quando l'industriale Graziano Zucchetto di Pramaggiore viene rapinato da un gruppo di malviventi. Una rapina sanguinosa, come sottolinea l'imprenditore a Il Gazzettino, in cui rischia di perdere la vita e da cui riesce a salvarsi solo grazie ad un evento fortuito. La pistola si inceppa e Zucchetto riesce a salvarsi dalla furia dei tre albanesi che lo prendono a calci e pugni. Solo in seguito le indagini condurranno fino a due italiani, di cui uno verrà identificato come Di Giovanni, il migliore amico della vittima.

CORRADO DI GIOVANNI, IL TRADIMENTO DI UN AMICO. Tradito da un amico: sarà questo che penserà di Corrado Di Giovanni l'industriale Graziano Zucchetto. Quest'ultimo viene infatti rapinato da un gruppo di criminali e non immagina che nei giorni successivi, gli inquirenti si concentreranno su quel rappresentante di vernici della provincia di Venezia con cui ha stretto da anni un forte legame di amicizia. In quei giorni infatti, Zucchetto non viene informato dello sviluppo delle indagini e scoprirà solo in seguito dell'arresto di Di Giovanni, un evento che lo lascia nel totale stupore. 'Agghiacciante', sottolinea all'epoca a Il Gazzettino, 'una persona che consideravamo di famiglia'. Non sarà tuttavia solo la rapina a Zucchetto a provocare l'arresto ingiusto di Corrado Di Giovanni, ma anche una serie di colpi ai danni di diversi dei suoi clienti più importanti. Al momento dell'incontro con gli investigatori, il rappresentante conferma infatti di conoscere tutti i nomi che gli vengono elencati senza che gli venga spiegato che cosa sta succedendo, mentre i Carabinieri perquisiscono la sua abitazione, setacciano ogni punto, scattano diverse foto. Per Zucchetto invece in seguito non ci saranno dubbi sulla colpevolezza dell'amico, visto che i rapinatori erano a conoscenza di troppi particolari. Sapevano infatti che la cassaforte si trova in un locale isolato dal cemento armato, come riferisce alla stampa la moglie della vittima, Barbara. Ed è anche per quel particolare che la donna non si accorge in quei momenti di quanto sta avvenendo al piano di sotto né che il marito rischia di perdere la vita.

UNA TRAGICA VERITÀ SCOPERTA IN CARCERE. Giovanni Di Corrado impiegherà diversi giorni prima di realizzare quanto siano pesanti le accuse che gli sono state mosse per errore. Il suo nome infatti verrà indicato come capo di una banda di rapinatori, di cui fa parte anche il cugino Massimo Di Giovanni e tre uomini di origini albanesi, ma il diretto interessato lo scoprirà solo una volta rinchiuso in carcere. A compromettere la posizione di Di Giovanni sono i rapporti di lavoro intrecciati con le vittime, fra cui l'amico Graziano Zucchetto, con cui ha cercato per diversi giorni di mettersi in contatto inutilmente. Come ha raccontato a Sono Innocente, in quegli attimi Di Corrado è sicuro che verrà scarcerato nel giro di poche ore, al limite giorni, e sarà invece il suo difensore a renderlo consapevole che le accuse sono davvero tragiche. Dalla rapina al furto fino al tentato omicidio. Per Di Corrado si tratta di una vera e propria doccia fredda e continuerà ad essere così anche nei 14 mesi che trascorrerà in custodia cautelare, a cui si aggiungerà un altro mese agli arresti domiciliari. Solo al processo di primo grado, il rappresentante verrà assolto dalle accuse e la conferma arriverà in Appello nel 2014. Solo in seguito Zucchetto deciderà di parlare a favore dell'amico di un tempo, sottolineando che in realtà il rappresentante è stato nella sua villa due volte in tutto e non molte volte come indicato dagli investigatori nel fascicolo d'accusa. Ed a nulla invece sono servite le testimonianze dei rapinatori, che durante l'interrogatorio affermeranno più volte di non aver mai conosciuto, visto o sentito parlare di Di Giovanni. E infine la beffa: il risarcimento di 516 mila euro richiesti dal difensore dell'ex rappresentante, ormai senza lavoro come il figlio, non è mai stato accordato dallo Stato. Ed è per questo, riporta Il Gazzettino, che Di Giovanni ha presentato ricorso a Roma per riuscire finalmente ad ottenere ciò che è suo di diritto.

Lucia Fiumberti. A 28 anni usata e incastrata dai suoi superiori della Provincia di Lodi (Sono Innocente). Lucia Fiumberti, la donna nel 2007 finì in carcere perché usata dai suoi superiori come capro espiatorio di un crimine che non aveva effettivamente commesso. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Sono trascorsi 11 anni da quel marzo del 2007 che ha spinto Lucia Fiumberti dietro le sbarre. Di origine comasca ed ex dipendente della provincia di Lodi, la donna verrà ritenuta responsabile a causa delle accuse dei suoi superiori, che decidono di usarla come capro espiatorio. In quei giorni, l'allora 28enne si trovava in ferie dal lavoro e non sospetta che le verrà attribuita dai dirigenti della Provincia una firma che concede l'autorizzazione ad una conceria di rinviare una bonifica da cromo piuttosto costosa. Il caso di Lucia Fiumberti verrà ricordato dal conduttore Alberto Matano all'interno della puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 13 maggio 2018. La donna non sa quanto quelle meritate ferie le costeranno la reclusione in carcere per 22 giorni, accuse che rientreranno in un'indagine che la Procura sta facendo su una concessione promossa dalla Provincia di Lodi per cui lavora. Anche se il castello di carte costruito ad arte dai superiori di Lucia verrà demolito in breve tempo, il carcere rimarrà un'esperienza traumatica per la sua giovane vita e provocherà il cambio radicale di settore professionale. Ad oggi, ricorda Il Giorno, Lucia ha infatti messo da parte la laurea con lode ottenuta in Tecnologia farmaceutiche per proseguire la sua carriera nella provincia di Como, in qualità di estetista. Un lavoro che ha deciso di intraprendere subito dopo il licenziamento senza preavviso che ha posto fine al suo lavoro di consulente ambientale per la Provincia di Lodi. E quanto è accaduto, l'errore giudiziario di cui è rimasta vittima, continua ad essere il motore che la spinge a raccontare la sua storia senza sosta. Un riscatto conquistato con fatica e sudore, un calvario che è stato raccontato anche dal regista Francesco Del Grosso nel suo film documentario Non voltarti indietro, così come nel libro che ha scritto grazie all'editore Albatros nel 2010, dal titolo Fuori e dentro.

LUCIA FIUMBERTI, QUEL VOLTO PIENO DI CANDORE

Persino il Carabiniere che l'ha arrestata non ha potuto fare a meno di notare il candore sul volto di Lucia Fiumberti. Quasi 28 anni che avrebbe compiuto pochi giorni dopo il suo arresto ed una pesante accusa che grava già sulle sue spalle. La consulente ambientale viene infatti indicata come la responsabile di una firma finita nell'inchiesta delle autorità ai danni della Provincia di Lodi per cui lavora. E' il 2007 quando Lucia si ritrova di fronte sette Carabinieri alle 4 del mattino, pronti a prelevarla per portarla nel carcere di San Vittore. Un incubo che durerà 22 giorni di detenzione, chiusa in una cella e accusata di aver falsificato una firma importante. Due dirigenti della Provincia a cui fa capo hanno infatti negato la propria responsabilità, preferendo scaricare ogni colpa su quella giovane che collabora con loro da cinque anni. E la storia di Lucia Fiumberti non finisce quando viene finalmente dichiarata innocente perché, come ricorda Unione Sarda, sarà destinata a rivivere tutto quando Claudio Samarati, il suo principale accusatore, riuscirà quasi a sfuggire alle sue responsabilità grazie alla prescrizione.

Per questo che Lucia decide di scrivere ai giornali italiani, convoca Le Iene perché non si dimentichi quanto ha dovuto vivere e soprattutto il colpevole non riesca a farla franca, regalandole un'ingiustizia all'interno di un errore giudiziario. Di quel giorno in cui è finita in manette, virtuali grazie alla decisione di un Carabiniere di lasciarle libere le mani, Lucia ricorda ogni particolare. Da quel sonno che la vede al fianco del compagno alle 4 del mattino fino al brutale risveglio in cui impiega diversi minuti prima di capire che cosa stia accadendo. Il primo pensiero è che si tratti di un errore, mentre scandaglia con la mente qualsiasi tipo di errore possa aver compiuto. La realtà dei fatti le verrà spiegata solo al suo arrivo in caserma, quando le verrà finalmente riferito perché è stata accusata.

Francesco Raiola/ Arrestato per traffico di stupefacenti: stesso calvario di Enzo Tortora (Sono Innocente). Francesco Raiola, arrestato ingiustamente per traffico di stupefacenti il suo caso somiglia moltissimo a quello che colpì diversi anni prima il giornalista Enzo Tortora. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Quanto accaduto a Francesco Raiola è stato considerato negli anni come il nuovo caso Tortora, per via dell'assurdità con cui è stato accusato ed ha dovuto pagare con il carcere e con la vita per un errore che non ha mai commesso. Il soldato Raiola, come viene indicato nel 2011, quando dovrà scontare 21 giorni di carcere per l'accusa di ricettazione e traffico di stupefacenti. Sono Innocente ripercorrerà la storia di Francesco Ragiola grazie alla puntata che andrà in onda questa sera, domenica 11 maggio 2018, partendo da quel fatidico giorno. Perché è lì che il militare subisce un calvario che lo spingerà a stare 4 giorni in cella di isolamento presso il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, ritrovando la libertà solo due settimane più tardi e dimostrando la propria innocenza dopo 4 mesi di arresti domiciliari. Ed anche se verrà scagionato dalle accuse, perderà la possibilità di rientrare in servizio, un reintegro in cui verrà affiancato anche al Movimento 5 Stelle. Il partito produrrà infatti atti parlamentari per ottenere dei risultati concreti, riuscendo a far inserire un articolo nel Decreto legge che prevede la riammissione per tutte le vittime di errori giudiziari.

FRANCESCO RAIOLA E I PUNTI IN COMUNE COL CASO ENZO TORTORA. Il caso di Francesco Raiola ha fin troppi punti in comune con l'errore giudiziario che ha colpito il giornalista Enzo Tortora. A partire dalle calunnie fabbricate ad arte per produrre le accuse che porteranno il militare dietro le sbarre, fino alle intercettazioni che per la procura di Torre Annunziata indicano con chiarezza la sua attività di trafficante di droga. Il militare infatti, come racconta a Il Giornale, parla di kg di mozzarelle che per gli inquirenti si trasformeranno in un preciso quantitativo di droga. Raiola finisce così all'interno dell'inchiesta Alieno ed infine nel carcere per quasi un mese, un incubo da cui riuscirà a fuggire solo quando il giudice di Nocera Inferiore eredità il caso dalla procura di Torre Annunziata e si accorge dell'errore commesso. Il militare non verrà così portato fino al processo, ma rimarrà l'onta delle accuse, almeno per quanto riguarda la sua carriera militare ormai distrutta. Ed ancora. Con Tortora ci sarà in comune anche quel pm che nell'85 vedrà il presentatore al pari di un mercante di morte e che individuerà in Raiola un chiaro criminale. Diego Marmo non sarà solo cruciale nella vita di entrambi gli innocenti, ma rimarrà anche impresso nella memoria della vedova Tortora. Francesca Scopelliti riferirà infatti in un'intervista a Mary Tagliazucchi, di ricordare con chiarezza le bretelle rosse del pm, i toni esasperati.

L'ACCUSA PER TRAFFICO DI STUPEFACENTI. Francesco Raiola riuscirà a dimostrare la propria innocenza dopo essere stato accusato di traffico di stupefacenti e ricettazione di droga. Non riuscirà però a riavere quel lavoro di militare che aveva ottenuto con tanti sacrifici, una porta che rimarrà chiusa a lungo anche di fronte alla conferma che le accuse che gli sono state rivolte sono in realtà un errore giudiziario. Ed è per questo che Raiola non si arrende e decide di rivolgersi persino al Presidente della Repubblica per riuscire a cancellare anche quella conseguenza dell'arresto promosso dal pm Diego Marmo, lo stesso che arrestò diversi decenni prima Enzo Tortora. Il sogno che il militare ha coltivato per una vita, riuscendo a realizzarlo grazie ad un concorso per entrare nell'Esercito italiano, si infrangerà infatti quel giorno in cui i Carabinieri decideranno di arrestarlo. Nella puntata di Sono Innocente in cui ha raccontato la sua storia per la prima volta, il militare ripercorre ogni istante della notte del suo arresto. E' il Maresciallo superiore ad informarlo della presenza dei Carabinieri, ma in quel momento Raiola pensa che sia successo in realtà qualcosa ai familiari. Solo dopo, con in mano 'un faldone di 1200 pagine', inizierà a realizzare che non si tratta di una tragedia avvenuta alla famiglia oppure uno scambio di persona come penserà inizialmente. Lo stesso faldone servirà nella Caserma di Barletta per informarlo dei diversi punti presi in esame nel corso delle indagini di Castellamare di Stabia, in particolar modo le telefonate intercorse fra Raiola ed un vecchio amico. Si tratta di un uomo che conosceva da diverso tempo e con cui poco prima aveva riallacciato i rapporti, non sapendo che le autorità erano già sulle sue tracce con il sospetto di spaccio di droga.

Roma. La vita tra parentesi. In carcere, scrive il 4 maggio Gian Carlo Capozzoli su “L’Espresso”. Quando supero il cancello della terza casa di Rebibbia, a Roma, ho come la sensazione di essere tornato a casa. Come quando trovi vecchi amici, voglio dire, che non vedi da un po’ e hai piacere a rivederli, ritrovarli, e loro a rivedere te. Non mi piace ritrovare qui, quelli che sono diventati i miei amici, nel corso del tempo. Ovviamente. Quando mi capita di pensarci, li immagino (indistintamente) fuori, a riprendere in mano, lentamente, la loro vita. Le loro abitudini, fuori. O che meglio ancora, cambiamo, hanno cambiato invece radicalmente la loro vita precedente, ricominciando da capo, da zero. Il personale della polizia penitenziaria è però quasi tutto lo stesso, e ci riconosciamo dopo tanto tempo passato a sopportarmi benevolmente, quando, in accordo con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, con la Direttrice Passannante, e con il personale dell’area educativa la dottoressa Azara e la dottoressa De Cristofaro, avevo realizzato un laboratorio culturale. L’idea di fondo del progetto era partire dal teatro e dalle questioni poste in essere dalla cultura stessa, per riproporre quel principio di rieducazione della pena, sancito dalla Costituzione. La terza casa è un istituto a custodia attenuata che rende completamente diversa questa esperienza progettuale rispetto a quella realizzata in altri istituti, semplicemente perché è diversa la vita all’interno. Semplicemente nel senso di una maggiore libertà di movimento e di spostamento e di incontro. Non è per nulla semplice, mi rendo conto. Ma è una differenza sostanziale, che si avverte, si nota, fin da subito, a partire dal rapporto professionale, ma in qualche modo di vicinanza, stabilito all’interno dell’istituto tra detenuti e personale. Le direttive ministeriali, le condanne quasi alla fine, la vita stessa all’ interno, rendono l’atmosfera meno pesante. Anche i cancelli da superare per entrare, sono minori rispetto a quelli di altri istituti. Il numero dei detenuti ospitati non è eccessivo, e un numero adeguato di assistenti, permette di controllare il tutto, con estrema vigilanza, ma con discrezione. La disciplina è rigida, come i controlli, naturalmente. Ma è discreta. Quando entro, sta piovendo nel grande cortile all’ interno. Incontro la direttrice per le disposizioni da seguire, e mi licenzia in breve, presa da carte da firmare e ordini da dare. Ho avuto modo di conoscerla profondamente questa piccola donna con un carattere forte. Ho avuto modo di apprezzarne la gentilezza e la disciplina. Ho avuto modo anche di incontrare questa maggiore libertà di cui godono i detenuti qui. Libertà di muoversi tra i lunghi corridoi. Di godere di qualche ora d’aria in più. Di svolgere qualche ora in più con le proprie famiglie. E non è poco. Sembra una cosa normale, e invece non lo è. È proprio straordinario che si dia una reale possibilità di recupero, quindi di libertà, attraverso il lavoro. Il lavoro, qui, è pensare ad un futuro prossimo fuori, è immaginare altre prospettive, altre possibilità di vita. È potersi pensare liberi. Liberi anche da quel passato che li ha condotti sulla loro via criminale. Prima di licenziarmi, la direttrice mi mostra un foglio pieno delle attività che i detenuti possono svolgere durante il periodo della loro detenzione. Il teatro ha ripreso la sua attività, ed ora una nuova compagnia di volontari, professionisti, viene per le prove della prossima messa in scena. Quando li incontro, stanno costruendo delle maschere, oggetti scenici dello spettacolo. Ben oltre la retorica di avere una maschera, togliersi la maschera, mettersi una maschera, vedo uomini attenti a questo incontro con qualcosa che ha a che fare con l’arte. Si può vedere il gioco con i colori delle maschere. O l’attenzione nella costruzione artigianale di una figura. Il tempo è un tempo che scorre lento, impiegato con attenzione e intenzione. E gioco. Li lascio lavorare, mentre seguo un gruppo di ragazzi attorno ad una insegnante. Lei è una signora magra, piccola, adulta. Sorride e comprende, già con lo sguardo. Li segue, lei e alcuni suoi colleghi, nel loro percorso scolastico e educativo. Nella sala teatro, mi affaccio a guardare alcuni degli strumenti di una piccola band composta da detenuti e agenti e volontari, e pensata dall’ Ispettore Colleferro e un suo amico musicista, Paolo. Hanno suonato assieme oltre divise e ruoli. La sala dove ho incontrato spesso le suore, oggi è chiusa. Ma non fatico a credere che le suore non facciano mancare, come sempre, il loro supporto umano e religioso a questi uomini. Al piano terra, da qualche anno ormai, è stato aperto un forno in cui sono impiegati alcuni detenuti alla produzione e alla fabbricazione di pane e altri prodotti che vengono poi distribuiti in tutto il quartiere. S. aveva questa faccia da bonaccione già quando lo avevo conosciuto. In realtà è fiero e astuto. Quando ci incontriamo è un misto di imbarazzo e piacere. Lavora lì, ora. Ha il viso provato e spento dagli anni della carcerazione, ma parla orgoglioso del suo nuovo impiego e della fiducia che gli è stata accordata. Controlla l’orologio mentre parliamo per sfornare e infornare il prossimo giro di impasti o pane caldo. Lo lascio sicuro tra i suoi nuovi strumenti di lavoro. Fuori, nel cortile, vedo avvicinarsi una figura familiare. Mi sembra ingrassato rispetto a qualche anno fa, ma il suo modo di camminare è rimasto lo stesso.  Cammina con le mani penzolanti di lato e i piedi che, mentre cammina, sembra che lo conducano da qualche altra parte, in giro. Così senza una meta. Ha la testa sempre un po’ reclinata di lato come se fosse pesante tenerla dritta. Fissa. Quando mi è vicino vedo che ha i capelli un po’ più brizzolati e le rughe del viso accentuate. Ci salutiamo. Mi chiede come sto e mi dice che sta meglio. Mi dice che vorrebbe uscire o che vorrebbe essere quantomeno trasferito. Mi dice della sua città, che è un po’ anche la mia. Mi descrive vicoli e piazze, precisamente, come se fossero esattamente davanti a lui, ora. Mi parla dei suoi amici. Mentre parla, ha questo modo di accarezzarsi il viso, come per togliersi le rughe profonde. Quando lo avevo conosciuto mi era sembrato un tic. Ora continua, ma con meno forza. Con meno rabbia. Mentre passeggiamo nel cortile interno, mi accorgo che questo luogo è pieno di questa esperienza di questo incontro. Lui era stato Ariel su questo campo di pallone, e se ne ricorda. E mi ricordo anche io. Mi era sembrato subito Ariel, nella Tempesta di Shakespeare, proprio per quest’aria spaesata e confusa. Qui tutti sono spaesati e confusi. Lui lo sembra un po’ più degli altri, anche se a differenza degli altri, ha anche una cultura. Mi dice di alcuni suoi amici che fanno teatro e dell’ultimo film che ha visto. Gli occhi stretti in una piccola fessura non nascondono una certa sofferenza. Le labbra sono secche. Ma non è trascurato. Piuttosto sembra stanco. Mi sembra stanco anche in questo suo camminare. Sorride quando ripensiamo al tempo passato anche con i ragazzi dell’Università, a giocare e a impegnarci nella cura del testo di Shakespeare. Sono passati tre anni. Tre anni di cambiamenti, di progetti, di aspettative. Lui mi parla di cose avvenute tre anni fa come se fossero accadute ieri, la settimana scorsa. Un mese fa, al massimo. Parliamo come due vecchi amici quando si accorge che è tardi per andare a scuola. Almeno vuole finire quel percorso che fuori ha lasciato a metà. Nonostante questo istituto sia una sorta di modello da seguire in fatto di efficienza e limitatezza della custodia, quando sono finalmente fuori mi resta la domanda su quale necessità abbiamo, come società dico, di pensare ad un luogo, il carcere, che serve solo a mettere la vita tra parentesi.

Edoardo Albinati: «C’è un modo legale per evadere dal carcere: diventare scrittore». Edoardo Albinati fa parte della giuria del Premio Goliarda Sapienza e insegna lettere in carcere, a Rebibbia, scrive Eugenio Murrali il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” amplia le sue prospettive. La fondatrice e curatrice Antonella Bolelli Ferrera ha voluto che alla gara vera e propria fosse affiancato un laboratorio di scrittura. Sessanta i partecipanti che hanno interagito con la scrittrice- editor Cinzia Tani e diversi scrittori- tutor tra cui Maria Pia Ammirati, Gianrico Carofiglio, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Nicola Lagioia, Dacia Maraini. Al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio, sarà proclamato il vincitore. Edoardo Albinati fa parte della giuria del Premio Goliarda Sapienza e insegna lettere in carcere, a Rebibbia.

Che cosa può significare per le persone detenute la scrittura?

«Da una parte c’è un’attività che sia le persone detenute sia quelle libere svolgono: scrivere. Cosa diversa è la scuola che nel carcere è strutturata come nel mondo esterno. Nell’istituto tecnico- informatico in cui insegno faccio, appunto, il professore di lettere: spiego la grammatica, la Divina Commedia, e così via. Come professore di lettere sono chiaramente più vicino al tema della scrittura rispetto agli altri colleghi, per cui mi è successo di avere studenti che se la cavavano a scrivere ed erano buoni lettori».

E al di là della scuola?

«L’attività dello scrivere narrativa o poesia è molto individuale. Avendo partecipato a molti di questi premi di prosa o di poesia, penso che se si riesce a “evadere” almeno un poco dallo stretto tema carcerario – che può diventare soffocante, ripetitivo, anche perché la vita carceraria è il contrario della varietà, è la monotonia – allora capita di leggere testi interessanti. In generale la scrittura è una delle pochissime attività disponibili, perché chiunque può praticarla, anche se all’interno di una cella dove si sta in quattro o sei, nei ritagli di tempo.

Ritagli?

«In realtà la vita del detenuto è molto povera di tempo. È una routine molto impegnativa che fa sì che uno divida la propria giornata tra la cella, la socialità, l’aria, gli avvocati. Nella cella gli spazi spirituali e individuali sono molto ristretti. Se uno ha le forze di ricavare in tutto questo bailamme di rumori, odori e faccende, uno spazio per scrivere, anche solo un diario o una lettera, non c’è dubbio che svolga una delle poche attività umane possibili in carcere. È un’attività che io consiglio di svolgere comunque ai miei studenti, anche se non ci sono scopi letterari».

Questo rientra in quello scopo rieducativo di cui parla l’articolo 27 della Costituzione?

«No, non rieducativo, semplicemente riflessivo. Scrivere una lettera non è rieducativo, ma ti costringe a un poco di concentrazione, a esprimere te stesso. La realtà carceraria non ha nulla né di educativo né di rieducativo. La scuola potrebbe avere in parte questo ruolo ma preferisco sempre parlare di “istruzione”. L’educazione la danno i genitori, quando la danno».

Alcuni dei racconti che saranno pubblicati non parlano della vita carceraria. La scrittura aiuta a uscire dalle sbarre?

«È interessante anche la scrittura esperienziale, ma rischia di essere ripetitiva. Mentre è differente, quando si lascia spazio all’immaginazione, alla fantasia, o quando si raccontano episodi della vita libera. Spesso i detenuti, prima di essere carcerati, hanno vissuto una vita spericolata, se riescono a raccontarla può essere coinvolgente. Per loro, però, capita sia difficile, perché narrarla a volte significa rivelarsi, in un certo senso anche autoaccusarsi, se si tratta di una vita delinquenziale. C’è una certa cautela se si è fatta una vita fuori dalla legge, è una difficoltà oggettiva».

Lei ha insegnato anche nelle scuole ordinarie. Quali sono le risorse particolari della scuola in carcere, in cosa si differenzia dalle altre?

«La differenza fondamentale, anche se può sembrare strano che sia solo questa, consiste nell’insegnare a persone adulte, come in una scuola serale. Sono adulti che spesso hanno alle spalle una vita intensa, difficile, avventurosa, hanno fatto tutto e il contrario di tutto. Gli svantaggi sono logistici: ci si trova in celle e non in aule scolastiche, fa molto freddo, i detenuti sono legati anche agli impegni giudiziari, per esempio, quindi possono doversi assentare per dei processi. È stimolante avere nella stessa classe persone di provenienza, istruzione di lingua molto diverse. Bisogna tentare un discorso che possa coinvolgere tutti. Un lato positivo è che non ci sono le famiglie, che guastano la vita dell’insegnante nel mondo esterno. Inoltre non ci sono telefonini né altre interferenze esterne. È chiaro, poi, che parlare di Machiavelli a un uomo che ha vissuto, ha conosciuto e ha praticato la violenza è più significativo che parlarne a un ragazzino di 15 anni. I grandi temi della vita sono stati vissuti».

In questo periodo quanti ne segue?

«Essendo quasi la fine dell’ano scolastico sono rimasti in pochi. Si parte con classi molto affollate, anche di 20 o 30 persone, che poi si rimpolpano e si riducono a secondo delle vicende di ciascuno».

Lei tende ad affezionarsi o a mantenere un distacco?

«C’è una giusta misura. Non si può familiarizzare troppo, altrimenti si finisce per diventare come degli assistenti sociali, dei confessori, o delle mamme surrogate. È inevitabile però che ci sia una vicinanza con persone con cui passi magari due o tre anni. Il fatto che siano adulti rende più simile, pur nella diversità, la tua esperienza alla loro. Ci sono dei temi comuni: delusioni, speranze, frustrazioni, il tempo che passa. Non credo però nell’empatia totale, perché sarebbe rischiosa per tutti. Spesso si è di fronte a persone dai caratteri o molto forti o molto deboli».

Ci sono tante iniziative legate alle attività artistiche in carcere. Non si rischia di andare alla ricerca della “verità” sostituendo la vita all’arte?

«No, non è questo il rischio. Ce n’è un altro: quello di far pensare all’esterno che il carcere sia un posto piacevole, dove si fanno il teatro, il cineforum. Le iniziative, benvenute e sacrosante, sono sporadiche. Non devono far dimenticare la vita della cella, l’imbarbarimento quasi inevitabile della reclusione. Per qualche singolo individuo queste attività possono rappresentare una strada, come è stato per alcuni attori degli spettacoli di Fabio Cavalli. Ci sono esperienze positive, ad esempio un mio studente che si sta per laureare in ingegneria. Però si tratta di eccezioni in un panorama che resta desolante».

Il suo giudizio finale sul carcere non è positivo?

«Come potrebbe esserlo? È una punizione».

E non può essere un percorso di rinascita?

«No, non è un percorso di niente. Magari non si trova nulla di meglio, ma è un modo per mettere fuorigioco persone che hanno fatto del male alla società. Che crei un effettivo miglioramento delle condizioni che ci finiscono dentro è fuori di discussione che accada. Sia detto una volta per tutte. E io non sono un abolizionista del carcere, perché non ho idea di cosa si potrebbe creare di diverso dalla detenzione, ma so che così come è nel nostro Paese è del tutto non educativa, non rieducativa. Chi entra ha buone probabilità di uscire peggiore».

Detenuti e scrittori, una finestra sulla prigione. Il 10 maggio cerimonia finale della settima edizione del premio “Goliarda Sapienza”, scrive Eugenio Murrali il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Una finestra nella prigione, una finestra sulla prigione. Al settimo anno di attività, il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” si trasforma e amplia le sue prospettive. La fondatrice e curatrice Antonella Bolelli Ferrera ha voluto che alla gara vera e propria fosse affiancato un laboratorio di scrittura articolato in quindici incontri condotti con il metodo dell’e-learning – ovvero la teledidattica – per un totale di trenta ore di lezione tenute da noti autori della letteratura italiana. Questa sperimentazione è stata approvata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha previsto l’allestimento di aule dotate di tecnologia adeguata negli istituti che hanno partecipato: Casa di reclusione di Saluzzo, Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, Casa di reclusione di Rebibbia e Casa circondariale femminile di Rebibbia. Sessanta i partecipanti che hanno interagito con la scrittrice- editor Cinzia Tani e gli scrittori- tutor Maria Pia Ammirati, Gianrico Carofiglio, Pino Corrias, Serena Dandini, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Massimo Lugli, Antonio Pascale, Romana Petri, Federico Moccia, Giulio Perrone, Andrea Purgatori, Marcello Simoni. Gli scrittori hanno tenuto il loro dialogo dall’Università telematica eCampus. Spiega Antonella Bolelli Ferrera: «Per le persone detenute partecipanti è stato anche un momento di socialità, perché potevano avere uno scambio tra di loro e con i partecipanti degli altri istituti e gli scrittori all’esterno. Erano entusiasti, interessati. Molti di loro ci hanno chiesto libri da leggere, hanno discusso con noi di letteratura». Tra i tutor, Erri De Luca e Nicola Lagioia hanno preferito tenere l’incontro all’interno di un istituto, collegandosi da lì con gli altri, per avere un contatto più concreto con i partecipanti. «A Saluzzo – racconta Ferrera – ci aspettavano con trepidazione e i detenuti che facevano i corsi di cucina hanno preparato un rinfresco, emozionatissimi all’idea di conoscere Nicola Lagioia. La partecipazione era volontaria, non tutti hanno un grande retroterra culturale, eppure tutti erano preparatissimi». Al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio, sarà proclamato il vincitore alla presenza della madrina del premio, Dacia Maraini, degli scrittori e giornalisti Pino Corrias, Erri De Luca, Paolo di Paolo, Andrea Purgatori, Nicola Lagioia e del presidente della giuria, Elio Pecora. I sessanta racconti nati dalla penna dei detenuti sono quasi tutti di carattere strettamente autobiografico, “storie incredibili”, commenta la curatrice. I quindici migliori sono diventati finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Un’altra novità è che quest’anno la giuria non è composta soltanto da note personalità del giornalismo e della letteratura, ma anche da un nutrito numero di studenti delle scuole superiori, da alcuni gruppi di grandi lettori indicati dalle librerie. Inoltre è stato stipulato un accordo con Vatican News, media partner del premio: gli ascoltatori hanno potuto votare sulla piattaforma della testata e sono stati così numerosi che si è ritenuto necessario creare un premio ad hoc, il Premio Vatican News. A Torino sarà presentata l’antologia Avrei voluto un’altra vita. Racconti dal carcere pubblicata da Giulio Perrone Editore. Il volume curato da Antonella Bolelli Ferrera raccoglierà i quindici racconti finalisti. A proposito del contributo che il concorso può dare alla rieducazione dei detenuti di cui parla l’articolo 27 della Costituzione spiega la curatrice: «Molti dei partecipanti delle scorse edizioni continuano a scrivermi o a farmi chiamare da parenti, segno che l’esperienza è stata positiva. In alcuni casi ho saputo che alcune persone, una volta uscite dal carcere, hanno ricombinato qualche guaio e sono tornate dentro. Ci sono però esempi virtuosi che porto nel cuore. Si tratta di persone, certamente predisposte, che il concorso ha aiutato, perché poi, continuando a scrivere, a leggere, hanno intrapreso un percorso di consapevolezza e autocritica».

Carceri, cresce il rischio "suicidio" tra gli agenti. Un terzo degli uomini della Penitenziaria soffre di depressione e stati d'ansia gravi. In tre anni si sono tolti la vita 17 agenti, scrive Nadia Francalacci il 6 aprile 2018 su "Panorama". Il 35,45% degli agenti della Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio “suicidio” per la presenza di un forte stato depressivo, ansia, alterazione della capacità sociale e forti sintomi somatici. Il dato che emerge da un questionario sullo stress correlato al lavoro, compilato nelle scorse settimane da 600 agenti che prestano servizio all’interno delle carceri italiane, è davvero sconvolgente. Solo nel 2017, gli uomini della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in servizio, prima di recarsi sul luogo di lavoro o appena terminato il turno, sono stati sei. Altrettanti hanno compiuto lo stesso drammatico ed estremo gesto l’anno precedente e 5 nel 2015. In tre anni, diciassette uomini, si sono uccisi perché si sono sentiti abbandonati e sopraffatti dal disagio lavorativo.

Il problema dei detenuti psichiatrici. Molto dello stress lamentato dagli agenti, nel questionario, dipenderebbe dalla chiusura degli ospedali psichiatrici. Con la chiusura degli OPG, infatti, è aumentata la presenza di questi detenuti negli istituti penitenziari causando nuove criticità e problematiche di gestione sia del detenuto con problemi psichici che del ristretto esasperato dalla coesistenza con il soggetto malato. Tra le cause anche, carenza di personale, formazione scadente e dirigenti poco attenti e preparati. Ma, se quasi un terzo degli agenti della penitenziaria dichiara un disagio al limite della sopportazione, il 65% lamenta una situazione di forte malessere.  

Pochi agenti, troppi detenuti. Un primo aspetto, all’origine dei disagi, dell'esasperazione e del malessere degli agenti, risulta essere il carico di lavoro da tutti percepito come eccessivo, difficile da sostenere. Un punto sicuramente di facile comprensione, considerando il sovraffollamento carcerario e l’organico degli operatori di polizia, inadeguato sia sotto il profilo numerico che di età: agenti sempre più anziani a dover contrastare un numero sempre crescente di detenuti. Dall’indagine è emerso che a creare stress e ansia anche le pause dell’orario di lavoro che risultano non sono sufficienti e gli straordinari che, negli ultimi anni, hanno la tendenza a diventare ordinari. “In generale i lavoratori hanno un controllo molto scarso sulla gestione del proprio lavoro - spiega a Panorama.it, Angelo Urso, Segretario Generale della Uilpa Penitenziari - questa scarsa autonomia non riguarda solo le modalità operative, ma anche tempi e ritmi che delineano un contesto rigido e privo di margini di flessibilità”. Altrettanto critica sarebbe la mancanza di chiarezza del ruolo che l’agente è chiamato a svolgere.

Gli incarichi "abusivi" degli agenti. “Una percentuale piuttosto importante degli agenti ha dichiarato di non sapere come svolgere il proprio lavoro, di non avere chiari compiti e responsabilità - prosegue Urso - un problema che è consequenziale alla carenza di personale e che li costringe, ogni giorno, a dover ricoprire più ruoli ed incarichi in più settori, talvolta anche di responsabilità maggiori rispetto al grado di servizio dell’agente”. Infatti, sarebbero 9 lavoratori su 10 a lamentarsi di una condizione di scarsità di personale. Questo genererebbe stanchezza che porterebbe, la maggior parte degli agenti, al timore di sbagliare, con possibili conseguenze sia per la sicurezza del carcere, sia per gli operatori che hanno rilevanti responsabilità anche di carattere penale. Ansia e forti stati depressivi sarebbero generati anche dalla gestione dei detenuti stranieri oltre che dai soggetti con problemi di carattere psicologico.

Una formazione inadeguata. “Con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è aumentata la presenza dei detenuti con problemi psichiatrici nei normali istituti penitenziari – puntualizza Angelo Urso – anche in questo caso la formazione ricevuta dagli agenti per fronteggiare queste situazioni, è ritenuta dagli stessi insufficiente”. Il 94,5% degli intervistati considera questo uno dei fattori più critici, per la difficoltà di far fronte alle crisi anche violente che hanno frequentemente questi detenuti. “La durata della vita lavorativa si allunga. Si va in pensione più tardi e sono pochi i giovani che subentrano- prosegue il segretario generale Uilpa- uno degli aspetti più delicati è, infatti, il turno di notte. Circa l’85% degli agenti dichiarano una maggiore e sempre crescente difficoltà di adattamento ai turni avvicendati, comprensivi di quello notturno, soprattutto per gli operatori più anziani”. A generare il malessere che nel 35% dei casi, ha portato ad un disagio pesante e dai risvolti allarmanti tra gli agenti, c’è anche la poca esperienza e capacità di gestione degli eventi critici da parte dei dirigenti e commissari. 

I dirigenti sono "distratti" e poco preparati. Gli agenti dichiarano che di fronte alle difficoltà che si trovano ad affrontare quotidianamente nei settori carcerari, il supporto di dirigenti e, talvolta, dei colleghi è scarso. In effetti, i dati, fanno emergere rapporti critici con addirittura segnalazioni di molestie, prepotenze e vessazioni. “In generale viene lamentato un approccio distante e poco comprensivo delle problematiche di chi lavora in prima linea - continua Urso-  e i momenti di comunicazione sono scarsi o del tutto assenti. Sono carenti anche le risposte della direzione alle problematiche dei detenuti. Non a caso quasi la metà degli agenti afferma che “le richieste vengono regolarmente ignorate”, mettendo così il personale nella stressante condizione di non avere delle risposte da dare”.

Ma dall’indagine effettuata tra gli agenti, c’è un aspetto inquietante: il 73% del personale di polizia penitenziaria denuncia di non sentirsi tutelato dalla direzione e teme che “le responsabilità non sarebbero adeguatamente identificate se qualcosa dovesse andare male”. In sostanza, temono atteggiamenti “pilateschi” da parte dei vertici del carcere.

Strutture fatiscenti e divise poco dignitose. Non poteva non emergere dal sondaggio anche le condizioni fatiscenti nelle quali gli uomini e le donne della Penitenziaria, sono costretti a lavorare. Quindi, carceri prive dei requisiti igienico-sanitari minimi e strutture non sicure sotto il profilo costruttivo. Persino le divise, secondo il 72% dei lavoratori, non permetterebbero di presentarsi in maniera dignitosa ed autorevole. “E’ necessario un potenziamento del personale e l’ottimizzazione delle procedure operative per ridurre i carichi di lavoro e quindi stati di stress critici tra gli agenti- conclude Angelo Urso- occorre porre attenzione alla formazione in quanto è uno strumento indispensabile per mettere gli operatori in grado di affrontare le situazioni critiche che sono inevitabili nel lavoro carcerario. Analogamente, però, è indispensabile anche quella per i commissari finalizzata a superare le gravi e fondamentali carenze del management che gli agenti hanno denunciato nel sondaggio”.

Caso Alpi, 3 milioni di risarcimento ad Hassan per errore giudiziario, scrive Damiano Aliprandi il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Riconosciuto un risarcimento di oltre 3 milioni di euro per i 17 anni scontati da innocente. È quanto è stato disposto in favore di Hashi Omar Hassan, il somalo che ha scontato, da innocente, quasi 17 anni di carcere per gli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Hassan, poi è stato assolto in un processo di revisione. La notizia, anticipata da Chi l’ha visto? – trasmissione che fece riaprire il caso -, è stata poi confermata all’Ansa dall’avvocato Antonio Moriconi, uno dei legali di Hassan. La Corte di Appello di Perugia, che il 19 ottobre 2016 aveva assolto Hashi Omar Hassan dall’accusa di aver ucciso nel marzo 1994 a Mogadiscio la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, gli ha riconosciuto un risarcimento di 3.181.500 euro per 6.363 giorni scaturiti da un errore giudiziario. Cinquecento euro per ogni giorno trascorso in carcere da innocente. Unico condannato (26 anni di reclusione) per l’omicidio della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadisco il 20 marzo del 1994, è stato scagionato nel 2016 e rimesso in libertà dalla Corte di Perugia che ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale Dario Razzi. «Se è vero che Hassan è stato condannato dobbiamo avere anche il coraggio di ammettere che possa essere innocente», aveva detto il magistrato. Convinta dell’innocenza di Hassan si è sempre detta la famiglia di Ilaria Alpi. Teste chiave del processo a suo carico era stato un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, il quale però prima alla trasmissione “Chi l’ha visto”, andata in onda il 18 febbraio 2015, aveva ritrattato le sue accuse. In particolare sostenendo di non aver «detto a nessuno» che Hassan «faceva parte del commando» autore del duplice delitto e «nemmeno che è stato lui a uccidere». Spiegando di averlo collocato sull’auto degli assassini solo «per dare credibilità» al racconto, costruito su particolari raccolti da chi vide l’agguato. «L’ho fatto solo per andarmene via dal Paese», aveva ribadito. Rimane però senza colpevole l’agguato che costò la vita a Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. Sul caso si sono alternati negli anni ben cinque magistrati e tre procuratori. Eppure, nessuno è riuscito a porre fine ai troppi evidenti depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. L’unica certezza è che a pagarne ingiustamente le spese è stato il somalo Omar Hassan. Nel 2000 venne arrestato e inserito nel circuito E. I. V. (elevato indice di vigilanza) sezione “protetti”, riserva d’appello a soggetti che temono per la propria incolumità personale. Nel 2009 venne poi assegnato nel circuito “Media Sicurezza” riservato ai detenuti comuni e trasferito presso la sezione “protetti” del carcere di Padova. Presso tale sede non si verificarono criticità e dal 30.04.2013 ha iniziato a fruire di regolari permessi premio concessi dalla locale magistratura di sorveglianza; in data 19.04.2015 è stato scarcerato per affidamento in prova al servizio sociale. Nessuno potrà ridargli i 17 anni di vita rubati, ma almeno ha avuto il giusto risarcimento per l’errore giudiziario. È necessario distinguere il risarcimento per l’ingiusta detenzione da quello per l’errore giudiziario. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti.

La melanzana rubata che ci costa 8.000 euro. In Italia si moltiplicano le cause intentate per motivi assurdi e si accumulano pendenze che non si riesce a sbrigare. In Cassazione nell’ultimo anno sono circa 106 mila, scrive il 27 marzo 2018 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Può una melanzana costare ai contribuenti 8.000 euro? Certo, ci sono questioni di principio che non hanno prezzo. Ed è ovvio che la magistratura deve esser libera di andare avanti con una causa giudiziaria anche se dovesse costare un milione. Ma solo se si tratta, appunto, di una questione di principio fondamentale. Non per una melanzana rubata nel campo di un contadino che, per non coprirsi di ridicolo, non aveva neppure sporto denuncia. Eppure così è andata: Simone Saba, rubato nel lontano 2009 l’ortaggio (1,20 euro al chilo, oggi) è stato protagonista di tre processi finché la Cassazione, finalmente, ha chiuso la faccenda per la «tenuità» del reato. Il tutto a spese, come spiegano le cronache, della collettività. Compreso il difensore dato che il ladruncolo era nullatenente. Se si trattasse di una curiosità bizzarra, amen. Il guaio è che il costosissimo tormentone è solo l’ultimo di una lunga serie. Che ha visto la Cassazione trascinata nel gorgo di processi demenziali. Come quello sul bucato steso ad asciugare: «Qualora i panni sciorinati invadano con la loro parte pendente o l’acqua gocciolante il terrazzo alieno ci si trova di fronte a una compressione del godimento del proprietario sottostante?». O sull’asina andata a brucare sul campo del vicino: anni di udienze e scontri dal primo grado al secondo e su su in Cassazione finché i giudici avevano rinviato tutto al primo grado perché, per quel reato, l’asina solitaria andava «considerata mandria».

Per non dire di altre cause avviate con le motivazioni più assurde. Dalla permalosissima signora che querela la vicina perché le ha mandato un Sms con scritto «Perepe qua qua qua qua perepe» fino al suocero che fa causa per truffa alla nuora rea di aver messo in tavola agnolotti comprati e non fatti in casa e così via... Deliri. Tanto più in un Paese dove la Cassazione, dice l’ultimo dossier di Studio Ambrosetti, continua ad accumulare pendenze che non riesce a sbrigare: «Circa 106mila rispetto alle 103mila dell’anno precedente». «Causa che pende / causa che rende», recita un vecchio adagio degli avvocati più cinici. Certo è che ancora una volta torniamo a rimpiangere Eleonora, la giudicessa d’Arborea che alla fine del Trecento stabilì nella «Carta de Logu»: «Vogliamo e ordiniamo che al fine di limitare le spese ai sudditi ed ai litiganti circa vertenze o liti che non superano i 100 soldi sia vietato appellarsi a Noi o ad altri funzionari regi...».

 “Non è mafioso”: Caridi scarcerato dopo 20 mesi di galera. L’ex senatore è libero per mancanza di indizi, scrive Simona Musco il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio". L’ex senatore Antonio Caridi, dopo 20 mesi in cella, è di nuovo un uomo libero. Lo ha deciso ieri il tribunale del Riesame di Reggio Calabria, che ha annullato la custodia cautelare riqualificando l’accusa di associazione mafiosa in concorso esterno. La vicenda era tornata al tribunale della libertà dopo due annullamenti da parte della Cassazione, che aveva censurato le motivazioni con le quali era stato confermato il carcere per il politico, coinvolto nell’inchiesta “Mammasantissima”, poi unificata assieme ad altri procedimenti nel maxi processo “Gotha”, per il quale è stato rinviato a giudizio. Per Caridi il Senato aveva votato l’arresto ad agosto 2016, con 154 senatori favorevoli, 110 contrari e 12 astenuti. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi, che aveva condensato su due pagine il proprio pensiero. «Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria», aveva affermato poco prima di lasciare l’aula alla volta di Rebibbia. Non aveva convinto dunque i suoi colleghi, persuasi invece dalla tesi della Dda di Reggio Calabria, secondo cui il senatore in quota Gal sarebbe stato al servizio della cosiddetta cupola grigia, una struttura riservata e invisibile – al cui vertice ci sarebbero l’ex deputato Paolo Romeo, l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra, l’avvocato Giorgio De Stefano ( condannato a 20 anni in abbreviato) e il funzionario Francesco Chirico ( che è stato assolto) -, capace di interloquire «drammaticamente» con la ‘ ndrangheta, «per consentire l’attuazione del programma criminoso anche negli ambiti strategici della politica, dell’economia e delle istituzioni». Caridi, dunque, sarebbe stato «soggetto strumentale rispetto alle finalità» della cupola, che ne avrebbe sfruttato la carriera politica sin dal 1997, quando si candidò comunali di Reggio Calabria, potendo contare sul sostegno del clan De Stefano per almeno 13 anni. E, una volta eletto, avrebbe operato «in modo stabile, continuativo e consapevole» a favore del gruppo criminale, facendo confluire ingenti risorse pubbliche su imprenditori “amici”. Ma tali accuse sono state ridimensionate ieri dal Riesame, che ha ritenuto insussistente l’ipotesi dell’appartenenza alla cupola, facendo venire meno le esigenze cautelari. La discussione era iniziata il 20 marzo ed è terminata ieri, dopo l’analisi di migliaia di pagine di atti prodotti dalla Procura. «È stata un’udienza lunghissima, approfondita – ha spiegato al Dubbio l’avvocato Valerio Spigarelli, suo difensore insieme al collega Carlo Morace -, che ha avuto come esito la restituzione della libertà a chi non doveva evidentemente esserne privato. Su tutto il resto interloquiremo nelle dovute sedi, ma l’ipotesi per cui è stato arrestato, in questo momento, non trova conferma. Siamo soddisfatti – ha aggiunto -. Questo processo si doveva svolgere senza la carcerazione di Caridi. Ci riserviamo ogni ulteriore commento a quando leggeremo la motivazione, annunciando che anche per ciò che residua faremo comunque ricorso per Cassazione. La cosa fondamentale per noi è che ora sia libero». La Cassazione nei mesi scorsi aveva chiesto al Riesame di ricostruire le questioni di «gravità indiziaria», «la condotta in concreto» di Caridi, la sua rilevanza penale e la corretta qualificazione giuridica, anche in termini di esigenze cautelari. Diverse le censure mosse dalla Suprema Corte, soprattutto sul ruolo di Caridi nella presunta associazione segreta (la cui esistenza è stata certificata dalla sentenza in abbreviato), ritenuto poco chiaro, a partire dai rapporti del politico reggino con il fulcro di tale cupola, Paolo Romeo. L’ipotesi secondo cui sarebbe stato a tempo indeterminato un esecutore del programma della struttura segreta, avevano obiettato i giudici, «non trova nessun riscontro in atti sul piano della gravità indiziaria». E ad eccezione di una conversazione intercettata nel 2014, su questioni relative alla costituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, non è stato indicato nessun altro contatto tra Romeo e l’ex senatore da cui evincere «un collegamento fra la carriera politica di Caridi e la prospettata struttura segreta».

Il caso Caridi e quei senatori senza coscienza. Il Parlamento diede l’ok all’arresto del senatore, ora si scopre che non c’è uno straccio di indizio, scrive Piero Sansonetti il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Antonio Caridi è stato scarcerato. Il tribunale della libertà ha accertato che non è né il capo della mafia, né uno dei capi (come era stato ipotizzato al momento della prima richiesta di arresto) e neppure un docile strumento della cosiddetta “Cupola grigia” (come fu ipotizzato in un secondo tempo, visto che l’ipotesi che fosse il boss dei boss appariva un po’ comica). Il tribunale della libertà ha preso questa decisione dopo che la Cassazione, per ben due volte di seguito, gli aveva fatto notare che, lette e rilette le carte, non era saltato fuori neppure un indizio piccolo piccolo che suffragasse l’ipotesi di Caridi mafioso. Avendo accettato l’ipotesi della Cassazione che l’accusa non reggeva, il tribunale ha deciso di scarcerare Caridi e di accontentarsi di un’accusa più modesta: concorso esterno. Come sta la coscienza di quei senatori che hanno fatto arrestare Caridi? Diciamo che il capo della mafia comunque non faceva parte della mafia… E così ha potuto scarcerarlo. E scarcerandolo ha ammesso che Antonio Caridi, senatore della Repubblica fino a una settimana fa (e ora non più perché la sua condizione di detenuto gli ha impedito, di fatto, di presentarsi a nuove elezioni) è stato tenuto in prigione ingiustamente per venti mesi. Se adesso parlo di sopruso, di grandissima ingiustizia, di persecuzione, qualcuno mi dirà che cerco sempre lo spunto polemico? E cioè mi farà capire che in fondo tenere in prigione un senatore per venti mesi, senza avere un indizio in mano, sulla base di una accusa palesemente cervellotica (come questo giornale, solo soletto, sostiene esattamente da 20 mesi) non è una cosa scandalosa, fa parte della routine di una giustizia perfettibile ma comunque funzionante? Penso che qualcuno me lo dirà. E mi dirà che se Caridi non è più accusato di associazione mafiosa, comunque è accusato di concorso esterno, che è un reato grave. Già, infatti questa sentenza del tribunale della libertà – che giunge con un ritardo mostruoso e in nessun modo giustificabile visto che circa un anno fa la Cassazione dichiarò incomprensibile l’arresto di Caridi – sembra piuttosto ipocrita. Di fronte all’evidenza dei fatti, messa sul tavolo dalla Corte di Cassazione (e cioè l’assenza di indizi di colpevolezza) il tribunale della libertà, per non sbugiardare in modo clamoroso la Procura, ha deciso di derubricare l’accusa. Come dire: vabbé, non ci sono indizi di nessun tipo sui rapporti di Caridi con la “Cupola”, né su iniziative parlamentari che lui ha preso a favore della “Cupola”, né su favori che le ha fatto, né tantomeno su favori che ha ricevuto, e quindi, evidentemente non è mafioso; però, almeno un po’ di concorso esterno può restare in piedi… Sarebbe come se di fronte all’evidenza che il tal dei tali non ha commesso un omicidio, si dicesse: beh, però almeno lo avrà ferito… Lasciamo stare questo capitolo, sul quale la Cassazione dovrà pronunciarsi per la terza volta ( poi dicono che la macchina della giustizia si intasa…). Restiamo ai fatti di oggi. Possiamo tranquillamente affermare tre cose. La prima è che la Procura ha fatto arrestare una persona senza indizi. E che questa persona era un senatore. E che è abbastanza probabile che la Procura lo abbia fatto arrestare proprio perché era un senatore. La seconda è che il Senato della Repubblica, di fronte a una richiesta di arresto senza indizi, non si è domandato il perchè ma ha piegato la testa dinnanzi al volere dei giudici. Su che base la maggioranza dei senatori ha deciso che c’erano indizi sufficienti per dare il via libero alla carcerazione del loro collega? C’è uno solo dei senatori che 20 mesi fa votarono per l’arresto e sostennero che gli indizi erano sufficienti, che oggi saprebbe elencarmi quali erano questi indizi sufficienti? Cosa provano ora i senatori che mandano in carcere il senatore Caridi, e provocarono i venti mesi di detenzione, cosa provano di fronte alla notizia che fu un errore? La terza cosa chiarissima è che i giornali e le Tv e i talk show e la rete e tutto quanto vi piace definire con il termine “informazione”, tutto questo “circo” è del tutto inutile quando si parla di giustizia. Perché quando si parla di giustizia i giornali dicono una sola cosa: evviva il Pm. Non c’è stato un giornale (salvo il nostro) che in questi mesi si sia occupato del caso-Caridi, non c’è stato un singolo giornale o una singola Tv che abbia sollevato il problema della assenza di indizi contro di lui e della follia della concessione, da parte del senato, del mandato di arresto. Qualcuno sarà chiamato a rispondere di questo atteggiamento arrogante e immorale? Da parte dell’informazione, da parte di moltissimi senatori, da parte di alcuni magistrati? Beh, di tutte le domande che ho posto, quest’ultima è l’unica alla quale ho una risposta sicura: no, nessuno.

Albamonte: «Pm e giornalisti, ora basta con le notizie a mercato nero», scrive Giulia Merlo il 28 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’allarme del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «C’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria». Lo ha definito «il mercato nero delle fonti», il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte. Un “mercato nero” in cui «l’informazione è costretta a stabilire un rapporto preferenziale con una o con l’altra parte del processo per avere notizie e documenti» è sintomo di un giornalismo che «potrebbe essere forzato verso una posizione piuttosto che sull’altra, mentre deve essere neutrale». Mai il sindacato delle toghe si era espresso in maniera tanto esplicita, prendendo posizione nella battaglia contro la spettacolarizzazione delle inchieste anche a spregio dei limiti di legge, che da tempo viene portata avanti anche dall’avvocatura. «Con il giornalismo spettacolo c’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria», ha continuato il leader di Anm, che ha parlato davanti a una platea più che interessata: i giornalisti che hanno preso parte al seminario sulla libertà di stampa, organizzato dall’Associazione Stampa Romana. Il magistrato ha poi evidenziato i rischi della mediatizzazione dei processi nei talk show: «può provocare effetti distorsivi, producendo un’opinione sfalsata rispetto al procedimento giudiziario in corso». Albamonte non ha risparmiato critiche a un giornalismo «borderline», dove «si fa credere di fare informazione e invece si fa intrattenimento, che è cosa ben diversa dal giornalismo “orientato”, che invece fa parte della tradizione italiana». E, siccome la giustizia non deve essere in alcun modo confondibile con l’intrattenimento, la cronaca giudiziaria avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento. Sul fronte della magistratura, il leader di Anm ha rilevato come serva una «migliore comunicazione» tra toghe e giornalisti, perchè la distorsione delle notizie nasce da una mancata comprensione: «La giustizia italiana si dovrebbe dotare di uffici stampa, composti da professionisti dell’informazione e da magistrati, per diramare note esplicative sulle decisioni adottate e far capire il percorso seguito nel processo». E, a prescindere da questo intervento sugli uffici, «i magistrati devono lavorare sul linguaggio da utilizzare nei loro atti, che non deve essere criptico». Capitolo dolente in materia di giustizia, Albamonte ha affrontato anche la questione delle intercettazioni, riconoscendo alla riforma Orlando di essersi mossa nella giusta direzione: «Le intercettazioni strumenti molto forti sia dal punto di vista dell’indagine giudiziaria sia dal punto di vista dell’informazione all’opinione pubblica. Negli anni abbiamo assistito al tentativo di ridurre le intercettazioni o la loro pubblicazione, ora la legge cerca di raggiungere un punto di equilibrio». Infine, il presidente dell’Anm non ha risparmiato un’ulteriore critica alla stampa italiana: la mancanza di vero giornalismo d’inchiesta. «Siamo un Paese con una forte tradizione e una volta i capi delle Procure avevano fin troppi articoli di giornale sulla loro scrivania, oggi è il contrario». Forse anche questo un effetto del rapporto privilegiato della stampa con una sola parte del processo, rinunciando alla neutralità e dunque all’autonoma ricerca di notizie. L’intervento si è chiuso con un monito, rivolto non solo ai giornalisti: «L’informazione sulla giustizia è una scelta strategica: è indispensabile per la giustizia e per spiegarne le dinamiche ai cittadini».

Il giustizialismo? Una questione di classe…, scrive il 25 febbraio 2018 Iuri Maria Prado su "Il Dubbio". Il Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà. Ma la responsabilità oltre che della politica è delle persone socialmente dominanti e influenti. "Caro direttore, è certamente colpa delle schiatte politiche e di governo se il sistema carcerario nel nostro Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà. Ma a mantenerlo in quelle condizioni è anche l’atteggiamento delle classi socialmente dominanti e influenti: la gente che sta bene, per capirsi. Non che la fascia povera e disagiata dimostri più attenzione e umanità davanti alla rassegna di ingiustizia e illegalità quotidianamente offerta dalla cronaca carceraria, anzi: e semmai è proprio dal ventre plebeo del Paese che viene la reazione più violenta all’idea che ci si debba preoccupare di far vivere appena decentemente i detenuti. Ma almeno quel vasto settore di popolo reazionario ha una scusante: non ha avuto a disposizione gli strumenti per farsi un’idea diversa e, soprattutto, non ha nessuna capacità di influenza. E’ soltanto la materia passiva degli esperimenti elettorali e delle inerzie dei deputati a cambiare le cose: accomodati a non cambiarle in faccia a un popolo al quale va benissimo che non cambino. Le classi agiate e culturalmente più attrezzate non hanno analoghe scusanti. E la loro colpa è dunque più grave. E a contrassegnare questa colpa, a ben guardare, è un profilo particolarmente odioso: la sistemazione di classe, appunto. Il censo. La posizione di privilegio sociale. L’idea, immonda, che dopotutto un “delinquente” il carcere non lo soffre poi tanto: ché è il suo ambiente. Ricordo con un certo schifo una cerimonia di presentazione di un libro di non so più quale giornalista sopra i tanti casi di cosiddetta ( e giustamente detta) malagiustizia al tempo del terrore giudiziario degli anni Novanta, a Milano. Accanto a me stava un avvocato il quale, commentando quel reportage effettivamente agghiacciante, mi spiegava: “Sai, io sono garantista. Perché per un balordo, per un delinquente, finire in galera non è nulla: ma per una persona come noi, una persona perbene, è un dramma”. Ero allora piuttosto giovane e molto sprovveduto, ma non abbastanza per non capire di quale pasta fosse davvero fatto il “garantismo” di certi presunti liberali; sui quali doveva purtroppo aver ragione ancora dopo tanto tempo Corrado Alvaro: il loro, scriveva, “non è un partito, ma l’atteggiamento di chi non ha gravi ragioni di sofferenza”. A quella creatura seduta accanto a me, nemmeno remotamente si presentava il sospetto che il suo fervore garantista fosse magari male orientato, e determinato non dal senso di ribellione davanti all’ingiustizia del carcere incivile ma dal timore di poterci finire lui, un “galantuomo”. Che è già qualcosa, per carità, nel senso che un garantismo in prospettiva egoistica può in ogni caso contribuire a diffondere qualche sensibilità riformatrice: ma resta il segno di un rapporto abbastanza disturbato con le esigenze di amministrazione di un Paese che fino a prova contraria dovrebbe offrire la stessa giustizia a tutti, possibilmente decente e senza distinzioni di rango. C’è dunque anche questo, disgraziatamente, a restringere la via già accidentata verso un miglioramento possibile del sistema carcerario nel nostro Paese: una pulsione garantista semmai autoprotettiva, oltretutto dannosa perché offre alla reazione giustizialista l’argomento ottimo secondo cui la militanza per lo Stato di diritto ammanta in realtà l’interesse bieco di chi vuole “farla franca”. Se i “galantuomini” si occupassero in primo luogo dei “balordi”, proteggerebbero infine anche se stessi. Ma dovrebbero capire che non meritano un carcere così incivile perché sono persone: non perché sono persone “per bene”".

Squadrismo giudiziario: attenti, così ci abituiamo, scrive Mauro Mellini il 21 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". La politica dei perseguitati è quella di cercare che si parli del torto da loro subìto meno possibile, di farlo passare per un “incidente”, attribuendo la responsabilità a qualche disgraziato “equivoco”. C’è uno “squadrismo giudiziario”, una serie di operazioni di plateale giustizialismo con finalità soprattutto mediatiche (ma con danni d’ogni genere) che si susseguono e si confondono con la normale (e, come tale non certo esemplare) attività giudiziaria. Si confondono anche perché diversamente da quanto avveniva in altri episodi, colpiscono in direzioni diverse e, almeno apparentemente opposte. Ma ciò è determinato dal fatto che c’è ora uno schieramento politico più frastagliato e, poi, la tendenza ad abbandonarsi ad una attività che meglio non potrebbe definirsi come, appunto, “squadrismo giudiziario” e più ampia e diffusa. C’è indisciplina anche nel Partito dei Magistrati ed il potere e la mancanza di una correlativa responsabilità finisce per de- terminare uno stile, una “normalità dell’anormale” che ha preoccupanti connotazioni di un vero “anarchismo giudiziario”. La tendenza della magistratura ordinaria ad operare in modo da sostituirsi agli altri poteri dello Stato, a “sconfinare” in giudizi che sono e debbono essere riservati al potere esecutivo o, al più, alla magistratura amministrativa, crea questa situazione che ha, poi, nella pubblica opinione, l’effetto, da una parte, di ingigantire la convinzione, che già si fonda su dati assai rilevanti di indubbia gravità, di fenomeni corruttivi e di illegalità e dall’altra sta creando assuefazione e convinzione di ineluttabilità dell’arbitrarietà e della strumentalità politica della magistratura. Quello però che è più grave è che, come già le forze politiche fatte specifico e particolare oggetto della persecuzione giudiziaria, prima con “Mani Pulite”, poi con la caccia a Berlusconi ed ai suoi, continuano a non reagire, a non denunziare al Paese la gravità ed il carattere di gravissimo problema politico dell’atteggiamento della magistratura. La politica dei perseguitati è quella di cercare che si parli del torto da loro subìto meno possibile, di farlo passare per un “incidente”, attribuendo la responsabilità a qualche disgraziato “equivoco”. Si arriva a lamentare la facilità degli “avvisi di garanzia”, dei provvedimenti cautelari, si riduce a qualche ipocrita e cretina espressione di “ho fiducia nella giustizia”, espressione che varrebbe da sola a far cadere ogni fiducia in chi questo afferma. Ma lì ci si ferma. Si comincia a criticare qualche “eccesso” dell’Antimafia, ma non si denunzia la mafiosità intrinseca dell’Antimafia. Molti oramai credono che io non sia fuori di testa perché da anni parlo di “Partito di Magistrati”. Ma assai pochi ammettono che tale partito esiste e che negarlo significa non voler capire nulla della politica italiana. Il Centrodestra, bersaglio per anni di una sfrenata campagna di aggressione politicogiudiziaria, in nome della “moderazione” e di un presunto rispetto delle opinioni dei “moderati”, protesta meno di tutti, lasciando credere, con ciò, che nei suoi confronti la prevaricazione giudiziaria sia meno ingiustificata. Ho già avuto modo di esprimere la mia opinione che queste elezioni colgono a metà traiettoria una serie di movimenti che hanno cominciato a manifestarsi nel Paese. E’ certo così. Ma è pur vero che sono mezzi uomini quelli che non osano fare di certe convinzioni oggetto di battaglie politiche. Il pensiero “a metà”, l’” agire a metà”, non è espressione di cautela e di prudenza. Avremo, questo è quello che molti ammettono, risultati elettorali “a metà”. Si dovrebbe dire che, però, è questo il risultato che in fondo, rappresenta con dolente esattezza la realtà di un Paese, in cui non si ha il coraggio e la capacità di fare le cose per intero.

Così Woodcock “prometteva” vacanze a Poggioreale…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Come iniziare in un ufficio giudiziario l’interrogatorio di un testimone? Facendolo prima avvicinare alla finestra da dove si vede la facciata del vicino carcere e domandandogli se, per caso, non abbia voglia di trascorrervi una vacanza. Oppure, altro modo, mostrare dei fili spacciandoli per delle microspie e dicendo al testimone che è stato intercettato, anche se ciò non è vero. Sarebbe questo, in sintesi, il “metodo” Woodcock di condurre alla Procura di Napoli gli interrogatori. Tali tecniche investigative alquanto particolari, sono emerse ieri al Consiglio superiore della magistratura durante l’udienza disciplinare a carico dei pm napoletani Henry John Woodcock e Celestina Carrano, titolari di uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Ai due magistrati è stato contestato l’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua, già consigliere dell’allora Premier Matteo Renzi. Indicato dall’ex ad di Consip, Luigi Marroni, come uno dei soggetti che lo informarono di una indagine in corso, Vannoni, che chiamò in causa l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma dei carabinieri, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, venne ascoltato dai pm napoletani come persona informata dei fatti, cioè come testimone, senza l’assistenza di un difensore. Secondo la Procura generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare c’erano, però, già allora gli elementi per iscrivere Vannoni nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia e, soprattutto, con quelle “irrituali” modalità avrebbe leso la sua dignità. Al termine dell’interrogatorio Vannoni, come riportato nel capo di incolpazione del Pg della Cassazione Mario Fresa che ha svolto l’istruttoria, si sarebbe sentito “sconvolto”, “frastornato” e “scioccato”. Il metodo Woodcook prevederebbe, poi, anche carta bianca alla polizia giudiziaria, in questo caso i carabinieri del Noe comandati allora dal capitano, poi promosso maggiore, Gianpaolo Scafarto. Sempre secondo il Pg della Cassazione Vannoni doveva “confessare” con molteplici domande confuse che gli venivano rivolte dai carabinieri. Woodcock deve rispondere anche di un’altra accusa. Si riferisce ad un articolo pubblicato il 13 aprile scorso dal quotidiano La Repubblica nel quale, in un colloquio con la giornalista Liana Milella, il magistrato si sarebbe lasciato andare a giudizi di valore sui colleghi romani. In particolare, dopo la notizia che Scafarto era stato indagato per falso dai pm romani per aver attribuito ad Alfredo Romeo, l’imprenditore al centro dell’inchiesta, un’affermazione su un incontro con il padre di Matteo Renzi, Tiziano, in realtà pronunciata da Italo Bocchino, Woodcock dichiarò che quel falso doveva essere considerato come frutto di un mero errore e non come un depistaggio intenzionale. Dopo una relazione al Csm dell’allora procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso, l’allora Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo avviò l’azione disciplinare, accusando il pm di un comportamento “gravemente scorretto”: sia nei confronti di Fragliasso per non aver rispettato il suo invito a mantenere il riserbo con gli organi di informazione, sia nei confronti dei colleghi della Procura di Roma per aver pubblicamente “contraddetto e svalutato l’impostazione dei magistrati della Capitale”. Il prossimo 15 marzo l’udienza disciplinare entrerà nel vivo con l’audizione dei testimoni. I pm napoletani sono difesi dal’ex procuratore generale di Torino Marcello Maddalena e da Antonio Patrono, attuale procuratore di La Spezia. I due magistrati sono fra gli esponenti di punta di Autonomia& Indipendenza, la corrente fondata dall’ex Pm di Mani pulite Piercamillo Davigo.

La ferocia al posto della legge, scrive Piero Sansonetti il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’incredibile storia di Angelo Di Marco, morto a 58 anni e tenuto in carcere a Rebibbia in modo assolutamente illegale. Angelo Di Marco aveva 58 anni ed era tenuto in prigione in modo assolutamente illegale. Le sue condizioni di salute erano incompatibili con il carcere. La sua situazione giudiziaria permetteva largamente la concessione dell’affidamento ai servizi sociali. Tenerlo in prigione è stato un atto in violazione aperta ed evidente degli articoli 27 e 32 della Costituzione. Una sfida arrogante a quegli articoli. Se non li conoscete li copiamo qui (anche ad uso di qualche magistrato che magari li ha scordati): «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Così è scritto all’articolo 27. Invece l’articolo 32 precisa che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo».

Angelo Di Marco è morto solo, da detenuto, vomitando sangue. Perché stava in prigione, per un reato che la giurisprudenza definisce bagatellare, sebbene avesse il fegato a pezzi? Perché è stato lasciato morire in modo atroce, solo e abbandonato nell’infermeria di Rebibbia, sebbene esistessero tutte le documentazioni necessarie che provavano la gravità della sua malattia? State tranquilli. Non solo nessuno pagherà per quello che è successo, ma non ci saranno né giornali né partiti politici che chiederanno conto. Se c’è il sospetto di una caso di malasanità, l’informazione scatta subito. Della malagiustizia non frega nulla a nessuno. State tranquilli, oggi sui giornali questa notizia non la troverete, o la troverete piccola piccola. State tranquilli, quello di Angelo Di Marco non è un caso clamoroso. È successo tante altre volte, e tante altre volte è passato sotto silenzio. No, non ho nessuna voglia di chiedere punizioni esemplari per i responsabili. Non mi piace chiedere punizioni per nessuno, e poi so che la legge non permette di punire i magistrati. Vorrei solo che qualche magistrato serio, come ce ne sono tanti, esprimesse solidarietà ai familiari di Angelo Di Marco. Mi piacerebbe se lo facesse anche il Csm, e magari anche il ministro. E soprattutto mi piacerebbe se il sacrificio del signor Di Marco valesse almeno come spinta per affrettare la riforma carceraria. La riforma è lì, sul tavolo del governo. Attende solo un atto formale. Cinque minuti. Bisogna approvarla senza modifiche. Rita Bernardini e quasi altre mille persone da un mese stanno facendo lo sciopero della fame per sollecitare questo provvedimento. Non è una riforma pericolosa, è solo un atto di civiltà. Come spiega molto bene Simona Giannetti a pagina 14, non è una riforma che libera i mafiosi né tantomeno che riduce il potere dei magistrati. Al contrario: allarga la possibilità per i magistrati di decidere sulla liberazione e sulle pene alternative per chi ne ha diritto. E noi speriamo che molti magistrati possano usare con saggezza questi nuovi poteri. Il grado di civiltà di un paese non si calcola sul numero delle persone che riesce a sbattere in prigione. Si calcola sulla capacità dello Stato di difendere la legalità e anche di rispettare la legalità. Nel caso di Angelo Di Marco la legalità non è stata rispettata. E questa è una ferita profonda per la dignità nazionale.

Lasciato morire in carcere per una condanna a un anno, scrive Damiano Aliprandi il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni. L’11 febbraio si è sentito male, vomitava sangue ed è stato ricoverato d’urgenza ed è morto. Gravemente malato, da novembre scorso era detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una pena di poco meno di un anno, ma il tribunale di sorveglianza non solo ha vietato la concessione dell’affidamento in prova (visto che parliamo di una condanna inferiore ai 3 anni), ha anche ritenuto che fosse compatibile con la carcerazione. L’ 11 febbraio si è sentito male, vomitava tantissimo sangue e solo a quel punto è stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale Sandro Pertini. In codice rosso, operato di urgenza, l’hanno salvato in extremis, ma poi giovedì scorso il cuore ha smesso di battere ed è morto. Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni, ma ne dimostrava molti di più. Un romano che faceva una vita ai margini, dedito a piccoli reati e soffriva di diverse patologie epatiche, compresa la cirrosi, che gli avevano compromesso anche il cuore. Era talmente grave che, secondo una relazione medica del Sert di Rebibbia datata 8/ 3/ 2016, le sue condizioni risultavano «mediocri, suscettibili di peggioramento e non compatibili con il regime carcerario». La sua è una storia emblematica che riguarda tante altre persone come lui. Secondo quanto riferito dai volontari che l’hanno seguito sia dentro che fuori dal carcere, Angelo era una persona che ha vissuto in un contesto ambientale degradato, da giovanissimo era entrato nel tunnel della droga e per procurarsela commetteva alcuni reati, da piccoli furti a spaccio. La tossicodipendenza, unito all’alcolismo, l’ha portato in un vicolo senza uscita, sia mentale che fisico. Eppure, negli ultimi anni, aveva chiesto aiuto. È stato seguito sia dal Sert che dal dipartimento sanitario mentale, ma non si trovavano strutture socio sanitarie disposte ad ospitarlo. Troppo vecchio per una comunità di recupero, troppo giovane per una casa famiglia con persone fragili. Un continuo rimpallarsi tra il Sert e l’azienda sanitaria locale, e se non fosse stato per la disponibilità di alcuni volontari, sarebbe rimasto completamente da solo. Ed effettivamente lo era, in balia dell’inconsistente gestione socio sanitaria esterna e l’assistenza sanitaria carceraria che presenta tuttora numerose criticità. Parliamo di un caso che Marcello Dell’Utri – stavano nello stesso reparto G 14 di Rebibbia – ha segnalato al suo legale di Antigone Simona Filippi. Che è stata nominata dal detenuto sua avvocata venti giorni prima che morisse. «Quando facevo i colloqui con lui – spiega l’avvocato a Il Dubbio – si vedeva che stava malissimo, il viso era giallo e non si reggeva più in piedi». Stava male Angelo, ma già prima di essere condannato. Per questo, tramite un avvocato d’ufficio, aveva richiesto l’incompatibilità, oltre alla sospensione della pena visto la piccola entità della condanna. «Nel fascicolo di rigetto che poi ho avuto modo di visionare – spiega sempre l’avvocata Filippi –, su due paginette e mezzo, non c’è uno straccio di documento medico. Lo mandano in carcere de- dicando solo due righe sul discorso della presunta compatibilità con il carcere».

In sostanza, il tribunale di sorveglianza non ha ritenuto di acquisire documenti che certificavano il suo stato di salute. Per i magistrati, Angelo Di Marco poteva senza dubbio essere curato in carcere. La mattina di domenica 11 febbraio, Angelo si sente male e gli esce dalla bocca un po’ di sangue, ma – secondo quanto ricostruito dai sui compagni di sezione – per i medici che l’hanno visitato la cosa non desta allarme. Il pomeriggio, però, comincia a peggiorare vomitando nuovamente sangue, ma così tanto da riempire un secchio. Gli stessi detenuti dell’infermeria hanno cominciato a protestare per chiedere soccorsi. Solo a quel punto viene trasportato di urgenza all’ospedale e lo operano. Uscito dalla camera operatoria, lo hanno allettato nel reparto ospedaliero civile, con tanto di piantoni. L’avvocato Simona Filippi, nel frattempo, alla luce di quello che era successo, è riuscita a fissare un’udienza urgente con il tribunale di sorveglianza. Ma oramai era troppo tardi. Dopo pochi giorni Angelo muore, in solitudine, in un letto di ospedale.

Il procuratore scopre la gogna: «Io, sbattuto in prima pagina…», scrive Davide Varì l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Lo sfogo del magistrato di Brescia Tommaso Buonanno dopo l’arresto del figlio Gianmarco per rapina a mano armata. «Viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà dei fatti che gli sono contestati, ma io sono stato sbattuto in prima pagina anche se non ho fatto nulla». Sono giorni difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il ruolo di padre. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato di rapina a mano armata. E contro Tommaso Buonanno si è subito messa in moto la macchina della gogna che ha convinto il procuratore a prendere un periodo “riposo” perché, dice: «Voglio stare vicino a mio figlio». Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il suo ruolo di padre. Sono giorni molto difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato niente meno che di rapina a mano armata. Il figlio del procuratore avrebbe infatti assaltato un supermercato Conad armato di mitra. Valore del colpo: 12mila euro. Ma le videocamere avrebbero fotografato la targa della sua auto, peraltro intestata al padre. Di lì al momento dell’arresto sono passate poche ore. E poco dopo il procuratore ha fatto sapere di voler lasciare il suo lavoro per un lungo periodo. «Mi metto in ferie per stare vicino a mio figlio» avrebbe confessato. E poi lo sfogo, raccolto dal Corriere di Brescia: «Sono stato sbattuto in prima pagina, anche se non ho fatto nulla». E in effetti la stampa di mezza Italia si è sbizzarrita: “Figlio del procuratore con problemi di droga rapinava con il mitra”, era il titolo che campeggiava sui Tutti molto attenti a mettere in relazione la professione del padre e quella decisamente “meno nobile”, ma ancora tutta da provare, del figlio. «Un trattamento che ha penalizzato anche mio figlio – ha continuato il procuratore – si è parlato solo di lui. Un trattamento che rischia di metterlo anche in condizioni di pericolo in carcere, lì non ci sono persone per bene, quando sapranno che è figlio di un magistrato potrebbe anche correre dei pericoli. Anche l’uso di un’auto intestata a me da parte di mio figlio è stato enfatizzato: si tratta di una vettura che mio figlio usa da una vita, abbiamo discusso più volte perché è talmente vecchia che volevo la rottamasse». «Fino a prova contraria – dice il procuratore – viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà personalmente dei fatti che gli sono contestati, io posso continuare a guardare gli altri in faccia senza dovermi vergognare. Da 41 anni faccio il magistrato con dignità e anche con qualche risultato, come è stato dimostrato più volte. Posso continuare a fare il mio lavoro, come ho fatto finora. Gli sbagli di mio figlio sono una cosa, il mio lavoro è un’altra: lui ha sbagliato a Bergamo, io sono il procuratore a Brescia. Non c’è nessun profilo di incompatibilità, le indagini sono della procura di Bergamo». «In procura precisa Buonanno – non c’è alcuna situazione di tensione. Ma a questo punto preferisco prendere un periodo di pausa per stare con la mia famiglia». Buonanno aveva già passato qualche guaio anche con l’altro figlio, Francesco, quattro anni più giovane di Gianmarco, che un anno fa era finito in un’inchiesta sullo spaccio di droga nel mondo degli ultras dell’Atalanta. Ma in Italia c’è lo stato di diritto e la responsabilità penale è sempre personale, come ripete in questi giorni il procuratore Buonanno.

Bertolaso è innocente, chiedetegli scusa: assolto dopo 8 anni di gogna. Condannati Anemone e l'ex Provveditore Balducci. Per gli appalti super Guido "assolto perché il fatto non sussiste", scrive Augusto Parboni su "Iltempo.it" il 9 Febbraio 2018. «È una corruzione 2.0». Così l’hanno considerata gli stessi magistrati che hanno chiesto e, in parte, ottenuto, la condanna di chi è stato coinvolto nell’inchiesta G8 della Maddalena. A uscire invece indenne dal processo, l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso «perché il fatto non sussiste». Ma non finisce qui. Nel verdetto dei giudici dell’ottava sezione del tribunale di Roma ci sono state anche prescrizioni del reato. Insomma, quella di ieri è stata una sentenza che ha fatto luce su un presunto sistema corruttivo che ha coinvolto personaggi politici e istituzionali, che a differenza delle posizioni processuali, hanno ottenuto decisioni differenti. I giudici hanno emesso quattro condanne e una dozzina tra assoluzioni e prescrizioni nel processo romano legato agli appalti del G8 della Maddalena.

Riabilitato dopo il fango: Bertolaso assolto per il G8. Completamente scagionato "perché il fatto non sussiste". Ma il processo distrusse la Protezione civile, scrive Patricia Tagliaferri, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Lui, l'uomo delle emergenze, colui che accorreva dove c'era pericolo e risolveva i problemi, ha dovuto convivere per otto anni con l'accusa di essere un corrotto, uno che favoriva gli amici imprenditori negli appalti, talvolta anche solo per un massaggio a luci rosse. Nulla di tutto ciò è mai accaduto. Solo fango. Un calvario contro il quale Guido Bertolaso, un medico prima di essere funzionario di Stato, ha combattuto per la sua dignità e per quella della Protezione civile che ha guidato tanti anni e che dopo di lui non è stata più la stessa. Fino a ieri, quando il Tribunale di Roma lo ha completamente riabilitato assolvendolo con formula piena, «perché il fatto non sussiste», nonostante la Procura di Roma avesse sollecitato la richiesta di prescrizione. «Questo vale come una doppia assoluzione - ha commentato su Facebook - grazie alla mia famiglia e a chi mi è stato vicino in questi anni. Sono innocente, come ho sempre detto. Ora lo hanno dichiarato anche i giudici». L'ex capo della Protezione civile, dunque, non faceva parte della cosiddetta «cricca», per usare le parole del gip Rosario Lupo, composta da un gruppo di imprenditori e pezzi delle istituzioni, che operava «in un sistema gelatinoso» ed era capace di condizionare i maggiori appalti degli ultimi anni, dai Mondiali di nuoto a Roma del 2009 al G8 della Maddalena (poi trasferito a L'Aquila), fino alle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia. La seconda assoluzione per lui, dopo quella per l'accusa di omicidio colposo nel processo Grandi Rischi bis per il terremoto del 2009. Bertolaso l'ha festeggiata creando un gruppo WhatsApp chiamato «assolto», che ieri in poche ore ha raccolto centinaia di messaggi, congratulazioni e attestati di stima da parte di amici, parenti e collaboratori. «Questa assoluzione certifica che questo processo non doveva neanche cominciare, resta il rammarico che si sono dovuti attendere otto lunghi anni nel corso dei quali si è messa fuori campo una persona che certamente costituisce una risorsa per il Paese», ha commentato il suo avvocato, Filippo Dinacci. Oltre a quella di Bertolaso ci sono state una decina di assoluzioni e prescrizioni, ma anche quattro condanne per associazione a delinquere per i capi della «cricca»: sei anni e sei mesi per l'ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, sei anni per il costruttore romano Diego Anemone, quattro anni e sei mesi per l'ex provveditore opere pubbliche della Toscana Fabio De Santis e quattro anni per l'ex generale della Finanza Francesco Pittorru. L'inchiesta è nata alla Procura di Firenze, dalle indagini sulla costruzione della nuova Scuola Marescialli, e poi è stata trasferita prima a Perugia e poi a Roma per competenza. Secondo i magistrati c'erano Balducci ed Anemone, ai quali veniva contestata la corruzione e l'associazione a delinquere, al centro del gruppo che con favori e denaro si aggiudicava gare milionarie. «Una sorta di corruzione 2.0», aveva detto il pm nella requisitoria parlando di una rete fatta di «rapporti illeciti con soggetti di alto profilo istituzionale». Ma non tutto l'impianto accusatorio ha retto. Anche l'ex commissario straordinario ai Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi e l'ex funzionaria alla presidenza del Consiglio Maria Pia Forleo sono stati assolti. Prescritta invece la posizione di Daniele Anemone, fratello di Diego. «Soddisfatti» anche gli avvocati di Rinaldi, Nicola Madia e Livia Lo Turco.

Bertolaso assolto dopo anni di sofferenze, perché Mattarella non gli telefona? Mattarella chiami Bertolaso, scrive Pietro Mancini su Affari Italiani Venerdì 9 febbraio 2018. Perchè Sergio Mattarella, 76 anni, che è anche Presidente del Consiglio della Magistratura, non invia un telegramma, o non telefona a Guido Bertolaso, ieri assolto da ogni accusa, dopo aver lavorato, con correttezza ed efficienza, in situazioni drammatiche, per il nostro Paese? E perché qualche giornale, de'lotta dura e de'Procura, non chiede scusa all'ex responsabile all'ex Capo della Protezione civile, dopo averne sporcato l'immagine, presentandolo come un funzionario corrotto, che prediligeva messaggi hot, nel circolo sportivo del costruttore Anemone, stangato dal tribunale di Roma, insieme a don Angelo Balducci (sei anni e mezzo all'ex presidente delle Opere pubbliche)?

I giornalisti e la politica, scrive Augusto Bassi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". Gianluigi Paragone, Tommaso Cerno, Giorgio Mulè, Emilio Carelli, Francesca Barra, Primo Di Nicola sono i più illustri giornalisti che saranno candidati alle elezione del 4 marzo prossimo, trasversalmente, fra partiti e movimenti, fra forze conservatrici e riformiste. Una presenza in quantità e di qualità che non rappresenta tuttavia una rottura con il passato, quanto piuttosto la conferma di una interscambiabilità naturale fra l’impresa giornalistica e quella politica. Prima di loro c’erano stati, fra gli altri, Eugenio Scalfari, Michele Santoro, Dietlinde Gruber, Antonio Polito. E su questo tema mi era capitato di ascoltare una tavola rotonda del Parlamento Europeo dove intervenivano Antonio Tajani, David Maria Sassoli e Silvia Costa, anch’essi autorevoli ex giornalisti in seguito protagonisti ai più alti livelli di istituzioni sovranazionali. In questi giorni ho seguito con attenzione le testimonianze degli ex colleghi pronti al governo della comunità, invitati nei salotti televisivi a raccontare le ragioni di questa scelta. Così come ho letto le opinioni dei futuri elettori, ondeggianti fra convinto supporto e accuse di servilismo premiato. Ora, premetto che non ritengo deprecabile che un giornalista scenda, o salga, in politica. L’esercizio dell’obiettività, della neutralità, dell’imparzialità… è già di per sè ideologia. Ne abbiamo avuto manifesta testimonianza nell’ultima puntata di Piazza Pulita, dove Corrado Formigli – campione di quel giornalismo che pretende di raccontare i fatti, la realtà, senza filtri – ha mostrato una volta di più faziosità subdola quanto palmare. Vittorio Sgarbi gli ha levato la pelle con nevrosi chirurgica, lasciando all’osservatore il macabro spettacolo della crudité di un filisteo. Ma se è facile togliere la maschera al sedicente super partes, più difficile è prendere coscienza dell’inevitabilità di una dichiarazione, anche nel momento in cui la si rifiuta. Il giornalista non è un aruspice che legge le interiora degli animali, ma neppure un reporter. Il suo compito, in particolare nel tempo dell’immediatezza universale, non è quello di scattare l’istantanea del reale, che è comunque irriducibilmente parziale e soggettiva anche in un reportage. Non serve impegnarsi nel vano sforzo della terzietà. Deve piuttosto essere in grado di abdurre: ovvero di osservare i fatti come qualcosa di correlato, ipotizzandone le cause al fine di prevedere altri fatti, di scommettere sulle conseguenze, di condurre chi legge da ciò che è a ciò che sarà. Di pensare in maniera non lineare e post-convenzionale allargando l’orizzonte critico. Mentre il mondo è pieno di giornalisti che dopo sapevano tutto prima. Quando si parla un poco pretenziosamente di “ricerca della verità”, si intercetta la volontà buona di chi intende abdurre solo dopo essersi ripulito da incrostazioni ideologiche, farisaiche, opportunistiche. Questo è il massimo della professionalità che ci è concesso. Da lì in avanti si procede rendendo sempre maggiormente manifesta la propria idea di buona vita, chiarendo che cosa si ritiene auspicabile e che cosa nocivo. E in quel momento si fa politica, ovvero si interviene sulla realtà nella speranza di modificarla. I lettori rappresentano gli elettori e si conquistano con la lealtà e la lucidità. Escludendo i solipsismi, ogni pubblica rivendicazione morale è un’affermazione politica. Se un editorialista racconta i mali dell’Italia, dolendosene, fa politica, perché esprime implicitamente la sua idea di come l’Italia dovrebbe essere. Se in buona fede intercetta i responsabili, fa politica, perché costringe la politica stessa a correggersi. Per questo esiste un continuum naturale fra le due funzioni, fra le due dimensioni, e un equilibrio necessario. Ciò che si evince, per converso, è la buffoneria di quei colleghi che ostentano neutralità, obiettività, quasi come se le loro opinioni cadessero direttamente dalla navicella spaziale di John Rawls, per poi ritrovarli anni dopo schierati in una lista a sventolare bandierine. Paragone ha dichiarato: «Sono sempre stato un giornalista di parte, quindi non credo di presentarmi in una veste diversa. Ero già un attore politico. Non escludo dunque neppure di tornare a fare il giornalista. Mi considero come una sorta di inviato speciale nel Palazzo…». Vero. Anche se la parte è cambiata. Ma qui è possibile osservare il percorso di ciascuno e pesarne l’integrità. Nulla vieta di rimanere delusi da un partito e trovare comunanza di vedute con un altro, magari nuovo. Cerno confessa: «Ero stanco di fischiare dalle tribune, volevo scendere in campo e provare a segnare». Poi aggiunge: «L’imparzialità nasce dal pluralismo delle voci, non da una singola voce. Mi piace la parola partito perché significa prendere parte». Tutto legittimo. Anche quando si sceglie tragicamente di prendere parte al Partito Democratico. Cionondimeno, vorrei chiarire che cosa mi ha spinto a commentare. Nella totalità di questi interventi, testimonianze, confessioni, di oggi e di ieri, da ex colleghi e possibili riferimenti istituzionali, non ho sentito una sola parola sul futuro dell’informazione. Non una riflessione sulla professione che lasciano. Sull’epocale transizione digitale, fra i media intesi come medium circoscritto e regolamentato e il riconoscimento di ogni smartphone come strumento di comunicazione di massa. Sul delirante dibattito relativo alle fake news. Su come garantire l’indipendenza dell’informazione dalla politica proprio in virtù di una così stretta affinità di inclinazioni e intenti. E dall’economia sovranazionale, verso cui la politica nazionale stessa è in posizione sempre più ancillare. Silenzio. Compito del giornalismo oggi, urgente come mai prima, è la negazione dell’automatismo. La negazione di una verità immediatamente alienata. La negazione di una verità immediatamente manipolata. La negazione di ogni superstizione ideologica e del pensiero mercantile di dominio. La negazione dell’inevitabilità del reale. Il giornalista fa politica sorvegliando la politica. Vigilando sulla politica. Pungolando la politica. Potendo avvalersi di quella distanza dal potere rivendicata da Montanelli. Ma se i migliori giornalisti abbandonano la propria funzione per diventare politici stricto sensu, quis custodiet ispos custodes?

Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».

Polemica penalisti-giornalisti, chi critica diventa amico dei boss, scrive Giulia Merlo il 26 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La polemica tra avvocati e giornalisti prosegue, oltre quello che la Camera Penale di Modena aveva definito un «fraintendimento della notizia, che si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La ragione rimane la stessa, il processo Aemilia (un’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna). La vicenda, già raccontata su questo giornale, è della settimana scorsa: la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e l’Ordine dei Giornalisti nazionale e locale hanno attaccato pesantemente l’istituzione, presso la Camera Penale di Modena, di un Osservatorio sull’informazione giudiziaria (sulla scia di un’iniziativa tra l’altro giù esistente a livello nazionale da parte dell’Unione Camere Penali, che ogni anno pubblica il Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). I penalisti modenesi, nell’annuncio dell’istituzione dell’Osservatorio, avevano spiegato che «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». proprio questo passaggio, definito dal presidente dei penalisti modenesi Guido Sola «esemplificativo di una patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più se ancora in corso», aveva mandato su tutte le furie i giornalisti, che hanno definito «inquietante» e «dal sapore intimidatorio» l’iniziativa, perchè annunciata «in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”». La Camera Penale modenese, che ha incassato il sostegno dell’Unione Camere Penali, dell’ordine degli avvocati di Modena e della Camera Penale di Reggio Emilia, ha risposto sul punto, sottolineando come «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Il presidente della Camera Penale di Reggio Emilia, Nicola Tria, ha inoltre fatto sapere che anche il suo direttivo istituirà un Osservatorio locale sull’informazione giudiziaria, «non per intimidire chicchessia, ma semplicemente per monitorare i meccanismi della comunicazione e misurarli alla luce dei principi costituzionali» e ha offerto di organizzare a Reggio Emilia un convegno con avvocati, magistrati e giornalisti, per «ragionare insieme sulle criticità».

La polemica ha infiammato la discussione per alcuni giorni e si è arricchita di un ulteriore tassello proprio ieri, quando è andato in onda sul Tg3 locale un servizio sul processo Aemilia. Nel servizio, è stata data notizia del fermo di un indagato e, dalle pagine del decreto di fermo della Dda di Bologna è emerso che, attraverso un avvocato, l’uomo avrebbe introdotto in carcere due chiavette usb a fini intimidatori. Nella chiosa, però, è stato fatto chiaro riferimento all’Osservatorio delle Camere Penali: «Proprio in questi giorni la Camera Penale di Modena e quella di Reggio Emilia hanno annunciato di voler monitorare l’informazione giudiziaria, in particolare sul processo Aemilia e, alla luce di quando indicato nel decreto della procura di Bologna, ci sarebbe quasi da sorridere, ma a far riflettere è il fatto che con le informazioni ricevute in cella gli imputati siano poi riusciti a condizionare alcune testimonianze». Immediata la reazione degli avvocati. «Fare giornalismo non significa approfittarsi del potere mediatico per travisare le notizie. Ironizzare sull’iniziativa dell’avvocatura significa gratuitamente offendere l’intera categoria», hanno dichiarato Sola, Tria e il responsabile dell’Osservatorio, Alessandro Sivelli. I tre hanno ribadito come l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria non nasca affatto in relazione all’inchiesta Aemilia ma, soprattutto, come sia assurdo collegare l’iniziativa con un fatto di reato («e gli avvocati, ammesso che siano indagati, sarebbero comunque presunti innocenti») che nulla ha a che vedere con l’attività delle Camere Penali. In effetti, questo lascerebbero intuire le parole del giornalista. Come se l’Osservatorio nascesse per intimidire i giornalisti, in concomitanza con l’ipotesi di reato di un avvocato. Tuttavia, gli avvocati hanno deciso di non sporgere querela per diffamazione nè di chiedere rettifiche, «perchè anni di professione hanno insegnato che chiedere la rettifica di notizie diffamatorie non provoca altro che ulteriore diffamazione». «Non abbiamo alcuna intenzione di rinfocolare una polemica», ha commentato Sola, il quale ha anticipato di aver già invitato, in accordo con la Camera Penale di Reggio Emilia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Giovanni Rossi, ad un confronto pubblico su quanto sta accadendo, «per urlare con forza che l’informazione va difesa, ma che la stessa non consente di ingiuriare chiunque e di svolgere processi mediatici senza contraddittorio».

Avvocati contro giornalisti? Una falsità Il nostro obiettivo è il processo mediatico, scrive il 31 gennaio 2018 "Il Dubbio". Dopo lo scontro tra penalisti modenesi e ordine dei giornalisti, un nuovo attacco da parte del Fatto Quotidiano e di Articolo 21. Nei giorni scorsi il direttore Sansonetti si è già occupato della polemica sollevata dall’Ordine dei giornalisti sulla istituzione degli Osservatori sulla informazione giudiziaria degli avvocati penalisti modenesi, accusati di voler esercitare una forma di censura sulla stampa e di volersi asseritamente occupare di “screditare” il processo “Aemilia”. La polemica, tuttavia, non si è stemperata, e con un articolo on line del 30 gennaio, Il Fatto Quotidiano e un intervento sul blog di “Articolo 21”, si torna alla carica con titoli che già dicono tutto: “Gli avvocati controllano i giornalisti”. Nei brani, ancora una volta, previa la identificazione tra avvocati e loro assistiti propria di concezioni culturali autoritarie, si tornano ad accusare i legali di voler intimidire la stampa, di voler limitare il diritto di cronaca e di denunciare solo i casi di processi relativi a imputati ricchi, o potenti, o legati alla criminalità. E, stavolta, viene chiamato in causa anche l’Osservatorio nazionale sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali italiane ed il libro bianco sull’informazione giudiziaria italiana, pubblicato con il controllo scientifico dell’Università di Bologna. Si reiterano poi le accuse ai legali di Modena e Reggio Emilia di voler usare strumentalmente gli osservatori per condizionare il processo Aemilia. Ferme restando le puntuali risposte già date dai colleghi emiliani e dal presidente Ucpi Migliucci e pubblicate dal Dubbio, quello che è davvero preoccupante (per chi dovrebbe fornire una informazione imparziale anche se riguarda la propria categoria) è la strumentalizzazione ed il travisamento delle altrui posizioni e la lettura distorta del libro bianco. Questa pubblicazione ha esaminato, su 25 quotidiani italiani, circa 8000 articoli di cronaca giudiziaria in sei mesi: articoli che riguardavano ogni tipologia di processo (per intenderci, anche quelli ai “poveri cristi”), raccogliendo dati che – seppure opinabili e discutibili come tutti – hanno consentito una lettura di politica giudiziaria sulla quale si è chiesto un confronto leale con i giornalisti. Confronto che in questi ultimi anni vi è stato (il libro è stato presentato in numerose città, presso diverse Università ed in altre sedi pubbliche: sempre invitando giornalisti e dando luogo a un dibattito anche acceso ma sempre civile). Il libro bianco propone certamente una tesi polemica: le risultanze della ricerca hanno dato conferma che, con le dovute e rispettabili eccezioni, l’impostazione delle cronache giudiziarie è quasi totalmente appiattita sulle tesi dell’accusa e sulla fase delle indagini preliminari e di polizia; lo spazio dato alla difesa è percentualmente irrisorio; le notizie pubblicate provengono in percentuale bulgara dall’accusa; le pubblicazioni avvengono molto spesso in violazione del disposto di due norme del codice ( 114 II co. e 329 c. p. p.) che vietano di riprodurre la testualità di atti processuali anche quando è venuto meno il segreto; le “fughe” di notizie comportano che spesso i legali apprendano notizie ed atti prima dalla stampa che nelle sedi processuali; l’immagine di chi è sottoposto al processo è “mascariata” prima ed a prescindere dal processo. E il tratto più preoccupante ed evidente è lo stabilirsi di un asse tra investigatori e informatori destinato, volontariamente o meno, a condizionare o a rischiare di condizionare gli sviluppi del processo (si pensi a testimoni che depongono dopo mesi di bombardamento mediatico e agli stessi giudici: proprio ieri, sul Dubbio, il presidente del Tribunale di Torino, non un avvocato “prezzolato”, ha denunciato il pericolo di un giudice preoccupato di assumere decisioni “impopolari”). Detto questo, non si pretende ovviamente che questa analisi sia accolta con entusiasmo, ma che almeno non sia stravolta: è falso, gravemente falso, che i penalisti vogliano limitare il diritto di cronaca ed è preoccupante che si assuma essere impossibile criticare il mondo dell’informazione giudiziaria: se “Articolo 21” ha letto il libro bianco troverà, contrariamente a quanto afferma, più volte richiamata la sacertà della libera manifestazione della critica giornalistica; se ha letto i documenti dell’Osservatorio, troverà anche quelli a difesa del segreto professionale dei giornalisti ( mentre questi ultimi appaiono indifferenti alle violazioni di quello degli avvocati). E troverà anche spunti fortemente critici verso quegli avvocati che fanno strame del loro ruolo partecipando ai “processi mediatici” televisivi. Ed allora, posto che un confronto si impone senza toni ( quelli sì) intimidatori, per una volta l’informazione giudiziaria – o almeno quella che assume queste posizioni – si interroghi anche su sé stessa, al di là delle norme di legge: sul rapporto con le proprie fonti investigative; sull’assenza di spirito critico verso le prospettazioni accusatorie; sulla necessità di rispettare la presunzione di innocenza; sulla impostazione che viene data alle notizie, ai titoli, alle decisioni assolutorie che vengono considerate “spreco di indagini”. E quanto all’accusa che ci viene rivolta di occuparci solo dei potenti, per una volta, completi il proprio compito informativo: si vada a documentare sulle battaglie storiche dell’Unione delle camere penali sui diritti dei migranti, sui processi agli stranieri, sulle denunce sui Cie, sul rispetto delle regole in ogni processo, chiunque sia accusato. Chè solo in Italia ricorre l’equivoco che “il potere” sia solo la politica, e che la magistratura sia il “contropotere”.

L’intimidazione di Repubblica agli avvocati: «Dovete tacere», scrive Piero Sansonetti l'1 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il processo mediatico. Il titolo, a tutta pagina, dice così: «I legali dei boss processano i cronisti ». Non è il titolo di un fogliaccio di propaganda populista ma del più importante giornale della borghesia moderna, progressista e illuminata, e cioè Repubblica. Il giornale erede del grande pensiero liberale, della grande tradizione giornalistica laica e democratica, di Mario Pannunzio, di Arrigo Benedetti, di Scalfari. Il titolo si riferisce a una iniziativa della Camera penale di Modena, che ha istituito un osservatorio sull’informazione giudiziaria. Questo osservatorio nasce dopo la pubblicazione di un libro bianco, realizzato a livello nazionale dall’Unione Camere penali con la collaborazione dell’Università di Bologna. Da questo libro bianco risulta, sulla base di dati statistici, che l’informazione giudiziaria italiana è assolutamente dipendente dall’accusa e dalle procure, e trascura, quasi nega, l’esistenza della difesa e delle sue argomentazioni. Il titolo di Repubblica denuncia la nascita di questo osservatorio che considera una intimidazione alla libertà di stampa. Analizziamo prima bene il titolo, poi parliamo dell’intimidazione. Il titolo poteva essere fatto in vari modi. Ad esempio: «Gli avvocati mettono sotto osservazione i giornali». Sarebbe stato un titolo molto oggettivo. Oppure si poteva fare un titolo malizioso: «Gli avvocati processano i giornali». Malizioso – per l’uso della parola “processano” – ma non arrogante. Invece, nel titolo che si è scelto, i giornali sono diventati “i cronisti”, con una evidente forzatura della realtà (la critica delle Camere penali è ai giornali, non ai singoli cronisti). E soprattutto gli avvocati sono diventati, nel titolo, «i legali dei boss». Scompare la parola avvocato, che ha un sapore nobile, alto, e compare la parola boss. “Legali dei boss”, in sostanza, allude a una dipendenza del legale dal boss. E dunque, oggettivamente, a una mafiosità dell’avvocato. Il quale, oltretutto, paradossalmente vorrebbe ribaltare lo stato di diritto e, invece di accettare di sottoporsi al processo, pretende di essere lui l’accusatore. Ora forse sarebbe necessario spiegare bene cos’è questo libro bianco e cos’è questo osservatorio, e come né l’uno né l’altro hanno nessun intento “accusatorio”, ma solo di analisi. Questa spiegazione però, molto dettagliata, l’ha fornita sul Dubbio di ieri l’avvocato Renato Borzone. A me invece interessa qui ragionare un momento su questa sbandata giustizialista di uno dei più importanti giornali italiani. E sull’accusa di intimidazione rivolta agli avvocati. Conosco il direttore di Repubblica e molti suoi giornalisti. Conosco la loro cultura, e in particolare la cultura di Mario Calabresi, il suo pensiero ispirato ai valori della democrazia, della libertà e dello Stato di diritto. Perciò mi rivolgo proprio a lui per porre questa domanda: se anche Repubblica finisce travolta dalla tendenza di trasformare la giustizia in giustizia sommaria, l’accusa in giudizio, l’imputato in colpevole e l’avvocato in sodale dei delinquenti, e cioè di trasformare il diritto in autoritarismo e lo stato di diritto in stato autoritario, o stato etico, o stato dei “migliori”, non credi che la democrazia corra un rischio grandissimo? Io sono convinto che oggi sia aperta una battaglia decisiva per il futuro della modernità, e della stessa civiltà, e che questa battaglia sia tra chi vuole mettere al centro di tutto il diritto e chi invece pensa che il diritto sia antimoderno, e francamente non capisco come si possa combattere questa battaglia senza l’aiuto delle roccaforti della cultura liberale, e quindi senza l’aiuto di un grande giornale come Repubblica. L’attacco agli avvocati di Modena, descritti come dei “mantenuti” dai boss veramente è preoccupante. È una vera e propria intimidazione, insopportabile, un attacco costruito su una cultura della giustizia nella quale il diritto di difesa è visto come un lusso. Nell’articolo si parla, testualmente di «avvocati retribuiti per difendere clienti del giro della cosca della ‘ndrangheta d’Emilia». Capite che questo è un linguaggio inaccettabile, che tradisce una cultura giuridica davvero rasoterra, e che assomiglia al lessico che si usava tra i questurini della Repubblica di Salò? A nessuno può venire seriamente in mente che l’iniziativa pubblica di una organizzazione di avvocati, che tende a ristabilire la cultura del diritto, possa essere una intimidazione. Gli avvocati, sì, con questa iniziativa hanno indicato il rischio del processo mediatico. Ma non c’è bisogno di immaginare che lo abbiano fatto perchè sono venduti ai mafiosi. Questo rischio è stato indicato, prima che dagli avvocati, nell’ordine (per fare pochissimi esempi) dal Presidente della Repubblica, dal procuratore generale della Cassazione Canzio, dal suo successore Mammone, da almeno una decina di Procuratori delle grandi città, a partire da Roma (Pignatone) e ancora l’altro giorno, sul Dubbio, dal presidente del Tribunale di Torino. C’è una parte molto grande della magistratura che ha chiarissimo il rischio che il processo mediatico travolga la nostra giurisdizione. Con enormi danni. Pericolo molto chiaro anche all’avvocatura. Possibile che il giornalismo italiano sia così indietro, sul piano culturale, rispetto alle altre professioni? Possibile che non si renda conto che il suo compito non è quello di ricopiare le informative dei carabinieri o le requisitorie dei Pm, ma quello di criticare, dubitare, indagare, ricercare? E anche quello di discutere, insieme ai protagonisti della giurisdizione, su come si possa ristabilire il diritto e fermare l’obbrobrio dei processi mediatici? Se i giornalisti riusciranno o no a risollevarsi, a rientrare nella dignità della loro professione, ovviamente non può dipendere solamente dal coraggio, o dalla cultura, o dell’anticonformismo dei singoli cronisti. Dipende dalle proprietà e dalle direzioni dei giornali, dalla Fnsi, dall’Ordine. Tutti soggetti che fin qui hanno preferito mettere il mercato, o il corporativismo, o la subordinazione a qualche Procura, al di sopra della propria dignità culturale. Sarà ora di invertire la tendenza? È immaginabile una inversione di tendenza senza l’impegno di “colossi” come Repubblica?

Ma insomma, Errani è un farabutto o no? Scrive Piero Sansonetti il 2 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Travaglio ci ripensa, ritira il fango e diventa garantista. Non c’è niente da fare: se volete trovare un forcaiolo vero, a 24 carati, coerente, ferreo, dovete per forza rivolgervi a Davigo. Lui sì che è stato mandato da Dio, e non vacilla mai, ed è incorruttibile. Lui e lui solo. Tutti gli altri nascondono un lato perverso, garantista o addirittura perdoni- sta. Compreso il capo dei capi dei giustizialisti, il Savonarola per eccellenza, l’accusatore, il colpevolista, il Viscinski del terzo millennio: Marco Travaglio. Ieri ha scritto sul “Fatto” un editoriale quasi tutto molto travagliano. Nel quale, come è sua abitudine, dà dello stragista a Berlusconi, dell’imbecille a Prodi, dello stalinista a Renzi, dell’ipocrita a quasi tutti i corrispondenti dei giornali esteri. Stragista a Berlusconi è testuale, le altre qualifiche sono solo sottintese. E però poi prende una paurosa sbandata. Scrive così: «Il professore (Prodi, ndr) a Bologna dovrà votare Casini… contro una figura storica del centrosinistra bolognese come Vasco Errani». Stupore del lettore. Vasco Errani?? Vasco Errani sarebbe una icona della grande politica e della sinistra, di fronte alla quale un elettore non può fare altro che inchinarsi? Ma, ma, ma… Andiamo a vedere cosa scriveva Marco Travaglio, meno di due anni fa, di questo Vasco Errani. C’è un articolo dell’agosto del 2017 che è intitolato così: «Errani humanum est, perseverare diaboliucum». E porta la firma di Travaglio. Ne trascrivo solo qualche riga: «Vasco Errani commissario alla ricostruzione. É stato assolto, ma è proprio il caso di nominare un ex governatore che finanziò la coop di suo fratello?». Un paio di mesi prima invece era uscito un articolo intitolato «La combriccola del Vasco». Anche qui trascrivo qualche riga: «Nel 2006 la giunta di Vasco Errani regala 1 milione di euro alla coop rossa Terremerse presieduta da suo fratello Giovanni per un nuovo stabilimento enologico a Imola che risulta già costruito. Un bel conflitto d’interessi, direbbe la combriccola del Vasco se al posto suo ci fosse Berlusconi o qualcuno dei suoi. Invece tutti zitti. Anche quando si scopre che la cantina finanziata dalla Regione non è stata costruita, dunque a quei fondi pubblici non aveva diritto». Voi direte: d’accordo, però dopo quegli articoli Errani fu assolto, e ora Travaglio ne prende atto e lo riabilita. Nient’affatto: quegli articoli sono stati scritti dopo l’assoluzione. E Travaglio riuscì a spiegare come l’assoluzione non valeva niente, perché comunque Errani forse era colpevole. Scriveva così: « Non solo un pm, ma tre giudici di primo appello e cinque di Cassazione, oltre a tre procuratori generali, hanno attestato che il processo andava fatto… Resta da capire se i fatti addebitati a Errani, giudicati delittuosi da alcuni giudici e penalmente irrilevanti da altri ( che, avendo l’ultima parola, hanno ragione per convenzione, non per scienza infusa) siano compatibili con la santificazione, o se invece siano almeno politicamente disdicevoli» Ora, come per miracolo, Errani diventa un gigante della sinistra. E Casini invotabile, sebbene Casini, in realtà, sia uno dei pochissimi esponenti della prima Repubblica a non aver mai avuto guai con la giustizia. Tanto che se si dovessero rispettare le idee del partito di Travaglio – onestà, onestà! – uno non potrebbe fare altro che votarlo. Detto questo vorrei spiegare bene una cosa. Errani è innocente, è stato dichiarato innocente, è una persona rispettabilissima, un dirigente politico di grande valore e con alle spalle una storia robusta. Caso abbastanza raro, peraltro, nella classe politica di oggi, dominata dai 5 Stelle e da vari cloni o imitatori. Sono convinto che chi lo voterà non si pentirà. Il problema non è Errani, è la fragilità del giustizialismo. La mia su Davigo non era una battuta. Le sue idee mi terrorizzano, penso che siano lontanissime dalle idee di un liberale, che siano incompatibili con una società basata sul diritto e sulla democrazia. Però provo un sentimento di grande rispetto per Davigo, perché non posso non riconoscere la sua coerenza. Il giustizialismo di Davigo è un principio formidabile, ferreo, non è lo strumento, agile e pieghevole, per una battaglia politica. È un caso unico. Lo stesso Travaglio vive il giustizialismo solo come una occasione per scagliarsi contro gli avversari. Lo sospende, naturalmente, se le vittime del giustizialismo sono i 5 Stelle, ma lo sospende persino con Errani, dopo aver rovesciato fango su di lui, se esaltare Errani può essere utile per polemizzare con Prodi o con Renzi. Devo dire, per onestà, anche un’altra cosa. Purtroppo, molto spesso, anche il garantismo è oscillante. E proprio per questo è debole, non riesce ad assumere la posizione che gli spetterebbe nel dibattito politico. Troppe volte viene usato solo come scudo per i propri amici. E poi viene smentito immediatamente se smentirlo può servire a colpire gli avversari. Quante volte ho sentito esaltare il garantismo e poi dire: «Buttate la chiave…». Mi viene in mente Salvini, per esempio, ma mica solo lui.

«I processi in tv ormai rischiano di sostituire noi giudici», scrive Errico Novi il 30 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  Inizia tutto con Tangentopoli? «No, guardi, io credo che siamo di fronte a un salto degenerativo: durante Tangentopoli sulle prime pagine c’erano i pm, ora a essere oggetto di una vera e propria gogna, e altre volte di eccessivo plauso, è la decisione del giudice. Pericolosissimo. Anche perché si corre il rischio di un paradossale slittamento della giustizia dal luogo propriamente assegnatole a quello improprio dei mass media». Massimo Terzi, presidente del Tribunale di Torino, è uno dei magistrati che all’inaugurazione dell’anno giudiziario non hanno scelto un terreno di gioco facile.  Il suo discorso alla cerimonia in Corte d’appello ha puntato dritto sul rischio che «la decisione del magistrato giudicante venga ridotta a opinione personale». E invece, ricorda al Dubbio, «l’esercizio della giurisdizione è tutt’altra cosa da una delle tante opinioni espresse nel circuito mediatico».

I pericoli riguardano soprattutto le assoluzioni?

«Il punto è capire che la decisione del giudice non è un’operazione matematica. Altrimenti potremmo tranquillamente essere sostituiti da un computer. Si tratta di un percorso che spesso comporta un travaglio e, soprattutto quando questo travaglio conduce a un’assoluzione, bisogna rispettarlo, nell’interesse e a garanzia di tutti. Oltre che da questo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario ho cercato di mettere in guardia da un’altra deriva».

Ovvero?

«Dal rischio di ridurre, appunto, la decisione del giudice a una delle tante opinioni della dialettica massmediale. Dovrebbe essere chiaro che solo nel caso del magistrato la decisone si accompagna a un’assunzione di responsabilità. E invece a volte il rispetto di tale principio può venir meno anche tra di noi».

I magistrati a volte eccedono nel contestare la decisione di un collega?

«Nei mezzi di impugnazione c’è tutto lo spazio per le contestazioni di merito anche più aspre. Io mi riferisco alle esternazioni gratuite che riguardano l’intero circuito massmediatico e che spesso si basano su una scarsissima conoscenza degli atti. Dopodiché, anche quando le critiche arrivano sulla base degli atti ci si dovrebbe ricordare che l’opinione è cosa ben diversa da una decisione che cambia la vita di qualcuno».

Il tribunale televisivo ha esautorato i Tribunali veri e propri?

«Senta, è chiaro che non tutte le decisioni sono inappuntabili dal punto di vista tecnico. Ma mi pare che adesso davvero si esageri: nel circuito massmediatico tutti diventano giudici. E ci si dimentica che il giudice vero assume una decisione non in quanto persona fisica ma in nome del popolo italiano, e come espressione di un determinato ufficio giudiziario, di cui è solo, per così dire, ambasciatore».

Lei ha parlato di magistrati a rischio gogna.

«Certo, nell’ultimo anno mi pare si sia verificato in più di un’occasione. E se è terribile che un magistrato venga messo alla gogna è potenzialmente persino più pericoloso il plauso, che rischia di avere effetti ancora più distorcenti».

Verso le toghe c’è la stessa sfiducia che investe le istituzioni in generale?

«Non credo si tratti di sfiducia ma di interessi mossi deliberatamente da qualcuno o di una inarrestabile logica massmediale in cui esasperare i toni è conveniente. Il meccanismo del consenso o del dissenso massmediale può essere devastante. Sembra davvero che l’ultima parola non spetti più all’ambito processuale ma sia devoluta all’opinione pubblica. Dio ci scampi e liberi da una giustizia che ricerca il consenso».

Nei confronti di un gip di Reggio Emilia che ha “osato” emanare un’ordinanza cautelare meno severa di quanto richiesto sono state indette manifestazioni di piazza. Gli avvocati di Reggio sono stati gli unici a difendere quel magistrato.

«Non conosco il caso specifico ma l’esempio, da come lo riferisce, mi pare molto pertinente: le manifestazioni costituiscono un prezioso strumento per influenzare le scelte della politica, ma se rivolte alla funzione giurisdizionale assumono un tratto inquietante. Anche perché il contrasto tra quanto l’opinione pubblica vorrebbe e la decisione resa possibile dalle norme è spesso assai vistoso. Certe decisioni possono non piacere alla gente, magari non piacciono neanche a me come persona fisica: ma se le norme ci sono vanno rispettate. Ci sono reati in cui anche in caso di flagranza non puoi tenere una persona in carcere. Prendersela con il giudice in quanto persona fisica crea anche un problema di sicurezza».

C’è la medicina difensiva: avremo giudici che per non essere linciati prenderanno le decisioni attese dalla gente?

«Le influenze possono anche essere inconsce. D’altra parte chiunque comprende come sia impossibile non modificare per nulla il proprio atteggiamento mentale con cinquanta telecamere puntate addosso».

La degenerazione si supera anche con una collaborazione sempre più intensa tra magistratura e avvocatura?

«Penso di sì. Credo che le storture di cui parliamo richiedano senz’altro un faticoso, forse utopistico dibattito culturale che porti a un codice deontologico massmediale. Ma sicuramente può essere molto preziosa una comunanza di intenti tra magistratura e avvocatura. È comprensibile come il difensore possa ritenere utile, nell’ambito del suo mandato, rimarcare una valutazione critica sulla decisione di un giudice, ma si tratta di un’utilità solo immediata. Alla lunga il meccanismo che si innesca è corrosivo per l’intero sistema».

Inizia tutto con Tangentopoli, presidente Terzi?

«Sicuramente Tangentopoli ha impresso un’enorme accelerazione al processo che ha visto intrecciarsi giustizia e mass media. Ma c’è una differenza sostanziale rispetto a quanto avviene oggi: all’epoca le prime pagine erano presidiate da pubblici ministeri. Vista la diversità dei ruoli, portare l’attenzione sulla magistratura giudicante è un grande salto degenerativo, che si arrivi al plauso o alla gogna. Dobbiamo trovare il modo di alzare un argine: la decisione del giudice è diversa da un’opinione, anche da quella pur qualificata del pm, e non è accettabile che la persona fisica che l’assume finisca sotto i riflettori»

In carcere da innocenti: ne entrano tre ogni giorno, scrive Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Mille persone ogni anno ricevono un indennizzo perché sono stati ingiustamente detenuti. È quanto emerge da uno studio elaborato dai curatori del sito errorigiudiziari.com. Lo scorso anno si è chiuso con un aumento dei casi di ingiusta detenzione e, di conseguenza, lo Stato ha sborsato più soldi in indennizzi. Questo è il dato relativo al 2017 elaborato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, giornalisti che curano il sito errorigiudiziari.com. Andando sullo specifico, gli autori dello studio, elaborando gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia, sono riusciti a fare un raffronto con l’anno precedente. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Gli autori fanno notare come nella top 10 dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione prevalgano le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra enorme di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro).  Al terzo posto Bari con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, che scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari è scottante, eppure in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione, non è stato nemmeno sfiorato. Come mai? Provano a rispondere Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di errorigiudiziari.com, spiegando che le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Prendendo in esame gli ultimi 25 anni, i dati complessivi risultano una ecatombe. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre 1000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. I dati dei soldi sborsati dallo Stato sono anche poco indicativi. Prendiamo ad esempio l’anno 2016: c’è stato un brusco calo di indennizzi per ingiusta detenzione rispetto agli anni precedenti. Quindi meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. È necessario distinguere l’ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto esattamente un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici da Giuseppe Gullotta.

«Perseguitato dai Pm, riparto dal carcere per andare in Parlamento». Intervista di Errico Novi del 2 Febbraio 2018 su "Il Dubbio".  Il caso di Massimo Mallegni. Sette procedimenti penali. L’ultimo è durato 12 anni, si è concluso a novembre con la definitiva assoluzione, come in tutti gli altri casi. «Alcuni mesi fa la Rai ha dedicato uno speciale alla mia vicenda e l’ha paragonata a quella di Tortora», dice Massimo Mallegni, ex sindaco di Pietrasanta, candidato al Senato da Forza Italia, nella circoscrizione Toscana, dopo un’incredibile odissea giudiziaria. La sua campagna elettorale è iniziata due giorni fa davanti al carcere di Lucca. «Ci ho passato 40 giorni dentro: sono ripartito proprio da lì dove tutto sembrava finito. Un innocente, in quei momenti, vive una condizione difficile da descrivere Cominci a capire dove sei quando leggi l’ordinanza cautelare e ricostruisci i confini della sciocchezza che ti hanno costruito addosso». Imprenditore anche lui. «E mi hanno indagato un minuto dopo l’inizio del mio impegno politico». Sette procedimenti, l’ultimo è durato 12 anni e si concluso pochi mesi fa in Cassazione: assolto come tutte le altre volte. Le analogie con Silvio Berlusconi ci sono: l’ex sindaco di Pietrasanta e capolista in Toscana per Forza Italia Massimo Mallegni scova altre due analogie. «Alcuni mesi fa la Rai ha dedicato uno speciale alla mia vicenda: il titolo era “dopo il caso Tortora, il caso Mallegni”». L’altro rimando è al calvario di Ottaviano Del Turco: «Avessi avuto l’età che aveva lui quando lo arrestarono, non starei ancora qui a ricominciare tutto».

E invece riparte dal carcere di San Giorgio, dove l’hanno tenuta dopo l’arresto nel 2006.

«Proprio dove tutto sembrava finito. E invece sono andato a iniziare la campagna elettorale proprio lì davanti. Ci ho passato 40 giorni dentro, poi altri 120 ai domiciliari».

Cosa passa per la testa a un innocente in 40 giorni di carcere?

«È una condizione difficile da descrivere. Potrei dire di sconcerto, ma è di più, all’inizio non riesci a capire nulla. Sei una persona perbene, hai ottenuto un mandato dalla tua comunità, improvvisamente ti sbattono in galera come un delinquente. Cominci a capire dove sei finito quando leggi le 163 pagine dell’ordinanza cautelare e ricostruisci i confini della sciocchezza che ti hanno costruito addosso».

C’è chi l’ha attaccata persino quando rifiutò la prescrizione.

«Al settimo procedimento, partito con 51 capi d’imputazione, dopo essere stato assolto per 48 di questi, mi sono rifiutato di lasciar finire prescritte le ultime 3 accuse. Si trattava di cose ridicole, come l’istigazione al rilascio di un’autorizzazione per un passo carrabile. A chi ebbe da dire sulla mia scelta risposi che avrebbero dovuto sciacquarsi la bocca. Alla fine sono stato assolto anche da quelle ultime 3 contestazioni».

In molti punti il programma del centrodestra sulla giustizia pare fatto apposta per evitare che ricapitino vicende come la sua.

«Noi vogliamo dare alla giustizia gli strumenti necessari per operare, a cominciare dagli organici: abbiamo la metà dei magistrati tedeschi nonostante le nostre sedi giudiziarie siano il doppio che in Germania. E soprattutto, non è possibile che la carcerazione preventiva sia utilizzata come avviene oggi, e come è capitato al sottoscritto. Fatti salvi i casi in cui c’è la flagranza di reato, si viene processati e si mette piede in un istituto di pena solo dopo una condanna definitiva. Lo diceva pure il centrosinistra, salvo poi arruolare Domenico e Antonella Manzione, fratello e sorella, i grandi accusatori a cui devo il mio calvario».

Cosa pensa del muro alzato dai pm di fronte alla proposta di Forza Italia sull’abolizione del ricorso della Procura in caso di assoluzione in primo grado?

«Premetto che una riforma della giustizia non può prescindere dall’opinione degli operatori del diritto: magistrati e avvocati. Ma se mi assolvono tu non puoi continuare a perseguirmi. Non è possibile che in Italia incomba su qualsiasi indagato l’onere dell’inversione della prova: per come è strutturato il nostro ordinamento, sei sempre tu che devi dimostrare l’infondatezza delle contestazioni mosse dallo Stato, che si tratti di un Tribunale penale o di una cartella di Equitalia. Non è possibile».

E invece il “principio” è stato consacrato anche dal nuovo Codice antimafia: sequestri preventivi agli indiziati di corruzione, che devono provare la liceità dei beni se non vogliono vederseli portare via.

«Un’assurdità che non è sfuggita al presidente della Repubblica: ha promulgato la legge ma ha raccomandato al Parlamento di monitorarne gli effetti. Se quella norma fosse stata in vigore quando venni arrestato nel 2006, con accuse di corruzione e concussione, mi avrebbero sequestrato tutto».

A proposito di operatori del diritto: gli avvocati sono ascoltati abbastanza quando di tratta di definire provvedimenti sulla giustizia?

«Se guardiamo agli scioperi che hanno indetto negli ultimi mesi si direbbe il contrario. Questo fine settimana sarò all’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Camere penali, e dirò una cosa: se il governo perde settimane per confrontarsi con i sindacati dei lavoratori prima di un presentare un nuovo contratto collettivo, è giusto che stia a sentire coloro che come gli avvocati hanno la competenza in materia di giustizia. Poi non è detto che gli equilibri del Parlamento consentano di portare a casa tutte le proposte, ma almeno ci si è provato».

Lei finirà per occuparsi di giustizia, una volta eletto senatore di Forza Italia.

«Preferirei occuparmi di cultura: qui in Versilia, come in tutta Italia, c’è una ricchezza che può essere ancora più valorizzata. Vorrei dedicarmi a cose piacevoli, ecco».

Cosa può dire a chi come Ottaviano Del Turco ha vissuto un calvario simile al suo ma non ha potuto ricominciare con la politica, nonostante sia stato assolto praticamente da tutto?

«Io ho avuto un paio di colpi di fortuna. Sono stato colpito solo di striscio dalla legge Severino, che mi è costata una sospensione di quindici giorni. Ma soprattutto ho avuto la ventura di essere stato arrestato a 36 anni. Se fossi finito nella cella di un carcere all’età in cui ci è finito Ottaviano, e lo chiamo per nome perché sono socialista anch’io, lo conosco, ecco, se avessi avuto la sua età non avrei mai potuto riscattarmi e tornare in campo. Avrei avuto 72 anni. Ma dalle ingiustizie non sei esce mai del tutto illesi».

Minzolini: «Ora s’indignano per Cioffi E quando un giudice del Pd mi condannò?» Scrive Paola Sacchi il 4 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «La Repubblica che ha protestato per la presunta partecipazione di un giudice a una convention non disse nulla sulla mia situazione ben più grave». «È un elefante in un occhio». Così commenta con Il Dubbio Augusto Minzolini, ex senatore di Forza Italia ed ex direttore del Tg1, con un curriculum da maestro dei cronisti parlamentari, il diverso atteggiamento dei media, in particolare del quotidiano La Repubblica, che ha messo nel mirino la presunta partecipazione del giudice dei fratelli di Luigi Cesaro, candidato campano di Fi, a una convention azzurra; e invece, ha denunciato Minzolini in un tweet, «ha ritenuto lecito che un giudice già parlamentare e membro di governi di centrosinistra condannasse il sottoscritto».

Ex senatore Minzolini, il giudice dei Cesaro, che ha smentito la sua partecipazione all’iniziativa di Forza Italia, si è dimesso da presidente del collegio giudicante. A lei, condannato in Cassazione per peculato, che ha abbandonato il parlamento per sua scelta, nonostante un fronte trasversale abbia bocciato le sue dimissioni, è stato usato quindi una trattamento diametralmente opposto?

«Io non sto a guardare il trattamento usato nei miei confronti. Ne faccio una questione di informazione che riguarda l’atteggiamento di “La Repubblica”. Quel quotidiano ha imbastito una campagna sulla vicenda campana per la presunta partecipazione di un giudice a una convention. E’ evidente che rispetto a questo la mia vicenda diventa un elefante in un occhio».

Ci spieghi.

«C’è stato un giudice che in Cassazione ha ribaltato una sentenza di assoluzione in primo grado, che se ne è infischiato del fatto che il giudice del Lavoro mi avesse dato ragione, facendomi addirittura risarcire dalla Rai. Questo giudice non ha neppure dato tanto peso alle richieste della pubblica accusa aumentando la pena di sei mesi. Quelli però necessari a far scattare la legge Severino. Ecco, questo magistrato non è uno che aveva partecipato semplicemente a una convention del Pd, ma ha fatto il deputato, il senatore, il sottosegretario più volte con governi del centrosinistra. Per La Repubblica questo invece non ha fatto scandalo. Non ho trovato lo stesso atteggiamento critico sull’imparzialità che invece ho trovato sulla vicenda campana. Il mio processo è stato caratterizzato da personaggi che hanno avuto a che fare con la politica: il relatore in Cassazione del mio processo era anche stato capo di Gabinetto del ministero di Grazia e Giustizia del governo Prodi. Credo che qui ci sia anche un problema di sensibilità istituzionale degli stessi giudici. Nella Prima Repubblica mi ricordo che un senatore Dc si astenne, senza che nessuno glielo avesse chiesto, perché si trovò a giudicare Arnaldo Forlani, colui che era stato il suo segretario».

Due pesi e due misure?

«Piuttosto mi sembra che ci sia un grammo da un lato e una tonnellata dall’altro».

Intanto, il giudice dei Cesaro si è dimesso dal collegio giudicante.

«Ha fatto un passo indietro evidentemente per impedire che qualsiasi sua decisione venisse analizzata rispetto alla sua presunta partecipazione a un evento politico. I miei giudici, invece, a quanto pare se ne sono assolutamente infischiati. Ma quel che è peggio è che se ne è infischiato il resto del Paese. L’unica a non infischiarsene è stata proprio la politica, e lo posso dire perché non ne faccio più parte. Per la prima volta dopo cinquant’anni il parlamento ha rigettato una sentenza definitiva. Uno schieramento trasversale, in cui c’erano molti esponenti del Pd, a voto palese, ha respinto la richiesta della mia decadenza. Io di fronte a persone che hanno avuto il coraggio di queste scelte a maggior ragione ho mantenuto per coerenza il mio impegno già preso da tempo di dimettermi. Ho rinunciato al mio stipendio di 140.000 euro netti e alla pensione. Da anni i grillini invitano a rinunciare alla pensione, ecco io l’ho fatto. Sono l’unico. Inoltre, si è creata una situazione particolare a livello istituzionale».

Perché?

«Il potere legislativo, cioè il parlamento, ha individuato nella mia sentenza fumus persecutionis. Il potere esecutivo, cioè il governo, attraverso l’avvocato dello Stato, ha recepito quel giudizio, a Strasburgo rispondendo ai giudici della Grande Chambre per spiegare la differenza di trattamento tra me e Berlusconi ha ricordato che su di me c’è stato fumus persecutionis. Il potere giudiziario, i magistrati, mi hanno condannato. C’è quindi una contraddizione evidente. Ma nessuno è intervenuto, neppure chi per ruolo istituzionale dovrebbe mediare tra questi poteri. C’è quindi una strana situazione, come se esistessero tre Stati paralleli. Tanto meno se ne è occupata l’informazione, lasciando le nostre istituzioni in una situazione singolare per non dire patetica».

Tutto si può dire tranne che per lei non sia stato usato un trattamento speciale. Ora cosa fa?

«Faccio lo stringher, mettiamola così (risatina ndr), ovvero quello che passa le notizie a “Yoda” per Il Giornale e a “Keiser Soze” per Panorama».

"Scrivono male di lei". E le banche scaricano l'imprenditore modello. Finito sotto inchiesta, gli istituti azzerano tutti i crediti sulla base degli articoli di giornale, scrive Cristina Bassi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Trasformato da un giorno all'altro da rispettabile imprenditore brianzolo a truffatore di bassa lega. Capita - si dirà - a chi incappa in guai giudiziari. Ma la storia di Marco Castoldi, 59 anni, al di là della sua colpevolezza o meno ancora da stabilire, è l'emblema del meccanismo perverso che a volte incrocia realtà e rappresentazione mediatica. Tutti a Monza sanno chi è Marco Castoldi. È il titolare della Castoldi srl, azienda con oltre 60 anni di storia fondata dal padre, leader nella distribuzione di elettrodomestici, articoli elettronici e informatici. I suoi negozi fanno parte del network Euronics. Gli affari sono sempre andati bene, finché il presidente del Cda è finito in un'inchiesta della Guardia di finanza di Como su una rete di frodi fiscali. Ora la ditta ha chiesto e ottenuto dal Tribunale il concordato preventivo, perché banche e assicurazioni hanno chiuso i rubinetti mettendola in grave difficoltà. Il motivo? Non ciò che è scritto negli atti d'indagine né tanto meno una condanna. Bensì le «notizie di stampa». Per i creditori insomma, Castoldi è un truffatore, la sua società merita di andare a gambe all'aria e i 150 dipendenti a casa sulla base degli articoli di giornale che hanno dato conto, nel settembre scorso, degli arresti e dell'inchiesta. Anche se due settimane dopo i provvedimenti cautelari, i domiciliari a carico di Castoldi sono stati revocati. Un passo indietro. A metà settembre scatta la retata con un centinaio di finanzieri, dopo l'indagine coordinata dalla Procura di Como. Gli indagati sono 39, gli arrestati 17. Tra loro, appunto, anche Castoldi e un consigliere dell'azienda. L'accusa è che abbiano partecipato a una associazione per delinquere finalizzata a una serie di reati fiscali e tributari. Le ipotesi degli inquirenti riguardano l'organizzazione a livello internazionale di cosiddette «frodi carosello» per totali 300 milioni di euro. Si tratta in sostanza di operazioni di compravendita fittizie, con relative false fatture emesse da società create ad hoc (le «cartiere»), finalizzate a ottenere crediti Iva non dovuti. Castoldi avrebbe «consapevolmente» partecipato al traffico di merci, definite «scadenti», mettendo a disposizione la propria società come anello della catena fraudolenta. E guadagnandoci circa 3 milioni di euro di illeciti crediti Iva. «Accuse cervellotiche - dice il suo difensore, l'avvocato Ivano Chiesa -. Il mio assistito non ha nulla a che vedere con tutti gli altri indagati e non aveva idea di cosa facessero. Ha semplicemente comprato e venduto merce, come ha sempre fatto. Comunque si è dimesso dalle cariche societarie e ha fornito a garanzia 6 milioni di immobili personali, il doppio di quanto contestato». A ottobre il Tribunale del riesame di Milano ha revocato i domiciliari a Castoldi, ritenendo che non sussistano gli indizi del reato associativo. Il processo farà il proprio corso, l'udienza preliminare è fissata per il 20 febbraio davanti al gup Laura De Gregorio. Intanto però l'azienda comunica l'apertura del concordato preventivo che ha lo scopo di tutelare i dipendenti e i fornitori e di provare ad assicurarsi un futuro. La Castoldi, si legge in una nota, «negli ultimi anni non ha riscontrato criticità dal punto di vista economico, patrimoniale o finanziario, come dimostrano i suoi bilanci. A partire dal mese di ottobre 2017, la società si è trovata nell'impossibilità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni a causa dell'irrigidimento del sistema bancario e dell'azzeramento dei fidi da parte delle società di assicurazione del credito dei fornitori, determinati dalla propagazione della notizia dell'indagine». Da qui le difficoltà ad approvvigionarsi, proprio nel periodo a ridosso del Natale, il migliore per gli affari. Nei primi nove mesi del 2017, «la società aveva registrato un fatturato di oltre 66 milioni di euro con un risultato economico positivo. Nel 2016 il fatturato era stato pari a oltre 86 milioni di euro, con un utile di circa 400mila euro».

Storia del boss Navarra e del suo sangue che oggi ricade sul nipote, scrive Salvo Toscano l'1 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il discendente del “medico” corleonese si candida e Crocetta s’infuria. Da quando è stata resa nota la sua epurazione dalle liste del nuovo Pd renziano, Rosario Crocetta lo ripete quotidianamente, come un mantra. «Renzi ha preferito schierare il rettore Navarra, nipote del capomafia di Corleone. Quelli ormai sono i riferimenti del Pd». Con il collaudato stile dell’antimafia politica doc, l’ex governatore siciliano scaricato dal Pd non ha perso tempo per “mascariare” (imbrattare, così si dice a queste latitudini) l’avversario. Ripescando la parentela del rettore di Messina, Pietro Navarra, schierato dai dem in un posto blindato nelle liste proporzionali per la Camera. «Navarra non si è avvicinato al Pd, ma è stato avvicinato dal Pd per sostituire il potere di Genovese (ex segretario regionale Pd, poi passato a Forza Italia, condannato in primo grado per lo scandalo dei “corsi d’oro della formazione professionale, ndr). L’Università di Messina ha sempre avuto un potere enorme, lo sanno tutti». Così ancora ieri l’altro Crocetta nella sua conferenza stampa indetta in un hotel palermitano per sparare a zero su Renzi, definito «primo uomo politico medievale d’Italia». Non molti sono andati appresso al campione deposto dell’antimafia politica nel tiro al Navarra. Un po’ di post al vetriolo in giro per i social, qualche articolo sul Fatto quotidiano, poco altro. Il rettore, dal canto suo, non ha fatto attendere la sua reazione. Con tanto di minaccia di querela preventiva ai giornali: «Noto con rammarico che, addirittura prima ancora dell’inizio della campagna elettorale, personaggi protagonisti del recente passato politico hanno rilasciato dichiarazioni infamanti nei miei confronti, con riferimento alla vicenda che vide coinvolto mio zio. Affermazioni ingiuriose, rilanciate da alcuni organi di stampa – ha detto Navarra – Premetto che la mia posizione su questo argomento è ben nota da tempo: si parla di persone morte prima della mia nascita e ogni collegamento non può che rappresentare una volgare strumentalizzazione». Con un post scriptum in cui annunciava querele «nei confronti delle testate che daranno spazio a simili considerazioni». Classe 1968, il messinese Navarra diventò poco meno di sei anni fa il più giovane rettore d’Italia. Eletto ai vertici di quell’ateneo definito “verminaio” una ventina d’anni fa, per l’influenza che secondo varie inchieste avrebbero avuto al suo interno i boss della ‘ ndrangheta, ma anche per un certo nepotismo esasperato. Nella Città dello Stretto, l’Università è sempre stata uno dei capisaldi del potere. E a Navarra si guardò proprio come il possibile volto nuovo della svolta, dopo gli scandali. Ma l’intemerata, a puntate, di Crocetta guarda a fatti ben più antichi. E cioè alle vicende di don Michele Navarra, medico, zio del rettore (fratello di suo padre) e boss corleonese del dopoguerra. La sua cosca è ritenuta responsabile dell’omicidio, avvenuto nel 1948, del sindacalista Placido Rizzotto, i cui resti vennero ritrovati sessant’anni dopo, infoibati in un precipizio. Un pastorello di tredici anni, probabilmente testimone oculare di quel delitto, morì l’indomani nell’ospedale di Corleone, dove lavorava il medico- boss, dopo un’iniezione, ufficialmente per una “tossicosi” da farmaci. Michele Navarra fu ammazzato il 2 agosto del 1958, crivellato di colpi – 94 proiettili furono trovati nel corpo – mentre tor- nava al paese a bordo di una Fiat 1100 nera. Con lui rimase ucciso un giovane medico, del tutto estraneo a vicende mafiose, che gli aveva dato un passaggio. Un delitto rimasto nella storia della mafia, che segnò l’avanzata del campiere Luciano Liggio nelle gerarchie di Cosa nostra e l’ascesa della mafia dei “viddani” corleonesi che vent’anni dopo con Totò Riina avrebbero dettato legge liquidando i vecchi boss palermitani. Sessant’anni sono passati dalla morte di don Michele. Sessant’anni che in Sicilia sembrano non essere sufficienti per ritenersi al riparo degli strali di una parte dell’antimafia in una terra dove non solo le colpe dei padri, ma pure quelle degli zii si vorrebbero imputare ai consanguinei. Anche se il bersaglio delle bordate, il giovane rettore, è nato solo dieci anni dopo l’omicidio del famoso boss, percorrendo in vita una strada ben diversa, anzi del tutto lontana, da quella dello scomodo parente. Professore di Economia del Settore Pubblico nell’Università di Messina, Navarra ha maturato un lungo elenco di esperienze internazionali tra la Gran Bretagna, l’Australia e soprattutto gli Stati Uniti, tenendo lezione in molte delle più prestigiose università americane. Il rettore era da tempo considerato vicino a Matteo Renzi. Alle elezioni regionali di tre mesi fa buona parte della nomenclatura universitaria messinese sostenne la candidatura del direttore generale dell’Ateneo Francesco De Domenico, che è stato eletto nel Partito democratico con una buona messe di voti. Ora, il salto nella politica tocca a Navarra, secondo in lista dietro l’onnipresente Maria Elena Boschi, che è candidata altrove e lascerà quasi certamente spazio. Con buona pace del Crocetta furioso e delle evocazioni di spettri di sessant’anni addietro.

Restituire alla Storia i cognomi infangati dalle mafie, scrive Valentina Tatti Tonni il 3 gennaio 2018 su "Articolo 21" e 20 Gennaio 2018 su "Antimafia duemila". Un corto circuito. Parliamo di mafia come se fosse un soggetto e un linguaggio. Riprendendo il libro Io non taccio scritto a più mani da giornalisti di inchiesta, ho notato che la presenza dei nomi che associamo alle famiglie dei clan hanno nel tempo disonorato e macchiato quei nomi stessi. L’etimologia di mafia come di ‘ndrangheta, ha connotati regionali e si riferisce a balordi presuntuosi travestiti da uomini che, usando metodi illeciti, interferiscono nelle attività economiche, commerciali e sociali del luogo in cui transitano, mettendo a repentaglio senza scrupolo la vita di chiunque si metta tra loro e gli affari. E’ il caso di innocenti, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine e loro stessi a causa di guerre per il territorio, come cani che marcano il suolo oltre ad abbaiare sparano. Il quadro italiano, secondo la mappa interattiva consultabile grazie a “Il Fatto Quotidiano” e al Parlamento Europeo, vede quattro principali organizzazioni criminali muoversi sullo stivale: abbiamo la mafia, intesa come Cosa nostra in Sicilia, la camorra prevalente nelle zone campane di Napoli e Caserta, l’ndrangheta che dalla Calabria si è spostata anche al Nord in Lombardia, la pugliese Sacra Corona Unita. Tutte queste si occupano principalmente di spaccio di droga, riciclaggio, estorsione e infiltrazioni nell’economia, soprattutto tramite appalti pubblici e nel campo dell’edilizia privata. Inoltre ad operare con i clan principali abbiamo anche criminalità nigeriana, cinese e albanese. Il fatto che siano nate in certe regioni non li esenta dal trafficare anche in altri luoghi, grazie anche al sostegno con alcuni membri della politica. Non sembra essere un caso allora se il Bel Paese sia l’unico in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc contro l’associazione di stampo mafioso, l’articolo 416 bis.

Rendere silenti le famiglie dei clan. Torniamo al linguaggio della mafia per riabilitare quei nomi. Dal libro di cui sopra, inizio dai Barbaro, facente parte all’ndrangheta calabrese molto presente in Lombardia, Piemonte, Germania e Australia. I Barbaro ben più importanti furono però quelli dell’alta aristocrazia veneziana che dal 1390 vantavano nel loro entourage vescovi, commercianti ed esploratori, come quel Nicolò che scrisse una cronaca sull’assedio di Costantinopoli nel 1453 al pari di Giosafat che ne scrisse sull’Asia. Che dire dei Papalia, ai Barbaro collegati per ‘ndrangheta, ma ben lontani nella Storia essendo stati estratti dalla nobiltà calabrese in principio legata, sembrerebbe, al marchesato di Saluzzo in Piemonte. Andando avanti troviamo i Brandimarte di Gioia Tauro e la faida aperta con i Priolo in quel di Vittoria in Sicilia, famiglie nella storia remota ben conosciute: i primi di origine medievale furono resi famosi dalle battaglie epiche francesi della Chanson de Roland e dal nostrano Ariosto nonché più di recente simbolo dell’artigianato e dell’argento a Firenze, la seconda dei Priolo invece abitante del Rinascimento veneto trovandosi un capo, un Doge, della Repubblica. In Sicilia, nel presente, vi è anche il clan mafioso dei Carbonaro-Dominante, appartenente alla Stidda una quinta organizzazione criminale operante soprattutto nelle province di Ragusa, Caltanissetta, Enna e Agrigento. Sì, ma i Carbonaro, come suggerisce il nome potrebbero derivare sia dalla Carboneria, quale società rivoluzionaria e liberale ottocentesca nata nel Regno di Napoli, sia dal carbonaio come mestiere di trasformazione della legna in carbone vegetale, Carbonaro-Dominante legato a Ventura, come il suo boss, cognome risalente al medioevo cristiano. Li conosciamo con questi cognomi che sembrano fare la Storia, ma la nostra Storia è un’altra. Grazie a "la Spia" sappiamo che: “Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la Camorra (sarebbe più giusto parlare dei Casalesi) gestiscono i trasporti”. Casalesi, un altro nome balzato alle cronache a causa dei fatti e dei misfatti ad essi collegati e a Schiavone anche, il boss, derivante dagli slavi che seguita la rotta dei longobardi arrivarono dal fiume Natisone nel Friuli Venezia Giulia. Un’altra famiglia che ha infranto i valori della società civile è senz’altro la Bottaro-Attanasio, forte della sua prima origine di “fabbricante di botti” e della seconda dell’immortale che si è illuso di dare il nome a tutta la Sicilia greca che conta - tolte le persone perbene -, quella di Siracusa. Nonché i Corleonesi, sui quali ha avuto interesse persino l’industria del cinema producendo pellicole narranti di padrini più eroi che padroni. Una cosca formata all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta e appoggiata dalle famiglie Liggio, Riina e Provenzano, il superficiale per origine, la mancata Regina e un Provenzano Salvani di Siena che un giorno rinvenne in una casa della Contrada della Giraffa e lì, meta di pellegrinaggio, una Madonna ancora porta il suo nome. Poi ci sono gli imprenditori Cavallotti che cercano invano di minare il radicalismo del primo Felice. Ai Corleonesi alleati i Cuntrera-Caruana, di Siculiana nella provincia di Agrigento e in principio campieri, ovvero guardie private al controllo di una tenuta agricola, nel 2013 seguendo le orme della Banda della Magliana si impadronirono, insieme ai fratelli Triassi, del litorale di Ostia. Triassi, d’origine una nobile famiglia spagnola che avrebbe guidato la conquista di Mallora, secondo le ultime cronache, avrebbe una certa comunanza (di complicità e rivalità) con i Fasciani e gli Spada. E a loro volta gli Spada e i Casalesi con i Casamonica, una famiglia dall’Abruzzo da tempo operante nella zona dei Castelli Romani, castelli senza più neanche un cavaliere. Dall’ndrangheta di Morabito, Logiudice e Musitano alla Sacra Corona Unita dei Giannelli-Scarlino: sconsolata la prima e più antica famiglia latina, la seconda di magistrati, la terza di predicatori e l’ultima non piena di virtù, ormai negate da famiglie con più facile collusione alla realtà. Infine, sempre in riferimento al libro di cui sopra, da Napoli i Mazzarella e i Giuliano, i primi una casata nobile del Cilento all’interno di cui si ricordano le gesta di valorosi uomini come quel Michele che difese Malta dai Turchi nel 1565, i secondi invece dalla Spagna trapiantati in Sicilia dal Re Federico III da Baldassarre, tale la potenza che lo stemma della famiglia ritraeva un leone con due rose a dimostrar forza e delicatezza, oggi anch’essa ormai sopita. Appare mitigata la bellezza in cambio dell’omertà, ma forse no, il faro è ora acceso.

Distrutta dalle accuse e trattata come una criminale: l'odissea giudiziaria della cardiologa. Maria Grazia Modena era Primario al Policlinico modenese dove aveva costruito un reparto di ricerca d'eccellenza. Poi le accuse infamanti. E i processi, scrive la Redazione di Tiscali il 28 gennaio 2018. La sua vicenda ha non pochi punti in comune con quella di Ilaria Capua, la virologa intervistata da TiscaliNews che fu accusata di voler diffondere virus e far scoppiare contagi in Italia per poi guadagnare con i vaccini che metteva a punto. E che in seguito è stata completamente scagionata dalle accuse. Sono stati sei anni infernali, quelli vissuti da Maria Grazia Modena, all'epoca dei fatti primario di Cardiologia del Policlinico di Modena. Accusata di essere alla testa di un gruppo di "camici sporchi" con cui secondo la accusa commetteva alcuni fra i più gravi reati: associazione a delinquere, truffa al sistema sanitario, corruzione, abuso d’ufficio, sperimentazioni illecite. Arrestata nel 2012 mentre gli elicotteri volavano su casa sua, neanche fosse un pericoloso boss della mafia. E solo qualche giorno fa assolta da tutte le accuse, anche quella di falso, dopo la sentenza della Cassazione.

"Resta la sconfitta morale". Secondo Maria Grazia Modena, che tuttora attende di essere reintegrata al Policlinico di Modena e che le si tolga la radiazione dall'Ordine dei Medici, quella contro di lei è stata una sentenza politica, con un quadro accusatorio montato per farla fuori. Come lei stessa ha raccontato in una intervista a Modena Today: "Se penso ai denari pubblici che, a partire dal costo degli elicotteri che hanno circondato casa mia e degli altri otto medici arrestati quell’indimenticabile 9 novembre del 2012 fino a tutte le spese occorse in questo accanimento processuale, hanno pesato sulle tasche dei cittadini, mi assale un grande dispiacere. Perché se quei denari, così sprecati, fossero stati investiti nella sanità pubblica, avrebbero sicuramente apportato a Modena un ulteriore salto di qualità. Questo è stato un processo politico, non penale. E questa è stata, da un lato, la mia salvezza perché sapevo che contro avevo i poteri forti. Davanti a un nemico titanico ho trovato quella forza che, altrimenti, probabilmente, non avrei avuto per portare avanti una battaglia nella quale non solo si ristabilisse la mia dignità di professionista e donna ma, soprattutto, quella dei pazienti e dei medici che hanno pagato con me. Alcuni di questi erano all’inizio della loro carriera e, questo processo, ha distrutto le loro vite. Altri si sono visti emarginati solo perché hanno continuato a credere in me. Resta la sconfitta morale". 

Come sopravvivere. La dottoressa Modena e Ilaria Capua si sono sentite proprio poco prima della pronuncia della Cassazione che ha completamente riabilitato la cardiologa: "Non le ho risposto perché attendevo la sentenza, ora lo farò. Lei schifata se n'e andata negli Usa, io voglio riprendermi il mio ruolo a Modena, in Italia" ha detto al Corriere della Sera. Era diventata potente e stimata: "Sì lo ammetto volevo creare una cardiologia d’eccellenza e ci sono riuscita. Ho dato la vita per il lavoro, uscivo alle 6 tornavo alle 9 di sera, niente figli per scelta". Ed ecco le accuse infamanti, i processi, gli arresti domiciliari, i titoli sui "camici sporchi" a tutta stampa. Ad aiutarla a sopravvivere a tanto sfascio, il marito già in pensione e costretto a rimettersi in pensione per mantenere la famiglia dopo la radiazione della moglie. E le cure del cagnolino Manhattan". La dottoressa Modena ha ripreso a insegnare, ma vuole tornare in ospedale, come primario, e riprendere le sue ricerche con i collaboratori fidati. 

La Cassazione la assolve: il processo era “sperimentale”…, scrive Valentina Stella il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Sono le 5 e 18 dell’alba di sabato mattina quando mi giunge questo messaggio: “Ho vinto su tutti i fronti!!! È finito per sempre un incubo. Adesso vado a dormire!!”: a scrivermi è Maria Grazia Modena, professoressa di Cardiologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Presidente della Società Italiana di Cardiologia, che non ha smesso di combattere per dimostrare la sua innocenza, come vi avevamo già raccontato qualche mese sul Dubbio. Adesso che il suo camice è definitivamente pulito ha voglia di dirlo a tutti, a poche ore dalla sentenza della Cassazione che l’ha assolta da tutte le accuse dell’inchiesta che nel novembre 2012 la portò agli arresti domiciliari, dopo un arresto spettacolare con elicotteri in volo, e che riguardava le presunte sperimentazioni abusive sui pazienti inconsapevoli che, secondo l’accusa del pm Marco Niccolini, sarebbero avvenute nel reparto di cardiologia del Policlinico modenese. Venerdì notte intorno all’una e trenta è arrivato il giudizio da Roma: la sentenza annulla senza rinvio la disposizione di condanna per i reati di falso, che era l’unica condanna che era rimasta alla dottoressa Modena e dichiara inammissibili i ricorsi contro l’assoluzione in Appello per i reati di associazione a delinquere, corruzione, truffa ai danni dell’ospedale e abuso d’ufficio, del procuratore generale di Bologna e delle parti civili ossia Azienda ospedaliera, Regione Emilia Romagna e Associazione Amici del Cuore condannandoli alle spese processuali. «Adesso posso dire di credere nella magistratura giusta – racconta al Dubbio la professoressa – leale, fatta di giuristi veri. Ho vissuto sei anni di panico, però alla fine ho ottenuto piena giustizia, essendo stata assolta per tutto, grazie anche ai miei straordinari avvocati». Oggi la professoressa Modena è completamente libera di riprendere in mano la sua vita e forse di tornare a fare il primario. «Proprio oggi (ndr ieri) mi è arrivato il messaggio del Rettore dell’Università di Modena per cui la mia assoluzione è “motivo di grande soddisfazione e restituisce forza e credibilità all’ambiente universitario della Medicina modenese”».

Il procuratore capo di Modena Lucia Musti – il magistrato che tra l’altro è stato ascoltato nei mesi scorsi dalla prima commissione del Csm sui casi Cpl Concordia e Consip che sulla decisione dei supremi giudici ha detto: “La Cassazione non dichiara le persone innocenti o colpevoli. È un provvedimento che ha solo dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale di Bologna. Rispettiamo tutte le pronunce, ma il nostro lavoro sperimentale di indagine è stato valido. È stata fatta una ‘ indagine sperimentale’, unica, al punto tale che lo stesso tipo di indagine è stata anche esportata all’estero perché è stata oggetto di studio in altri ordinamenti di altri Stati’. Il professore Luigi Stortoni, difensore con il collega Massimiliano Iovino della professoressa Modena, commenta: «Non è vero che la Cassazione non decide chi è innocente o colpevole. La Cassazione decide se le sentenze sono state fatte correttamente e in contrario le corregge. Nel caso della professoressa Modena la Cassazione ha dichiarato addirittura inammissibili i ricorsi della Procura Generale di Bologna, quindi ciò ha confermato la correttezza della sentenza di assoluzione arrivata in Appello e ha cassato senza rinvio la sentenza per quello che concerne la condanna per i falsi. Quando la Cassazione cassa senza rinvio significa che assolve. Quindi come hanno dimostrato tre giudici della Corte d’Appello e cinque giudici della Cassazione questa ipotesi accusatoria, questa grande inchiesta sul malaffare, è stata tutta una montatura».

La giustizia, secondo la dottoressa Musti, si amministra anche a colpi di ‘ esperimenti’: lei cosa pensa?

«Le dichiarazioni della Musti sono sconcertanti, io sono sbigottito prima come penalista e poi come cittadino e difensore. Esse sovvertono tutti i principi e tutti i valori del diritto e del processo penale che sono la presunzione di innocenza, il fatto che si possa punire qualcuno quando vi è la prova che abbia commesso un reato, che il diritto penale debba essere certo come dice la nostra Costituzione e la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo. È terribile che un processo sia stato preceduto da una ‘ indagine sperimentale’: la sperimentazione del diritto penale è un assurdo, si applica la regola che già esiste, non si fanno tentativi sperimentali. La Musti è come se dicesse ‘ abbiamo provato ad applicare un diritto penale che non c’era prima’ ma allora i principi di certezza e di retroattività del diritto penale vanno a farsi benedire! È come dire che si fanno ‘ esperimenti penali’ in corpore vili: sperimentazioni pericolose e inammissibili in un ordinamento costituzionale che garantisce la libertà personale. Rischiamo di diventare delle cavie nelle mani delle Procure. Il mio timore è che la Musti stia confessando con candida ingenuità che si può sperimentare sulla pelle dei cittadini».

La Musti poi prosegue dicendo che quel loro tipo di indagine sperimentale è stato esportato all’estero.

«Spero che non sia così, quale immagine daremmo mai dell’operato dei nostri pubblici ministeri?»

Tutta una anomalia fin dall’inizio dunque?

«Nella fase delle indagini, si è verificata, da parte del pm Niccolini e dell’allora capo Zincani, una situazione paradossale contraria a tutte le regole e a tutti i principi. L’imputato deve essere messo nelle condizioni di sapere di cosa è accusato per potersi difendere. Invece in questo processo, nella fase delle indagini, gli indagati che, leggendo i giornali, venivano a sapere di un procedimento in atto, andavano ripetutamente a bussare alla porta della Procura per chiedere conferme e non veniva detto loro nulla. Addirittura quando chiesero un certificato sui carichi pendenti nei loro confronti fu risposto negativamente facendo un falso. E questo noi l’abbiamo denunciato. E mentre non si diceva nulla a chi aveva diritto ad essere informato sulla propria posizione, sui giornali e in tv si sbandieravano confusamente notizie false. Il dottor Zincani fece una serie di dichiarazioni alimentando una gogna mediatica inqualificabile».

Il Procuratore contro la gogna: «Basta foto degli arrestati», scrive il 16 gennaio 2018 "Il Dubbio".  Il commento di Edmondo Bruti Liberati contro polizia e stampa. L’articolo che segue, scritto dall’ex Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, è tratto da “Questione giustizia”, la rivista on- line di Magistratura democratica, ed è stato pubblicato l’8 gennaio 2018. Chi avesse scorso i quotidiani del 6 gennaio 2018 avrebbe trovato due notizie, di segno molto diverso, sul tema della diffusione di foto e riprese di persone arrestate. Il quotidiano Libero in prima pagina, con grande evidenza titola: «Il comandante dei carabinieri infuriato: “Questi signori ladri tornano liberi e riprenderanno a rubare”. I volti degli otto clandestini albanesi segnalati pubblicamente dai carabinieri di Padova»; nel riquadrato le otto fotografie segnaletiche a colori. L’articolo prosegue a pagina 13 con il titolo. «L’avvertimento del comandante dell’Arma di Padova. “Occhio a questi ladri, stanno per uscire di cella”. I carabinieri segnalano otto pregiudicati albanesi. “Tenete a mente queste facce, potrebbero riprendere a rubare nelle case”». Nel testo dell’articolo si riferisce che, nel corso di una conferenza stampa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Padova «ha mostrato le foto segnaletiche perché le telecamere delle televisioni locali riprendessero bene i volti di questi malviventi e li diffondessero nelle case della gente. Sono tutti pregiudicati, hanno precedenti specifici, sono albanesi di famiglia zingara e sono sprovvisti del permesso di soggiorno. Vivono grazie ai proventi dei loro furti. (…) Il colpo più datato è di tre mesi fa, sono stati ammanettati da poco, ma il comandante dei Carabinieri si sente in dovere di dire alla popolazione di stare attenta, di guardarsi attorno dieci volte prima di lasciare la propria casa incustodita perché questi ceffi quando a breve avranno saldato il loro conto con la legge potrebbero tornare in azione. (…) Nel corso della conferenza stampa il comandante ha anche illustrato una sorta di vademecum per difendersi dai ladri». Segue, sempre a pagina 13, un commento dal titolo: «A questo porta l’inefficienza della nostra giustizia». La notizia viene riportata anche dai quotidiani della catena La Nazione- Il Resto del Carlino- Il Giorno con toni analoghi e pubblicazione delle otto foto; segue un commento dal titolo «Onore all’Arma». Non sappiamo quanto di enfasi sia dovuto alla penna dei cronisti rispetto alle dichiarazioni effettivamente rese dal comandante provinciale dei Carabinieri, ma il dato di fatto pacifico è l’iniziativa di diffondere alla stampa le foto segnaletiche degli arrestati. Sarà interessante vedere se vi saranno reazioni da chi ricorrentemente denuncia (e giustamente) episodi di “gogna mediatica” ovvero se l’indignazione si confermi selettiva in base alla personalità dei soggetti offerti alla gogna. Il Corriere del mezzogiorno (Napoli e Campania) sempre il 6 gennaio 2018 a pagina 6 titola: «Melillo: stop alla diffusione delle foto di persone indagate oppure arrestate. Circolare del procuratore alle forze dell’ordine, ad avvocati e giornalisti: va tutelata la dignità. Soprattutto se il soggetto coinvolto sia vulnerabile, come nel caso di chi ha perso la libertà».

LA CIRCOLARE. Merita subito una segnalazione il fatto che la circolare diretta alle autorità di polizia sia, molto opportunamente, indirizzata, per conoscenza, oltre che al procuratore generale e ai magistrati dell’ufficio, anche al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e al Presidente del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti. La circolare muove dalla premessa: «La doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini ovvero comunque coinvolte in un procedimento penale appare, infatti, maggiormente meritevole di attenzione qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità, come nel caso in cui sia privata della libertà personale». E prosegue: «Come costantemente rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, il sistema normativo vigente impone il raggiungimento di un ponderato equilibrio tra valori diversi contrapposti, tutti di rilievo costituzionale, stante l’esigenza di un necessario contemperamento tra i diritti fondamentali della persona, il diritto dei cittadini all’informazione e l’esercizio della libertà di stampa». Vengono quindi richiamate le disposizioni dell’art. 25 del Codice per la protezione dei dati personali, l’art. 8 del Codice di deontologia dei giornalisti, il provvedimento n. 179 del 5 giugno 2012 dell’Autorità di garanzia dei dati personali, nonché la sentenza Cedu 11 gennaio 2005 (Sciacca contro Italia), che ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella diffusione della foto segnaletica di una persona arrestata. La circolare dopo aver rammentato che: «Del resto, tali principi sono espressamente richiamati anche nella circolare 123/ A183. B320 del 26.2.1999, con la quale il Ministero dell’Interno ha sottolineato l’esigenza che, anche nell’ipotesi di indiscutibile “necessità di giustizia e di polizia” alla diffusione di immagini, “il diritto alla riservatezza della tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione”» conclude disponendo: «In conformità alle precise indicazioni normative appena ricordate, pertanto, le SS. LL. vorranno assicurare – impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti – la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato». La diffusione e la pubblicazione di riprese filmate e foto di persone al momento dell’arresto o della traduzione in carcere o delle foto segnaletiche, a dispetto dei principi e della normativa vigente, è purtroppo un costume diffuso. La comprensibile e pur legittima esigenza di visibilità delle autorità di polizia che hanno proceduto alle indagini può trovare uno sbocco nel modulo comunicativo che si realizza con la partecipazione alla conferenza stampa tenuta negli uffici della Procura della Repubblica. Il tema è controverso e le prassi sono difformi. Non sono mancate iniziative dirette a contrastare le prassi distorte. Nel Bilancio di Responsabilità sociale 2014/ 2015 della Procura della Repubblica di Milano, reperibile nel sito internet della procura, in un passaggio della Introduzione dedicato alla “Comunicazione della Procura” si segnala: «Per i casi di significativo interesse pubblico, è stata privilegiata la comunicazione con lo strumento del comunicato stampa emesso dal Procuratore e diffuso con la massima tempestività possibile consentita dal livello di discovery raggiunto, anche al fine di garantire parità di accesso a tutti i media. Nel periodo in esame sono stati diffusi numerosi comunicati stampa. In occasione di indagini di particolare rilievo al comunicato stampa è seguita una conferenza stampa, tenuta negli uffici della Procura della Repubblica, con la partecipazione dei responsabili della o delle forze di PG interessate. L’obiettivo è di fornire all’opinione pubblica una informazione il più possibile completa su quegli aspetti della indagine che non sono più coperti da segreto e sempre nel rispetto della presunzione di non colpevolezza. Il rispetto della dignità delle persone ha comportato, d’intesa con le forze di polizia, la adozione di precise prassi operative per evitare la ripresa fotografica o televisiva di persone al momento dell’arresto. Nel quinquennio, nonostante siano stati eseguiti numerosi arresti in tema di criminalità mafiosa, terrorismo, corruzione e criminalità economica suscettibili di grande risonanza mediatica, in nessuna occasione vi è stata la diffusione di immagini delle persone». Ma è sufficiente una rapida ricerca sul web per trovare diverse riprese filmate degli arrestati. Altrettanto frequente è la diffusione delle foto segnaletiche degli arrestati sia da parte delle autorità di polizia, sia anche nel corso di conferenze stampa tenute con la presenza del procuratore della Repubblica. Tre esempi recenti sul web: l’Operazione Gorgòni, Catania 28 novembre 2017; l’Operazione Metauros, Reggio Calabria 5 ottobre 2017; il Blitz Contatto, Lecce 5 settembre 2017. In questo contesto è tanto più apprezzabile la iniziativa del procuratore di Napoli, sia per la puntuale motivazione sia per le precise disposizioni impartite.

NORME E PRASSI. Può essere utile una rassegna della normativa per evidenziarne la inosservanza nella prassi. Con l’art. 14, comma 2 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 è stato introdotto un nuovo comma 6 bis all’art. 114 cpp: «È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta». Per la risposta sanzionatoria rimane operante l’art. 115 cpp: «Violazione del divieto di pubblicazione. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce illecito disciplinare esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. Di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare». Non risultano segnalazioni del pubblico ministero e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazioni di foto e riprese di arrestati in manette, talora, ma non sempre, con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque paradossalmente ancor più sottolineate. Eppure vige da tempo il Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 29 luglio 1998, Gazzetta Ufficiale 3 agosto 1998, n. 179) che prevede: «Art. 8. Tutela della dignità delle persone. Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi». È interessante segnalare che in Francia la legge n. 2000- 516 del 15 giugno 2000, intitolata al rafforzamento della presunzione di innocenza e dei diritti delle vittime, all’art. 92 ha introdotto un nuovo articolo 35- ter alla legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa: «Salvo che sia realizzata con il consenso dell’interessato, la diffusione, con qualunque mezzo o supporto, dell’immagine di una persona identificata o identificabile soggetta ad una procedura penale, ma non ancora condannata, che la mostri sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, ovvero mentre viene posta in detenzione provvisoria, è punita con l’ammenda di 100.000 F». La stessa legge del 2000 ha modificato l’art. 803 del codice di procedura penale nei termini seguenti: «Nessuno può essere sottoposto all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che sia considerato pericoloso per sé o per gli altri o suscettibile di tentare la fuga. In queste ipotesi devono esser adottate tutte le misure utili, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, ad evitare che la persona sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, sia fotografata o soggetta a ripresa audiovisiva». Una rapida ricerca sui siti web francesi non fa emergere casi di diffusione di foto segnaletiche o di persone ammanettate; è pubblicata una ripresa video di violenze da parte della polizia in servizio di ordine pubblico nei confronti di persone arrestate e ammanettate nel corso di una manifestazione in Place de la Republique il 28 aprile 2016. Il tema è stato riproposto con particolare evidenza nel 2011 quando il Consiglio superiore dell’audiovisivo (CSA) ha ritenuto che non fossero pubblicabili in Francia le foto diffuse negli Stati Uniti in occasione dell’arresto di Dominique Strauss Kahn. Le foto e le riprese televisive, largamente diffuse, in Italia hanno mostrato Dominique Strauss Kahn in manette deliberatamente e ripetutamente offerto alle riprese giornalistiche dalle autorità di polizia secondo la pratica cosiddetta del “perp walk”, controversa ma largamente diffusa. Il termine “perp” è una abbreviazione di “perpetrator”, con buona pace della presunzione di innocenza, trattandosi di persona arrestata dalla polizia e messa in pasto al pubblico prima ancora di essere presentata davanti al giudice. Gli esempi di “perp walk” sono numerosi: forse il più celebre è quello in cui Jack Ruby viene ripreso in diretta dalle Tv mentre spara ed uccide Lee Harvey Oswald, arrestato come sospetto assassino di J. F. Kennedy. A partire dagli anni ‘ 80 alla pratica del “perp walk” sono stati sottoposti anche “colletti bianchi”, soprattutto per iniziativa di Rudolph Giuliani.

LA SENTENZA CEDU. Se in Italia siamo ben distanti dalla barbarie del “perp walk” americano, il confronto con la Francia mostra quanto si debba operare ancora nel nostro Paese per eliminare prassi distorte. Eppure un monito forte ci è stato offerto oltre un decennio addietro dalla sentenza Cedu dell’11 gennaio 2005 Sciacca contro Italia, opportunamente citata nella circolare del procuratore di Napoli. La Corte ha ritenuto la violazione dell’art. 8 della Convenzione nella divulgazione alla stampa da parte della autorità di polizia della foto di una persona arrestata, in quanto ingerenza non giustificata nel diritto al rispetto della vita privata, non essendo necessaria per lo sviluppo delle indagini. Vi è da augurarsi che la meritoria iniziativa del procuratore Giovanni Melillo riesca ad innescare un circolo virtuoso tra magistratura, polizia e stampa.

“Il giornalista non è nè giudice nè poliziotto. Dia le notizie senza suggestionare e non anticipi i possibili sviluppi”. “A ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività”. Ma questa sentenza della Corte Cassazione deve essere rimasta ignota ad alcuni giornalisti troppo spesso al servizio effettivo del pm “protagonista” di turno. Ah quanti ne conosciamo…!!! Scrive "Il Corriere del Giorno" il 16 gennaio, 2018. “A ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare, la collettività”. È il monito della Corte di Cassazione, chiamata ad esaminare un caso di diffamazione. Secondo la Suprema corte, in particolare, “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagini e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tale attività”. “È quindi in stridente contrasto con il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti (…) l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire”, perchè “in tal modo – aggiunge la Cassazione, facendo riferimento al caso in esame – egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali nè iniziate nè concluse“. Il caso su cui si è pronunciata la Quinta Sezione Penale riguardava un procedimento per diffamazione nei confronti del giornalista Peter Gomez (attuale direttore del sito ilfattoquotidiano.it ai danni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La Corte di Appello di Roma, nel 2009, pur dichiarando l’estinzione per prescrizione del reato per diffamazione aveva ritenuto fondata la tesi secondo cui il giornalista in un articolo sui presunti finanziamenti della mafia al gruppo Fininvest, oltre a riportare le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia contenute nelle indagini, aveva aggiunto “ulteriori considerazioni tratte da altre dichiarazioni di altri soggetti, che apparivano dirette ad avvalorare la credibilità del collaboratore di giustizia realizzando così una funzione di riscontro» che però non può fare il giornalista ma solo l’autorità giudiziaria”. Nel ricorso in Cassazione il giornalista ha chiesto che nonostante la prescrizione venisse lo stesso riconosciuto l’esercizio del diritto di cronaca, ma i supremi giudici con sentenza 3674 hanno respinto la richiesta. Scrivono infatti i giudici che “è interesse dei cittadini essere informati su eventuali violazioni di norme penali e civili, conoscere e controllare l’andamento degli accertamenti e la reazione degli organi dello Stato davanti all’illegalità per poter effettuare valutazioni sullo stato delle istituzioni e il livello di legalità di governanti e governati“; ugualmente, “è diritto della collettività ricevere informazioni su chi sia stato coinvolto in un procedimento penale o civile, specialmente se i protagonisti abbiano posizioni di rilevo nella vita sociale, politica o giudiziaria“. Ma, precisa la Cassazione, è “in stridente contrasto con il diritto-dovere” di cronaca l’azione del giornalista che “confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire”. Nel caso specifico, “il giornalista ha integrato le dichiarazioni della fonte conoscitiva con altri dati di riscontro, realizzando la funzione investigativa e valutativa rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria”. E l’articolo pubblicato, sostiene la Suprema Corte, “non può ritenersi un’asettica riproduzione di dichiarazioni (…) ma un articolato discorso che, comprendendo altri dati storici, tende inequivocabilmente a sostenere la verità del contenuto di queste” dichiarazioni, “a fronte di indagini in corso proprio per l’accertamento di questa verità”. “La cronaca giudiziaria è quel particolare ramo della cronaca che riguarda l’esposizione di avvenimenti criminosi e delle vicende giudiziarie ad essi conseguenti, al fine di consentire alla collettività di avere una retta opinione su vicende penalmente rilevanti, sull’operato degli organi giudiziari e, più in generale, sul sistema giudiziario e legislativo del Paese. Difatti come ricordato dalla Cassazione (Cass. pen., 1 febbraio 2011, n. 3674, Pres. Calabrese, Rel. Bevere)  nella sentenza che qui si pubblica l’esimente delle cronaca giudiziaria riguarda il “diritto di informare i cittadini sull’andamento degli andamenti giudiziaria a cario degli altri consociati”, dato che “è interesse dei cittadini essere informati su eventuali violazioni di norme penali e civili, conoscere e controllare l’andamento degli accertamenti e la reazione degli organi dello stato dinanzi all’illegalità, onde potere effettuare consapevoli valutazioni sullo stato delle istituzioni e sul livello i legalità caratterizzante governanti e governati, in un determinato momento storico”. Continua sempre la Corte osservando come il “diritto di cronaca giornalistica, giudiziaria o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e al diritto dei cittadini di essere informati, onde poter effettuare scelte consapevoli nell’ambito della vita associata. E’ diritto della collettività ricevere informazioni su chi sia stato coinvolto in un procedimento penale o civile, specialmente se i protagonisti abbiano posizioni di rilievo nella vita sociale, politica o giudiziaria”. Ne segue che “in pendenza di indagini di polizia giudiziaria e di accertamenti giudiziari nei confronti di un cittadino, non può essere a questi riconosciuto il diritto alla tutela della propria reputazione: ove i limiti del diritto di cronaca siano rispettati, la lesione perde il suo carattere di antigiuridicità”. Ciò posto, nell’ambito della cronaca giudiziaria si ritiene che sia certamente legittima l’esposizione di fatti recanti discredito all’onore ed alla reputazione altrui, purché i “fatti in questione trovino rispondenza in quanto espresso dalle autorità inquirenti ovvero nel contenuto degli atti processuali, dovendosi altresì considerare che per il cronista giudiziario il limite della verità delle notizie si atteggia come corrispondenza della notizia al contenuto degli atti e degli accertamenti processuali compiuti dalla magistratura, con la conseguenza che il fatto da dimostrarsi vero, al fine dell’accertamento della scriminante, è unicamente la corrispondenza della notizia agli atti processuali a prescindere dalla verità dei fatti da questi desumibili” (Tribunale di. Roma, 09.05.2003, in RCP, 2005, 232). Nella narrazione di tali atti è tuttavia necessario che venga rispettato il diritto dei soggetti coinvolti in tali fatti, cosicché l’opinione del consesso dei cittadini, si formi su notizie aderenti a quelle che sono le effettive risultanze processuali a loro carico. E’ dunque di tutta evidenza che la cronaca giudiziaria può collidere con il contrapposto interesse di tutela della riservatezza del soggetto coinvolto negli accadimenti giudiziari oggetto della cronaca. Altresì (e soprattutto) la cronaca giudiziaria si colloca in potenziale conflitto anche con i principi espressi dall’art. 27 della Costituzione, ai sensi del quale sono vietate affermazioni anticipatorie della condanna o, comunque, pregiudizievoli della posizione dell’indagato e dell’imputato: la ratio della norma è volta a tutelare detti soggetti contro ogni indicazione che li accrediti come colpevoli prima di un accertamento processuale definitivo che effettivamente li riconosca come tali (cfr. Cass. pen., 21.03.1991, in RPen, 1991, 912; Trib. Roma, 06.04.1988, in DInf, 1988, p. 837). Tanto premesso, d’altro canto, è parimenti ovvio che il diritto di cronaca (e, più in generale, di manifestazione del pensiero) non può venire del tutto sacrificato neppure nei confronti del principio di presunzione di innocenza; ciò sul presupposto che a favore dell’imputato o dell’indagato non militi alcuna ragione volta a riconoscere loro una tutela della reputazione maggiore di quanto non spetti ad altri soggetti. Date queste premesse, vediamo che la cronaca giudiziaria incontra i medesimi limiti delle altre forme di cronaca (verità della notizia, pubblico interesse alla conoscenza dei fatti narrati, e continenza), sui quali però sono state svolte doverose specificazioni. E difatti, quanto al limite della verità, esso viene inteso in senso restrittivo, poiché il sacrificio della presunzione di innocenza non deve spingersi oltre quanto strettamente necessario ai fini informativi. Ciò comporta che il giornalista non deve narrare il fatto in modo da generare un convincimento su una colpevolezza non solo non ancora accertata, ma che poi potrà rivelarsi anche inesistente (cfr. App. Roma, 20.01.1989, in GPen., 1991, II, c. 519); inoltre, se la notizia viene mutuata da un provvedimento giudiziario, occorre che essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza illazioni, allusioni, alterazioni o travisamenti (cfr. Cass. pen., 10.11.2000, Scalfari, in CPen, 2001, p. 3045) e senza ricostruzioni, o ipotesi giornalistiche, autonomamente offensive (cfr. Cass. pen., 20.09.2000, in CPen, 2001, p. 3405). Altresì si richiede che non venga omessa la narrazione di aspetti idonei a scagionare l’imputato: i fatti vanno, dunque, riferiti in termini di problematicità (Trib. Roma, 5.11.1991, in DInf, 1992, p. 478), chiarendo le opposte tesi dell’accusa e della difesa (c.d. principio dell’equilibrio), dando voce in ugual misura alle parti contrapposte senza tacere aspetti salienti delle tesi difensive, al fine di inculcare nel lettore la convinzione di una inevitabile pronunzia di condanna. Inoltre, nel dare la parola agli indagati, agli imputati ed ai loro difensori, il cronista giudiziario non deve raccogliere sfoghi ed invettive, ma elementi concreti di difesa o di accusa, atti a mettere il lettore di farsi una propria opinione sui fatti, sui criteri di gestione dei processi, sul ruolo della magistratura così da consentire il controllo diretto della collettività sull’operato delle istituzioni (L. BONESCHI, Etica e deontologia del giornalista nella cronaca giudiziaria: qualche regola da rispettare, in DInf., 1999, p. 569, ss). In questo contesto la Cassazione nella sentenza qui pubblicata ha precisato che i giudizi critici manifestati su una persona coinvolta in indagini devono porsi in correlazione con l’andamento del processo, perché “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti giudiziari e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tali attività”. Secondo la Corte quindi è in contrasto con il “diritto / dovere di narrare fatti già accaduti, senza indulgere a narrazioni e valutazioni «a futura memoria», l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire. In tal modo egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali né iniziate né concluse, senza essere in grado di dimostrare la affidabilità di queste indagini private e la corrispondenza a verità storica del loro esito. Si propone ai cittadini un processo garantista. Dinanzi al quale il cittadino interessato ha, come unica garanzia di difesa, la querela per diffamazione”. Conclude così la Corte: “a ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività”.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Scrive Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story. Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico. Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è. Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense. Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo ( e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie. Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ’ 41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”. Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente. E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire. Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti. Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Marta Vincenzi: «Caro Nogarin ti aspetta il mio stesso calvario», scrive Errico Novi il 17 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Parla Marta Vincenzi, ex sindaco di Genova, indagata come il primo cittadino di Livorno per l’alluvione che ha colpito la città. «E certo, ho suggerito a Filippo Nogarin di fare un bel respiro profondo e di trovare un equilibrio interiore». Non è rassicurante. «No che non lo è», conviene Marta Vincenzi, «ma la realtà purtroppo è questa: attualmente la normativa su protezione civile e emergenze fa ricadere una responsabilità totale e irragionevole sui sindaci. Tutta su di loro, su di noi se penso che mi trovo a fronteggiare una situazione come questa. Credo che le forze politiche dovrebbero assumere un preciso impegno elettorale: dare attuazione alla legge delega di riordino della protezione civile da poco pubblicata in Gazzetta ufficiale. Un provvedimento quadro importante, se venisse completato con i contenuti che servono. A partire da una più sensata condivisione delle responsabilità di fronte a eventi meteo avversi». Marta Vincenzi è il solo amministratore di una grande città ad aver già pagato il prezzo che ora si chiede al primo cittadino di Livorno. Proprio mente Nogarin è indagato per concorso in omicidio colposo plurimo, e chiede alla magistratura di «accertare le responsabilità», mentre oltre al primo cittadino la Procura accusa anche il comandante della polizia municipale Riccardo Pucciarelli della stessa ipotesi di reato, mentre insomma davanti ai suoi occhi si dipana una sequenza che ben conosce, l’ex sindaca di Genova solleva il nodo di una disciplina «figlia dell’abbrutimento e dell’ignoranza». Condannata in primo grado a 5 anni di carcere per omicidio colposo plurimo, disastro e altri reati relativi all’esondazione del torrente Ferreggiano che il 4 novembre 2011 provocò otto vittime a Genova, Vincenzi si è sempre considerata «innocente».

Il travaglio sarà inevitabile anche per Nogarin?

«L’ho detto nell’intervista al Corriere della Sera. Le norme introdotte a metà degli anni Duemila lasciano pochi margini: sarà un iter giudiziario in salita. Nel mio caso son passati 6 anni e si è concluso solo il primo grado».

In Italia siamo sempre più a caccia del colpevole?

«È il mood di questi anni: è un meccanismo di semplificazione. Ma più che sulla filosofia vorrei concentrarmi su questioni concrete».

Ovvero?

«Le norme appunto. Vede, io no voglio entrare nel merito dell’indagine sul sindaco di Livorno, così come non intendo parlare del mio processo. Ma ci sono alcuni aspetti che ricorrono, in questo tipo di vicende giudiziarie: e dipendono dal meccanismo normativo di responsabilità nel sistema della protezione civile, che a un certo punto si inceppa».

Dove esattamente?

«Nel libro che pubblicherò a marzo, per il quale siamo ormai in dirittura d’arrivo con l’editore, ricostruisco tutto. C’è stata una fase negli anni Novanta in cui la materia è stata regolata da interventi interessanti: la legge 225 del 1992 e le norme che definirono il cosiddetto metodo Augustus. Erano baste sul principio della collaborazione e della condivisione di responsabilità tra una pluralità di soggetti. Non solo i sindaci, dunque. Sulla base di quelle norme i Comuni avrebbero dovuto adottare i piani di emergenza».

E lo fecero?

«Proprio perché non tutti li adottavano, e nessuno controllava, si è pensato bene di stravolgere la disciplina e di far ricadere tutta l’autorità, e di conseguenza la responsabilità nelle emergenze dovute a eventi meteo, sui soli sindaci. Secondo un meccanismo per cui se non ci sono vittime tutti hanno lavorato bene, in caso di tragedia è solo colpa del primo cittadino».

Irragionevole, in effetti.

«Ci sono macchine organizzative complesse che richiederebbero ben altra modularità normativa. E invece il sistema spinge ormai i sindaci alla cosiddetta gestione difensiva: si eccede nelle misure, si chiude tutto. E col cavolo, mi scusi il francesismo, che si sviluppa la cosiddetta società della resilienza, cioè procedure che maturano dalle esperienze condivise di una pluralità di soggetti».

Perché il legislatore è stato così superficiale?

«Sulla scia di un abbrutimento e di un’ignoranza in cui la politica è man mano scivolata. Qui non c’entra la logica del potere decentrato, del federalismo, ma del menefreghismo: se la vede il sindaco, son fatti suoi».

Crede davvero nell’attuazione della delega?

«La legge dovrà essere riapprovata dal nuovo Parlamento, la delega cioè deve essere riaffermata in capo all’esecutivo che verrà. Sarebbe un tema assai più degno della campagna elettorale rispetto alle polemiche sul sindaco più o meno inadeguato, cinquestelle o di altro partito che sia».

Sulla base di quella legge le Procure devono per forza indagare i sindaci?

«Sì, anche se in casi diversi dal mio, come quello delle Cinque terre che si verificò nello stesso periodo della tragedia di, alla fine non si è andati a processo. Però è sostanzialmente inevitabile che un sindaco sia indagato per omicidio colposo, in casi come quelli di Genova e Livorno».

Tornerà a fare politica?

«No, ho 70 anni e come diciamo a Genova, ’ emo già deto, abbiamo già dato. Ma voglio comunque far conoscere le mie riflessioni su questi temi a chi la politica si appresta a farla. Peraltro non saprei con chi stare, non mi riconosco in nessuna proposta».

Certe norme rischiano di dissuadere le persone perbene dall’impegno pubblico?

«Il rischio c’è. Poi c’è anche una strana legge per cui una persona perbene accetta di fare politica nonostante si debba essere davvero un po’ matti per non darsela a gambe».

L’avv. antimafia arrestato per mafia: 10 anni per scagionarlo, scrive Valentina Stella il 17 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  La vicenda giudiziaria di Giuseppe Melzi, che fu il legale dei risparmiatori del crack ambrosiano e del fallimento Sindona. Nel 2008 venne accusato di riciclaggio per i clan. L’avvocato Giuseppe Melzi venne arrestato a Milano, dinanzi il suo studio, l’8 febbraio 2008 insieme ad altre 8 persone a seguito di una indagine dei Ros dei Carabinieri di Milano, denominata “Dirty Money” (ex Tre Torri), avviata nel lontano 2001. Era accusato di “riciclaggio e agevolazione mafiosa”: secondo l’accusa aveva riciclato e reimpiegato capitali, attraverso un giro di società fittizie tra Svizzera e Italia, per un valore di circa 80 milioni di euro che erano il prodotto dei traffici illeciti della cosca della ‘ndrangheta Ferrazzo di Mesoraca (Crotone). L’avvocato Melzi ha scontato 291 giorni di custodia cautelare (89 in carcere e 202 a domicilio, quasi 10 mesi), e subìto la sospensione dall’attività professionale per 1.159 giorni ( 3 anni e 2 mesi). Nel 2009 la Procura chiese il rinvio a giudizio per gli imputati, ma il gup Paolo Ielo trasmise il procedimento a Cagliari per competenza territoriale. Melzi da allora sostiene di non aver avuto più aggiornamenti sulla sua vicenda giudiziaria. Il 4 aprile 2016 il procuratore capo di Cagliari, Gilberto Ganassi, e il sostituto Guido Piani chiedono al gip Mauro Grandesso Silvestri l’archiviazione di tutti gli indagati. Il 5 maggio giunge l’archiviazione ma nulla viene notificato all’avvocato Melzi che ne è venuto a conoscenza solo qualche giorno fa tramite un collega sardo. L’avvocato Giuseppe Melzi, che ha difeso i risparmiatori vittime del crack Ambrosiano e del fallimento della banca di Sindona, venne accusato nel 2008 di riciclaggio per i clan della ‘ ndrangheta. Vita privata e professionale rovinate. A dieci anni da quelle accuse il procedimento viene archiviato e non gli viene neanche comunicato.

Il primo febbraio 2008 inizia il suo calvario giudiziario.

«È stato uno “tsunami”. Non riuscivo neppure a realizzare che il provvedimento cautelare e le ipotesi accusatorie riguardassero me e non unicamente soggetti che richiedevano la mia assistenza professionale. Non sapevo nulla della maggior parte dei fatti esposti nell’ordinanza di 279 pagine che mi veniva notificata. Conoscevo solo alcuni degli altri indagati e non ero mai stato interrogato dal Pm».

Lei ha subìto ingiustamente 291 giorni di custodia cautelare.

«Nel carcere si perde la propria identità: una devastazione completa, che tronca improvvisamente la vita di relazione, gli impegni, gli interessi, la manifestazione degli affetti; in definitiva la propria realtà esistenziale».

Lei è passato da paladino dei piccoli risparmiatori ad imputato con l’aggravante della finalità mafiosa.

«La mia attività professionale è sempre stata in difesa delle vittime della criminalità economico- finanziaria. Sono stato l’unico che ha denunciato pubblicamente che il mandante dell’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli era Sindona, mentre l’Ordine degli Avvocati di Milano non partecipò ai funerali e mi interrogò sulla fonte delle mie affermazioni. Nessuno deve essere considerato “intoccabile”, ma l’identità e la storia personale e professionale di ogni cittadino non possono essere ignorate e calpestate, in base a ipotesi, “teoremi” accusatori infondati e strumentali di magistrati, territorialmente incompetenti e non solo. Purtroppo, “intoccabili” appaiono i giudici che non si confrontano con gli indagati e con i loro difensori, non rispettano le procedure e, in definitiva, non rispondono delle loro decisioni, né subiscono controlli e sanzioni».

Lei scrive “dell’irrisarcibile pregiudizio” subìto dal comportamento dei magistrati milanesi: cosa intende?

«Il “pregiudizio”, i danni subiti dalla mia persona, dalla mia famiglia, dalla mia attività sono incalcolabili e, appunto, irrisarcibili».

Sulla stampa lei è stato definito “la mente finanziaria e legale dell’organizzazione criminale” e anche il “deus ex machina della cosca Ferrazzo’.

«Il “processo mediatico” è stato non meno devastante. La stampa deve diffondere le notizie, ma non può prescindere da una verifica critica di ogni comportamento, anche di quello dei giudici. Nessuno allora ha proposto riserve, o dubbi sulle incredibili e folli accuse rivoltemi. Solo l’allora Assessore al Comune di Milano, On. le Tiziana Maiolo (che conoscevo appena) ha avuto la civiltà di scrivere sul proprio blog: “E se l’avvocato Melzi fosse innocente?… La storia non cambia, basta una informazione di garanzia, o un arresto per essere già colpevoli”».

Come è possibile che non ha mai ricevuto informazione dell’archiviazione?

«L’art. 409 c. p. p. prevede la notifica dell’archiviazione non solo alle eventuali parti lese, ma agli indagati che hanno subito un provvedimento cautelare. L’omissione della Cancelleria nel tardare la notifica del decreto di archiviazione è rimediabile e davvero, “veniale”, rispetto alla “mortale” gravità dell’errore e dell’abuso compiuto dai giudici che hanno malamente indagato dal 2001 al 2009, raccogliendo “la massa enorme di dati e di elementi” definitivamente inconcludenti».

Che giudizio complessivo dà di questa sua vicenda?

«Il giudizio complessivo riguarda il “sistema giustizia”: non si tratta solo di denunciare pubblicamente la “malagiustizia” che colpisce persone innocenti, ma di ottenere la modifica di un sistema che esercita poteri assoluti e purtroppo “irresponsabili”. Non a caso il “potere giudiziario” è stato definito una “casta”: i giudici non rispondono mai delle loro decisioni e non sono sottoposti a reali controlli. Quelli del C. S. M. (politicizzato all’eccesso), in realtà, sono inesistenti, o marginali: l’autoreferenzialità è assoluta. In 46 anni di professione non ho mai avuto la fortuna di incontrare un giudice che ha riconosciuto e modificato un proprio errato convincimento, neppure a seguito della smentita dei propri “teoremi”, ovviamente, confidando sulla sostanziale impunità. Di fronte ad un “sistema chiuso” e che si auto- seleziona in base solo ai risultati di un concorso e autogiustifica definitivamente i propri adepti (per l’intera vita professionale fino alla pensione), è indispensabile una modifica radicale. Perché non rendere elettiva anche la nomina dei giudici? Dovranno almeno rispondere periodicamente del loro operato, come i componenti gli Ordini Legislativo ed Esecutivo, caposaldi della nostra Costituzione?»

Nessuno pagherà i danni, scrive Piero Sansonetti il 9 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  Anche il processo- Finmeccanica si è concluso con un flop. Ci sono voluti quasi cinque anni per arrivare alla conclusione che lo scandalo non c’era. Non è stata trovata nessuna traccia delle tangenti. Come del resto avevano già detto i giudici di primo grado, quasi tre anni fa, ma non erano stati ascoltati. I manager ora sono scagionati e possono riprendere a testa alta la loro attività. Anche se i danni che ha ricevuto la loro carriera ormai sono irreparabili. Anche se il trauma subìto quel giorno che arrivarono i carabinieri a casa e li trascinarono in prigione, la foto di fronte e di profilo, gli oggetti personali consegnati al piantone, e poi i tre mesi passati in cella, beh, tutto questo è impossibile da dimenticare. E anche da risarcire. Lo scandalo Finmeccanica non c’era Chi pagherà i danni (ingentissimi)? Lo scandalo non c’era. Non è la prima volta che succede. Cito a mente, senza neanche sforzarmi troppo e senza consultare gli archivi: lo scandalo tempa Rossa, che alimentò tutti i grandi giornali un paio d’anni fa, e che costrinse alla dimissioni una ministra, e che permise alla stampa di frugare in modo osceno nella sua vita privata, e di sbatterla in piazza con ferocia e un po’ di perversione, beh, lo scandalo Tempa Rossa si è concluso con un’archiviazione generale. Non esisteva: zero. Nessuno ha pagato. Lo scandalo di Sesto San Giovanni, che travolse il braccio destro di Bersani, Filippo Penati, figura emergente della sinistra italiana, beh, anche quello è finito in una bolla di sapone. Penati, invece, ha pagato. L’ha pagata cara. Oggi nemmeno più pensa alla lontana all’ipotesi di tornare a far politica. Un po’ non gli interessa più, un po’ forse ha paura, ha imparato sulla sua pelle che se un Pm ti punta ha il potere di fare di te quel che vuole, di sbranarti, e poi magari lasciarti sul selciato, vivo, ma distrutto e terrorizzato. Vogliamo parlare di Vasco Errani, ex presidente della Regione Emilia, anche lui travolto da uno scandalo, accusato di favoritismi e corruzione, costretto a uscire dalla politica per molti mesi, poi assolto? Errani non s’è dato per vinto, in qualche modo ha ripreso a lottare a a far politica, ma certo ripartendo da una posizione molto, molto svantaggiata rispetto alla posizione che aveva raggiunto prima che una Procura si interessasse a lui. Fermiamoci qui, sennò diventiamo noiosi (e tralasciamo i settanta processi a Berlusconi andati a vuoto). Appena appena citiamo il caso Consip, che non è ancora concluso ma si è già sgonfiato come un palloncino di plastica. Il caso Consip è stato ancora più clamoroso, forse. Perché è stata una inchiesta realizzata in collaborazione da Pm e giornalisti, che si sono scambiati volentieri i ruoli, e che hanno passo passo accompagnato con la copertura e il cannoneggiamento della “marina”, cioè dei giornali, l’attività sul terreno dei magistrati, la quale però – si è poi scoperto – era parecchio farlocca perché basata su informative dei carabinieri falsificate. Lì poi il candidato “vittima” – che si è salvato solo perché a un certo punto è intervenuta la Procura di Roma è ha scoperto che a Napoli stavano taroccando – era una preda parecchio appetitosa: il capo del partito di maggioranza e premier uscente. Torniamo al punto di partenza. Lo scandalo Finmeccanica ha avuto molte conseguenze: il cambio quasi totale del management di Finmeccanica, la rovina personale di alcune carriere, una perdita consistente economica e di prestigio per l’industria italiana. Difficile quantificare tutto questo, ma stiamo parlando probabilmente di miliardi. Naturalmente nessuno sostiene che se sono in ballo i miliardi è bene che la magistratura si tenga fuori. E’ chiaro che se ci sono indizi seri di un reato grave, la magistratura deve intervenire, senza opportunismi e senza guardare in faccia a nessuno. Il problema è che negli ultimi tempi si hanno pochissime notizie di inchieste che hanno portato alla condanna. Lo scarto tra il clamore, talvolta drammatico, provocato dall’apertura delle inchieste sui politici o nelle grande aziende e i risultati delle inchieste è uno scarto gigantesco. Sarebbe forse il caso di ragionarci. E di vedere se non è il caso di portare qualche correttivo. Non solo per rendere più giusto il funzionamento della nostra società, e più salde le garanzie di giustizia dei cittadini, ma anche per la credibilità della magistratura. La quale credibilità, se in questi vent’anni non fosse stata sostenuta con incredibile utilizzo di mezzi, da quasi tutto il fronte dell’informazione, oggi probabilmente sarebbe a livelli ancor più bassi da quelli raggiunti dalla politica. Il fatto è che finché chiunque può in allegria procedere in inchieste, anche in assenza di prove, e può costruire su queste inchieste il proprio successo mediatico, e se poi va tutto a carte quarantotto non succede niente, e chi ha avviato l’inchiesta non solo non paga in “euro” ( come succede a quasi tutti gli altri professionisti), ma neppure in carriera, in possibilità di avanzamento e di successo, voi capite che è difficile frenare la “pulsione” irrefrenabile ad aprire sempre nuove inchieste sui “Grandi Imputati”. E addirittura, succede, come nel caso Finmeccanica, che se il tribunale assolve, c’è una Procura che non si arrende, perché ha un’idea di uso personale della macchina della giustizia – non è in grado di interpretare l’interesse generale – e ricorre in appello sulla base di nulla. Ecco, di fronte a questa situazione dovrebbe essere interesse in primo luogo della magistratura ragionare, impegnarsi e trovare dei correttivi. Perché il rischio è che l’idea di onnipotenza, dominante in alcuni magistrati, mandi a scatafascio tutta la macchina della giustizia, a partire dalla magistratura.

Scandalo Finmeccanica, altro flop: tutti assolti, scrive Simona Musco il 9 gennaio 2018 su "Il Dubbio". L’ex presidente Orsi e l’ex ad Spagnolini erano innocenti. «Non vi è prova sufficiente» della corruzione messa in atto dagli ex vertici di Finmeccanica per assicurarsi la vendita di 12 elicotteri all’India. Lo hanno stabilito ieri i giudici della terza sezione della corte d’appello di Milano, presieduta da Piero Gamacchio, che hanno assolto Giuseppe Orsi, ex presidente di Finmeccanica (ora Leonardo) e Bruno Spagnolini, ex amministratore delegato della controllata Agusta Westland, nel corso dell’appello bis del processo. Orsi e Spagnolini erano accusati di corruzione internazionale e false fatturazioni per il presunto pagamento di una tangente a pubblici ufficiali indiani, che in cambio avrebbero assicurato loro una commessa da 556 milioni di euro. In primo grado, Orsi e Spagnolini erano stati assolti dal tribunale di Busto Arsizio dall’accusa di corruzione e condannati solo per le false fatture. Il processo d’appello aveva invece ribaltato la sentenza, con la condanna dei due manager per entrambi i reati: Orsi a 4 anni e 6 mesi e Spagnolini a 4 anni, con in aggiunta la confisca per equivalente dell’importo di sette milioni e mezzo di euro. «Non vi è prova sufficiente» della corruzione messa in atto dagli ex vertici di Finmeccanica per assicurarsi la vendita di 12 elicotteri all’India. Lo hanno stabilito ieri i giudici della terza sezione della corte d’appello di Milano, presieduta da Piero Gamacchio, che hanno assolto Giuseppe Orsi, ex presidente di Finmeccanica (ora Leonardo) e Bruno Spagnolini, ex amministratore delegato della controllata Agusta Westland, nel corso dell’appello bis del processo. Orsi e Spagnolini erano accusati di corruzione internazionale e false fatturazioni per il presunto pagamento di una tangente a pubblici ufficiali indiani, che in cambio avrebbero assicurato loro una commessa da 556 milioni di euro. In primo grado, Orsi e Spagnolini erano stati assolti dal tribunale di Busto Arsizio dall’accusa di corruzione e condannati solo per le false fatture. Il processo d’appello aveva invece ribaltato la sentenza, con la condanna dei due manager per entrambi i reati: Orsi a 4 anni e 6 mesi e Spagnolini a 4 anni, con in aggiunta la confisca per equivalente dell’importo di sette milioni e mezzo di euro. Una decisione che, a fine 2016, i giudici della Suprema Corte avevano nuovamente ribaltato, disponendo un nuovo processo davanti ad una differente sezione della corte d’appello di Milano e contestando ai giudici di secondo grado di non aver rinnovato l’assunzione delle prove dichiarative Secondo la Cassazione, dunque, Orsi e Spagnolini sarebbero stati condannati semplicemente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rilasciate dai testimoni nel processo di primo grado. Una situazione che determina «un vizio della motivazione della sentenza», si legge nell’annullamento della prima sentenza di secondo grado. Il processo era dunque tornato in appello, dove il pg Gemma Gualdi, che ha sostenuto l’accusa assieme al collega Gianluigi Fontana, aveva ribadito la necessità di confermare le condanne già inflitte, tenendo conto però della prescrizione dell’accusa di false fatture per il 2008. Secondo l’accusa, ci sarebbe stata «un’imponente mole di prove documentali sul giro di denari» finalizzati alla corruzione delle autorità indiane. Prove che, secondo le difese sono state invece travisate, senza riuscire nemmeno, ha affermato l’avvocato Ennio Amodio, difensore di Orsi, a «stabilire la data dell’accordo corruttivo e quali sarebbero stati i denari arrivati al maresciallo Tyagi». Il processo d’appello bis si era aperto con la novità della costituzione di parte civile del Governo indiano e l’ammissione di nuovi atti chiesti dalla Procura generale e dal Ministero della Difesa indiano, tra i quali le procedure del bando di gara che, secondo l’accusa, sarebbe stato truccato a favore della società ita- liana. Ma i giudici hanno accolto la richiesta di assoluzione avanzata dai legali degli imputati, non ravvisando prove del passaggio di denaro utilizzato per la corruzione. Un’assoluzione tardiva «con tutto il danno che hanno fatto all’azienda, quello che hanno fatto a noi è il meno», ha commentato Bruno Spagnolini dopo la lettura della sentenza. Una decisione che «chiude una vicenda che doveva, fin dalle prime battute, essere chiara anche agli investigatori: non esiste alcun accordo corruttivo, non vi è prova alcuna che il denaro sia pervenuto a Tyagi, né si è mai dimostrato che i funzionari indiani abbiano in qualche modo interferito nella gara – ha commentato Amodio -. Si riafferma così che quella fornitura altro non è stata se non la manifestazione di un successo dell’industria elicotteristica italiana che aveva offerto all’India una delle sue macchine di maggiore efficienza, tanto da essere acquisita anche dall’amministrazione statunitense per i viaggi del presidente Obama». Orsi e Spagnolini furono arrestati nel febbraio 2013 e scarcerati a maggio dello stesso anno. Secondo l’accusa, gli imputati avrebbe- ro corrisposto somme di denaro non esattamente quantificate al maresciallo Sashi Tyagi, capo di Stato maggiore dell’Indian Air Force dal 2004 al 2007, per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio, con lo scopo di favorire la Agusta Westland nella gara per l’aggiudicazione dell’appalto per la fornitura al Governo indiano di 12 elicotteri Vvip. Orsi avrebbe incaricato Guido Ralph Haschke, amministratore e socio di Gadit S. A. e di Gordian Services s. a. r. I., e Christian Michel, titolare della Global Service Trade Commerce della Global service Fze, di condurre la trattativa in India. Haschke, assieme al suo socio Carlo Gerosa, per il tramite dei fratelli Juli Tyagi, Docsa Tyagi e Sandeep Tyagi, cugini del Maresciallo Tyagi, sarebbero intervenuti sul bando facendolo modificare in senso favorevole ad Agusta Westland, ottenendo così la riduzione della quota operativa di volo degli elicotteri e consentendo alla società di partecipare alla gara e, quindi, di vincerla. Orsi e Spagnolini avrebbero corrisposto inizialmente ad Haschke e Gerosa la somma di 400mila euro attraverso un contratto di consulenza, concludendo in seguito contratti di ingegneria con le società Ids India e Ids Tunisia, allo scopo di coprire l’intero pagamento, nell’ambito di una operazione commerciale nella quale erano vietati compensi per mediazioni. In primo grado, però, il tribunale di Busto Arsizio aveva stabilito che dal processo non erano emersi riscontri all’accusa di corruzione e che le prove consentivano di inquadrare la vicenda anche attraverso una ricostruzione alternativa e lecita. Non c’era, infatti, prova dell’accordo corruttivo con il pubblico ufficiale straniero, essendo il primo incontro tra Orsi ed Haschke successivo alla decisione favorevole alla Agusta Westland, e non c’era prova neppure della adozione, da parte del pubblico ufficiale straniero, dell’atto contrario ai doveri d’ufficio, essendo stata deliberata in precedenza e da altri la riduzione della quota operativa di volo richiesta per gli elicotteri. Nessun riscontro nemmeno del passaggio di denaro, in quanto la ricostruzione dei flussi finanziari non aveva consentito di riscontrare pagamenti diretti a favore del maresciallo Tyagi. I primi giudici di appello avevano deciso però di condannare i due imputati senza ascoltare nuovamente i testimoni, semplicemente valutando diversamente le prove. Decisione che, dopo la Cassazione, è stata bocciata anche dai colleghi di Milano: le prove di quella corruzione, se mai c’è stata, non sono mai state trovate. 

IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.

L’assoluzione di Giuliano Ferrara, denunciato da Nino Di Matteo. Giusto criticare i magistrati. Parola di giudice, scrive Errico Novi il 13 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Non esiste un’immunità rispetto alle critiche, per i magistrati. È questa la motivazione con cui il giudice di Milano Maria Teresa Guadagnino ha assolto Giuliano Ferrara dall’accusa di aver diffamato il pm Nino Di Matteo. Sembra niente. Sembra una normale sentenza. E in effetti all’atto di pronunciarla, lo scorso 12 dicembre, il giudice monocratico del Tribunale di Milano Maria Teresa Guadagnino non aveva fatto scalpore. Ma a leggere le motivazioni cambia tutto. La sentenza introduce, o meglio ripristina, un principio tacitamente soppresso negli ultimi anni: il «diritto di critica giudiziaria», come lo definisce la magistrata. Si tratta del processo per “diffamazione aggravata” innescato da una denuncia del pm di Palermo Nino Di Matteo nei confronti del fondatore del Foglio Giuliano Ferrara. Il quale, in un editoriale pubblicato il 22 gennaio 2014, aveva espresso valutazioni molto severe nei confronti del sostituto di Palermo. Nel suo mirino, è ovvio, la madre di tutti i processi infiniti, ovvero l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato- mafia. Secondo Ferrara «traballante» e poco seria. Critiche certo inasprite da altri aspetti segnalati nell’articolo, come la «spaventosa messa in scena» dei colloqui tra Totò Riina e il suo compagno d’ora d’aria nel carcere di Opera, Alberto Lorusso. Di Matteo ritenne che l’invettiva scagliata da Ferrara sull’indagine fosse intollerabile. A maggior ragione in quanto connessa alle “clamorose rivelazioni” del capo dei capi, secondo il giornalista architettate da «qualche settore d’apparato dello Stato italiano» per «mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo». Ma per la giudice il fatto addebitato al fondatore del Foglio «non costituisce reato» perché, come si legge nelle motivazioni, «è assolutamente lecito che un giornalista esprima la propria opinione in merito a un processo così rilevante, anche sotto il profilo politico, criticando metodi utilizzati e/ o risultati ottenuti dai magistrati». In tal senso, secondo la magistrata milanese, «non appare censurabile il riferimento, nell’ultima parte dell’articolo, al ‘ rito palermitano’ e alla ritenuta mancanza di serietà delle inchieste giudiziarie». È il concetto di magistrato criticabile al pari del politico, che fa breccia. Anche perché negli ultimi mesi, di attacchi anche violenti, nei confronti di altri giudici, si erano pure visti: ma solo nei casi in cui avevano adottato provvedimenti garantisti. Un esempio su tutti: il gip di Reggio Emilia Giovanni Ghini, contro il quale erano state organizzate persino manifestazioni di piazza, per un’ordinanza meno restrittiva rispetto alla custodia in carcere invocata dalla Procura. Adesso, grazie alla dottoressa Guadagnino, scopriamo che si possono criticare pure i magistrati che teorizzano ignobili accordi e vergognose compromissioni. L’editoriale al centro del processo era intitolato “Riina, lo Stato come agente provocatore. Subito un’inchiesta”. Ebbene, secondo la giudice, «è evidente che la libertà, riconosciuta dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu, di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprenda il diritto di critica giudiziaria ossia l’espressione di dissenso, anche aspro e veemente, nei confronti dell’operato dei magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità, nonché degli atti da costoro compiuti». Diritto di critica. Giudiziaria. Una categoria declassata al rango di sacrilegio. E invece, si legge nelle motivazioni depositate dalla giudice della IV sezione penale di Milano, «il giornalismo scomodo e polemico di Ferrara, certamente non privo di espressioni allusive e iperboliche e di espedienti retorici, non persegue l’obiettivo di ledere l’onore e la reputazione della persona offesa ma solo quello di disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo davanti alla Corte d’assise di Palermo». Legittimo. Sembra niente. E invece è una mezza rivoluzione.

I SOLITI FORCAIOLI MANETTARI INFORCATI ED AMMANETTATI.

Contrabbando, 7 quintali bionde su nave Marina: pm di Brindisi stringe il cerchio. Massimo riserbo sull'inchiesta condotta dal pm De Nozza, scrive il 20 Settembre 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". La procura stringe il cerchio sulle indagini dopo il sequestro di 700 chili di sigarette di contrabbando – 3600 stecche di «bionde» – trasportate su una nave della Marina militare che rientrava da una missione in Libia e scoperte nel pronto di Brindisi: sono tre le inchieste aperte, una della Procura militare, una della giustizia ordinaria e una della Marina. Ed è stata proprio la Marina militare, con una nota ufficiale, a fare il punto di quello che è successo. «Il 15 luglio scorso su nave Caprera, ormeggiata nel porto di Brindisi e di rientro dall’Operazione Nauras in Libia (durante la quale l’unità ha fornito supporto tecnico alla Guardia costiera e alla Marina militare libiche), in seguito ad attività di controllo disposta dal comandante della nave stessa, sono stati rinvenuti scatoloni contenenti tabacchi lavorati esteri. Della scoperta sono state prontamente informate le autorità giudiziarie militare (Procura di Napoli) e ordinaria (Procura della Repubblica di Brindisi). Le indagini sono tutt’ora in corso e la Marina militare, nel confermare la massima collaborazione con le autorità giudiziarie, ha anche avviato una inchiesta sommaria interna. Questo allo scopo di perseguire anche disciplinarmente gli eventuali responsabili». Ad occuparsi del caso è il pm De Nozza del tribunale brindisino: massimo riserbo fatta eccezione per una nota della Procura che ha chiarito l'estraneità ai fatti della Capitaneria di porto di Brindisi che, al contrario, è stata delegata alle indagini insieme alla Guardia di Finanza. Si parla di provvedimenti imminenti, ma per ora bocche cucite in Procura.

Sequestrati 700 kg di sigarette di contrabbando sulla nave militare italiana che doveva fermare i migranti in Libia, scrive Luigi Pelazza il 19 settembre 2018 su Le Iene. Le Iene rivelano il blitz della Finanza a bordo della nave militare Caprera al ritorno dalla sua missione a Tripoli, dove doveva segnalare alla Guardia costiera libica le imbarcazioni degli scafisti. Cosa ci faceva quel carico a bordo? Il 16 luglio scorso la Guardia di Finanza ha sequestrato a Brindisi 700 chili di sigarette di contrabbando a bordo della nave militare italiana Caprera che era appena tornata da una missione di 108 giorni a Tripoli, dove aveva il compito di segnalare alla Guardia costiera libica le imbarcazioni di migranti dirette verso l’Italia. Noi de Le Iene siamo in grado di diffondere per primi la notizia, dopo la nuova conferma del sequestro avuta oggi dalla Iena Luigi Pelazza da parte del comandante della Caprera, il tenente di vascello Oscar Altiero, che dice di avere una sua ipotesi su come quelle sigarette siano finite a bordo. Le 3.600 stecche, chiuse in 72 scatole, sono state fatte trasportare da alcuni marinai prima nei furgoni della Capitaneria di porto di Brindisi e poi messe sotto sequestro dalla Finanza. Ce lo aveva già confermato proprio uno di quei marinai, che la sera del 16 luglio era sceso poi dalla Caprera con un borsone contenente alcune stecche e che era stato a sua volta fermato dalla Finanza. Cosa ci facevano tutte quelle sigarette di contrabbando su una nave militare italiana, oltretutto appena tornata da un’operazione delicata di contrasto all’immigrazione clandestina? Qualcuno le aveva comprate semplicemente per rivenderle esponendosi però a un forte rischio di ricatto da parte delle persone da cui le aveva acquistate? Oppure erano una forma di “compenso” per aver magari chiuso un occhio sul passaggio di qualche imbarcazione di scafisti (traffico di sigarette e di essere umani sono controllati a Tripoli dagli stessi miliziani)? Sono molte le domande aperte e a rispondere sarà presumibilmente la magistratura. Di sicuro c’è il sequestro e il fatto che sulla vicenda, che vi abbiamo raccontato per primi, continueremo a tenervi aggiornati fino al servizio di Luigi Pelazza, dopo il ritorno in onda de Le Iene dal 30 settembre prossimo.

Nave Caprera, la Marina indagata per contrabbando: al ritorno dalla Libia a bordo c’erano 7 quintali di sigarette. Traffico di “bionde” - L’unità militare, tornando dalle acque libiche, portava 700 chili di sigarette, scrive Antonio Massari il 20 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". In acque libiche e in contatto con i trafficanti (di sigarette) mentre erano impegnati nel contrasto allo sbarco dei migranti. Stiamo parlando di una nave della Marina Militare e di ben tre inchieste in corso. La prima è condotta dalla Procura di Brindisi, che indaga per contrabbando di tabacchi lavorati esteri, dopo aver scoperto che a bordo della nave Caprera, al rientro da Tripoli, erano stipati circa 700 chilogrammi di sigarette, ben 72 cartoni, contenenti 50 stecche ciascuno. La seconda è in corso a Napoli, dove indaga la Procura militare, mentre la terza è l’indagine interna svolta dalla Marina. Il 16 agosto – come hanno rivelato ieri Le Iene sul sito web – la Guardia di Finanza sale a bordo della nave e trova il carico di sigarette imbarcato in Libia. Secondo la Marina Militare, però, il primo a segnalare la notizia del carico a bordo, chiedendo l’intervento della magistratura, è stato proprio il comandante della Caprera, il tenente di Vascello, Oscar Altiero. Resta il fatto che la nave era da poco rientrata dalle acque libiche, dove, a partire da aprile, aveva svolto attività di supporto logistico e manutenzione dei battelli della Marina e della Guardia costiera libiche. Il 25 giugno ospitano a bordo il ministro dell’Interno Matteo Salvini che con toni entusiastici dichiara: “Sono onorato di portare il sostegno del popolo italiano ai ragazzi che sono a bordo della Caprera a coordinare, educare, istruire e salvare”. Poi parte l’accusa alle Ong. “Il business dell’immigrazione clandestina – aggiunge Salvini – è alimentato dalle navi di quelle associazioni che aspettano solo di recuperare esseri umani per continuare a giustificare la loro esistenza in vita. Mentre la Marina Militare Italiana e la Guardia costiera libica sono quelle che veramente aiutano, salvano e si propongono di bloccare partenze, diminuire il numero dei morti. Nonostante le operazioni di danno delle navi di Ong straniere. Solo nell’ultima settimana hanno salvato più di 2 mila persone”. Nel frattempo, tra un intervento e l’altro, proprio a bordo della nave italiana, qualcuno caricava a bordo ben 7 quintali di sigarette commettendo il reato di contrabbando. Con quale scopo? Guadagnarci dei soldi? Oppure – ragionano le Iene – per chiudere un occhio su qualche partenza? Domande più che legittime. A maggior ragione per il fatto che il reato di contrabbando, per quanto paradossale possa essere, è stato realizzato utilizzando una nave dello Stato. La Marina Militare ieri ha precisato: “Il 15 luglio 2018 sulla nave Caprera, ormeggiata nel porto di Brindisi e di rientro dall’Operazione Nauras in Libia, a seguito di attività di controllo disposta dal Comandante dell’Unità stessa, vennero rinvenuti degli scatoloni contenenti tabacchi lavorati esteri”. Come dire: è stata la stessa Marina a scoprire e denunciare tutto. “Della scoperta – aggiunge il comunicato – furono prontamente informate la Procura militare di Napoli e quella ordinaria di Brindisi”. Il 16 luglio avviene il sequestro dei tabacchi, eseguito anche da personale della Marina, oltre che della Gdf e della capitaneria di porto. Il comandante della nave è stato quindi il primo a denunciare, consentendo di sequestrare le sigarette e di avviare l’inchiesta. Ma le domande restano: com’è stato possibile portare a bordo ben 700 chilogrammi di sigarette? Quanti marinai sono stati coinvolti per un’operazione del genere? E soprattutto: sono state acquistate o ricevute in cambio di qualche favore? Perché è molto difficile, in un Paese come la Libia, che il contrabbando di sigarette non sia in mano alle bande di miliziani che controllano il territorio. Gli stessi che poi gestiscono il traffico dell’emigrazione clandestina. Se qualcuno della nostra Marina avesse trafficato con loro sarebbe gravissimo. I contatti delle Ong – secondo la Procura di Trapani – avevano esclusivamente fini umanitari. In altre parole: se mai contatto vi fosse stato, era finalizzato a salvare la vita di qualcuno, non a contrabbandare sigarette in Italia.

La beffa di Travaglio che ora deve risarcire quei magistrati che ha sempre beatificato. Il direttore del «Fatto» condannato a pagare 150mila euro a tre giudici, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 24/01/2018, su £Il Giornale".  Adesso anche Marco Travaglio sperimenta sulla sua pelle una legge che non sta scritta in nessun codice ma che viene applicata in modo ferreo: la reputazione dei giudici vale più di quella di qualunque altro cittadino. Quando nei processi per diffamazione a mezzo stampa la vittima (presunta) è un magistrato, volano risarcimenti che sono dieci o venti volte quelli riconosciuti alle vittime normali: per il semplice, umanissimo motivo che a quantificare il danno è un collega della vittima, un giudice come lui, e come lui convinto che infangare una toga sia un vulnus alla democrazia. E che come tale vada represso con eccezionale severità. Del canale preferenziale di cui godono i magistrati quando si sentono offesi da un articolo di stampa, il Giornale in questi anni ha sperimentato sulla sua pelle tutta l'asprezza: effetti collaterali della sua battaglia contro la malagiustizia. Ma quando bussano a risarcimenti, i giudici non guardano in faccia a nessuno. Nemmeno se il presunto diffamatore è un opinionista che da sempre è dalla parte delle toghe; un giornalista che nel secolare faccia a faccia tra giudice e imputato ha scelto risolutamente di stare col primo. Così tre giudici hanno fatto causa a Travaglio. E sul direttore del Fatto Quotidiano è piombata una batosta da lasciarlo tramortito: condanna per diffamazione, e centocinquantamila euro di risarcimento. É una cifra importante, oggettivamente intimidatoria per la libertà di stampa. Nel bilancio del Fatto (da cui probabilmente Travaglio attingerà i soldi per il risarcimento) centocinquantamila euro si sentono. Verrebbe da dire: benvenuto, caro Marco, nel circolo dei giornalisti mazzolati per avere criticato il potere irresponsabile che amministra la giustizia in questo paese. Peccato che la vicenda che ha portato alla condanna di Travaglio racconti un'altra storia. A querelarlo furono infatti tre giudici palermitani - Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere - colpevoli unicamente di avere osato assolvere due ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di avere protetto la latitanza di Bernardo Provenzano. Per la Procura di Palermo, la mancata cattura di «Binnu» era prova lampante della trattativa occulta tra Stato e mafia, e il processo a Mori e Obinu un prequel dell'interminabile maxiprocesso sulla presunta trattativa. Ma nel luglio 2013 la quarta sezione del tribunale palermitano assolse i due ufficiali. Opacità, scrissero i giudici, nell'operare: ma nessuna traccia di una volontà di aiutare Cosa Nostra. La procura di Palermo si indignò, e ancora più si indignò Travaglio, che scagliò sui tre giudici colpevoli di assoluzione un articolo violento, indicandoli con nome e cognome come autori di una «sentenza cluster», una bomba a grappolo destinata a devastare tutti gli altri processi sulla trattativa: «possibilmente scomodi per il potere». Asservimento al potere politico, questa l'accusa che i tre ritennero indigeribile. Denunciarono Travaglio. E la eclatante sentenza dà loro ragione. Travaglio ha affermato di avere esercitato il suo diritto di satira e di critica. Ma il problema è un altro: a Travaglio non piacciono le assoluzioni. Gli avvisi di garanzia, per lui sono sufficienti a marchiare un uomo come colpevole; e se poi una sentenza assolve, allora è la sentenza ad essere un errore giudiziario, e magari anche frutto di corruttela. La vera giustizia è quella delle indagini preliminari, amministrata dai pm; di sentenze e di giudici si potrebbe fare serenamente a meno. Ma il codice, per ora, si ostina a prevedere entrambi: e se un giudice assolve non è per forza un mariuolo.

Gianfranco Fini verso il processo per riciclaggio: complice dei Tulliani, rischia fino a 12 anni di carcere, scrive il 24 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Si dice "libero e felice", Gianfranco Fini. Fino a quando, non si sa. La casa di Montecarlo rischia di rovinalo definitivamente, non solo a livello politico: la richiesta di rinvio a giudizio per lui, la compagna Elisabetta Tulliani, il cognato Giancarlo Tulliani e il suocero Sergio Tulliani sarà presa al vaglio dal gip di Roma, che dovrà fissare la data dell'udienza preliminare. L'inchiesta per riciclaggio che vede coinvolto anche il re delle slot Francesco Corallo rischia di costare a Fini fino a 12 anni di carcere. Tutta colpa di quei 7 milioni di euro che l'ex presidente della Camera secondo l'accusa ha percepito dall'imprenditore in cambio di favori politici. Tra questi "favori" ci sarebbe appunto anche l'acquisto della casa di Montecarlo lasciata in eredità dalla contessa Colleoni ad Alleanza Nazionale e finita invece a prezzo stracciato a Tulliani junior, grazie anche alle scatole cinesi e ai paradisi fiscali messi a disposizione dallo stesso Corallo. Di tutte queste manovre sporche Fini, ecco il punto cruciale dell'accusa, non sarebbe stato una vittima, al contrario. Per gli inquirenti, come ha ricordato il Giornale, Fini ha avuto una "centralità progettuale e decisionale", ed era "pienamente consapevole" di quello che stava accadendo. 

Gianfranco Fini su Montercarlo, l'ultima piroetta: "Ho mentito per le mie figlie", scrive il 23 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". Gianfranco Fini e tutta la famiglia Tulliani, da Elisabetta al cognatino Giancarlo, quasi alla sbarra: è arrivata infatti la richiesta di rinvio a giudizio per riciclaggio. Una parabola da incubo, quella dell'ex leader di Futuro e Libertà, da presunto "salvatore della Patria" a (quasi) imputato in un processo dai contorni assai imbarazzanti, tra conti off-shore, slot machines e case a Montecarlo. In estrema sintesi, secondo i pm di Roma, dietro l'acquisto per 300mila euro nel 2008 della famigerata casa di Montecarlo da parte di Giancarlo Tulliani, ci sarebbe, appunto, il denaro di Francesco Corallo, il re delle slot. Quando nel 2015 l'alloggio fu rivenduto per circa 1,4 milioni, Fini disse di non sapere che fosse coinvolto il cognato; nell'inchiesta sono poi emerse altre operazioni finanziare off-shore sospetto. Per Gianfry la richiesta di processo è per l'accusa di riciclaggio. Da par suo l'ex presidente della Camera continua a negare tutto, ma nelle due volte in cui si è presentato davanti ai pm per rispondere delle contestazioni, non è riuscito a convincerli. E ora, riportati dal Corriere della Sera, emergono altri dettagli sull'ultimo intervento di Fini in procura, lo scorso 16 novembre, quando ha dovuto ammettere consapevolezze e reticente del passato sulla casa di Montecarlo. "Quando ho appreso dalle indagini che Elisabetta aveva ottenuto la metà del ricavato della vendita ovviamente mi sono molto dispiaciuto e arrabbiato - ha sottolineato Fini -. Lei mi ha confessato solo recentemente che, insieme a Giancarlo, nel 2008, avevano deciso di comprare quell'appartamento, e che, per evitare che la proprietà fosse di pubblico dominio, il fratello aveva appositamente costruito le società off shore Timara e Printemps...". E qui, una delle affermazioni più controverse: "Non ho voluto riferirlo nel primo interrogatorio di aprile per timore delle ripercussioni laceranti che tali affermazioni avrebbero potuto causare nel mio ambito familiare, soprattutto con riferimento alle mie figlie". Insomma Fini cambia nuovamente versione. Dopo aver detto, tempo fa, che sulla casa aveva mentito per Elisabetta, ora afferma di averlo fatto per le figlie, in una strategia difensiva sempre più confusa e che, sempre più, pare destinata a portarlo a schiantarsi.

Aspettiamo le scuse di chi ci infangava. Lo scoop del Giornale sulla casa di Montecarlo. Adesso chi ci ha infangato si scusi, scrive Gian Marco Chiocci, Martedì 23/01/2018, su "Il Giornale".  Caro direttore, caro Alessandro, ricordi quella telefonata di otto anni fa? «Pronto? Gian Marco, so che ti è appena nato un figlio ma ora fai la valigie e vola a Montecarlo. C'è una storia pazzesca, è troppo incredibile per essere vera. C'è arrivata una segnalazione, pare che Fini si sia fregato una casa del partito...». Otto anni son passati da quell'ordine perentorio, dagli scoop nel Principato fino ai viaggi ai Caraibi, dalla cucina Scavolini alle off shore di Corallo, dalle bugie del presidente della Camera agli attacchi bastardi di giornalisti quaquaraquà dai quali ancora attendo le scuse per l'infamia della «macchina del fango». Otto anni son passati e la procura di Roma ha finalmente messo il sigillo con la ceralacca a quella nostra inchiesta giornalistica provando che tutto quel che avevamo riportato, in tandem col bravissimo Massimo Malpica, era vero: ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per Gianfranco Fini, per la sua compagna Elisabetta, per il cognato in Ferrari e per il suocero. Sarà ora la giustizia a fare il suo corso, a stabilire eventuali responsabilità penali. I fatti, però, parlano chiaro e non c'è Cassazione che possa smentirli. L'inchiesta sulla casa di Montecarlo era granitica allora, e lo è ancor più oggi con ciò che le indagini della Finanza hanno riscontrato. Sorvoliamo sulla fuga a Dubai del famoso cognato, sulle ammissioni a verbale di Fini, sui milioni distribuiti in famiglia dal re delle slot machine. Caro direttore, non gioisco mai delle disgrazie altrui. Sono garantista sempre, lo sono dunque anche con chi ci ha vomitato addosso l'odio, la bile, il disprezzo dall'alto della sua carica istituzionale utilizzata per nascondere gli intrallazzi monegaschi e andar contro Silvio Berlusconi con gli applausi della stampa un tempo sua nemica. E allora auguri a Fini e al parentado acquisito che rischia seriamente di andare a processo. Auguri anche ai pennivendoli che ci hanno sparato addosso e ora fanno finta di nulla. Auguri, insomma, a rosiconi e depistatori in malafede. Come ho scritto anche l'altro giorno.

"Sono stato un coglione": Sallusti brutale, da Napolitano a Mentana nomi e colpe sul caso Fini, scrive il 31 Maggio 2017, Libero Quotidiano". O coglioni o complici, terzo non dato. Alessandro Sallusti tira fuori la vanga e pubblica uno degli editoriali più duri mai letti sul caso Fini-Montecarlo. Il direttore del Giornale approfitta dei nuovi guai giudiziari di Gianfranco Fini per attaccare chi, nel 2010, bollò come "macchina del fango" quei giornali (in testa Libero e Giornale) che osarono indagare sullo scandalo della casa nel Principato. Sallusti fa i nomi: l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il giornalista di Repubblica Giuseppe D'Avanzo, Marco Travaglio ed Enrico Mentana, Roberto Saviano, Michele Santoro, tutti schierati (e schienati) a favore di Fini, l'anti-Berlusconi. "Concorso esterno in riciclaggio, depistaggio, falso in scrittura pubblica e privata e calunnia, dovrebbero essere i reati morali e professionali da contestare ai non pochi colleghi e ai tanti politici ed esponenti delle istituzioni", scrive il direttore del Giornale snocciolando le loro colpe. Il finale è brutale: "Sono stato un coglione lo dovrebbero dire a La Repubblica per conto di D'Avanzo, Travaglio, Saviano, Della Vedova e soci, Napolitano, la Marcegaglia e Woodcock, Santoro e Mentana, e tutti quelli che all'epoca indicarono noi come criminali. Perché i casi sono solo due: o coglione o complice".

Gianfranco Fini, Vittorio Feltri lo seppellisce: "Che figura di merda, ecco cosa ti accadrà", il 23 Gennaio 2018 su "Libero Quotidiano". Gianfranco Fini, già presidente di Alleanza Nazionale e poi vicepresidente del Popolo delle libertà nonché presidente della Camera dei deputati, è oggetto con tutta la sua famigliola di una richiesta di rinvio a giudizio. Motivo? La famigerata casa di Montecarlo, ricevuta in eredità da una nobildonna bergamasca dal partito della destra e svenduto a due soldi al cognato dell'uomo politico, il quale dopo un po' lo ha ceduto, guadagnandoci assai, al prezzo giusto: elevato. Una grande porcheria che fu denunciata da me quando dirigevo il Giornale, suscitando le proteste (accompagnate da insulti) di Fini stesso. Seguirono polemiche a non finire, fui processato e condannato e al termine assolto per questioni collaterali. Il prode Gianfranco ce l'aveva a morte con Berlusconi, il numero uno del partito. E si comprende. Tutti i numeri due aspirano a salire di un gradino. Fini si mise in testa di ascendere facendo fuori il capo profittando delle sue difficoltà giudiziarie. Egli andava in tivù e attaccava Silvio, scatenando gli applausi interessati della sinistra. Un putiferio. Liti continue tra i due galletti. Malumori, vendette covate, stracci volanti. Si dice che Fini abbia manovrato sotto acqua con Napolitano per far secco il Cavaliere e prenderne il posto. Non so cosa sia accaduto, ma le manovre fallirono. All' improvviso scoppiò la bomba: la casa di Montecarlo. La cui documentazione mi fu offerta da un collega. La esaminai e decisi di spararla in prima pagina. Fu subito scandalo. Gianfranco si giustificò in modo maldestro, noi del Giornale, grazie alle notizie raccattata da Gian Marco Chiocci, ora direttore del Tempo, montammo un tormentone devastante. Nessun collega della stampa e della tv ci prese sul serio. La maggioranza degli scribi strapazzò noi e difese la terza carica dello Stato. Una vergogna. Sono passati molti anni da quell' epoca funesta, e adesso salta fuori che avevamo ragione, tant' è che siamo arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio. Troppo tardi per fare giustizia, signori miei. Il reato di riciclaggio non prevede che col tempo si estingua, causa prescrizione. In altre parole, se il processo tarda, non muore perché è invecchiato. Fini in qualche modo comunque la farà franca e a me non dispiace più di tanto. Mi basta sapere e che si dica apertis verbis la verità ossia che la casa di Montecarlo fu al centro di un pasticcio esattamente come noi lo raccontammo. Segnalo a Daria Bignardi, che in una sua puntata delle Invasioni Barbariche (in tv) tentò invano di incastrarmi quale persecutore di Gianfranco, la conclusione della faccenda. Questa: io ero nel giusto e lei aveva torto. Non mi aspetto le sue scuse, ma se andasse a nascondersi farebbe bene. Il quartierino monegasco fu oggetto di maneggi illegali, mentre i reportage del Giornale riflettevano la realtà. Una realtà truffaldina che ha rovinato la carriera, se non la reputazione, di un politico importante e ha gettato discredito sulla sua famiglia, un componente della quale è addirittura fuggito a Dubai, e se ne guarda dal rientrare in patria. A Fini non ho nulla di sgradevole da dire, tranne che poteva risparmiarsi questa figura di merda. Vittorio Feltri

CIANCIOPOLI: EDITORIA E POTERE.

Pubblichiamo Il Comunicato Della Procura

"PROCURA DELLA REPUBBLICA di CATANIA Direzione Distrettuale Antimafia

COMUNICATO STAMPA

In data 20 settembre 2018, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Catania, su richiesta della Procura Distrettuale di Catania, ha depositato un decreto di confisca previo sequestro del compendio patrimoniale di CIANCIO SANFILIPPO Mario.

Il Giudice - il primo ad avere valutato nel merito gli elementi acquisiti nel corso delle indagini - ha ritenuto la pericolosità sociale qualificata del proposto per la sussistenza a suo carico di gravi indizi del rilevante contributo fornito da CIANCIO SANFILIPPO Mario al raggiungimento delle finalità perseguite dalla famiglia catanese di Cosanostra dagli anni Settanta dello scorso secolo sino al 2013 e ha disposto la confisca di tutto il patrimonio da questi acquisito nel periodo in cui è stata accertata tale pericolosità sociale (in allegato l’elenco dei beni colpiti dal provvedimento). Si tratta di depositi di conti correnti, anche presso banche site in Svizzera, di polizze assicurative, di trentuno società interamente posseduto dal proposto, di quote di partecipazione detenute in sette società e di beni immobili, il cui valore, secondo un prudente apprezzamento, è non inferiore a 150 milioni di euro. Tra le società sequestrate e confiscate vi è anche il gruppo editoriale del quotidiano La Sicilia e di alcune emittenti locali.

Il procedimento di prevenzione era stato avviato il 19.01.2015 con richiesta della Procura Distrettuale e si è celebrato fino al gennaio 2018, a porte chiuse, per una precisa scelta di CIANCIO SANFILIPPO Mario.

In tale non breve periodo, questa Autorità giudiziaria ha sottoposto all’attenzione del Collegio gli elementi che dimostravano la summenzionata pericolosità sociale qualificata del Ciancio e l’anomalo sviluppo del suo patrimonio; elementi acquisiti nel corso delle indagini, eseguite con la consueta professionalità, dal ROS - Sezione Anticrimine di Catania, nonché gli esiti della consulenza patrimoniale accuratamente elaborata dalla nota società PWC (Price Waterhouse Coopers) e il patrimonio conoscitivo dei collaboratori di giustizia. La Difesa, a sua volta, ha depositato documentazione ed ha interloquito nel corso della redazione della consulenza tecnica della PWC avvalendosi del proprio consulente di parte.

I profili di pericolosità sociale evidenziati dal Pubblico Ministero a carico di CIANCIO SANFILIPPO attengono in particolare:

Ai rapporti sinallagmatici intrattenuti dal Ciancio con gli esponenti di vertice della famiglia catanese di Cosa Nostra sin da quando la stessa era diretta da Giuseppe Calderone, rapporti poi proseguiti ed anzi ulteriormente intensificati con l’avvento al potere di Benedetto Santapaola alla fine degli Anni Settanta del secolo scorso ed al ruolo di canale di comunicazione svolto dallo stesso Ciancio per consentire ai vertici della predetta famiglia mafiosa di venire a contatto con esponenti anche autorevoli delle Istituzioni;

Alla linea editoriale imposta dal Ciancio alla testata giornalistica che vanta il maggior numero di lettori nella Sicilia Orientale, linea editoriale improntata alla finalità di mantenere nell’ombra i rapporti tra la famiglia mafiosa e le imprese direttamente o per interposta persona controllate dalla medesima; di non porre all’attenzione dell’opinione pubblica gli esponenti mafiosi non ancora pubblicamente coinvolti dalle indagini giudiziarie e soprattutto l’ampia rete di connivenze e collusioni sulle quali questo sodalizio mafioso poteva contare per mantenere la propria influenza nella provincia catanese;

All’impiego di grandi quantità di capitali di provenienza mafiosa investiti nelle iniziative economiche, anche di natura speculativa immobiliare, poste in essere nell’arco di numerosi decenni dal proposto.

I rapporti tra CIANCIO SANFILIPPO e cosa nostra sono emersi nelle seguenti specifiche vicende imprenditoriali in epoca recente:

Parco Commerciale Porte di Catania (realizzato): in tale vicenda CIANCIO è coinvolto poiché socio, unitamente a VIZZINI Giovanni (la cui figlia è coniugata con RAPPA Vincenzo, che appartiene ad una famiglia, alcuni dei cui membri sono stati condannati per fatti di cui all’art. 416 bis c.p.) e MERCADANTE Tommaso (nipote di CANNELLA Tommaso e figlio di MERCADANTE Giovanni, entrambi condannati per fatti di cui all’art. 416 bis c.p.). La realizzazione dell’opera venne affidata all’imprenditore BASILOTTA, sebbene vi fosse l’intendimento di coinvolgere l’imprenditore INCARBONE (INCARBONE Mariano è imprenditore condannato con provvedimento definitivo quale partecipe alla famiglia SANTAPAOLA mentre l’imprenditore BASILOTTA Vincenzo è deceduto durante il processo d’appello a suo carico, che lo vedeva imputato per fatti di cui all’art. 416 bis c.p.). Peraltro, le intercettazioni eseguite nel contesto investigativo Iblis, confermano che l’affare era infiltrato da cosa nostra attraverso BASILOTTA il quale vi aveva lucrato € 600.000, consegnati a LOMBARDO Raffaele (già Presidente della Regione Siciliana ed imputato per fatti di cui agli artt. 110 - 416 bis c.p.) che si era interessato al progetto cui partecipava CIANCIO SANFILIPPO;

Parco Commerciale Sicily Outlet (realizzato): in tale vicenda CIANCIO SANFILIPPO emerge sia quale proprietario dei terreni su cui è sorta l’opera sia quale socio nella Dittaino Development. Parte dei lavori, inoltre, sono stati eseguiti da BASILOTTA e INCARBONE.

Progetto stella polare (non realizzato): si trattava di un progetto della Stella polare S.r.l. relativo all’area sud di Catania dove si intendeva creare un centro congressi, strutture per esposizione, acquari, parchi divertimenti, cinema, gallerie commerciali ed altro. CIANCIO SANFILIPPO, proprietario dei terreni, risulta aver avuto un ruolo attivo nella gestione della complessa vicenda imprenditoriale, avendo finanche seguito personalmente l’iter relativo al rilascio delle previste concessioni e fungendo, in tale ambito, da anello di congiunzione con la pubblica amministrazione in luogo dell’Amministratore Unico.

Le intercettazioni in atti, inoltre, consentono di ritenere certo che il general contractor scelto era INCARBONE Mariano, di cui si è detto:

Costruzione di un insediamento chiuso ad uso collettivo a favore della base di Sigonella (non realizzato): a differenza della vicenda sopra descritta, nella presente, CIANCIO SANFILIPPO, oltre ad essere proprietario dei terreni sui quali doveva sorgere l’opera era anche socio della Xirumi S.r.l., società che avrebbe dovuto realizzarla. Le intercettazioni in atti consentono, inoltre, di ritenere che la realizzazione delle opere doveva essere affidata a BASILOTTA Vincenzo;

Costruzione del polo commerciale denominato Mito (non realizzato): l’insediamento commerciale doveva sorgere nel comune di Misterbianco su terreni di proprietà di CIANCIO SANFILIPPO. L’iniziativa vedeva coinvolti tanto CIANCIO SANFILIPPO quanto altre persone risultate essere in rapporti con cosa nostra palermitana e messinese;

Il Tribunale, letti i documenti e ascoltate le argomentazioni del Pubblico Ministero e della Difesa, ha ritenuto che CIANCIO SANFILIPPO Mario sin dall’avvio della sua attività, primi anni ’70, e fino al 2013 abbia agito, imprenditorialmente, nell’interesse proprio e nell’interesse di cosa nostra e che in ragione di ciò il suo patrimonio si sia implementato illecitamente, giovandosi anche di finanziamenti occulti e che anche il predetto sodalizio mafioso si sia rafforzato grazie ai fortunati investimenti realizzati per il tramite del Ciancio.

L’età avanzata e il tempo risalente degli ultimi accertamenti (2013) hanno indotto il Tribunale a escludere l’attualità della pericolosità sociale, ma tale conclusione, per disposto di legge, non consente al soggetto ritenuto pericoloso di continuare a detenere il patrimonio acquisito in ragione delle illecite cointeressenze, sicché il Tribunale ne ha disposto la confisca.

Il provvedimento è stato eseguito ieri a cura dei Carabinieri del ROS e del Comando Provinciale di Catania.

Catania, 25 settembre 2018

Il Procuratore distrettuale della Repubblica Carmelo Zuccaro

BENI PATRIMONIALI COLPITI DAL PROVVEDIMENTO

CONFISCA:

saldi attivi dei conti bancari accesi presso la filiale Banca UBS di Lugano, aventi n. 0247-686683-01 e 0247-686683-02, contenenti somme di denaro, anche in divise estere, e portafoglio titoli, con un saldo pari a CHF 21.835.546 (corrispondenti a circa € 18.102.279) al 03.11.2014, e intestati alla Attenuata Familienstiftung con sede a Vaduz (Lichtenstein), il cui avente diritto economico è CIANCIO SANFILIPPO Mario;

della somma di € 4.999.990,00 depositata sul conto corrente n. 09000/1000/00000077161 acceso presso la banca Intesa San Paolo - Private Banking di Catania, intestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario.

SEQUESTRO E CONTESTUALE CONFISCA:

RAPPORTI BANCARI:

saldo attivo del conto bancario acceso presso la filiale di Chiasso della Credit Suisse n. 0172-92098-8, Rubrica Timone, con un saldo pari a CHF 29.962.539,00 (corrispondenti a circa € 24.839.783,78) al 24.10.2014, e intestato alla fiduciaria Weissdom Handelsanstalt con sede a Vaduz (Lichtenstein); il cui avente diritto economico è CIANCIO SANFILIPPO Mario;

saldo attivo della polizza Top Private Multimanager n. 16526105 sottoscritta presso Intesa San Paolo Life, intestata a CIANCIO SANFILIPPO Mario;

saldo attivo del contratto Blue Profits Multibrand 8 n. 40007467201 stipulato presso Intesa San Paolo Lifeintestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario;

saldo attivo della polizza n. 40058917903 Blue Profits Dollaro stipulata presso Intesa San Paolo Life intestata a CIANCIO SANFILIPPO Mario;

ATTIVITÀ D'IMPRESA:

100% delle azioni della Società Industriale Grafica Editoriale - SIGE s.p.a., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 00253630875 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle azioni della Domenico Sanfilippo Editore s.p.a., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 00431560879 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Società Agricola Turistica Etna Riviera - SATER s.r.l., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 00705210870 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Società Agricola Fiumara s.r.l., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 00687660878 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle azioni della CISA s.p.a., con sede a con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 01958910877 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle azioni della ETIS 2000 s.p.a., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 02363740875 e relativo patrimonio aziendale;

33,33% delle quote, intestate a CIANCIO SANFILIPPO Mario, della SIM Società Immobiliare Meridionale s.r.l., con sede a Tremestieri Etneo (CT) in via Carnazza n. 40, cod. fise. 02605050877;

44,94% delle azioni, intestate a CIANCIO SANFILIPPO Mario, della G.E.T. Generale Edilizia Turistica s.p.a., con sede a Catania, in via Luigi Rizzo n. 18, cod. fise. 00383750874;

100% delle quote della Messapia s.r.l., con sede a Roma, in piazza della Libertà n. 13, cod. fise. 80144410588 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Rete Sicilia s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 02648910871 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Sicilia Iniziative Speciali s.r.l. in liquidazione, con sede a Catania in via Giovan Battista Grassi n. 6, cod. fise. 02677510873 e relativo patrimonio aziendale;

50% delle quote, intestate a GUARNACCIA Valeria, a CIANCIO Angela, a CIANCIO Carla, a CIANCIO Rosa Emanuela e a CIANCIO Natalia, della Palma Rossa s.r.l., con sede a Catania in viale Kennedy n. 70, cod. fise. 02702440872;

100% delle quote della SIMAT - Siciliana Impianti Manutenzioni Televisivi s.r.l. in liquidazione, con sede a con sede a Catania in via Giovan Battista Grassi n. 17, cod. fise. 02856060872 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Simeto Docks s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 80026870875 e relativo patrimonio aziendale e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Ti.Me. s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 02926430873 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Iniziative Editoriali Siciliane s.r.l., con sede a con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 03133580872 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Lisa s.r.l., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 05847990156 e relativo patrimonio aziendale;

41% delle quote, intestate a CIANCIO SANFILIPPO Mario, della Parco Sant'Antonio s.r.l., con sede a Catania in via G. Carnazza n. 49, cod. fise. 00308240878;

100% delle quote della Azienda Agricola Rovittelli di Natalia CIANCIO e C. s.n.c., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 03203780873 e relativo patrimonio aziendale;

69,84% delle azioni, intestate a CIANCIO Angela, a CIANCIO Carla, a CIANCIO Rosa Emanuela, a CIANCIO Natalia e a CIANCIO SANFILIPPO Domenico, Messapia s.r.l., Iniziative Editoriali Siciliane s.r.l., della Società per Azioni Editrice del Sud - EDISUD s.p.a., con sede a Bari in via Scipione l'Africano n. 264, cod. fise. 02492480724;

100% delle quote della A45 s.r.l., con sede a con sede a Catania in via Giovan Battista Grassi n. 5, cod. fise. 02694910874 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Azienda Agricola S. Giuseppe La Rena s.r.l., con sede a Catania in via Pietro Novelli n. 42, cod. fise. 03334570870 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Aquila Immobiliare s.r.l., con sede a Palermo in via Siracusa n. 34, cod. fise. 03986340820 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Società Editoriale Meridionale S.E.M. s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 00121610877 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della La Sicilia Multimedia s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 03655570871 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Aci Sant'Antonio Sviluppo s.r.l., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 04092960873 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Gea Servizi s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 03706960873 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Telecolor International - T.C.I. s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 00523680874 e relativo patrimonio aziendale;

25% delle azioni, intestate a CIANCIO SANFILIPPO Mario, della Helios 2000 s.p.a., con sede a Catania in via Santa Maria di Betlem n. 18, cod. fise. 03701950879;

100% delle quote della Società Agricola Cardinale s.r.l., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 03847910878 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Spiaggia di Sole s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 03805980871 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Edizioni Radiofoniche Siciliane s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 02760520870 e relativo patrimonio aziendale;

55% delle quote, intestate a CIANCIO Angela, a CIANCIO Carla, a CIANCIO Rosa Emanuela, a CIANCIO Natalia e a CIANCIO SANFILIPPO Domenico, della Azienda Agricola San Giuseppe all'Arena società semplice, con sede a Catania in via San Francesco La Rena Fondo 7, cod. fise. 02534630872;

100% delle quote della Agenzia Siciliana Informazione s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 03979160870 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Cappellina di CIANCIO Natalia & C. s.n.c., con sede a Catania in via Pietra dell'Ova n. 51, cod. fise. 04227980879 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della PK SUD s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 05134880870 e relativo patrimonio aziendale;

100% delle quote della Publipiù s.r.l., con sede a Catania in viale Odorico da Pordenone n. 50, cod. fise. 05077990876 e relativo patrimonio aziendale;

100% della Azienda Agricola Serraci s.r.l, cod. fise. 04746250879.

BENI IMMOBILI:

immobile sito nel Comune di Augusta (SR), Contrada Areile, consistente in una villa con annesso terreno di pertinenza, identificato in catasto al foglio 19, particelle 123 e 125, intestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario (usufruttuario) ed a GUARNACCIA Valeria (nuda proprietaria);

immobile sito nel Comune di Augusta (SR), frazione Brucoli, consistente in un tratto di terreno facente parte del condominio denominato Baia Arcile, identificato in catasto al foglio 19, particelle, 695 e 696, intestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario (usufruttuario) ed a GUARNACCIA Valeria (nuda proprietaria);

immobile sito nel Comune di Catania, località Bicocca, consistente in un tratto di terreno con fabbricati rurali e relativa corte, identificato in catasto al foglio 40, particelle 6, 7, 9, 10, 11, 12, 235, 651, intestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario;

immobile sito nel Comune di Catania, contrada Bicocca consistente in un terreno e un pozzo, identificato in catasto al foglio 40, particelle 313, 315; per il corrispettivo di € 195.000, intestato a CIANCIO SANFILIPPO Mario;

quota pari a 2/9 del diritto di proprietà su un'unità immobiliare facente parte di un fabbricato sito in Catania, Viale XX Settembre, 70, identificato in catasto al foglio 69, particella 15472, subalterno 9, piano T/l, intestato a GUARNACCIA Valeria."

Mafia, sequestrati 150 milioni all’editore Ciancio Sanfilippo: anche i quotidiani La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. Il sequestro finalizzato alla confisca ordinato dal tribunale di Catania nei confronti dell'editore Mario Ciancio Sanfilippo fa tremare il mondo del giornalismo nel Mezzogiorno: sigilli anche alle tv Antenna Sicilia e Telecolor. Dopo un lunghissimo iter giudiziario, il potente imprenditore di Catania è finito a giudizio per concorso esterno nel 2017: è attualmente imputato. La replica: "Mio patrimonio frutto soltanto del mio lavoro". Fava: "Affidare la testata ai giornalisti", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 24 settembre 2018. Due tra i principali quotidiani del Sud Italia. Ma anche le principali televisioni siciliane. Il sequestro finalizzato alla confisca ordinato dal tribunale di Catania nei confronti dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo fa tremare il mondo del giornalismo nel Mezzogiorno. Perché a essere sequestrato è La Sicilia, il giornale di Catania molto letto anche nel resto della Sicilia. E poi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari. Sigilli anche a due emittenti televisive: Antenna Sicilia e Telecolor. In totale il provvedimento eseguito dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania ha un valore di 150 milioni di euro. In serata l’87enne Ciancio ha fatto sapere di essersi dimesso dalla carica di direttore responsabile de La Sicilia mentre il figlio Domenico ha lasciato l’incarico di condirettore. L’assemblea dei soci della Domenico Sanfilippo editori ha nominato nuovo direttore Antonelo Piraneo, attuale caporedattore del quotidiano.

Ciancio: “Mio patrimonio frutto di lavoro” – A chiedere il sequestro è stata la Direzione distrettuale antimafia che ha messo i sigilli a conti correnti, polizze assicurative, 31 società, quote di partecipazione in altre sette società e beni immobili. E poi alla società Etis, che stampa quotidiani siciliani e nazionali, e la Simeto Docks, concessionaria di pubblicità e affissioni. Il sequestro è un procedimento che si sviluppa parallelamente al processo penale: Ciancio, infatti, è attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra. “Nell’ambito del procedimento di prevenzione a mio carico ritenevo di avere dimostrato, attraverso i miei tecnici e i miei avvocati, che non ho mai avuto alcun tipo di rapporto con ambienti mafiosi e che il mio patrimonio è frutto soltanto del lavoro di chi mi ha preceduto e di chi ha collaborato con me. Ritengo che le motivazioni addotte dal Tribunale siano facilmente superabili da argomenti importanti di segno diametralmente opposto, di cui il collegio non ha tenuto conto”, è il commento dell’editore catanese. “I miei avvocati – aggiunge – sono già al lavoro per predisporre l’impugnazione in Corte di Appello. Sono certo che questa vicenda per me tristissima si concluderà con la dovuta affermazione della mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati, come dimostra la mia storia personale, la mia pazienza e la mia ormai lunga vita nella città di Catania”.

La storia dell’inchiesta: 10 anni di indagini – Lunga e tormentata la storia giudiziaria dell’imprenditore, rinviato a giudizio arrivato nel 2017 dopo un lunghissimo iter giudiziario. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015.  Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.

I 52 milioni trovati in Svizzera – Già nel 2015 nell’avviso di conclusione delle indagini la procura annotava di aver trovato cinquantadue milioni di euro depositati in Svizzera e non dichiarati in occasione dei precedenti scudi fiscali. “In quelli per i quali sono state sin qui ottenute le necessarie informazioni – spiegavano i pm – sono risultate depositate ingenti somme di denaro, 52.695.031 euro che non erano state dichiarate in occasione di precedenti scudi fiscali”. Davanti ai pm, Ciancio aveva provato a giustificare l’origine di quelle somme, ma la sua auto difesa non aveva convinto gli inquirenti, che anzi specificano come “la successiva indicazione da parte dell’indagato della provenienza delle somme, non documentata, abbia trovato smentita negli accertamenti condotti”. In pratica il principale editore del Sud Italia non è riuscito a giustificare la provenienza del tesoretto inviato Oltralpe. Già una prima richiesta di sequestro da parte della procura era stata respinta. Questa volta, invece, è arrivato il via libera.

Fava: “Affidare la testata ai giornalisti” – “Il sequestro del quotidiano La Sicilia nei confronti di Mario Ciancio deve diventare l’occasione per ribaltare la storia opaca di quel giornale e della sua direzione. Se vi sarà confisca, si affidi la testata ai giornalisti siciliani che in questi anni hanno cercato e raccontato le verità sulle collusioni e le protezioni del potere mafioso al prezzo della propria emarginazione professionale, del rischio, della solitudine”, commenta Claudio Fava, presidente della commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana. “Togliere oggi – aggiunge – non basta: occorre restituire ai siciliani il diritto a un’informazione libera, autonoma, coraggiosa. Lo pretende anche il rispetto dovuto agli otto colleghi uccisi dalla mafia e dai suoi innominabili protettori per aver difeso quel diritto contro ogni conformismo”.

Catania, la procura sequestra il sistema Ciancio. Intorno chi dovrebbe parlare, tace, scrive il 25 settembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano" Domenico Valter Rizzo, Giornalista e scrittore. La magistratura catanese ha disposto il sequestro, per la prima volta nella storia, di un quotidiano – La Sicilia di Catania – il cui editore/direttore, Mario Ciancio Sanfilippo è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Non è mai accaduto prima in Italia e nel mondo che un giornale venisse confiscato perché il suo padrone e (ormai ex) direttore è accusato non solo di avervi investito soldi di provenienza illecita, ma di averlo usato per favorire gli interessi di Cosa Nostra. Un’accusa che moralmente e professionalmente si allarga da Mario Ciancio a chi, sotto la sua direzione, ha avallato una linea editoriale fatta di silenzi, mistificazioni, di distinguo e di palesi omissioni. Lo hanno fatto vice direttori (tranne Nino Milazzo che venne cacciato), i capocronista, e molti giornalisti che hanno scritto pezzi, fatto titoli, tagliato e cucito con cura certosina un giornalismo compatibile con gli interessi di Cosa nostra al punto che una piccola sbavatura, una frase buttata lì da uno sprovveduto giovane cronista aveva fatto sentire in diritto il boss Pippo Ercolano di andare a fare una piazzata in redazione pretendendo e ottenendo che Ciancio in sua presenza facesse una lavata di capo al giovanotto. La vicenda di Ciancio racconta un “sistema”, nel quale una mafia modernissima come quella catanese si mostra attentissima al potere dell’informazione e lo usa per negare se stessa. La penna più in vista di quel giornale per anni è stato Tony Zermo, un personaggio che ha avuto la spudoratezza di dire, seduto sul banco dei testimoni nel processo in morte di Giuseppe Fava, che a Catania non c’era la mafia, ma solo “quattro rubagalline”. Sembra una barzelletta, ma è accaduto davvero. Chi non cantava in quel coro veniva spazzato via, come è accaduto a sei già giornalisti di Telecolor che Ciancio ha cacciato via dopo aver comprato l’emittente. I magistrati sequestrano tutto il patrimonio aggredibile, 150 milioni. Ma Catania sembra assorbire il colpo senza scomporsi. Silenzi imbarazzati da chi con Ciancio si è seduto amabilmente a fare affari, a mediare appoggi, ad elargire favori. Dal suo studio sono passati tutti i politici, con rarissime eccezioni. Molti di loro avrebbero il dovere di parlare, ma tacciono. L’Ordine dei Giornalisti, nonostante il processo per mafia, tiene ancora Ciancio tra i suoi iscritti. La Confindustria “della legalità” accoglie le sue aziende. L’imbarazzo del notabilato cittadino anche di fronte alle macerie ci racconta la miseria di un corpo sociale decomposto, di interessi ed intrecci che le sentenze non mutano. La vocazione a servire che si ripete anche se il padrone è morto, anche se quel mondo non esiste più, se ne continua ad osservarne i rituali. Uno spettacolo miserrimo che è assolutamente trasversale come lo è stato il potere di Mario Ciancio. Non si è udita, al momento in cui scrivo, la voce del sindaco della città Salvo Pogliese o del Presidente della Regione Nello Musumeci; tace l’ex sindaco Enzo Bianco. Muto il Pd e privo di voce il M5S e la destra più o meno estrema. Tacciono le associazioni antimafia e della cosiddetta “società civile”. Unico a parlare ancora una volta Claudio Fava che presiede la commissione regionale antimafia. Un quadro che lascia ben poche speranze.

Ciancio, il necrologio rifiutato alla famiglia del commissario Montana. Il Ros dei carabinieri immortala un episodio: quello del rifiuto del necrologio alla famiglia del commissario ucciso dalla mafia su La Sicilia, scrive Mattia Gangi il 26 settembre 2018 su Catania Today. Un'indagine "complicatissima", come hanno spiegato ieri gli investigatori che si sono occupati di 'scavare' in più di 40 anni di materiali per ricostruire gli assetti patrimoniali di Mario Ciancio e l'utilizzo che l'editore avrebbe fatto dei mezzi di comunicazione a sua disposizione. Una 'linea editoriale' che, come ha spiegato il procuratore Carmelo Zuccaro, sarebbe stata improntata a mettere in "sordina gli affari del clan egemone, quello dei Santapaola-Ercolano". Articoli modificati, strane 'ingerenze' del boss Pippo Ercolano all'interno del quotidiano catanese - la procura ha ricostruito il noto episodio della 'strigliata' al giornalista Concetto Mannisi, reo di aver definito Ercolano come "noto esponente della famiglia sospettata di mafia" e per questo convocato negli uffici del direttore Ciancio - ma anche rifiuti. Come quello in occasione della pubblicazione del necrologio del trigesimo della morte del commissario Beppe Montana, freddato da alcuni colpi di pistola mafiosi nel 1985. Il funzionario faceva parte della squadra mobile di Palermo, afferente alla questura definita successivamente da Giovanni Falcone "un covo di talpe". Come è possibile vedere dalle immagini dei carabinieri, all'interno di una nota si legge che il testo inviato è stato "respinto". Nel necrologio la famiglia scriveva, "con rabbioso rimpianto ricordiamo alla collettività il sacrificio di Beppe Montana, commissario P.S., rinnovando ogni disprezzo alla mafia ed ai suoi anonimi sostenitori". Il testo non venne mai pubblicato. Nell'aver accettato la richiesta della Procura, all'interno del provvedimento che ha disposto il sequestro e la confisca di una parte dei beni riferibili a Mario Ciancio Sanfilippo, il Tribunale per le misure di prevenzione scriveva che: "La linea editoriale imposta dal Ciancio alla testata giornalistica è improntata alla finalità di mantenere nell’ombra i rapporti tra la famiglia mafiosa (dei Santapaola n.d.r.) e le imprese controllate dalla medesima; di non porre all’attenzione dell’opinione pubblica gli esponenti mafiosi non ancora coinvolti dalle indagini giudiziarie e soprattutto l’ampia rete di connivenze e collusioni sulle quali il sodalizio poteva contare per mantenere la propria influenza nella provincia catanese".

Sequestro Ciancio, il procuratore Cafiero de Raho: “Le mafie investono nell’editoria per indirizzare l’informazione”. "A mia memoria, gli editori non hanno mai costituito oggetto specifico di indagini, ma a volte il silenzio dei giornalisti spinge ad interrogarsi", dice il procuratore nazionale antimafia commentando il sequestro da 150 milioni. Sigilli al quotidiano La Sicilia di Catania, ad azioni della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari, e a due emittenti televisive, Antenna Sicilia e Telecolor, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 25 settembre 2018. “Investire nell’editoria, per le mafie, significa indirizzare l’informazione. Intervenire è fondamentale, perché la stampa possa continuare ad essere libera”. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, commenta in un’intervista al Sole 24 Ore il sequestro ordinato dal tribunale di Catania che ieri ha messo i sigilli a 150 milioni di beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Sotto sequestro è finito il quotidiano La Sicilia di Catania, azioni della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari, due emittenti televisive, Antenna Sicilia e Telecolor. E poi alla società Etis, che stampa quotidiani siciliani e nazionali, e la Simeto Docks, concessionaria di pubblicità e affissioni, conti correnti, polizze assicurative, 31 società, quote di partecipazione in altre sette società e beni immobili. Un’operazione che per il numero uno di via Giulia ha aperto “un nuovo corso, per approfondire sacche di sospetti”. “A mia memoria, gli editori non hanno mai costituito oggetto specifico di indagini, ma a volte il silenzio dei giornalisti spinge ad interrogarsi”, dice Cafiero de Raho. “Qui sono stati sequestrati beni, strumentali anche a determinate attività connesse con la stampa. Molti affermano che non interessa parlare di mafia. Forse, invece, se non se ne parla non è perché il cittadino non è interessato, ma ci sono altre spinte”. Cioè? “Le mafie si proiettano nei settori in cui riescono a trovare maggiore consenso. E la stampa fa particolarmente gola”, dice il procuratore che è favorevole alla proposta, avanzata dal presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, di affidare le testate, in caso di confisca, ai giornalisti siciliani che hanno cercato di raccontare le collusioni mafiose. “Va nella direzione auspicabile: assegnare l’impresa sequestrata a cooperative di lavoratori, giornalisti liberi che possano lavorare in modo libero”. Ieri in serata l’87enne Ciancio ha fatto sapere di essersi dimesso dalla carica di direttore responsabile mentre il figlio Domenico ha lasciato l’incarico di condirettore. L’assemblea dei soci della Domenico Sanfilippo editori ha nominato nuovo direttore Antonello Piraneo, attuale caporedattore del quotidiano. “Ribadiamo la nostra fiducia nell’operato della magistratura. Noi giornalisti continueremo a fare – come sempre – il nostro lavoro a testa alta, con dignità e onestà intellettuale, pur gravati da ieri di un maggiore carico di preoccupazione legittima per la conservazione dei nostri posti di lavoro. Ribadiamo altresì che il quotidiano La Sicilia è sempre stato dei giornalisti. Non consentiamo quindi ad alcuno di speculare sulla nostra professionalità che, come sempre, continueremo ad assicurare in nome di una indipendenza e di una libertà di stampa che non sono mai venute meno e che sono garanzia di democrazia per chi scrive e per chi legge”, hanno scritto in una nota i lavoratori del quotidiano catanese. Che ringraziano Ciancio, attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra. “Al direttore Mario Ciancio Sanfilippo, che nei decenni ha portato avanti questa testata con orgoglio, con passione e, soprattutto, con grande umanità, va il nostro affettuoso ringraziamento, certi che sarà in grado di chiarire la sua posizione giudiziaria. Al nuovo direttore Antonello Piraneo, sicuri che continuerà a garantire la libertà di espressione, assicuriamo il nostro pieno sostegno. Ai lettori garantiamo che, anche in un momento così difficile, non verrà meno il nostro impegno per una corretta e libera informazione”. Il sequestro è un procedimento che si sviluppa parallelamente al processo penale: Ciancio, infatti, è attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra.  Lunga e tormentata la storia giudiziaria dell’imprenditore, rinviato a giudizio arrivato nel 2017 dopo un lunghissimo iter giudiziario. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015.  Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.

Ciancio Sanfilippo, le parole della Procura. Solidarietà della politica pugliese alla Gazzetta. Le parole del legale di Ciancio: «Vicino ai mafiosi solo per tribunale». La solidarietà della politica, Emiliano: «Giornale pilastro della libertà di stampa, tuteleremo testata e lavoratori». Fitto: «Serve una soluzione rapida», scrive il 25 Settembre 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Il Giudice ha accertato la pericolosità sociale qualificata da parte di Mario Ciancio Sanfilippo fondata sulla verifica del fatto che vi é stato un apporto costante e di rilievo nei confronti di Cosa nostra». Lo ha detto il Procuratore a Catania Carmelo Zuccaro incontrando la stampa in merito al sequestro dei beni per almeno 150 milioni di euro dell’imprenditore e editore, Mario Ciancio Sanfilippo. La dda catanese sostiene che Sanfilippo abbia imposto «la linea editoriale della testata giornalistica con più lettori in Sicilia Orientale, improntata alla finalità di mantenere nell’ombra i rapporti tra la famiglia mafiosa e le imprese direttamente o per interposta persona controllate dalla medesima». 

LE PAROLE DEL PROCURATORE ZUCCARO - «Il Tribunale, letti i documenti e ascoltate le argomentazioni del pm e della difesa, ha ritenuto che Mario Ciancio Sanfilippo sin dall’avvio della sua attività, nei primi anni '70, e fino al 2013 abbia agito, imprenditorialmente, nell’interesse proprio e nell’interesse di Cosa nostra e che in ragione di ciò il suo patrimonio si sia implementato illecitamente, giovandosi anche di finanziamenti occulti e che anche il predetto sodalizio mafioso si sia rafforzato grazie ai fortunati investimenti realizzati per il tramite del Ciancio. L'età avanzata e il tempo risalente degli ultimi accertamenti (2013) hanno indotto il Tribunale a escludere l’attualità della pericolosità sociale, ma tale conclusione, per disposto di legge, non consente al soggetto ritenuto pericoloso di continuare a detenere il patrimonio acquisito in ragione delle illecite cointeressenze, sicché il Tribunale ne ha disposto la confisca».

I 5 PROGETTI INCRIMINATI - Sono cinque le vicende imprenditoriali nelle quali i giudici di Catania hanno individuato l’esistenza di rapporti tra l’editore Mario Ciancio Sanfilippo e ambienti di mafia, dice la Dda catanese. Il caso più rilevante è quello del centro commerciale Porte di Catania, un complesso che ospita 150 negozi.  Nell’affare della costruzione del centro Ciancio era socio, sostengono i giudici, di Giovanni Vizzini e Tommaso Mercadante, vicini a personaggi coinvolti in vicende di mafia. La realizzazione dell’opera venne poi affidata all’imprenditore Vincenzo Basilotta anche se vi era l’intenzione di coinvolgere Mariano Incarbone. Sia Basilotta che Incarbone sono indicati come vicini a Cosa nostra. Basilotta è morto mentre veniva giudicato per associazione mafiosa, Incarbone sarebbe legato al clan Santapola. Da intercettazioni emerge che «l'affare era infiltrato da Cosa nostra» e che Basilotta aveva «lucrato 600mila euro». Li aveva poi consegnati all’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo: sarebbe stato il compenso dell’interessamento di Lombardo al progetto al quale partecipava Mario Ciancio. Tra gli altri affari imprenditoriali contestati all’editore, c'è anche il parco commerciale Sicily outlet di Dittaino, in provincia di Enna. Oltre a essere proprietario dei terreni, Ciancio era socio della Dittaino Development che avrebbe affidato parte dei lavori a Basilotta e Incarobone. Nel provvedimento dei giudici si fa riferimento ancora a tre progetti non realizzati: Stella polare; un insediamento residenziale a supporto della base di Sigonella; la costruzione del polo commerciale Mito. In tutti e tre i casi Ciancio era proprietari dei terreni. A Stella polare era interessato Incarbone come general contractor. Le residenze di Sigonella dovevano essere costruite da Basilotta. Al polo Mito con Ciancio erano interessate «altre persone in rapporti con Cosa nostra palermitana e messinese».

IL PARERE DEL LEGALE DI CIANCIO - «Mario Ciancio è vicino ai mafiosi per decreto del Tribunale. Non perché lo abbiano percepito i cittadini di Catania che lo hanno avuto accanto per tutta la vita, non perché abbia commesso fatti eclatanti noti alla opinione pubblica, non perché abbia avuto frequentazioni poco chiare, ma per decreto. Un decreto che ha raccolto un mosaico variegato di sospetti e li ha fatti diventare il presupposto di un giudizio di pericolosità sociale. Quella persona che per tanti anni è stata al centro della società catanese, oggi è additata come persona che addirittura avrebbe riciclato il danaro della mafia. Editore di un giornale asservito alla mafia, i cui giornalisti sarebbero stati privi della libertà di pensiero». Lo dice in una lunghissima nota l'avvocato Carmelo Peluso uno dei difensori dell’imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo. La nota ripercorre alcuni passaggi della vita imprenditoriale dell’editore catanese, gli inizi, l'espansione degli interessi in agricoltura e nell’editoria e ricorda episodi come quando «il principe Carlo d’Inghilterra, con la moglie Diana, nell’anno 1984, decidono di visitare la Sicilia» e sono ospiti di Ciancio. «Una ospitalità passata, inevitabilmente - dice il legale - attraverso il filtro delle indagini del prefetto di Catania Verga - poi nominato Commissario antimafia - nonché dei servizi segreti di sua Maestà britannica per verificare il rigore morale e la trasparenza assoluta della famiglia che avrebbe accolto Carlo e Diana in Sicilia». «E' bene sapere che il procedimento di prevenzione antimafia si fonda sul mero sospetto e non sulla prova rigorosa della responsabilità, che è l’unica che può dar luogo ad una sentenza di condanna - spiega Peluso - Il Tribunale della prevenzione emette un giudizio sulla pericolosità sociale di un soggetto in funzione del sospetto di una sua 'appartenenza' a sodalizi mafiosi. Ciò basta per rendere inquietante questo giudizio, che deve essere condotto con grande equilibrio, proprio per non indulgere al sospetto privo del requisito di 'concretezza' che la legge impone». «Il solo auspicio è che il Giudice di appello abbia la serenità di valutare correttamente il materiale proposto dall’Accusa», spiega Carmelo Peluso. «Infinitamente difficile è fornire la prova di tutti gli investimenti effettuati in quarant'anni di vita dal Ciancio, essendo impossibile reperire presso le Banche documenti risalenti ad oltre un decennio - sottolinea - La Difesa ha ricostruito quanto possibile, con attenzione e dovizia di particolari, dovendo arrendersi solo davanti all’assenza di dati ultraquarantennali. Oggi, però, fa male leggere nel decreto del Tribunale che Ciancio nei primi anni Settanta avrebbe riciclato due miliardi e mezzo di lire provento di attività mafiose, solo perché è difficilissimo reperire la documentazione relativa alla provenienza di quel danaro. Che era danaro della famiglia ricca, di cui si è detto». «Pensiamo, però - prosegue - alla assurdità dell’accusa fiondata sul solo sospetto senza prova, un giudizio senza processo. Se è vero che storicamente la mafia divenne imprenditrice solo alla fine degli anni Ottanta, quale mafioso avrebbe accumulato quella fortuna negli anni Settanta? E con quali attività? Anche la fonte illecita quindi è stata individuata solo per la intuizione del Giudice, che si fonda sul sospetto e no sulla prova. Due miliardi e mezzo ricavati dalla mafia (quale mafia?) da attività illecite (quali attività?) e consegnate a Ciancio (perché a Ciancio e non ad altri Cavalieri più titolati di lui per vicinanza ad ambienti mafiosi?). Due miliardi e mezzo in un tempo il cui la benzina costava cento lire al litro e un impiegato guadagnava 250.000 lire al mese. Viene voglia di definire il sospetto del Tribunale un incredibile falso storico. Nonostante tutto, però, noi crediamo nel Giudice di appello». 

LA SITUAZIONE DELLA "GAZZETTA" - «Piena fiducia per l’operato della magistratura e una forte preoccupazione per i riflessi che nell’immediato potrebbero toccare la Gazzetta del Mezzogiorno e tutti coloro che contribuiscono quotidianamente all’uscita del giornale» vengono espressi in un documento comune da Slc/Cgil, Fistel/Cisl, Uilcom/Uil in merito all’inchiesta che ha coinvolto l'editore Mario Ciancio Sanfilippo e «prodotto riflessi sulle molteplici attività nelle quali era impegnato». «Da anni - si legge nella nota - persiste una situazione di difficoltà che attanaglia il giornale e in questa particolare fase vi è un tavolo sindacale aperto per il rinnovo degli ammortizzatori sociali. L’avvenuto fatto di cronaca genera delle difficoltà che potrebbero rimbalzare in maniera ostativa sul tavolo del confronto in quanto, nel momento in cui scriviamo, non ci è dato di sapere se l’attuale Direzione Aziendale è legittimata a sottoscrivere accordi con i rappresentanti dei Lavoratori, ovvero bisognerà attendere un incontro con i Commissari Giudiziari». «Ciò detto - prosegue la nota - risulta del tutto evidente che il sindacato aderirà ad ogni percorso finalizzato alla messa in sicurezza di tutti i lavoratori e valuterà come proseguire la trattativa e soprattutto con chi». Insieme con la Rsu, i sindacati «confermano il proprio impegno a difesa di uno dei pilastri portanti della informazione, non solo nel nostro territorio, e si adopereranno sia con una richiesta formale ai Commissari Giudiziari, sia con il coinvolgimento di tutte le forze sane presenti in Puglia, ivi compresa Area Metropolitana e Regione. Tutti a insieme con l’obiettivo di difendere il perimetro occupazionale e la tenuta del giornale». Solidarietà a tutti i lavoratori e giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno dopo le notizie sui sequestri delle quote di maggioranza del giornale dell’editore Ciancio Sanfilippo viene espressa unanimemente dal mondo politico pugliese. Per Fratelli d’Italia il deputato Marcello Gemmato, coordinatore regionale, e il consigliere regionale Saverio Congedo, auspicano «che le vicende ultime non pregiudichino la pubblicazione ed i livelli occupazionali dell’importante quotidiano pugliese da sempre punto di riferimento del giornalismo per la Puglia e megafono dei territori». Il coordinatore di Puglia Popolare, Massimo Cassano, auspica tempi rapidi per l’inchiesta in modo che la Gazzetta possa "continuare a svolgere il proprio compito a favore della libera informazione con tempi certi sulla propria amministrazione». La giustizia faccia il suo corso - afferma - ma lo faccia con celerità e rispetto per chi è al di sopra di ogni sospetto, restituendo alla Redazione del giornale la serenità per andare avanti». Per il vicepresidente del Consiglio Regionale, Giuseppe Longo, è un dovere «per le Istituzioni di una Puglia che voglia dirsi moderna, difendere con le unghie e senza remore, le migliaia di copie che quotidianamente ci consegnano il direttore De Tomaso, i giornalisti e i poligrafici della Gazzetta del Mezzogiorno. Il mondo dell’Editoria, è stato tra i più colpiti dalla crisi che si è abbattuta negli ultimi anni sulla nostra economia. La Gazzetta deve restare baluardo della verità e sostegno a quella nuova ed essenziale visione di modernità. Chi sta svolgendo le giuste indagini giudiziarie non può non tenerne conto». Per il gruppo regionale di Direzione Italia/Noi con l’Italia (Ignazio Zullo, Francesco Ventola, Luigi Manca e Renato Perrini), «La Gazzetta del Mezzogiorno è un patrimonio giornalistico-imprenditoriale-culturale che appartiene a tutti i pugliesi! Una delle più prestigiose e antiche testate del Mezzogiorno si ritrova in queste ore coinvolta in un sequestro a causa di un’inchiesta penale che riguarda il suo editore siciliano. Tutto questo non può e non deve inquinare il lavoro dei giornalisti. Auspichiamo che la giustizia faccia subito il suo corso e chiarezza, ma soprattutto che il futuro imprenditoriale possa essere coniugato in lingua pugliese». Anche i consiglieri regionali del Gruppo Pd esprimono "vicinanza e solidarietà ai lavoratori e ai giornalisti de «La Gazzetta del Mezzogiorno», e auspicano che «la situazione possa essere chiarita al più presto nelle competenti sedi», ricordando "che La Gazzetta è un pezzo importante della storia della nostra regione». Auspicano, «pertanto, che la situazione possa evolvere in maniera positiva sia per i lavoratori che per l’informazione in Puglia». Per il capogruppo regionale di Fi, Nino Marmo: «Per un giornale storico del nostro territorio - ha detto - sentiamo di dover interpellare Bari: dal capoluogo emerga una classe imprenditoriale in grado di prendere le redini del quotidiano e restituire ai dipendenti la necessaria serenità. Con questo auspicio, esprimiamo la nostra più sincera solidarietà nella certezza di interpretare il sentimento di tutto il Consiglio regionale». Anche il gruppo «la Puglia con Emiliano» con il presidente Paolo Pellegrino ha espresso «solidarietà ai lavoratori auspicando rapida soluzione» della vicenda.

FITTO: «SOLUZIONE RAPIDA» - «La Gazzetta del Mezzogiorno non è solo un quotidiano da leggere, è un patrimonio giornalistico, storico, culturale. Per questo le notizie giudiziarie che giungono da Catania e che coinvolgono l’editore, ci preoccupano ed auspichiamo una soluzione rapida a prescindere dalla vicenda penale. Vicinanza e solidarietà a nome mio e di tutto il partito al direttore, ai giornalisti ed a tutti i dipendenti». Lo afferma in una nota il leader di Noi con L’Italia, Raffaele Fitto.

EMILIANO: «GAZZETTA PILASTRO DEMOCRAZIA» - La Gazzetta del Mezzogiorno é un pilastro della democrazia e della libertà di stampa della Regione Puglia del quale il nostro territorio non può fare a meno. Esprimo dunque a nome della intera comunità pugliese la solidarietà più sincera nei confronti dei giornalisti e delle maestranze per il momento di sofferenza incolpevole che stanno vivendo. Faremo ogni sforzo per tutelare la testata e i lavoratori» Lo dichiara il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano.

Avvocato Carmelo Peluso: “Oggi, per decreto, Mario Ciancio è diventato mafioso”, scrive Sicilia Informazioni il 25 settembre 2018. Tutti quelli che guardate questa vicenda, bisogna stare attenti: il processo di prevenzione non è un processo, è un processo che si fonda sul sospetto. E oggi per decreto il signor Mario Ciancio diventato un mafioso…”. Così l’avvocato Carmelo Peluso, legale dell’imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo. E allora come controbattere alle tre verità della procura, illustrate oggi in conferenza stampa: “Si controbatte – spiega Peluso – con la linea difensiva che abbiamo mantenuto fin dall’inizio di questa vicenda, tenendo presente che siamo davanti a una sentenza che si fonda esclusivamente sulle argomentazioni del Pubblico Ministero e senza alcuna utilizzazione di prova perchè le prove sono riservate al dibattimento”. “Rapporti personali di Ciancio con i mafiosi? Il dottor Ciancio – sottolinea l’avvocato Peluso – non ha mai avuto rapporti personali diretti con alcun soggetto mafioso, lo posso dire avendo letto il processo e avendo visto esattamente tutto quello che è l’incarto processuale. Sono sospetti che nascono esclusivamente da dichiarazioni molto vaghe rese da alcuni collaboratori di giustizia che sono stati individuati come soggetti assolutamente credibili senza alcun vaglio dibattimentale”. “La linea editoriale del giornale la Sicilia? Ci tengo a dire – aggiunge – che io in questo giornale ho incontrato sempre giornalisti liberi, assolutamente indipendenti e mai condizionati dal direttore. Credo che costoro abbiano lavorato liberamente e in maniera indipendente: pensavo di avere provato nel processo quante volte è stata pubblicata la parola mafia in 40 anni di attività del giornale, quante volte sono state pubblicate notizie riguardanti soggetti mafiosi coinvolti e arrestati mai sottratti, alla notizia. Abbiamo portato decine di prima pagina del giornale La Sicilia stampate in maniera adeguata in modo che si possa verificare anche documentalmente quello che abbiamo detto soltanto a parole. In ultimo il rapporto imprenditoriale: abbiamo dimostrato, documenti alla mano, utilizzando anche le indagini effettuate dai Ros dei carabinieri che mai nelle attività imprenditoriali individuate dalla procura come argomenti contro Ciancio, c’è stato un momento in cui Ciancio ha delegato alla mafia interessi o attività commerciali e credo che questo sia un dato documentale nel processo, che poi questi dati possono essere stravolti e in qualche maniera utilizzati con la logica del sospetto, purtroppo è la logica del bisogno di prevenzione ma il processo di prevenzione non è un processo, è un processo che si fonda sul sospetto”. Basteranno dieci giorni per scrivere l’appello, “non sono pochi – aggiunge l’avvocato Peluso -, ma la difesa di Ciancio e’ fortissima, abbiamo argomenti validi, abbiamo un supporto documentale tecnico importante ci impegneremo in 10 giorni a redigere un atto di impugnazione che sia degno di questo nome”. (ITALPRESS).

Il legale di Mario Ciancio: «Procedimento che si fonda sul mero sospetto e non sulla prova», scrive il 25/09/2018 La Sicilia. L'avvocato Carmelo Peluso: «Ci auguriamo che il Giudice di appello abbia la serenità di valutare correttamente». «Mario Ciancio è vicino ai mafiosi per decreto del Tribunale. Non perché lo abbiano percepito i cittadini di Catania che lo hanno avuto accanto per tutta la vita, non perché abbia commesso fatti eclatanti noti alla opinione pubblica, non perché abbia avuto frequentazioni poco chiare, ma per decreto. Un decreto che ha raccolto un mosaico variegato di sospetti e li ha fatti diventare il presupposto di un giudizio di pericolosità sociale. Quella persona che per tanti anni è stata al centro della società catanese, oggi è additata come persona che addirittura avrebbe riciclato il danaro della mafia. Editore di un giornale asservito alla mafia, i cui giornalisti sarebbero stati privi della libertà di pensiero». Lo dice in una lunghissima nota l'avvocato Carmelo Peluso uno dei difensori dell’imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo. La nota ripercorre alcuni passaggi della vita imprenditoriale dell’editore catanese, gli inizi, l'espansione degli interessi in agricoltura e nell’editoria e ricorda episodi come quando «il principe Carlo d’Inghilterra, con la moglie Diana, nell’anno 1984, decidono di visitare la Sicilia» e sono ospiti di Ciancio. «Una ospitalità passata, inevitabilmente - dice il legale - attraverso il filtro delle indagini del prefetto di Catania Verga - poi nominato Commissario antimafia - nonché dei servizi segreti di sua Maestà britannica per verificare il rigore morale e la trasparenza assoluta della famiglia che avrebbe accolto Carlo e Diana in Sicilia». «E' bene sapere che il procedimento di prevenzione antimafia si fonda sul mero sospetto e non sulla prova rigorosa della responsabilità, che è l’unica che può dar luogo ad una sentenza di condanna - spiega Peluso - Il Tribunale della prevenzione emette un giudizio sulla pericolosità sociale di un soggetto in funzione del sospetto di una sua "appartenenza" a sodalizi mafiosi. Ciò basta per rendere inquietante questo giudizio, che deve essere condotto con grande equilibrio, proprio per non indulgere al sospetto privo del requisito di "concretezza" che la legge impone». «Il solo auspicio è che il Giudice di appello abbia la serenità di valutare correttamente il materiale proposto dall’Accusa», continua l'avvocato Peluso. «Infinitamente difficile è fornire la prova di tutti gli investimenti effettuati in quarant'anni di vita dal Ciancio, essendo impossibile reperire presso le Banche documenti risalenti ad oltre un decennio - scrive Peluso - La Difesa ha ricostruito quanto possibile, con attenzione e dovizia di particolari, dovendo arrendersi solo davanti all’assenza di dati ultraquarantennali. Oggi, però, fa male leggere nel decreto del Tribunale che Ciancio nei primi anni Settanta avrebbe riciclato due miliardi e mezzo di lire provento di attività mafiose, solo perché è difficilissimo reperire la documentazione relativa alla provenienza di quel danaro. Che era danaro della famiglia ricca, di cui si è detto». «Pensiamo, però - prosegue - alla assurdità dell’accusa fiondata sul solo sospetto senza prova, un giudizio senza processo. Se è vero che storicamente la mafia divenne imprenditrice solo alla fine degli anni Ottanta, quale mafioso avrebbe accumulato quella fortuna negli anni Settanta? E con quali attività? Anche la fonte illecita quindi è stata individuata solo per la "intuizione" del Giudice, che si fonda sul sospetto e no sulla prova. Due miliardi e mezzo ricavati dalla mafia (quale mafia?) da attività illecite (quali attività?) e consegnate a Ciancio (perché a Ciancio e non ad altri Cavalieri più titolati di lui per "vicinanza" ad ambienti mafiosi?). Due miliardi e mezzo in un tempo il cui la benzina costava cento lire al litro e un impiegato guadagnava 250.000 lire al mese. Viene voglia di definire il sospetto del Tribunale un incredibile falso storico. Nonostante tutto, però, noi crediamo nel Giudice di appello». 

Il sequestro di un giornale e il bisogno di giustizia rapida. «Se l’informazione scritta regge, nonostante tutto, lo si deve alla volontà di editori, giornalisti e poligrafici, di credere a un prodotto che rappresenta il cuore, la premessa di una vera democrazia», scrive Giuseppe De Tomaso il 25 Settembre 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Al principale azionista di questo giornale, l’editore Mario Ciancio Sanfilippo, hanno sequestrato una serie di beni per circa 150 milioni di euro. Il provvedimento è stato adottato dal tribunale catanese su richiesta della locale direzione distrettuale antimafia. Fra i beni sottoposti a sequestro figurano anche le quote azionarie di Ciancio Sanfilippo ne «La Gazzetta del Mezzogiorno» (all’interno, i particolari della vicenda). Ciancio è accusato, in sostanza, di aver accumulato beni secondo modalità mafiose. L’editore, che ha annunciato ricorso contro la decisione del tribunale, ribatte che le somme di denaro su cui i magistrati hanno acceso un faro, sono frutto del suo lavoro, e che lo può dimostrare in ogni circostanza. L’iter giudiziario che vede coinvolto Ciancio Sanfilippo è iniziato più di dieci anni or sono. Finito sotto indagine nel 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa, nel 2012 era sopraggiunta la richiesta di archiviazione da parte della procura catanese. Richiesta bocciata dal Gup che ha disposto la trasmissione degli atti al pm. Non vogliamo entrare nel merito del lavoro dei magistrati, cui va dato il massimo rispetto. Esprimiamo qui la nostra piena solidarietà all’editore Ciancio Sanfilippo che ha sempre lasciato totale autonomia alla direzione e alla redazione della Gazzetta. Siamo certi che dimostrerà la correttezza del suo operato. Auspichiamo solo che i tempi della giustizia siano veloci. Sia perché giustizia ritardata equivale a giustizia negata. Sia perché, nel caso specifico di un giornale, la stabilità della proprietà, e della governance, costituisce una premessa essenziale. L’editoria attraversa il periodo più difficile della sua storia. I bilanci delle aziende sono in rosso da parecchi anni, anche se le ristrutturazioni aziendali hanno abbattuto costi fissi e costi variabili. Se l’informazione scritta regge, nonostante tutto, lo si deve alla volontà di editori, giornalisti e poligrafici, di credere a un prodotto che rappresenta il cuore, la premessa di una vera democrazia. È un filtro, un corpo intermedio, senza i quali una democrazia liberale evolverebbe in una democrazia autoritaria o plebiscitaria. L’impresa giornale, poi, è un’impresa particolare. È un bene intellettuale, un bene diverso da altri beni strumentali o voluttuari. Certo, il conto economico è essenziale. Ma è essenziale, anche o soprattutto, il brand, la storia, la credibilità di una testata. E questa testata in 130 anni di storia al servizio dei Lettori e delle comunità di Puglia e Basilicata, qualche merito ritiene di averlo acquisito. Non pretendiamo che il prodotto giornale sia considerato, come avviene in quasi tutto il mondo, una voce passiva di un bilancio attivo. Ma un giornale è innanzitutto una comunità intellettuale, il cui patrimonio culturale va salvaguardato con cura e determinazione, a cominciare dalle dignità delle redazioni. Noi continueremo a svolgere il nostro lavoro, così come abbiamo sempre fatto, augurandoci che sia preservato l’intero patrimonio, storico, ideale, umano di questo giornale. 

Il caso Ciancio e il "mea culpa" del procuratore Zuccaro per la giustizia tardiva, scrive il 25/09/2018 La Sicilia. «Indubbiamente la magistratura catanese non ha voluto e potuto essere all’altezza dei suoi doveri istituzionali». Un duro atto di accusa contro l'editore Mario Ciancio Sanfilippo è stato pronunciato davanti a tv e giornalisti dalla Dda catanese, con i carabinieri che hanno svolto le indagini, che ha spiegato i particolari della confisca di 150 milioni di euro che ha colpito uno degli imprenditori più importanti della Sicilia, ma anche un "mea culpa" sull'azione della magistratura alla fine degli anni '90, quando la mafia era all’apice, con responsabilità nel non aver agito a fondo per debellare il rapporto tra cosche e imprenditoria. Il procuratore catanese Carmelo Zuccaro ha detto che «indubbiamente la giustizia non ha voluto e potuto essere all’altezza dei suoi doveri istituzionali», indicando «responsabilità della magistratura di Catania». Secondo il procuratore Zuccaro, che entra a far parte della magistratura catanese nel 1989 e che nel 1991 è già coordinatore del gruppo della Direzione Distrettuale Antimafia, «si poteva fare molto di più». «Non posso dire per quale motivo perché non ho vissuto tutti quei quarant'anni», ha detto ancora Zuccaro che in effetti dal 1996 al 2001 è stato alla Procura di Caltanissetta - dove si è occupato di processi importanti come quelli sulle stragi di Capaci e via D'Amelio - e poi fino al 2009 a dirigere quella di Nicosia. E a un cronista che gli ha chiesto se non provasse un certo imbarazzo per la lentezza della giustizia catanese, ha risposto: «Se imbarazzo lei ha notato, più che imbarazzo è dispiacere per quello che si poteva forse fare anche prima e che non è stato fatto». «Però oggi - ha sottolineato Zuccaro - dobbiamo essere soddisfatti per un fatto: è stato conseguito un risultato molto importante». 

"Giustizia rapida per il sequestro di un giornale": ma la legge non deve essere uguale per tutti? Scrive il 26 settembre 2018 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". La Gazzetta del Mezzogiorno è quindi libera di uscire, i giornalisti di scrivere e lavorare, e nessun magistrato o commissario giudiziario potrebbe mai influire sulla gestione giornalistica, ma solo su quella societaria, quindi queste preoccupazioni onestamente ci fanno ridere. A differenza di qualche squallido individuo che purtroppo ha il tesserino di giornalista professionista in tasca, non ho mai goduto per le disgrazie di un collega o di un giornale, perchè quando chiude un giornale, chiude una voce d’informazione, e questo non è quasi mai una buona notizia per la libertà di stampa. Quindi lunga vita alla Gazzetta del Mezzogiorno. Ma nella legalità e trasparenza. Ieri il direttore del quotidiano lA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO si è finalmente accorto di aver un editore sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, e si è prodigato a scrivere un editoriale in cui nel difendere il suo datore di lavoro che gli paga lo stipendio, ha dimenticato di scrivere e raccontare ai suoi lettori più di qualcosa.  Infatti scrive “Finito sotto indagine nel 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa, nel 2012 era sopraggiunta la richiesta di archiviazione da parte della procura catanese. Richiesta bocciata dal Gup che ha disposto la trasmissione degli atti al pm”, ed aggiunge “Esprimiamo qui la nostra piena solidarietà all’editore Ciancio Sanfilippo che ha sempre lasciato totale autonomia alla direzione e alla redazione della Gazzetta. Siamo certi che dimostrerà la correttezza del suo operato”. Scrivendo tali concetti Giuseppe De Tomaso accusa i magistrati ed il Ros dei Carabinieri, cioè l’elite investigativa dell’Arma di non aver fatto bene e correttamente il proprio dovere e lavoro. Conoscendo personalmente la sua carriera, che conosco molto bene nei minimi dettagli, fidandosi esclusivamente di chi gli paga lo stipendio, De Tomaso esalta il suo editore Mario Ciancio di Sanfilippo per la “totale autonomia” e di aver “sempre lasciato totale autonomia alla direzione e alla redazione della Gazzetta”. Purtroppo non poche volte anche la libertà di diffamare, di violare segreti di Stato, di calpestare il segreto istruttorio. Ma il direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno dimentica che lasciare totale autonomia alla direzione e alla redazione di un giornale, non è nulla di speciale, ma bensì la la normalità, peraltro prevista costituzionalmemte e garantita dalla Legge sulla Stampa e da quella professionale per chi svolge l’attività del giornalista. De Tomaso nel suo editoriale in difesa di Ciancio aggiunge “auspichiamo solo che i tempi della giustizia siano veloci. Sia perché giustizia ritardata equivale a giustizia negata. Sia perché, nel caso specifico di un giornale, la stabilità della proprietà, e della governance, costituisce una premessa essenziale.  L’editoria attraversa il periodo più difficile della sua storia. I bilanci delle aziende sono in rosso da parecchi anni, anche se le ristrutturazioni aziendali hanno abbattuto costi fissi e costi variabili”. E qui scrive tante eresie. Innanzitutto perche l’attività di un giornale è un’attività editoriale, quindi economica, imprenditoriale come tante altre svolte in lungo e largo del Paese e quindi non può e non deve godere di alcun privilegio. Se l’editoria attraversa il periodo più difficile della sua storia è anche a causa dei giornalisti e del sindacato che hanno sempre cercato delle protezioni contrattuali e corporativistiche non accorgendosi che in tutto il mondo l’informazione è cambiata, il giornalismo non è più una corporazione di persone libere di scrivere tutto quello che vogliono, essendo sopraggiunta la libera circolazione delle notizie attraverso la rete Internet ed i socialmedia. Se i bilanci sono in rosso (per fortuna non tutti) è colpa di chi non è capace di realizzare un prodotto editoriale capace di interessare il lettore, e conseguentemente gli investitori pubblicitari. Ci sono in circolazione buoni esempi di attività editoriale, come quella del Fatto Quotidiano, dove lavorano giornalisti ed amministrativi, che sono meno della metà dei giornalisti della società editrice presieduta da Antonio Padellaro. Ma che in edicola vendono 3 volte di più della Gazzetta del Mezzogiorno che non a caso è scesa al suo minimo storico di lettori. Secondo i dati ADS diffusi lo scorso 7 settembre, la Gazzetta del Mezzogiorno a fronte di una tiratura (stampa) di 27.919 copie giornaliere, riesce ad avere una diffusione (vendita) soltanto di 19.297 copie, che se ripartite fra i 6 capoluoghi di provincia pugliesi ed i 2 della Basilicata, rappresentano una vera e propria miseria di lettori. Basti pensare ad esempio che La Libertà, il quotidiano di Piacenza, vende ogni giorno in tutta la sua provincia la media di 18.150 copie al giorno! Con la differenza che Piacenza ha soltanto 286.752 abitanti, praticamente quasi quanto la città di Taranto! Senza considerare poi che nelle regioni di diffusione della Gazzetta del Mezzogiorno, e cioè la Puglia e la Basilicata vivono circa 4 milioni e 500mila abitanti! Se quindi alla Gazzetta del Mezzogiorno non sono capaci di realizzare un prodotto editoriale degno di attirare l’attenzione dei lettori, la colpa è di chi scrive, dirige e confeziona quel giornale, e non certo dei Carabinieri del Ros o dei magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, che rischiano ogni giorno la propria vita, spesso sottopagati. De Tomaso continua nel suo editoriale scrivendo “se l’informazione scritta regge, nonostante tutto, lo si deve alla volontà di editori, giornalisti e poligrafici, di credere a un prodotto che rappresenta il cuore, la premessa di una vera democrazia. È un filtro, un corpo intermedio, senza i quali una democrazia liberale evolverebbe in una democrazia autoritaria o plebiscitaria”. In Romagna, chiamerebbero tutto ciò una vera e propria “pugnetta” (a due mani aggiungiamo noi). L’informazione circola tranquillamente e soprattutto senza filtri e senza interessi occulti, grazie alla Rete, cioè ad Internet. E non c’ alcun autoritarismo che tenga. L’editoriale si conclude con un peana. “L’impresa giornale, poi, è un’impresa particolare. È un bene intellettuale, un bene diverso da altri beni strumentali o voluttuari. Certo, il conto economico è essenziale. Ma è essenziale, anche o soprattutto, il brand, la storia, la credibilità di una testata. …… Noi continueremo a svolgere il nostro lavoro, così come abbiamo sempre fatto, augurandoci che sia preservato l’intero patrimonio, storico, ideale, umano di questo giornale”. Qualcuno spieghi a De Tomaso che, contrariamente a quanto chiedeva ripetutamente un suo giornalista (guarda caso un sindacalista…)  e cioè il sequestro della nostra testata, senza mai ottenerlo, nessuno ha sequestrato o chiuso La Gazzetta del Mezzogiorno, e noi ci auguriamo che non accada mai, ma semplicemente posto sotto sequestro le quote societarie dell’ EDISUD spa, riferibili all’ editore Mario Ciancio di Sanfilippo, cioè il 63 per cento dell’azionariato. Sequestro effettuato perchè in questa società sono stati investiti da Ciancio secondo le indagini della Procura di Catania oltre 10milioni di euro, 9 dei quali non sarebbero giustificati motivo per cui la Procura ha chiesto il sequestro del 33% delle quote e il 100% della Messapia. La Gazzetta del Mezzogiorno è quindi libera di uscire, i giornalisti di scrivere e lavorare, e nessun magistrato o commissario giudiziario potrebbe mai influire sulla gestione giornalistica, ma solo su quella societaria, quindi queste preoccupazioni onestamente ci fanno ridere. Piuttosto i colleghi del quotidiano barese-siculo si impegnino a riconquistare lettori e conseguentemente inserzionisti, contribuendo ad una sana gestione economica-editoriale. L’ editoria, l’informazione, il giornalismo, non sono attività no-profit, e quindi come tutte le attività quando non producono reddito, utili per far fronte alle spese, è giusto che chiudano, secondo quanto previsto dalle vigenti norme di Legge. Ma per cortesia, lasciate lavorare in pace le forze dell’ordine ed i magistrati che fanno la guerra alla mafia, scovando e sequestrando capitali di dubbia e non provata provenienza. E se alla Gazzetta del Mezzogiorno non sono capaci di informarsi meglio, lo possono fare anche leggendo quello che abbiamo raccontato noi ai nostri lettori. 

Catania sotto choc: dall’arresto di Pulvirenti ai sequestri a Ciancio. In pochi giorni tre inchieste nella «Milano del Sud»: da quella sulla squadra di calcio agli accertamenti sull’editore de «La Sicilia» e sul sottosegretario Giuseppe Castiglione, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” il 23 giugno 2015. E’ come se l’Etna avesse cominciato ad eruttare lava travolgendo stavolta le case dei potenti di sempre. Perché l’arresto del gran capo del calcio catanese, del poliedrico imprenditore Antonino Pulvirenti, con sei dei suoi dirigenti per frode sportiva e truffa, segue solo di pochi giorni il sequestro di beni per 17 milioni di euro al gran capo dell’editoria, Mario Ciancio. Al patron ed editore de «La Sicilia». Inchiesta partita addirittura per sospetto concorso in associazione mafiosa. Un boato. Come l’indagine aperta sempre dalla procura etnea contro Giuseppe Castiglione, il sottosegretario di Renzi in quota alfaniana, sul quale pendono adesso pure due mozioni di sfiducia del M5Stelle e di Sel per i pasticci legati al mondo dell’immigrazione. Sembra la «masculiata» della Festa di Sant’Agata, quando nella notte della patrona i botti dei giochi di fuoco concludono processioni e baldoria illuminando a giorno la città. Un compito che, con i carabinieri del Ros, sta assolvendo proprio alla fine del suo mandato il procuratore della Repubblica Giovanni Salvi, le valigie pronte per la Procura generale di Roma, sul tavolo gli ultimi e più delicati fascicoli intestati ai potenti siciliani scrutati da un paio d’anni. La botta per Catania è tremenda. Bisognerà completare le inchieste e fare i processi per avere le sentenze, ma la botta per Catania è tremenda. La vergogna di una compravendita delle partite per restare aggrappati alla serie B è un dubbio che si trasforma comunque in vergogna per l’orgoglio dei tifosi già da mesi lanciati in filippiche contro Pulvirenti, assedi ai giocatori, spalti vuoti. Ancora peggio con Ciancio, raffinato collezionista di arte antica, oltre che di decine di milioni di euro ben custoditi in Svizzera. Peggio perché per la Procura di Salvi sarebbero stati ricostruiti numerosi affari «infiltrati da Cosa nostra sin dall’epoca in cui l’economia catanese era sostanzialmente imperniata sulle attività delle imprese dei cosiddetti cavalieri del lavoro, tra i quali Graci e Costanzo». Ovvio che a preoccuparsi siano per primi i giornalisti che lavorano per Ciancio. Ma ad indignarsi e tuonare sono in tanti, a cominciare dal vice presidente della Commissione antimafia Claudio Fava che in quell’epoca vide assassinare il padre, inviso ai «cosiddetti cavalieri». La «Milano del sud» e la caduta degli dei. Aspettando i processi, i sospetti vengono bilanciati dalla certezza dello stesso Ciancio di una estraneità totale con ogni misfatto e che i suoi beni sono «eredità antiche», peraltro «oggetto di scudo e collaborazione volontaria, secondo le leggi italiane». E, attraverso i suoi avvocati, respinge ogni accusa Pulvirenti. Come fa Castiglione in una città che s’interroga sul passato di una ormai dimenticata «Milano del Sud» dove si assiste comunque a una sorta di caduta degli dei.

Mafia e informazione, ecco la relazione: “Non solo minacce, così i giornali sono contigui alla criminalità organizzata”. Dai licenziamenti in tronco agli attentati in chiaro scuro, dagli endorsement editoriali targati Camorra ai reporter rimproverati in redazione da boss di Cosa nostra, dagli editori indagati per concorso esterno agli amici dei padrini: ecco il documento esclusivo della commissione Antimafia sulle testate contigue e compiacenti a mafia, 'ndrangheta e camorra, scrive Giuseppe Pipitone il 5 agosto 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Sangue e inchiostro, notizie censurate e rimproveri che in redazione arrivano dalla viva voce di Cosa nostra, licenziamenti in tronco e attentati in chiaro scuro, endorsement editoriali targati Camorra e giornalisti pagati per non lavorare, basta che mettano il cappuccio alla penna. Non ci sono solo le minacce contro i giornalisti, non ci sono solo i tentativi di mettere a repentaglio l’incolumità dei reporter pur di bloccare l’uscita di una notizia, di un’inchiesta, di uno scoop. C’è, infatti, un’altra faccia dell’informazione nostrana ancora a grandi tratti sconosciuta, un aspetto finora mai raccontato sui giornali, perché è proprio dentro le redazioni che va in onda: un fenomeno rimasto per troppo tempo nell’ombra e che da sempre influisce direttamente sulla 73esima posizione occupata dall’Italia nella classifica della libertà di stampa. L’hanno battezzata “informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”, ed è l’oggetto della relazione approvata pochi minuti fa dalla commissione parlamentare antimafia. Decine di audizioni per ascoltare a palazzo San Macuto giornalisti, direttori di testata e magistrati, centinaia di pagine di verbali giudiziari, articoli di quotidiani, pezzi di storia nera dell’informazione italiana raccontati dai protagonisti superstiti per arrivare a dire che “esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela”. È questo l’oggetto sul quale lavorano da più di dodici mesi un pugno di parlamentari dell’Antimafia guidati da Claudio Fava, vicepresidente di palazzo San Macuto, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa nostra nel 1984. Ottanta pagine di relazione finale, che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare in anteprima, per ripercorrere i due macro insiemi che pesano come un macigno sull’informazione italiana: da una parte le decine di cronisti minacciati ogni anno nei modi più diversi (dalle querele temerarie, agli avvertimenti, alle lesioni personali), dall’altra i giornali collusi con le associazioni criminali. “In entrambi i casi – scrive Fava nella sua relazione finale – a patirne le conseguenze è la libertà dell’informazione: chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista procura un immediato e rilevante danno sociale all’intera comunità civile”. Se l’Italia è il Paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale, ha probabilmente battuto ogni record per quanto riguarda gli episodi di opacità che legano i giornali alla criminalità organizzata. Il gruppo parlamentare guidato da Fava ha messo nero su bianco un elenco di casi, in cui non occorre che mafia, ‘ndrangheta e camorra si attivino per minacciare i cronisti scomodi: è direttamente l’editore o il direttore a mettere loro il bavaglio.

Il caso Castaldo: pagato per non scrivere. È la terra che ha versato il contributo di sangue maggiore alla libertà d’informazione, con otto cronisti su nove assassinati perché facevano il loro lavoro. Ma dopo gli assassini di Mauro De Mauro e Mario Francese, dopo le minacce a Lirio Abbate, in Sicilia è calata la pax: non si spara più. Al massimo per far tacere un cronista lo si paga per non lavorare. È quello che è successo a Franco Castaldo: il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio gli paga regolarmente lo stipendio, dopo decine di cause, ma lui non lavora, e Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove risiede. Il motivo? Nel 1995 Castaldo ha raccontato le accuse di contiguità alla mafia mosse dalla magistratura a Filippo Salamone, l’imprenditore poi condannato definitivamente a sei anni e mezzo di carcere. “In seguito a un incontro tra Ciancio e il Salamone, ricevetti una letterina di tre righe: intendendo avvalerci della sua alta professionalità, la trasferiamo a Catania al settore cronache. Trasferito a Catania mi hanno messo in uno sgabuzzino. Ricordo che non avevo una scrivania né un telefono, mi sedevo nel posto del collega che quel giorno era di corta”, racconta lui davanti alla commissione antimafia. “Dopo effetto del mio primo articolo Salamone ha querelato e citato per danni me e il mio editore, ma prima ancora di arrivare al processo scoprii che Salamone aveva rinunciato ad ogni attività risarcitoria e ritirato le querele nei confronti di Ciancio”. Risultato? “Dal 1996 ad oggi sono diciotto anni che percepisco lo stipendio e ogni due anni un risarcimento del danno ma non ho più messo piede in redazione ad Agrigento”. Dopo aver perso una serie di cause Ciancio si è arreso: paga Castaldo basta che non scriva un rigo sul suo quotidiano.

Il caso Telecolor: una redazione epurata. E se Castaldo è pagato per non lavorare, licenziati in tronco (salvo cause vinte davanti al giudice del lavoro) sono stati invece i dipendenti della televisione catanese Telecolor. La loro colpa? “Eravamo un gruppo di giornalisti che non dovevano dire grazie a nessuno e quindi lavoravamo in maniera assolutamente autonoma”, spiega a palazzo San Macuto uno degli epurati, Domenico Valter Rizzo, raccontando anche le tappe della “normalizzazione” dell’emittente. “Ciancio crea un’agenzia, che si chiama Asi, diretta dalla figlia Angela: convoca i rappresentanti sindacali della redazione, il comitato di redazione e il direttore e dice in maniera molto chiara che l’agenzia avrebbe dovuto occuparsi totalmente dell’informazione, sarebbe stata una sorta di redazione parallela che avrebbe seguito i casi più sensibili, mentre noi ci saremmo occupati della parte residuale. La risposta è stata categorica: non se ne parla. Quindi vengono eseguiti i primi due licenziamenti: il direttore Nino Milazzo si è rifiutato e si è dimesso per protesta. A quel punto Ciancio convoca una redattrice, Michela Giuffrida (oggi europarlamentare del Pd ndr) che doveva essere anche lei licenziata, e la nomina direttore. Noi non votiamo la fiducia nei confronti di questa persona e sono scattati i licenziamenti per gli altri colleghi che rimanevano”. L’agenzia di stampa Asi chiuderà i battenti poco dopo.

Il caso Ciancio: deus dell’informazione sotto inchiesta per mafia. Il patron de la Sicilia Ciancio, con partecipazioni azionarie nel Giornale di Sicilia e nella Gazzetta del Mezzogiorno, già presidente Fieg e vicepresidente di Ansa, è attualmente indagato dalla procura di Catania per concorso esterno a Cosa nostra: recentemente gli inquirenti hanno rintracciato 52 milioni di euro nelle sue disponibilità depositati su conti svizzeri, 12 di questi sono stati sequestrati. Nella sua relazione Fava si occupa del caso Ciancio in maniera molto approfondita: dall’arrivo in redazione di Pippo Ercolano per rimproverare il giornalista Concetto Mannisi, reo di averlo definito un boss mafioso, con l’editore del giornale a fare gli onori di casa, alla lettera del boss Vincenzo Santapaola, recluso in regime di 41 bis, pubblicata integrale senza tagli o commenti, fino al necrologio del commissario Beppe Montana, assassinato da Cosa nostra, che invece viene respinto. Il motivo? “Il testo parlava di un delitto di mafia dagli alti mandanti”, spiegherà il giornale. “Anni dopo – dice la commissione – La Sicilia non mostrerà gli stessi scrupoli quando – il 30 luglio 2012, il giorno dopo la morte del capomafia Giuseppe Ercolano (lo stesso ricevuto da Ciancio nel suo ufficio in occasione della reprimenda verso il suo cronista) – il giornale pubblicherà ben tre necrologi di amici e parenti che ricordano l’Ercolano”.

Il caso del Giornale di Sicilia. Ma non c’è solo il caso Ciancio in Sicilia. “L’editore del Giornale di Sicilia era amico di Michele Greco, che in quel momento era il capo di Cosa nostra palermitana, e alcuni giornalisti erano amici di mafiosi. Stefano Bontate e Mimmo Teresi frequentavano spesso la redazione”, è uno dei passaggi della deposizione davanti la commissione di Lirio Abbate, ex collaboratore del principale quotidiano palermitano, poi giornalista dell’Ansa e oggi inviato dell’Espresso, oggetto di pesanti minacce di morte. “Come si vedrà – continua Abbate – e come si è visto da alcune indagini, a loro questi giornalisti rivelavano notizie e retroscena su alcuni fatti, in modo da tenere aggiornata e informata Cosa nostra. La mentalità mafiosa di mettere mano all’informazione fino a pochi anni fa, almeno fino a quando sono rimasto a lavorare a Palermo, non è cambiata”. Sono gli anni ’80, Palermo è scossa dalla guerra di mafia, dagli assassini di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre decine di servitori dello Stato, e Federico Ardizzone, patron del Giornale di Sicilia, decide di “normalizzare” il quotidiano. “Viene consegnata la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone dice: “Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto”, racconta Francesco La Licata, firma storica de La Stampa, ex cronista de L’Ora e del Giornale di Sicilia, dove viene considerato cronista ingestibile, a causa di un problema: è l’unico che porta notizie al giornale. “Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo. Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì”. Il riferimento è per Giovanni Pepi, il direttore più longevo d’Italia, in sella da 33 anni. “Lo vidi in occasione del matrimonio della figlia di Lipari, Pino Lipari, che lo salutò affettuosamente e mi disse che era un amico”, metterà a verbale il pentito Angelo Siino. “La Lipari – si giustificherà Pepi – era una collaboratrice del giornale, ed era la figlia. Per questa ragione mi trovavo a quel matrimonio. Mi presentò suo padre e lo salutai”. “In occasione di un altro mio colloquio con il Lipari questi mi disse che il Pepi avrebbe dovuto fare un’intervista al latitante Riina, concordata con il Lipari. Poi, però, non se ne fece nulla per l’opposizione di Antonio Ardizzone, che si preoccupava dei possibili riflessi negativi sul giornale” è un’altra delle accuse lanciata da Siino, molto simile a quella di un altro pentito, Vincenzo Sinacori. “Riina parlando di un suo possibile arresto aveva fatto riferimento alla necessità di proseguire con la linea dura che, qualora arrestato, egli avrebbe potuto rilasciare un’intervista solo al Pepi che riteneva l’unico giornalista serio”. Identica la reazione alle due contestazioni da parte di Pepi davanti la commissione antimafia. “Ne vengo a conoscenza solo adesso”. Il direttore del Giornale di Sicilia ha poi ricordato che il suo giornale ha appoggiato il movimento Addio Pizzo, ed ha intervistato l’imprenditore Libero Grassi, poi assassinato per essersi opposto al racket delle estorsioni. “Per completezza – annota la relazione – bisogna anche dar conto che, sotto il periodo della condirezione di Pepi, il Giornale di Sicilia ha dato spazio alle notizie su Cosa Nostra, in tempi più remoti pubblicando le inchieste di Mario Francese su argomenti che altri giornali non toccavano o, come già riferito dallo stesso Pepi, pubblicando i resoconti integrali del maxiprocesso che hanno fatto conoscere gli orrori di Cosa Nostra attraverso il racconto dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia”.

Mafia, non luogo a procedere per Ciancio. Gip cita la sentenza Contrada: “Concorso esterno reato quasi idealizzato”. Le motivazioni del gip che ha prosciolto l'editore catanese riaprono l'infinita polemica sul reato nato negli anni '80 per perseguire i cosiddetti “colletti bianchi”, scrive Giuseppe Pipitone il 17 febbraio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Il concorso esterno alla mafia è “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Per questo motivo nel dicembre 2015, il giudice per le indagini preliminari di Catania, Gaetana Bernabò Distefano, ha decretato il non luogo a procedere per Mario Ciancio Sanfilippo. Il potente editore catanese, direttore e patron del quotidiano La Sicilia e di una serie di televisioni e giornali locali, era finito sotto indagine nel 2007, ma nel 2012 la procura etnea ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gip, che aveva ordinato nuove indagini: tre anni dopo, ecco che i pm chiedevano di processare Ciancio, raccogliendo però il pollice verso del giudice. Che adesso, con 170 pagine di motivazioni riapre l’infinita polemica sul concorso esterno a Cosa nostra.

“Concorso esterno: reato vanificato”. Nato negli anni ’80 sommando gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, il concorso esterno venne ideato per perseguire i cosiddetti “colletti bianchi”, e cioè i soggetti non organici all’organizzazione criminale, ma che contribuiscono ad accrescerne le attività. Una fattispecie che non è mai stato tradotta in legge dal Parlamento, ed è per questo motivo che negli anni ha scatenato una vera e propria battaglia ideologica tra giuristi, magistrati e avvocati con sentenze che hanno fatto spesso discutere. Un elenco quest’ultimo che si arricchisce sicuramente con le sentenza emessa dal gip per il caso Ciancio. Motivando la sua decisione di non luogo a procedere per l’editore, infatti, il giudice cita a più riprese la sentenza della Corte europea dei diritti umani dell’aprile del 2015. In quel caso i magistrati di Bruxelles hanno ritenuto che Bruno Contradanon doveva essere condannato per concorso esterno, perché all’epoca delle condotte addebitate all’ex superpoliziotto, il reato non era sufficientemente chiaro. “La sentenza Cedu del 2015 – scrive adesso il gip di Catania – ha riproposto in tutta la sua attualità l‘applicazione di un reato che non esiste nella legislazione italiana. Tale sentenza considera quale perno fondamentale della materia, la sentenza del 1994 Demitry. Deve pertanto iniziare ogni ragionamento sulla figura del concorso esterno basandosi sulla sentenza Demitry”. Come dire che si può cominciare a discutere di concorso esterno soltanto dal 1994. Secondo il giudice Distefano, però, “l’enucleazione di un concetto di concorso esterno nel 1994, ontologicamente distinguibile da quella del concorso interno, è stato nel tempo vanificato. Dopo la sentenza Cedu del 2015, è possibile ancora oggi parlare di concorso esterno? Si ritiene di no”.

“Nessuna differenza tra esterni e interni”. La posizione del magistrato è semplice, anche se rischia di apparire controversa. “Si impone – scrive il gip -una rivisitazione della materia non solo alla luce del tempo trascorso dalla sua introduzione e dalle condivisibili esigenze di tutela della collettività, ma soprattutto per la modificazione strutturale della società per come è emerso negli ultimi decenni: da organizzazioni mafiose nettamente separate dalla c.d. società civile, si è progressivamente assistito ad una insinuazione dell’apparato mafioso all’interno di gangli vitali della società medesima. Di conseguenza, anche il concetto di metodo mafioso ha avuto una modificazione contenutistica nel senso che non si può oggi immaginare il mafioso solo come colui che fa espresso uso della forza fisica per intimidire, ma anche colui che, utilizzando la forza espressa dal primo (o usando una forza che non emerge in termini puramente fisici), opera nella propria attività economica e\o professionale con la piena consapevolezza di avere un gruppo mafioso alle spalle e di utilizzare tale situazione per ampliare i propri guadagni”. Come dire, visto che ormai le associazioni criminali hanno infiltrato gran parte degli ambienti istituzionali, non si può fare differenza tra colletti bianchi e affiliati: sono entrambi elementi fondamentali per la cosca, senza differenza tra concorrenti esterni ed elementi interni. “In sostanza – continua sempre il gip – oggi qual è il motivo per non considerare associato un soggetto che, pur non aderendo in modo formale alla compagine mafiosa, nella sostanza si comporti come tale, traendone notevoli benefici e, anche solo a voler considerare un lungo lasso temporale durante il quale egli presta i propri servigi, rafforzando e contribuendo causalmente alla vita dell’associazione medesima?”. Secondo il giudice, infatti, le condotte contestate a Ciancio sono talmente ampie da essere “in netto contrasto con la figura del concorso esterno, In primo luogo, si rileva la durata temporale della contestazione, Inizialmente, è stato contestato un arco temporale di circa quarant’anni”.

“Poche prove: prosciogliete l’imputato”. Un periodo troppo ampio per contestare solo il concorso esterno “Già a livello astratto, è difficile ipotizzare un concorso esterno che si estende in un arco temporale che può andare dai 40 ai 60 anni della vita di un soggetto. Proprio la mancanza di indicazione di specifiche e puntuali condotte a fronte di una attività così ampia prevista in imputazione, può far sorgere il dubbio che il ruolo del Ciancio possa essere ben più articolato e complesso, giungendo finanche a rivestire la qualità, se non di promotore, quanto meno di direzione o di organizzazione dell’associazione criminale, concetto incompatibile con quello di mero consociato esterno”. Il potente editore siciliano andava dunque processato direttamente per associazione mafiosa? No, perché anche in quel caso il gip non pensa che l’accusa abbia prodotto bastevoli elementi di prova. “La mancata contestazione di reati fine – scrive il gip – evidenzia, soprattutto in un procedimento estremamente complesso come il presente sotto il profilo della raccolta di elementi fattuali, la difficoltà di individuare le condotte che siano penalmente contestabili al Ciancio. Tale estrema difficoltà ricostruttiva e probatoria impone, comunque, il proscioglimento dell’imputato nella presente fase”. E fu così, dunque, che Mario Ciancio Sanfilippo vide svanire ogni nube giudiziaria dal suo orizzonte.

Storia di Mario Ciancio Sanfilippo, di Nino Amadore su Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018, riportato da "Cinquantamila". Catania. «Ma Mario Ciancio che dice?». La frase, a Catania, è quasi l’ovvia conclusione di ogni discorso sugli affari. Sia che si tratti di agricoltura, che si tratti di edilizia ospedaliera, di costruire un centro commerciale, un albergo o ancora di bonificare aree della città la conclusione è sempre quella: «Mario Ciancio che dice?». Sottintendendo ovviamente che in ogni affare ci possa essere (o ci sia) l’interesse diretto o indiretto dell’editore del quotidiano La Sicilia di cui è direttore ed editore dal 1977 dopo averlo ereditato dallo zio, Domenico Sanfilippo, che lo ha fondato nell’immediato dopoguerra. Mario, per tutti “il direttore”, lo dirige da oltre 40 anni e dal piano nobile del giornale sono passati tutti i potenti degli ultimi quarant’anni di storia italiana e siciliana in particolare: sembrava destinato a una brillante carriera forense, ha scelto l’editoria. Che poi significa anche relazioni e potere. Cinque figli, 86 anni, Mario Ciancio oltre a collezionare reperti archeologici ha collezionato per anni incarichi (è stato presidente della Fieg e dell’Ansa) ma anche maldicenze e accuse. Ha impiegato gli ultimi anni a incassare le accuse di numerosi pentiti di mafia e procedimenti giudiziari per la sua presunta vicinanza interessata alla mafia catanese. Senza perdersi d’animo come è nel suo stile: «Ho avuto sempre problemi nella mia vita, ne ho avuti tanti, mi hanno messo le bombe, mi hanno tagliato gli alberi in campagna, mi hanno messo le teste di capretto – ha detto qualche anno fa -. Ma io sono un uomo... Sono un ottimista, io vivo col sorriso sulle labbra». E certo la storia trama contro il direttore, per le sue amicizie e i suoi rapporti d’affari. Per l’amicizia, vera o presunta, con Nitto Santapaola, per anni il capo di Cosa nostra a Catania, e i suoi parenti: gli Ercolano. Per l’amicizia e gli affari con imprenditori parecchio chiacchierati come Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro e Mario Rendo ovvero con coloro che Pippo Fava, giornalista ucciso da uomini del clan Santapaola il 5 gennaio 1984, aveva definito «I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa». Del resto, qualche anno prima era stato Carlo Alberto Dalla Chiesa, appena nominato Alto commissario per la lotta alla mafia a chiedere al prefetto di Catania documenti sui Cavalieri e nell’ultima intervista a Giorgio Bocca aveva dichiarato: «Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo». Loro stessi, i Cavalieri, protagonisti di vicende giudiziarie complicate: ha fatto discutere la sentenza del 1991 che ne assolveva un paio con la motivazione che avrebbero subito la protezione dei Santapaola per necessità. Ciancio con alcuni dei Cavalieri condivideva, per esempio, la passione per l’editoria: con Costanzo acquisì il 16,5% del quotidiano palermitano Il Giornale di Sicilia: operazione che, secondo il racconto di Massimo Ciancimino, sarebbe stata fatta con la “benedizione” di don Vito. È anche vero che per tutti gli anni 70 e 80 a Catania era abitudine per pezzi dello Stato frequentare mafiosi come Santapola, come lo era per imprenditori e politici in un equilibrio tra poteri in cui Cosa nostra stava alla pari. In quel clima, chiamiamolo contesto, tutto sembrava normale. Lo stesso Ciancio lo ha dichiarato in un’aula di giustizia, testimoniando al processo per l’omicidio Fava: «In quell’epoca ancora la mafia era un oggetto misterioso. Certo, tutti quanti sapevamo la mafia, ma nessuno era convinto che la mafia fosse a Catania, in quei termini». E alla domanda sull’atteggiamento nei confronti di Santapola ha risposto: «Fino agli anni in cui non ci fu il famoso delitto Dalla Chiesa nessun atteggiamento, perché nessuno sapeva che Santapaola fosse un autorevole personaggio della mafia siciliana». I detrattori lo accusano di aver negato il necrologio dei familiari del commissario Beppe Montana ucciso da Cosa nostra perché conteneva la parola mafia o di aver pubblicato senza censura la lettera dal carcere di Vincenzo Santapaola, detenuto al 41bis. Fino ai giorni nostri, ai fondi trovati all’estero, alle intercettazioni, al processo e ieri al sequestro dei beni. 

Biografia di Mario Ciancio da "Cinquantamila".

• (Mario Emanuele Ciancio Sanfilippo) Catania 29 maggio 1932. Editore e direttore del quotidiano La Sicilia di Catania. Ex presidente della Fieg (1996-2001) ed ex vicepresidente Ansa.

• «Nipote ed erede di Domenico Sanfilippo, il simpatico avventuriero che fondò il quotidiano La Sicilia, è l’uomo che più di tutti incarna il potere economico nella terra dei lazzaroni. Passato indenne attraverso tutte le tempeste giudiziarie e politiche degli ultimi anni, alleato di tutti, da Mario Scelba è arrivato fino a Enzo Bianco. Con il suo giornale è misteriosamente riuscito a diventare il presidente degli editori italiani. Come tutti, come noi, combina se può la notizia e l’inserzione. Se c’è il congresso degli psicoanalisti ad Acireale, per esempio, gradisce il modulo di pubblicità, ma può capitare, in sua assenza, che ignori Freud con tutto Lacan. Una volta Gianfranco Fini, abituato ai fasti dell’informazione in continente, fece il ritorno da Catania a Roma bestemmiando per aver dovuto saldare a Ciancio una fattura per una manifestazione al cinema Lo Po. Direttore ed editore ha acquistato la Gazzetta del Mezzogiorno, parte del Giornale di Sicilia e la Gazzetta del Sud. Ha comprato tutte le televisioni che c’erano sul mercato di Catania. È il migliore amico di Pippo Baudo, Carlo De Benedetti, il principe Carlo e, in serate di luna piena, pure di qualche gattone un po’ cattivo. Di sé dice: sono un tranquillo editore di provincia. È in realtà un abilissimo uomo d’affari. Anche di vecchio stampo agrario. Ha costretto amabilmente la moglie a sei parti, uno dopo l’altro gridando: “Voglio il maschio”» (Pietrangelo Buttafuoco).

• Il 30 novembre 2010 il Fatto Quotidiano pubblicò la notizia secondo cui Ciancio era indagato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso: «La Procura sta rileggendo vecchie carte processuali che si intrecciano con nuovi elementi. A partire dai presunti rapporti tra Ciancio e il boss Pippo Ercolano, uno dei capi storici di Cosa nostra che – secondo quanto risulta dall’ordinanza del maxi-processo Orsa Maggiore – pretese e ottenne che Ciancio “mettesse a posto” in sua presenza un giovane cronista de La Sicilia che aveva osato definirlo “boss mafioso”. (…) All’attenzione della Dda anche l’articolo, senza alcun accento critico, da La Sicilia sulla nomina del nipote (incensurato) del boss Ercolano alla guida della sezione catanese della Federazione autotrasportatori. Nessuna critica e nessun commento anche il 9 ottobre del 2008 quando La Sicilia pubblicava la lettera, scritta dal 41 bis da Vincenzo Santapaola, figlio del boss Nitto Santapaola. Nei faldoni raccolti dai magistrati c’è anche il racconto di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito condannato per mafia. Ciancimino avrebbe parlato dei retroscena dell’ingresso di Mario Ciancio nel pacchetto azionario del Giornale di Sicilia, “benedetto” – a dire di Ciancimino Jr – da don Vito in persona che avrebbe avuto il via libera da Bernardo Provenzano. I magistrati stanno rileggendo anche altri vecchi episodi come il presunto tentativo de La Sicilia di screditare il pentito Maurizio Avola riguardo al delitto Fava. Tra gli episodi confluiti nell’inchiesta ci sarebbe anche l’interrogatorio del pentito Giuseppe Catalano che parla della restituzione della refurtiva di un furto subito da Ciancio imposta ai ladri – secondo il collaboratore – dal mafioso Aldo Ercolano, “perché Ciancio era un amico della famiglia Santapaola”. All’iscrizione di Ciancio si arriva nel marzo 2009, dopo una lunga indagine partita da un’inchiesta messinese. Il 30 marzo del 2001 un indagato per mafia dialogava con un presunto intermediario del gruppo Rinascente alla ricerca di nuovi affari in Sicilia, che “riferiva – si legge nell’ordinanza – di essere stato il giorno prima con Ciancio, il quale gli aveva fatto vedere due terreni, uno vicino all’aeroporto di 300 mila metri quadrati e l’altro, sempre della stessa dimensione, dove c’è l’autogrill. Mario Ciancio – secondo le indagini – avrebbe “garantito per tutte le autorizzazioni possibili e immaginabili, senza pretendere una lira fino all’inizio dei lavori”. Nel 2005 grazie ad una variante al piano regolatore generale su uno dei terreni di Ciancio, vicino all’aeroporto, è stato possibile realizzare un nuovo centro commerciale oggi gestito proprio dal gruppo Auchan-La Rinascente. Tra i soci della società che ha realizzato il centro commerciale il fratello del senatore azzurro Carlo Vizzini, e il figlio (incensurato) dell’ex parlamentare di Forza Italia Tommaso Mercadante, considerato uno degli uomini più vicini a Bernardo Provenzano. I lavori di movimento terra in questo cantiere sono stati eseguiti dalla ditta dei fratelli Basilotta, uno dei quali è condannato in primo grado per associazione mafiosa. Nel marzo 2009 l’inchiesta I Vicerè, di Sigfrido Ranucci per Report, parlò di molte di queste vicende. Ciancio citò in giudizio Report (…)» (Domenico Valter Rizzo e Antonio Condorelli) [Fat 30/11/2010]. Indagato anche per turbativa d’asta aggravata dall’aver favorito la mafia nell’aggiudicazione dei lavori per l’ospedale Garibaldi di Catania, Ciancio ha sempre respinto tutte le accuse.

• La cortesia fatta persona. Colleziona porcellane.

Mafia: Ciancio editore della Gazzetta del Mezzogiorno a processo per concorso esterno. La Gazzetta del Mezzogiorno ed i suoi giornalisti tacciono, così come tutti gli altri organi d’informazione pugliesi. Ma ce ne siamo occupati noi del Corriere del Giorno sin dal primo giorno, scrive "Il Corriere del Giorno" l'1 giugno 2017. Mario Ciancio Sanfilippo l’imprenditore siciliano editore del quotidiano la Sicilia di Catania, e de La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, questa mattina è stato rinviato a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Questa la decisione del giudice Loredana Pezzino che ha disposto il giudizio dinanzi alla prima Sezione penale del Tribunale di Catania, dopo che la Corte Cassazione aveva annullato con rinvio la decisione di “non luogo a procedere” precedentemente disposta dal giudice del Tribunale di Catania Gaetana Bernabò Distefano. L’inchiesta della Procura di Catania che si avvalse del supporto investigativo del ROS dei Carabinieri, durata diversi anni, si era inizialmente fermata con una richiesta di archiviazione. Ma il Gup Luigi Barone aveva disposto la trasmissione degli atti ai Pm che avevano inizialmente chiesto il rinvio a giudizio dell’editore. La Procura della repubblica di Catania ha presentato appello contro l’archiviazione che era stata decisa dal Gup Bernabò Distefano. Parti civili i fratelli del commissario Beppe Montana, e l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia. In aula per l’accusa i Pm Antonino Fanara e Agata Santonocito. L’editore è difeso dagli avvocati Giulia Bongiorno e Carmelo Peluso. “E’ un rinvio a giudizio che non mi stupisce – afferma l’editore catanese Mario Ciancio dopo il suo rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa – la mia assoluta estraneità ai fatti che mi vengono contestati è nelle indagini dei carabinieri del Ros. “Sarebbe bastato leggerle per decidere diversamente”.  “Non posso però fare a meno di dire che provoca in me un moto di indignazione – aggiunge Ciancio – il fatto che una ricostruzione fantasiosa e ricca di errori e di equivoci, che ha deformato cinquant’anni della mia storia umana, professionale e imprenditoriale, alterando fatti, circostanze ed episodi, sostituendo la verità con il sospetto, sia stata adottata quale impermeabile capo di accusa per attivare un processo contro di me. Ho sempre piena fiducia nell’operato della magistratura e non ho dubbi che sarò assolto da ogni addebito”. Ciancio conclude: “Sono pronto a difendermi con determinazione, continuerò serenamente a lavorare mentre i miei legali riproporranno con pazienza tutte le innumerevoli argomentazioni a sostegno della mia innocenza. Anche se i tempi si dilateranno riuscirò a dimostrare chiaramente il grave errore consumato con questo rinvio a giudizio”. Nel corso delle udienza, la Procura aveva chiesto di svolgere il processo a porte aperte, ma la difesa di Ciancio si è opposta. Un comportamento un pò strano ed ambiguo per un editore, cioè per colui che si occupa di informazione! Sin da quando il Corriere del Giorno iniziò ad occuparsene, era il 16 ottobre 2015, i giornalisti de La Gazzetta del Mezzogiorno direttore in testa, tacquero ai propri lettori la notizia, ed un giornalista-sindacalista (assunto grazie ad una vertenza di lavoro) dipendente di Mario Ciancio, in servizio presso la redazione periferica di Taranto, ci accusò con una ridicola denuncia accusandoci di aver dato informazioni distorte sulla vicenda. Solitamente i sindacalisti difendono i lavoratori, non i datori di lavoro, ma al giornale barese lavorano da due anni grazie ai contratti di solidarietà, e quindi difendere l’editore può servire a fare carriera o non perdere il posto di lavoro. La prima udienza è stata fissata per il 20 marzo 2018. Chissà se i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno se ne accorgeranno….

Il silenzio di Di Maio... e la disinformazione della Gazzetta del Mezzogiorno sull' ILVA, scrive il 20 agosto 2018 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Il giornale siculo-barese il cui editore Mario Ciancio di Sanfilippo è doveroso ricordare è imputato sotto processo a Catania per “concorso esterno in associazione a a delinquere di stampo mafiosa”, ancora una volta manifesta i propri limiti giornalistici nelle cronache sulla vicenda ILVA, scrivendo un mare di fesserie. Scrive la Gazzetta oggi online: “Tutti i soggetti coinvolti attendono che l’Avvocatura dello Stato esprima il suo parere sulla procedura di gara dopo le criticità rilevate dall’Autorità nazionale anticorruzione. ArcelorMittal non ha ricevuto alcuna comunicazione dall’Avvocatura dello Stato su un eventuale via libera per l’acquisizione dell’Ilva.”  Tutto ciò ignorando o meglio facendo finta di non sapere che invece in realtà il parere è stato espresso come annunciato in esclusiva dal CORRIERE DEL GIORNO lo scorso 17 agosto e mai smentito ufficialmente dal Ministero dello Sviluppo Economico, che peraltro ci ha anche contattato attraverso il portavoce del Ministro. Un giornalista intelligente e capace di fare il proprio lavoro, si sarebbe chiesto: ma come mai il Ministero non smentisce ufficialmente quanto scritto dal CORRIERE DEL GIORNO? La risposta è semplice. Non possono negare l’evidenza. E soprattutto dovrebbe sapere che ArcelorMittal non avrebbe mai potuto ricevere alcuna comunicazione direttamente dall’Avvocatura Generale dello Stato! La Gazzetta del Mezzogiorno continua a scrivere inesattezze e fake news quando sostiene che “tutti i soggetti coinvolti attendono che l’Avvocatura dello Stato esprima il suo parere sulla procedura di gara dopo le criticità rilevate dall’Autorità nazionale anticorruzione. ArcelorMittal non ha ricevuto alcuna comunicazione dall’Avvocatura dello Stato su un eventuale via libera per l’acquisizione dell’Ilva”. Innanzitutto il parere espresso (per la seconda volta) dall’ Avvocatura Generale dello Stato sulla procedura di gara viene indirizzato esclusivamente al Ministero dello Sviluppo Economico, e per saperlo non c’è bisogno di citare “fonti vicine all’azienda”. Capiamo che la Gazzetta fa male per aver preso un ennesimo “buco” giornalistico, dopo l’avvenuta pubblicazione in esclusiva nazionale del CORRIERE DEL GIORNO, del contratto per la cessione dell’ILVA, che neanche Michele Emiliano, il Comune di Taranto, i sindacati, avevano mai visto ed ottenuto. Come non ridere quindi quando la Gazzetta scrive che “l’iter prevede che l’Avvocatura comunichi la decisione al ministero dello Sviluppo economico e questo, solo successivamente, si attivi per contattare i soggetti interessati alla vicenda, tra cui anche i sindacati”. La realtà è ben diversa. Il parere dell’Avvocatura serve esclusivamente per completare e chiudere il procedimento di verifica in autotutela attivata dal ministero retto da Luigi Di Maio, che si conclude il 24 agosto. Cioè fra circa 72 ore. Il 15 settembre non è soltanto il termine fissato dai commissari straordinari” come termine ultimo di liquidità finanziaria ma bensì il termine concesso da Arcelor Mittal ai commissari dell’Amministrazione Straordinaria prima di prendere possesso degli stabilimenti ILVA come previsto contrattualmente e dal bando di gara.  Cos’ continua la Gazzetta nelle sua farneticazioni: “Il vice premier Luigi Di Maio darà indicazioni precise sulla tabella di marcia e deciderà chiaramente se annullare o meno la gara che aveva definito «un pasticcio». L’ultima parola spetterà quindi al Governo”, aggiungendo che “questa si baserà, almeno per gli aspetti tecnici e legali, su quanto scriverà l’organo legale dello Stato sul suo parere”. Qualcuno dovrebbe spiegare ai giornalisti della Gazzetta della Mezzogiorno che l’ Autorità Anticorruzione (ANAC)  ha già chiarito ed attestato che la gara è stata regolare, le non ci sono gli estremi per annullarla, altrimenti avrebbero mandato i documenti alla Procura della Repubblica di Roma, così come era stato affermato anche dal Ministero dell’ Ambiente, e persino dall’ Antitrust Europea, dove hanno sicuramente più competenza di qualche burocrate “azzeccagarbugli” passato recentemente al servizio del M5S e di Di Maio. Alla Gazzetta deve essere sfuggito anche quanto ha dichiarato la settimana scorsa il premier Conte sulla vicenda ILVA: “ma secondo voi Di Maio mette a rischio 14mila posti di lavoro?” La Gazzetta non contente delle bufale giornalistiche propinate ai propri lettori scrive che “in ogni caso il 24 agosto scade il procedimento amministrativo avviato da Mise lo scorso 24 luglio e finalizzato all’eventuale annullamento in autotutela del decreto di aggiudicazione della gara. «Un atto dovuto» dopo il parere espresso dall’Autorità Anticorruzione che per primo aveva evidenziato criticità nella procedura di aggiudicazione”. Errore clamoroso, come ha più volte precisato Cantone, presidente dell’ANAC, in quanto le presunte criticità non erano tali da pregiudicare la legalità e regolarità della gara. Infatti basta leggersi il parere dell’ANAC per capirlo. Avendo capacità e competenza per farlo. Qualità rare soprattutto dopo il pensionamento del collega ed amico Domenico Palmiotti, ex.capo servizio della redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno, che quando scriveva almeno sapeva di cosa parlava! Confesso che sono molto curioso di vedere cosa scriveranno, i giornali ed in particolar modo la Gazzetta del Mezzogiorno quando verrà reso noto ed ufficializzato dal MISE il parere dell’Avvocatura Generale dello Stato e soprattutto dove andranno a nascondere la faccia il ministro Di Maio ed i deputati e rappresentanti pugliesi del M5S, ma soprattutto Michele Emiliano che con la sua lettera a Di Maio dove ipotizzava illegalità ha creato tutte queste tensioni e disinformazioni.

Taranto & dintorni. Le diffamazioni, i veleni e le dimenticanze...della Gazzetta del Mezzogiorno, scrive il 12 settembre 2018 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". La Gazzetta del Mezzogiorno cerca di diffamarci, dimenticando il proprio editore Mario Ciancio Sanfilippo sotto processo a Catania per “concorso esterno all’associazione mafiosa” all’editore, e tutte le mancette pubblicitarie che riceve dal Comune di Taranto…Tutto quello che il giornalista Mazza omette di raccontare. Chissà perchè…Ancora una volta cari lettori ci vediamo costretti, chiamati in causa, dal solito giornalista-sindacalista della redazione tarantina de LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, a dover dare lezioni di giornalismo onesto e trasparente, ad un giornalista che probabilmente senza una vertenza di lavoro grazie alla quale è riuscito ad entrare alla Gazzetta: parliamo di tale Cosimo (Mimmo) Mazza, da San Marzano di San Giuseppe (Taranto). In un primo momento avevo pensato di ignorarlo, ma dopo averlo querelato ancora una volta, ho pensato che è giusto spiegare e chiarire ogni cosa dinnanzi ai nostri lettori, che per noi contano molto, ma molto di più di qualche centinaio di lettori disperati del quotidiano che ha recentemente chiuso le proprie redazioni di Barletta, Brindisi e Matera in attesa di chiudere (secondo fonti di corridoio baresi) prossimamente anche l’improduttiva redazione tarantina. Per correttezza e trasparenza nei confronti dei nostri lettori, quella trasparenza che altrove latita da molto tempo, ho deciso di rendere noto tutto, e di operare come sempre con trasparenza e, con quello che più conta, a differenza di altri, con le mani pulite. Nel corso di questi quattro anni di attività editoriale e giornalistica questa testata, come tante altre, ha ricevuto ed effettuato regolarmente due inserzioni pubblicitarie commissionate da CTP Taranto. Pubblicità che CTP Taranto ha commissionato ed acquistato anche sui vari organi di stampa che si occupano di Taranto. Quindi inserzioni pubblicitarie assolutamente legittime, regolarmente fatturate, che però non ci hanno mai impedito di occuparci anche di vicende scabrose accadute all’interno della società di trasporti della provincia jonica. Abbiamo pubblicato un servizio sulle dimissioni da presidente del dr.Marcello Carone (durato in carica solo 4 mesi) , abbiamo pubblicato un servizio su una vicenda giudiziaria relativa ai  5 dipendenti della società pubblica iscritti nel registro degli indagati e rinviati a giudizio, per gli appalti “allegri” del Ctp, effettuati sotto la direzione del direttore Cosimo Rochira (ora pensionato) braccio destro del consigliere comunale Piero Bitetti di cui è stato anche tesoriere della sua sfarzosa ma poco trasparente inutile campagna elettorale a Sindaco di Taranto. Così come abbiamo pubblicato qualche mese dopo un articolo su CTP Taranto con cui si dava notizia dell’utile di bilancio di 300mila euro della società Consorzio Trasporti Pubblici, passata nel frattempo sotto la guida del dr. Roberto Falcone, il quale nonostante l’assunzione di ben 45 conducenti di linea che sono risultati vincitori di concorso pubblico ha riportato l’azienda in attivo. Gestione ed assunzioni apprezzate pubblicamente anche dal presidente della Provincia di Taranto Martino Tamburrano, ente che detiene il pacchetto di maggioranza delle azioni della società consortile. Quello stesso Tamburrano che utilizzava il suo ruolo, per cercare di fare avere della pubblicità dalla società CTP Taranto alla Gazzetta del Mezzogiorno, il cui responsabile della pubblicità all’epoca dei fatti (tale Antonio Oliva ora trasferito dalla concessionaria pubblicitaria Mediterranea in Sicilia) era un abituale commensale a pranzo e cena del presidente della Provincia di Taranto, nonchè buon amico della moglie di quel Tonino Albanese, da sempre sostenitore e “sponsor” della carriera politica di Martino Tamburrano. Come spiega il Mazza della coincidenza….  che il suo amico e collega Vittorio Ricapito, giornalista tarantino aderente ad una loggia francese della massoneria “Le Droit Humain”, a seguito della sua espulsione dalla Grande Loggia Italiana,  dopo essere stato accompagnato alla porta dall’ Ordine degli Avvocati di Taranto, di cui era addetto stampa, nominato e riconfermato dall’ Avv. Angelo Esposito (quando era presidente) il quale è stato rinviato a giudizio in dal procuratore aggiunto della Repubblica Maurizio Carbone, secondo cui Esposito “con l’utilizzo di una carta di credito, e con l’emissione di assegni bancari tratti sul medesimo conto” avrebbe sottratto per uso personale 250mila euro dal conto corrente del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto del quale era presidente,  è finito prima sotto contratto con una società del Gruppo CISA di Massafra (leggasi Tonino Albanese), dopo aver perso la collaborazione da Taranto con l’edizione pugliese del quotidiano La Repubblica e dopo essere stato gentilmente rifiutato dal quotidiano Taranto Buona Sera a cui si era offerto come collaboratore, subito dopo come per incanto… ha iniziato la sua collaborazione con la redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno . Redazione della quale l’attuale caposervizio Mimmo Mazza, aveva aderito anch’egli alla massoneria tarantina, salvo poi dileguarsi. Guarda caso l’accoppiata Mazza-Ricapito in un recente passato si era resa responsabile di aver depositato false dichiarazioni sottoscritte da entrambi al Tribunale di Taranto nell’avvicendarsi alla direzione del periodico locale “Ribalta di Puglia”, periodico ormai chiuso ed inesistente, e di cui ci siamo già occupati in precedenza.  Una circostanza questa, non soltanto strana, ma soprattutto illegale, e fortemente imbarazzante, per la quale il Tribunale competente a seguito di un mio esposto andato a segno, ne ha disposto la cancellazione dall’elenco delle testate giornalistiche registrate presso il Tribunale di Taranto. L’ accoppiata Pinuccio-Sabino, inviati pugliesi del programma Striscia la Notizia, a questo punto direbbe: “coincidenze”. Massafresi, aggiungiamo noi. Il giornalista Mazza dovrebbe spiegare anche la sua disponibilità ad intervistare, praticamente a pagamento il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, in iniziative di piazza, interviste da pubblicare (sempre a pagamento) successivamente sulle pagine speciali della Gazzetta del Mezzogiorno, pagine per le quali la concessionaria Mediterranea paga profumatamente i giornalisti che ci scrivono. E’ questo il giornalismo autorevole…affidabile…ed indipendente di cui si vanta il Mazza? A noi non sembra ed è per questo che investiremo della vicenda l’ Autorità Antistrust ed il Consiglio Nazionale di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti, nonchè la Direzione Generale competente del Ministero di Giustizia, visto che a Bari l’Ordine dei Giornalisti che va a braccetto con l’Assostampa di Puglia (di cui il Mazza è vicepresidente) fa finta di non accorgersi di nulla, come ha fatto finta di tante altre cose che abbiamo già denunciato giornalisticamente e che hanno portato alle dimissione il magistrato in pensione Colaianni che avevano insediato illegalmente sulla poltrona di Presidente del Consiglio di Disciplina dell’ ordine dei Giornalisti di Puglia ! Nel luglio 2016 abbiamo raccontato e svelato un concorso-truffa al CTP, cioè su una misura disposto dall’ormai ex- direttore generale Cosimo Rochira a pochi mesi dalla sua pensione, che venne pensato da ed indetto su misura proprio per la moglie del consigliere comunale Piero Bitetti. E’ stato infatti a seguito dell’avvenuta pubblicazione su questo giornale del concorso-truffa che l’amministratore unico Roberto Falcone lo ha annullato e revocato in autotutela ripristinando la legalità, e siamo stati sempre e solo noi a raccontare e documentare le due sentenze dei Tribunali a cui la moglie di Bitetti si era rivolta venendo sempre sconfitta! Nel dicembre 2016 è sempre stato il CORRIERE DEL GIORNO a dare notizia che Michele Ciccimarra, ex direttore di esercizio di CTP , Cosimo Rochira, direttore generale (in pensione a fine 2016) , Luigi Pacucci, dirigente del settore economico finanziario, e Giuseppe Portulano, dirigente al Movimento del “Ctp”, erano stati mandati a processo  dalle tesi accusatorie del pm dr. Maurizio Carbone, secondo la quale i quattro dirigenti avrebbero intascato senza diritto quasi un milione di euro: esattamente 947mila euro con dei presunti aggiustamenti sulle voci strategiche dei propri emolumenti. E’ stato nell’ottobre 2017 che il nostro giornale si è occupato dell’andamento di gestione di CTP Taranto, che sotto la guida di Falcone (amministratore unico) e Marinelli (direttore) è passato dalle perdite all’utile e lo abbiamo sempre fatto, come i nostri lettori ben sanno, attenendoci sempre, solo e soltanto ai dati ufficiali, cioè quelli del bilancio. Ma i numeri di un bilancio bisogna saperli leggere e quindi la deduzione più che logica e conseguenziale è che alla Gazzetta del Mezzogiorno, i numeri ed i documenti ufficiali (sono sul sito di Ctp) o non sono capaci di leggerli, o ancora peggio non li vogliono pubblicare per non dare dei dispiaceri a qualcuno degli amici di campagna, partendo da Massafra e finendo a Crispiano. Non è quindi colpa nostra se nei mesi scorsi, insieme agli amici di Striscia la Notizia, abbiamo sempre pubblicato degli articoli che ricostruivano lo scontro fra Martino Tamburrano e Roberto Falcone , culminato con denunce penali ed atti amministrativi che hanno sempre visto prevalere le ragioni di Falcone dinnanzi al Tar, al Consiglio dello Stato, e quelle dell’organismo anticorruzione del CTP, che di fatto ha impedito a Tamburrano di effettuare una nuova “lottizzazione” spacciata per spoil system. Per non parlare poi degli atti illegittimi posti in essere dal consiglio e giunta provinciale, della nomina di ben due amministratori illegittimi, e di tutti i ricorsi presentati a dalla Provincia di Taranto rappresentata dall’ avv. Quinto di Lecce (che guarda caso è lo stesso legale che assiste la CISA di Massafra…coincidenze !) dinnanzi al TAR Puglia , al Consiglio di Stato, al Tribunale delle Imprese, sono stati sempre rigettati, decisioni queste di cui abbiamo dato corretta informazione e pubblicando con la massima trasparenza sempre i documenti integrali. Siamo riusciti a scoprirle e pubblicarle noi da Roma, mentre quelli che si autodefiniscono “grandi giornalisti” della Gazzetta del Mezzogiorno non ci sono mai riusciti.  Mazza infatti tramite un suo collega ieri ha cercato in tutte le maniere attraverso delle telefonate di salvarsi dalle querele in corso di deposito da parte di alcuni dirigenti del CTP di Taranto, non sapendo che questa volta nessuno le ritirerà…Mazza e la Gazzetta del Mezzogiorno, più che occuparsi del nostro legittimo ed onesto lavoro, che evidentemente dà loro molto fastidio, considerando che i dati ufficiali dicono che i nostri lettori aumentano in maniera esponenziale , mentre contrariamente le copie dalla Gazzetta vendute in edicola diminuiscono a vista d’occhio, giorno dopo giorno  dovrebbero preoccuparsi del loro editore Mario Ciancio Sanfilippo  attualmente sotto processo  per concorso esterno all’associazione mafiosa , a seguito della decisione della Corte di Cassazione  che ha annullato con rinvio a processo, il precedente proscioglimento dell’imprenditore siciliano disposto dal gup catanese Gaetana Bernabò Distefano. Come mai la Gazzetta del Mezzogiorno non si occupa di qualche altro particolare... che abbiamo accertato noi da Roma, grazie ad una nostra fonte interna alla società CTP spa, che ci ha riferito che in contabilità esistono fatture per circa 5.000 euro, relative all’ acquisto disposto dal dr. Emanuele Fisicaro  (l’amministratore unico nominato illegittimamente dalla Provincia di Taranto) del più potente modello di telefono-smartphone Iphone in vendita e di un potente computer portatile Mac-Apple ? beni che alla data odierna il dr. Fisicaro si è ben guardato dal restituire alla società non avendo egli alcun titolo per detenerli. A questo punto ci sembra più che legittimo chiedersi, ma lo chiediamo soprattutto ai nostri lettori: fare informazione attendibile e documentata, equivale “fare il tifo”? Non è sicuramente il nostro caso, mentre invece lo è molto più probabilmente per coloro i quali come Mazza sono abituati a diffamare chiunque non sia “amico degli amici” di campagna salvandosi dai processi soltanto grazie le transazioni economiche stragiudiziali pagate dall’ EDISUD (la società sicula-barese editrice della Gazzetta del Mezzogiorno. Ecco spiegato cari lettori come è caduta in basso la Gazzetta del Mezzogiorno a Taranto, ecco spiegato perchè vende soltanto una media di circa 1.200 copie in tutt la provincia jonica che conta circa mezzo milione di abitanti. Ed eccovi spiegato come è caduto in basso il giornalismo a Taranto, fra incappucciati, prezzolati e diffamatori. Ha ragione quindi il collega Marco Travaglio direttore del Fatto Quotidiano quando definisce comportamenti analoghi come “munnezza”, quella stessa munnezza con la quale “qualcuno” da Massafra crede e pensa di poter condizionare la vita della città di Taranto ed il giornalismo libero ed indipendente. Ma non il CORRIERE DEL GIORNO e tantomeno il sottoscritto!

Cause Rai per 300 milioni Il cavallo di viale Mazzini azzoppato dalle denunce. "Report" raccoglie il maggior numero di querele. Contenziosi anche per "Annozero" e "Chi l’ha visto?". Una richiesta danni per diffamazione anche alla "Prova del cuoco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Circa 46 milioni di euro, accantonati per il contenzioso civile della Rai nell’ultimo anno: ecco la provvista dedicata all’eventuale risarcimento delle molte e spesso gigantesche cause che incombono sulla testa del cavallo morente di viale Mazzini (soldi pubblici). Diciamo subito che la cifra messa da parte dalla tv di Stato è molto inferiore al petitum, cioè a quanto viene richiesto da aziende o privati che si sentono diffamati dalla Rai. Lì si arriva a cifre spaventose, che sfiorano (stima nostra) i 300milioni di euro. Oltre ai 5 milioni in ballo con la Fiat (che ne chiedeva 20) per un servizio di Annozero decisi dal tribunale di Torino ma già impugnati dai legali Rai, il grosso delle cause riguarda Report di Milena Gabanelli. Il suo programma di inchieste ha il record di citazioni in tribunale (ma la Gabanelli è un drago anche in difesa, ne ha persa una sola in 15 anni, per 30mila euro), seguita dall’ex programma di Santoro (che per il giudice non c’entra nel caso Fiat, perché «non è esperto di autovetture» e non c’è «nesso psichico» col servizio di Formigli!), e quindi da cifre fisiologiche di contenzioso per Presa diretta di Iacona, Chi l’ha visto, Tg1 e il Tg3, e una causa (annunciata) persino per La prova del cuoco, per una frase della Clerici su un ristorante di Mondello («lì si mangia da schifo»).

Spiccioli in confronto alla montagna di euro chiesti alla Rai per Report. È stata la stessa Gabanelli a fornire un elenco completo delle cause che la riguardano, per un totale spaventoso di 246 milioni di euro richiesti dai presunti diffamati. Da Report, e quindi dalla Rai, chiedono più di 40 milioni di euro (per cinque diverse puntate) gli Angelucci, ramo sanità privata. Pretende 10 milioni di euro dalla Rai il «furbetto del quartierino» Stefano Ricucci, così come l’industriale delle carni Luigi Cremonini, fondatore della Cremonini Spa, che ne chiede 12 di milioni, come risarcimento per un servizio sempre della Gabanelli.

L’operatore telefonico Tre stima in 137 milioni di euro il risarcimento adeguato per una inchiesta di Report, mentre Wind si accontenta di 10 milioni, quanto chiedono sia Cesare Geronzi che il vicepresidente dell’Ansa Mario Ciancio Sanfilippo, il doppio di quanti, invece, ne voleva Ligresti (5 milioni), che però si è visto dare torto dal tribunale di Milano, condannato pure al rimborso delle spese sia della Gabanelli (10mila euro) che dell’autrice del servizio Giovanna Corsetti (7mila).

ELEZIONI SICILIA 5/11/2017. Il mio partito, scrive il 3 novembre 2017 Riccardo Orioles su "Telejato". In Sicilia, in realtà, le elezioni si sono tenute due mesi fa. I senatori romani, che votavano spostandosi da un lato o dall’altro dell’aula, dicevano pedibus ire in sententiam, “votare con i piedi”. Così è andata in Sicilia, almeno per i ragazzi al primo voto. I giovani appena diplomati (quelli laureati lo facevano già da qualche anno), appena visti i risultati dell’esame, cominciano a cercare i Ryanair sull’internet e in un paio di settimane sono già pronti a partire: per Londra, per Berlino, per Montreal, qualcuno per Dubai. Non sono gite turistiche, sono dove vivranno la loro vita. Un tempo, per Belgio e Germania, partivano i minatori di Agrigento; e poi i contadini-operai per Mirafiori o Lingotto, con la lettera del prete. Adesso partono i ragazzini, i più vivi e studiosi, quelli che faranno qualcosa nella vita. Partono per non tornare. E queste sono le nostre elezioni. Le elezioni, del resto, da noi sono una formalità per far finta di essere italiani. Presidenti, assessori? Lo sanno tutti chi comanda in realtà. Comandano i mafiosi. Non quelli delle fiction, con coppola e lupara ma quelli dei consigli d’amministrazione, dei centri commerciali, delle migliaia di voti nel cassetto. Degli ultimi tre presidenti, due – secondo i giudici – avevano molto a che fare coi mafiosi. A Catania, con gli stessi consiglieri, si fanno giunte di destra, di centrosinistra, di sinistradestra. Ma il vero padrone della città, per quarant’anni, è un imprenditore – secondo una lunga inchiesta della procura etnea, in contatto coi mafiosi – che si chiama Mario Ciancio. Il processo a lui e al suo establishment – un altro vero e realistico momento elettorale – si farà in primavera, se mai veramente lo faranno. Queste sono le cose importanti. I ragazzini che partono, e i giudici che ammucchiano disperatamente le carte “in nome – come si dice – del popolo italiano”. Tutto il resto è fuffa. Dopodiché, anche se non serve a niente, io a votare ci vado. Ho un vecchio camerata dei tempi di guerra (“camerata” qui non vuol dire fascista, vuol dire uno che era con te in fanteria), che purtroppo è tornato in Sicilia per “fare politica” (sghignazzata) e solo non lo lascio, perché è uno di coraggio e noi, fra noi della guerra, non ci siamo mai abbandonati. “Politicamente”, è una cazzata: arriva con d’alemi e bersanotti al seguito, a cui la gente ovviamente non dedica la minima attenzione. Ma politicamente è una cosa grande, perché, tra le tante cose inutili che dice, ce n’è una in cui noi siciliani possiamo credere ed è – quando sta zitto un momento – la sua faccia. La faccia seria e dura, e virilmente malinconica, di uno dei tanti di noi che all’improvviso si son trovati in guerra, e fra paura e dolore l’hanno accettata. Senza grandi parole, senza chiacchiere, e – altro che cento passi – senza passi indietro. Non lo voto per i suoi libri e i suoi film – roba da settentrionali – lo voto perché la sua faccia ci dice, a noi di questa terra, una cosa precisa: noi siamo l’antimafia. E ci siamo ancora. Tutto la rimanente carovana, del suo cosiddetto partito come di tutti gli altri, è onesta fuffa. C’è il vecchio “fascista onesto”, col pizzetto alla Balbo, che ogni mattina si sveglia, legge i giornali e apprende stupito i nomi dei suoi candidati: che lui non conosceva, almeno non quanto li conoscevano i carabinieri. C’è il professore perbene, lanciato allo sbaraglio da un Pd allo sbando (“Vadi, vadi, professore, vadi avanti lei”), che la sera si prende la testa fra le mani e poi con un sospiro se ne va a letto. C’è il grillino ferocissimo, bravo ragazzo in fondo, ma fermo alla Maffia dei film (che non ammazza i bambini e la droga la spaccia, alla don Corleone, soltanto ai negri); il capo del partito, la volta che calò in Sicilia a parlare d’informazione, se l’andò a prendere… con la povera Milena Gabanelli, ignorando completamente l’esistenza di un Ciancio. Ci sono tutti quelli che non votano, o per troppa ignoranza o per troppa democrazia, e sono il partito più numeroso. E c’è – ma nessuno lo caca – il ragazzino che vota perché a scuola gli hanno insegnato che votare è civile, ma vota in fretta perché poi deve prendere l’aereo – il Trenu di lu Suli d’oggigiorno – verso la sua nuova vita. “Porca Italia!, i biastemia, andemo via”: scriveva cent’anni fa un poeta veneto, parlando dei suoi emigranti “serati in l’osteria” la sera prima della partenza. Ed è sempre la stessa Italia, che caccia via a calci i suoi migliori, con l’unica differenza che oggi i padroni, fattisi furbi, scatenano i loro tromboni contro i poveracci che “ci invadono”: parlare di chi arriva, per non parlare di chi parte. Lunedì, quando arriveranno i risultati delle vostre elezioni (tardi, perché qui il regime turco tuiene congelate le schede per una notte) e tutti voi commenterete animatamente nei vostri bar e nei vostri talkshow i “risultati”, due o tre ragazzi apriranno, come ogni giorno, il portone di ferro (coi buchi delle pallottole ricoperti alla meglio) del capannone del Gapa, a San Cristoforo. È il quartiere di Santapaola, dove il candidato buono è andato a sfidare, con noi intorno, il candidato nostalgico dei clan: è uscito sui giornali e in tv, com’era giusto. Nessun giornale e nessuna tv parlerà della ragazza che anche stavolta sarà andata lì,a fare il doposcuola ai bambini poveri del quartiere o a organizzare i senzacasa o a raccogliere i soldi per fare il “Giardino di Scidà”. Ma ce ne sono tanti così, di ragazze e ragazzi come lei. Io a volte sbaglio i nomi, e chiamo per errore – sono vecchio – Rosalba quella che invece si chiama Ivana, e Ivana è quella di oggi, e Rosalba quella di vent’anni fa. I visi si confondono, ma i gesti e i sorrisi sono gli stessi. E anche quella piccola piega ostinata, ironica e lieve, all’angolo della bocca che fa “Forza ragazzi, cominciamo”. E questo, elezioni o non elezioni, è il mio partito.

Pippo Fava, un giornalista scomodo, scrive Articolo 3" l'11 gennaio 2015. Era il 5 gennaio 1984, ancora un giornalista ucciso, questa volta a Catania, Giuseppe Fava, per tutti Pippo, una genialità eclettica: scrittore brillante, drammaturgo, saggista e sceneggiatore, ma soprattutto cronista coraggioso. Pippo Fava qualcosa di più di un semplice cronista, è un intellettuale dotato di eccezionale carisma e di altrettanta determinazione, che gli consente di reagire agli innumerevoli tentativi del potere mafioso e paramafioso di impedirgli di denunciare quanto di marcio ci sia nella classe dirigente, in modo particolare quella catanese. Fava evidenzia le commistioni della classe dirigente con esponenti di spicco dei clan malavitosi che ne orientano le scelte. Di lui si ricorda la professionalità esemplare e la sua genuinità, lontana da qualsiasi compromesso con i potenti, ma soprattutto si ricorda il coraggioso impegno nella lotta al crimine organizzato, prima come direttore responsabile del Giornale del Sud e poi da fondatore de I Siciliani, madre di tutte le pubblicazioni antimafia in Sicilia. A dimostrazione della sua poliedricità e della sua genialità è necessario ricordare il film Palermo or Wolfsburg, di cui Fava cura la sceneggiatura, opera che vince l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino 1980. Ma Cosa Nostra non può sopportare le puntuali, precise e continue accuse scagliate da un uomo così intellettualmente libero, la cui voce raggiunge non solo gli ambienti più colti, ma è perfettamente compresa anche da quelli più popolari. Pippo Fava viene assunto dall’Espresso Sera nel 1956, giornale di cui diventa caporedattore fino al 1980. La sua cultura e la sua curiosità gli consente di occuparsi degli argomenti più disparati, dal cinema al calcio, ma i risultati più significativi li ottiene con una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa Nostra, tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. L’esperienza, la stima dei colleghi e gli ottimi risultati editoriali conseguiti, dovrebbero legittimare la nomina di Fava a direttore del secondo quotidiano catanese ma, contro ogni logica, l’editore Mario Ciancio Sanfilippo gli preferisce un altro giornalista, più accomodante: Pippo Fava non è facilmente controllabile. Comunque trasforma il Giornale del Sud in un quotidiano di denuncia. Desta scalpore ed indignazione il suo articolo intitolato “Lo spirito di un giornale”. Qualcosa di più che un semplice articolo, un vero e proprio manifesto ideologico, nel quale Fava proclama i principi imprescindibili per l’esercizio della professione giornalistica: ricercare la verità, senza alcuna distorsione, per “realizzare giustizia e difendere la libertà”. Non a caso in quel periodo emergono le principali attività di Cosa Nostra nel capoluogo etneo, specialmente nell’ambito del traffico di stupefacenti. Iniziano gli atti intimidatori contro Fava e la sua linea editoriale. Viene organizzato un attentato con una bomba contenente un chilo di tritolo, a cui il giornalista scampa per puro caso. Il Giornale del Sud continua comunque la sua missione sociale per oltre un anno, fino a quando le “alte sfere” decidono che la gestione Fava è giunta al capolinea. Sono infatti ritenute intollerabili, eccessive ed incompatibili con l’ordine delle cose, le prese di posizione del giornalista, avverse all’installazione della base missilistica statunitense di Comiso e quelle favorevoli all’arresto del capomafia Alfio Ferlito. La prima pagina del Giornale del Sud che denuncia alcune attività poco trasparenti di Ferlito, è sequestrata prima di andare in stampa e censurata. Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Greppo e Salvatore Costa, i nuovi editori, prendono la decisione di allontanare Fava, successivamente si scopre che Lo Turco frequenta il boss Nitto Santapaola e che Graci ci va a caccia insieme. Pippo Fava è licenziato, un provvedimento palesemente ingiusto, spiegato solamente come un tentativo di mettere a tacere una voce scomoda, per far rientrare il quotidiano nei ranghi.  La redazione reagisce con forza, i locali sono occupati dai giornalisti, ma la solidarietà è quasi nulla e la protesta non serve a smuovere le coscienze di chi ha comunque deciso. Poco tempo dopo, per volontà degli stessi editori, il Giornale del Sud chiude i battenti. Rimasto disoccupato, Pippo Fava decide di portare avanti la sua battaglia di legalità, dando vita ad una cooperativa, la Radar, per poter finanziare un nuovo progetto editoriale. Parte da due sole macchine da scrivere usate, acquistate di seconda mano e facendo ricorso a cambiali. Quel gruppo di splendidi disperati guidati da Fava, riesce, non si sa come, a pubblicare il primo numero della nuova rivista, I Siciliani, nel novembre del 1982. Uno splendido e toccante articolo della redazione de I Siciliani, saluta il direttore, appena ucciso da Cosa Nostra. “Chi è disposto ad investire alcune centinaia di milioni su due lettera 22 scassate, dieci matti tra i venticinque ed i trentacinque anni, più un matto di sessanta?  Nessuno, ovviamente, Allora si mette su una bella cooperativa e si firma una montagna di cambiali. Così arrivano due bellissime Roland di seconda mano e due offset bicolori settanta/cento. Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere offset, fossero due turiste svedesi, lo denuncerebbero per stupro.…Il primo numero del giornale arriva nelle edicole alle nove del mattino, a mezzogiorno non ce n’è più. …Qualche volta mi devi spiegare, perdio, chi ce lo fa fare. Tanto sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione ad un ragazzetto qualsiasi e quello ti aspetta sotto casa. Forse mezzo milione, forse di più: il tizio era là ad aspettare, ha alzato la 7,65 ed ha sparato. …Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano, va bene, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare. Va bene così, direttore?”. Ogni inchiesta della rivista è caratterizzata da una forza e da un’incisività tali da farne un caso sociale o politico, un tipo di giornalismo sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e degli altri mezzi di informazione. Il primo articolo a firma Pippo Fava, si intitola “I quattro cavalieri dell’apocalisse”, un’inchiesta- denuncia che racconta le gesta e le attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Geraci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, oltre ad altri personaggi, tra i quali Michele Sindona. Fava collega senza perifrasi gli esimi cavalieri del lavoro con il clan del boss Nitto Santapaola. L’anno successivo, Rendo, Salvo, Andò e Geraci si adoperano invano per acquisire il controllo de I Siciliani, in modo da neutralizzare la carica della rivista. Fava prosegue nella sua attività che consiste nel mostrare foto imbarazzanti di Santapaola, politici ed imprenditori e nello scrivere su di loro senza remore. Il 28 dicembre 1983 Pippo rilascia un’intervista-testamento ad Enzo Biagi “Mi rendo conto che c’è un enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che stanno al vertice della nazione.  Non mi riesce di definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…”. Un tassello in più nel mosaico dell’eliminazione di Pippo Fava, improcrastinabile agli occhi di Cosa Nostra, dei suoi complici e dei suoi fiancheggiatori. Ma nell’estate dell’ottantaquattro accade di peggio, il ricordo è di Claudio Fava “C’è un pentito, si chiama Luciano Grasso, ha intenzione di vuotare il sacco, vuole parlare del delitto Fava e di un giornalista de La Sicilia che avrebbe commissionato per conto d’altri l’uccisione di mio padre. Grasso non se l’era sentita, aveva intascato il denaro e se l’era svignata. Un anno dopo stava in carcere a Belluno per una rapina ed aveva saputo della morte di mio padre. Forse per timore che in qualche modo potesse essere coinvolto, decise di parlare. Il 17 luglio partiva dalla Sicilia per il Veneto il sostituto Giuseppe Torresi, si trattava di una missione riservata, solo altri due giudici ne erano, almeno ufficialmente, a conoscenza. Occorreva agire in fretta e discrezione, Grasso avrebbe potuto ripensarci e rifiutarsi di parlare. Quando il mattino successivo Torresi entrò in carcere, Luciano Grasso aveva già ricevuto un copia de La Sicilia, fresca di stampa. C’era la sua foto, quattro colonne di articolo ed un titolo che non lasciava dubbi “Un detenuto pentito svelerà i nomi degli uccisori di Fava”. Per la prima volta in Italia un quotidiano brucia sul tempo lo stesso magistrato che deve raccogliere quelle deposizioni. Nell’articolo viene indicato il carcere dove Grasso è detenuto nonchè l’indirizzo della sua famiglia. Alle 22:00 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava è a Catania, in via dello Stadio, sta andando a prendere la nipote che recita in “Pensaci Giacomino!” al teatro Verga. Ha appena lasciato la redazione de I Siciliani. Non ha il tempo di scendere dalla sua Renault 5, freddato da cinque proiettili calibro 7,65, che lo raggiungono alla nuca, un lavoro fatto bene. Paradossale il tentativo di confondere le acque tentando di spacciare quello che chiaramente è un omicidio di stampo mafioso, come un delitto passionale, movente ricorrente, tesi supportata dalla stampa e dagli inquirenti. Si dice che la rivoltella utilizzata non rientri in quelle solitamente impiegate nei delitti di mafia. Anche le istituzioni si distinguono per lo zelo: il sindaco di Catania, il democristiano Angelo Munzone, sostiene in maniera convinta che l’omicidio sia da ricondurre alle difficoltà economiche in cui versa la rivista fondata e diretta da Pippo Fava.  Il sindaco rifiuta di indire una cerimonia pubblica per i funerali del giornalista assassinato, negando una qualsiasi presenza di Cosa Nostra nella città dell’Etna “Scrivetelo, io Munzone, sindaco di Catania, la scorta non ce l’ho. A differenza di quella donna che è sindaco di Palermo”. Altrettanto sconcertanti le esternazioni dell’onorevole Nino Drago, capo della Dc catanese. Sollecita una rapida chiusura delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Certamente Drago non è un amico di quel Pippo Fava che suggerisce di sospettare dei politici che in Sicilia ottengono più di centomila voti, appunto il caso del proconsole andreottiano. Fortunatamente voci autorevoli si mostrano contrarie ad avallare questo tentativo maldestro di insabbiamento, l’Alto Commissario Emanuele De Francesco conferma “Sono certo che la mafia sia arrivata anche a Catania”. Anche il questore Agostino Conigliaro sostiene la pista del delitto di mafia. I funerali si celebrano nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia in Ognina alla presenza di pochi amici, i suoi redattori, giovani ed operai che accompagnano la bara di chi per loro è stato un eroe. Il funerale di Pippo Fava è disertato da quasi tutti i rappresentanti delle istituzioni, ad eccezione del questore, di alcuni membri del Pci e del presidente della Regione siciliana, Santi Nicita. Successivamente, almeno in parte cambia il clima politico, culturale e sociale, le accuse di Pippo Fava sulle collusioni tra Cosa Nostra ed i cavalieri del lavoro catanesi vengono prese in considerazione e rivalutate dalla magistratura. Nel 1988 si conclude a Catania il processo “Orsa maggiore 3” nel quale, per l’omicidio di Giuseppe Fava sono condannati all’ergastolo il boss Nitto Santapaola, ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso, quali organizzatori, Aldo Ercolano, come esecutore materiale, insieme al pentito Maurizio Avola. Condanne confermate anche negli altri gradi di giudizio. Due i pentiti protagonisti del processo: Luciano Grasso, di cui si è già parlato e Maurizio Avola entrambi presi di mira da La Sicilia. Grasso come si è visto, Avola invece è attaccato da un altro giornalista di Ciancio, Tony Zermo, che tenta di screditare la tesi secondo la quale Santapaola ha organizzato l’omicidio per conto di alcuni imprenditori catanesi e di Luciano Liggio. Il figlio Claudio ha raccolto l’eredità di Pippo, un personaggio scomodo anche lui, addirittura per i suoi stessi compagni di partito, tanto da essere stato relegato al ruolo di eurodeputato a Bruxelles, racconta “Cavalieri, giudici, mafiosi e politici catanesi, non avrebbero potuto tessere le trame di interessi e complicità, se non fossero stati coperti da La Sicilia, il giornale di Mario Ciancio, dalla sua capacità di intorbidire la verità”.

La patente antimafia. I buoni e i cattivi, scrive il 4 maggio 2017 "Telejato".

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA LETTERA DI JOE SERPE, UN NOSTRO LETTORE. L’AUTORE, CHE FA IL PUNTO ANCHE SULLE VICENDE GIUDIZIARIE CHE VEDONO COINVOLTO PINO MANIACI, SI ASSUME LA RESPONSABILITÀ DI QUELLO CHE SCRIVE.

Cari amici, oggi voglio raccontarvi una storia. Mi serve un po’ di tempo per raccontarvela, ma se avrete la pazienza di ascoltarmi, forse vi accorgerete che non sarà stato tutto tempo perso. I personaggi principali di questa storia sono tre, tutti siciliani. Ma la storia è italiana, nazionale, talmente nazionale che uno dei tre personaggi principali è, niente di meno che, l’attuale Presidente della Repubblica Italiana. Tutti e tre i personaggi sono (o sono stati) considerati protagonisti di alto spicco della lotta antimafia.

Ma cominciamo dal primo: Pino Maniaci, ex “eroe antimafia”. Pino Maniaci è il direttore di Telejato, una piccolissima emittente che ha fatto notizia in tutto il mondo per il suo impegno contro le attività criminali e mafiose a tutti i livelli. Partendo dal nulla è riuscita a raggiungere una visibilità internazionale. Arrivando a colpire anche potenti esponenti di spicco della magistratura e dei palazzi di giustizia. Tutti osannavano, tutti ammiravano, tutti solidarizzavano, molti si rodevano le mani in privato studiando il modo di mettere a tacere quel “cane rabbioso”, ma intanto tutti si facevano i selfie a braccetto con Pino Maniaci e, in sua assenza, col logo di Telejato. Andare a braccetto con Pino era uno di quei vessilli antimafia universalmente riconosciuti. Poi un bel giorno, il fango. Pino Maniaci viene mandato a giudizio, è sotto processo. Per estorsione! Avrebbe estorto qualche centinaio di euro a qualche sindaco per non parlar male della giunta comunale su Telejato. Su questa storia dell’estorsione non mi soffermo, altrimenti mi dilungherei troppo. Dico solo che se vorrete approfondire, potrete farlo, è tutto on-line. Torniamo a noi. Come sempre accade quando scatta un’indagine nei confronti di un personaggio noto, le autorità, attenendosi scrupolosamente alla prassi giurisprudenziale più corretta, hanno immediatamente passato le carte ai giornali per poter dar voce al Tribunale Morale del Popolo. Ma nel caso di Pino Maniaci addirittura i carabinieri di Palermo si sono scomodati a confezionare loro stessi un video montaggio in cui c’erano anche spezzoni scelti di conversazioni telefoniche private che ovviamente non avevano nessuna rilevanza penale, ma che comunque facevano da contorno per inquadrare il personaggio o, se vogliamo dirlo con un termine più tecnico, per sputtanarlo. E così i Giudici del Tribunale Morale del Popolo, sempre vigili e attenti, irreprensibili, ligi al dovere, velocissimamente hanno dato la sentenza. E i reati accertati sono gravi, vanno dal “pavoneggiamento” fino alla “scurrilità telefonica”, ma ancora più grave è il movente, anzi gravissimo: “relazione con amante molto più giovane di lui”. Cioè, diciamocelo chiaramente, senza giri di parole: se Pino Maniaci si è vantato della sua attività antimafia per farsi una scopata, allora Pino Maniaci non può essere un vero giornalista antimafia. Sì, è giusto così, perché il “vero” giornalista antimafia è un eroe, e un eroe non si vanta, non si pavoneggia, un eroe è umile, sobrio, elegante, modesto, anche un po’ malinconico, e soprattutto non pensa mai a scopare. Cioè, ma voi ve lo immaginate SuperMan che tenta di fare colpo su una donna dicendole al telefono cose del tipo «io sono potentissimo! tutti fanno quello che dico io!», ve lo immaginate cosa succederebbe? Ma no, dai, si perderebbe tutto l’incanto della narrazione eroica, infangherebbe tutta la categoria, e allora, giustamente, il giorno dopo vedremmo Batman, Wonder Woman, L’Uomo Torcia, L’Uomo Roccia, e perfino L’Uomo Gomma e La Donna Invisibile a prenderne le distanze, – ma giustamente! – a chiederne spiegazioni. Poco importano i meriti passati di SuperMan, o se era annoverato nell’Albo degli Eroi fino al giorno prima. Appena si viene a sapere che SuperMan si è vantato delle sue gesta al telefono con una sua amica, per giunta usando il turpiloquio – Il turpiloquio! -, allora chiaramente SuperMan non può essere più un vero eroe. Perché gli manca la perfezione dell’eroe, punto. E basta. È caduto il mito. È crollato il castello. E tutti quelli che si erano fatti i selfie con lui adesso devono correre ai ripari. E chissà invece come se la ridacchieranno contenti i nemici di SuperMan… «hihihihi! pochi spezzoni scelti di intercettazioni telefoniche private sono state meglio della kryptonite!». Ma il Tribunale Morale del Popolo è bello proprio per questo, applica una giurisprudenza chiara, semplice semplice, veloce, perfino un bambino potrebbe giudicare, niente cavilli, niente inutili orpelli garantistici, niente burocrazia, interrogatori, eccezioni, obiezioni, perdite di tempo, niente. Si va diritti alla sentenza. Bastano due o tre spezzoni di conversazioni telefoniche e la sentenza è pronta. Ci sono gli spezzoni? Esistono? Si è vantato? Ha detto anche “cazzo di eroe dei nostri tempi”? Non è un eroe! Basta. Facile, alla portata di tutti. Questa è la giustizia veloce che ci serve. Altro che irragionevole durata dei processi. Giustizia prêt-à-porter.

Passiamo ora al secondo personaggio, (rullo di tamburi) signore e signori, presentiamo adesso niente poco di meno che il Presidente della Repubblica Antimafia Sergio Mattarella. Uomo delle istituzioni, sobrio, elegante, affascinante, tutto d’un pezzo, gentile ma riservato, raccolto, tendenzialmente taciturno, quando parla ha voce calma, pacata, morbida, musicale, avvolto nel suo completo scuro, con i suoi modi candidi e la sua Fiat Panda grigia, è di una bellezza discreta e rassicurante. Ma al momento della sua elezione a presidente della repubblica, soprattutto è stata decantata la sua schiena: in molti tra politici e giornalisti hanno ammirato quella schiena presidenziale per la sua inenarrabile drittezza. Lui è uno di quelli che il titolo antimafia l’ha ottenuto purtroppo tragicamente: il fratello Piersanti è stato brutalmente ucciso dalla mafia nel 1980, mentre era Presidente della Regione Siciliana. Quale sia stato il preciso movente non è chiaro. Le ipotesi furono tante, persone come Leonardo Sciascia e Giovanni Falcone dubitarono che si fosse trattato di delitto mafioso, ma negli anni ’90 venne accertato in tribunale che si trattò di mafia. Non mi dilungo ulteriormente, ci sono tante pubblicazioni e documenti on-line per chi ne vuol sapere di più. Il presidente ha militato per circa un trentennio nella Democrazia Cristiana e proviene da una famiglia di politici di professione, tutti militanti nella Democrazia Cristiana siciliana. Il padre, Bernardo Mattarella, non godeva sempre di buona fama, venne accusato di reati, frequentazioni e connivenze gravissime, ma dobbiamo chiarire subito che non venne mai accertato nessun reato a suo carico, né tanto meno che avesse rapporti con la mafia. Del resto a quei tempi di mafia si parlava poco e niente, morì di morte naturale nel 1971. Sebbene fosse penalmente immacolato, diversi politici e giornalisti ne dissero tanto male, tra questi anche il noto Pippo Fava, poi ucciso dalla mafia nel 1984. Pippo Fava di Bernardo Mattarella scrisse: «Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.» (da “I cento padroni di Palermo” di Giuseppe Fava – “I Siciliani”, giugno 1983). In ogni caso, comunque siano andate le cose, non sarebbe giusto che le eventuali colpe dei padri venissero scaricate sui figli… ma nemmeno gli eventuali meriti dei fratelli sui fratelli. O no?

E andiamo adesso al terzo personaggio, Claudio Fava. Giornalista e politico antimafia. Anche lui ha tragicamente conosciuto di persona la brutalità della mafia che ha ucciso suo padre, Pippo Fava, nel 1984. Sempre impegnato nella lotta antimafia ha svolto una lunga attività giornalistica e poi ha avviato una carriera politica in vari partiti. È riconosciuto come uno dei protagonisti di spicco della lotta antimafia ed è attualmente vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia. Quando il Tribunale Morale del Popolo ha ritirato la patente di eroe antimafia a Pino Maniaci, tra tutti gli atti di accusa che ho letto, mi è piaciuto in modo speciale proprio quello dell’onorevole Claudio Fava. È l’atto di accusa più onesto, perché dice subito la verità: «Dei cento euro forse pretesi da un sindaco se ne occuperanno i giudici per dirci se fu estorsione, bravata o solo minchioneria. Ma di ciò che ci riferiscono le intercettazioni, la risposta non la voglio dai giudici ma da Maniaci. Non chiacchiere su complotti e vendette mafiose: risposte! Voglio che dica – a me e agli altri che in questi anni hanno messo la loro faccia accanto alla sua – se quelle trascrizioni sono manipolate o se è vero che all’amica del cuore raccontava “…a me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”…» Capito? È un ragionamento lineare, logico, chiaro e schietto: poco importa se alla fine si scoprisse che Maniaci non ha estorto niente a nessuno e dunque che tutta l’accusa, oltre alla relativa violazione del segreto istruttorio e alla pubblicazione delle conversazioni private, era del tutto immotivata. Maniaci intanto deve darci le risposte su quello che ha detto in privato “con la sua amica del cuore”. Immagino l’interrogatorio:

C.: Imputato! È vero che lei, in oltraggio alla deontologia professionale del giornalista puro, si pavoneggiava privatamente al telefono con la sua amica del cuore?

P.: Sì vostro onore. Non posso negarlo. Mi “spacchìavo”.

C.: È vero poi anche che lei, con disdicevole scurrilità, appellava privatamente e telefonicamente i premi che lei riceveva per la sua attività giornalistica come «premi del cazzo di eroe dei nostri tempi»!?

P.: Sì, Vostro onore. È registrato.

C.: Davanti alla flagranza delle prove, chiedo a codesta Corte Morale del Popolo la cancellazione d’ufficio del sig. Giuseppe Maniaci dall’Ordine dei Giornalisti Antimafia e la cancellazione di tutti i premi giornalistici conferitigli, per i reati di “pavoneggiamento con amica” e “turpiloquio telefonico”!

L’intreccio: Ora che più o meno ho inquadrato i personaggi della storia, andiamo ai colpi di scena… si inizia più di due anni fa, era la fine di gennaio del 2015, quando Renzi propose il nome di Sergio Mattarella come futuro presidente della repubblica. L’Associazione Antimafia Rita Atria scrisse subito un articolo titolato “Mattarella non lo vogliamo come presidente”. E questo perché Mattarella, stando a quanto scrisse l’associazione, anni addietro avrebbe testimoniato a favore di un tale di nome Vincenzino Culicchia che in quel momento era indagato per gravi reati. Vincenzino Culicchia era stato sindaco di Partanna per trent’anni ininterrottamente, con la Democrazia Cristiana, lo stesso partito in cui militarono per decenni Sergio Mattarella, il fratello Piersanti e il padre Bernardo. Culicchia non venne mai condannato, ma comunque dagli atti processuali si poterono evincere frequentazioni e comportamenti che, secondo l’ “Associazione Atnimafia Rita Atria”, comportavano una condanna politica. Quindi non volevano che il futuro presidente della repubblica fosse un amico, sostenitore e frequentatore di quel tipo di politici come Vincenzino Culicchia. Tutto ciò veniva scritto e pubblicato il 29 gennaio del 2015. Due giorni dopo, il 31 gennaio 2015, l’onorevole Claudio Fava, sulla sua pagina facebook, scriveva: «Voterò con convinzione Mattarella non perché l’abbia proposto Renzi ma perché persona dalla schiena dritta». E continuava: «Uno dei pochi siciliani capace di attraversare trent’anni di storia politica senza riportare un graffio, una maldicenza, un sospetto di carrierismo. Uno che la sua battaglia contro la mafia l’ha fatta raccogliendo il testimone del fratello passato per le armi da Cosa Nostra 35 anni fa, e che quel testimone ha onorato in tempi in cui i politici del suo e degli altri partiti facevano carriera fingendo di non sapere, di non vedere, di non capire. Una persona perbene che non ha cercato il Quirinale, e che saprà tutelare lo spirito della nostra costituzione senza dover chiedere permesso a nessuno».

Mattarella viene eletto quello stesso giorno, passa un mese e mezzo, siamo al 15 marzo 2015, e il nuovo Presidente della Repubblica, «senza dover chiedere permesso a nessuno», festeggia i settant’anni del quotidiano “La Sicilia” scrivendo una lettera che viene pubblicata in prima pagina sullo stesso quotidiano, provocando qualche sbigottimento. In quella lettera si prodiga in elogi smisurati nei confronti di quel quotidiano che arriva a definire come «energie che non rinunciano all’esercizio della critica, impegnate nell’affermazione del principio di legalità». Ma tutto questo accadeva proprio mentre l’editore e direttore de “La Sicilia”, Mario Ciancio, era indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. E intanto Sergio Mattarella era presidente della repubblica, quindi era anche presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Dunque: non è una telefonata privata per fare gli auguri, è il Presidente del CSM che scrive un encomio pubblico per un editore che in quello stesso momento è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, un encomio che leggeranno tutti, inclusi i magistrati che dovranno giudicare quell’editore. Solo questo è successo, niente di più. Tutto legale, tutto alla luce del sole. Effettivamente non c’è niente di male: il quotidiano “La Sicilia” è sempre talmente attento «all’esercizio della critica» che, tra le altre cose, è rinomato in tutta Italia perché non troppi anni fa ha pubblicato la lettera del figlio di un boss della mafia senza nemmeno accompagnarla con un minimo di commento critico. Ma è famoso per tante altre cose, tra cui anche perché si sarebbe rifiutato di pubblicare i necrologi di vittime della mafia come il commissario di polizia Beppe Montana e anche il giornalista Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, padre proprio dell’onorevole Claudio Fava. Questi fatti non sono di per sé reati penali, ma di certo rendono stridente (se non sprezzante e offensivo) quell’encomio scritto da Sergio Mattarella. Evidentemente però Mattarella non se n’è avveduto, non sapeva niente, non c’ha fatto caso, né lui né il suo ufficio stampa, e va be’.

Ebbene, io pensavo che almeno l’onorevole Claudio Fava se ne avvedesse, speravo che scrivesse qualcosa a riguardo, dato che Claudio Fava ci aveva messo la faccia sull’elezione di Sergio Mattarella… ma nella sua pagina facebook quel giorno non scrisse assolutamente nulla. Il giorno dopo però si fece sentire eccome, indignatissimo! Ce l’aveva con il sindaco di Brescello, un paesino di 5600 abitanti, che aveva detto una cosa a favore di un esponente della ‘ndragheta locale. Ho atteso per oltre un anno che l’onorevole Claudio Fava si pronunciasse sul fatto di un presidente della repubblica che scriveva giudizi a favore di un editore indagato per rapporti esterni con la mafia. Gli ho chiesto anche chiarimenti nella sua pagina Facebook, ma niente. Poi però, più di un anno dopo, siamo arrivati al 4 maggio 2016, lo stesso onorevole Claudio Fava, sempre attento a colpire i potenti quando sgarrano, pretende risposte da Pino Maniaci perché si vantava privatamente al telefono con la sua amica: «Voglio che dica – a me e agli altri che in questi anni hanno messo la loro faccia accanto alla sua – se quelle trascrizioni sono manipolate o se è vero che all’amica del cuore raccontava…» ecc. ecc. ecc.

La morale: Riassumendo, Pino Maniaci deve dare chiarimenti su come parla in privato, su come corteggia una donna, sul linguaggio che usa, sul modo di vivere le sue vicende sentimentali, su come si muove sotto le lenzuola, altrimenti le sue inchieste giornalistiche non valgono più nulla. Scompaia, non è giornalismo, non è antimafia. Ci sono personalità che invece ormai hanno la schiena talmente dritta da non essere più tenute a guardare gli altri in faccia, hanno la super-patente antimafia di intoccabile e inattaccabile e possono anche rigirarla pubblicamente a editori con qualche scheletrino negli armadi. Che c’è di male? Non succede nulla. Non occorrono risposte, non distanze, non prese di posizione. E nemmeno una parola sulla violazione del segreto istruttorio o sulla strategia dello “sputtanamento”. Né su quel sindaco che dice di aver pagato un’estorsione a Maniaci: se davvero un sindaco avesse accettato di pagare il pizzo a un giornalista per farlo tacere, non sarebbe colpevole anche lui? Non è corrotto? Non dovrebbe quantomeno dimettersi? Ma chi se ne frega! Ciò che conta è quello che Maniaci diceva per fare colpo sull’amica del cuore.

Ecco. La mia storia finisce qui. Ma Intanto il tempo e i fatti continuano a scorrere e, mentre TeleJato agonizza lentamente, la Repubblica dell’Antimafia sente il bisogno di ostentare sempre più forte l’irreprensibilità della propria antimafiosità. Concludo con una domanda non mia, è stata posta il 6 aprile 2017 dal giornalista Massimo Bordin durante la sua consueta rassegna stampa mattutina su Radio Radicale. Una risposta a questa domanda potrebbe darla, se lo volesse, lo stesso On. Claudio Fava (lo vorrà?), nella sua qualità di vicepresidente della “Commissione Parlamentare Antimafia”: «…la Commissione Antimafia ora, dopo essersi occupata dei massoni, si occupa degli juventini. Quando arriverà a occuparsi dei mafiosi sarà un passo avanti. Però per intanto si potrebbe segnalare all’autorevole presidente della Commissione qualcosa che solo tre mezzi di informazione hanno proposto: lo scandalo del “palazzo della legalità” a Caltanissetta costruito (e rimasto vuoto) con i soldi della cosiddetta “antimafia imprenditrice”. È uno scandalo scoperto da “Le Iene” e rilanciato da due soli mezzi di informazione: Telejato (non a caso il suo direttore è attualmente sotto processo) e Radio Radicale attraverso Sergio Scandurra; da oggi c’è anche un piccolo corsivo sul “Fatto Quotidiano”. Ma… avremo il bene di vedere la Commissione Antimafia tornare a occuparsi del tema delle misure di prevenzione e di come vengono gestiti quei soldi? Sarebbe sempre troppo tardi».

LA MAFIA OPINABILE.

Bergoglio, Ratzinger e Wojtyla, i tre papi antimafia. Le condanne e gli anatemi dei pontefici nel tempo: una sola voce contro la criminalità organizzata, scrive Orazio La Rocca il 17 settembre 2018 su "Panorama". "Mafiosi, convertitevi! Chi uccide non è cristiano!". "Mafiosi, convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!". Sono i due storici pubblici anatemi contro cosche mafiose e malavita organizzata in Sicilia e altrove lanciati con parole quasi uguali da due papi a poco più di 25 anni di distanza l'uno dall'altro. Il primo è di Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyla, pronunciato in Sicilia il 9 maggio 1993. Il secondo, esternato qualche giorno fa da papa Francesco, l'argentino Jorge Mario Bergoglio, a Palermo nel suo secondo viaggio in Sicilia, dopo quello dell'8 luglio 2013 a Lampedusa. Ma nelle condanne antimafia, Wojtyla e Francesco nel corso dell'ultimo quarto di secolo non sono stati soli. Un analogo anatema antimafia l'ha pronunciato il più grande teologo contemporaneo, il tedesco Benedetto XVI, a Palermo nel 2010.

I tre papi stranieri contro la mafia. Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, vale a dire i 3 papi non italiani - solo un caso? - che si sono sentiti in dovere di correre in Sicilia per dire con una simbolica sola voce "mafiosi, basta! Convertitevi! Cambiate vita! Quello che fate non è cristiano, Dio non è con voi! Dio ha ordinato non uccidere!". Una positiva casualità che, ovviamente, non cancella gli interventi contro guerre, dittature, mafie, malavita, oppressioni, sfruttamento dell'uomo contro l'uomo, fatti anche dai papi del secolo scorso, da Leone XIII a Benedetto XV il papa che disse no alla prima guerra mondiale definendola "inutile strage"; da Pio XI, il papa dell'enciclica contro il nazismo e il comunismo, che si rifiutò di ricevere Hitler nella sua unica visita alla Roma di Mussolini, a Pio XII, condannò le persecuzioni antiebraiche in un messaggio diffuso dalla Radio Vaticana, e salvò migliaia di ebrei nelle cattedrali e nelle chiese di Roma; da Giovanni XXIII, il papa della Paem in Terris, l'enciclica che contribuì a raffreddare le tensioni Usa-Urss; a Paolo VI, il papa che all'Onu gridò: "Mai più la guerra! Mai più la guerra! Svuotate gli arsenali e riempite i granai per sfamare poveri e affamati!.

Dire no ai boss in casa loro. Il merito storico di Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio è, in sostanza, aver affrontato tutti e tre il cancro della mafia a viso aperto sul suo stesso territorio. Giovanni Paolo II lo fa senza averlo programmato in Sicilia nel '93 quando - parlando alla spianata della Valle dei Templi di Agrigento, appoggiato alla croce astile come una sorta di protezione e col dito della mano destra puntato in alto - pronuncia con rabbia e determinazione parole antimafia che hanno segnato la storia in termini di chiarezza e di indiscutibile scelta a favore della legalità, nel tormentato rapporto tra boss e Chiesa. Quella Chiesa troppe volte “usata” dalle cupole mafiose per ostentare “una religiosità falsa e antievangelica”, avverte tra l'altro Wojtyla parlando a braccio. Seguendo poi il suo istinto di antico pastore che lotta per salvare il suo gregge in pericolo ordina "mafiosi convertitevi, verrà un giorno il giudizio Divino! Dio ha detto non uccidere! Basta! Fermatevi! Questa Sicilia non merita tutto questo...pentitevi!...!". Parole inequivocabili che toccarono il cuore della gente siciliana, e non, anche dei diretti interessati, i mafiosi nascosti nelle loro tane o intrufolati tra i pellegrini.

Bombe e morti, le "risposte dei mafiosi. Ma la risposta, purtroppo, non tardò a venire con gli attentati mafiosi alla biblioteca-museo dei Georgofili di Firenze e alla basilica di San Giovanni in Laterano, e a un'altra chiesa rinascimentale sul Palatino. Quando la mafia si sente accerchiata ed è colpita "risponde con la morte" - ha sempre sostenuto in libri e in migliaia di articoli Attilio Bolzoni, firma storica del quotidiano La Repubblica e tra i massimi esperti del fenomeno malavitoso italiano - perchè così "tenta di recuperare il terreno perduto e il dominio sul territorio attraverso la paura e la pressione sulle istituzioni civili e religiose, e sugli uomini". Ma dopo le bombe di luglio, il 15 settembre 1993 a Brancaccio due sicari uccidono don Pino Puglisi, il primo martire di mafia beatificato dalla Chiesa. Anche Benedetto XVI nel suo viaggio a Palermo nel 2010, in occasione del 17esimo anniversario dell'omicidio di don Puglisi, si pronuncia contro mafia e criminalità, appellandosi in particolare ai giovani: "Non abbiate paura di contrastare il male!... Non cedete alle suggestioni della mafia... Strada di morte".

Gli inchini della Madonne ai mafiosi, "scandalo anticristiano". Parole in totale sintonia con quelle pronunciate ancora a Palermo da Francesco che, nel celebrare il 25esimo anniversario del martirio di don Puglisi, rilancia il "mafiosi convertitevi!" di wojtyliana memoria. Ma condanna pure "l'inchino forzato delle statue della Madonna e dei Santi Patroni durante le processioni davanti ai capi mafiosi". Destinatari del monito di Bergoglio anche quei parroci che, per quieto vivere, ignorando la testimonianza di don Puglisi, si rendono complici, sebbene indirettamente, degli inchini delle Madonne davanti alle case dei boss. Deleterie scelte di "pace" sociale a scapito della vera fede che il papa ha bollato come "errate, anticristiane, umilianti per la religione e per i simboli della religiosità popolare". Qualche parroco, in verità, negli ultimi tempi si è opposto interrompendo le processioni e chiamando i carabinieri. Ma se Francesco ha sollevato il problema evidentemente la strada è ancora lunga perchè tutto il clero, siciliano e non, ma anche la società civile, si pongano sulle orme di don Pino Puglisi, come pure di don Giuseppe Diana martire della camorra in Campania, arrivando se necessario a sacrificare la vita per opporsi ai poteri mafiosi. L'argentino Bergoglio lo ha ammonito senza preoccuparsi di invadere campi socio-politici forse non propriamente ecclesiali. A parte i deleteri inchini delle Madonne. Ma è singolare che dai Palazzi delle Istituzioni e dai leader di tutti i partiti politici sono arrivati solo elogi ed apprezzamenti per papa Francesco "pubblico nemico" di mafiosi e delinquenti. Buon segno.

Il 416 bis, quell'articolo che fa tanto discutere, scrivono il 18 settembre 2018 su "la Repubblica". Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli - Link Campus University, relatrice professoressa Daniela Mainenti. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E' questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza.

Mafia Capitale, con la sentenza vince la nostra idea di giornalismo. Davanti ai giudici di primo e secondo grado siamo stati insultati e denigrati, chiamati anche «stampa cialtrona». Abbiamo riportato fatti documentati, e ignorato i messaggi violenti, proseguendo nel nostro lavoro, che è quello di informare, scrive Lirio Abbate il 17 settembre 2018 su "L'Espresso". Da martedì 11 settembre c’è il bollo dei giudici della Corte d’appello: è “mafia Capitale”. L’associazione che ha dominato Roma ha sfruttato il metodo già collaudato da Cosa nostra e ’ndrangheta per pilotare la politica comunale e regionale e la pubblica amministrazione, ha intimidito, minacciato, praticato la violenza. Il “nero” Massimo Carminati è il leader indiscusso di questa organizzazione, con la sua capacità di sfruttare la propria fama di criminale per fare affari con il “rosso” Salvatore Buzzi, anche lui condannato per mafia. Hanno inquinato l’economia e gli appalti della città, mettendosi in tasca soldi pubblici, cioè soldi dei cittadini. Come accade nei classici processi di mafia, gli imprenditori e i commercianti coinvolti nella ragnatela di Carminati e Buzzi hanno fatto scena muta, alcuni che avevano ammesso in fase di indagine le violenze subite hanno ritrattato, altri si sono sentiti male, in aula, mentre erano sullo scranno dei testimoni al solo apparire del “Cecato” dagli schermi collegati con il carcere in cui era detenuto. Qualcuno ha confidato agli investigatori che ha deciso di non parlare per «avere salva la vita». La trascrizione è agli atti. Perché di compari ancora liberi, pronti a tenere in piedi la rete criminale, Carminati ne ha ancora. Lo sa bene chi vive sul territorio all’interno del Grande raccordo anulare. È in carcere, ma solo sentir pronunciare il nome di Massimo Carminati fa ancora paura. Questi aspetti di vita quotidiana non sono facili da riversare negli atti giudiziari destinati ai giudici. Invece è possibile raccontarli, mostrarli, documentarli con il lavoro giornalistico. È il compito che spetta a chi fa il nostro lavoro. Un’opera che i mafiosi temono molto. È quanto ha fatto dal 2012 L’Espresso. «Conoscere per deliberare» era il motto di Luigi Einaudi. E quindi è fondamentale informare, ma anche spiegare, approfondire. Cioè, non occorre solo parlare delle buche nelle strade, ma delle altre voragini che rimangono aperte. In questi anni siamo stati accusati, da qualche difensore, di «aver condizionato i magistrati». Davanti ai giudici di primo e secondo grado, mentre gli imputati annuivano, siamo stati insultati e denigrati, chiamati anche «stampa cialtrona». Abbiamo riportato fatti documentati, e ignorato i messaggi violenti, proseguendo nel nostro lavoro, che è quello di informare. La vergogna però rimane su chi insolentiva nelle aule giudiziarie persone estranee al processo. Fin da subito abbiamo chiarito più volte che la pericolosità di “mafia Capitale” non può essere confrontata con quella delle mafie tradizionali. Ma il codice penale è chiaro. L’associazione di tipo mafioso non è solo quella con centinaia di affiliati, che controlla militarmente il territorio e ricorre all’esplosivo o alla lupara. L’elemento decisivo è il metodo mafioso, la forza di intimidazione del vincolo associativo. Sapere che c’è chi è pronto a usare la violenza, condiziona la volontà, determina le scelte delle persone che ci entrano in contatto. È ciò che è avvenuto a Roma. Mafia Capitale è stata definita “originaria e originale”. Originaria, perché è romana. Gran parte degli imputati sono romani e, comunque, non ci sono né calabresi né siciliani né campani. Non c’è, quindi un collegamento con le mafie classiche. E si può dire originale perché ha caratteri propri, e rispecchia molte delle caratteristiche “romane” della società in cui agisce. È una mafia che non controlla il territorio, non chiede il pizzo ai commercianti, non lascia (quasi mai) morti per strada. E capita che, se non si vede il sangue, si dimentica l’esistenza delle cosche. Succede persino a Palermo, dove da quasi vent’anni gli omicidi riconducibili alla mafia si sono ridotti a pochi casi. Ma non per questo si può dire che Cosa nostra non c’è più, è scomparsa. Si è mimetizzata, ha cambiato pelle, si è resa meno visibile. Non ha più utilizzato le armi. Ha adottato una nuova strategia, più “discreta” per coltivare i propri affari, che, non va mai dimenticato, sono il “core business” di ogni organizzazione mafiosa. E la strategia è stata copiata anche fuori dalla Sicilia. Dunque “mafia Capitale” ha caratteristiche sue proprie. Non è una struttura rigida, anche se è stato identificato un capo, Massimo Carminati, e altri due personaggi con un ruolo di vertice: Riccardo Brugia per l’aspetto “militare”, e Salvatore Buzzi per quello economico, basato sui rapporti con la pubblica amministrazione. Tutti e tre uomini con un passato da detenuti, condannati per reati gravissimi, e poi nuovamente tornati sulla scena della malavita romana. Non c’è un territorio vero e proprio che diventa oggetto di controllo, ma l’associazione possiede lo stesso una grande capacità di intimidazione, e poi sa trovare equilibri e sinergie con gli altri mondi criminali, ma anche economici e istituzionali. Per questo è mafia. E come quelle tradizionali, preferisce sempre più esercitare il suo potere attraverso la corruzione, piuttosto che con la violenza omicida. Che certo accende di più l’attenzione della magistratura, dei media, dell’opinione pubblica. Altra caratteristica di quest’associazione mafiosa è la sua trasversalità. Basta fare riferimento ai trascorsi politici dei protagonisti: Carminati e tutta la sua filiera vengono dall’estrema destra, Buzzi dalla sinistra. Come spiega lo stesso Buzzi a un amico che gli chiede come mai abbia rapporti con un fascista come Carminati: la politica è una cosa, mentre «gli affari sono affari». Un’ultima cosa da non dimenticare. La sentenza della Corte d’appello (sempre aspettando il pronunciamento definitivo della Cassazione) rende giustizia alle vittime del metodo mafioso. Anche a Roma si può denunciare e avere giustizia. Nonostante le relazioni degli imputati con i potenti, questi reati non finiscono più insabbiati nei sotterranei del Palazzo di Giustizia.

Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier», scrive Damiano Aliprandi il 5 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre. «Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?». Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione. In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia. Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002. Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio (e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela. Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?

Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori?

«Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre».

Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto.

«Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa».

Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto.

«Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni».

Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto?

«Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evidenza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?»

Barcellona, le accuse del pentito D'Amico ai magistrati: avvisato Canali. L'ex Pm di Barcellona è indagato a Reggio Calabria per il suo ruolo in due processi e il rapporto con il medico Salvatore Rugolo, scomparso in un misterioso incidente d'auto nel 2008. Tutti i dettagli e le dichiarazioni dell'ex boss di Barcellona oggi pentito, scrive Alessandra Serio, Martedì 2 Ottobre 2018 su Tempo Stretto. “Abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante”. Era il marzo del 2016 e l’ex boss Carmelo D’Amico, deponendo al processo a carico di Enrico Fumia per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, ucciso nella faida interna ai Mazzarroti, nel 2016, così cominciò le sue clamorose rivelazioni sulle “coperture” di cui godeva il clan di Barcellona. Un capitolo oggi al vaglio degli investigatori, quello dei rapporti tra i barcellonesi, le istituzioni e la politica, in parte riversato in un primo atto visibile, l’avviso di garanzia all’ex PM di Barcellona Olindo Canali. Il magistrato è indagato per corruzione in atti giudiziari e ora sarà ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria. D’Amico lo ha accusato insieme ad un altro alto magistrato, dichiarando che Canali avrebbe ricevuto almeno 100 milioni di euro per “aggiustare” alcune posizioni.  “La nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era possibilità che io sarei potuto uscire dal carcere…”, ha detto D’Amico nel 2016 rispondendo in aula alle domande del PM Francesco Massara. Il processo era quello per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 settembre 1993: alla stazione di Barcellona i tre ragazzi di Milazzo erano stati giustiziati perché “sconfinavano” a Barcellona per rubare. Autoaccusandosi del delitto, l’ex capo dell’ala militare di Cosa nostra del Longano ha raccontato di aver fatto arrivare a Canali una parte di quel denaro, quando si occupava del caso come applicato di DDA, insieme ad un altro collega. L’aggiustamento, secondo D’Amico, si sarebbe concretizzato nella ritrattazione della moglie di una delle vittime che prima aveva detto di aver riconosciuto il boss nel gruppo di fuoco, poi ritrattò in aula. E in alcuni passaggi procedurali compiuti da Canali. Il tramite? Sarebbe stato il medico Salvatore Rugolo, genero del boss Giuseppe Gullotti, consulente del Tribunale di Barcellona, morto in un incidente stradale nel 2008: i freni della sua jeep smisero di funzionare mentre tornava da Tripi. L’altro processo per il quale ora si vaglia la posizione di Canali, alla luce delle dichiarazioni di D’Amico, riguarda l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Proprio il Pm di Monza portò a compimento l’imputazione e il processo terminato con la condanna a 30 anni di Gullotti come mandante del delitto. Un verdetto diventato definitivo, ad oggi l’unico che individua un responsabile per quel delitto. Proprio la posizione di Gullotti fu poi al centro di un memoriale scritto da Canali nel quale il PM esprimeva alcune considerazioni personali, mai riversate in alcun atto giudiziario, sulla effettiva responsabilità di Gullotti. Memoriale diventato pubblico e costato un primo procedimento allo stesso Canali. Sul delitto Alfano, D’Amico era stato ascoltato anche al processo sulla trattativa Stato-Mafia: ha raccontato di sapere chi ha ucciso il giornalista, ed aveva lanciato pesanti strali nei confronti di Angelino Alfano e Renato Schifani. Adesso i magistrati calabresi peseranno l’effettiva bontà delle dichiarazioni di D’Amico, che quel giorno del 2016, in Corte d’Assise a Messina, proseguiva così: “La nostra associazione era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria... Noi abbiamo fatto… siamo arrivati anche sin Cassazione a sistemare un processo…un processo molto noto, abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io insieme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo, si Santa Lucia… le dico questo, nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo… comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione”.

Scrive il 2 ottobre 2018 Nuccio Anselmo su Stampa Libera. Corruzione in atti giudiziari in cambio di denaro. Cento milioni di lire la prima volta, una tranche di cinquantamila euro la seconda. Per favorire Cosa nostra barcellonese. Sono veramente devastanti le accuse formalizzate dalla Procura di Reggio Calabria a carico del magistrato Olindo Canali (nella foto Edg durante una pausa del maxiprocesso Mare Nostrum), originario di Monza, per lungo tempo pm a Barcellona Pozzo di Gotto e fulcro di tante indagini antimafia, poi giudice a Milano. L’atto “blindato” di conclusione delle indagini preliminari, siglato dall’aggiunto Gaetano Paci e dal procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, è stato notificato al magistrato e al suo grande accusatore in questa storia, l’ex boss barcellonese e capo dell’ala militare di Cosa nostra, oggi pentito, Carmelo D’Amico. Che non più tardi di due anni fa mentre verbalizzava le sue dichiarazioni o deponeva ai processi, era il 2016, si autoaccusò d’essere il corruttore. E disse di aver pagato due magistrati per far aggiustare un suo processo, in cui rischiava l’ergastolo. Dichiarazioni che all’epoca furono subito trasmesse dalla Procura di Messina ai colleghi reggini, per la competenza ex art. 11 c.p.p.. E oggi, a distanza di due anni, c’è di nuovo traccia di quelle dichiarazioni. Dalle carte emerge anche il concorso nel reato come intermediario, e il “rapporto di assidua frequentazione” che Canali aveva con il medico Salvatore Rugolo, specializzato nel settore lavoro e parecchio conosciuto, nonché figlio di “Don Ciccio” Rugolo, vecchio capomafia barcellonese, e cognato del boss – per lungo tempo capo della famiglia barcellonese – Giuseppe Gullotti, che sposò sua sorella Venera, Salvatore Rugolo è morto a 54 anni in uno ‘strano’ incidente d’auto nell’ottobre del 2008 a bardo della sua jeep nuova di zecca lungo la Provinciale per Tripi. Il suo nome era finito nell’informativa “Tzunami” proprio per la sua frequentazione con Canali. Il quadro tracciato dai magistrati reggini nei due capi d’imputazione è molto dettagliato e scandisce due episodi temporali precisi, sempre relativi all’attività dell’ex pm.

LA PRIMA IPOTESI. La prima ipotesi di corruzione in atti giudiziari – tra il 1997 e il 14 aprile 2000 – riguarda l’attività che Canali svolse in relazione al primo processo per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 novembre 1993. Un caso in cui lavorò come “applicato” alla Procura di Messina. In quella fase storica erano accusati dell’esecuzione Carmelo D’Amico e Salvatore Micale. Secondo quanto scrive l’aggiunto Paci, Canali avrebbe “accettato per sé la promessa e quindi ricevuto la somma di denaro di cento milioni di lire al fine di compiere atti contrati ai propri doveri d’ufficio nell’ambito del suddetto procedimento”. E c’è un passaggio ancora più preciso nel capo d’imputazione, perché la somma sarebbe stata “consegnata in due distinte occasioni”. Sono quattro le condotte individuate dalla Procura di Reggio: il boss D’Amico tramite Rugolo avrebbe indotto la moglie di una delle vittime del triplice omicidio a ritrattare al processo d’assise, nel 1998, quanto aveva dichiarato nel corso delle indagini, e cioè di aver riconosciuto proprio il boss D’Amico durante l’esecuzione tra i killer; l’ex pm Canali non avrebbe proposto entro i termini di scadenza (3 aprile 2000) l’atto di appello contro la sentenza assolutoria di primo grado per D’amico e Micale; avrebbe depositato l’atto di impugnazione il 7 aprile 2000 nonostante vi avesse apposto la data di effettiva scadenza del 3 aprile 2000, e avrebbe poi rinunziato in data 14 aprile 2000 all’impugnazione “per errore di calcolo”; infine Canali avrebbe omesso di avvertire dei vari passaggi l’allora titolare del procedimento, l’ex sostituto della Dda di Messina Gianclaudio Mango, e l’allora capo della Procura, Luigi Croce.

L’ALTRO CASO. L’altro caso di corruzione in atti giudiziari contestato – tra il 2008 e il 2009 – in concorso con Rugolo, D’Amico e il boss Gullotti, vede al centro il maxi processo “Mare Nostrum” e l’indagine per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Sempre secondo il capo d’imputazione l’ex pm Canali avrebbe “accettato per sé la promessa della consegna di denaro di trecentomila euro, della quale riceveva una prima parte di cinquanta mila euro”, sempre da D’Amico. Per fare cosa? In sostanza per cercare di “ammorbidire” la posizione del boss Gullotti scrivendo quel famigerato memoriale che ‘piombò’ letteralmente in aula durante il maxiprocesso “Mare Nostrum”. Memoriale in cui esprimeva forti dubbi sulla colpevolezza di Gullotti per la morte di Alfano, e in cui scriveva che “occorreva chiedere ed ottenere la revisione della sua condanna”.

La domanda di trasferimento era stata trasmessa in tempo, scrive il 21 maggio 2018 EDG su Stampa Libera. Erano infatti stati messi a bando dei posti e il magistrato Olindo Canali, tentato dalla nostalgia, aveva fatto domanda per tornare da giudice al Tribunale di Messina. Ma il Csm non ha avuto neanche il tempo di prendere in considerazione la richiesta e accettarla. Il magistrato Canali, primo in graduatoria in quanto magistrato più anziano, sarebbe potuto tornare molto presto nel distretto giudiziario di Messina, dove ha trascorso tanti anni da magistrato inquirente. Ma all’ultimo momento, non se ne conoscono i motivi, e nei termini previsti dalla legge ha rinunciato revocando la domanda. Il suo sarebbe stato un ritorno che avrebbe fatto rumore dopo le note vicende giudiziarie che lo videro protagonista prima e dopo il trasferimento di sede e il cambio di funzione (da requirente a giudicante) che lui stesso chiese nel 2010 per evitare il procedimento di trasferimento d’ufficio che era stato avviato per motivi di incompatibilità ambientale e funzionale su iniziativa di due consiglieri togati del CSM. Olindo Canali è nato e risiede a Lissone. Specializzato in Criminologia Clinica, Psicologo, ha lavorato come Pubblico Ministero a Monza e dalla primavera del 1992 per tantissimi anni in servizio alla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto; è stato Giudice Penale presso il Tribunale di Milano; ora è Giudice presso la IX sezione del Tribunale di Milano. Ha insegnato Criminologia presso l’Università di Milano. Il giudice non ha mai smesso di tornare periodicamente nella città dello Stretto, soprattutto per le vacanze che trascorre nella sua casa di Torre Faro. Il magistrato prese servizio a Barcellona nella lontana primavera del 1992, proprio l’anno in cui fu istituito il Tribunale della Città del Longano tanto che lo stesso Canali rispose per primo all’appello per il reclutamento di magistrati per gli uffici giudiziari del sud lanciato dall’allora ministro Claudio Martelli. Il magistrato brianzolo dovette abbandonare la Sicilia travolto da inchieste e polemiche. Nel maggio del 2013 infatti Olindo Canali venne assolto in appello con la formula «perché il fatto non sussiste». Una frase che cancellava i due anni di condanna del primo grado. Canali era finito sotto processo con l’accusa di falsa testimonianza con l’aggravante d’aver favorito l’associazione mafiosa barcellonese per una sua testimonianza resa in appello, sul suo memoriale, al maxiprocesso alla mafia barcellonese “Mare Nostrum”, che si tenne a Messina. E in primo grado, nel marzo dello stesso anno il gup di Reggio Calabria Cinzia Barillà lo aveva condannato per questa vicenda a due anni, escludendo la sussistenza dell’aggravante mafiosa. All’epoca l’accusa, il pm Federico Perrone Capano, il magistrato che condusse gli accertamenti insieme al suo capo dell’ufficio, l’ex procuratore di Reggio Giuseppe Pignatone, aveva chiesto una condanna più dura, a 4 anni di reclusione, ritenendo sussistente anche l’aggravante dell’art. 7 della legge n.203/91. Davanti al collegio di secondo grado presieduto dal giudice Giuliana Campagna e composto dalle colleghe Adriana Costabile e Angelina Bandiera, era stato il sostituto procuratore generale Francesco Mollace a rappresentare l’accusa. E aveva chiesto per il collega la conferma della condanna a 2 anni inflitta dal gup Barillà. Poi avevano discusso i difensori del magistrato, gli avvocati Fabrizio Formica e il suo collega di Milano Francesco Arata. Il processo si inserisce in una vicenda molto più ampia, che parla dei veleni sulle due sponde giudiziarie dello Stretto e arriva fino ai retroscena dell’omicidio di Beppe Alfano, il cronista de “La Sicilia” ammazzato dalla mafia nel 1993 a Barcellona, e anche ai mille rivoli giudiziari del maxiprocesso alla mafia tirrenica “Mare Nostrum”, uno dei più elefantiaci, controversi e dilatati procedimenti della storia giudiziaria italiana. Il magistrato Canali era originariamente accusato di falsa testimonianza «con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso denominata Cosa nostra ed in particolare della sua articolazione di Barcellona Pozzo di Gotto, facente capo a Gullotti Giuseppe». La vicenda è quella ormai stranota del memoriale scritto dal magistrato nel lontano 2006 su tutta la sua esperienza barcellonese e delle presunte “duplicazioni” dell’atto, mentre il giorno in cui si sarebbe concretizzata la falsa testimonianza secondo l’accusa iniziale poi caduta è quello della sua deposizione in aula, nel 2009, al maxiprocesso d’appello “Mare Nostrum”, di cui tra l’altro il magistrato fu pubblico ministero in primo grado, applicato per questo alla Distrettuale antimafia di Messina. E si sarebbe concretizzata – sempre secondo l’accusa iniziale -, con una condotta specifica, perché nel corso della testimonianza resa in aula, Canali «negava il vero sostenendo di non aver redatto, nel periodo immediatamente successivo alle festività natalizie 2005, documenti e memoriali, relativi all’omicidio Alfano, diversi ed ulteriori rispetto al file inviato per posta elettronica al giornalista Leonardo Orlando e negava il vero sostenendo di non aver ricevuto confidenze da Beppe Alfano in merito all’omicidio in danno di Giuseppe Iannello (un boss barcellonese, n.d.r.)». Quindi avrebbe negato l’esistenza di più memoriali e le confidenze di Alfano sull’omicidio Iannello. L’ex pm sostenne l’accusa nel corso del processo di primo grado per la morte del cronista de “La Sicilia” Beppe Alfano, ucciso dalla mafia, e proprio con Alfano ebbe una costante frequentazione proprio fino alla mattina di quell’8 gennaio del 1993, il giorno in cui fu ucciso. La deposizione che ha costituito il punto fermo dell’accusa si tenne in due parti nel corso del maxiprocesso d’appello “Mare Nostrum” a capi e gregari della mafia tirrenica, il 6 e il 15 aprile del 2009. E fu necessitata dal fatto che qualche tempo prima nel corso di una precedente udienza alcuni difensori avevano chiesto di mettere agli atti un memoriale pervenuto al loro studio in forma anonima. Solo in un secondo momento Canali riconobbe la paternità del memoriale, e la corte decise di sentirlo in aula, acquisendo il documento agli atti. Proprio su questi fatti l’ex pm Canali fu ascoltato in aula come teste al processo Mori a Palermo dal collega Nino di Matteo. Una lunga deposizione tutti incentrata sull’omicidio Alfano e sulla latitanza del boss etneo Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto poco prima della sua cattura.

Canali indagato: il giudizio della storia, scrive il 2 Ottobre 2018 Lorenzo Baldo su antimafiaduemila.com. “Una perfetta strategia criminale”. Così l’aveva definita Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano, assassinato da Cosa Nostra l’8 gennaio 1993. Con quelle parole l’ex presidente della Commissione antimafia europea aveva commentato nel 2009 l’ammissione del pm Olindo Canali: era lui l’autore di una lettera anonima presentata durante il processo Mare Nostrum. In quella lettera, che è tra le principali basi dell'accusa nell'odierna indagine – nella quale veniva anche screditato l’avvocato Fabio Repici (legale della famiglia Alfano) – veniva esternato il dubbio che la persona condannata al processo per omicidio di Beppe Alfano, in cui Canali era stato il pm, non fosse il responsabile e cioè il boss della mafia barcellonese Pippo Gullotti. “C’è una vittima e si chiama Beppe Alfano – aveva replicato a caldo Sonia Alfano – e ci sono dei carnefici, in particolare il boss Pippo Gullotti. Tentare ora di far passare i carnefici come delle vittime è una perfetta strategia criminale”. Fa un certo effetto rileggere quelle parole dopo aver appreso che Olindo Canali è indagato per corruzione in atti giudiziari con una squallida aggravante: aver favorito Cosa Nostra. Il caso vuole che la notizia dell’indagine sul magistrato brianzolo arrivi proprio nel giorno del decimo anniversario della morte di Adolfo Parmaliana: un uomo giusto stritolato da un sistema di potere legato all’ex magistrato Franco Cassata, amico dello stesso Canali. “Questo tentativo di infangare ancora una volta la memoria di mio padre mi imbarazza molto – aveva sottolineato all’epoca la Alfano – ma continuerò a lottare, ogni giorno che vivrò perché giustizia sia fatta”. Per poi ribadire con forza: “Ho sempre sottolineato il comportamento ambiguo di Canali, che è stato lampante sin dalle prime ore dopo l’uccisione di mio padre, quando venne a dire a me e mia madre che non era stato in grado di proteggerlo. E’ un magistrato, con la toga. Il suo compito dovrebbe essere quello di cercare la verità e di rispettarla quando viene sancita in tutti i gradi di giudizio. Perché non ha parlato prima se le sue affermazioni sono vere? E’ stato lui a raccogliere le dichiarazioni di mio padre, a gestire Bonaceto (l’ex collaboratore di giustizia, Maurizio Bonaceto, le cui dichiarazioni furono decisive nel processo per l’omicidio di Alfano, ndr), a fare il pm nel processo di primo grado...”. Parole che oggi risuonano profetiche. Ripercorrendo la “carriera” di Canali ci accorgiamo che nel 2012 è stato condannato in primo grado per falsa testimonianza, per poi essere assolto in appello e successivamente in Cassazione. Ed è proprio il focus sulla sua attività in Sicilia quello che merita ulteriore attenzione. La vita di Olindo Canali è strettamente legata a Barcellona Pozzo di Gotto (Me), proprio nel periodo in cui il latitante Nitto Santapaola si nasconde in quella città. Durante i primi mesi del ‘93 la voce di Santapaola resta impigliata nelle intercettazioni attivate da Canali, all’epoca sostituto procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, nell’indagine sull’omicidio di Beppe Alfano. Certo è che già verso la fine del ‘92 lo stesso Alfano aveva saputo della presenza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto e l’aveva confidato alla figlia Sonia e a qualche carabiniere. Ma soprattutto l’aveva confidato a quello che riteneva un amico: Olindo Canali. Ed è l’avvocato Repici, in una minuziosa e illuminate ricostruzione, a ricordare che il magistrato lombardo, trapiantato in Sicilia, nel 1984 era stato uditore giudiziario a Milano dell’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio, definito dal pool di Palermo il “braccio operativo del Ros” nella trattativa tra Stato e mafia. Alcuni anni dopo è lo stesso Canali a parlare di quel colloquio con Beppe Alfano in un suo memoriale: “Verso i primi giorni di dicembre... Alfano mi venne a trovare in Ufficio. Come sempre guardingo. Più che mai guardingo. Chiuse la porta e mi disse di avere avuto notizia che Santapaola fosse a Barcellona o nei pressi di Barcellona. Mi disse che mi avrebbe fatto avere notizie più precise … Per qualche giorno, se non ricordo male, non vidi Alfano … Poi ricomparve e mi ribadì ancora la notizia su Santapaola … Tra la prima notizia sulla presenza di Santapaola e la seconda passarono, credo, quattro o cinque giorni. Il sabato prima di Natale … io pranzai a casa Alfano. Non ricordo se quello stesso giorno accompagnandomi dopo il pranzo o il giorno successivo … Alfano mi salutò con quella battuta che ho sempre riferito in ogni sede: che al mio rientro mi avrebbe detto esattamente dove si trovasse Santapaola”. Una volta appreso quel dato Olindo Canali non apre un’indagine, né tanto meno comunica quella preziosa informazione ai colleghi di Messina o di Catania. Decide piuttosto di agire diversamente. Il 21 giugno 2009 è proprio Canali a raccontarlo, senza sapere di essere intercettato dalla Procura di Reggio Calabria, in una telefonata all’ex magistrato Bruno Tinti. Che rimane letteralmente sbigottito da quanto apprende. L’ex pm di Barcellona Pozzo di Gotto gli confida di avere ricevuto da Beppe Alfano la notizia della presenza a Barcellona Pozzo di Gotto del latitante Benedetto Santapaola e di averla girata a un magistrato che si trova fuori ruolo (in quel momento in servizio a Vienna) e cioè Francesco Di Maggio. Evidentemente si tratta di una mera coincidenza per un uomo come Canali. Che è abituato a sminuire fatti e circostanze con una nonchalance degna di un attore consumato. Ma la tragedia che si consuma oggi riguarda piuttosto la banalità del male. Che – a prescindere dalla presunzione di innocenza – può servirsi anche di simili personaggi. Le cui azioni, o omissioni, verranno giudicate in un’aula di giustizia. Nel frattempo resta il giudizio della storia, e il totale disprezzo di chi ha sofferto per causa loro.

Strage di via D'Amelio, perquisizione a casa del cronista che rivelò l'inchiesta sul depistaggio Scarantino. Sequestrato il telefono di Salvo Palazzolo. A marzo l'articolo che diede atto della chiusura dell'indagine su tre poliziotti, scrive il 13 settembre 2018 "La Repubblica". Perquisizione a casa del cronista di Repubblica Salvo Palazzolo, che ha rivelato la chiusura dell'indagine sul depistaggio Scarantino. Su disposizione della procura di Catania, a Palazzolo è stato sequestrato un telefono cellulare ed è in corso una perquisizione della casa del giornalista e un controllo del suo computer personale. Palazzolo è indagato per rivelazione di notizie dopo l'articolo con il quale a marzo diede atto della chiusura dell'indagine sui poliziotti accusati di avere creato ad arte il pentito Vincenzo Scarantino. Una svolta nell'indagine sulla strage di via D'Amelio arrivata sei mesi fa. La procura di Caltanissetta ha chiuso l’indagine sul colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità per tanti anni e si apprestava a chiedere un processo per il dottore Mario Bo, per l'ispettore Fabrizio Mattei e per Michele Ribaudo (all'epoca era agente scelto). Secondo la sentenza del Borsellino quater "soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. "Sconcerto e forte preoccupazione" dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia e dell'Assostampa siciliana per la decisione della Procura di Catania di indagare il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo. "Non si può trattare un giornalista come un criminale - dicono con una nota congiunta Odg Sicilia e Assostampa siciliana -. Agli occhi dei magistrati di Catania Palazzolo è colpevole di avere fatto bene il proprio lavoro, di essersi occupato, con scrupolo e con la serietà che gli è riconosciuta da tutti, della vicenda del depistaggio nelle indagini per la strage di via D'Amelio in cui morirono il giudice Borsellino con i suoi uomini della scorta". "Ciò che viene contestato in particolare al cronista di Repubblica - proseguono Ordine dei giornalisti di Sicilia e Assostampa - è l'avere pubblicato a marzo scorso un articolo con cui informava della chiusura dell'indagine sui poliziotti accusati (tre sono gli indagati) di avere creato ad arte il pentito Scarantino, inducendolo a rendere false dichiarazioni sulla strage che costò la vita al giudice Borsellino. La notizia c'era, il collega, dandola, ha solo fatto il proprio dovere di cronista, cui va riconosciuto, tra l'altro, il diritto alla tutela delle proprie fonti".

Perquisizione a Salvo Palazzolo, la solidarietà del Cdr di Repubblica. La redazione di Repubblica difenderà sempre il diritto-dovere dei giornalisti di raccontare ciò che accade, scrive il 14 settembre 2018 "la Repubblica". La redazione di Repubblica è al fianco di Salvo Palazzolo, collega della redazione palermitana che da anni con coraggio, professionalità e correttezza racconta le più delicate trame di mafia, finito sotto indagine da parte della Procura di Catania solo per aver svolto il suo lavoro di cronista. Fermo restando il rispetto per le prerogative della magistratura, la redazione di Repubblica difenderà sempre il diritto-dovere dei giornalisti di raccontare ciò che accade, proprio come ha fatto Salvo in questa e in tante altre occasioni, e stigmatizza l’utilizzo di strumenti investigativi che violano il diritto alla tutela delle fonti e del segreto professionale. Il Cdr

La perquisizione a casa del cronista Palazzolo, Bonafede affida il caso agli ispettori. Dopo l'indagine sul giornalista di Repubblica Bonafede mobilita l'ufficio Ispettorato: "Faccia i dovuti accertamenti e le relative valutazioni sulla vicenda", scrive il 14 settembre 2018 "La Repubblica". Dopo la perquisizione di ieri a casa del giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo, che si è ritrovato sotto indagine per rivelazione di notizie in seguito all'articolo con il quale a marzo diede atto della chiusura dell'indagine sui poliziotti accusati di avere creato ad arte il pentito Vincenzo Scarantino, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha affidato il caso all'ufficio Ispettorato: "Il ministro - dicono dal ministero - ha interessato l'Ufficio ispettorato perché faccia i dovuti accertamenti e le relative valutazioni sulla vicenda". Sarà poi l'ufficio Ispettorato, dicono dal ministero, a decidere se inviare gli ispettori a Catania. Ieri la procura di Catania ha disposto la perquisizione dell'abitazione di Palazzolo e il sequestro di un cellulare, di un tablet e di tre hard disk. La perquisizione è arrivata a sei mesi dall'articolo di marzo con il quale si raccontava la svolta nell'indagine sulla strage di via D'Amelio. A marzo, infatti, la procura di Caltanissetta ha chiuso l’indagine sul colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità per tanti anni e si apprestava a chiedere un processo per il dottore Mario Bo, per l'ispettore Fabrizio Mattei e per Michele Ribaudo (all'epoca era agente scelto). Secondo la sentenza del Borsellino quater "soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. A Palazzolo viene contestato dalla procura di Catania di aver scritto della chiusura dell'indagine, su Repubblica.it, tre ore e mezza prima che i difensori dei poliziotti ricevessero la notifica ufficiale del provvedimento. Sul caso interviene anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: "Fermi restando l'obbligatorietà dell'azione penale e la possibilità per i magistrati di svolgere tutte le indagini che ritengono utili ed opportune nei confronti di chiunque sia sospettato di aver commesso reati, non posso che auspicare che alla fine di questa triste vicenda a pagare siano eventualmente coloro che hanno tradito lo Stato e non certamente i giornalisti che hanno assolto al loro dovere/diritto di informare i cittadini. Un dovere/diritto che è un elemento fondamentale della democrazia". Il cronista di Repubblica è stato convocato per la settimana prossima dalla commissione regionale antimafia. Dice il presidente, Claudio Fava: "Salvo Palazzolo su quel depistaggio ha scritto cronache accurate e preziose e oggi si trova a pagare il suo scrupolo di giornalista con una perquisizione che riteniamo un atto tardivo ed eccessivo".

Stampa, informazione, rispetto delle leggi: due pesi e due misure? Io sono e sarò sempre dalla parte della Legge e della giustizia e non potrò mai giustificare chi viola il segreto istruttorio mettendo a rischio il buon esito delle indagini e del conseguente processo. Si può fare dell’ottimo giornalismo con le proprie inchieste come hanno fatto molti giornalisti che poi finiscono sotto scorta, e contribuire alla giustizia facendo del sano ed ottimo giornalismo, scrive di Antonello de Gennaro il 14 settembre 2018 su "Il Corriere del Giorno". Leggo le proteste dell’Ordine dei Giornalisti di cui faccio parte, affiancato dal sindacato a cui non sono iscritto non avendone bisogno e mai mi iscriverò, che esprimono solidarietà al collega Salvo Palazzolo della redazione di Palermo del quotidiano LA REPUBBLICA. Secondo il sindacato “le fughe di notizie e le presunte violazioni del segreto istruttorio non possono essere contestate ai cronisti, il cui dovere è quello di pubblicare tutto quello che ha rilevanza per l’opinione pubblica, non certo quello di nascondere le notizie” teoria su cui dissento completamente. E vi spiego il perchè. Innanzitutto perchè nella Legge professionale che regolamenta la nostra professione, e nella legge sulla Stampa, non esiste alcuna norma che ci consenta e legittimi il supposto “diritto sindacale” di violare il segreto istruttorio. La Legge è (ed aggiungo io: deve essere) uguale per tutti. Quindi se esiste un’inchiesta coperta da segreto istruttorio, noi giornalisti abbiamo il dovere di rispettarlo. Altrimenti poi con che coraggio, con che faccia possiamo pretendere di avvalerci sul segreto professionale? Con tali chiamate alle armi per difendere la categoria… perdiamo credibilità, diventiamo ridicoli e facilmente attaccabili dall’opinione pubblica. Chi vi scrive, oltre dieci anni ha subito una perquisizione da parte delle forze dell’ordine. Non per aver violato il segreto istruttorio, ma per scoperchiato cosa accadeva nel mondo dello spettacolo e dell’informazione milanese, con il tacito assenso di Silvio Berlusconi. La notizia della perquisizione venne data addirittura nei titoli di apertura del TG1, TG2 e Tg3.  Sembrava che avessero scoperto la centrale informativa di Bin Laden! Sono stato io infatti con dei miei colleghi (fra cui la buonanima di Aldo De Luca del quotidiano il Messaggero) all’epoca dei fatti a rivelare giornalisticamente sul sito Svanityfair.com cosa accadeva dietro le quinte. Un’ inchiesta da cui è venuta fuori poi l’inchiesta “Vallettopoli” condotta dal pm Henry John Woodcock all’epoca dei fatti in servizio presso la procura di Potenza. Una perquisizione effettuata dagli uomini del G.A.T. (Gruppo Alta Tecnologia) della Guardia di Finanza di Milano, sollecitata, o meglio imposta da un potente ministro della repubblica del Governo Berlusconi ora caduto in disgrazia, su sollecitazione di una giornalista pugliese, di origine brindisina che nonostante fosse sposata con un giornalista del Gruppo Mediaset, era la sua amante, ed infatti di lì poco venne lasciata dal marito. Subito dopo l’ufficiale che comandava il gruppo dei finanzieri a Milano, e gli operanti delle Fiamme Gialle impegnati nella mia perquisizione domiciliare vennero tutti assunti nella “security” informatica di una grande azienda “pubblica” quadruplicando i propri stipendi. Dopo qualche anno (bisogna aver pazienza e fede…) la giornalista traditrice in questione è stata licenziata da un importante gruppo editoriale milanese per cui lavorava ed accompagnata alla porta dalla televisione su cui conduceva un programma patetico. Il ministro è letteralmente scomparso dalla politica ed il suo ufficiale di collegamento con la Guardia di Finanza (che era stato premiato con l’elezione “blindata” a deputato) che aveva di fatto ordinato la mia perquisizione, venne arrestato ed è sparito anch’egli dalla politica. Ma nella mia vicenda personale nè l’Ordine dei Giornalisti nè tantomeno il sindacato dissero una sola parola. Tutti muti ed allineati. Nel caso del collega Palazzolo a cui la procura di Catania contesta di aver "rivelato notizie" nell’articolo con cui a marzo diede atto della chiusura dell’inchiesta sul depistaggio del pentito Vincenzo Scarantino nell’ambito delle indagini sulla strage Borsellino, si schierano Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Associazione Siciliana della Stampa. La mia solidarietà umana va a Palazzolo esclusivamente per il trauma psicologico che si vive a seguito di una perquisizione, con la quale la propria vita viene scandagliata da cima a fondo e data in pasto a sin troppe persone. Ma Palazzolo si è preso un rischio, ben consapevole di prenderlo, violando la Legge. “È in corso in tutta Italia – commenta il sindacato – un attacco durissimo contro la libertà di informazione e contro i cronisti liberi che con il loro lavoro garantiscono ai cittadini il diritto ad essere informati. La perquisizione e il sequestro del telefono, oltre che l’accesso ai dati contenuti nel computer, rappresentano una grave violazione del diritto alla tutela delle fonti e del segreto professionale. Le fughe di notizie e le presunte violazioni del segreto istruttorio non possono essere contestate ai giornalisti, il cui dovere è quello di pubblicare tutto quello che ha rilevanza per l’opinione pubblica, non certo quello di nascondere le notizie”. Teoremi questi che non mi trovano d’accordo.  Non esiste una legge infatti, lo ribadisco, che consenta ad un giornalista di violare il segreto istruttorio. Almeno sino a prova contraria. Il presidente nazionale dell’ Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna (con il quale il sottoscritto ha avuto recentemente un duro scontro dialettico in pubblico presso l’auditorium RAI in occasione di una giornata di aggiornamento professionale) ha dichiarato ieri all’ ANSA quanto segue: “Definire inaccettabile l’ennesima perquisizione a danno di un cronista, nel caso specifico Salvo Palazzolo di Repubblica è il minimo che si possa fare, ma non basta, così come non è sufficiente condividere parola per parola il comunicato della Fnsi e dell’Associazione siciliana della stampa” aggiungendo “Per verificare tutte le iniziative possibili  sarò a Palermo per incontrare Palazzolo il prossimo 25 settembre. Sarà anche l’occasione per parlare ai colleghi della non rinviabile riforma dell’Ordine e dei possibili provvedimenti legislativi a tutela del segreto professionale”. Cosa dire quando un incaricato di pubbliche funzioni, quale è Verna, critica l’operato della magistratura? Preferisco stendere un velo di imbarazzo da giornalista, anche perchè non mi sento rappresentato da chi legittima un reato previsto dal Codice Penale. Io invece sono e sarò sempre dalla parte della Legge e della giustizia e non potrò mai giustificare chi viola il segreto istruttorio mettendo a rischio il buon esito delle indagini e del conseguente processo. Si può fare dell’ottimo giornalismo con le proprie inchieste come hanno fatto molti giornalisti che poi finiscono sotto scorta, e contribuire alla giustizia facendo del sano ed ottimo giornalismo, come ad esempio ha fatto la collega ed amica Federica Angeli della redazione romana del quotidiano LA REPUBBLICA, lo stesso giornale di Palazzolo, senza bisogno di violare il segreto istruttorio, rispettando la Legge. Chi vi scrive ha fatto qualcosa di buono, come ben noto a molti, del sano giornalismo investigativo in Puglia, con il risultato che dopo ben tre avvertimenti con ingenti danni alla mia autovettura, me l’hanno bruciata e poi spedito una busta con un proiettile. Ho subito avuto e continuo ad avere la vicinanza dello Stato attraverso il prefetto di Taranto il dr. Cafagna e la tutela della mia persona attraverso i controlli e la presenza delle Forze dell’Ordine, ho ricevuto solidarietà da Autorità, dalla politica, dalle istituzioni, ma non ho ricevuto una sola parola dall’ Ordine dei Giornalisti. E tantomeno dal sindacato. La FNSI e l’Assostampa di Puglia “proteggono” un mitomane loro iscritto di Taranto che mi sta perseguitando denunciando ripetutamente il falso, ed hanno sempre chiesto (inutilmente!)  la chiusura di questo quotidiano. Ma a processo per diffamazione al momento è finito soltanto Raffaele Lorusso il segretario nazionale della FNSI. Che troverà presto “compagnia”, seguìto a ruota in altro processo dal suo “pupillo” e da sua moglie. Perchè la Legge è e deve essere uguale per tutti. Ecco perchè cari amici e lettori, non stimo minimamente chi pensa di essere al di sopra della Legge soltanto per avere in tasca una tessera di giornalista, che probabilmente non meriterebbe neanche di avere. Nessun grande e bravo giornalista in Italia ha mai avuto bisogno di rivolgersi al sindacato, che purtroppo viene usato solo per fini personali e per fare carriera o ottenere lauti compensi ricoprendo cariche nei consigli di amministrazione dell’istituto di previdenza dei giornalisti, o nella cassa sanitaria. Questa è come dice Marco Travaglio “la stampa munnezza”.

«Fuori dall’antimafia: è un’avvocata…». Nando Dalla Chiesa minaccia di rinunciare alla presidenza del “Comitato tecnico- scientifico” sulle mafie, costituita presso la Regione Lombardia, qualora l’avvocato Zampogna fosse effettivamente incaricata di farne parte. Il motivo: la professionista ha difeso persone condannate per mafia, scrive Errico Novi il 7 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Maria Teresa Zampogna è un avvocato. E ha difeso persone indagate e condannate per reati di mafia. Secondo Nando Dalla Chiesa e il gruppo cinquestelle del Consiglio regionale lombardo, si tratta di requisiti «incompatibili» con la nomina nel Comitato tecnico- scientifico Antimafia della stessa Regione. Ancora una volta, come scrive l’Unione Camere penali in una dura nota (pubblicata integralmente in queste pagine, ndr), ci si dimentica che «gli avvocati hanno il dovere di difendere chiunque si affidi a noi, senza per questo confonderci con il reato che egli ha commesso, eventualmente e come dovrà essere accertato». È la storia del linciaggio della professionista del Foro milanese e responsabile dell’Osservatorio “Doppio binario e Giusto processo” dell’Ucpi. Incarico associativo, quest’ultimo, che non è bastato a far ritenere congrua e opportuna la sua nomina, proposta da Forza Italia. Non è bastato a Nando Dalla Chiesa, professore di Sociologia del crimine della Statale, che nell’organismo avrebbe dovuto ricoprire la carica di presidente ma che venerdì scorso si è detto pronto a rinunciare all’investitura nel caso in cui arrivasse il decreto ufficiale sulla nomina di Zampogna: «Nulla di personale, ho rispetto del suo lavoro, ma si tratta di un organo antimafia, quindi con funzioni diverse», dichiara Dalla Chiesa al Corriere della Sera. La nomina della professionista, sostiene il sociologo, «collide» con la sua storia e quella di suo padre Carlo Alberto. Di fatto, Dalla Chiesa teorizza che i diritti di difesa dovrebbero restare fuori dall’attività di un organismo scientifico per lo studio della mafia. Finora Zampogna non ha annunciato passi indietro, sostenuta dall’Ucpi e dalla Camera penale di Milano. Il suo «linciaggio» – come lo definisce la nota firmata dal presidente del Consiglio delle Camere penali Armando Veneto e dal vertice dell’Ucpi Beniamino Migliucci – deriva da alcuni incarichi professionali assunti in passato: Zampogna ha difeso l’ex manager dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco, condannato a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo e Carmine Vale, figlio di un altro capomafia, don Ciccio. Secondo chi pone il veto, difendere criminali equivale ad esserne di fatto complici, collusi. O quanto meno a guadagnare una patente di inaffidabilità. A nulla vale che la professionista in questione si occupi sul piano scientifico dei fenomeni mafiosi, con il ricordato incarico di responsabile dell’Osservatorio Ucpi, con le pubblicazioni scientifiche sul tema e con la partecipazione a innumerevoli convegni sulla criminalità organizzata al fianco di magistrati del calibro del procuratore di Palermo Franco Lo Voi. Circostanze che non trattengono la presidente della commissione consiliare Antimafia in Regione Lombardia, la cinquestelle Monica Forte dal dichiarare, in un’intervista al Fatto quotidiano di ieri: «Il Comitato tecnicoscientifico è un organo importantissimo per il lavoro della Commissione, i membri che ne fanno parte devono avere comprovata esperienza nel contrasto ai fenomeni criminali e questo non mi pare proprio il caso dell’avvocato Zampogna». In controluce, nelle parole della consigliera, sembra scorgersi la velenosa ironia di chi considera un difensore dei mafioso come un “insider” dei criminali. La Camera penale di Milano ricorda: «Il rapporto tra il difensore e l’assistito non deve risolversi in una sovrapposizione tra le due figure o, ancor peggio, in una completa identificazione delle stesse». Nella stessa nota dei penalisti milanesi si richiama un altro aspetto decisivo: «La Carta costituzionale e l’ordinamento professionale riconoscono una funzione sociale alla figura dell’avvocato che si manifesta non solo nell’ambito del processo, ma anche nello svolgimento di incarichi pubblici che comportino, nei limiti del segreto professionale, la condivisione di competenze specifiche. Non è tollerabile, in uno Stato di diritto democratico, richiamare le esperienze professionali di un difensore per ipotizzare presunte ed inesistenti incompatibilità rispetto ad incarichi per i quali le stesse esperienze possono essere preziose». Inoltre, prosegue la nota, «è altrettanto intollerabile che, in un dibattito politico, chi dovrebbe far rispettare le garanzie costituzionali si dimentichi di principi fondamentali, incrementando, nell’ambito di una politica di populismo giudiziario, i pregiudizi rispetto alla figura del difensore, unico e vero presidio a tutela dei diritti di un ordinamento democratico». A voler assecondare la logica della malizia e del sospetto si potrebbe anche pensare che l’alzata di scudi di Dalla Chiesa sia dovuta proprio al timore che l’avvocato Zampogna, proprio in virtù della sua competenza, possa “mettere a rischio” la prospettiva di lavoro del Comitato tecnico- scientifico. Viene da pensarlo nel leggere quanto la professionista scrisse tre anni fa nel presentare ai colleghi l’Osservatorio Ucpi di cui è responsabile: «Ha compiti di raccordo con tutte le realtà processuali nelle diverse aree geografiche del Paese per evidenziare discrasie e tendenze del sistema in un momento di gravi tensioni nel mondo della giustizia, nel timore di una tendenza restauratrice del processo inquisitorio, soprattutto nei processi delicati come quelli di criminalità organizzata, mafiosa e/ o economica». Obiettivi che, evidentemente, devono restare fuori dalle attività della Regione Lombardia.

La scelta tra diritto e lotta politica, scrive Piero Sansonetti l'8 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Conosco e apprezzo il professor Dalla Chiesa da molto tempo.  Da quando lessi il suo libro, appassionatissimo, “Delitto imperfetto”, scritto un paio d’anni dopo che la mafia aveva ucciso suo padre, il generale Carlo Alberto. Per un lungo periodo lui ha scritto sul giornale per il quale lavoravo, e ci sentivamo spesso. “Delitto imperfetto” mi piacque molto, anche se lo trovai parecchio fazioso. Però non c’è niente di male se un saggista è fazioso, e scrive un libro di denuncia (il problema, casomai, è quando qualche magistrato pensa che pronunciare una requisitoria o scrivere una sentenza sia come buttar giù un libro di denuncia…) Credo che Dalla Chiesa in questi anni si sia fatto trascinare eccessivamente dalla sua foga di combattente antimafia, superando spesso la correttezza politica (nel senso americano dell’espressione). Mi ricordo di aver letto una sua lunga relazione, tempo fa, nella quale usava il termine “calabresi” come sinonimo di ‘ndranghetisti. Non va bene. Lessi una sua dichiarazione di condanna asperrima della riforma del carcere proposta dal ministro Orlando, nella quale sosteneva che la riforma avrebbe mandato liberi un sacco di mafiosi. Era una accusa falsa, ripresa dal alcuni articoli non informati del “Fatto Quotidiano”. Ora la polemica di Nando Dalla Chiesa è contro l’avvocata Zampogna e anche contro l’avvocato Veneto, uno dei più noti penalisti calabresi. Ed è sostenuta da una serie di articoli del “Fatto Quotidiano”, l’ultimo ieri di Gianni Barbacetto (che con Dalla Chiesa ha lavorato molti anni alla redazione di Società Civile). Dicono Dalla Chiesa e Barbacetto, per difendersi dall’accusa di ostilità preconcetta verso gli avvocati: noi non ce l’abbiamo con gli avvocati ma pensiamo che chi ha difeso o difende un mafioso sia incompatibile con un incarico antimafia. Già diversi avvocati (e proprio oggi Migliucci e Petrella sulle pagine del nostro giornale) gli spiegano perché non c’è nessuna incompatibilità. E perché non è legittima nessuna identificazione tra l’avvocato e il suo cliente, e dunque nessun conflitto di interessi tra un avvocato che si è occupato di mafia e un comitato antimafia. Tantomeno c’è incompatibilità tra avvocato e comitato scientifico sulla mafia. Non solo non c’è incompatibilità ma la presenza di un avvocato o di una avvocata che si è occupata di mafia (ovviamente nel suo ruolo di difensore) è un arricchimento, probabilmente indispensabile, perché lo sguardo che ha l’avvocato sul fenomeno mafioso, probabilmente, per certi aspetti, è molto diverso (e forse molto più acuto) di quello che può avere il giornalista, o il magistrato o anche il leader politico. Il magistrato e il giornalista e il politico partono dal principio che trovandosi di fronte a qualcosa che riguarda la mafia la sola cosa da fare è dimostrare il proprio sdegno e la propria lontananza. E che qualunque sforzo di comprensione possa sfociare nella complicità. L’avvocato no. E’ evidente che l’assenza di uno sforzo di comprensione non aiuta a conoscere il fenomeno, e probabilmente non aiuta nemmeno a individuare le strategie per sradicarlo. Ma qui io vorrei porre a Dalla Chiesa un’altra questione: il Diritto. Cos’è, gli chiedo, il contrasto alla mafia? E’ una semplice attività di lotta politica (come potrebbe essere quella per spostare l’età della pensione, o per impedire la realizzazione della Tav, o per la flat tax, o per ottenere o ostacolare il ponte sullo stretto di Messina) o è una questione che chiama in causa prima di tutto il Diritto? Non è una domanda accademica, o ideologica. E’ concretissima. Dalla Chiesa – per quel che io ho capito – considera la lotta alla mafia come un dovere etico che ha prima di tutto un fine, e questo fine supera tutte le altre questioni, e questo fine è la sconfitta della mafia. Il Diritto, per Dalla Chiesa, è un di più. Certamente un’ottima cosa, ma non essenziale nella battaglia. E quindi se il Diritto in alcune circostanze rischia di indebolire la battaglia contro la mafia, va ridimensionato, considerato pleonastico, nesso al margine. La riduzione del diritto può comportare delle conseguenze negative? E’ un costo da mettere nel conto. Ecco, è esattamente questo il punto. E’ una scelta da fare: la mafia si combatte dentro o fuori dallo Stato di Diritto? E’ la grande domanda che si pose Giovanni Falcone, quando – prima e dopo il maxiprocesso, che fu il suo capolavoro – si trovò a dover superare molti ostacoli, e a dover scegliere tra la prosecuzione di un lavoro meticoloso e scientifico, o l’inseguimento di ipotesi, di tesi, di congetture suggestive. Falcone fece la scelta decisiva: scelse il Diritto. E forse proprio per questo oggi tutti lo consideriamo l’uomo che più di ogni altro ha inferto colpi mortali a Cosa Nostra. Un altro pezzo dell’intellettualità e dei professionisti impegnati nella lotta contro la mafia, proprio in quegli anni fecero la scelta opposta. Quella che offusca il diritto, lo mette in secondo piano. Si allontanarono da Falcone. E tra questi intellettuali certamente c’è stato, e c’è, professor Dalla Chiesa. Nasce esattamente da questa sua scelta, molto onesta ma anche molto pericolosa, la sua sottovalutazione del ruolo degli avvocati e la sua idea che la difesa dell’imputato (non del mafioso: dell’imputato…) sia un freno alla ricerca della verità e della giustizia, e non una garanzia. In un tweet che pubblichiamo a pagina 3 il presidente del Cnf Mascherin, rispondendo a Dalla Chiesa, torna a porre la questione dell’avvocato in Costituzione. Cioè la richiesta di una modifica dell’art 111 che permetta di assicurare la piena parità tra difesa e accusa. Già: bisognerebbe partire proprio da qui. In modo da blindare la convinzione che prima viene il Diritto poi la lotta politica. E la ricerca della verità va realizzata in una situazione di assoluto equilibrio. Questo non riguarda solo i magistrati, ma anche noi giornalisti, gli studiosi, i professori che si misuriamo ogni giorno con i problemi del contrasto alla mafia. Proviamo a discutere, e anche a polemizzare tra noi, immaginandoci dentro uno Stato di diritto e non dentro un battaglione che va alla crociata.

Zampogna si arrende: “Sono vittima di un linciaggio”. L’avvocata, attaccata per aver difeso degli imputati accusati per reati di mafia, si è dimessa ieri dal Comitato tecnico scientifico della Commissione antimafia, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 Settembre 2018 su "Il Dubbio". “Sono vittima di un linciaggio mediatico, ignobile quanto gravemente diffamatorio, che ha leso la mia dignità, la mia storia professionale e le mia immagine pubblica”, dichiara l’avvocata milanese Maria Teresa Zampogna rassegnando ieri le dimissioni quale componente del Comitato tecnico scientifico della Commissione antimafia della Regione Lombardia. Nominata lo scorso luglio dal Consiglio regionale della Lombardia, contro di lei si era subito scatenato l’attacco concentrico dei grillini e del Pd. Secondo l’accusa, Zampogna, avvocato penalista e responsabile dell’Osservatorio nazionale sul giusto processo dell’Unione camere penali, nella sua carriera forense aveva difeso degli imputati accusati per reati di mafia. Accusa rivelatasi subito in- fondata in quanto il legale milanese non aveva patrocinato alcun imputato per mafia in nessun processo, ma aveva solo assistito nella fase esecutiva della pena un condannato al 41bis, chiedendo che gli venisse eliminata la video sorveglianza nel bagno. Un semplice procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, peraltro accolto, che comunque era stato sufficiente a renderla “incompatibile” con il ruolo di componente del Comitato tecnico scientifico dell’antimafia lombarda. “La nomina di Zampogna suscita perplessità”, aveva dichiarato a caldo Monica Forte (M5s), presidente della Commissione antimafia regionale. “Una nomina inopportuna”, per David Gentili (Pd), presidente della Commissione antimafia del Comune di Milano. Di inopportunità aveva parlato anche Nando Dalla Chiesa, ex parlamentare del Pd e presidente designato del Comitato tecnico scientifico della predetta Commissione antimafia regionale. Duri attacchi erano poi venuti dal Fatto Quotidiano e dal Corriere della Sera. Secondo il quotidiano di via Solferino, questa nomina “colliderebbe con la storia di Dalla Chiesa e di suo padre Carlo Alberto”. Maria Teresa Zampogna era stata designata dal Gruppo di Forza Italia al Pirellone. Pur non essendo mai stata iscritta al partito, i consiglieri azzurri ne avevano apprezzato il vasto curriculum e alcune sue iniziative in tema di giustizia, come quelle sulla separazione delle carriere dei magistrati. “Non ho voglia di confrontarmi con persone a digiuno delle più elementari regole dei diritto e dei principi costituzionali, sacrificando tempo ed energie alla famiglia e alla professione”, ha aggiunto l’avvocato Zampogna, il cui passo indietro costituisce ora un precedente. Nessuno, infatti, in questi anni ha mai pensato, ad esempio, di escludere dalla Corte costituzionale e dal Consiglio superiore della magistratura avvocati che avevano difeso imputati per reati contro la Pubblica Amministrazione. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana (Lega), avvocato penalista anch’egli, avrebbe espresso vicinanza alla collega, senza prendere posizione apertamente visto il doppio fronte delle alleanze. Se al Pirellone la Lega governa con Forza Italia, a Roma l’alleato di Matteo Salvini è Luigi Di Maio. E con la manovra finanziaria alle porte, non è opportuno andare allo scontro per una Commissione che di fatto non ha alcun potere. Compito della Commissione antimafia regionale è solo quello di elaborare proposte per consentire un più efficace contrasto alle mafie. Sono esclusi poteri di tipo investigativo. L’incarico è a titolo gratuito. Solidarietà all’avvocato Zampogna era stata espressa dal presidente del Cnf Andrea Mascherin: “Nando Dalla Chiesa è in buona fede quando detta l’ostracismo alla collega poiché sconosce, come molti, l’avvocatura come soggetto necessario a comporre la giurisdizione argine democratico a ogni forma di illegalità”. “Un veto che stupisce ed indigna”, aveva dichiarato l’onorevole Pierantonio Zanettin (FI), già membro del Csm e ora componente della Commissione Giustizia di Montecitorio, secondo cui “va contrastata in modo fermo questa deriva giustizialista che, purtroppo, ormai dilaga nel Paese”. “Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, autorevole esponente del M5s, oltre che avvocato, si impegni a contrastare certo populismo giudiziario, inaccettabile nel Paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria”, aveva POI aggiunto il parlamentare azzurro. Ed è di ieri sera la notizia che il capogruppo di Forza Italia al Pirellone Gianluca Comazzi ha chiesto lo scioglimento della Commissione antimafia.

Linciare un’avvocata in nome dell’antimafia è una bella cosa? Scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2018 su "Il Dubbio". I giornali non si sono molto occupati della vicenda dell’avvocata Maria Teresa Zampogna, costretta ad abbandonare un comitato antimafia, in Lombardia, perché riconosciuta colpevole da una specie di tribunale del popolo guidato dal professor Nando Dalla Chiesa – di intelligenza con il nemico. Per nemico, ovviamente, si intende la mafia. Perché colpevole? Per la semplice ragione che, essendo una avvocata, ha assunto, nel corso della sua carriera, la difesa di molti imputati. E alcuni di questi imputati erano accusati di reati di mafia. Il tribunale del popolo, sostenuto da una robusta campagna politica e di stampa – che ha visto congiungersi le forze del “Fatto”, del “Corriere”, di svariati altri giornali, dei sempre occhiuti Cinque Stelle e anche di un pezzo di Pd – ha svolto il seguente ragionamento: se una persona è imputata per un reato mafioso, ovviamente è mafiosa. Se qualcuno assume la sua difesa, evidentemente, in qualche modo è suo complice, o comunque la protegge. Il fatto che questa persona che assume la difesa di un mafioso (il mafioso è mafioso: data la gravità del reato non esiste presunzione di innocenza) sia un avvocato, è un fatto del tutto secondario. E’ ora di smetterla con i privilegi per questa categoria, anzi, questa casta. Del resto è stato un giurista celebre, come il Procuratore Gratteri (che sfiorò l’incarico di ministro della giustizia), a teorizzare che le scrivanie di imputati e avvocati sono troppo strette. Cosa intendeva dire? Che gli avvocati sono degli azzeccagarbugli che spesso hanno poco a che fare con la giustizia e molto coi colpevoli. L’avvocata Maria Teresa Zampogna, che era stata nominata in un comitato tecnico- scientifico della Regione – e aveva accettato di offrire gratuitamente il suo impegno per studiare il fenomeno mafioso e per mettere a disposizione la sua esperienza – si è trovata improvvisamente travolta da una polemica di dimensioni nazionali, e indicata come persona troppo vicina alla mafia per poter far parte di un comitato regionale. Il professor Dalla Chiesa, che presiede questo comitato, aveva lanciato il diktat: o lei o io. Annunciando le proprie dimissioni. L’avvocata Zampogna ha protestato, poi ci ha pensato qualche giorno, assistendo, sgomenta, al linciaggio morale che aveva lei come bersaglio, e infine ha rinunciato all’incarico, mandando tutti a quel paese, seppure in modo molto cortese, con una lettera al Presidente della Regione. Probabilmente non aveva scelta. Il diktat di Dalla Chiesa e poi l’aggressione mediatica l’avevano messa in una condizione nella quale le era impossibile lavorare con serenità. E l’avvocata di professione fa l’avvocata, non la politica, e se partecipa a un comitato partecipa come esperta e conoscitrice del fenomeno, non come “manganellatrice” incaricata di darle e prenderle in nome di qualche bandiera politica o di qualche interesse di parte. Se la si chiama a partecipare ad un’opera di studio, di approfondimento, di ricerca, è pronta a partecipare. Giustamente, se invece la si chiama a una rissa, preferisce declinare. C’è da dire però che la rinuncia dell’avvocata Zampogna, molto ben argomentata nella lunga lettera inviata alla Regione, nella quale ricostruisce nei dettagli tutta la vicenda (che abbiamo raccontato nei giorni scorsi negli articoli di Giovanni M. Jacobazzi) non risolve il problema. Qual è il problema: che in nome di non si sa bene quale etica, o piuttosto di quale cerimonialità antimafiosa, è stato compiuto un gesto di vera e propria sopraffazione. Non solo nei confronti di una persona, che non meritava questa sopraffazione. Ma nei confronti di una idea molto precisa e anche piuttosto “alta”: la necessità del diritto alla difesa. La richiesta di dichiarare inopportuna la presenza di un avvocato all’interno di un comitato antimafia può essere spiegata solamente con una concezione della giustizia che divide la giurisdizione in due campi: quello dentro il quale ci sono i magistrati (Pm e giudici) e quello dove ci sono gli accusati (imputati e difensori). Il campo dei buoni e quello dei reprobi. Capite bene che questa idea è lontana anni luce non solo dal diritto moderno, ma da qualunque concetto di diritto si possa immaginare. Qualunque. E’ un’idea che trasforma la giustizia in un luogo di battaglia politica, dentro il quale i giusti scovano, immobilizzano e poi puniscono i colpevoli o i sospetti. Spazzando via, in nome dell’etica e della propria superiorità morale, ogni ipotesi di democrazia. E’ questa la società verso la quale vogliamo dirigerci? Leggevo, proprio ieri, sul “Fatto Quotidiano” un interessante articolo di Antonio Padellaro, che parlava dell’attuale situazione politica, del governo, della sinistra, e in un momento, forse, di pessimismo (essendo stato il suo giornale tra i promotori di questo governo) richiamava un famosissimo verso di Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiam dirvi: quel che non siamo, quel che non vogliamo». Ha ragione. Non so se citando questo verso Padellaro si sia ricordato di quando è stato scritto: nel 1923, in una poesia intitolata «Non chiederci la parola». Una poesia piuttosto politica, creata giusto pochi mesi dopo la presa del potere di Mussolini. Mentre stava nascendo la dittatura e si stavano affievolendo le libertà. Montale ne prendeva atto, e chiedeva però, seppure con prudenza, di tenere vivo il dissenso. Almeno il dissenso. Ecco, oggi non credo che siamo a quel punto. E tuttavia ci sono dei temi su cui ormai le difese sono state abbandonate. Il dissenso, su quei temi, in politica è sparito. E uno di questi temi è proprio quello del diritto, e dei principi. Chi ha difeso l’avvocata Zampogna, oltre al partito che le aveva proposto l’incarico? Gli stessi avvocati: punto e basta. Tutto il resto dello schieramento politico, governativo e non, se ne è lavato le mani, o addirittura l’ha attaccata. La stampa ha fatto la stessa cosa. Gli intellettuali si sono disinteressati del problema.Così la sopraffazione è stata possibile, e coloro che l’hanno immaginata e poi realizzata non sono stati chiamati a rispondere di niente. Nessuno gli ha chiesto: siete sicuro che la sopraffazione sia un buon metodo per fare antimafia? Io mi rifugio nelle parole di Padellaro ( anche se, ovviamente, le strumentalizzo un po’, perché non si riferivano certo al tema dei diritti calpestati): almeno quel briciolo di dissenso salviamolo. Manteniamo il coraggio di dire quel che non siamo e che non vogliamo. Anche noi giornalisti. Anche gli intellettuali. Anche qualche politico che prima di entrare in Parlamento aveva letto due o tre pagine di Beccaria…

Case, tutti i numeri sulle occupazioni abusive. Il giro di vite voluto dal ministro Salvini porta alla ribalta un fenomeno nel quale si intrecciano emergenza abitativa, ma anche criminalità, scrive Giuseppe Cordasco il 5 settembre 2018 su "Panorama". Al netto delle polemiche politiche e, questa volta sì decisamente ideologiche, che si sono scatenate dopo la decisione del ministro Matteo Salvini di imporre un passo diverso agli sgomberi delle case occupate abusivamente, risulta senz’altro utile qualche dato in più per comprendere un fenomeno forse a volte sottovalutato. E allora cominciamo subito con il dire che non esistono numeri ufficiali su quanti siano gli immobili in Italia occupati abusivamente. Alcune stime, le più attendibili, parlano di circa 50mila abitazioni, concentrate soprattutto nei grandi centri urbani. Non è un caso allora che proprio lo stesso ministro Salvini abbia chiesto ai prefetti di avviare dai prossimi giorni un censimento accurato di tutte le case che risultino a vario titolo occupate in maniera illegale.

La svolta: due sentenze del Tribunale di Roma. Ma quale potrebbe essere stato l’elemento che ha spinto il ministro Salvini a dare il via a un vero e proprio giro di vite sul fenomeno degli immobili occupati abusivamente? La spiegazione potrebbe trovarsi in due sentenze del Tribunale civile di Roma, emesse negli scorsi mesi, che in sostanza hanno condannato lo Stato, e in particolare proprio il ministero dell’Interno guidato dal leader leghista, a risarcire in maniera cospicua, quei proprietari di immobili, che seppur forti di una sentenza esecutiva, non erano stati messi in condizioni, dalle forze dell’ordine, di rientrare legittimante in possesso delle proprie abitazioni. Due sentenze che hanno stabilito un risarcimento valutato nell’ordine di circa 13 euro al mese per metro quadrato occupato abusivamente e non restituito ai legittimi proprietari. Due sentenze ancora, che hanno previsto dunque risarcimenti milionari, visto che si trattava di intere palazzine occupate: il primo di 3 milioni e il secondo addirittura di 28 milioni. Da qui, probabilmente, la decisione del ministro Salvini, di porre la questione all’ordine del giorno, nel timore di vedersi sommerso da ricorsi, che potrebbero costare decine e decine di milioni di euro.

Famiglie, ma anche delinquenti. Ma i primi sgomberi messi in atto in particolare a Roma e a Milano, hanno subito acceso il fuoco delle polemiche, rendendo evidente il fatto che ciascun caso andrebbe preso in esame in maniera singola e specifica. Se è vero infatti che spesso dietro alle occupazioni ci sono fenomeni di vera e propria criminalità, che in alcune zone di periferia delle grandi città esercita anche in questo modo il proprio controllo del territorio, d’altro canto è altrettanto evidente che spesso le occupazioni sono esercitate da nuclei familiari o da migranti senza fissa dimora, che sembrano non avere altra alternativa per darsi un tetto. Una questione che richiama in maniera diretta e immediata il problema dell'emergenza abitativa nei grandi centri urbani, nei quali da anni si costruiscono sempre meno immobili popolari, e i pochi che vengono edificati spesso vengono assegnati con criteri molto discutibili. Un problema che si è posto ad esempio in maniera drammatica con l’ultimo sgombero, in ordine di tempo, eseguito a Sesto San Giovanni, nel quale sono state coinvolte famiglie con bambini. È chiaro che in questi casi, come ha riconosciuto lo stesso Salvini, bisognerà trovare subito soluzioni alternative, coinvolgendo attorno a uno stesso tavolo tutte le istituzioni territoriali, a cominciare dai sindaci.

Sullo sgombero di Roma, io difendo le Forze dell'Ordine. Vi spiego perché, sul caso di Roma, difendo le forze dell'ordine contro le rivolte degli immigrati scrive Andrea Pasini il 4 settembre 2017 su "Panorama". 23 agosto. Molti italiani al mare, altrettanti in montagna, qualcuno a lavoro e la maggioranza immersa nei propri problemi. La televisione lancia le immagini dello sgombero di piazza Indipendenza. Guerriglia urbana. Lo Stato, incarnato dalle Forze dell'Ordine, contro gli immigrati somali ed eritrei. Il finimondo. Il vociare delle istituzioni. Le bombole del gas usate come arieti, mentre volano lanciate dalle finestre del palazzo. Follia. La follia dell'accoglienza in salsa italiana, mista al delirio pentastellato romano. La sublimazione dell'inettitudine politica di una nazione davanti alle emergenze. La scrittrice, Ilaria Bifarini, trova il bandolo della matassa: "Emerge che dietro il caso sgomberi di piazza Indipendenza si nascondeva un racket di affitti in nero su uno stabile abusivamente occupato. Chi gestiva questo malaffare sulla pelle dei disperati? La prima famiglia di immigrati che si era insediata e le pseudo associazioni di accoglienza e per la lotta per la casa! Per quanto ancora il mainstream e la Chiesa riusciranno a ingannare gli italiani con il finto buonismo dell'accoglienza e lo spauracchio del razzismo/fascismo per nascondere il nuovo mercato delle vite umane?". La speculazione su di un diritto che gli italiani si sognano, ormai. Che la vergogna sia con voi. Dalle coop, alle ong senza dimenticare i doppiopetti con ammalianti sorrisi che conducono la politica tricolore. Davide Di Stefano, rappresentante di CasaPound, sul suo profilo Facebook incendia la polemica: "Agli IMMIGRATI, nonostante il lancio di bombole del gas e duri scontri, viene data solidarietà da organismi internazionali come l'Unhcr e da Ong come Medici Senza Frontiere, che accusano la polizia di "grave violenza ingiustificata" - Agli ITALIANI non viene data nessuna solidarietà e l'amministrazione capitolina nemmeno li riceve". Due pesi, due misure. Il marchio "d'infamia", oggi, è rappresentato dalla cittadinanza italiana. Le istituzioni si girano dall'altra parte quando hanno a che fare con noi, con i nostri connazionali. E tutto questo mi disgusta, umiliato un popolo completamente asservito alle logiche del baratro. Non c'è limite al peggio. Porte aperte per gli immigrati e botole spalancate dove far cadere gli italiani. Messi in ginocchio, senza possibilità di difesa. Ernst Junger, ne La capanna nella vigna. Gli anni dell'occupazione 1945-1948, scrisse: "Ci sono situazioni in cui la mera esistenza diventa opporre resistenza". Questo è quello che dobbiamo fare, nessun timore per via del nostro genuino amor Patrio". Ma torniamo agli scontri. Evito di entrare nel merito delle cause e sulle modalità adottate dalla Polizia di Stato, durante la guerriglia urbana scoppiata nella capitale. Ma non posso che esprimere il mio sdegno. L'amaro in bocca lasciatomi dall'aggressione, ingiusta e smisurata, che gli immigrati, mossi dai centri (a)sociali e dalla sinistra, con una spolverata di organizzazione rigorosamente non governativa, hanno perpetrato verso i tutori della legge. Scene da terzo mondo. Scene raccapriccianti. Per i media i buoni sono i "bombaroli", quelli che cavalcano il malcontento popolare riversando il loro odio contro lo Stato. Ci rendono vittime della cultura del piagnisteo. Si lamentano, ma non dobbiamo cadere nella trappola, non serve rispondere piangendo più forte, ma lottare senza fermarsi mai. Il carabiniere Salvino Paternò, colonnello congedatosi nel 2013 dopo 36 anni di servizio in quel di Rieti, in una lettera apparsa sul quotidiano Libero ha difeso l'operato delle Forze dell'Ordine. "Se tirano qualcosa spezzategli un braccio". Una frase, sicuramente, infelice eppure figlia di un momento al limite. I poliziotti, in questo caso, si sono trovati spalle al muro e hanno reagito nel solo modo consono a quel caso, con l'utilizzo della forza. Era lo Stato che doveva reagire, non poteva farsi prendere in giro dall'ultimo arrivato. Una questione di diritto, una questione di spirito, una questione ancestrale. "Se tirano qualcosa spezzategli un braccio", un'esternazione estemporanea, travisata dal contesto reale. Durante queste azioni di guerriglia bisogna mantenere il sangue freddo, ma le parole mentre scorrono, a fiumi, servono a mantenere salda l'azione degli uomini. I comandanti devono tenere alto il morale della propria truppa, evitando di farsi schiacciare psicologicamente. Oppure è la fine, ma non per gli agenti, ma per l'Italia incapace, nelle piazza tricolore, di essere difesa. Per inciso, la frase incriminata, è inserita in questo contesto: "Dottore questi ci stendono, vede quanti sono? Noi siamo solo in dieci e loro hanno bombole di gas e sampietrini. Ragazzi lo dobbiamo fare, ce lo hanno ordinato e non possiamo tirarci indietro. Quando saremo li in mezzo, saremo soli, noi dieci contro loro cento. Il primo obiettivo è portare a casa la nostra pelle e quella del nostro fratello nel casco accanto. Allora se iniziano a lanciare di tutto spezzategli le braccia ma portate la pelle a casa...". Le prospettive cambiano il senso.

Occupare una casa altrui: quando non è reato, scrive il 26 aprile 2017 La Legge per tutti. Occupazione abusiva di immobile: assoluzione se inevitabile e necessaria; come tutelarsi per sfrattare un abusivo. Se, approfittando di una tua momentanea assenza, una persona entra in casa tua, si barrica e non vuole più uscire, l’occupazione abusiva dell’immobile è punita con il codice penale. Ma non sempre. Ci sono dei casi in cui il responsabile non solo la fa franca e viene assolto, ma diventa peraltro assai lungo e difficoltoso mandarlo via. Possibile? Sì, se l’abusivo si trova in condizioni di necessità e di pericolo. A dirlo è una recente sentenza del Tribunale di Genova [Trib. Genova, sent. n. 301/17 del 23.01.2017]. Ma procediamo con ordine e vediamo quando occupare una casa altrui non è reato. Se hai letto la nostra guida Se un abusivo occupa casa mentre sono fuori ti sarai fatto un’idea di quali cavilli burocratici e di quali tempi tecnici siano necessari per “sfrattare” chi si impossessa della tua casa mentre non sei presente. Se anche ti dovessi far assalire dalla voglia di mandarlo via a forza, usando le “cattive maniere”, anche tu commetteresti un reato, quello di «esercizio arbitrario delle proprie ragioni». Dunque non c’è altra soluzione: per mandare via di casa un abusivo devi rispettare le procedure previste dalla legge. Alla luce di ciò, non resta che valersi dei mezzi più forti e dissuasivi per poter liberarsi di chi occupa una casa altrui: la “denuncia penale”. Sporgere la querela da un lato esonera il proprietario dall’iniziativa di portare avanti un processo, con tutti i costi che esso comporta (a farlo sarà infatti la Procura della Repubblica), e dall’altro il rischio dell’intervento della pubblica autorità costituisce un ulteriore stimolo, per l’abusivo, per lasciare l’appartamento. Ma, come abbiamo detto in apertura, non sempre occupare una casa altrui è reato. Ci sono dei casi in cui il responsabile viene assolto perché «in stato di necessità». È chiaro che, in questi casi, il proprietario mantiene sempre il suo diritto di rientrare nel possesso dell’immobile, ma per farlo dovrà accontentarsi della sola procedura civile (descritta in Se qualcuno occupa abusivamente la casa), non potendo invece procedere a sporgere denuncia alle autorità. Insomma una difesa smorzata che non consente, certo, una tutela integrale del diritto di proprietà. Ma vediamo, più nel dettaglio, secondo la sentenza in commento, quando occupare una casa altrui non è reato. Il codice penale [Art. 54] stabilisce che non può essere punito per il reato commesso chi agisce in «stato di necessità», ossia perché costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa norma si può applicare anche nel caso di occupazione della casa altrui che, di norma, è un reato. In molti tribunali ci hanno provato, anche se la Cassazione è particolarmente rigida nel richiedere la prova dello stato di necessità. Tale causa di giustificazione (così è chiamato lo stato di necessità) non può consistere nella semplice assenza di un domicilio e nell’assenza di un reddito per procurarselo. E ciò perché lo stato di necessità è qualcosa di improvviso, urgente e, come tale, transitorio. Invece l’assenza di un tetto è una situazione potenzialmente prolungabile a lungo e, addirittura, per tutta la vita. Ne conseguirebbe che sarebbe lecito espropriare la proprietà privata per tutti coloro che non hanno disponibilità economica. E così non può evidentemente essere. Secondo però la sentenza del tribunale di Genova nel concetto di «danno grave alla persona», idoneo a far scattare lo stato di necessità e quindi l’assoluzione del colpevole che ha occupato la casa altrui, rientra anche la situazione di emergenza abitativa. Il diritto all’abitazione – rimarcano i giudici liguri – fa parte dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione. Resta comunque da dimostrare l’assoluta necessità dell’occupazione abusiva e l’inevitabilità del pericolo che, in caso contrario, deriverebbe per l’occupante e l’urgenza di porre rimedio al suddetto pericolo. Solo in tal caso, infatti, è giustificabile la compressione del diritto dei terzi proprietari. Si pensi a un senza tetto che, in una situazione di gravissima malattia fisica, entri dentro un edificio per ripararsi da una nevicata fuori dalla norma.

Dunque, la semplice occupazione abusiva dell’immobile continua ad essere reato e il proprietario può difendersi sia con i rimedi civili (causa di occupazione senza titolo ed esecuzione forzata dell’obbligo di sgombero), sia con la querela, dando vita al procedimento penale. Tuttavia, se l’occupazione abusiva è avvenuta per evitare un danno grave alla persona tale condotta può essere scriminata.

Il racket dei pallet. Riciclaggio, evasione fiscale, reati ambientali: l’enorme giro d’affari criminale dietro ai bancali di legno, scrive Andrea Sparaciari su it.businessinsider.com il 30 agosto 2018. Riciclaggio di denaro, evasione fiscale, distorsione della concorrenza, crimini ambientali, senza contare i rischi sanitari per merci, lavoratori e consumatori. È il menu di schifezze che costella il racket dei pallet, gli imballaggi in legno usati per il trasporto delle merci in tutto il mondo. Una nicchia per nulla insignificante nel mondo della logistica, in grado di assicurare ampi guadagni sostanzialmente senza rischi, tanto da suscitare gli appetiti di buona parte delle mafie europee. Per capire le dimensione del mercato di riferimento, basta leggere il rapporto “Ecomafia 2016” di Legambiente: “Il mercato nero dei pallet solo in Italia movimenterebbe legalmente qualcosa come 120 milioni di unità all’anno, per un volume d’affari di circa 720 milioni”. Tuttavia è probabile che la stima sia per difetto. Ma come fa a essere “illegale” un pallet? Due sono le possibilità: se è nuovo, è fatto con legno di origine sconosciuta, probabilmente frutto di tagli illegali; se è usato, si tratta di un imballaggio che dopo il primo uso non è stato sottoposto ai trattamenti obbligatori previsti dai marchi EPAL e IPPC/FAO FITOK (gestiti da Conlegno, Consorzio Servizi Legno e Sughero). Inoltre c’è un’ottima possibilità che sia uno dei 110 mila pallet che ogni giorno spariscono nel nulla in Italia. Nel nostro Paese si registrano ogni anno circa 120 milioni di movimentazioni di merci e a ogni movimentazione corrisponde la cessione di un pallet, nuovo o usato. Solo il mercato dell’usato genera un giro d’affari di circa 660 milioni di euro, soldi che vanno a incidere sui costi dei prodotti al consumo e nei bilanci delle aziende. Una voce così importante che spinge molti operatori a rivolgersi fuori dal mercato legale, tanto che di quei 660 milioni si stima che almeno il 30% sia gestito illegalmente. Accanto a società che utilizzano pallet certificati, infatti, esiste una galassia di società fantasma che comprano pallet rubati (non pagando l’Iva) e li rivendono alle aziende a prezzi ribassati del 20/30%. Una concorrenza slealissima, visto che chi rispetta le regole su ogni rivendita di bancale ha un margine di guadagno di circa il 4%. Solo nell’hinterland milanese sono state contate nel 2016 oltre trecento attività illegali di compravendita di bancali in legno. Il giochino funziona più o meno così: i pallet usati vengono acquistati (in nero) da camionisti che, con la connivenza dei magazzinieri, li rubano dai magazzini o dai centri di raccolta e distribuzione. Quindi gli imballaggi vengono rivenduti, previa riparazione, alle grandi imprese produttrici di merci dietro emissione di regolare fattura. Di fatto le imprese di trasporto si ricomprano legalmente i paletts che erano stati loro rubati! Una volta incassata l’imposta sul valore aggiunto (Iva) gli operatori non provvedono a riversarla all’erario, lucrando così sui relativi importi. Un meccanismo semplice, noto agli investigatori già dai primi anni del 2000, quanto la Guardia di Finanza di Treviso scoprì una maxi evasione fiscale da 40 milioni protrattasi tra il 2004 al 2010, che aveva portato alla denuncia di 29 persone e alla confisca di 15 società tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna Polonia e Ungheria. Nel 2012 sempre la Gdf scoperchiò a Cesena un’altra maxi frode fiscale con un giro di fatture false per oltre 12 milioni emesse da 18 società operanti tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Sicilia. Tutte imprese collegate alla criminalità organizzata italiana e straniera. Le ditte acquistavano i pallet rubati in nero i quali poi venivano “regolarizzati” (e quindi venduti a prezzi ribassati sul mercato) mediante un vorticoso giro di società “cartiere” che emettevano fatture false. L’ultimo maxi sequestro risale a marzo 2016 quando sempre la Gdf individua e denuncia 30 persone che nel Lodigiano avevano creato un vero e proprio impero del pallet farlocco. Un giro d’affari da 10 milioni di euro l’anno. Sette società vendevano sia bancali prodotti ex novo, sia usati (ma rubati), tutti fittiziamente marcati EPAL, a metà prezzo. Per nascondere i proventi, gli organizzatori avevano creato 23 cartiere, tutte intestate a prestanome di etnia Rom, che avevano emesso solo nel 2016 fatture per oltre 16 milioni, mentre il commercio di bancali fruttava almeno dieci milioni l’anno e andava avanti dal 2010. Ma le indagini su questa oscura fetta del trasporto sono continue: dal 2015 al 2017 sono stati 53 i controlli della polizia giudiziaria che anno portato a 4 processi conclusi con l’applicazione della pena su richiesta, una sentenza di condanna in primo grado e 54 procedimenti ancora pendenti o in fase di indagini, di cui la metà aperti nel 2017. Solo tra giugno 2015 a dicembre 2016 sono stati 144 gli interventi della Gdf nel comparto della fabbricazione e riparazione di imballaggi per un totale di 2,3 milioni di pallet con marchio contraffatto sequestrati. Sono stati inoltre individuati 27 soggetti completamente sconosciuti al fisco e 34 lavoratori irregolari. E ancora: nel primo semestre 2018 gli interventi delle Fiamme oro sono stati cinque, quasi uno al mese, e hanno portato al sequestro di circa 3.000 pezzi. Come si vede un numero enorme di interventi che però, data l’entità del mercato, rappresentano una goccia in un mare di illegalità. Numeri che tuttavia non generano l’allarme sociale che dovrebbero. Anche perché, oltre ai mancati incassi per lo stato, l’illegalità genera rischi per la salute, sia degli operatori della logistica che dei clienti ultimi delle merci trasportate. Nel capitolato EPAL, infatti, è prevista la sanificazione di ogni bancale dopo l’utilizzo. Quelli venduti in nero la sanificazione non sanno neppure dove sta di casa. Capita così che un bancale possa essere utilizzato per il trasporto di diserbanti e poi lo stesso ospiti frutta e verdura destinate a supermercato. La possibilità di contaminazione così cresce enormemente. Così come enorme è il pericolo che organismi nocivi possano viaggiare da una nazione all’altra. Infine, e non meno importante, i bancali non certificati sono spesso fabbricati con legno proveniente dal mercato nero del disboscamento. 

Dietro ogni grande boss c'è una (grande) donna, scrivono il 30 agosto 2018 su "La Repubblica" di Teresa Santangelo, Lucia Coco e Virginia Ciancio. Cosa Nostra organizza le vite dei mafiosi dalla nascita alla morte ed in questo il ruolo della donna è centrale. E’ importante porsi una domanda: chi insegna la cultura mafiosa ai figli con il padre spesso assente o latitante? No, le donne, le madri, che creano nell’immaginario dei figli una figura di padre esemplare da imitare. È proprio la donna che insegna ai figli che prima di tutto vi è l’organizzazione mafiosa, all’interno della quale vi è ricchezza, potere: la madre inculca quegli ossimorici “valori negativi” a cui il figlio deve ambire. Alle donne sin da piccole, infatti, viene inculcato che è necessario uccidere per vendicare la morte di un padre, un fratello o un marito. Esse si prostrano davanti le loro bare, ma saranno loro stesse ad ordinare una vera e propria vendetta di sangue. Le donne delle famiglie mafiose rappresentano, di fatto, il loro biglietto da visita con l’esterno. Numerosi sono gli esempi nella storia mafiosa; indubbiamente dietro la violenza di Totò Riina, boss di Corleone e latitante dal 1969 al 1993, c’è stata Ninetta Bagarella. Il suo è un caso emblematico: cresciuta in una famiglia mafiosa, sorella di Leoluca Bagarella, killer e mafioso ha contribuito a radicalizzare un modus operandi et cogitandi tale da pensare d’essere sempre nel giusto.  Non ha salvaguardato i figli pur di non tradire la cultura mafiosa, al punto tale che due di essi, uno addirittura alla pena dell’ergastolo, verranno poi condannati per associazione mafiosa. Altra figura femminile rilevante in Cosa Nostra è stata quella di Giusy Vitale, sorella dei potenti boss mafiosi di Partinico Vito e Leonardo, che, dopo il loro arresto, prese il loro posto all’interno dell’organizzazione. Durante la latitanza dei fratelli fece da tramite per le loro relazioni. Nominata capo mandamento, organizzava omicidi e gestiva il denaro della famiglia. È stata, di fatto, la prima donna condannata per il delitto di associazione mafiosa dalla Procura di Palermo. Collaboratrice di giustizia all’età di 33 anni, venne ripudiata dalla sua famiglia; oggi, all’età di 40 anni vive con i figli sotto il programma di protezione testimoni, senza mai rinnegare il suo passato da criminale, ricusando l’appellativo di “pentita” ed affermando che il pentimento non avrebbe riportato in vita le persone da lei uccise. Un’ulteriore figura di donna, certamente “di rottura” rispetto alle due summenzionate è stata sicuramente Rita Atria.  Figlia di Vito e sorella di Nicolò, esponenti della famiglia mafiosa di Partanna, uccisi dal loro stesso clan, nel 1991, all’età di 17 anni, si presentò spontaneamente dinanzi alle autorità giudiziarie, fornendo utili informazioni sugli affari e sulle dinamiche della cosca. Grazie a Paolo Borsellino riesce a collaborare, nonostante il ripudio da parte di madre e sorella rimaste fedeli al sodalizio, considerata da queste una “infame”. Dopo la morte del giudice, qualche giorno dopo quel 19 luglio 1992, Rita Atria si suicidò buttandosi da un balcone di un appartamento a Roma in cui viveva sotto copertura, comunicando, con il suo gesto estremo, che la mafia aveva vinto contro lo Stato, e anche contro di lei. Nessun compaesano partecipò ai funerali della giovane, e anche in questa occasione verrà trattata con disprezzo dalla propria famiglia. Solo Michela Buscemi, prima donna ad aver testimoniato contro la mafia, fu tra coloro che portarono il suo feretro ai funerali ma, successivamente, la stessa, costituitasi parte civile al maxi processo del 1986, revocò la sua costituzione nel processo a seguito una minaccia telefonica. Malgrado, però, le donne, all’interno della famiglia mafiosa, siano l’anello di congiunzione con il latitante e garantiscano l’omertà o siano loro stesse ad organizzare omicidi e gestire il denaro, vi è poca parità tra uomo e donna – sia livello interno che giudiziale -; si è rilevato, infatti, che vengono comminate ad esse pene senza dubbio più lievi. Da vittime a carnefici, infatti, da sottomesse a padrone del proprio destino, il ruolo della donna ha avuto una veloce evoluzione negli ultimi decenni e non solo nel modo in cui la società le vede, ma anche e soprattutto in termini di diritti, legge e sociologia. Per lungo tempo le teorie criminologiche hanno preso in considerazione fattori sociali, biologici e personali, escludendo la differenziazione di genere e conseguentemente non concependo la figura della “donna criminale”. Secondo questa vecchia prospettiva le donne erano considerate biologicamente e psicologicamente inferiori, paragonate in un certo senso ai bambini. Per questo motivo la devianza femminile non era considerata come un atto cosciente perché si pensava che le donne non fossero capaci di compiere atti o pensieri criminosi volontariamente, bensì che questi derivassero da una malattia mentale o addirittura possessione. Caratteristiche come l’aggressività e la violenza giudicate prettamente maschili, non affini alla figura femminile che veniva perciò esclusa dalle indagini di polizia. La partecipazione delle donne all’interno delle organizzazioni mafiose è così sempre stata ambigua. Sulla base di questo errato assunto, le donne all’interno del gruppo criminale sono state idealizzate come “vittime inconsapevoli”, sottomesse e servili, ciecamente obbedienti al proprio uomo. Solo da pochi anni la recente criminologia ha iniziato a vedere le figure delle donne come soggetti in grado di delinquere, superando l’antico dogma di donna moglie e madre. Al contrario, le donne, all’interno delle organizzazioni mafiose, sono state in grado di agire indisturbate per molti anni, traendo vantaggio dal modo in cui la società le vedeva. Di conseguenza, nei procedimenti penali, almeno fino agli anni '90, non fu contestata la partecipazione dell'associazione mafiosa o della collusione, ma la possibilità di favoreggiamento di conseguenza che, in presenza di un rapporto familiare, stava operando la causa di punibilità prevista dall'art. 384 c.p. Emblematica è la sentenza emessa nel maggio 1983 dal Tribunale Penale di Palermo che non dispose le misure personali e patrimoniali contro Francesca Citarda, moglie e figlia di due boss, nonostante siano state riscontrate prove circostanziali, incluso il riciclaggio di denaro. Questa sentenza ha sollevato le organizzazioni femminili, perché stereotipi culturali e sentenze sottolineavano la condizione di sottomissione della moglie a suo marito, così come la condizione di ignoranza e inferiorità culturale, per escludere definitivamente la consapevolezza, in relazione alla natura illecita delle operazioni finanziarie effettuate, sebbene le fossero state date merci, società o altri beni e, nonostante la legge Rognoni-La Torre, permettendole di impadronirsi dei beni della mafia, estendendo le indagini anche alla famiglia. Al contrario, al giorno d'oggi, le donne hanno iniziato a essere davvero coinvolte in un ruolo da protagoniste. Quando il boss (padre, marito, fratello che sia) è in prigione, le donne in effetti giocano un ruolo dominante e lo sostituiscono in tutto e per tutto. Di estremo interesse processual-penalistico, sottolineando come la Procura abbia compiuto un’evoluzione ed un’apertura nei confronti delle donne e del loro ruolo all’interno delle organizzazioni mafiose, il dato secondo cui soltanto nel 1996 venne applicato per la prima volta il regime del carcere duro disciplinato dall’art. 41 bis del c.p.p a Maria Filippa Messina. In Italia, poi, la prima donna condannata per reati di mafia è stata Anna Mazza, a capo della Camorra per quasi vent’anni. Mentre la prima donna siciliana condannata per appartenenza a Cosa Nostra è stata invece Maria Catena Cammarata soltanto nel 1998. Le risultanze processuali hanno quindi svelato profili criminali assai strutturati con curriculum pieni di accuse tra le più gravi quali omicidio, tentato omicidio, estorsione ed associazione mafiosa. Donne sempre più frequentemente sottoposte al 41 bis come Nella Serpa, una vera e propria donna boss, capo cosca della ‘ndrangheta di Paola, Cosenza. Per non parlare di figure intimidatorie e violente di madri dell’area barese, come testimoniato dalle sequenze televisive della recente aggressione alla giornalista RAI Maria Grazia Mazzola. Dunque si è finalmente prospettata l’applicazione del regime del 41 bis anche per le donne mafiose.   Come è noto, il regime di carcere duro è fondato sulla necessità di isolamento dei detenuti con l’esterno onde evitare qualsiasi rapporto con altri esponenti mafiosi. Essi vivono in spazi ridottissimi, avendo a disposizione una sola ora d’aria giornaliera ed un colloquio al mese concesso con la famiglia. C’è, però, chi non ce l’ha fatta a resistere in queste condizioni, come nel carcere delle Costarelle, l’Aquila, dove la detenuta Diana Blefari, non riuscendo a sopravvivere a tali restrizioni, si suicidò.  Qui le detenute vivono in condizioni estreme e in celle dalle dimensioni molto ridotte.  Ecco che, a 25 anni dall’introduzione nel nostro ordinamento del regime di carcere duro della Legge 26 luglio 1975 n. 354, interviene la circolare n. 3676/6126 diramata il 2 Ottobre u.s. dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ai Provveditori Regionali e ai Direttori degli Istituti penitenziari. Tale circolare regolamenta la detenzione speciale affinché si garantisca l’uniformità di applicazione, evitando forme di arbitrio di carattere afflittivo. Inoltre, come recita il testo, si definiscono “le modalità di contatto dei detenuti e degli internati sottoposti al regime tra loro e con la comunità esterna, con particolare riferimento ai colloqui con i minori; al dovere in capo al Direttore dell’istituto di rispondere entro termini ragionevoli alle istanze dei detenuti; la limitazione delle forme invasive di controllo dei detenuti ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza; la possibilità di tenere all’interno della camera detentiva libri ed altri oggetti utili all’attività di studio e formazione; la possibilità di custodire effetti personali di vario genere, anche allo scopo di favorire l’affettività dei detenuti ed il loro contatto con i familiari”. Sicuramente una normativa più giusta, in attesa della riforma del sistema penitenziario, che si avvicini di più alla trasparenza e guardi al rispetto dei diritti umani.

Via D'Amelio, i boss accusati dal falso pentito chiedono i danni allo Stato. I condannati per la strage dopo il depistaggio Scarantino presentano il conto allo Stato: “Dateci un anticipo di un milione", scrive Salvo Palazzolo il 29 agosto 2018 su "La Repubblica". I mafiosi accusati ingiustamente per la strage di via D’Amelio presentano il conto allo Stato. Un milione di euro, questa la somma che hanno chiesto come «provvisionale», ovvero come anticipo sul risarcimento complessivo, costituendosi parte civile nell’udienza preliminare che inizierà il 20 settembre al tribunale di Caltanissetta. Imputati sono il questore Mario Bo, gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, gli investigatori del gruppo “Falcone-Borsellino” che secondo la procura nissena avrebbero costruito ad arte il falso pentito Scarantino. E dopo la costituzione in udienza, i boss hanno anche chiesto tramite i loro legali che vengano citati come «responsabili civili» la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno. Il gip Francesco Lauricella ha accolto l’istanza. Sono già partite le convocazioni per Palazzo Chigi e per il Viminale, che dovranno presentarsi in tribunale tramite l’Avvocatura dello Stato. Avvocatura che sarà presente in aula anche in rappresentanza del ministero della Giustizia, ma questa volta nella veste di «parte offesa». Sono parti civili Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino. Non si sono invece costituiti Salvatore Profeta e Giuseppe Urso, di recente riarrestati per mafia. «L’udienza preliminare che si celebrerà è un primo importante passaggio — dice l’avvocata Rosalba Di Gregorio, che assiste le parti civili con i colleghi Giuseppe Scozzola e Giuseppe D’Acquì — ma come dice la sentenza del Borsellino quater, dietro Scarantino non c’è stato un mero errore giudiziario, bisogna piuttosto scoprire le ragioni del depistaggio». Alcuni dei fatti raccontati da Scarantino sono infatti davvero avvenuti, solo che i protagonisti erano diversi. «Chi ha suggerito ai suggeritori?», si chiedono i giudici del Borsellino quater, ipotizzando manovre oscure dietro l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, che è deceduto nel 2002. Dice l’avvocato Nino Caleca, che assiste il dottore Bo: «La presenza del responsabile civile è un atto dovuto da parte di chi ritiene di aver subito un danno. Ma anche un atto dovuto da parte delle istituzioni che devono tutelare i propri uomini». Caleca ricorda che già un altro gip, a Caltanissetta, si è pronunciato su alcuni funzionari del gruppo “Falcone Borsellino”, fra cui Mario Bo: «E quel giudice ha ritenuto totalmente innocenti i funzionari di polizia». Si prevede già un processo parecchio movimentato.

Strage Borsellino, i boss accusati da Scarantino chiedono i danni allo Stato. Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare del processo al questore Mario Bo, agli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, cioè i poliziotti che secondo la procura di Caltanissetta hanno diretto le false dichiarazioni di Scarantino: per questo motivo sono accusati di calunnia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 29 agosto 2018. Un milione di euro come provvisionale, cioè l’anticipo sul risarcimento complessivo. I boss accusati dal falso pentito Vincenzo Scarantino di essere colpevoli della strage di via d’Amelio chiedono i danni allo Stato. Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare del processo al questore Mario Bo, agli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, cioè i poliziotti che secondo la procura di Caltanissetta hanno diretto le false dichiarazioni di Scarantino: per questo motivo sono accusati di calunnia. Il procedimento – come racconta l’edizione palermitana di Repubblica – comincerà il 20 settembre prossimo al tribunale nisseno e i boss anche citato come “responsabili civili” la presidenza del consiglio e il ministero dell’Interno: istanza accolta dal gip Francesco Lauricella. “L’udienza preliminare che si celebrerà è un primo importante passaggio ma come dice la sentenza del Borsellino quater, dietro Scarantino non c’è stato un mero errore giudiziario, bisogna piuttosto scoprire le ragioni del depistaggi”, dice a Repubblica l’avvocata Rosalba Di Gregorio, che insieme ai colleghi Giuseppe Scozzola e Giuseppe D’Acquì rappresenta le parti civili “La presenza del responsabile civile è un atto dovuto da parte di chi ritiene di aver subito un danno. Ma anche un atto dovuto da parte delle istituzioni che devono tutelare i propri uomini”, controreplica l’avvocato Nino Caleca, legale di Mario Bo, indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione. Bo avrebbe “diretto” le operazioni di condizionamento del falso pentito Scarantino, mentre Mattei e Ribaudo – che ne curavano la sicurezza – i pm contestano di averlo imbeccato “studiando” insieme a lui le dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere nel primo dei processi sulla strage per evitargli incongruenze e di averlo indotto a non ritrattare le menzogne già affermate. Non tutte le persone condannate sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e poi assolte nel processo di revisione si sono costituite parte civile. Sono rimaste fuori dal processo, infatti, Salvatore Profeta e Giuseppe Urso: sono entrambi nuovamente finiti in carcere per fatti di mafia. Quello contro i poliziotti è solo l’ultimo troncone d’indagine di una storia giudiziaria infinita. Nell’aprile del 2017 la corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, fa condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici dichiararono estinto per prescrizione il reato contestato a Scarantino pure lui imputato di calunnia. Resta ancora oscuro, però, almeno il movente del depistaggio. Solo due anni fa i pm sostennero di non avere elementi idonei per sostenere il giudizio a carico di Bo e di due altri funzionari Salvo La Barbera e Vincenzo Ricciardi e il caso venne chiuso. Dopo l’archiviazione le indagini, però, sono ripartite e si sono arricchite di nuove dichiarazioni di Scarantino e della moglie. Entrambi hanno raccontato le pressioni e le violenze subite dal falso pentito da parte dei poliziotti che pretendevano confermasse le loro versioni. Nel nuovo fascicolo è finita anche parte dell’attività istruttoria svolta nel corso dell’ultimo processo per la strage in cui Bo venne sentito come teste non potendosi più avvalere, dopo la archiviazione della sua posizione, della facoltà di non rispondere. Nelle motivazioni del quarto processo per la strage Borsellino i giudici della corte d’Assise hanno scritto che quello sulla strage di via d’Amelio è stato “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”, scrive la corte quando parla di “soggetti inseriti nei suoi apparati” che indussero Scarantino a rendere false dichiarazioni. Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”.

«Così il sistema Saguto spolpava le aziende e arricchiva gli amici». Gli stipendi d’oro degli amministratori nominati dall’allora presidente delle misure prevenzione, scrive il 18 Agosto 2018 "Il Dubbio". Quella che è segue è la testimonianza portata da Vincenzo Mogavero all’assemblea del Partito radicale svolta a Capo d’Orlando lo scorso 30 luglio. Mogavero è tuttora dirigente di un’azienda che negli anni scorsi era stata indebitamente posta sotto sequestro per presunti legami con la mafia del suo proprietario, legami di cui un processo penale ha poi svelato l’insussistenza. Mi chiamo Vincenzo Mogavero e sono il responsabile del personale della “Abbazia Santa Anastasia”. L’azienda ha sede a Castelbuono, in Provincia di Palermo, e svolge due attività: quella vinicola e quella di ricezione alberghiera nel contesto di un agriturismo a cinque stelle. Dal 2001 al 2008, la cantina è stata dotata di moderne attrezzature per la produzione di vini biologici e di alta qualità, mentre l’esistente antico monastero dei benedettini, con relativa chiesa per il culto, è stato trasformato in un resort di 29 camere dotato di sala ristorazione, sala conferenza e piscina. Nel giugno del 2010 il proprietario, il signor Francesco Lena, è stato arrestato con l’infamante accusa di mafia. Contestualmente, l’azienda è stata posta sotto sequestro preventivo penale ed è stato nominato un amministratore giudiziario che, sin da subito, ne accresciuto vertiginosamente i costi. Se prima la gestione era condotta dal proprietario, dai due figli, dagli impiegati, da un commercialista e da un consulente del lavoro, l’amministrazione giudiziaria ha costituito un Consiglio di Amministrazione formato da ben tre persone che hanno percepito un corrispettivo mensile di 9.000 euro ciascuno. I componenti del Consiglio di Amministrazione, in mancanza di liquidità, pur di pagarsi le parcelle, hanno svenduto a un importo di 20mila euro un mezzo aziendale che aveva un valore di 90mila euro. Il figlio del signor Lena è stato allontanato dall’azienda e, al suo posto, è stato assunto il parente di uno dei membri del Consiglio di Amministrazione che ha fatto “crollare” le vendite. Nel novembre del 2011 il signor Lena è stato assolto e il Consiglio di Amministrazione è decaduto. Tuttavia, per effetto del sequestro di prevenzione nel frattempo disposto dal Tribunale di Palermo, sezione Misure di prevenzione, allora presieduto dalla dottoressa Silvana Saguto, è stato nominato un nuovo amministratore giudiziario, il dottor Scimeca, che ha inaugurato nei confronti di tutti i dipendenti un vero e proprio regime del terrore. Scimeca ha cercato di estorcere da me dichiarazioni su inesistenti atti illeciti compiuti da Lena in seno all’azienda, finendo col notificarmi una contestazione disciplinare, all’evidente scopo di licenziarmi. “Quali intrecci devo riferire?”, rispondevo. Replicavo che in azienda non si era mai svolto lavoro in nero; che l’azienda rispettava tutte le norme in materia di sicurezza; che possedeva tutte le autorizzazioni indispensabili per esercitare una attività avviata con risorse economiche tracciate nei conti correnti bancari. L’amministratore giudiziario, appena insediatosi, assunse un coadiutore che, senza alcuna esperienza, organizzava e gestiva l’attività con l’autorità di un padrone. Fu assunto anche un agronomo che, a differenza del suo predecessore – il quale percepiva emolumenti non superiori 12mila euro annui, spese incluse – incassava 29mila euro all’anno, oltre al vitto ed all’uso dei mezzi aziendali. Lo stesso ha arrecato un grave danno alle colture. Non eseguendo sui vigneti le lavorazioni necessarie, ha dimezzato la produzione. Ciononostante, gli veniva corrisposto un “premio di produzione” di 12mila euro. Venne assunto anche un soggetto che avrebbe dovuto occuparsi della vendita del vino, cui fu corrisposto uno stipendio di 28mila e 800 euro. Quest’ultimo si dimostrò da subito incompetente: banchettava e ospitava i suoi amici a spese dell’azienda. Venne assunto inoltre un “esperto del turismo” con uno stipendio di 15mila e 600 euro che si recava in azienda non più di una volta a settimana portando con sé, alla stessa stregua del collega responsabile delle vendite, amici che mangiavano a spese della azienda. Oltre all’assunzione di figure professionali non adeguate, l’amministrazione giudiziaria ha messo in atto scelte gestionali antieconomiche che vanno dalla produzione di grappa (mai finita né commercializzata) alla creazione di altre linee di vino e di spumanti, noncurante delle reali esigenze di mercato e della difficoltà di immissione dei prodotti nei vari segmenti commerciali. Il signor Lena adesso si ritrova tra le mani una serie di prodotti estranei alla linea storica aziendale. A dicembre del 2016 il nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, ha revocato l’incarico al dottor Scimeca che, come si evince da alcune intercettazioni telefoniche, aveva ordito insieme alla Saguto una “truffetta” per fare fallire le società del signor Lena. A gennaio del 2017 si è insediato un altro amministratore giudiziario con il compito di verificare l’operato del suo predecessore. A maggio del 2018, dopo otto anni di processo, ciò che rimane dell’azienda è stato riconsegnato al signor Lena, a seguito della revoca del sequestro disposta dal nuovo collegio della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo.

SALVINI-SAVIANO ED I SOLITI MALAVITOSI. Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Tolta la scorta a Ingroia Di Matteo: "È in pericolo", scrive Chiara Sarra, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". L'ex pm - e ora politico a tutti gli effetti - Antonio Ingroia non ha più la scorta da maggio. Lo ha deciso la prefettura di Roma "d'intesa con l'Ucis, l'Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale", secondo cui per l'ex magistrato che aveva avviato le indagini sulla trattativa Stato-mafia, non esiste più "una concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce". Ad annunciarlo è stato il magistrato Nino Di Matteo in una manifestazione pubblica a Milano. "Preoccupa la revoca della scorta a un ex magistrato che si è esposto così tanto per la ricerca della verità", ha detto il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, "I poteri criminali non dimenticano facilmente. Ingroia è un uomo coraggioso che ha combattuto a schiena dritta per le istituzioni. L'incarnazione della magistratura a cui ho sempre aspirato. Togliergli la protezione fa inorridire. Cosa Nostra non dimentica". L'ex magistrato - ricorda il Fatto Quotidiano - "aveva la scorta dal 1991, quando lavorava a fianco di Borsellino, dunque da 27 anni. Nel tempo è più volte cambiata l'intensità della protezione, passando dal secondo al quarto livello di rischio. Negli ultimi anni si era ridotta a soli due uomini che lo scortavano però in tutti i suoi spostamenti".

Salvini toglie la scorta a Saviano? Scrive maicolengel su "Butac" il 20/06/2018. No, Matteo Salvini non ha tolto un bel niente, il post che circola online è un falso post vero di Matteo Salvini, ma di quando non ricopriva alcuna carica ad agosto 2017. Ed evidentemente all’epoca il nostro Ministro dell’Interno (o il suo social media manager) non avevano ben chiaro come funzionassero le regole sulla scorta. Condiviso da blog e blogghettini anonimi che godono a seminare disinformazione sul web italiano, tanto sanno benissimo che di gente che ci cascherà ne troveranno sicuramente. E quando non ci cascano diventa comunque un ottimo motivo per far sì che i supporter del protagonista sfruttino la notizia per lamentarsi della bufala che circola nei confronti del loro beniamino. Anche volendo non si può. Capiamoci, Matteo Salvini, pur essendo il nuovo ministro dell’Interno, secondo le regole attualmente in vigore, non può fare quanto riportato nel post fasullo.

Anche se volesse. La scorta viene assegnata non su richiesta, ma solo dopo che la magistratura (come fanno notare nei commenti e come avevo spiegato qualche giorno fa) il tutto dipende dall’UCIS che come riportavo: …sulla base delle normali attività di indagine e su particolari segnalazioni da parte delle forze di polizia, un prefetto può segnalare all’UCIS che Tizio ha bisogno della scorta. Nella segnalazione spiega in base a quali analisi e indagini si è arrivati alla conclusione che quella persona possa essere a rischio. L’UCIS esamina la richiesta e sulla base di altri accertamenti dispone che sia assegnata una scorta, stabilendo inoltre con quale modalità (numero di agenti, mezzi a disposizione e via discorrendo). Quindi non è la persona ritenuta a rischio a dotarsi di una scorta, l’assegnazione compete all’UCIS. Se un prefetto ha ritenuto che sia una manovra necessaria per tutelare un cittadino verso cui sono state fatte minacce ritenute credibili (poco conta che lui la scorta la voglia o meno) si muove l’UCIS. La prefettura può decidere di togliere la scorta a Saviano (e chiunque altro ne faccia uso) solo quando le condizioni di pericolo cessano, o quando un’analisi dei fatti ritiene siano cessate. Non è difficile, e chi in queste storie ci casca con entrambi i piedi è qualcuno che ignora come verificare i fatti, ma anche un personaggio totalmente privo del minimo spirito critico.

Mancanza di spirito critico. È un problema serio quello del non capire. Serio per davvero.  Io non amo i politici italiani, non ce ne è uno che mi stia simpatico, eppure vengo via via accusato di essere pro questo o quest’altro da lettori che non sanno usare nemmeno un motore di ricerca. È frustrante. È grave anche vedere quelli che danno loro retta, perché sono per lo più persone ignoranti, nel senso che ignorano le basi del fact-checking. Non capiscono, non si rendono conto. È deprimente ed è un problema serio.

Il debunking non serve. Qualcuno qualche tempo fa diceva che il debunking non serve, fece uno studio in merito, poi ne fece un altro. Tutto materiale interessante da leggere, peccato che poi non si sia mai arrivati a un punto, il debunking non serve, e quindi? Lasciamo questa gente nell’ignoranza in balia di soggetti come il caro lettore? Ho paura della risposta, perché quello che vedo sui social ma anche dal vivo è un Paese che va sempre peggio. Ciaone…

La mafia e l’ndrangheta fanno schifo e Matteo Salvini è l’uomo giusto per contrastarle concretamente, scrive il 22 giugno 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". La mafia uccide solo d’estate è un fortunato film realizzato da Pierfrancesco Diliberto, più noto come Pif. Il caldo alle porte, l’afa e l’umidità di un solleone che colpisce tutta la penisola. Matteo Salvini è a Roma. Sul sito dell’Ansa si legge: “Sono onorato di essere qui, felice di essere in compagnia del presidente della Regione, che ci siano i comitati dei cittadini che finalmente non hanno più paura di farsi vedere. E’ l’inizio di un percorso da ministro. Conto di aiutare l’agenzia per i beni confiscati e sequestrati aggiungendo personale e soldi”. Il contesto è quello della confisca della villa dei Casamonica alla Romanina, in piena Capitale. “Questo posto è un simbolo lo abbiamo scelto in maniera totalmente slegata dalle minacce o pseudo minacce di qualche Casamonica nei miei confronti che non mi fanno nè caldo né freddo”. Un altro colpo indirizzato al centro dell’obbiettivo. Un altro colpo mandato a segno. Il Ministro dell’Interno ha pugno di ferro e cuore di velluto. Ed il primo è tutto quello che serve per contrastare Ndrangheta, la Camorra, la mafia, la criminalità nigeriana, la criminalità albanese la criminalità cinese e la sacra corona unita tutti tipi di mafie che devono essere contrastate costantemente con coraggio e senza pietà. “Mi sento molto meglio se chi puzza di mafia sta lontano da me. E i voti dei mafiosi mi fanno schifo”. Questo è leitmotiv del numero uno in casa Lega. In quest’ottica si staglia la polemica, fuffa, tra Salvini e lo scrittore Roberto Saviano. Scorta o non scorta? La battuta più folgorante, davanti a questo teatrino ignobile, l’ha prodotta l’intellettuale Adriano Scianca: “Assurdo togliere la scorta all’autore di Gomorra. Togliamola semmai a Saviano”. L’idea che il vice-Premier avesse, come la stampa sta cercando di far passare, “imbruttito” lo scrittore campano è di cattivo gusto. Basta ascoltare le dichiarazioni del segretario della Lega per accorgersi che non esiste nessun clima d’odio, anzi che quest’ultimo è stato creato artificiosamente. “Valuteranno gli organi preposti”. “Gli italiani voglio sapere come vengono spesi i loro soldi, mi sembra che lui stia spesso all’estero. “Questo è l’ultimo dei miei problemi”. Ecco perché la vera intimidazione è stata fatta da Saviano che ha definito, dal suo attico di New York, Salvini il ministro della malavita facendo il a Gaetano Salvemini. Diatribe sul nulla, quando l’Italia brucia sotto il sole di giugno e la mafia sguazza ancora. Basta affacciarsi sui profili social del Ministro dell’interno per leggere: “Villone sequestrato ormai 4 anni fa a Roma al clan dei Casamonica (quelli che mi hanno invitato a ‘rigare dritto’…) che oggi visiterò e farò di tutto per restituire ai cittadini il prima possibile. Il mio impegno a fare la guerra a tutte le mafie sarà totale, per riconsegnare alla legalità i circa 15mila beni sequestrati tra i quali immobili, aziende, ristoranti, auto, negozi e molto altro. #lamafiamifaschifo “. Oppure un attacco ai suoi “nemici” che da tutta Europa vogliono impedirgli di operare a mani libere: “Gli insulti dei chiacchieroni Macron e Saviano non mi toccano, anzi mi fanno forza. Mentre loro parlano, io oggi sto lavorando per bloccare il traffico di immigrati clandestini nel Mediterraneo e per restituire agli italiani le numerose ville sequestrate ai mafiosi. C’è chi parla, c’è chi fa. Bacioni”. Bisogna affiancare Salvini nella lotta alle mafie. A quel conglomerato parastatale che da oltre 70 anni affossa la nostra amata Italia. Chiamatela Camorra. Chiamatela Cosa nostra. Chiamatela ‘Ndrangheta. Per via della provenienza regionale. Chiamatela criminalità nigeriana. Chiamatela criminalità albanese. Chiamatela criminalità cinese. In base alla globalizzazione del crimine. Abbiamo bisogno di un uomo forte, che tra lotte contro le Ong, contro l’immigrazione selvaggia e l’Unione Europea che ci avversa, trovi la forza e la costanza di mettere in ginocchio la mafia. La mafia fa schifo e Matteo Salvini è l’uomo giusto per staccare le teste di quest’Idra che non vuole morire, ma far morire le strutture governative. Tanti italiani ed io Andrea Pasini di Trezzano Sul Naviglio in prima persona voglio essere al fianco del Ministro Matteo Salvini mettendoci la faccia senza paura ma con grande orgoglio perché anche a noi Italiani per bene e giovani imprenditori con la schiena dritta, l’ndragheta, la sacra corona unita e tutti i tipi di mafia ci fanno schifo e ribrezzo.

“Ministro della Malavita” a Salvini: ma Saviano è immune alla legge? Scrive il 21 giugno 2018 Stelio Fergola su "Oltrelalinea.news". Roberto Saviano continua ad insultare in modo totalmente gratuito il ministro degli Interni Matteo Salvini. Stavolta la definizione data dallo scrittore è “Ministro della Malavita”, scritta in uno dei suoi post su facebook: Il motivo? Salvini, da anni, si è “permesso” di mettere in dubbio l’opportunità della scorta a Roberto Saviano, e qualche sera fa (cosa che abbiamo fatto anche noi l’anno scorso, argomentando con dati e fatti), durante la trasmissione Agorà, aveva rinforzato questi dubbi, in modo peraltro decisamente tenue, dichiarando che “decideranno le autorità competenti”, e sottolineando nel finale dell’intervista “è l’ultimo dei miei problemi” e addirittura concludendo con un conciliante “a Saviano mando un bacione”, in diretta. Queste affermazioni, davvero non si sa perché, sono passate come “minacce all’eroe Saviano”. Pietro Grasso, Repubblica, tutti in coro l’esercito dei dominatori della cultura si è schierato compattamente contro il malvagio Salvini che desidera porre fine alla protezione del “giornalista” minacciato dalla camorra. E lui non è stato da meno. Peccato che senza prove e in modo del tutto gratuito, il Vate dell’antimafia che vuole legalizzare la cannabis e l’immigrazione clandestina si permetta di insultare apertamente un avversario, ma questi sono dettagli. Perché il caro Saviano di epiteti a Salvini apertamente fuori legge ne ha lanciati tre, solo nell’ultimo anno. Prima il “mandante morale dei fatti di Macerata”, quando nel capoluogo marchigiano Luca Traini sparò su degli immigrati all’impazzata per vendicare così, a suo parere, l’assassinio della giovane Pamela avvenuto poco prima. Poi la protesta contro la politica annunciata anti-ONG dell’ormai prossimo ministro degli Interni: “quest’uomo vuole affogare le persone in mare”, disse. Ora c’è però da fare una somma, perché le accuse imputabili di diffamazione e di diretta citazione in tribunale cominciano ad essere tante: “Ministro della Malavita”, “Mandante morale di Macerata”, “Vuole affogare le persone in mare”. Passi per “mandante morale”, formula furba per evitare drammi, ma la domanda sorge spontanea: ma la legge per il signor Roberto Saviano vale oppure può continuare impunemente a scrivere tutto ciò che gli pare senza conseguenze, tacendo sulle fesserie che ci propina ormai da anni? Ci auguriamo che le denunce siano già partite.

Roberto Saviano vomita odio su Matteo Salvini, il delirio finale: "Buffone, ministro mafioso, capo di un partito di ladri", scrive il 21 Giugno 2018 "Libero Quotidiano". Eccoci all'ultimo atto della violentissima guerra tra Roberto Saviano e Matteo Salvini. In mattinata, il ministro dell'Interno ha affermato: "Valuteremo se gli server la scorta". Ed eccoci alla replica di mister Gomorra, che arriva in un durissimo video pubblicato su Facebook. "Le parole pesano, e le parole del Ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per 'ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia". Insomma, Saviano arriva a dare del "mafioso" a Salvini. E ancora: "Il 17 marzo, subito dopo le elezioni, Matteo Salvini ha tenuto un comizio a Rosarno. Seduti, tra le prime file, c'erano uomini della cosca Bellocco e persone imparentate con i Pesce. E Salvini cosa fa? Dice questo: Per cosa è conosciuta Rosarno? Per la baraccopoli. Perché il problema di Rosarno è la baraccopoli e non la 'ndrangheta. Matteo Salvini è alla costante ricerca di un diversivo e attacca i migranti, i Rom e poi me perché è a capo di un partito di ladri: quasi 50 milioni di euro di rimborsi elettorali rubati". Dunque, la replica nel merito: "E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da 11 anni? Da più di 11 anni. Ho la scorta da quando ho 26 anni, ma pensi di minacciarmi, di intimidirmi? In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani. Ho più paura a vivere così che a morire così. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone".

Salvini, Saviano e i calabresi, scrive Nino Spirlì su "Il Giornale" Venerdì, 22 giugno 2018.  Ora, basta! Ora, basta veramente! Ne abbiamo strapieni i coglioni, di queste generalizzazioni! Chiunque continuerà ad offendere la Gente onesta di Calabria, se la dovrò vedere, da oggi in poi, con la Legge! Ma insomma! Se il Ministro degli Interni annuncia un censimento dei nomadi attualmente viventi in Italia (operazione già portata avanti, peraltro, da molte amministrazioni locali di Sinistra), parte la levata di scudi, perché gli zingari NON SI TOCCANO! Perché son tutte persone perbene e se c’è qualche ladro o qualche violento, o trafficante di droga e armi, è un caso e non una regola. Se migliaia di bambini, invece che andare a scuola, vanno a rubare, è identità e non reato. Se le donne vengono menate o costrette ad elemosinare o rubare, è cultura millenaria. Dunque, i nomadi, o comunque essi si chiamino, sono tabù. Ma quando si deve offendere o accusare Salvini di chissà quali reati o traffici immaginari, ecco la criminalizzazione di un intero Popolo, quello Calabrese, che, quando serve, è TOTALMENTE NDRANGHETISTA! AVETE ROTTO IL CAZZO!!! Tutti! Da Saviano fino a quella pletora di giornalisti, autori di fiction, scrittori della domenica, conduttori tv e preti in cerca di porpore! Dovete imparare a portare rispetto alla Gente onesta di Calabria! Sia che ci viva, in questo Paradiso, sia che sia emigrata e stia onorando l’Italia nel mondo. Quattro delinquenti impastati col Palazzo, la malapolitica, la massoneria più deviata di un pervertito, NON SONO UN POPOLO! I Calabresi che vanno alle urne sono persone perbene, che rispettano le Leggi e si spaccano la schiena a lavorare. E se è vero che esiste la ndrangheta in Calabria (ed esiste), è altrettanto vero che ci sono “mafiosi” lombardi in Lombardia, veneti in Veneto, laziali nel Lazio, marchigiani nelle Marche, liguri in Liguria, umbri in Umbria e italiani di campanile in tutte le altre regioni d’Italia, sopra e sotto terra. Ci sono mafiosi cinesi in Cina, giapponesi in Giappone, americani in America, russi in Russia, fino ai confini della galassia! E se la mafia ha votato per Trump, lo ha fatto prima per Obama, per Clinton, per Bush, per Kennedy 1 e 2… E in Italia, ha votato Fanfani, Moro, Berlinguer, Craxi, Andreotti, Berlusconi, Renzi, Prodi, Bersani, e chissà quanti altri… NON SAPPIAMO PER CHI VOTA LA MAFIA, perché le percentuali di voti raccolti ondeggiano, a turno, da una riva all’altra. E, se lo sappiamo, diciamolo: vota per tutti! Però, basta! Basta con questa criminalizzazione di NOI CALABRESI! Sciacquatevi la bocca e la coscienza prima di parlare della brava Gente di Calabria! Cretini! Arroganti! Cafoni! La vostra spocchia intellettualoide atterra braccianti e operai, imprenditori geniali, servitori dello Stato ed educatori, professionisti e studenti, anziani piegati dal lavoro nei campi, padri e madri di famiglia, giovani ansiosi d’avvenire e bambini speranza del mondo. Tappatevi quelle boccacce violente e assassine! E guardate dentro di voi: spesso quello che si cerca fuori, alberga nelle proprie viscere!

Meloni: "Dare scorta a giornalisti da cui Saviano ha copiato". La Meloni critica Saviano: "Ovviamente se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra", scrive Francesco Curridori, Venerdì 22/06/2018, su "Il Giornale". "Non ho gli elementi per giudicare se si debba rivedere la scorta di Saviano. Figuriamoci se io so se sia una priorità della camorra ammazzare Roberto Saviano, e non so bene quale sia la procedura". Giorgia Meloni, ospite di Agorà su Raitre, entra nella polemica tra l'autore di Gomorra e il ministro Matteo Salvini che ieri ha detto che potrebbe rivalutare l'uso della scorta per lo scrittore campano. "Se posso dire una cosa, non ho grande stima per Roberto Saviano, indipendentemente dalla questione della scorta", ha sottolineato il leader di Fratelli d'Italia che. Poi ha polemicamente aggiunto: "Ovviamente - ha aggiunto - se è minacciato è giusto che sia difeso come tutti i cittadini. Spero che siano sotto scorta i giornalisti dai quali Saviano è stato accusato di aver copiato gli articoli coi quali ha composto Gomorra". Per la Meloni: "Saviano è diventato un guru ma dovrebbe essere supportato da maggiore studio. Parla di tutto senza essere preparato, dice cose molto sbagliate. Snocciola dati sull'immigrazione, questioni sulla droga, senza avere le competenze. È una persona parla con prosopopea di temi che non conosce". E dovrebbe essere più preparato "soprattutto ora che avrà una trasmissione e il suo stipendio sarà pagato da tutti gli italiani".

Ma quale Saviano, la scorta serve agli italiani, scrive il 22 giugno 2018 Cristiano Puglisi su "Il Giornale". Fiumi di parole, un profluvio di inchiostro. Tutto e solo per lui, Roberto Saviano. E per la sua scorta. Già, un privato cittadino con un conto in banca in milioni di Euro e la protezione pagata dallo Stato. Un figlio della buona borghesia campana, fresco proprietario di un lussuoso attico a New York, che nella vita ha avuto il merito, incontestabile per carità, di scrivere, ormai 12 anni fa, un romanzo sulla camorra. Eppure la storia e l’attualità del sud Italia sono piene di esempi di coraggio, che la scorta non ce l’hanno. Dai braccianti e sindacalisti che denunciano gli abusi del caporalato ai giornalisti precari che raccontano gli intrecci del malaffare sulle testate locali. E perché non menzionare anche Vittorio Pisani, ex capo della Squadra Mobile di Napoli. Un signore che la camorra l’ha combattuta sul campo. E che, dello scrittore partenopeo, disse: “A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione (…). Ho arrestato centinaia di delinquenti, io giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta”. Tutta gente che, forse per la sola colpa di non avere accesso ai salotti (di sinistra) che contano, non ha potuto rendere questa attività un business, non ha potuto trarne sceneggiature per il cinema e le serie TV e non è stata invitata a parlare da “compagni” altolocati nelle trasmissioni televisive. E allora, francamente, poco importa della scorta dell’autore di “Gomorra”. Se gli organi competenti reputeranno che di rischi non ne corre, bene farà il ministro Salvini a levargliela. In caso contrario che la tenga. Anche se, è chiaro, la protezione di Stato a un milionario che sostanzialmente vive all’estero fa sorridere. Piuttosto la protezione la si dovrebbe dare agli italiani, potenziando l’organico e gli strumenti a disposizione delle Forze dell’ordine e le leggi a loro tutela. E magari varando una norma decente sulla legittima difesa. È questo che chiedono i cittadini normali. Quelli come i tabaccai, i benzinai e tutti gli esercenti che rischiano costantemente di essere rapinati mentre guadagnano onestamente il pane per se e per la propria famiglia. Soprattutto perché questo, nel bel Paese, non è una possibilità remota, ma avviene una volta ogni quarto d’ora, stando ai dati del 2016. E allo stato attuale quei cittadini, se per sbaglio dovessero avere la malaugurata idea di provare a difendersi, rischierebbero pure di finire in galera. Loro, non i delinquenti. Così come quelli che, mentre personaggi alla Saviano si ergono dai loro pregiati immobili a paladini di nomadi e irregolari (a proposito ma come la mettiamo con la storia della legalità?), devono dormire nella propria casa con il terrore di ricevere la visita di qualche ladro, perché magari non possono pagarsi un costoso antifurto. O ancora come gli anziani che, costretti ad abitare in qualche alloggio popolare dopo una vita di sacrifici, devono stare attenti a non farselo occupare mentre vanno a fare la spesa. Ecco, è a queste persone, a questi cittadini che lo Stato deve garantire davvero sicurezza e tutela. Altro che Saviano. Altro che balle.

«Buffone», Saviano replica a Salvini sulla scorta. Dopo l'intervento del titolare del Viminale ad Agorà, scrive "Il Roma" il 21/06/2018. “Secondo te io sono felice di vivere così da più di 11 anni Salvini? Ho più paura a vivere così, che a morire così. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone". Così replica Roberto Saviano replica a Matteo Salvini sulla possibilità che venga tolta la scorta allo scrittore che da anni vive sotto protezione dopo le minacce ricevute dalla camorra. "Togliere la scorta a Saviano? - ha detto il titolare del Viminale ad Agorà - Saranno le istituzioni competenti a valutare se corre qualche rischio, anche perché mi sembra che passi molto tempo all'estero, quindi è giusto valutare come gli italiani spendono i soldi". "Però è l'ultimo dei miei problemi - ha aggiunto Salvini - A Saviano mando un bacione se in questo momento ci sta guardando. E' una persona che mi provoca tanta tenerezza e tanto affetto". Qualche ora più tardi, parlando durante una diretta Facebook dal Viminale, Salvini ha poi precisato: "Saviano? Figuratevi se mi interessa quello che fa Saviano, non sono io a decidere sulle scorte, ci sono organismi preposti. Continui a pontificare, lui è l'ultimo dei miei problemi". "Io - ha aggiunto Salvini - voglio combattere la mafia e la Camorra davvero". "Pensi di minacciarmi? Di intimidirmi - dice Saviano in un video pubblicato su Facebook - In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani. E quindi credi che io possa avere paura di te? Buffone". "Salvini ha come nemici gli immigrati, le persone del Sud Italia, sono felice di essere tra i suoi nemici", aggiunge lo scrittore che definisce il leader della Lega "ministro della Malavita". "Il 17 marzo, subito dopo le elezioni, Matteo Salvini ha tenuto un comizio a Rosarno. Seduti, tra le prime file, c'erano uomini della cosca Bellocco e persone imparentate con i Pesce. E Salvini cosa fa? Dice questo: 'Per cosa è conosciuta Rosarno? Per la baraccopoli'. Perché il problema di Rosarno è la baraccopoli e non la 'ndrangheta", prosegue. Alle parole di Salvini avevano replicato in molti. A partire dal Pd. Pina Picierno, europarlamentare dem invoca le dimissioni per il titolare del Viminale. "Salvini ha sempre avuto il vizietto delle minacce facili. Ma da uomo delle istituzioni è intollerabile - ha commentato -. Esporre così Saviano, personalità riconosciuta da tutto il mondo per il suo impegno contro le mafie, è a dir poco vergognoso. Non si minaccia chi non la pensa come noi. È un abuso di potere vero e proprio. Salvini si scusi e si dimetta''. Il vicepresidente della Camera Ettore Rosato definisce invece le parole di Salvini "minacce inaccettabili per un uomo che ha contribuito a far luce su un sistema criminale pervasivo e pericoloso". "La scorta a Saviano - ha sottolineato Rosato - come lui stesso raccontò, non è una concessione ma la protezione che lo Stato deve garantire a chi minacciato per avere combattuto mafia e camorra''. Su Twitter gli fa eco Giuseppe Civati che bolla Salvini "pessimo, violento, pericoloso: un ministro dell'Interno che gioca sporco". Pietro Grasso di Leu su Facebook scandisce: "Non vogliamo altri Pippo Fava, Peppino Impastato, Mario Francese, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano".

Saviano ha un sacco di amici, il povero Marco Biagi no, scrive Pietro Mancini su "Italia Oggi" il 22/06/2018. Ennesima bufera su Matteo Salvini, dopo la sua esternazione sulla scorta di Roberto Saviano: «Le autorità competenti valuteranno se lo scrittore corra, o meno, dei rischi. Intendiamo valutare come si spendono i soldi degli italiani». La protezione dello stato, infatti, dovrebbe essere garantita, in primis, a quanti difendono le istituzioni e i suoi, pro tempore, rappresentanti. Non a coloro che incitano alla ribellione contro lo stato e i legittimi governanti, talvolta, arringando i telespettatori dagli studi della Rai, finanziata con il canone, versato da tutti gli utenti. Immediata la mobilitazione degli intellettuali de'sinistra, dura e pura, anti Salvini. Tra i primi a mitragliare il ministro degli interni, l'attore Alessandro Gassmann: «Togliere, forse, la scorta a chi è minacciato dalla camorra? È intimidazione. Solidarietà a Saviano #ministrodeglinferni». Molto polemico con Salvini anche il direttore di Repubblica, che ospita gli articoli di Saviano. Secondo Mario Calabresi, il saggista campano non ha chiesto la scorta, ma «ha la colpa di aver denunciato i casalesi, mentre la Lega negava la presenza della 'ndrangheta al Nord». Non ricordo, tuttavia, tante proteste, di Repubblica e di altri, quando l'allora ministro dell'interno, il forzista Claudio Scajola, nel 2002, non assegnò la scorta a Marco Biagi, collaboratore del titolare del Lavoro, il leghista Bobo Maroni. Biagi l'aveva chiesta, dopo aver ricevuto pesanti minacce. E, purtroppo, il giuslavorista, 52 anni, fu ucciso dalle Br, mentre tornava a casa, nel centro di Bologna, in bicicletta.

Tutte le ombre del “fenomeno Saviano”: origini storiche, sviluppo, marketing, scrive il 20 gennaio 2017 Stelio Fergola su "Oltrelalinea.news". La mitologia eroica su Roberto Saviano ha origini non lontane, ma nemmeno così recenti. Ci fu un tempo in cui una certa classe di persone, fino agli inizi degli anni Novanta, compì contro le mafie dei veri e propri prodigi. Giornalisti come Giancarlo Siani, Beppe Alfano e Mario Francese descrissero, sui giornali per i quali lavoravano, dettagli scomodi della vita del clan dei Nuvoletta, della famiglia Santapaola e del clan dei corleonesi, oltre a riportare diversi elementi investigativi utili ai tribunali locali. Proprio di Nitto Santapaola Alfano spifferava, nella prima pagina de Il Giornale di Sicilia, il luogo di latitanza: il boss girava indisturbato per le vie di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), vicino casa sua. Mario Francese svelava negli anni Settanta i nomi delle imprese affiliate a Totò Riina in Sicilia. Ovviamente l’elenco può proseguire aggiungendovi i “lavoratori dell’ordine e della giustizia diretti”: personalità come Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Ninni Cassarà, o giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Moriranno tutti, ma il loro sacrificio contribuirà a produrre comunque qualcosa: dopo le stragi di sangue degli anni Ottanta e quelle di inizio anni Novanta, infatti, lo Stato italiano sarà forzato a reagire e a mobilitare una certa quantità di risorse ancora inutilizzate per contrastare le mafie, in particolare quella siciliana. È in questo periodo che entrano in attività organismi come la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e la DNA (Direzione Nazionale Antimafia), fondate entrambe alla fine del 1991. Le ragioni di questa reazione sono varie e non c’è bisogno di dilungarsi troppo, ma possiamo descriverne due principali. La prima è di ordine politico-internazionale: la conclusione della Guerra Fredda tra USA e URSS finì con lo stemperare alcune protezioni politiche “implicite” di cui le mafie, organizzazioni geneticamente ostili ai regimi non democratici (e quindi “sfruttabili” come impedimento locale a qualsiasi tipo di rivolgimento dello status quo), godettero fino al 1989, anno fino al quale il rischio di una presa del potere “totalitaria” – soprattutto da parte comunista – era ancora ritenuta possibile da un punto di vista teorico: difficile pensare, in altre parole, che organismi come la DIA sarebbero potuti sorgere prima. La seconda ragione è di ordine “mediatico”: dopo la strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) in cui persero la vita Borsellino e vari agenti della sua scorta, la misura era veramente colma. Ne andava della vita serena delle istituzioni, sotto l’occhio del ciclone in tutto il Paese a causa di quella scia incredibile di omicidi che duravano da 20 anni e che ormai erano troppo clamorosi per poter essere ignorati. Dopo troppe chiacchiere lo Stato fu costretto dunque a dover tentare una forma di “risalita” che, dal 1993 in poi, condusse a un insolito attivismo, fatto di arresti come quelli di boss del calibro di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca. In quella fase i mezzi che il Ministero degli Interni mobilitò furono piuttosto ingenti, potendo sfruttare finalmente anche il neonato articolo 41-bis del codice penale, che imponeva il carcere duro ai mafiosi, impossibilitati a comunicare con l’esterno se non sotto stretta sorveglianza. C’è un risultato poco indagato dalle cronache del periodo di “insolito attivismo”, a lungo interessate dei singoli individui senza dare troppo peso al contesto storico: riguarda tutta una schiera di magistrati e addetti ai lavori (tra cui vi fu qualcuno che collaborò pure con il pool antimafia e partecipò al Maxiprocesso) che si sono trovati nella posizione di arrestare un Giovanni Brusca – e altri come lui – negli anni Novanta, guadagnandone prestigio e fama. I nomi appartenenti a questa insolita categoria sono vari, ma ci limitiamo a chi “sia nel pre-Falcone che nel dopo Falcone” ha più fatto parlare di sé: Giancarlo Caselli, Pietro Grasso ma anche Alfonso Sabella, Antonio Ingroia e qualcun altro. Generazioni intere di giudici di livello variabile, qualcuno buono, molti “medi” (in certi casi decisamente mediocri) che hanno cavalcato l’onda di professionisti geniali dell’anticrimine, sfruttando una fase contingente positiva e arrivando a costruirsi una carriera encomiabile, menzionata da qualcuno come esempio pseudoeroico da imitare.

Grandi meriti o semplice fortuna sopravvalutata? Ad osservare la storia professionale di alcuni di questi personaggi successiva a quella fase, è difficile non propendere per la seconda ipotesi: non è così assurdo pensare che Brusca, per come si stava mobilitando lo Stato negli anni Novanta, lo avrebbe arrestato chiunque. Erano i mezzi e le energie in quel caso a fare la differenza, un fattore di cui né Falcone né Borsellino poterono godere nei faticosissimi anni della loro attività. Il tutto, per di più, alla luce di un mai completamente chiarito quadro di una ipotetica trattativa tra lo Stato e Mafia che, in caso, non avrebbe potuto escludere il “sacrificio” di diversi esponenti di spicco di Cosa Nostra. Senza questa catena di eventi favorevoli il “chiunque”, ovvero l’illustre signor nessuno, forse non avrebbe avuto così tante possibilità di lavorare come assessore alla legalità a Roma, scrivere un libro ben distribuito, o diventare presidente del Senato. Beninteso che anche candidarsi con un partito politico proprio, sebbene di insuccesso come Rivoluzione Civile (uscita malconcia dalle elezioni politiche del 2013 con un modesto 2,25% alla Camera) è un privilegio per pochi: Antonio Ingroia, pur essendo il meno fortunato dei nomi sopracitati, è uno di questi. Il “savianesimo” nasce proprio da questa prolifica e remunerativa “ricerca della gloria eroica”, esattamente come quella di cui hanno beneficiato i “colleghi” giudici. Un sorta di ansia che colpisce gli italiani sempre quando gli eroi vengono ammazzati sul serio: dopo. Lo scrittore casertano prende quindi il posto di Siani, una figura che andava in qualsiasi modo riproposta all’opinione pubblica, e scrive cose che sanno tutti sulla camorra da quasi quarant’anni: il risultato è un romanzo “docu-fiction” dove inventa anche di sana pianta e nel quale vengono riscontrati anche elementi che gli hanno fruttato una condanna per plagio nel giugno 2016 (nonostante certa stampa abbia provato a invertire l’ordine dei fattori spostandolo sull’entità del risarcimento che Saviano ha dovuto pagare alla casa editrice Libra, poi ridimensionato notevolmente, che però non smentisce in nessun modo la sentenza). Comunque, mediaticamente il giochino funziona e risponde alle aspettative della gente. Il mito nasce, favorito dal clima culturale appena esposto, grazie ad un solo mezzo disponibile, utilissimo per incantare le masse: la scorta. Buona parte di quelli che leggono dell’attribuzione della stessa a Saviano sospende completamente ogni valutazione negativa delle istituzioni, che nella fattispecie diventano alla stregua di divinità prive di qualsiasi corruttibilità, margine di errore o altro: come se l’elemento umano in questo caso non esistesse, l’assegnazione è percepita come un’automatica prova di eroismo del personaggio. Nemmeno mezzo pensiero, dunque, sul fatto che parliamo pur sempre di esseri umani, indi soggetti a poter commettere valutazioni sbagliate, in buonafede o malafede che siano, esattamente come tutti gli altri uomini. È un processo mentale che avviene grosso modo anche per la magistratura (ma stranamente non per la polizia, verso la quale esiste invece un’ostilità immotivata e radicata da decenni) e che coinvolge molti aspetti dell’opinione pubblica. Tutto ciò preclude poi anche altre cose, tra le quali le scorte assegnate in passato a personaggi popolari che classificare come “eroi” sarebbe quanto meno bizzarro: uno di questi è Vittorio Sgarbi, ma si può ricordare anche il criticatissimo Emilio Fede, verso cui l’opinione pubblica non è poi così santificatrice, anzi. Eroi o potenti? Si potrebbe anche ritenere del tutto comune che un vip, senza che questi sia considerato per forza un perseguitato, possa usufruire extrema ratio di una protezione, poiché la mitomania, anche vagabonda, si nutre pure di ragioni per commettere atti clamorosi e pericolosi: ma questo è un altro discorso. Altrettanto naturale è che il cittadino medio, preso dalla vita di tutti i giorni, fatta di lavoro, sudore e tentativi (spesso) di arrivare alla fine del mese con qualche soldino in tasca, non possa coltivare l’anima investigativa anche per informarsi su questi semplici elementi, e tenda a recepire il dato di fatto compiuto: Saviano ha ricevuto la scorta, quindi è un eroe. Naturalmente poco si indaga anche sulla veridicità delle presunte minacce ricevute dallo scrittore, che sarebbero avvenute alla fine del processo Spartacus, nel 2008, quindi ben dopo l’assegnazione della scorta nell’ottobre del 2006, il che dovrebbe già far riflettere: ma è solo la punta dell’iceberg. Il fattaccio sarebbe avvenuto in aula quando l’avvocato Santoanastaso, legale dei boss imputati Bidognetti e Iovine, avrebbe chiesto lo spostamento del processo in sede differente a causa, tra gli altri, delle “pressioni di Capacchione e di Saviano”. Difficile interpretare una richiesta di spostamento (pratica peraltro comune tra gli avvocati difensori) come una “minaccia”. Andando avanti con le stranezze, si potrebbe ricordare anche quando, sempre alla fine del 2008, finì sui Tg una notizia quanto meno curiosa che parlava di altre minacce dei Casalesi a Saviano: la famiglia malavitosa avrebbe venduto migliaia di DVD contraffatti del film su Gomorra (in uscita originale qualche settimana dopo) con il bollino “camorra” quale presunto messaggio minatorio. Tralasciando che anche qui il nesso tra la “minaccia di morte” e “DVD contraffatto” sia come minimo esasperato, mi domando che tipo di conoscenza della realtà quotidiana avesse la stampa dell’epoca. Chi scrive è, guarda caso, napoletano, e guarda caso ricorda da quando è bambino che le edicole abbiano sempre venduto un certo quantitativo, pur risibile, di materiale contraffatto, come le audiocassette, i videogiochi e, successivamente, anche i film in VHS e in DVD. Tutto ciò non citando le onnipresenti bancarelle disseminate per le strade, usuali a questo tipo di attività. Che la camorra guadagni (anche) da questi mercati è poi la scoperta dell’acqua calda. Si potrebbe aggiungere, infine, che il libro Gomorra, uscito nell’aprile 2006, riscosse inizialmente un successo discreto per uno scrittore esordiente, ma fu solo dopo l’assegnazione della scorta a Saviano e l’invito in Tv alla trasmissione Le invasioni barbariche di Daria Bignardi, il 3 novembre dello stesso anno, che il romanzo cominciò a macinare numeri e a diffondere le oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo. Ambiguità anche nel riportare i numeri nei pochi articoli che parlano della questione “tiratura iniziale”. Non si trovano dati, stranamente, sulle vendite fino a ottobre 2006, e la maggior parte dei siti si limita a dire che il libro “esaurì la tiratura di 5000 copie in una settimana”: benissimo, e poi? Mistero. L’informazione resta troppo generica e aleatoria per poterla recepire per oro colato. Se Gomorra avesse fatto i numeroni da prima di quel bimestre ottobre-novembre scandito dalla scorta e dal lancio in televisione della Bignardi (cosa comunque fisiologicamente impossibile rispetto alle 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo e alle 2,5 milioni distribuite in Italia), perché non si riportano con orgoglio le cifre? Ecco quindi spiegate le ragioni del savianesimo, dall’origine storica alla clamorosa campagna di marketing che lo sostiene. Un marketing che pare quasi sistemico, se si pensa non solo a quanto abbiamo esposto finora, ma anche a ciò che continua ad accadere e che, di tanto in tanto, fa storcere il naso. Il nostro eroe era stato invitato a parlare in una scuola romagnola il prossimo 15 marzo. L’incontro prevedeva l’obbligo di acquistare, da parte degli studenti che avessero aderito, il suo nuovo libro La paranza dei bambini, al costo di 16 euro (come recitava la circolare della scuola di Forlì, prima che l’evento venisse annullato). Qualcuno schiamazza, qualche giornale (peraltro non certo storicamente ostile allo scrittore) riporta la notizia, ma lui sui social giura: “Non esiste. Nessun obbligo. Da dieci anni vado nelle scuole e i miei scritti mi fa piacere che vengano letti anche fotocopiati o in copie che passano di mano in mano. Ad attaccare il mio lavoro sono giornali un tempo definibili berlusconiani ora solo beceri.” Il giorno dopo l’ “incontro” viene annullato per motivi che lo scrittore pomposamente spiega ai suoi futuri discepoli romagnoli, nuovamente su Facebook, il cui sunto è più o meno il seguente: “Lo faccio per voi! Vi stumentalizzerebbero, sarà per un’altra volta”.  Prendiamo atto che secondo Saviano un documento a conferma dell’accusa – pubblicata per di più dalla scuola protagonista della vicenda – sarebbe una “strumentalizzazione” e chiudiamo anche questa parentesi. Cosa rimane, quindi? Nulla più di un fenomeno costruito in buona parte sulla menzogna o, nella migliore delle ipotesi, nell’esposizione romanzata di fatti già noti. La menzogna è un elemento che ricorre spesso nell’esperienza savianesca, in certi casi in modo clamoroso, come dimostrò la vicenda riguardante la mamma di Peppino Impastato, mai conosciuta dallo scrittore ma narrata in un suo libro successivo in una telefonata probabilmente mai avvenuta. Che lo scopo possa essere quello ipotizzato all’inizio di questa analisi (creare una sorta di Siani o di Alfano artificiale e di successo) è quanto meno possibile. Il problema è che Saviano non ha scritto nulla di nuovo. Ha inventato eventi clamorosi o al più senza rilevanza processuale, inseriti nello stesso Gomorra (la celebre storia dei cadaveri cinesi del primo capitolo, le “gite tranquille” in Vespa, con egli testimone più o meno di qualsiasi nefandezza di Scampia). Un bravo scrittore, forse un ottimo romanziere, ma per parlare di altro ci vuole una certa fantasia. Quella che un Francese certamente non utilizzò per smascherare le imprese di copertura di Riina, o che un Siani non sfruttò quando, sulle colonne del Mattino, descriveva i movimenti di denaro dei traffici di droga a Torre Annunziata. La stessa fantasia che non poteva far parte del bagaglio di Beppe Alfano che sul Il Giornale di Sicilia parlava senza tanti complimenti di come Nitto Santapaola girasse indisturbato per le vie di una frazione di Messina, senza che nessuno lo venisse a cercare. Il monolite della scorta non si associa necessariamente all’aggettivo “eroe”, ma anche ad un altro, ben più rilevante ma meno idealizzabile: “potente”. Come diceva Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”. In questo caso non c’è granché da indovinare però, quanto da recepire informazioni quasi sempre evidenti.

Perché Scarpinato affossò l’inchiesta mafia- appalti? Era clamorosa e forse Borsellino fu ucciso perché quel fascicolo era finito sulla scrivania, scrive Damiano Aliprandi il 3 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Non esiste nessuna sentenza che collega la morte dei giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con la presunta trattativa Stato- mafia, mentre in alcune sentenze emerge un movente ben chiaro e che fu anche l’inizio della guerra dei cent’anni tra alcuni magistrati e i carabinieri dei Ros guidata da Mario Mori: l’indagine su mafia appalti condotta da quest’ultimi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, in cui si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio, «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti». A questa si aggiunge un’altra sentenza, quella della Corte d’Assise di Caltanissetta relativa al processo Borsellino- ter, in cui viene riportata la testimonianza di Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, il quale disse che la mafia era preoccupata circa l’interesse di Falcone e Borsellino per l’indagine mafia- appalti. Un particolare non da poco è stato il suo riferimento a Falcone quando disse che la «mafia era stata quotata in borsa». Sì, perché il magistrato lo disse all’indomani della quotazione di una delle società appaltatrici che erano sotto la lente di ingrandimento dei Ros. La sentenza in questione aveva tratto anche una riflessione. « Appare, pertanto, esatto ritenere che se le indagini condotte dal Ros in materia di mafia e appalti non avevano ancora avuto all’epoca uno sviluppo tale da rappresentare un pericolo immediato per gli interessi strategici di Cosa nostra, tuttavia si legge nel dispositivo della sentenza – l’interesse mostrato anche pubblicamente da Borsellino per quel settore di indagini unitamente all’incarico che egli ricopriva nell’Ufficio titolare dell’inchiesta ed ancor più la prospettiva dell’incarico alla Procura nazionale per la quale veniva autorevolmente proposta la sua candidatura anche pubblicamente, costituivano un complesso di circostanze che facevano apparire a Cosa nostra quanto mai opportuna la realizzazione dell’attentato a quel magistrato subito dopo quello a Falcone ». Come se non bastasse, si aggiunge la testimonianza di Antonio Di Pietro, all’epoca dei fatti componente del pool Mani Pulite. L’ex magistrato ha dichiarato più volte, sia durante il processo Borsellino- ter e sia recentemente, che Borsellino – lo incontrò poco prima della strage di via D’Amelio – era interessato a mafia- appalti e che avrebbe voluto collegare l’indagine palermitana a quella milanese. Il punto è importante, perché gli elementi di collegamento spuntarono fuori durante l’inchiesta Mani Pulite. Parliamo di attività imprenditoriali sospette relative a imprese del nord come la Calcestruzzi di Gardini, impresa capofila del gruppo Ferruzzi Spa che compariva nell’indagine mafia- appalti dei Ros. L’inchiesta mafia- appalti, quindi, era potenzialmente una bomba potentissima visto che scoperchiava legami tra mafia, personalità politiche di rilievo e società appaltatrici in mano a persone vicine ad alcuni magi- strati. Ma non solo. Parliamo di una bomba che non sarebbe deflagrata solamente in Sicilia, ma anche in tutta la penisola (la testimonianza di Di Pietro docet) e le schegge avrebbero sconfinato oltre le Alpi visto che l’inchiesta avrebbe potuto toccare il sistema di riciclaggio internazionale. In merito a quest’ultimo punto, in realtà, Falcone aveva già fiutato qualcosa qualche anno prima che ricevesse il fascicolo dell’indagine mafia- appalti. Nel giugno 1989, infatti, si era incontrato con la sua collega svizzera Carla Del Ponte nella villa che aveva preso in affitto all’Addaura, vicino Palermo, per discutere di riciclaggio del denaro sporco tramite aziende all’estero e, coincidenza vuole, fu in quel momento che la mafia collocò una bomba sullo scivolo di accesso al mare della villa, dentro un borsone da sub. Per fortuna venne notata da uno degli agenti della scorta di Falcone e disinnescata dagli artificieri. Nel 1991 Falcone prese in mano l’informativa dei Ros e un anno dopo fu ucciso. Sembra ragionevole pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi per il loro interesse all’inchiesta dei Ros sui grandi appalti pubblici che la Procura di Palermo, però, archiviò appena qualche giorno dopo la morte di Borsellino. La richiesta di archiviazione – esattamente il 13, quando Borsellino era ancora in vita e interessato a prenderla in mano – fu avanzata dagli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, vistata dal procuratore Giammanco tre giorni dopo l’uccisione di Borsellino e archiviata definitivamente il 14 agosto dal gip di Palermo Sergio La Commare. Parliamo dell’archiviazione più breve della storia, avvenuta il giorno prima di ferragosto, quando solitamente gli uffici dei tribunali sono semideserti. Il gip La Commare è lo stesso che, qualche mese dopo – esattamente il 23 dicembre, altra data particolare, antivigilia di Natale – convaliderà l’arresto di Bruno Contrada (ex capo della Mobile di Palermo, ex vicedirettore del Sisde, ex capo della criminalpol di Palermo) richiesto sempre da Lo Forte e Scarpinato. Nello stesso anno, gli stessi magistrati archiviano l’indagine sui mafiosi e arrestano chi per anni è stato in prima linea contro la mafia. A quel punto, mafia- appalti, che doveva essere una bomba che avrebbe fatto tremare l’Italia intera, era stata quindi disinnescata. In realtà, precedentemente, aveva già subito un depotenziamento. Come? Ricordiamo che l’informativa mafia- appalti dei Ros era di 890 pagine ed era stata ricostruita la mappa del malaffare siciliano dove erano elencati 44 nomi di imprenditori, uomini politici di quasi tutti i partiti e aziende. Il dossier passò nelle mani di ben otto sostituti procuratori di Palermo. Furono indagate soltanto cinque persone. Ma accadde qualcosa di grave. Tutti i coinvolti nell’informativa dei Ros – gli imprenditori, i politici e i mafiosi -, ricevettero l’elenco degli appalti e dei nomi citati nel dossier. Da chi? Dalle risultanze processuali, risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafiaappalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi. I Ros accusarono i magistrati della procura di Palermo e viceversa. Alla fine tutto fu archiviato. Si legge nell’ordinanza di archiviazione: «Non può affatto escludersi, in via d’ipotesi, che nella illecita divulgazione delle notizie e dei documenti riservati oggetto del presente procedimento, possano essere stati coinvolti, o per denaro o in ragione degli asseriti rapporti di amicizia con svariate personalità politiche, i magistrati odierni indagati». Qualunque sia la verità, con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino dei Ros e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di mafia- appalti e, ricordiamolo nuovamente, ritenuto dai Ros “l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria”. Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio morì Paolo Borsellino.

I giudici: «Via D’Amelio fu il più grande depistaggio della storia». Lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza del processo quater sulla strage costata la vita al giudice, i giudici di Caltanissetta. Il riferimento è ad Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato. «Collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa», scrive l'1 luglio 2018 "Il Corriere della Sera". «C’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende». Lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza del processo quater sulla strage costata la vita al giudice, i giudici di Caltanissetta. Il personaggio a cui la Corte d’assise fa riferimento è Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato.

Il depistaggio. Nella motivazione della sentenza grande spazio ha avuto la storia del depistaggio delle indagini, passato attraverso l’induzione a mentire di tre falsi pentiti, e del ruolo che, nel condizionamento dell’inchiesta avrebbe avuto La Barbera, nel frattempo deceduto. La Barbera, secondo la corte, ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». Per la corte l’agenda del magistrato, da lui custodita in una borsa e scomparsa dal luogo dell’attentato, «conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci».

Pressioni. Per i giudici il depistaggio è passato attraverso l’induzione a mentire di personaggi come Vincenzo Scarantino. «Un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri». Le pressioni degli inquirenti, secondo i giudici della Corte d’assise - fecero venir meno le «residue capacità di reazione» di Scarantino che accusò della strage, insieme ad altri due falsi pentiti, sette innocenti.

Vincenzo Scarantino. «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Nero su bianco, per la prima volta, i giudici di Caltanissetta scrivono del clamoroso depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino. Nelle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater, depositate sabato sera, la corte d’assise dedica un lungo capitolo al falso pentito Scarantino. Scarantino, imputato di calunnia insieme a due altri falsi pentiti, è uscito dal processo per la prescrizione del reato a lui contestato. Gli altri due collaboratori di giustizia, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, sono stati condannati a 10 anni. Il depistaggio delle indagini è costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti, poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione. Per la strage erano imputati i boss Vittorio Tutino e Salvo Madonia, entrambi condannati all’ergastolo. La prescrizione per Scarantino è scattata perché i giudici gli hanno concesso l’attenuante riconosciuta a chi commette il reato indotto da altri. I giudici, nelle motivazioni della sentenza, parlano di «suggeritori» esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito inducendolo a mentire. «Soggetti, - scrivono - i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte».

Forzature e anomalie. La Corte d’assise del processo Borsellino quater accusa gli investigatori di aver compiuto «una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte». «Le anomalie nell’attività di indagine - aggiungono - continuarono anche nel corso della collaborazione dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ritrattazione della ritrattazione, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero». «Questo insieme di fattori - proseguono i magistrati riferendosi alla valutazione che delle parole di Scarantino fece l’autorità giudiziaria - avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone».

Via D'Amelio, fu un depistaggio di Stato. "I falsi pentiti e l'agenda rossa, un solo mistero". Via D'Amelio, teatro della strage che uccise Paolo Borsellino e i poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Le motivazioni della sentenza Borsellino quater. "E' uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana". L'ex questore La Barbera accusato anche della sparizione del diario di Borsellino. La procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio per tre poliziotti, scrive Salvo Palazzolo l'1 luglio 2018 su "La Repubblica". "Soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. "È uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana", accusano i giudici della corte d’assise di Caltanissetta, che ieri hanno depositato le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater: 1.856 pagine, dodici capitoli, un lavoro minuzioso di ricostruzione firmato dal presidente Antonio Balsamo e dal giudice a latere Janos Barlotti, che rappresenta una tappa importante nel difficile percorso di ricerca della verità, perché fissa in maniera chiara i misteri ancora irrisolti e indica una strada per proseguire le indagini. Indagini che puntano al cuore dello Stato. Scrive la corte: "È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi". Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera: dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti. La corte non crede per ansia di giustizia e di risultato. No. Vennero suggerite a Scarantino "un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero". Il furto della 126 rubata mediante la rottura del bloccasterzo è la verità che ha poi raccontato nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza. Come facevano i suggeritori a sapere la storia della 126? "È del tutto logico ritenere — scrivono ora i giudici — che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte". Chi ispirò i suggeritori? La corte ricorda che il 13 agosto 1992, il centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo, comunicò alla sede centrale che "la locale polizia aveva acquisito significativi elementi sull’autobomba". E ancora la corte rileva "l’iniziativa decisamente irrituale" dell’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai pm di Palermo nel dicembre del 1992. "Una richiesta di collaborazione decisamente irrituale — ribadisce la sentenza — perché Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria". Tanta "rapidità nel chiedere la collaborazione di Contrada già il giorno immediatamente successivo alla strage — scrivono ancora i giudici — a cui fece seguito la mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni" che gli rimasero da vivere. E col Sisde collaborava anche il capo della Mobile La Barbera, pure questo ricorda la sentenza. E viene scritto, per la prima volta: c’è un "collegamento tra il depistaggio dell’indagine e l’occultamento dell’agenda rossa di Borsellino". Perché per i giudici La Barbera è anche "intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre". Ci furono dunque poliziotti infedeli che pilotarono il falso pentito per finalità tutte da scoprire. Ma ci furono anche magistrati distratti. La corte d’assise non fa nomi, però scrive: "Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata". E viene ricordato che due pm, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano scritto una nota ai colleghi per segnalare "l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino su via D’Amelio". Ma restarono inascoltati. Accadde di peggio. A nessun magistrato della procura nissena sembrò strano che "La Barbera facesse dei colloqui investigativi con Scarantino nonostante avesse iniziato a collaborare con la giustizia". Si farà un processo per il depistaggio nelle indagini di via D'Amelio. Imputati, il dottore Mario Bo, oggi in servizio a Gorizia, e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Nei giorni scorsi, il procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e il sostituto Stefano Luciani hanno chiesto il rinvio a giudizio per i tre poliziotti del gruppo di La Barbera. 

La Caporetto di Gratteri. Crolla l’inchiesta Stige. Gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, scrive Simona Musco il 29 giugno 2018 su "Il Dubbio". La più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dal procuratore Nicola Gratteri subito dopo gli arresti, subisce i colpi dei giudici del Riesame e della Cassazione. Gli ultimi sono quelli assestati con l’annullamento con rinvio dell’ordinanza di custodia cautelare di Giuseppe Farao, 34enne, figlio di Silvio, uno dei capi della cosca, accusato di associazione mafiosa; nonché di quella a carico di Rosario Placido, attualmente ai domiciliari, accusato di associazione finalizzata all’emissione di false fatturazioni con l’aggravante mafiosa. Decisioni che sono solo le ultime di una serie che interessa, in particolar modo, la posizione di politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” servì infatti a spiegare una tesi ribadita anche ieri dall’inchiesta “Hermes”, che ha portato in carcere 15 persone: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’aggiunto Vincenzo Luberto. All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Ma il Riesame, un mese dopo, lo spedì ai domiciliari, ritenendo non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale. «Le cosche – aveva spiegato Gratteri controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». La sua, ha chiarito, è una «guerra» per «liberare la Calabria», irrimediabilmente infettata dal morbo della ‘ ndrangheta. Ed è partito da quell’inchiesta, «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis». La bontà delle accuse, ovviamente, sarà provata dal processo. Ma oggi gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, che sta accogliendo – in alcuni casi con rinvio – quasi tutti i ricorsi degli imprenditori e dei politici, circa una trentina. Non solo: il Riesame, in funzione di giudice dell’appello, ha accolto le istanze di revoca dei difensori basate su fatti nuovi, rivedendo la sua posizione per altri imprenditori. È il caso, ad esempio, di Franco Gigliotti, per il quale il Tdl ha riqualificato l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa in concorso esterno, decidendone la liberazione. Per la Dda dietro la sua azienda G- Plast, a Torretta di Crucoli, in realtà ci sarebbe stato Giuseppe Spagnolo, esponente del clan Farao-Marincola. Ma l’imprenditore, hanno dimostrato gli avvocati, delle cosche era in realtà una vittima. Altro caso quello di Pasquale Malena, accusato di associazione mafiosa, illecita concorrenza con violenza o minaccia e intestazione fittizia aggravata dalla finalità di agevolare i clan, per il quale il Riesame ha revocato la misura per «assenza di gravi indizi». Ma i casi sono molteplici: come quello di Nicola Flotta, accusato di concorso esterno ma rimesso in libertà, titolare del “Castello Flotta”, location per matrimoni sfarzosi – che lo aveva portato fino al programma “Il boss delle cerimonie” – nella quale avrebbe organizzato banchetti gratis per sodali e familiari del clan Farao-Marincola. Per Valentino Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Riesame, che gli aveva concesso i domiciliari confermato l’accusa di concorso esterno. È tornato libero, invece, Amodio Caputo, per il quale il Tdl aveva riqualificato l’accusa in intestazione fittizia di beni aggravata dalla finalità di agevolare il clan, in quanto ritenuto gestore, assieme al padre, per conto della cosca, di imprese che monopolizzano con metodi mafiosi il mercato dei prodotti semilavorati per pizza in Calabria ed in Germania. Ma i legali hanno dimostrato che quelle aziende erano state realizzate con l’impiego di denaro e mezzi provenienti dalla famiglia. C’è poi l’imprenditore, Domenico Alessio, residente negli Stati Uniti da decenni, ma che aveva deciso di avviare un’attività imprenditoriale in Italia. Impresa, in realtà, non ancora attivata e per la quale non risulterebbe da nessuna parte, dunque, l’assunzione di personale, né il pagamento di «un monte stipendiale elevato per gli accoscati, per come riportato nell’ordinanza custodiale e posto a fondamento della stessa». E per scoprirlo, dicono gli avvocati, sarebbe bastato «acquisire la documentazione della società italiana, peraltro pubblica».

Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.

Giornalisti antimafia nella cricca-Montante? Secondo l’accusa l’ex presidente di Confindustria Montante avrebbe creato un sistema parallelo per spiare e fare del dossieraggio, scrive Damiano Aliprandi il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". “Double Face” è l’operazione giudiziaria nei confronti dell’ex presidente di Confindustria in Sicilia Antonello Montante, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Non a caso l’operazione parla della doppia faccia: da un lato il richiamo costante al concetto di “legalità”, dall’altra l’attribuzione di etichette di “mafiosità” agli avversari. L’accusa è gravissima ed emblematica nello stesso tempo. Parliamo dell’antimafia come strumento di Potere, tanto da creare un sistema parallelo per spiare, fare del dossieraggio e, non da ultimo, avvicinare i giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani vengano, in un certo senso, redarguite e manipolate, affinché non scrivano notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Esattamente al tredicesimo capitolo dell’informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta dalla Procura –, si parla proprio dei rapporti di Montante con i giornalisti. Molti sono di rilievo. Va precisato che si tratta di un’informativa e quindi di un atto d’indagine unilaterale degli inquirenti, a cui dovrà fare seguito il contraddittorio con la difesa e le verifiche da parte delle autorità giudiziarie. Al momento non c’è niente di concreto, solo le accuse della polizia. Per dovere di cronaca e rispetto del lavoro altrui, per chi volesse leggere l’intera l’informativa, può scaricarla dalla testata abruzzese giornalistica on line Site. it. Emerge dall’indagine che proprio il fastidio nei confronti dei giornalisti troppo critici verso il suo operato fu il filo conduttore del rapporto che Montante avrebbe scelto di instaurare con certi esponenti della stampa, con alcuni dei quali aveva cercato anche di intessere rapporti per carpirne la benevolenza nelle cronache. Ne sarebbero la prova, agli atti d’indagine degli inquirenti che hanno condotto all’arresto di Montante, la raccolta di intercettazioni ma anche gli appunti riversati meticolosamente su un’agenda Excel, che completano le fonti di prova indicando orari, luoghi, fatti, temi, persone in merito agli incontri con alcuni giornalisti. Sono gli stessi inquirenti che a questo riguardo citano la violazione deontologica della Carta dei Doveri del Giornalista che impone il divieto di ricevere favori o denaro o regalie per evitare che ne venga condizionata l’attività di redazione o lesa la dignità della professione e la credibilità. Un operato che ha creato diversi problemi anche nei confronti di quei giornalisti che si adoperavano per il diritto e il dovere di cronaca. Come il caso di Giampiero Casagni, giornalista siciliano del settimanale “Centonove”, che, dopo avere raccolto del materiale inerente presunti rapporti tra Montante e l’imprenditore Arnone Vincenzo (che sarebbe un personaggio vicino a Cosa Nostra), aveva pensato di dare risonanza alla notizia attraverso la rivista Panorama: la notizia non fu mai pubblicata e dall’informativa emerge la frequentazione che il direttore avrebbe avuto con lo stesso Montante. Tra i rapporti con la stampa emergono quelli intessuti con due giornalisti de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che firmarono un articolo in tema di “professionisti dell’antimafia”, attirando così il fastidio di Montante sul contenuto che ritenne troppo critico nei suoi confronti. Uscito con il titolo ‘ Confindustria Sicilia occupa il potere nel nome della legalità”, l’articolo fu per Montante anche motivo di discordia con il magistrato Niccolò Marino che, nel corso di un procedimento, dovette persino raccontare alla Procura di Catania di aver incontrato Montante in un hotel della città, essendo quest’ultimo molto arrabbiato per il contenuto dell’articolo e credendone il magistrato come l’artefice occulto. Successivamente, fu nell’occasione di una riunione a Caltanissetta in Confindustria Sicilia che, a dire del testimone sentito nel corso delle indagini, ritornarono i nomi dei due giornalisti. Montante chiese a «chiunque ricopriva incarichi di vertice in Confindustria» di «erogare contributi economici», specificando che era necessario sponsorizzare un sito on line, L’Ora Quotidiano, e un mensile cartaceo. Fu quella l’occasione in cui si seppe che l’iniziativa del sito era stata proposta proprio da quei due giornalisti, che un anno prima avevano pubblicato l’articolo su Il Fatto Quotidiano. Era nella stessa riunione che Montante avrebbe riferito, sempre a detta del testimone sentito, che i giornalisti erano bravi «ed occorreva perciò renderli più morbidi onde evitare la pubblicazione di notizie che potessero danneggiare la sua persona». A detta del testimone, lui versò il denaro. Il sito on line L’Ora Quotidiano dal canto suo ebbe vita breve: fu aperto il 18.10.2014 ma già il 22.2.2015 chiudeva. Sempre sulla vicenda riguardante la creazione del giornale on line e l’insofferenza del Montante a leggere notizie critiche nei suoi riguardi, l’informativa fa un richiamo anche alle dichiarazioni rese dal giornalista de Il Sole 24 ore Giuseppe Oddo, il quale riferiva agli inquirenti che quando era stato pubblicato il fatidico articolo de Il Fatto Quotidiano, il Montante lo aveva chiamato perché, avendo mal digerito l’attacco a lui, voleva che Oddo intervenisse parlando con il direttore del giornale che all’epoca era Padellaro. Oddo rispedì al mittente l’invito: «Ovviamente rifiutai l’invito del Montante– dichiarazione riportata nell’informativa, dicendogli che facevo il giornalista e non potevo prestarmi a fare una cosa del genere». Un’altra vicenda di analogo spessore che interessò le indagini nei rapporti di Montante con la stampa alla ricerca della benevolenza dei giornalisti, fu quella che riguardò la circostanza della fusione da lui fortemente voluta tra Ats e la sua partecipata Jonica Trasporti, ma osteggiata dal revisore contabile Maria Sole Vizzini così come dall’allora Presidente avvocato Giulio Cusumano. È in questa vicenda che affiorano i legami di Montante con il giornalista Lirio Abbate, i cui rapporti e incontri sono rassegnati nell’agenda excel del primo, raccolta agli atti d’indagine. L’ostilità nei riguardi della fusione da parte della Vizzini, revisore contabile, era già stata oggetto di una chiacchierata informale della stessa con il giornalista Abbate: i due si conoscevano per motivi professionali e in quella circostanza lui la invitò a non usare la spada, come al suo solito, «ma il fioretto» a proposito delle perplessità sulla fusione. La vicenda doveva essere di interesse decisivo, perché sempre a proposito della fusione e di chi ne era perplesso, un giorno l’avvocato Cusumano chiese un incontro a Palermo proprio al revisore contabile, la Vizzini, che chiamata a testimoniare, raccontò agli inquirenti che in quell’incontro il Cusumano le disse di essere «molto spaventato perché due soggetti con il volto semi coperto da sciarpe l’avevano avvicinato, dicendogli che se avesse continuato a rompere avrebbero reso pubbliche le vicende giudiziarie, che riguardavano la sua famiglia» oltre che alcuni dettagli della sua vita privata. Non trascorsero molti giorni, che, raccontò la Vizzini agli inquirenti, Abbate la chiamò al telefono e le chiese informazioni sull’avvocato Cusumano e cioè «se fosse vera la notizia di eventuali problemi giudiziari che riguardavano la sua famiglia e se questi avesse partecipato a qualche festa particolare». La Vizzini fu sentita come testimone sulla vicenda, ma del rapporto tra Montante e Abbate vi è traccia nei numerosi atti d’indagine. Sempre sui rapporti della stampa con Montante, è emersa nell’indagine anche la sua frequentazione con l’autore Roberto Galullo de il Sole 24 Ore. L’occasione di scontro fu una collaborazione in un’inchiesta sulla situazione delle acque e dei rifiuti in Sicilia, inizialmente scomoda, ma dalla quale poi sarebbe nato «un rapporto molto stretto», come lo definiscono gli inquirenti, tanto che in occasione del sequestro, al Montante fu rinvenuta anche la ricevuta dell’acquisto di 500 copie di un libro sulla legalità scritto dal medesimo giornalista, oltre che quelle di vacanze pagate a Cefalù. Sul rapporto intrattenuto tra i due, esaustiva per gli inquirenti è stata ritenuta l’intercettazione del febbraio 2016, in cui Montante, parlando con Galullo e raccontandogli di «un’accesa discussione» con il direttore de Il Sole 24 Ore, gli riferì di un articolo che lo riguardava «e che non gli era andato a genio». Fu questa l’occasione in cui Montante raccontò al giornalista di aver convinto il direttore, anche ricordandogli di essere un azionista, a scegliere sempre lui, il Galullo appunto, come firma degli articoli che lo riguardavano. Il direttore – sostiene Montante – acconsentì. Così, come quando – era il 13 febbraio 2015 – solo dopo qualche giorno dalla notizia su Repubblica delle indagini in corso a suo carico, che compariva sul blog del giornalista l’articolo "Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti".

Sistema Montante, ma una informativa non è oro colato. Probabilmente sono tutti innocenti, anche Montante forse è innocente. Chissà però che questa inchiesta non ci possa aiutare a riportare sulla terra l’informazione sulla mafia, scrive Piero Sansonetti il 30 Maggio 2018 su "Il Dubbio". L’ informativa della polizia sul «sistema Montante», della quale parla l’articolo di Damiano Aliprandi, è abbastanza clamorosa. Se la metà delle notizie che contiene fosse verificata e confermata, vorrebbe dire che un pezzo importante del giornalismo antimafia è assai meno trasparente di quel che vuole far credere. Il problema è che attualmente esiste solo questa informativa. Riscontri zero, non ci sono prove. E le informative della polizia e dei carabinieri, se le cose funzionassero bene nel nostro sistema giudiziario- informativo, sarebbero materiale di lavoro esclusivamente per la magistratura e non per i giornalisti. Invece succede sempre che c’è una manina – tra i poliziotti, o i giudici che diffonde queste informative, e scoppia il putiferio. È stato sulla base delle informative di alcuni carabinieri (poi risultate addirittura contraffatte) che un anno e mezzo fa scoppiò il caso Consip che portò danni irreparabili – e ingiusti – alla figura dell’ex premier Renzi e del partito democratico. Almeno in parte la attuale situazione politica – con i partiti populisti in grande vantaggio su quelli liberali e socialdemocratici – è figlia di quello scandalo, montato in modo sofisticato e sapiente. Allora fu soprattutto il Fatto Quotidiano a condurre la campagna, con l’appoggio dei 5Stelle, ma fu ben spalleggiato da altri grandi giornali, che si contesero informative della polizia, testi segreti di intercettazioni, e persino di intercettazioni illegali, come quelle tra un imputato e il suo avvocato. Cerchiamo ora di evitare che si ripeta quel copione a parti invertite. Stavolta i giornalisti delFatto invece che dalla parte dei fustigatori di costumi sono dalla parte dei sospettati. Ecco, evitiamo il gioco delle ritorsioni. E consideriamo tutti innocenti fino a prova contraria. Gli amici del Fatto conoscono benissimo quella vecchia e celebre frase di Pietro Nenni: «Se fai a gara a fare il più puro, troverai sempre uno più puro di te che ti epura…». Devo dire che ho l’impressione che il rischio di una campagna di stampa contro Il Fatto, o contro l’Espresso, per i sospetti avanzati dalla polizia di Caltanissetta, non sia un rischio altissimo. Dentro l’informativa della polizia ci sono nomi e fatti che riguardano una decina di giornalisti e di giornali importanti. Qualcosa mi dice che i giornali e i giornalisti, se scoppia qualche scandaletto che li riguarda, diventano molto indulgenti. Immagino che se questa informativa riguardasse qualche ministro del Pd, o qualche donna o uomo del cerchio magico di Berlusconi, per esempio, avrebbe già conquistato i titoli di apertura di tutti i giornali, avrebbe riempito i talk show (anche della “7”) e magari avrebbe provocato una raffica di dimissioni. Coi giornalisti, si capisce, è diverso. Fatta questa premessa, e ribadita la mia convinzione sull’innocenza dei colleghi accusati, occorrerà anche qualche riflessione sul rapporto del giornalismo italiano con l’antimafia. Riflessioni che non hanno niente a che fare con questa inchiesta: l’inchiesta è solo lo spunto. Esiste un problema, ed esiste da tempo. Il giornalismo che si occupa di mafia, e che quindi fornisce le informazioni sulla mafia e sulla lotta alla mafia, è esclusivamente quello accreditato dalla famosa compagnia dell’antimafia. Cioè da quel gruppo di magistrati e di intellettuali e di sacerdoti e di rappresentanti politici che si sono conquistati non si sa bene come l’esclusiva del marchio antimafia, e lo usano a loro piacimento. Se un giornalista non ha il benestare della compagnia è bene che non si occupi di mafia. Questo è un problema, perché l’assoluta assenza di pluralismo, su questo terreno, ha prodotto fenomeni macroscopici di disinformazione. L’assenza di pluralismo, e quindi di punti di vista, sempre produce una distorsione dell’informazione. E trasforma le ipotesi (o, peggio, le tesi) in verità rivelata. Basta guardare a come i giornali e le televisioni hanno riferito del processo “Trattativa”. Tutti allineati sulle posizioni dei Pm, e in particolare del Pm Di Matteo. Dov’è l’anomalia del processo “Trattativa”? Non tanto nella linea accusatoria (che io considero debolissima, inconsistente, ma che è legittima) quanto nella copertura giornalistica, colpevolista, che è stata così massiccia e così acritica da determinare un condizionamento evidente della giuria. Basta dire che qualche giorno fa un consigliere di amministrazione della Rai, di gran nome (parlo di Carlo Freccero) ha chiesto la trasmissione di un documentario colpevolista sulle reti Rai, quando il processo è ancora al primo grado. E siccome il presidente della Rai, logicamente, gli ha detto di no, si è indignato, ha mobilitato il Fatto e addirittura ha parlato di censura. Senza che nessuno si scandalizzasse per le sue prese di posizione. Sarebbe una novità importante se invece adesso potessimo ricominciare a parlare di antimafia facendo piazza pulita dei pregiudizi e del potere “feudale” della “compagnia antimafia“. In questo, l’inchiesta- Montante ci può aiutare. Io sono abbastanza convinto non solo dell’innocenza dei colleghi, ma anche della probabile innocenza di Montante. Spero che saranno tutti completamente scagionati. E spero che poi, anche con loro, si potrà finalmente iniziare a discutere, e a ragionare, senza che nessuno accampi un complesso e un diritto di superiorità.

Caso Mori: un’altra sentenza che “smonta” la trattativa Stato-mafia. Condannati il Gruppo Espresso e il giornalista Attilio Bolzoni a corrispondere un risarcimento di 15.000 euro al generale Mario Mori, scrive Damiano Aliprandi il 24 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Condannati il Gruppo Espresso e il giornalista Attilio Bolzoni a corrispondere un risarcimento di 15.000 euro al generale Mario Mori, che li aveva citati in giudizio – tramite gli avvocati Zeno Zencovich e Basilio Milo – per diffamazione a mezzo stampa per la pubblicazione di un articolo del 2014 dal titolo "Il Ros al tempo di Mori quando le indagini finivano in un labirinto". È in questa sentenza che il tribunale civile di Roma si è trovato a dover valutare quelle attività dei Ros sotto il comando del generale Mori definite dall’articolo, tra gli altri, “resa segnata da sabotaggi, inchieste pilotate, latitanti protetti, covi mai perquisiti, imputati eccellenti graziati”, ma anche ulteriori affermazioni che, scrive il giudice, “tacciavano il reparto dei Ros come composto da spie travestite da carabinieri, indicando nella data dell’arresto di Riina ad opera del reparto quella ufficiale del famigerato patto tra apparati e fazioni di mafia”. È proprio a proposito di queste frasi contenute nell’articolo ritenuto diffamatorio, che il giudice rileva l’intento dell’articolo di “gettare un’ombra di illegalità su tutta l’attività del Ros guidato dal generale Mori fin dall’inizio”, anche spingendosi al punto di commentare che “la ovvia portata diffamatoria di aver indicato come spie i carabinieri del generale Mori non necessita di commenti”. Singolare è la portata della decisione del giudice che interviene esattamente ad un mese dalla condanna di primo grado del generale Mori nel processo “Stato- mafia”, con una pronuncia che ripercorre il tema della presunta Trattativa nelle due assoluzioni a questo riguardo già pronunciate, prima nel 2006 e poi nel 2013, proprio nei confronti del medesimo Mori quasi a condurre sul terreno del ne bis in idem, ovvero che un giudice non si può esprimere due volte sulla stessa azione se si è formata la cosa giudicata. Scrive il giudice che “l’affermazione che il generale Mori e il Ros avevano fornito false informazioni alla Procura era stata smentita dalla pur complessa ricostruzione di cui alla sentenza, che seppur non dava atto di condotte esemplari da parte di chi aveva partecipato alle indagini, Ros compreso, nemmeno tacciava il reparto di avere dolosamente mentito agli organi inquirenti”, così facendo riferimento alla pronuncia del 2006, quella relativa agli episodi del covo di Riina, ma anche quella successiva, del 2013 relativa al “blitz inspiegabilmente abortito”, come lo descriveva l’articolo, del covo di Provenzano. È la sentenza del 2006, quella che il giudice cita per prima per giustificare la falsità del contenuto dell’articolo, alludendo al tema della “trattativa Stato- mafia” rispetto all’azione dei Ros “di cui pure il giornalista accusava il reparto”: la citazione è quella della motivazione che assolveva il generale Mori osservando che “se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato… non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose… in aperta violazione di quel patto stipulato… Se gli elementi di carattere logico e fattuale di cui sopra sono idonei a smentire l’ipotesi della “trattativa Statomafia” avente ad oggetto la consegna del Riina, deve concludersi che più verosimilmente l’iniziativa del generale Mori fu finalizzata solo a far apparire l’esistenza di un negoziato al fine di carpire informazioni utili sulle dinamiche interne a Cosa nostra e sull’individuazione dei latitanti”. Pur parlando di spregiudicata iniziativa dei Ros, è lo stesso giudice civile che conferma, nella sua pronuncia di condanna al risarcimento del danno, che la sentenza penale aveva già smentito a suo tempo che una “trattativa Stato- mafia” vi fosse stata ad opera del Ros e del generale Mori. Non solo, di uguale segno assolutorio ne è il richiamo all’altra pronuncia del 2013 che non ritenne raggiunta la prova sull’esistenza “di una sorta di trattativa fra ambienti istituzionali e mafiosi dalla quale siano scaturiti nel novembre 1993 il mancato rinnovo per alcune decine di appartenenti a Cosa nostra della sottoposizione al regime previsto dal secondo comma dell’art 41 bis”. Sentenza questa che considerò “inaccettabile la indicazione di Massimo Ciancimino secondo cui il Provenzano, addirittura fino ai primi del secolo in corso, godeva di ampia libertà di movimento”. Il giudice romano non risparmia il profilo diffamatorio all’articolo, neppure a proposito dell’episodio della cattura del latitante Nitto Santapaola e della condotta del generale Mori che, secondo la Repubblica, avrebbe impedito sostanzialmente l’arresto con spari che i suoi uomini avrebbero rivolto a un passante lasciando palesare la loro presenza. Anche in questo caso al giudice è bastato ripercorrere la motivazione della sentenza palermitana che nel 2013 assolveva Mori. Allusioni rispetto alla natura diffamatoria dell’articolo sono rivolte anche al tema dell’inchiesta mafia- appalti, quella che nell’articolo viene descritta come un pacco trasportato in diverse Procure: il giudice romano osserva che Mori “deduceva che a fronte della mole dei soggetti implicati erano state chieste solo 5 misure cautelari per un procedimento che poi era stato archiviato”. Vicenda che Il Dubbio ha approfondito con un’inchiesta.

Trattativa, Di Matteo accusa: "Csm e Anm non ci hanno difeso dagli attacchi". Replica l'Anm: "Abbiamo sempre tutelato l'indipendenza dei magistrati". Per il pm del processo di Palermo "i carabinieri non hanno agito da soli: pensiamo che siano stati mandati e incoraggiati da altri". Dell'Utri? "Secondo la sentenza era tramite fra Cosa nostra e Berlusconi, anche dopo il 1992", scrive il 22 aprile 2018 "La Repubblica". "Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall' Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Direzione nazionale antimafia Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla Trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Raitre, a proposito delle critiche subite negli anni dal pool che ha coordinato l'inchiesta. A stretto giro la replica dell'Associazione nazionale magistrati, che rivendica di avere "sempre difeso dagli attacchi l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati". In una nota, il presidente dell'Anm, Francesco Minisci, sottolinea che l'associazione di categoria delle toghe "continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie". Ma nel corso del programma di Lucia Annunziata, Di Matteo ha aperto anche altri fronti di polemica: "Ho sempre creduto nella doverosità di questo processo - ha detto - qualunque esito avesse avuto. Ho la consapevolezza di aver fatto il mio dovere. La sentenza emessa da una corte qualificata che in cinque anni ha dato spazio a tutte le prove dell'accusa e della difesa, non ci ha colto di sorpresa. Il verdetto ha messo un punto fermo importante sancendo che mentre la mafia, tra il '92 e il '93, faceva sette stragi c'era chi all'interno dello Stato trattava con vertici di Cosa nostra e trasmetteva ai governi le sue richieste per far cessare la strategia stragista". "E' un punto importante - ha spiegato Di Matteo - che può costituire un input per la riapertura anche delle indagini sulle stragi che probabilmente non furono opera solo di uomini di Cosa nostra". Per il pm del processo Trattativa, "gli ufficiali dei carabinieri sono stati condannati per avere svolto un ruolo di cinghia di trasmissione delle richieste della mafia nel '92, quindi rispetto ai governi della Repubblica presieduti da Amato e Ciampi, mentre Dell'Utri è stato condannato per avere svolto il medesimo ruolo nel periodo successivo a quando Berlusconi è diventato premier. Questi sono stati i fatti per cui gli imputati sono stati condannati. È un fatto oggettivo. Poi resta da capire come mai, rispetto al fallito attentato all'Olimpico, nel 1994, Cosa nostra abbandonò le stragi e avviò una lunga fase di tregua nell'evitare il frontale attacco allo Stato. Questo dovrebbe essere uno spunto di riflessione", ha aggiunto Di Matteo. "È ovvio che noi abbiamo agito verso soggetti che ritenevamo coinvolti sulla base di un quadro probatorio solido, ma non pensiamo che i carabinieri abbiano agito da soli. Non abbiamo avuto prove concrete per agire contro livelli più alti, ma pensiamo che i carabinieri siano stati mandati e incoraggiati da altri". "I carabinieri che hanno trattato - ha precisato il magistrato - sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe un 'pentito di Stato', uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi.  La sentenza è precisa e ritiene che Dell'Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo - ha affermato Di Matteo - anche nel periodo successivo all'avvento alla presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c'è un elemento di novità. C'era una sentenza definitiva che condannava Dell'Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al '92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell'Utri tra Cosa nostra e Berlusconi. Né Silvio Berlusconi né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo", ha aggiunto Nino Di Matteo. C'è un ruolo politico nel futuro del pm della Trattativa? "Ho sempre detto che non vedo nulla di scandaloso - ha risposto Di Matteo a Lucia Annunziata - se un magistrato con determinati paletti possa dismettere la toga e dare un suo contributo al Paese, soprattutto nei settori che conosce sotto un'altra veste, partecipando alla vita politica e accettando incarichi di governo. Credo, però, debba essere regolata meglio la possibilità di tornare in magistratura". E a proposito delle polemiche per un suo possibile ruolo politico, il magistrato ha detto di non aver avuto alcuna richiesta di scendere in campo. "Se qualche forza politica manifesta stima per me - ha detto Di Matteo - non posso impedirlo né me ne vergogno".

"Trattativa Stato-mafia una boiata pazzesca Di Matteo populista". Il giurista e lo storico, di sinistra ed esperti di Cosa Nostra, smontano così il processo, scrive Patricia Tagliaferri, Martedì 24/04/2018, su "Il Giornale". C'è chi il processo sulla trattativa Stato-mafia lo riassume così, con parole comprensibili a tutti: «Se la trattativa fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto, se la mafia avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è così». Non è una frase di un berlusconiano della prima ora, ma di un giurista come Giovanni Fiandaca, il titolare di Diritto penale all'università di Palermo che da sempre rappresenta un punto di riferimento per la cultura di sinistra, in passato candidato per il Pd alle europee. Colui che l'ex pm Antonio Ingroia, il «padre» dell'indagine sulla trattativa, considerava il suo maestro. Dunque un insospettabile, che parla da tecnico. Fiandaca ha scritto, con lo storico Salvatore Lupo, La mafia non ha vinto (Laterza), un saggio nel quale i due studiosi sostengono una tesi sorprendente: l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regge, Cosa Nostra non è stata salvata e non è stato commesso alcun reato, perché se ci fosse stata una trattativa sarebbe stata comunque «legittima», con l'unico scopo di bloccare le stragi. Uno sguardo nuovo su una vicenda piena di ambiguità e di nodi tecnici da sciogliere. Il dibattimento appena concluso secondo il giurista non si sarebbe mai dovuto celebrare, tanto meno davanti a una giuria popolare impreparata ad affrontare questioni di diritto tanto sottili. Invece sulla trattativa che lo stesso Fiandaca aveva definito sul Foglio «una boiata pazzesca» il processo c'è stato e per ora l'impianto accusatorio non è stato sconfessato, nonostante le sue perplessità sul reato, «minaccia a corpo politico dello Stato», ipotizzato perché quello di «trattativa» non esiste. Lo studioso inquadra tutto nell'ottica del cosiddetto «populismo giudiziario», quel fenomeno che a suo dire si verifica quando «un magistrato pretende di assumere un ruolo di interprete delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e in una logica si supplenza se non di conflitto con il potere politico». Esempio ne è - Fiandaca lo cita in un articolo sulla rivista Criminalia - proprio il pm della trattativa, Nino Di Matteo, che «trae dal consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato». Quel Di Matteo che non disdegna la politica, sostenendo di non vergognarsi della stima dei Cinque Stelle, poi si lamenta perché Csm e Anm non lo hanno difeso dagli attacchi: «Silenzio assordante». Le argomentazioni giuridiche dell'esperto di diritto si intrecciano con quelle storico-politiche del professor Lupo, anche lui intellettuale di sinistra, che cerca di andare oltre la constatazione che la trattativa tra Stato e mafia c'è sempre stata. «La storiografia deve spiegare come le cose sono cambiate», dice. E i fatti per lo studioso raccontano quello che la politica e la magistratura sembrano ignorare: cioè che la strategia stragista dalla mafia è stata sconfitta e che non ci fu nessuna trattativa perché dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino le istituzioni reagirono. Lupo sostiene di non capire «quale contributo Cosa Nostra potesse portare alla nuova politica berlusconiana con la sua strategia della tensione. «Le sue vittorie - osserva - sono state determinate dalla formidabile spinta di un'opinione pubblica convinta di doversi liberare dalla partitocrazia catto-comunista fiduciosa che finalmente il grande imprenditore avrebbe dato al Paese un governo del fare».

Il "vaffa day" dei giudici senza toga, scrive Luca Fazzo, Martedì 24/04/2018 su "Il Giornale". Benché il reale andamento della discussione sia destinato a restare sepolto nel segreto della camera di consiglio, è inevitabile domandarsi quali dinamiche si siano sviluppate nei tre giorni in cui la Corte d'assise di Palermo è rimasta in clausura in carcere per emettere la sentenza finale del processo sulla trattativa Stato-Mafia. Partendo da un dato di fatto: ogni volta che il teorema del pm Antonino Di Matteo era stato portato all'esame di giudici di mestiere era stato sonoramente sconfessato. Stavolta invece - vista la gravità dei capi d'imputazione - si procedeva davanti alla Corte d'assise: due giudici togati, il presidente Alfredo Montalto e il giudice a latere Stefania Brambille, e sei cittadini qualunque, i cosiddetti giudici popolari, cittadini qualunque. Requisiti: la terza media e i trent'anni compiuti) prestati alla giustizia dietro rimborso di 25,82 euro al giorno. Non sanno nulla di diritto ma il loro parere conta esattamente quanto quello dei «togati». Bastano quattro giurati che si impuntano, e la linea proposta dai due professionisti può essere messa in minoranza. Normalmente non accade, il presidente sa accompagnare i giurati sul sentiero che considera più corretto. Ma ogni tanto succede che il cittadino con fascia tricolore non si faccia convincere e vada allo scontro con i due del mestiere. Accadde, e clamorosamente, in uno dei processi per l'omicidio Calabresi. Quando il tema, come nella sentenza di Palermo, è squisitamente politico, è difficile immaginare che i giurati riescano sempre a lasciare le loro opinioni fuori dall'aula. A Palermo il 4 Marzo il Movimento 5 Stelle ha preso il 48,5 dei voti, quindi è statisticamente plausibile che tra i sei giurati del processo sulla Trattativa ci fossero almeno tre elettori grillini: cittadini che odiano la Casta, e che hanno nel pm Di Matteo il loro guru. È troppo poco per ipotizzare che la sentenza di venerdì mattina sia stato (anche) un «Vaffa day» giudiziario?

Il giudice della trattativa che sequestrò un innocente, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 24/04/2018 su "Il Giornale". La memoria è corta. Alfredo Montalto, il presidente della Corte di assise di Palermo che ha emesso la sentenza di condanna per la trattativa Stato-mafia, ebbe un contenzioso con la Camera dei deputati per una mia affermazione. E perse. A dargli torto fu la Corte costituzionale, con una storica sentenza firmata da Riccardo Chieppa presidente, con i giudici Zagrebelsky, Onida, Mezzanotte, Contri, Neppi Modona, Capotosti, Marini, Bile, Flick, De Siervo, Vaccarella, Maddalena, Finocchiaro. La storia è questa. L'ex ministro democristiano Calogero Mannino, considerato la chiave della trattativa Stato-mafia, era stato arrestato il 13 febbraio del 1995 su ordine di custodia firmato dal gip di Palermo Alfredo Montalto, che aveva motivato il provvedimento con il pericolo di depistaggi nelle indagini. Rinchiuso nel carcere romano di Rebibbia, si ammalò gravemente fino ad arrivare ad uno stato di deperimento (come attestarono anche Marco Pannella e altri parlamentari) che lo portò alla scarcerazione. Nel 2008 la Corte d'appello di Palermo, presieduta da Claudio Dell'Acqua, dopo tre gradi di giudizio, assolse definitivamente Mannino dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per la quale il sostituto procuratore generale Vittorio Teresi, sodale di Ingroia e di Di Matteo, di cui sono noti gli orientamenti politici, aveva chiesto la condanna a otto anni. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dal Tribunale di Caltanissetta con atto del 19 luglio 2001, ha per oggetto la deliberazione con la quale la Camera dei deputati, nella seduta del 21 giugno 2000, dichiarò che i fatti per i quali era in corso innanzi al medesimo tribunale il giudizio per diffamazione aggravata nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, riguardano opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, insindacabili ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione. Tre anni di ingiusta carcerazione preventiva per un reato inesistente sono l'idea di giustizia espressa da Montalto, al quale lo Stato e anche i difensori degli imputati hanno consentito di presiedere questo processo, trasformando la confusa tesi della accusa in una gravissima condanna politica. Lo Stato deve reagire. Io, leso nella libertà delle mie scelte politiche, come feci con Ingroia, e il Giornale mi seguì senza alcuna reazione giudiziaria, denuncerò i pubblici ministeri e i membri della Corte per diffamazione, avendo partecipato alla fondazione del partito Forza Italia da loro fantasiosamente chiamato in causa. Estendendosi al governo e alle scelte politiche di Berlusconi, le accuse dei magistrati investono anche la Lega perché nel 1994, quando si evoca l'azione (irreale) di Dell'Utri, il ministro dell'Interno era Roberto Maroni.

Concorso esterno. Il reato non parlamentare, ma giurisprudenziale partigiano. Basta eliminare i magistrati dissidenti laici non comunisti e giustizialisti.

Parla Corrado Carnevale: «Avevo una mania pericolosa: applicare la legge…». Intervista di Valerio Spigarelli del 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Ripubblichiamo l’intervista a Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Corte suprema di Cassazione dal 1985 al 1993, apparsa nel numero di marzo della rivista della Camera penale di Roma “CentoUndici”, firmata da Valerio Spigarelli e Giuliano Dominici, dunque negli stessi giorni in cui ricorrono i 25 anni dall’avviso di garanzia che il giudice ricevette da Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, il 23 aprile 1993. “Quando venne introdotta la figura del 416 bis mi occupavo esclusivamente di civile, perché io diventai penalista per caso, dato che sono un penalista di complemento, così mi sono sempre qualificato, anche se mi sono laureato in Diritto penale e ho avuto il diritto alla pubblicazione della tesi, quindi, non ero digiuno. Allora, dissi, me ne vado nella più penalistica delle Sezioni Penali e andai nella Prima Penale”. “Alla prima Penale si cominciava a parlare di 416 bis, o meglio c’era già il 416 bis che fu introdotto dopo l’omicidio di Costa, del Procuratore della Repubblica Costa. Naturalmente, dai processi che cominciarono ad essere esaminati con la mia presidenza c’erano anche processi di 416 bis e, quindi, cominciai a studiarmi la questione. Durante il fascismo non fu necessario inventare una nuova figura di reato per punire i mafiosi, con risultati che poi non si sono più avuti. Lo stesso risultato non si era avuto in seguito e mi sorpresi che si fosse creata questa nuova figura anche se capii subito che il nucleo era costituito dalla pressione che questi soggetti esercitano, avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione, cioè a dire il soggetto passivo del reato soggiace molto di più alle richieste del mafioso perché teme le reazioni dell’associazione che sono certo eccessive rispetto alle comuni reazioni dei delinquenti, alle richieste di pagamenti, alle estorsioni insomma, perché la caratteristica della mafia, almeno all’epoca, era quella di esercitare estorsioni senza atti violenti ma solo avvalendosi della forza intimidatrice dell’associazione”.

Presidente, quando fu introdotta, la norma fotografava un fenomeno con una chiara una connotazione sociologica, oltre che criminologica: si può dire che le prime letture in Cassazione del 416 bis sono legate anche a questa identificazione sociocriminale?

«Sì, sono strettamente legate perché non c’è dubbio che la cosa ha delle caratteristiche diverse da tutte le altre, o comunque peculiari rispetto alle altre associazioni, quindi, il Giudice, nell’applicare la norma, se la applica in modo corretto, sa benissimo quali sono gli elementi da valorizzare, da centrare. Poi con il tempo le cose sono cambiate e sono cambiate soprattutto quando si è introdotto da parte dei giudici di merito il concorso esterno. Concorso esterno che noi, per la verità, escludemmo in maniera assoluta con tre o quattro sentenze della fine degli anni 80, tant’è che la Corte di Giustizia europea ha dovuto affermare che questa figura del reato si era consolidata soltanto con l’intervento delle Sezioni Unite, con la famosa sentenza del 1992 – mi pare che sia così – avallando quello che nel nostro sistema è inammissibile, e cioè che la giurisprudenza possa creare nuove figure di reato».

C’è qualcuno che dice, non soltanto in giurisprudenza ma anche parte della dottrina – Fiandaca uno per tutti –, che non è vero che il concorso esterno sia una stravagante invenzione della giurisprudenza: no, il concorso esterno nel reato associativo è da sempre riconosciuto nel sistema penale. La sua opinione su questo quale è? 

«Io non riesco ad immaginare come uno che non fa parte di una associazione possa concorrervi; o è favoreggiamento oppure è concorso interno, perché io non credo che per poter essere responsabile di concorso in associazione mafiosa si debba per forza aver avuto il provvedimento di ammissione, il battesimo, la puncicata. Non credo che questo sia indispensabile, e infatti tutte le sentenze che sono state fatte nella seconda parte del 1980 erano su questa posizione, con la mia presidenza e anche senza la mia presidenza, dalla Prima Penale, perché all’epoca la Prima Penale aveva l’esclusiva, mentre successivamente fu fatto un certo spostamento».

Presidente, quello spostamento avvenne per caso? Come si arrivò a decidere che non doveva essere solo la Prima ad occuparsi di questi reati?

«Perché si diceva che non era opportuno che le decisioni fossero prevedibili, questo era il punto. Secondo me, invece, la prevedibilità delle decisioni è un vantaggio, è una cosa alla quale bisognerebbe tendere, non fare di tutto per evitarla; questo diminuirebbe anche il contenzioso, perché se l’avvocato deve sostenere una tesi e sa che non trova spazio, almeno in quel momento, si avrebbe anche una diminuzione dei ricorsi e siamo sempre lì: la giustizia in Italia va male perché è amministrata male».

Su questo ci tornerei più in là, rimaniamo sulla storia del reato, del concorso esterno e di quel filone giurisprudenziale. Viene inserito questo reato, un reato specifico che non era stato introdotto neppure ai tempi del fascismo, siamo in piena guerra di mafia; quella giurisprudenza, la cosidetta giurisprudenza di Carnevale – che come lei dice non era di Carnevale, ma della Prima Sezione – al di là del merito afferma un principio: quello della libertà della giurisdizione. Anche di fronte alla emergenza c’è un magistrato, ci sono dei magistrati, che vogliono fare i giudici “normali” per qualsiasi tipo di fenomenologia criminale, per qualsiasi tipo di reato, ma rispetto a questa “pretesa” di giudicare in maniera ordinaria fenomeni che vengono ritenuti straordinari succede che la Prima Sezione viene aggredita.

«Viene aggredita, e non episodicamente».

Come s’avvertiva la pressione politica, mediatica, giudiziaria, insomma l’aspettativa che un processo dovesse andare in una certa maniera piuttosto che in un’altra?

«Tutte le volte che ci occupavamo di ricorsi di quel tipo, l’indomani la stampa parlava dell’ammazzasentenze. Io lo sapevo benissimo, ma questo mi lasciava del tutto indifferente e quando seppi che c’era un magistrato di Palermo che aveva coniato il termine ammazzasentenze io risposi che noi non ammazzavamo nessuna sentenza, ma facevamo tutt’al più il lavoro dell’anatomopatologo, quello che fa l’analisi sul cadavere».

Tutto questo come veniva vissuto, non soltanto da lei personalmente ma dalla Corte?

«Guardi la Corte, i componenti del collegio, non l’avvertivano neppure per indignarsi, perché la vulgata attribuiva tutte le decisioni a me, e neppure avvertivano che, in fondo, se da un canto attaccavano solo me, implicitamente consideravano loro delle marionette, e non uno solo, tutti e quattro, e non erano sempre gli stessi tra l’altro. Però a loro dava fastidio che si parlasse della Prima Penale. Io ricordo che quando ci fu la prima ondata di queste cose, in una udienza successiva con un collegio completamente diverso dal precedente, ci occupammo del ricorso contro l’ordine di cattura nei confronti di un famoso personaggio dell’epoca che era stato attinto da un ordine di cattura per omicidio, strage. Siccome era proprio una cosa pazzesca io dissi “guardate, siccome dobbiamo decidere tutti dovete essere consapevoli tutti, quindi vi leggerò parola per parola la motivazione”. Alla fine della lettura il più anziano di cui ricordo il nome, ma non ve lo dico perché è morto, quindi non può più smentirmi, disse “è acqua fresca”. Allora dissi: “Annulliamo”. Sa come mi risposero? “E che vogliamo andare un’altra volta a finire sui giornali?”. Io, guardi, non ci vidi più: “A parte il fatto che sul giornale non ci siete finiti voi, perché voi non facevate parte di quel collegio e comunque neppure i componenti del collegio, Carnevale e basta, il giudice Carnevale, l’ammazza sentenze. Ma, dico noi ci dobbiamo preoccupare di quello che dice il mondo, di quello che dice il giornale? Ma no. Dico allora sentite una cosa, siccome io vi ho letto tutto, ognuno di voi ha ascoltato perché penso non sia stato distratto, votiamo e non ne parliamo più”. Finì 4 a 1. Dopodiché uscimmo, perché bisognava, i giornali ci attendevano, ed io dissi: “Giustizia è fatta”, e capirono che ero stato messo in minoranza».

Era prevedibile che si sarebbe arrivati alla lettura attuale della norma?

«No, non era prevedibile, se la prevedibilità fosse stata sorretta dalle regole di ermeneutica normativa, è successo perché adesso non si interpreta più la norma».

Nella lettura di queste norme la giurisdizione ha difeso la tassatività della norma penale, e assieme l’indipendenza della magistratura e la libertà della giurisdizione, secondo lei?

«Almeno nel periodo in cui io fui magistrato questo accadeva, certamente ad opera di alcuni collegi, anche se in Cassazione questa idea non era condivisa da tutti. Le debbo dire, però, non per difendere me stesso ma per onorare i miei colleghi, che su quella giurisprudenza alla fine non ci fu nessun dissenso, quei colleghi che avevano rigettato il ricorso di cui ho parlato prima cambiarono opinione, tutti».

Oggi la parola mafia, proprio da un punto di vista lessicale, significa quello che significava 50 anni fa, 60 anni fa o invece, soprattutto nella percezione collettiva, abbraccia una serie talmente vasta di comportamenti che definisce fenomeni diversi, per legittimare le piccole mafie, le mafie delocalizzate? …

«Ora, qualunque gruppo di persone commette reati che in quel momento storico meritano di essere particolarmente sanzionati, questo gruppo di persone diventa un’associazione mafiosa».

In questo gioca un ruolo il fatto della specialità del processo per fatti di mafia?

«Sì, soprattutto poiché ci sono degli strumenti istruttori e investigativi che sono tipici del processo di mafia. I Pm ed i Gip ritengono che qualificando un’associazione comune come un’associazione mafiosa possono avvalersi di quegli strumenti che agevolano molto il raggiungimento del risultato».

In questo tipo di processi le intercettazioni telefoniche o ambientali durano anni. Secondo Lei la magistratura italiana ha difeso l’articolo 15 della Costituzione o, nella prassi applicativa, invece lo ha sostanzialmente vanificato?

«Credo che si sia avvalsa della massima – che io non approvo – che il fine giustifica i mezzi: siccome loro si prefiggono uno scopo, per raggiungere quello scopo per loro qualunque mezzo è consentito. Io personalmente sono stato sottoposto ad intercettazione per anni, di seguito».

Processo di mafia, processo di doppio binario, strumenti eccezionali di investigazione, grande potere alle Procure della Repubblica. La domanda è molto diretta: chi comanda oggi, all’interno di un processo, la Procura o il giudice? Chi è più forte?

«Certamente la Procura, poi c’è anche il fatto che le Procure forniscono le notizie alla stampa».

Ecco, la stampa: quando faccio la domanda ‘ chi comanda’, lei risponde immediatamente ‘ le Procure, anche perché le Procure hanno dei rapporti con la stampa’. Questo è un tema delicatissimo per la democrazia di un Paese, non soltanto per il sistema giudiziario di un Paese. Si è discusso negli ultimi tempi del problema delle intercettazioni che finiscono sui giornali. Dal punto di vista degli avvocati, su questa questione, siamo entrati in una fase successiva rispetto a quei tempi. Noi vediamo che il rapporto che si è instaurato tra alcuni uffici investigativi e i canali di informazione, mentre prima serviva a fare ‘ pubblicità all’indagine’ ex post, oppure serviva – e quello che lei ci sta raccontando ce lo dimostra – a condizionare il giudice nel momento della decisione, oggi sottende qualcosa di diverso. L’impressione è che questi rapporti preparino il terreno all’accettabilità sociale delle future decisioni. Prima di arrivare al processo Mafia Capitale ci sono stati articoli su alcuni giornali che già raccontavano che cosa doveva essere questa nuova mafia, una sorta di lavoro preparatorio.

«Sì sì, ma non c’è dubbio che la stampa favorisca e insomma dia pubblicità alle cose clamorose: le assoluzioni non danno soddisfazione, vuol dire che la giustizia ha fallito. Invece, le condanne specialmente se sono poi condanne severe – sono quelle che dimostrano ai giornalisti: avete visto come funziona bene? Anche se poi magari, nei gradi successivi la sentenza si capovolge. Io sono convinto che le fughe di notizie non provengano dai giudici, ai tempi del giudice istruttore forse era così… ma attualmente non è così, sono i pubblici ministeri che…»

Presidente sono i pubblici ministeri o adesso, invece, il rapporto non si è direttamente instaurato tra le agenzie investigative e i giornalisti? Mentre prima arrivavano le notizie dalle Procure, adesso sembra quasi che arrivino nel corso delle indagini e finiscano sui giornali direttamente dalle polizie.

«C’è il fatto che a tutti piace avere una buona stampa, essere considerato un grande poliziotto, un grande investigatore e via discorrendo. Ci sono alcuni che questo vizietto non ce l’hanno, ma la maggior parte ce l’ha e quindi… poi vedono che se certe notizie non vengono date dalla polizia, comunque poi le dà il Pm, allora lo facciamo noi e ci guadagniamo la notorietà di grandi investigatori».

La sua vicenda, quella giudiziaria, fu il primo laboratorio anche di questo: perché prima si costruì la figura del giudice ammazzasentenze, per cui era un fallimento se veniva annullato il processo che arrivava in Cassazione e finiva nelle mani di Carnevale, dipinto come uno che non capiva quanto fosse importante lottare la mafia. Oggi, paradossalmente, questo metodo che allora riguardava una figura apicale della magistratura, un uomo che comunque aveva un grande potere, sta diventando un clichè: prima l’articolo sul giornale che dice che anche a Roma c’è la Mafia, poi magari la fiction televisiva che fa la medesima cosa, quindi arriva l’ordine di custodia cautelare e poi il giudice – a Roma fortunatamente non è successo per adesso – si trova costretto a lottare con una sentenza che è già scritta nella testa dell’opinione pubblica. Quindi gli si chiede di essere doppiamente coraggioso.

«Certo, si vuole che il giudice sia condizionato, e quindi è condizionato spesso. Io ho apprezzato molto i magistrati di quel processo, quella dottoressa del processo Mafia capitale, non so come si chiama…»

La Presidente Ianniello...

«Che ha diretto in maniera perfetta e poi secondo me ha deciso correttamente; adesso vedremo che stabilirà l’appello, perché poi la Corte d’Appello certe volte è ondivaga».

Però anche nella sua vicenda giudiziaria alla fine hanno resistito alle pressioni: finisce con una decisione della Corte, no? Insomma, come dire, per Lei giustizia è stata fatta.

«Lei però forse non ricorda che il Pg non solo chiese il rigetto del mio ricorso, ma addirittura disse che avrebbero dovuto contestarvi non solo il concorso esterno, ma l’associazione a delinquere di stampo mafioso».

No, no questo me lo ricordo, però lì il giudizio “libero” ci fu e la libertà della giurisdizione pure. Insomma, diciamocelo francamente, la sua vicenda era una vicenda di rilievo enorme, anche perché poi veniva associata ad un certo contesto politico, ma i suoi colleghi lì furono liberi, riuscirono a togliersi il peso.

«Ma furono liberi perché il Collegio fu composto in quel modo, se ci fossero stati altri non sarebbero stati così».

Torniamo al concorso esterno: la giurisprudenza è fermamente attestata sulla sussistenza del concorso esterno nonostante i dubbi di molti commentatori. A questo punto non sarebbe meglio, qualcuno sostiene, costruire una fattispecie ad hoc?

«Sì, innanzitutto perché le fattispecie di reato devono essere opera del legislatore, non del giudice. Il giudice deve interpretare e applicare, ma non creare. Quando c’è l’esigenza sociale di creare nuove figure di reato, c’è il legislatore».

Aspetti Presidente, Lei dice “quando c’è l’esigenza sociale”, ma in un sistema costituzionale come il nostro introdurre un reato non dovrebbe dipendere da questo. Non è che introduco un reato perché c’è una aspettativa sociale: lo faccio perché c’è un’esigenza vera che però è condizionata dalla Costituzione. E questo vale anche per il livello sanzionatorio per certi reati. Oggi il livello sanzionatorio non dipende dalla gerarchia costituzionale dei beni ma è direttamente proporzionale alle pressioni che si fanno sul Parlamento rispetto a un certo tipo di vere o presunte emergenze. A volte, per alcuni reati, c’è una escalation sanzionatoria parossistica e magari si aumentano le pene non in base al disvalore dei comportamenti ma solo per poter utilizzare certi strumenti processuali. È proprio il caso dell’associazione mafiosa, che ha triplicato le pene nei minimi e nei massimi, nel giro di una decina di anni, per cui le pene all’epoca degli attentati del ’ 92 erano un terzo di quelle di oggi.

«Ma questo conferma che lo Stato italiano è malato».

Qual è la malattia?

«Quella di non avere dei principi chiari e di trattare la Costituzione come un optional. Io credo di averlo detto in un’intervista che poi fu pubblicata su Panorama in cui si parlava dell’associazione a delinquere e dei mafiosi. L’hanno fatta per poter utilizzare gli strumenti investigativi che altrimenti non avrebbero potuto, ed è così purtroppo. Ma questo è reso possibile dal fatto che i vari giudici non fanno il loro mestiere».

C’è un presidente di Corte di Cassazione che in questo momento si batte per l’introduzione dell’agente provocatore per i reati di corruzione: che ne pensa?

«Appunto: che faccia un altro mestiere quel giudice».

In tutta questa trentennale storia di costruzione di norme che poi pian piano sfinano fino a diventare trasparenti dal punto di vista della tassatività, quale è stato il ruolo giocato dall’accademia?

«Non parliamo dell’accademia perché io ho subìto anche da parte di certi accademici… Quando scarcerammo per decorrenza dei termini certi imputati, che poi furono riarrestati quando venne emanato un decreto legge correttivo, insomma, lei deve sapere che chi mi attaccò era Neppi Modona, che era magistrato e poi era diventato professore e faceva l’avvocato a Torino, ma non aveva aperto bocca quando la Corte d’Assise di appello di Torino, che stava giudicando i mafiosi catanesi a Torino, aveva applicato la norma sulla scarcerazione che poi applicammo noi nel gennaio successivo. Non aprì bocca quando lo fecero a Torino ma attaccò me. L’accademia, caro avvocato, ha le stesse pecche della magistratura, fa politica, e questo è grave. Chi si salva un poco è Fiandaca, che se lei legge il commento alla prima sentenza della Corte d’Assise di primo grado, la sentenza di Grasso, Maxi uno, in cui assolti ce ne furono parecchi, lui prende atto di una di queste cose e non si lamenta delle assoluzioni, come hanno fatto invece altri».

Il fatto di essere stato, e di essere considerato molto tosto con i suoi colleghi e anche di avere pubblicamente rivendicato competenza rispetto all’incompetenza, ha avuto un peso nella sua vicenda?

«Non c’è dubbio su questo, non c’è dubbio! Perché quando io per esempio durante la relazione intervenivo e rettificavo o aggiungevo, il relatore sul momento non diceva niente, però… insomma, mentre gli avvocati mi ammiravano, quando io li correggevo i colleghi non la prendevano bene».

E c’ha ripensato?

«Sì, ci ho ripensato, ma sono arrivato alla conclusione che se dovessi rinascere e avere la sfortuna di fare il magistrato, farei le stesse cose di quelle che ho fatto».

Ma lo rifarebbe il magistrato?

«Forse no».

Trattativa Stato- mafia: «Decidetevi, il Cav fu vittima o complice?» Scrive Errico Novi il 4 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il difensore del generale Mori “inchioda” i pm: “Come è possibile che l’ex premier sia rimasto amico di Dell’Utri anche dopo le minacce dei boss?” In genere i processi con più imputati parcellizzano le strategie di difesa. Difficile che una in particolare delle arringhe riassuma il senso dell’intero contraddittorio. Lo “Stato- mafia” fa eccezione anche in questo. All’udienza di ieri, l’avvocato Basilio Milio, difensore dei generali Mario Mori e Antonio Subranni, ha posto la domanda chiave: «Cara Procura, vuoi chiarirci se in questa vicenda la posizione di Silvio Berlusconi è quella della vittima di Cosa nostra o se invece fu autore di minacce mafiose?». Quesito non banale, anzi rivelatore. Evoca una delle più serie contraddizioni dell’accusa: il rapporto dell’ex premier con Marcello Dell’Utri, il solo dei due a figurare tra gli imputati del processone palermitano. «Se davvero Dell’Utri presenta a Berlusconi le minacce di Cosa nostra», chiede Milio alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, «come può avvenire che lo stesso Berlusconi conservi l’amicizia con Dell’Utri e poi addirittura se ne serva come tramite per stabilire un accordo con la mafia?». Giusto, come può? E mica il dottor Nino Di Matteo, o gli atri pm impegnati nelle fluviali requisitorie, come Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno chiarito questa bizzarria? E non è certo il solo paradosso. Ce ne sono altri, sostanziali ma anche formali. E su questi ultimi si concentra ancora Milio, in particolare quando cita «la sentenza di assoluzione già emessa sul caso Mori-Obinu: il mio assistito», dice l’avvocato a proposito del generale, «non può essere giudicato due volte per fatti che sono sempre gli stessi». Non solo. Perché i “fatti” non sarebbero stati neppure specificamente indicati dalla Procura, secondo il legale: «È la pubblica accusa che deve dirci in quale circostanza Mori, Subranni o altri avrebbero portato la minaccia di Cosa nostra al presidente del Consiglio». Perché, dettaglio tutt’altro che irrilevante, la specifica imputazione per il generale è di «minaccia a corpo politico dello Stato». Nello specifico, il “corpo” è lo Stato inteso nella sua funzione di governo. Affinché dunque possa riconoscersi il reato, è la tesi di Milio, dovrebbe essere indicato lo specifico passaggio in cui Mori trasferì la minaccia dei boss al vertice di Palazzo Chigi. «È la Procura che deve dircelo». E appunto, non lo fa. Ma certo è affascinante, più di tutte, la questione Berlusconi. È la cartina di tornasole dell’intero processo: quel nome vorrebbe essere suggestione di una sostenibilità delle accuse, ma nell’arringa di ieri si rovescia in suggestione che smonta l’impianto: «Da un lato», osserva il legale di Mori e Subranni, la Procura dice che Berlusconi è una vittima, per altro verso ha fatto sentire le intercettazioni di Graviano per dimostrare che Berlusconi era quello che aveva siglato i patti con la mafia. E quali erano i patti? Quelli che, secondo i pm, avrebbero permesso a Berlusconi di andare al governo. Vedete che c’è una contraddizione tra il Berlusconi vittima e il Berlusconi autore della minaccia?». Interessante che una parte così ampia della difesa di Mori e Subranni chiami in causa altri aspetti sostanziali del procedimento: è qui appunto che le parole di Milio si rivelano come arringa contrapponibile non solo alle accuse specificamente rivolte ai due generali, ma alla sostanza ultima dell’intera tesi accusatoria. C’è spazio anche per la liquidazione del teste principale, Massimo Ciancimino ( «il suo racconto sulla trattativa è fantascientifico» ) e per un’analogia tra la contraddizione su Berlusconi e quella relativa alla posizione di Calogero Mannino: «È strana anche la sua doppia figura: autore del reato e vittima del reato». Non manca un passaggio su Bruno Contrada (fuori da questo processo) di cui Milio dice: «Non era un delinquente ma uno 007, non un boss mafioso come si tenta di farlo passare: e aggiungo che i servizi segreti non sono un covo di banditi e criminali ma servitori dello Stato». Fino alla evocazione di un vero e proprio metodo Ingroia, «iniziare un processo con un capo di imputazione e in corso d’opera puntare su un altro cavallo, con vagonate di atti a supporto delle nuove ipotetiche accuse. Tutto questo», lamentas l’avvocato Milio, «avviene in violazione della legge e determina l’inversione della prova». E d’altra parte, in quattro anni – da tanto dura questo procedimento ancora in primo grado – capita che le cose, un po’, cambino.

Antonio Ingroia cancella da solo la sua intera carriera: "Silvio Berlusconi una vittima della mafia", scrive il 15 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". Come cancellare una intera carriera da militante anti-Berlusconi - in veste di magistrato prima, più brevemente in veste di politico poi - con una semplice frase. Si parla di Antonio Ingroia, che ora fa l'avvocato, e in tale veste ha affermato che a suo parere Silvio Berlusconi è una vittima della mafia. La stessa mafia che Ingroia ha sempre cercato di dimostrare essere vicina a Berlusconi stessi. La frase che non ti aspetti, come sottolinea Il Tempo, Ingroia la ha estratta dal cilindro nel tentativo di difendere il suo ultimo cliente, Benedetto Bacchi, uno dei maggiori imprenditori italiani nel settore dei giochi e delle scommesse, arrestato un paio di settimane fa per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio del denaro dei clan. Nel dettaglio, secondo la Dda di Palermo, l'imprenditore - a capo di una rete di agenzia di scommesse - avrebbe destinato parte delle somme, tra i 300 e gli 800mila euro l'anno, alle varie famiglie mafiose. Accuse gravissime, alle quali Ingroia sta cercando di rispondere, appunto, con un parallelo nel quale tira in ballo il suo arci-nemico, Berlusconi. L'ex pm prezzemolino ha infatti ricordato che "così come non c'erano elementi allora su Berlusconi, oggi non ci sono su Bacchi", e dunque "nessuno può essere condannato, se non ci sono prove". Ingroia si riferiva all'inchiesta per riciclaggio contro il Cavaliere: "Quel processo contro Berlusconi l'ho istruito io, ero pm all'epoca e all'inizio avevo determinate convinzioni: lui dava soldi alla mafia. Ma non si era chiarito se così facendo stesse di fatto sottostando a un'imposizione di pizzo o se li dava perché fossero poi reinvestiti. Motivo per cui ho chiesto io stesso l'archiviazione". Ma non è tutto. A parere di Ingroia, in entrambi i casi, ci sarebbero state "pressioni e intimidazioni", e "questo vale per Berlusconi, che era vittima più che complice, e vale ora per Bacchi. Ci sono delle forti similitudini tra le vicende del primo e quella odierna del secondo". E tralasciando le similitudini citate da Ingroia, senza dunque entrare nel dettaglio del caso del signor Bacchi, resta un evidenza: come detto, Ingroia stesso con una frase in difesa del suo assistito ha di fatto smentito tutto il suo passato, la sua lunghissima e infruttuosa caccia alle streghe, o meglio caccia a Berlusconi. Un curioso cortocircuito con il quale l'ex pm prezzemolino si archivia da solo.

“Berlusconi vittima della mafia”: lo dice la Cassazione. E adesso che si fa? Scrive Jacopo Tondelli il 24 Aprile 2012 su L’Inkiesta. Qualcuno ci ha provato, ci sta provando. La voglia di leggere nell’ultima sentenza della Cassazione la conferma della mafiosità di Berlusconi tracima. Ed è ovvio, naturale, in un paese che per due decenni si è alimentato di lui, del suo carisma, dei suoi misfatti, del suo fascino, dei suoi disastri. È ovvio, naturale, ma insostenibile. Cosa volete farci: nella sentenza della Cassazione che spiega il perchè dell’annullamento della condanna a Marcello Dell’Utri si entra nel dettaglio del suo ruolo di “mediatore”. E per quel che si può leggere fin da subito, si capisce che Dell’Utri agevolò l’arrivo dello stalliere Mangano ad Arcore e poi portò soldi - molti, e tutti del Cavaliere - nelle casse di Cosa Nostra. Perchè? Per far evitare guai a Berlusconi e ai suoi familiari. In sostanza, il più banale dei giochini della mafia: vendere protezione da se stessa. Così scrissero i giudici, ed è davvero difficile fare finta di niente. Questa la “verità giudiziaria”. E quella storica? Quali i rapporti tra i grandi imperi economici del nord (non solo quello di Berlusconi) e la mafia, la più grande agenzia di potere della storia italiana? Quale - necessaria, obbligata e ovviamente deplorevole e disgustosa - relazione tra i grandi attori economico-politici del paese e Cosa Nostra? Non spetta ai giudici dirlo, e sarebbe bello che la ricerca delle radici della nostra storia non si fermasse di fronte a una sentenza, per provare invece a guardare avanti, a un problema che esiste e domina e persiste anche adesso che Berlusconi non governa più e Dell’Utri, eternamente imputato, si dedica solo agli amati vecchi libri. Io, per quanto mi riguarda, non mi muovo dalle mie convinzioni formate lungo gli anni: Berlusconi è stato un grande imprenditore delle tv; un leader politico intuitivo, spregiudicato e carismatico, che conosceva il paese che aveva in parte importante costruito; un disastroso uomo di governo. Si è mosso in ambienti border line, non ha ovviamente mai avuto paura di stringere mani che io non toccherei; si è circondato di gente discutibile, in molti casi proprio in virtù - e non nonostante - tale discutibilità. Sulla sua mafiosità, mi fido per definizione dei giudici della Cassazione, che mi spiegano - oggi - che della mafia è stato vittima, e ha ceduto al ricatto preferendo affidare la mediazione a uno che quelli li conosceva bene - Dell’Utri - piuttosto che denunciare e combattere. Da un leader politico mi aspetto altro, ma non posso considerarlo mafioso solo perchè ha pagato - così dice la mafia - per non farsi sparare o per non farsi rapire i figli. Insomma, preferisco parlare di politica e chieder agli storici di lavorare. Ai giudici delego il compito di scrivere sentenze e di parlare con quelle. Al resto - ieri, oggi, domani - dobbiamo pensarci noi. Io lo penso da sempre e oggi non faccio fatica a ribadirlo. Per quelli che hanno osannato la magistratura e sperato nelle sentenze come salvezza del paese e strumento unico e ultimo di verità, il discorso è diverso. Pazienza: il paese va avanti (più o meno), e ha bisogno di parole di futuro. Le sentenze, per definizioni, parlano solo al passato. 

Lo Stato mi ha detto: «Cavallotti, ok sei innocente, però ti rovino». La lettera dell’imprenditore Pietro Cavallotti, distrutto nonostante l’assoluzione da accuse di mafia, scrive Pietro Cavallotti il 3 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  Lo scorso 22 marzo si è tenuta presso la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo l’udienza per la revocazione della confisca disposta nei confronti dei miei familiari. Mi ci sono avvicinato con sentimenti contrastanti. Da un lato ero certo delle nostre ragioni; dall’altro non sapevo se riporre ancora la mia fiducia nella giustizia terrena. Quando la Cassazione, con nostra grande sorpresa, confermò la confisca, quando ricevemmo dai carabinieri – come al solito, in prossimità delle festività natalizie – l’atto con cui ci veniva ordinato di lasciare, senza indugio, le nostre case, provai a fare di tutto per evitare ai miei familiari l’ennesima umiliazione. Avevamo chiesto all’Agenzia nazionale dei beni confiscati la possibilità di occupare la casa, pagando un corrispettivo, in attesa del ricorso alla Corte europea. Non ricevemmo alcuna risposta. Proposi ricorso straordinario alla Corte europea, ma la Corte mi rispose che interviene d’urgenza solo nel caso in cui sia a repentaglio la vita di una persona, e si sa che togliere la casa non significa togliere la vita. Nulla valse ad evitare lo sfratto e, con l’anima in spalle, fummo costretti ad abbandonare le case costruite con il lavoro onesto dai nostri padri e nelle quali noi figli avevamo vissuto la nostra infanzia. “Sig. Cavallotti, lei le ha le prove nuove per fare l’istanza di revocazione?!”, mi rispondeva l’avvocato quando lo sollecitavo ad agire per la riapertura del processo. E la mia replica era: “Avvocato, ma se non le andiamo a cercare, come le dobbiamo avere le prove nuove?”. Anche questi discorsi capita di fare ad una persona impelagata con la giustizia. Compresi di dover impiegare gli ultimi anni della mia vita nello studio dei fascicoli della vicenda giudiziaria della mia famiglia, alla ricerca di prove nuove che permettessero la riapertura del processo. Non potevo mollare, non potevo lasciare che i sacrifici di una vita venissero per sempre cancellati. Lo dovevo a mio padre, a mia madre e a tutti i miei parenti che hanno condiviso le stesse sofferenze. All’immobilismo e alla rassegnazione che, pian piano, cominciavano a prevalere su di noi, doveva seguire una reazione. E la reazione ha comportato per me lo studio immane non solo degli atti processuali ma anche del contesto criminale a cui i miei familiari sono stati erroneamente ritenuti contigui. Se mi fossi limitato soltanto a studiare le carte processuali, difficilmente avrei potuto individuare prove nuove. La verità doveva essere ricercata là fuori. La prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto era quella di dimostrare, con prove nuove, l’innocenza di persone, miei familiari, già assolte perché il fatto non sussiste. Questo è il paradosso delle misure di prevenzione: dimostrare di non avere avuto niente a che fare con la mafia di fronte a una sentenza che ti ha assolto perché non hai avuto niente a che fare con il crimine. Le fonti aperte, come internet, si sono rivelate preziose alleate per comprendere alcune dinamiche criminali e per smentire, con fatti certi, le accuse mosse nei nostri confronti. Mi ricordo i viaggi fuori dalla Sicilia, alla ricerca di riscontri alle nuove ipotesi difensive che pian piano affioravano nella mia mente. “Di fronte a una grave ingiustizia, non ci possiamo rassegnare”, dice- vo ai miei familiari cercando di sollevare il loro morale a pezzi, riaccendendo nei loro cuori la speranza ogni qualvolta li aggiornavo sulle nuove prove che man mano emergevano. È stato un viaggio pieno di insidie e di difficoltà, alla ricerca della verità. Un viaggio che ho compiuto con la forza del figlio che non si rassegna, con la grinta di chi è vittima di una ingiustizia e non vuole soccombere, ma anche con la lucidità del giurista che si deve estraniare dall’emozione per essere lucido e selezionare ciò che può essere utile per vincere la causa. Ma è stato anche un viaggio a ritroso nel tempo che mi ha permesso di rivedere la mia vita, di constatare come essa sia stata influenzata da questa vicenda giudiziaria e di immaginare come sarebbe stata se lo Stato non avesse deciso, un giorno, di intraprendere, per i motivi che le recenti notizie di cronaca hanno contribuito a chiarire, una campagna di annientamento nei confronti di persone innocenti che avevano fatto solo il bene. Per fortuna, nonostante tutto, siamo ancora vivi e lottiamo per l’affermazione dei nostri diritti. Dalla polvere del tempo è stata riportata alla luce una sentenza che si pone in netta contraddizione con la confisca; sono state raccolte oltre ottanta dichiarazioni che smentiscono le affermazioni dei periti allora nominati dal Tribunale, nuove dichiarazioni di collaboratori di giustizia, nuove dichiarazioni di persone informati dei fatti, nuove sentenze che permettono di chiarire i fatti di causa. I nostri avvocati sono stati bravissimi a esporre al Tribunale tutte le prove raccolte. I miei studi giuridici mi convincono che le ragioni per un accoglimento dell’istanza di revoca ci sono tutte. Ma l’esperienza personale mi convince che, forse, l’accoglimento dipende solo dalla volontà dei giudici, forse dalla volontà politica, in un contesto anomalo in cui rimettere in discussione un provvedimento che ha inchiodato alla croce per venti anni centinaia di famiglie, ridotto alla fame un intero paese, distrutto patrimoni costruiti con i sacrifici, significherebbe assestare un duro colpo ad un intero sistema sul quale molti individui hanno fondato carriere e si sono arricchiti in danno della comunità e di molti padri di famiglia. Cosa che ha riconosciuto indirettamente il Pubblico Ministero nel momento in cui ha chiesto il rigetto della nostra istanza.

Non so se aspettarmi giustizia, di certo vivo questi giorni di tremenda attesa con la serenità propria di chi sa di avere fatto tutto quanto era umanamente possibile fare per far valere le proprie ragioni. In questo viaggio ho conosciuto persone straordinarie, come gli avvocati Baldassare Lauria, Aucelluzzo, Marcianò, Iacona, Chinnici, Stagno d’Alcontres e Piazza; altre che non meritano di essere ricordate. E, per fortuna, ho incontrato il Partito radicale, l’unico che ha deciso di ascoltarci e fare della mia vicenda e di quelle analoghe alla mia una campagna coraggiosa di informazione e di lotta per affermare, anche nella lotta alla mafia, principi e metodi da Stato di Diritto, come invocava Leonardo Sciascia, non la “terribilità” dello Stato e delle misure di emergenza. Pietro Cavallotti

La famiglia Cavallotti vittima del pizzo presa per amica dei boss, scrive Errico Novi il 3 Aprile 2018, su "Il Dubbio". LA STORIA GIUDIZIARIA DEI CAVALLOTTI. I nomi delle loro aziende sono ormai da anni nella saga siciliana delle misure di prevenzione: Comest, Icotel, e poi Euro impianti plus. Sono i marchi della famiglia Cavallotti, una dinastia di imprenditori radicata nel Palermitano, a Belmonte Mezzagno. Mettono in piedi un piccolo impero nel campo della metanizzazione, che negli anni Novanta porta le condotte in molti comuni della Sicilia occidentale. Patrimonio oggi ridotto in polvere, prima dai sequestri per un’accusa di mafia rivelatasi infondata e poi dalla gestione dei beni condotta dagli amministratori giudiziari. Della seconda generazione dei Cavallotti fa parte Pietro, autore della testimonianza pubblicata in questa pagina: lui e i suoi fratelli sono ancora, tenacemente alle prese con un processo di prevenzione che consentirebbe loro di riacquisire almeno una parte dell’originaria struttura aziendale. Nella prossima udienza fissata per il 15 maggio saranno finalmente ascoltati i periti, che dopo 7 anni di stallo dovrebbero attestare come le società della famiglia di Belmonte abbiano un’origine lecita. Nella storia dei Cavallotti c’è un processo con accuse di mafia che nel 1998 aveva portato all’arresto di tre esponenti della “prima generazione” di questi imprenditori. Il pizzo pagato a boss vicini a Provenzano fu scambiato per un sostegno da parte Cosa nostra. La verità, dunque l’innocenza degli imprenditori siciliani, è stata accertata dopo 12 anni, nel 2010. Non è bastato a evitare che anche le aziende appartenenti alla seconda generazione dei Cavallotti finissero sotto sequestro, in un procedimento di prevenzione dinanzi alla specifica sezione del Tribunale palermitano, presieduta fino a pochi mesi fa da Silvana Saguto, la giudice espulsa dalla magistratura con accuse legate proprio alle anomalie del suo ufficio. Pietro Cavallotti e i suoi fratelli lottano per riappropriarsi di aziende indebitate ormai per milioni, convinti di poter ricostruire quello che gli amministratori giudiziari hanno messo in ginocchio.

 Pietro Cavallotti come Peppino Impastato. "Rinnega la tua famiglia come ha fatto Impastato" ha detto una giornalista a Pietro Cavallotti. Ma la sua famiglia non è mafiosa! Scrive Debora Borgese il 6 aprile 2018 su "L’Urlo". Convinzioni dettate da pregiudizi diventano armi letali, specialmente se a riportare informazioni distorte e difformi rispetto alla realtà è chi di professione dovrebbe fare il giornalista. Ne sa qualcosa anche Pietro Cavallotti che qualche settimana fa ha incontrato per caso in Tribunale a Palermo una giornalista di una nota testata nazionale, contattata in precedenza, per raccontargli la storia della sua famiglia vittima dell’antimafia a causa dell’indegno sistema delle misure di prevenzione. “Cominciamo a parlare. Non è convinta del mio racconto. Davo per scontato che avesse visto i servizi delle Iene sulla storia della famiglia Cavallotti”, racconta Pietro in un post su facebook. “Mi informa che lei non segue le Iene perché, a suo avviso, non sarebbero dei veri giornalisti. Intuisco che non conosce la vicenda”. A questo punto due osservazioni. La prima è nell’atteggiamento verso un programma di intrattenimento che, seppure con metodi talvolta poco ortodossi, riesce a sollevare casi nazionali portandoli anche all’attenzione della magistratura e del Parlamento e, pertanto, sarebbe quanto meno educato rispettare il lavoro altrui se porta in qualsiasi modo vantaggio ai cittadini e alla giustizia. La seconda invece è una nota di demerito professionale alla giornalista perché il caso della famiglia Cavallotti è stato trattato anche da testate giornalistiche accreditate. “Dopo avere ascoltato il mio racconto, si allontana”, lasciando Pietro un po’ basito. Poco dopo però si incontrano nuovamente. “Questa volta mi sembra più sicura. Mi comunica che i suoi colleghi in passato hanno scritto sulla mia vicenda giudiziaria”, dando perciò motivo al giovane di vivacizzare i buoni propositi e le belle speranze spenti durante il primo approccio. “Ma ecco che a questo punto comincia uno strano discorso. Mi ricorda che Peppino Impastato ha preso le distanze dalla sua famiglia e mi chiede se io fossi disposto a fare lo stesso.” Quale filo conduttore dovrebbe legare Peppino Impastato a Pietro Cavallotti? “Il taglio che voleva dare all’articolo, insomma, doveva essere il seguente: il giovane rampollo che decide di rompere i legami con la propria famiglia biologica per compiere un passo verso la legalità!”, suggerisce Pietro. “A questo punto rimango perplesso ma non perdo l’eleganza e la moderazione. Potete immaginare quale è stata la mia pacata risposta”. Naturalmente Pietro ha fatto notare alla giornalista che anche lui, nei panni di Peppino Impastato avrebbe preso le distanze dalla famiglia, ma nel suo caso la famiglia Cavallotti non è mafiosa ma vittima di mafia e paradossalmente dell’antimafia. “(La giornalista, n.d.r.) Prosegue ricordando che uno dei Cavallotti sarebbe stato ucciso per fatti di mafia. Smentita tale ultima circostanza, e resasi conto di essere incappata in uno scambio di persona, sostiene che i Cavallotti sarebbero stati in affari con altri imprenditori belmontesi vittime della violenza mafiosa. Smentita anche tale ultima circostanza (per la verità mai contestata in alcun processo), incalza sostenendo che, in fondo in fondo, un pizzico di collusione con la mafia c’è perché i Cavallotti sarebbero parenti dell’On.le Romano”. Insomma, secondo la giornalista, il grado di parentela con l’on. Francesco Saverio Romano, oggi in Forza Italia e assolto da tutti i capi di imputazione che lo riguardavano, dovrebbe portare la famiglia Cavallotti a cointeressenze di stampo mafioso. Ma quale sarebbe il legame di parentela che lega l’ex Ministro con i Cavallotti? Nel pomeriggio dello stesso giorno Pietro Cavallotti scrive perciò una mail alla giornalista. “Ciao, Facendo seguito alla conversazione di oggi, Ti rinnovo, anche a mezzo della presente e-mail, la mia disponibilità a chiarire – eventualmente ed auspicabilmente alla presenza dei colleghi di *** che in passato si sono occupati della vicenda giudiziaria della mia famiglia – fatti e circostanze utili ad inquadrare correttamente la Famiglia Cavallotti e la sua lunga e complessa storia processuale. Credo che la differenza di opinioni su questa vicenda dipenda non dal pregiudizio, non dalla malafede e neppure dall’orientamento politico; dipende soltanto dalle informazioni che si hanno a disposizione per formulare giudizi di valore. Rimane, dunque, ferma la mia disponibilità a fornire documenti a supporto del mio (soltanto parziale) racconto di oggi. Dalle carte processuali (di cui Vi imploro la lettura) si evince chiaramente che la mia famiglia non ha fatto parte di alcun comitato politico-mafioso per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Le nostre intraprese imprenditoriali non hanno avuto alcun colore politico. Nei Comuni siciliani in cui abbiamo portato il metano, attraverso il sistema della finanza di progetto, ci siamo interfacciati con amministrazioni locali dal più eterogeneo colore politico e da tutte tali amministrazioni siamo stati sempre bene accolti per la semplice ragione che le nostre aziende portavano un servizio essenziale per i cittadini di quelle comunità. Oggi le persone ci manifestano la loro solidarietà indipendentemente dallo schieramento politico di appartenenza, segno che la legalità, il senso della giustizia, forse anche il buon senso, non si differenziano a seconda delle convinzioni politiche o a seconda delle contrapposizioni partitiche. È oggettivamente falso che qualcuno dei componenti della nostra famiglia è stato ucciso per fatti di mafia. È oggettivamente falso che i Cavallotti avessero rapporti di cointeressenza economica coi *** o con altri imprenditori belmontesi. Non vi è alcun legame di parentela diretto tra taluno dei cinque fratelli Cavallotti e l’On.le Romano (il cognato di quest’ultimo ha sposato una delle mie cugine) che è stato, per pochi anni nostro avvocato e che, come appreso da notizie di cronaca, è stato comunque assolto dalle accuse che gli sono state mosse. È vero, invece, che la nostra fuoriuscita dal mercato della metanizzazione per via giudiziaria ha oggettivamente favorito quei centri di interesse politico-imprenditoriale-mafioso-giudiziario a cui i miei parenti sono stati sempre estranei. Non si tratta di una convinzione personale ma di fatti dimostrabili documentalmente. Noi stiamo e siamo stati sempre dalla parte della legalità, dalla parte della giustizia. Abbiamo sempre denunciato, anche nel periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso, i furti e i danneggiamenti che le nostre imprese erano costrette a subire unitamente alle estorsioni. Per tutte queste ragioni, rispondendo anche per iscritto alla tua domanda di oggi, non solo non prendo le distanze dalla mia famiglia, ma mi impegnerò, finché avrò vita, affinché venga ripristinata in ogni sede la verità, affinché venga posto rimedio ad un grave errore giudiziario che ha distrutto intere famiglie. Se ci troviamo in queste condizioni, a differenza di ciò che a prima vista si potrebbe pensare, non è perché, in fondo in fondo, “qualcosa c’è”, come oggi ipotizzavi. Questo lo dobbiamo a due circostanze oggettive:

a) In Italia esiste una legge nata con tutte le buone intenzioni che permette tuttavia ai giudici di confiscare interi patrimoni secondo il libero arbitrio, legge che ha suscitato e che continua a suscitare le perplessità della dottrina (non filo mafiosa) e, di recente, anche di qualche giudice italiano e della Corte Europea;

b) Alla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nel periodo del nostro dramma giudiziario abbiamo avuto giudici che hanno esercitato “in maniera peculiare” (vedi caso Saguto) tale libero arbitrio.

La sentenza di assoluzione in sede penale, la richiesta di revoca della confisca avanzata dal Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, nel processo di prevenzione sono elementi che devono fare riflettere. Di tutte queste cose mi piacerebbe discutere con voi, con carte alla mano. Grazie in anticipo per l’attenzione.”

Adesso è evidente che se un giornalista non riesce ad avere le idee chiare, come può pensare di riportare fatti reali ai suoi lettori che ne vengono influenzati? E i magistrati i giornali non li leggono? “Mi piacerebbe poter dire che i giudici decidono leggendo le carte, senza farsi influenzare dall’opinione pubblica o dai media. Ma se lo dicessi mentirei perché, purtroppo, in Italia si sono create indebite sovrapposizioni tra il sistema mediatico e il sistema giudiziario, specie ove si tratta di fatti di mafia”, scrive Pietro nel suo lungo post. “L’opinione pubblica viene esasperata dagli operatori dell’informazione – rei, molto spesso, di diffondere informazioni false – e reclama a gran voce (e qualche volta ottiene) punizioni esemplari, all’esito di processi farsa, non sempre conformi al diritto e al giusto processo. In questo modo il principio costituzionale della presunzione di innocenza come lo stesso valore di una sentenza di assoluzione vengono declassati a semplici ornamenti di cui si può fare a meno. Questo è il volto del populismo giudiziario e del giustizialismo giornalistico che, insieme alla criminalità e alla corruzione e alla endemica inefficienza della pubblica amministrazione, costituiscono i cancri del nostro Paese.” E come dargli torto?

 “Alberghi di lusso e stipendio d’oro”: sequestro di beni per l’ex pm Ingroia. Sotto accusa la sua gestione della società regionale per i servizi informatici, "Sicilia e-Servizi". La Finanza punta il dito su sprechi per 150mila euro, scrivono Salvo Palazzolo e Francesco Patanè il 16 marzo 2018 su "La Repubblica". Alberghi a cinque stelle e stipendio d’oro. L’ex pubblico ministero antimafia Antonio Ingroia, oggi avvocato e candidato con la "Lista del popolo per la Costituzione" alle Politiche del 4 marzo, finisce sotto accusa per la gestione di “Sicilia e-Servizi”, la società regionale che si occupa (fra tante inefficienze) dei servizi informatici. Il nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo gli ha notificato un provvedimento di sequestro di beni per 150mila euro, l’equivalente di quanto avrebbe intascato illegittimamente, durante la sua attività di amministratore unico e di liquidatore della società. Ingroia è indagato per peculato dai magistrati che fino a cinque anni fa erano i suoi colleghi. Per il procuratore Francesco Lo Voi, l’aggiunto Sergio Demontis e i sostituti Pierangelo Padova ed Enrico Bologna, avrebbe potuto ottenere solo il rimborso dei biglietti aerei nelle trasferte da Roma (sua nuova residenza) verso la Sicilia. Nulla, invece, era dovuto per i costosi alberghi: dal Grand hotel Villa Igiea, la storica residenza della Belle Epoque scelta da tanti sovrani per i loro soggiorni in Sicilia, all'Excelsior, al Centrale Palace hotel. E poi c’è la maxi-indennità di risultato da 117mila euro che Ingroia si è autoassegnato per tre mesi di lavoro come liquidatore della società a capitale pubblico della Regione. Nel 2013, l’anno contestato, gli utili erano stati di appena 33mila euro, nell’anno successivo furono di 3.800 euro. Utili, si fa per dire, di un carrozzone che doveva essere liquidato e invece è rimasto aperto. Il provvedimento di sequestro riguarda anche Antonio Chisari, revisore contabile della società che oggi si chiama Sicilia Digitale spa. Il caso Ingroia è nato dopo una segnalazione della procura della Corte dei conti, incuriosita da un articolo del settimanale L’Espresso, che nel febbraio 2015 dava conto dei rimborsi a tanti zeri di Ingroia e titolava: “Servizi e imbarazzi”. Nei mesi scorsi, l’ex pubblico ministero nominato dal governatore Rosario Crocetta ha ricevuto due avvisi di garanzia per questa vicenda. Interrogato in procura, ha rivendicato di avere rimesso in piedi un’azienda pubblica che faceva acqua da tutte le parti: “E’ la legge a prevedere riconoscimenti agli amministratori in caso di raggiungimento di determinati obiettivi”, ha dichiarato. Ma la difesa non ha convinto. La procura contesta che “Sicilia e-servizi” abbia avuto risultati e sostiene che la maxi-indennità di Ingroia avrebbe addirittura determinato un deficit di bilancio. Nell’atto d’accusa, i pubblici ministeri ricordano che l’indennità di risultato ha una nuova disciplina dal 2008: prevede la liquidazione delle somme “solo in presenza di utili e comunque in misura non superiore al doppio del cosiddetto compenso omnicomprensivo”. All'epoca, il compenso omnicomprensivo riconosciuto dall'assemblea della società era di 50 mila euro. Ingroia promette battaglia legale contro i suoi ex colleghi. Intanto non è più al vertice di “Sicilia e-servizi”, il nuovo presidente della Regione Nello Musumeci non l’ha confermato. E ora l’ex pubblico ministero fa l’avvocato a tempo pieno, fra i suoi clienti anche arrestati per mafia, il più recente è il “re” delle scommesse on line Ninì Bacchi, che in un’intercettazione diceva: “Una cosa è che uno si presenta con Antonio Ingroia, ex magistrato antimafia, conosciuto in tutto il mondo”. E l’imprenditore boss meditava di dare al suo avvocato l’uno per cento della società. Ma è rimasta un’idea. Negli ultimi tempi, Ingroia si è dedicato soprattutto alla campagna elettorale, con la sua “Lista del popolo per la Costituzione”, che però ha avuto un risultato deludente. Ma l'ex pm non si arrende: il giorno dopo il voto ha annunciato su Facebook che proseguirà nel suo impegno in politica.

La "seconda vita" dell'ex pm antimafia: un passo falso dietro l'altro, scrive Alessandra Ziniti il 16 marzo 2018 su "La Repubblica".  Nella mia seconda vita metto a frutto gli errori della prima”, ama ripetere da qualche tempo a questa parte. Ma per Antonio Ingroia, fino a cinque anni fa icona dell’antimafia, la nuova vita è una sequenza di passi falsi uno dietro l’altro. Mandato in archivio il secondo flop politico con l’insignificante 0,02 per cento della sua “Lista del popolo per la Costituzione” presentata dal movimento “La mossa del cavallo” fondato con Giulietto Chiesa, adesso l’ex pm antimafia diventato avvocato veste gli scomodissimi panni di indagato. E per giunta dai colleghi della sua ex Procura, quella di Palermo, che – dopo averlo iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di peculato – stamattina non hanno esitato a far eseguire un sequestro per equivalente da 150.000 euro, la stessa cifra del “bonus” che, da amministratore di Sicilia e-servizi, società informatica della Regione siciliana, si è liquidato per aver raggiunto il suo “obiettivo”. Una parabola imprevedibile quella del magistrato che, dopo aver istruito e avviato il processo sulla trattativa Stato-mafia, nel 2012 improvvisamente – quando già risuonavano le sirene di un suo impegno in politica – accettò l’incaico di presidente di una commissione internazionale Onu in Guatemala sul traffico di droga. Incarico durato il giro di poche settimane prima del precipitoso rientro in Italia per il lancio di Rivoluzione civile, il movimento politico con il quale Ingroia addirittura ambiva a diventare presidente del Consiglio. Progetto bocciato sonoramente dagli elettori. I tempi di Ingroia giovane allievo di Paolo Borsellino prima e di punta di diamante della Procura di Giancarlo Caselli negli anni dei processi su mafia e politica sembrano ormai lontanissimi. Fanno parte di quella che Ingroia definisce appunto la sua prima vita. La seconda lo ha visto saltare, in modo acrobatico, da un incarico all’altro, accettando anche quello offertogli dall’ex governatore siciliano Rosario Crocetta che lo chiama al vertice di Sicilia e-Servizi, società che gestisce i servizi informatici della Regione e dalla quale Ingroia si liquida un maxistipendio con un bonus per aver raggiunto il suo obiettivo. Poco importa che la società finisca sommersa dai debiti. “Non certo per la mia gestione”, ribatte lui che, nel frattempo, accetta anche l’incarico di commissario della provincia di Trapani. Lo spoil system alla Regione Siciliana segna anche la fine dell’incarico di Ingroia che, almeno per il momento si dedica a tempo pieno alla sua attività di avvocato. Ultimo cliente un imputato di mafia, accusato ovviamente dai suoi ex colleghi.

Le testate dei pm ai giornalisti. Intimidazioni, come a Ostia, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". Tutta Italia si è indignata per la testata inferta a Ostia da Roberto Spada a Daniele Piervincenzi, giornalista inviato della trasmissione di Raidue Nemo. Alla violenza fisica, inaccettabile contro chiunque, in quel caso si sommava l'intimidazione, la minaccia ai giornalisti che si ostinano a non occuparsi «dei fatti loro» e vanno a curiosare dove non è gradito. Ma contro la nostra categoria non arrivano solo le testate dei presunti mafiosi, come nel caso di Spada, ma anche quelle, non meno gravi, di alcuni magistrati. Nei giorni scorsi a Pavia un bravo ed esperto collega della Provincia pavese, Giovanni Scarpa, è stato indagato addirittura per favoreggiamento dalla Procura locale. La sua colpa? Avere svelato che il capannone zeppo di rifiuti mandato a fuoco da ignoti la notte del 3 gennaio a Corteolona (creando paura e allarme in tutta la zona) da tempo era sotto indagine e controllo video della procura, la quale evidentemente si è fatta beffare dai malavitosi. Indagare per favoreggiamento il giornalista che scrive una notizia vera è un'intimidazione bella e buona, una metaforica testata del potente di turno contro chi - come diceva Spada al malcapitato Pervincenzi - «non si fa gli affari suoi». Ne prendiamo tante, noi giornalisti, di testate tese a zittirci. Marco Travaglio nei giorni scorsi è stato condannato a risarcire con la cifra record di 150mila euro tre magistrati siciliani che aveva criticato in un articolo. Una cifra pazzesca, a mio avviso un'estorsione, che a memoria non ho mai visto concedere a favore di nessun querelante che non vestisse la toga. Io stesso, che ne ho subite tante, mi ritrovo di nuovo a processo per un caso surreale. Un solerte pm di Cagliari tempo fa mi rinviò a giudizio scambiandomi per un'altra persona. Scoperto e preso atto dell'equivoco, il giudice ovviamente mi assolse. Tutto finito? Macché. Nonostante la figuraccia rimediata, il pm ha fatto appello. Così, solo per non darmela vinta (tanto i costi dei processi non sono a suo carico). A casa mia questo si chiama stalking, reato punibile penalmente, soprattutto se reiterato. Una storia più o meno simile è successa anche a Vittorio Feltri, e il collega direttore del Tempo Gianmarco Chiocci sarà a giudizio per avere fatto il suo lavoro nell'inchiesta di Roma Mafia capitale. Intimidazioni, estorsioni, stalkeraggio, vendette: in Italia non si rischiano testate solo a disturbare il clan degli Spada. È sufficiente incappare in uno dei tanti buchi neri del clan della giustizia.

Trattativa Stato-mafia, Sgarbi querela Del Bene: "Su di me palata di fango". Il magistrato aveva messo in relazione le battaglie dell'assessore siciliano in materia di giustizia, durante gli anni in cui conduceva "Sgarbi quotidiani", con una presunta strategia concordata tra Marcello Dell'Utri e Vittorio Mangano, scrive il 26 gennaio 2018 "La Repubblica". Vittorio Sgarbi ha dato mandato al suo legale, Giampaolo Cicconi, di querelare il pm Francesco Del Bene che ieri, a Palermo, durante la requisitoria nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia ha messo in relazione le battaglie dell'assessore siciliano in materia di giustizia, durante gli anni in cui conduceva 'Sgarbi quotidiani', con una presunta strategia concordata tra Marcello Dell'Utri e Vittorio Mangano. Al centro dell'attenzione del pm, le battaglie contro gli abusi dei pubblici ministeri sulla carcerazione preventiva e sulla contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa. "Il pm Del Bene dovrà rendere conto di questa palata di fango - afferma Sgarbi - Una tesi senza alcun fondamento, buttata lì, in mezzo alla requisitoria, quasi come ammonimento a chi osa criticare l'operato di pm che non cercano fatti o prove, ma suggestioni da dare in pasto alla stampa. Pensavo che l'opera di 'mascariamento', assai di moda in Sicilia nei confronti dei nemici, fosse solo una prerogativa della mafia: prendo atto che così non è. L'accostamento del mio nome a quello di Mangano è gravemente diffamatorio e Del Bene ne dovrà rendere conto". Accuse che, secondo Sgarbi, "giungono, come un vero e proprio avvertimento, a pochi giorni dalle mie forti critiche proprio ai pm che sostengono l'accusa in questo processo costruito su teoremi e ricostruzioni farlocche". E aggiunge: "Mai come adesso sento il dovere di ricordare le parole di Agnese Borsellino rivolte a me qualche anno fa nel corso di una sua visita a Salemi: 'Come siciliana sono felicissima della scelta di Sgarbi che da Nord ha scelto di fare il sindaco in una cittadina siciliana. Credo che non l'abbia fatto per curare la sua immagine, perché non ne ha bisogno. Vedo nel lavoro di Sgarbi un'azione missionaria. E' stata scelta una persona che viene da lontano per far sì che, non con le chiacchiere ma l'azione, e soprattutto il linguaggio eterno dell'arte, si possano trasmettere valori positivi. Auguriamoci ci siano tanti Vittorio Sgarbi che possano portare qualcosa di nuovo in altre realtà della Sicilià". Pochi giorni fa, fra le polemiche,  Sgarbi aveva invitato all'Ars Mario Mori e Giuseppe De Donno, per i quali oggi è stata chiesta la condanna nel processo trattativa.

"Il processo Borsellino: un monito. La giustizia non ha funzionato", scrive sabato 27 Gennaio 2018 "Live Sicilia”. "L'esito drammatico del primo e del secondo processo per la strage di via D'Amelio deve servirci da monito perché dimostra che il sistema investigativo e giudiziario nel suo complesso non ha funzionato malgrado le numerose garanzie di cui il nostro ordinamento dispone". Lo ha detto il procuratore generale di Caltanissetta Sergio Lari, durante la cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario. Un riferimento chiaro alle condanne ingiuste ora cancellate dal processo di revisione a Catania, a cui i giudici in passato erano arrivate ritenendo credibili le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. "L'epilogo di questa vicenda deve indurci - ha aggiunto Lari - a riflettere sulla fallacia della giustizia umana e sul rischio sempre incombente dell'errore giudiziario". 

In carcere da innocenti: ne entrano tre ogni giorno, scrive Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Mille persone ogni anno ricevono un indennizzo perché sono stati ingiustamente detenuti. È quanto emerge da uno studio elaborato dai curatori del sito errorigiudiziari.com. Lo scorso anno si è chiuso con un aumento dei casi di ingiusta detenzione e, di conseguenza, lo Stato ha sborsato più soldi in indennizzi. Questo è il dato relativo al 2017 elaborato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, giornalisti che curano il sito errorigiudiziari.com. Andando sullo specifico, gli autori dello studio, elaborando gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia, sono riusciti a fare un raffronto con l’anno precedente. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Gli autori fanno notare come nella top 10 dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione prevalgano le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra enorme di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro).  Al terzo posto Bari con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, che scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari è scottante, eppure in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione, non è stato nemmeno sfiorato. Come mai? Provano a rispondere Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di errorigiudiziari.com, spiegando che le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Prendendo in esame gli ultimi 25 anni, i dati complessivi risultano una ecatombe. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre 1000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. I dati dei soldi sborsati dallo Stato sono anche poco indicativi. Prendiamo ad esempio l’anno 2016: c’è stato un brusco calo di indennizzi per ingiusta detenzione rispetto agli anni precedenti. Quindi meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. È necessario distinguere l’ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto esattamente un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici da Giuseppe Gullotta.

Pm indisciplinati: 1300 esposti, 1265 assoluzioni, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 6 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il 92% delle segnalazioni è stata archiviata direttamente nella fase predisciplinare. Nella lunga relazione del procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, un intero capitolo è dedicato ai procedimenti disciplinari delle toghe. Dopo la riforma Castelli del 2006, il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati è infatti divenuto obbligatorio per il procuratore generale, rimanendo solo facoltativo per il ministro della Giustizia. «La materia disciplinare si rivela sempre più centrale nel sistema del governo autonomo della magistratura ed è la cartina di tornasole del rapporto di fiducia – o di sfiducia – che lega i cittadini al sistema giudiziario e ciò anche a prescindere dal fatto che la condotta del magistrato denunciata si riveli poi passibile di sanzione disciplinare», scrive il procuratore generale. «Una giustizia che non ha credibilità o comunque legittimazione non è in grado di assicurare la democrazia», aggiunge Fuzio, sottolineando come «la materia di competenza della Procura generale investe questioni di deontologia e di professionalità che anticipano spesso l’aspetto prettamente disciplinare». Nel 2017 sono pervenute alla Procura generale ben 1.340 segnalazioni di possibile rilievo disciplinare (1.363 nel 2016). In notevole incremento sono stati gli esposti di privati cittadini, elemento che «evidenzia una generale sfiducia dell’opinione pubblica verso l’operato della magistratura – prosegue Fuzio -, sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi che gravano su tutte le sedi giudiziarie non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata di chi è tenuto a rendere giustizia». Di queste centinaia di segnalazioni, il 92,7% è stata archiviata direttamente nella fase predisciplinare. Del rimanente 7,3% per cui è stata esercita l’azione disciplinare, le condanne al termine dell’istruttoria sono state solo 35. 4 ammonimenti, 24 censure, 4 perdite di anzianità e 3 rimozioni dalla magistratura. La risposta al perché di numeri così bassi la fornisce lo stesso Fuzio: «Il sistema disciplinare, per unanime constatazione, presenta notevoli lacune e zone “franche” che lasciano spazio a condotte non sanzionabili disciplinarmente e però tutt’altro che insignificanti nella definizione della deontologia complessiva e della figura del magistrato» . In altre parole, essendo gli illeciti disciplinari per le toghe dal 2006 “tipizzati”, ciò che non è espressamente indicato non è sanzionabile. In questo sistema ipergarantista, molte condotte «non ritenute meritevoli di sanzione disciplinare, e sovente nemmeno di inizio di azione disciplinare, ben potrebbero o dovrebbero essere tenute in considerazione dal Csm per i diversi profili attinenti le valutazioni di professionalità”, evidenzia però Fuzio. Il numero dei magistrati valutati non positivamente è attualmente pari a solo lo 0,58% del totale. Un numero che «non ha eguali in nessuna organizzazione complessa», disse stigmatizzando il dato lo scorso anno in Plenum l’ex presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Fra le tante e varie anomalie, meritano di essere segnalati i casi di «appiattimento di qualche pubblico ministero poco diligente rispetto all’attività della polizia giudiziaria. Si sono riscontrati casi di “copia- incolla”, non solo di provvedimenti del Gip rispetto alla richiesta del pubblico ministero, ma anche di richieste cautelari del Pm rispetto al rapporto informativo della polizia giudiziaria, sintomo del conseguente rischio che gli errori di quest’ultima, se non adeguatamente vagliati, si riverberino in gravi violazioni di legge da parte dei magistrati».

Una pioggia di denunce contro i magistrati. Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.

I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato". Ieri in Italia si è aperto l'anno giudiziario e in ogni tribunale del Paese, con gli ermellini sulle spalle e i berrettini neri sulla testa, i procuratori generali hanno recitato il loro discorso inaugurale, fotografando senza sconti lo stato della giustizia italiana. Quelle riportate sopra, tra virgolette, sono le frasi di j'accuse che avremmo voluto sentire. Purtroppo non è stato possibile. L'autoanalisi non appartiene alla categoria dei magistrati, i quali, anche quando devono parlare del loro lavoro, non si siedono mai sul banco degli imputati ma trovano sempre il modo di puntare l'indice altrove. Restano eterni giudicanti, senza neppure essere colti dal sospetto che, almeno in sede di bilanci, bisognerebbe prestare attenzione alla trave che si ha nel proprio occhio piuttosto che alla pagliuzza in quello altrui. Così ieri abbiamo assistito a un elenco di banalità, conosciute anche da chi non ha mai messo piede in un'aula giudiziaria. Il procuratore di Prato sostiene che "in città c'è la mafia cinese ed è difficile da contrastare". Bella scoperta, quello toscano è il comune con il maggior numero di persone e attività cinesi in rapporto alla popolazione. Quello di Napoli ci ha fatto sapere - ma davvero? - che "in città spadroneggia la camorra, aiutata da un muro di omertà". Illuminante. A Milano, dove le cose vanno un po' meglio, abbiamo appreso che "la minaccia terroristica in Italia resta alta perché l'Isis ha messo ripetutamente il nostro Paese nel mirino". Abbiamo appreso che sono state anche fatte delle indagini per dimostrare che il terrorismo islamico non scherza. A Torino, da sempre meta dell'immigrazione meridionale, c'è un poco di 'ndrangheta mentre a Bologna destano preoccupazione i delitti contro le donne e le baby gang. E gli arretrati dei rispettivi tribunali? I tempi dei processi? La percentuale di sentenze riscritte in appello e quella di innocenti incarcerati? Il numero di criminali liberati per decorrenza termini o per un errore formale? Informazioni irrilevanti, di cui la magistratura non ha ritenuto di dover rendere conto alla cittadinanza. Non c'è da stupirsi. Già venerdì, quando ha preso la parola a Roma il procuratore generale della Cassazione, si era capito dove si sarebbe andati a parare. Con tutti i casini del nostro sistema giudiziario, l'ermellino se l'è presa con i social, che gli italiani usano a sproposito, scrivendo la prima cosa che passa loro per la mente, incapaci di controllarsi. Per non parlare poi delle fake news, le balle della rete, che disinformano peggio dei giornali e fanno più danni di una sentenza sbagliata. Insomma, non più solo i politici, categoria ora finita in disgrazia. Pare che i giudici oggi vogliano fare qualsiasi cosa, dai giornalisti, ai ricercatori Istat, agli assistenti sociali, ai poliziotti, agli psicologi, tranne che il loro mestiere. Criticano tutti eccetto che loro stessi, hanno un'idea precisa di tutta la società e una soluzione per ogni problema ma non per quelli della giustizia. "Dobbiamo fare ciò che vogliono, altrimenti ci arrestano tutti" disse una volta Flaminio Piccoli, storico segretario della Democrazia Cristiana negli anni Settanta. Eravamo prima di Tangentopoli e da allora la situazione è solo peggiorata. Le toghe erano uno dei tre poteri dello Stato, ora sono rimasti l'unico, causa suicidio degli altri due, quello legislativo e quello esecutivo, per bulimia e incompetenza. E questa situazione di privilegio se la godono tutta, giudicando, pretendendo e non riconoscendo mai i propri errori. Fanno paura e fanno bene ad approfittarne, non a caso sono gli unici dipendenti pubblici i cui scatti di stipendio non si sono mai fermati negli otto anni di crisi, malgrado il loro appannaggio fosse già di gran lunga il più alto di tutti. Stupidi gli altri.

Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica, scrive Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su "Il Foglio". Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto ‘travisamento del fatto’, non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, ‘obbligatoriamente’. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? “Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto”. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.

Restituire alla Storia i cognomi infangati dalle mafie, scrive Valentina Tatti Tonni il 3 gennaio 2018 su "Articolo 21" e 20 Gennaio 2018 su "Antimafia duemila". Un corto circuito. Parliamo di mafia come se fosse un soggetto e un linguaggio. Riprendendo il libro Io non taccio scritto a più mani da giornalisti di inchiesta, ho notato che la presenza dei nomi che associamo alle famiglie dei clan hanno nel tempo disonorato e macchiato quei nomi stessi. L’etimologia di mafia come di ‘ndrangheta, ha connotati regionali e si riferisce a balordi presuntuosi travestiti da uomini che, usando metodi illeciti, interferiscono nelle attività economiche, commerciali e sociali del luogo in cui transitano, mettendo a repentaglio senza scrupolo la vita di chiunque si metta tra loro e gli affari. E’ il caso di innocenti, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine e loro stessi a causa di guerre per il territorio, come cani che marcano il suolo oltre ad abbaiare sparano. Il quadro italiano, secondo la mappa interattiva consultabile grazie a “Il Fatto Quotidiano” e al Parlamento Europeo, vede quattro principali organizzazioni criminali muoversi sullo stivale: abbiamo la mafia, intesa come Cosa nostra in Sicilia, la camorra prevalente nelle zone campane di Napoli e Caserta, l’ndrangheta che dalla Calabria si è spostata anche al Nord in Lombardia, la pugliese Sacra Corona Unita. Tutte queste si occupano principalmente di spaccio di droga, riciclaggio, estorsione e infiltrazioni nell’economia, soprattutto tramite appalti pubblici e nel campo dell’edilizia privata. Inoltre ad operare con i clan principali abbiamo anche criminalità nigeriana, cinese e albanese. Il fatto che siano nate in certe regioni non li esenta dal trafficare anche in altri luoghi, grazie anche al sostegno con alcuni membri della politica. Non sembra essere un caso allora se il Bel Paese sia l’unico in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc contro l’associazione di stampo mafioso, l’articolo 416 bis.

Rendere silenti le famiglie dei clan. Torniamo al linguaggio della mafia per riabilitare quei nomi. Dal libro di cui sopra, inizio dai Barbaro, facente parte all’ndrangheta calabrese molto presente in Lombardia, Piemonte, Germania e Australia. I Barbaro ben più importanti furono però quelli dell’alta aristocrazia veneziana che dal 1390 vantavano nel loro entourage vescovi, commercianti ed esploratori, come quel Nicolò che scrisse una cronaca sull’assedio di Costantinopoli nel 1453 al pari di Giosafat che ne scrisse sull’Asia. Che dire dei Papalia, ai Barbaro collegati per ‘ndrangheta, ma ben lontani nella Storia essendo stati estratti dalla nobiltà calabrese in principio legata, sembrerebbe, al marchesato di Saluzzo in Piemonte. Andando avanti troviamo i Brandimarte di Gioia Tauro e la faida aperta con i Priolo in quel di Vittoria in Sicilia, famiglie nella storia remota ben conosciute: i primi di origine medievale furono resi famosi dalle battaglie epiche francesi della Chanson de Roland e dal nostrano Ariosto nonché più di recente simbolo dell’artigianato e dell’argento a Firenze, la seconda dei Priolo invece abitante del Rinascimento veneto trovandosi un capo, un Doge, della Repubblica. In Sicilia, nel presente, vi è anche il clan mafioso dei Carbonaro-Dominante, appartenente alla Stidda una quinta organizzazione criminale operante soprattutto nelle province di Ragusa, Caltanissetta, Enna e Agrigento. Sì, ma i Carbonaro, come suggerisce il nome potrebbero derivare sia dalla Carboneria, quale società rivoluzionaria e liberale ottocentesca nata nel Regno di Napoli, sia dal carbonaio come mestiere di trasformazione della legna in carbone vegetale, Carbonaro-Dominante legato a Ventura, come il suo boss, cognome risalente al medioevo cristiano. Li conosciamo con questi cognomi che sembrano fare la Storia, ma la nostra Storia è un’altra. Grazie a "la Spia" sappiamo che: “Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la Camorra (sarebbe più giusto parlare dei Casalesi) gestiscono i trasporti”. Casalesi, un altro nome balzato alle cronache a causa dei fatti e dei misfatti ad essi collegati e a Schiavone anche, il boss, derivante dagli slavi che seguita la rotta dei longobardi arrivarono dal fiume Natisone nel Friuli Venezia Giulia. Un’altra famiglia che ha infranto i valori della società civile è senz’altro la Bottaro-Attanasio, forte della sua prima origine di “fabbricante di botti” e della seconda dell’immortale che si è illuso di dare il nome a tutta la Sicilia greca che conta - tolte le persone perbene -, quella di Siracusa. Nonché i Corleonesi, sui quali ha avuto interesse persino l’industria del cinema producendo pellicole narranti di padrini più eroi che padroni. Una cosca formata all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta e appoggiata dalle famiglie Liggio, Riina e Provenzano, il superficiale per origine, la mancata Regina e un Provenzano Salvani di Siena che un giorno rinvenne in una casa della Contrada della Giraffa e lì, meta di pellegrinaggio, una Madonna ancora porta il suo nome. Poi ci sono gli imprenditori Cavallotti che cercano invano di minare il radicalismo del primo Felice. Ai Corleonesi alleati i Cuntrera-Caruana, di Siculiana nella provincia di Agrigento e in principio campieri, ovvero guardie private al controllo di una tenuta agricola, nel 2013 seguendo le orme della Banda della Magliana si impadronirono, insieme ai fratelli Triassi, del litorale di Ostia. Triassi, d’origine una nobile famiglia spagnola che avrebbe guidato la conquista di Mallora, secondo le ultime cronache, avrebbe una certa comunanza (di complicità e rivalità) con i Fasciani e gli Spada. E a loro volta gli Spada e i Casalesi con i Casamonica, una famiglia dall’Abruzzo da tempo operante nella zona dei Castelli Romani, castelli senza più neanche un cavaliere. Dall’ndrangheta di Morabito, Logiudice e Musitano alla Sacra Corona Unita dei Giannelli-Scarlino: sconsolata la prima e più antica famiglia latina, la seconda di magistrati, la terza di predicatori e l’ultima non piena di virtù, ormai negate da famiglie con più facile collusione alla realtà. Infine, sempre in riferimento al libro di cui sopra, da Napoli i Mazzarella e i Giuliano, i primi una casata nobile del Cilento all’interno di cui si ricordano le gesta di valorosi uomini come quel Michele che difese Malta dai Turchi nel 1565, i secondi invece dalla Spagna trapiantati in Sicilia dal Re Federico III da Baldassarre, tale la potenza che lo stemma della famiglia ritraeva un leone con due rose a dimostrar forza e delicatezza, oggi anch’essa ormai sopita. Appare mitigata la bellezza in cambio dell’omertà, ma forse no, il faro è ora acceso.

Un pamphlet per la legalità: vivere o morire di mafia? Scrive Valentina Tatti Tonni il 20 gennaio 2018 su "Articolo 21". Dalle minacce ricevute a MeridioNews, al processo sulla trattativa Stato-Mafia ancora in corso e alle dichiarazioni infelici del nuovo assessore regionale ai Beni Culturali della Sicilia Vittorio Sgarbi che adduce nel suddetto processo, i magistrati non conoscano la storia: “Il Tribunale di Palermo non può processare lo Stato, processi pure la mafia. Nel comportamento della Procura ci sono profili eversivi”. Fino all’Ansa che il 18 gennaio scorso, con la firma di Lorenzo Attianese, ha pubblicato poche righe su quello che definisce “nuovo ordine” della mala: la pentacamorra, ovvero cinque organizzazioni criminali che si stanno prendendo le strade, laddove le ormai mature mafia, ‘ndrangheta e camorra sono migrate ai piani alti. L’Ansa riconosce: le gang dei latinos, la mafia cinese, la Società Foggiana, i Cultisti Nigeriani e l’Organizacija georgiana. Questa la storia recente, dall’altra parte della medaglia invece c’è una pseudo-democrazia, cittadini spaventati o alle volte consenzienti, giornalisti, imprenditori e magistrati minacciati o sotto scorta. Questo pamphlet è a loro dedicato. Nel 1938 si diceva che la mafia fosse estinta, ma la verità era che Mussolini aveva censurato la stampa. Nel 1943 dopo la liberazione il New York Times riconosceva alla mafia un ruolo di primo piano. Lo storico britannico John Dickie, autore di molti libri sul tema, scrive che già a quel tempo [la mafia] “era una fratellanza criminale segreta, in cui si entrava pronunciando un giuramento e che era strutturata secondo la massoneria”. A renderla forte era il coinvolgimento istituzionale e l’omertà di cittadini spaventati o troppo affamati per reagire, perché la mafia offriva loro protezione sulla gestione dei terreni agricoli che a quel tempo costituiva un bisogno primario per la sopravvivenza e, dall’altra parte, si occupava di rendere più forte il brigantaggio e la borsa nera. Dopo la guerra, erano spesso i proprietari terrieri ad affidare ai boss i loro appezzamenti, a nomi come Giuseppe Geuco Russo di Mussomeli e Luciano Liggio. A rispondere alle rimostranze e al malcontento dei cittadini non era lo Stato ma la mafia che, in quanto a organizzazione, si prese in carico le loro problematiche offrendo una soluzione di intervento, un favore che al momento giusto sapevano gli avrebbero reso. D’altronde chiunque si fosse ribellato, sarebbe stato ucciso, un’esecuzione in piena regola per ristabilire l’ordine con armi impari. Tutti coloro che non sono contenti di come vanno le cose, aspettano. C’è sempre qualcuno tra la folla che, stanco di ascoltare le masse, alza la testa. E’ quello il momento, riconoscere tra la folla il salvatore, il guerriero, più spesso il martire che tirerà fuori il coraggio per dire “basta, non è giusto”. Tutti coloro che non sono contenti e che finiscono più spesso a lamentarsi, aspettano obbedienti che questo uomo, questa donna, puro di cuore, arrivi: braccia al collo, solidarietà, si fa festa. Mentre a palazzo qualcuno brinda alle spalle della folla che si illude di cambiare. Tra gli ossequi di giubilo qualche perbenista, moralista, fautore della legalità, difensore della giustizia. Tutti insieme si sentono impotenti, ma chissà come affidano a quell’unico sognatore la chiave di volta, legati a un’antica speranza di rinascita che dal 1948, anno della nostra Costituzione, lasciò il passo a delegati avulsi e collusi a un potere estraneo alla cittadinanza. Troppe poche autorità competenti e troppi pochi cittadini tentano di farsi strada nella lotta e nella (re)azione, rendendo di fatto le loro cause mulini a vento e gli altri, nel generale consenso, complici. Talmente radicato è il malaffare che tutti gli interventi di modifica sembrano solo lodevoli, ma non reali. La convinzione di saper sradicare il male è insista qui in qualunque persona che, se ha deciso di combattere la mafia ha di fatto smesso di vivere, è morto senza morire perché in questo Paese combattere la mafia e le ingiustizie in genere presuppone doversi difendere con l’aiuto di una scorta che è come una prigione in movimento senza sbarre. Ecco allora che tutti coloro che non sono contenti di come vanno le cose, ci pensano due volte prima di fare qualunque cosa, prima di denunciare, prima di mettersi dalla parte della giustizia. Non è possibile, per quanto non sia d’accordo dar loro assolute colpe. Soprattutto chi ha una famiglia o chi semplicemente crede di non appartenere al Tutto che ci circonda, ha altri progetti in mente che non vuole abbandonare o non ha quella forza d’animo necessaria a fronteggiare con una discreta dose di ottimismo e solitudine la malavita e le sue ritorsioni. Aspettano dunque con innata ipocrisia il coraggioso di turno e in buona fede lo investono delle loro premure e speranze, gli chiedono senza averne pieno diritto di sottrarre il presente, il proprio ovviamente, che sia lui o lei a rinunciare alla vita e alle relazioni in cambio della possibilità di garantire in futuro una vita più equa e democratica per tutti. Son colpevoli in tal senso questi tutti che hanno un ruolo istituzionale e dovrebbero farsi da garante contro la criminalità e sostenere (non solo all’occorrenza di un corteo) chiunque voglia sentirsi libero dalle imposizioni malavitose, ma che invece sono diventati patrioti cospiratori, le cui doti sono caratterizzate da viltà e indifferenza verso il bene comune. Colpevoli sono tutti coloro che restano silenti di fronte alle ingiustizie e che trovano nel sognatore di cui sopra il capro espiatorio ideale per tentare una strada in cui, evidentemente, non credono abbastanza. Quale incentivo per un cittadino perbene nella mancanza di una riforma della giustizia adeguata e dei tempi processuali limitati, senza una rivoluzione del pensiero e una cultura che elimini la mafia e le azioni illecite in genere dalla sensazione di normalità su cui si è fondata la società? Una verità amara e aspra che si aggiusta nel tempo sulle troppe vite spezzate. Non cambierà nulla se a questa lotta che riguarda tutti la moltitudine di persone che compone il Paese non si impegnerà all’unanimità per combattere la mafia (che sia ‘ndrangheta, camorra, Sacra Corona Unita, pentacamorra, gang di strada, etc.) e pretendere giustizia, in modo che chiunque decida di denunciare o di scrivere articoli e inchieste non si senta mai in pericolo.

Ma l'emergenza resta. Altri 160 anziani e malati vittime degli irregolari. La denuncia di Angelo Sala, presidente Aler «Occupazioni in crescita, bisogna intervenire», scrive Michelangelo Bonessa, Sabato 20/01/2018, su "Il Giornale".  Il caso di Rosa non era il solo sul taccuino della Prefettura. Sono più di 160 i casi critici segnalati alle autorità dall'azienda lombarda edilizia residenziale (Aler). Non si tratta di persone che hanno occupato l'abitazione di un'anziana mentre era in ospedale, come per la storia di Rosa raccontata dal Giornale in questi ultimi giorni, ma di delinquenti che non si sono limitati a entrare illegalmente in un alloggio: hanno proseguito con un atteggiamento da criminali che ha reso impossibile la vita nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. A confermare il dato è Angelo Sala, presidente di Aler, dopo la giornata del ripristino della legalità al civico 36 di via Salomone. «Ci sono 160 situazioni che meritano di essere controllate», precisa. Un numero alto, anche se confrontato con i 3300 abusivi presenti nei 72mila alloggi erp regionali. Oggi è il giorno in cui si festeggia lo sgombero dell'alloggio di Rosa alla Trecca, fortino da 477 appartamenti della periferia milanese. E in cui Sala replica piccato all'assessore comunale alla Sicurezza Carmela Rozza che ha affermato che Aler non segnala i casi critici: «Se qualcuno vuole fare campagna elettorale sulle spalle della povera gente forse dovrebbe cambiare settore - ha dichiarato Aler comunica sempre i dati alla Prefettura e sono lettere protocollate che chiunque può verificare». Il problema è che il fenomeno delle occupazioni tende a salire in questi ultimi anni: «I dati sono in crescita ha proseguito Sala quindi l'unica soluzione è mettere un freno immediato ai nuovi casi: non possiamo perdere la partita della delinquenza». Intanto le forze dell'ordine hanno accolto l'appello del Giornale e gli occupanti del monolocale sono stati allontanati. Un caso che aveva scosso le coscienze di molti perché nelle Case Bianche visitate da Papa Francesco l'anno scorso già si evita di andare in vacanza proprio per paura delle occupazioni. L'ansia di non potersi ammalare era troppo, persino per una periferia dove alla piccola criminalità si è abituati. E l'appello a salvare la «razza Rosa» è arrivato alle orecchie giuste. «Sono soddisfatto del lavoro svolto oggi dalle Forze dell'Ordine e dai tutor di Aler Milano che hanno eseguito lo sfratto dei 6 senegalesi e restituito l'appartamento alla legittima assegnataria. Tutto il mio apprezzamento va al Prefetto, al Questore e a tutte le forze dell'ordine - ha commentato Sala -. Il tema delle occupazioni abusive deve essere affrontato con grande impegno e sinergia tra tutte le istituzioni, nessuno escluso. Se qualcuno vuole fare melina rispetto a questo fenomeno, non trova questa Presidenza assolutamente disponibile. Lo sfratto di oggi deve essere il modus operandi per il futuro. Tutti i nuovi occupanti abusivi vanno assolutamente allontanati. Quella odierna è la dimostrazione che, quando le Istituzioni collaborano, Aler Milano c'è». Una collaborazione che potrebbe continuare anche sugli altri casi, sempre che prevalga l'idea di puntare a risolvere il problema e non le logiche di scontro politico.

Insulti, rabbia e desolazione. La guerra fra disperati nel fortino della malavita. L'arrivo della polizia alla Trecca è salutato con grida e offese Alta tensione fra residenti regolari e abusivi E un senso di abbandono: qui lo Stato è assente, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/01/2018, su "Il Giornale".  «Pezzidimmerda!». L'insulto piove dalle finestre di chissà quale piano delle torri scrostate alle dodici e un quarto, appena il primo blindato della Celere si affaccia davanti alla Trecca: e vai a sapere se quello che urla ce l'ha con i poliziotti, con le telecamere dei giornalisti, o con gli inquilini che li hanno chiamati. O forse l'insulto abbraccia in una parola sola tutti quelli che si ostinano a pensare che un assaggio di legalità possa toccare anche a questo quartiere (Trecca da tri caà, tre case: prima che gli sciagurati palazzoni sorgessero) dove da troppo tempo lo Stato è assente: e dove neanche le parole di Papa Francesco, arrivato in visita dieci mesi fa, hanno fatto breccia davvero. Il Papa se n'è andato, in via Salomone il degrado è rimasto. Qui la nettezza urbana non svuota i cassonetti, l'istituto delle case popolari non aggiusta i citofoni, il commissariato non arresta i balordi. E l'incredibile storia di Rosa, l'anziana cui una famiglia di senegalesi ha occupato la casa appena è finita in ospedale, è figlia in qualche modo dell'abbandono in cui il quartiere è stato lasciato per anni, fino a raggiungere il punto di non ritorno. Il rapporto base tra le persone sembra essere l'insulto. C'è quello dalla finestra che insulta poliziotti e giornalisti; ma c'è anche il signore che porta giù il cane, e che appena vede un malconcio rom in bici avvicinarsi ai cassonetti lo copre di male parole, «animali, siete voi che li svuotate per cercare la roba che vi serve, e lasciate tutto in giro, fate schifo»: e dentro c'è l'esasperazione, la rabbia senza sbocchi accumulata ogni giorno che gonfia i capillari. Tutti insultano tutti: gli inquilini regolari insultano gli abusivi, gli abusivi insultano i regolari che fanno la spia, tutti insieme insultano l'Aler, il Comune, la polizia, il mondo. Il sistema di vendere al miglior offerente l'accesso alle case sfitte, ovvero il racket, esiste da tempo immemorabile: «Anni, decenni», dicono le donne dalla faccia stanca che ieri assistono all'irruzione della Celere nella casa di nonna Rosa: «Con ottanta euro al mese ti fanno dormire in cantina, che è sempre meglio che dormire per strada». Cliente e anche vittima del racket, in fondo, si proclama anche il signore che molti indicano come «l'immobiliarista», il dominus della tratta degli alloggi. Lo chiamano lo Zingaro, e ieri è arrabbiato perché un suo nipote è stato arrestato per avere stuprato con due amici una ragazza dopo averla drogata in un locale, e i filmati sono finiti su tutti i giornali: «Ma lui è un bravo ragazzo, sono gli altri due che l'hanno violentata! E poi oggi sono le donne che vanno a violentare gli uomini». In via Salomone, lo Zingaro c'è arrivato da un campo nomadi: «Ho comprato la casa per cinquemila euro», ovviamente dal racket. «Io non sono il capo di niente, io di mestiere compro e vendo automobili e chi mi accusa è un infame». Nel palazzo, lo temono e lo odiano. Un po' detestano anche il parroco che allo Zingaro porta ogni settimana il pacco con i viveri: «Ma come, quello gira in Mercedes e il prete gli porta da mangiare. Quando abbiamo protestato ha detto: gli porto il pacco viveri perché ha un Ise pari a zero». Mentre la Celere libera la casa di nonna Rosa, lo Zingaro (che in realtà si chiama Giulio Guarnieri) se ne sta assiso come in trono al centro del cortile, circondato dalla sua corte dei miracoli, e racconta tutto fiero ai cronisti dei suoi quindici anni in carcere per tentato omicidio. Della casa scippata a Rosa dice «io non so niente, saranno stati gli albanesi», e magari è anche vero. Bisbigliano le donnine del cortile: «Si dice che a vendere la casa ai senegalesi è stata la badante. Lo Zingaro per vendere le case almeno aspetta che siano vuote». Ma se a smerciare il diritto d'accesso alle case popolari ci si mettono anche le badanti, allora davvero per via Salomone non c'è più speranza. «Il citofono non funziona», «il siciliano Biagio = mafia»: ma anche «I lov you». I graffiti negli androni di via Salomone raccontano una quotidianità dove, inesorabile, fa capolino la voglia di vivere una vita normale. Ma come si fa, con cento appartamenti su 470 in mano al racket, con le facciate che cadono a pezzi, con il messaggio a tutto campo che qui non valgono le leggi dello Stato e neppure quelle della convivenza civile, si può orinare in ascensore, buttare i rifiuti dalle finestre, e nello spelacchiato verde centrale i cani fanno i comodi loro, e nessuno raccoglie niente? Non nasce ieri questo dramma, e chi è cresciuto qua dentro si adatta o almeno si rassegna. Ieri nessuno applaude l'arrivo della polizia. «Quando c'erano gli albanesi in piazza Ovidio, a cacciarli via siamo stati noi», dice uno: giustizia fai da te, legge del più forte. Ed è un inquilino regolare, uno che in un altro posto magari starebbe dalla parte dello Stato: ma non alla Trecca. 

 [L’inchiesta] Il comandante dei carabinieri arrestato per mafia, il parroco che aiutava i killer. 27 ‘ndrine e 10 logge massoniche. Benvenuti nella città più mafiosa d’Italia. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai, scrive Guido Ruotolo, editorialista e giornalista d’inchiesta, il 31 dicembre 2017 su "Tiscali News". Per favore accendete i riflettori su Vibo Valentia, una città a una decina di chilometri da Lamezia Terme, nel centro della Calabria. Una perla la sua Capo Vaticano, con il mare mozzafiato. E poi Pizzo e Tropea, le spiagge, i fondali, le cipolle e i “fruttini”. E l’amaro del Capo e il tonno dei Callipo. Dimenticate tutto questo. Non capireste nulla di Vibo, della Ndrangheta e della terra dei senza speranza. Quello che da fuori appare sotto una certa luce in realtà è un’altra cosa. È contaminata, collusa. A qualcuno, questa terra ricorda la Palermo degli anni Ottanta. Può essere. A me il vibonese sembra terra di nessuno, anzi una Repubblica indipendente della Ndrangheta. Sapete che nella storia della Calabria e della Ndrangheta vi è stata nel dopoguerra una Repubblica indipendente della Ndrangheta a Caulonia, nella Locride, durata pochi giorni, con il sindaco comunista e ndranghetista?. E dunque siate forti e non stupitevi (semmai indignatevi) per quello che succede in questa terra. Non meravigliatevi se all’inizio del nuovo millennio, con la scoperta della Ndrangheta che si è infiltrata persino nella corona dei comuni che circondano la grande Milano, torniamo nella terra dove è nata e vive la Ndrangheta. Per la verità fino agli anni Ottanta era consolidata l’idea che la Ndrangheta fosse radicata solo nella provincia di Reggio, nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio città. Fu solo dopo che si è scoperto che la Ndrangheta c’era sempre stata anche nella Calabria del Nord, Crotone, Vibo, Lamezia, persino Cosenza. Ebbene qui a Vibo è accaduto qualcosa che se fosse successo a Palermo anche nel 1990 sarebbe caduto il governo. Ci sarebbe stata la sollevazione popolare. Del resto non fu il procuratore di Milano Borrelli a gridare “resistere, resistere, resistere”, all’apertura dell’anno giudiziario si tempi di Mani Pulite? Questo per dire che il protagonismo di una società civile forte si sarebbe mobilitata, non avrebbe permesso che il pool di Mani pulite fosse neutralizzato. Oggi, quella magistratura che ha fatto la storia nel bene e nel male è solo un ricordo del passato. Ed è un bene che chi teorizzava un ruolo salvifico dei magistrati impegnati a farsi carico del rispetto della legalità e della eticità della nazione, oggi sia stato sconfitto. Però dal fare politica dei magistrati al nulla ce ne passa. Solo alcuni numeri per avere elementi su cui ragionare. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai. Come se non bastasse, la Ndrangheta dal 2015 gestiva centri di accoglienza per 650 richiedenti asilo fino a quando non è arrivato un prefetto, un eccellente ex “sbirro”, Guido Longo, che ha deciso che non è possibile che nella provincia di Vibo Valentia lo Stato italiano sia un ospite. Insomma, ha deciso di ripristinare il funzionamento delle istituzioni italiane. Mettiamo dunque il caso che a Palermo un tribunale decida di assolvere Totò Riina imputato di associazione mafiosa. Secondo voi quali saranno le conseguenze? Un terremoto politico e un moto di indignazione? Addirittura il governo potrebbe essere costretto alle dimissioni? L’ondata di stupore si potrebbe propagare anche all’estero? Domande legittime, e se questo pericolo paventato in realtà è accaduto a Vibo Valentia? Qualcuno se ne è accorto? I giornali e i canali televisivi ne hanno parlato? Nessuno. Nessuno si è indignato perché Giovanni, Antonio, Pantalone e Giuseppe Mancuso sono stati assolti dall’accusa di associazione mafiosa. Ora che i Mancuso siano mafiosi, che la ’ndrina di Limbadi sia tra le più potenti della Ndrangheta è cosa notissima. Davvero è come parlare di Lo Piccolo o Riina per Cosa Nostra. Eppure questa assoluzione è passata vergognosamente sotto silenzio. Il collegio giudicante era composto da tre giovanissime magistrate arrivate a Vibo nel 2014, prima sede assegnata. E il processo «Black money» era atteso, importante. Ma il presidente del Tribunale, Filardo, ha deciso di affidare il giudizio alle tre giovani magistrate e tenersi invece per sé una costola dello stesso processo che vedeva imputati per concorso esterno alla Ndrangheta due funzionari della questura di Vibo, tra cui l’ex capo della Mobile, e un avvocato. Perché fosse vissuto dai vibonesi come un “non processo”, il presidente del Tribunale ha deciso di far svolgere le udienze nell’aula bunker (e l’esame di uno degli imputati si è tenuto inspiegabilmente a porte chiuse) provocando non pochi problemi nella gestione dei calendari delle udienze dei processi. Ora il Csm è stato costretto ad accendere i riflettori sul funzionamento del Tribunale di Vibo Valentia. Era ora.

«Il Crotone è calabrese: cacciatelo!» La crociata di Gratteri& Ruotolo, scrive Piero Sansonetti il 3 gennaio 2018 su "Il Dubbio". C’è un Procuratore della Repubblica che ha chiesto misure di prevenzione sia personali che patrimoniali nei confronti del Crotone - calcio e dei suoi proprietari. Il motivo è che lui ha sempre avuto il sospetto che i due proprietari potrebbero essere, se non proprio mafiosi, almeno amici di qualche mafioso. Il Procuratore ha chiesto al tribunale di Crotone e poi alla Corte d’Appello di Catanzaro di intervenire. Cacciate il Crotone, è mafioso! La crociata di Gratteri& Ruotolo. Il tribunale e la Corte, però, gli hanno spiegato – anche gentilmente – che in questi casi occorrono degli indizi o forse persino delle prove. Non basta l’impressione di un Procuratore per chiudere una società di calcio di serie A (e nemmeno, forse, di serie B…). Nicola Gratteri – è lui il Procuratore del quale stiamo parlando – è andato su tutte le furie e nell’impossibilità di mandare avanti la battaglia sul piano giudiziario, ha passato la mano a un suo amico giornalista. Il giornalista in questione è una delle penne di punta del giornalismo giudiziario italiano: Guido Ruotolo. Un passato al ‘ manifesto”, poi molti anni alla “Stampa” di Torino, un periodo all’ufficio stampa del ministero della Giustizia, e ora scrive per Tiscali. Sulla base dell’iniziativa di Gratteri ha scritto l’altro giorno un articolo su Notizie- Tiscali dal titolo roboante: «Una squadra di serie A in mano alla ‘ Ndrangheta. Ecco le carte dell’accusa choc». Vedete bene che il titolo non lascia spazio a dubbi: il Crotone è la squadra della Ndrangheta. Nel sommario le cose un po’ si ridimensionano. Lo ricopio, perché è suggestivo: «la Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri sospetta che il Crotone calcio sia inquinato dalla presenza della Ndrangheta. Uno dei suoi proprietari fu condannato in primo grado e poi assolto per concorso esterno in associazione mafiosa». Ci sarebbe da fare qualche riflessione sul modo nel quale si usano i titoli e i sommari, nel nostri giornalismo. E anche su come si usano i processi finiti in assoluzione, dove – in pura teoria e presumendo l’esistenza di uno stato di diritto – ci dovrebbe essere un eroe, e cioè l’imputato ingiustamente perseguitato, e un personaggio negativo, e cioè il Pm che ha processato un innocente accusandolo di un reato così infame. E invece, grazie all’irresponsabilità del nostro giornalismo, tutto si rovescia: il Pm sconfitto diventa un giustiziere buono, tenuto a freno dai burocrati dei tribunali, e l’innocente diventa un colpevole morale, salvato ingiustamente dai potenti. Detto ciò, il lungo articolo di Ruotolo si limita a raccontare tutte le volte che questo Raffaele Vrenna (uno dei due proprietari del Crotone) è stato sospettato, per le sue frequentazioni, e il nulla assoluto che è emerso da questi sospetti, tanto che la assoluzione in appello è diventata definitiva perché nessuno ha trovato appigli per ricorrere. E tuttavia l’articolo non si conclude, come si potrebbe supporre, con qualche parola di critica verso l’avventurosità dell’iniziativa di Gratteri, ma invece con un appello ad un non ben definito “governo del calcio”, affinché, “sebbene probabilmente non ci siano elementi per giungere a una condanna penale”, comunque intervenga con una interdittiva e sospenda il Crotone in attesa di un giudizio definitivo (che in realtà già c’è stato). Voi dite che tutto questo è solo folclore? Che non bisogna badarci? No, non è affatto folclore. E’ la realtà delle cose nella quale stiamo vivendo. Un pezzo di giornalismo e un pezzo di magistratura – entrambi di notevole peso – pensano esattamente quello che Ruotolo ha scritto. Cioè che la macchina della giustizia debba funzionare alimentata dal carburante del sospetto. E che il sospetto, seppure, purtroppo, non sufficiente – stando alle leggi attuali a giungere a misure penali, debba quantomeno essere considerato sufficiente per misure civili. Sequestri, confische, interdittive. Le quali misure possono restare fuori dalle pastoie dello Stato di diritto, e dare comunque un assetto etico migliore alla nostra società. Guido Ruotolo, che conosco bene da molti anni, e mi sta anche simpatico, è una firma prestigiosa del giornalismo giudiziario. Se scrive queste cose sa di poterle scrivere. Nicola Gratteri è stato a un passo dal diventare ministro della Giustizia (solo l’intervento di San Giorgio Napolitano ha evitato per ora che ciò accadesse), e ha presieduto una commissione incaricata dal governo di proporre una profonda riforma del sistema giudiziario. E lo stesso Gratteri, con ogni probabilità, ha ampie possibilità di arrivare finalmente al ministero di via Arenula se i 5 Stelle e la Lega vinceranno le elezioni (evenienza non impossibile). Stiamo parlando di cose molto serie. Concrete. La possibilità che in Italia si interrompa la tradizione liberale che tra alti e bassi ha governato il paese dopo il 1945, e si torni a un’idea autoritaria, arbitraria e persecutoria della giustizia, non è frutto di fantasie malate.

51 sindaci calabresi contro il CorSera: «Mai sciolti per mafia», scrive Simona Musco il 24 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Da qui la decisione di querela, non prima, però, di aver formalizzato una richiesta alla redazione del Corriere della Sera di rettifica o replica. Goffredo Buccini ci era andato giù pesante, usando frasi che poco lasciavano all’immaginazione. «I sindaci dei comuni calabresi sciolti per mafia non si rivoltano contro la ‘ ndrangheta ma contro lo Stato», scriveva il 7 dicembre scorso sul Corriere della Sera, raccontando la decisione di 51 sindaci della città metropolitana di Reggio Calabria di scrivere al ministro dell’Interno, Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose. Parole così pesanti da indurre, oggi, a presentare una querela per diffamazione nei confronti del giornalista del Corriere, dopo aver chiesto, invano, una rettifica. I 51 «sindaci ribelli» lo hanno annunciato lunedì, nel corso di una conferenza stampa che è servita per contestare punto su punto «le affermazioni diffamatorie» di Buccini. Perché loro, hanno spiegato i primi cittadini, altro scopo non avevano se non discutere «civilmente ed in modo costruttivo di principi democratici e di leale collaborazione, sia pure in posizione vigile, fra i diversi pezzi dello Stato». Una richiesta accolta sia dal Ministro dell’Interno sia dal Prefetto, che hanno concordato un incontro per il 5 dicembre scorso (al quale, però, Minniti non ha poi partecipato). L’idea era quella di partecipare ad un processo di revisione di quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», aveva spiegato il sindaco di Roghudi, Pierpaolo Zavettieri. La legge, aveva evidenziato dopo aver incontrato il Prefetto di Reggio Calabria, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibilità che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese». Assieme a ciò, i sindaci chiedevano anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiungeva Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia». Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un concetto fondamentale, anche alla luce della sentenza con la quale il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di annullamento dello scioglimento dell’amministrazione di Marina di Gioiosa Ionica, caduta, nel 2011 a seguito dell’arresto del sindaco e di tre assessori in un blitz antimafia. Questi ultimi, oggi, sono stati assolti definitivamente, mentre la posizione dell’ex sindaco deve essere rivalutata da un nuovo processo d’appello. Ma nonostante non ci siano prove dell’eventuale «sussistenza di uno stabile inserimento nell’associazione mafiosa dei soggetti coinvolti», il Consiglio di Stato valorizza proprio ciò che per la Cassazione non era risultato prova di una contaminazione mafiosa: la «rete di rapporti stabili tra questi (gli amministratori, ndr) e gli appartenenti alla criminalità locale». Perché, si legge ancora nella sentenza, ciò che conta «non sono gli aspetti di rilevanza penale», bensì «la tendenza dell’attività degli organi politici a non porre in essere ciò che era loro compito nel dare luogo ad un’opera di vigilanza e controllo dell’apparato burocratico, al fine di evitare ingerenze da parte della criminalità organizzata». I sindaci, dunque, sono indignati. In primis per il titolo in prima pagina: “I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari” e “Quei 51 Comuni calabresi divisi tra Stato e Mafia”, nonostante nessuno dei firmatari della lettera indirizzata a Minniti sia mai finito in una relazione di scioglimento per mafia. Ci sono, poi, quei riferimenti a “consigliere comunali fidanzate di presunti padrini e membri della maggioranza in manette”, accusa, dicono i sindaci querelanti, «destituita da ogni fondamento». Offensiva, scrivono nell’atto di querela affidato all’avvocato Gianpaolo Catanzariti, è poi la presunta rivolta allo Stato e non contro la ‘ ndrangheta. «Gli eletti dei comuni replicano che non solo non sono stati sciolti per mafia – si legge – ma soprattutto non hanno praticato o favorito nessuna azione di rivolta, ma sono stati semmai convocati dal Prefetto di Reggio Calabria dal quale garbatamente si sono prontamente recati. Appare superflua aggiungono – la precisazione che tutti i firmatari aborrono la ‘ ndrangheta e ogni forma di violenza e prevaricazione che va contrastata». Ma la parte peggiore, per i primi cittadini, è quella in cui viene effettuato un parallelismo tra i reggini in fila in prefettura a firmare il registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ ndrangheta e la «rivolta» dei sindaci al piano di sopra. «Non poteva esserci nessuna rivolta – spiegano – in quanto convocati ufficialmente dal Prefetto, testimone al di sopra di ogni sospetto e per di più anche al piano terra e non a quello “di sopra”». Da qui la decisione di querela, non prima, però, di aver formalizzato una richiesta alla redazione del Corriere della Sera di rettifica o replica. Richiesta rimasta, però, «senza risposta».

Processi, testi, udienze tra Palermo e Caltanissetta: un turbinio di eventi con uno spruzzo di legalità e tanto veleno, scrive il 22 gennaio 2018 Telejato. OGGI SI È TENUTA A PALERMO L’UDIENZA PER IL PROCESSO A CARICO DI PINO MANIACI, MENTRE A CALTANISSETTA È INIZIATO QUELLO NEI CONFRONTI DI SILVANA SAGUTO.

Continua lo stillicidio di udienze che interessano Pino Maniaci. Come sappiamo la Procura, rappresentata dal PM Amelia Luise, ha tirato fuori carpettoni di registrazioni chiedendone l’inserimento agli atti. La difesa di Maniaci, composta da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino ha deciso di accettare tale richiesta. Secondo gli avvocati difensori è proprio in quel voluminoso dossier di intercettazioni che si può facilmente dimostrare come non esistono importanti estremi penali, ma che si tratta di un morboso gossip quotidianamente attivato dai carabinieri di Partinico, con frasi di normale uso, in una chiave di lettura che aveva il solo obiettivo di demolire l’immagine del giornalista e di esibirne pubblicamente la mancanza di moralità. Ove fosse chiara tale finalità il resto diventa una conseguenza logica che prevarica gli aspetti penali o tende ad utilizzarli per portare avanti altre nascoste intenzioni che ci si augura possano venir fuori nelle varie fasi processuali. Intanto l’udienza proseguirà il 5 febbraio e nel corso di essa presterà giuramento il perito nominato dal tribunale per decrittare, entro 90 giorni, naturalmente suscettibili di rinvio, quanto intercettato dagli investigatori partinicesi. Nel frattempo il pubblico ministero ha deciso di tirar fuori uno dei vari capi d’imputazione dei quali Maniaci dovrà rispondere: si tratta della denuncia per diffamazione fatta dall’allora Presidente del Consiglio Comunale di Borgetto Elisabetta Liparoto. Maniaci ha accusato tutta la delegazione del Consiglio Comunale di Borgetto di essere andata negli Stati Uniti e di avere avuto contatti con alcuni mafiosi. A sostenere il presunto reato dall’accusa sono stati chiamati come testi i signori Pirrera, Grippi, Simeone, Badalamenti e Morello, questi ultimi due come esponenti di Teleoccidente, chiamati a documentare l’evento. Nel frattempo è in corso un’altra udienza che riguarda la Saguto e il 31 si aprirà l’altro processo contro Cappellano Seminara, che ha chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato e che ha già presentato una corposa lista di testi a carico. Sembra che, a partire dai prossimi giorni, la Procura di Caltanissetta sarà invasa dai 100 testi dell’accusa, dai 280 testi indicati dalla Saguto e da quelli di Cappellano, oltre quelli dei vari imputati, ognuno dei quali ne ha indicato a bizzeffe. Insomma, mezza Palermo si sposterà a Caltanissetta. L’altra mezza rimarrà in sede.

In mezzo, così, tanto per mettere la torta sulla ciliegina, il 24 gennaio ci sarà un’altra udienza del processo intentato da Lo Voi nei confronti di Riccardo Orioles e di Salvo Vitale. Ce n’è abbastanza per intorbidare le acque e rendere sempre più difficile l’accertamento di un reato penale rispetto all’offensiva che la Procura di Palermo ha scatenato nei confronti di Telejato.

Salvo Vitale denunciato dal procuratore Lo Voi, offeso dalla sua satira, scrive il 7 dicembre 2017 TeleJato. SECONDA UDIENZA IERI A CALTANISSETTA, PRESIEDUTA DAL GIUDICE PALMERI, NEL PROCESSO CHE VEDE IMPUTATI SALVO VITALE E RICCARDO ORIOLES, DENUNCIATI DAL DOTTOR LO VOI, CAPO DELLA PROCURA DI PALERMO, IN MERITO A UN ARTICOLO A FIRMA DI SALVO VITALE, TRASMESSO A TELEJATO IL 21 GIUGNO 2016 E PUBBLICATO, NELLA STESSA DATA, SUL SITO DELL’EMITTENTE. L’articolo, dal titolo “Metti una sera a cena”, è una ricostruzione satirica di una ipotetica e immaginaria cena che si sarebbe svolta nella casa di tale Vania in occasione del suo sessantesimo compleanno, alla quale avrebbero partecipato, come commensali Tano Seminato, Fabio Narice, Francesco Verga, Richard Armato, Ciccia Cannozzo, Melo Provenza, Franco Lo Bue, Alessandro Scimia e Mario Crusca. Ci sono poi i familiari di Vania, ovvero il marito Lorenzo, i suoi due figli, Elio e Francesco e la nuora Wanda. Si cita persino un “Brunello”, esperto carabiniere di Pars iniqua. Il procuratore ha creduto di identificare i personaggi come partecipanti ad una reale cena, avvenuta a Villa Paino in occasione del sessantesimo compleanno di Silvana Saguto, e, nella fattispecie Cappellano Seminara, Fabrizio Nasca, Tommaso Verga, Riccardo Amato, Francesca Cannizzo, Carmelo Provenzano, Francesco Lo Voi. Non sono stati identificati gli ultimi due che, volendo fare uno sforzo di fantasia potrebbero essere Alessandro Scimeca e Mario Caniglia. Nel brano si cita anche Filippo Arrappato, identificato in Filippo Rappa, destinatario del sequestro dei suoi beni affidati dalla Saguto a Walter Virga, figlio di Tommaso. Chi sono o chi sarebbero i personaggi che il procuratore ha creduto di identificare? Silvana Saguto e Cappellano Seminara non hanno bisogno di presentazioni, Fabrizio Nasca è un colonnello, o forse no, della Finanza in forza alla DIA, Tommaso Virga è un alto magistrato, Riccardo Amato è il comandante dei carabinieri interregionale di Sicilia e Calabria, Francesca Cannizzo è il prefetto di Palermo, Carmelo Provenzano è un professore della Kore di Enna, Francesco Lo Voi, la parte lesa, è il capo della procura di Palermo, Scimeca e Caniglia sono amministratori giudiziari. Ognuno degli intervenuti porta un regalo a Vania, Tano Seminato una collana d’oro, Fabio Narice il decreto di sequestro dei beni di Filippo Arrappato, Francesco Verga (alto magistrato del Consiglio Senza Minga, nel quale Lo Voi crede di intravedere il CSM) parla della “sistemazione” di una vicenda che riguarda la festeggiata e dell’opportunità di pensare ai ragazzi, cioè a Walter e a Wanda, cosa che Vania ha “già fatto”, Richard Amato porta una torta e un anello, Ciccia Cannozzo un profumo Chanel n.5, Melo Provenza la tesi di laurea di Caramia Francesco, Alessandro Scimia una cassetta di vini dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono e Mario Crusca sei chili di ventresca, che il figlio della Vania, Elio, esperto cuoco presso l’hotel Brunellacci di proprietà dello zio Tano, si appresta a cucinare. È descritta anche la ricetta sia degli spaghetti al tonno, sia della ghiotta di tonno. Ma la cosa che il procuratore Lo Voi ha ritenuto offensiva è che uno degli agenti della scorta di Ciccio Lo Bue, procuratore di Salerno, porta in dono alla Vania una grossa anguria di venti chili proveniente da un mercato ortofrutticolo sotto sequestro. Lo Voi sostiene che era il prof. Carmelo Provenzano a portare frutta fresca alla Saguto, compresi i melloni, e non lui. Finita la cena gli intervenuti tra una chiacchera e l’altra parlano della possibilità di una nomina al Cara di Mineo di Melo Provenza, attraverso la raccomandazione del dottor Montone di Roma, il quale ha già dato un incarico giuidiziario a Tano Seminato, e Vania esprime il suo desiderio, sia a Ciccia, che a Ciccio, che a Richard, di voler tolto dai piedi lo Scassaminchia, nel quale Lo Voi crede di riconoscere il direttore di Telejato Pino Maniaci. I quattro decidono di preparare una “polpetta avvelenata” per sbarazzarsi dello Scassaminchia attraverso la preparazione di un filmato “da gettare in pasto alla stampa” ed alcuni provvedimenti da adottare nei suoi confronti. E qua è l’altra frase incriminata, quella in cui Ciccio Lo Bue dice: “Basterà una misura cautelare di divieto di soggiorno e lo spediremo lontano da Pars Iniqua, dove con il suo giocattolo televisivo può continuare a rompere le scatole. Ma non è ancora il momento. Mi sono arrivate strane voci da parte della Procura di Caltanissetta e bisogna andare cauti: non possiamo far credere a una vendetta di Vania e di Tano nei confronti di chi l’ha attaccato ogni giorno. Dobbiamo fotterlo quando meno se l’aspetta”. 

Vania: “E allora a rivederci tutti, tra qualche settimana, al mio resort, all’Abbazia Sant’Anastasia, per il nostro annuale incontro annuale sui beni sequestrati. Melo, mi raccomando, prepara tutto tu”.

Tano: “È stata una bellissima serata. Rendiamo lode al Grande Architetto che tutto ordina e regge. In questo momento la mafia ce la può suc….scusami Vania. Siamo noi i padroni di Palermo”. 

In fase di controinterrogatorio l’avvocato difensore di Salvo Vitale ha chiesto a Lo Voi se fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, cosa che Lo Voi ha confermato, dal 1981, se di questa corrente fanno parte Tommaso Virga e Silvana Saguto, cosa anche qui confermata, con l’affermazione che Silvana Saguto non era un’assidua frequentatrice delle riunioni e non si sa nemmeno se era tesserata. Parrino ha anche chiesto quali fossero i suoi rapporti con la Saguto e Lo Voi ha detto che erano buoni sino a un certo periodo e che si sono poi raffreddati. Ultima domanda di Parrino a Lo Voi, se c’è qualche grado di parentela con Cappellano Seminara. Lo Voi ha risposto negativamente, ma Parrino ha riproposto la domanda chiedendo se il rapporto di parentela è con sua moglie. Lo Voi, in questo caso ha ammesso una “lontana” parentela. Parrino ha anche fatto osservare che l’articolo è stato rimosso dal sito all’indomani della denuncia, che il prof. Salvo Vitale, in prima udienza, con dichiarazione spontanea, ha detto: “Se il procuratore si è sentito offeso per la mia satira gli chiedo scusa, perché non era mia intenzione offenderlo, ma rilevare che egli non poteva, nel suo ruolo, non essere al corrente del procedimento contro Maniaci”. Il procuratore ha affermato di non sapere di queste dichiarazioni. Per riparare all’offesa subita il procuratore ha chiesto un risarcimento di centomila euro sia a Salvo Vitale che a Riccardo Orioles. La prossima udienza è stata fissata il 24 gennaio.

Processo per diffamazione di Lo Voi contro Salvo Vitale e Riccardo Orioles, scrive il 25 Gennaio 2018 Telejato e Antimafia duemila. Il prossimo 5 marzo le arringhe finali. Lo scorso 24 gennaio 2017 al tribunale di Caltanissetta si è svolta una nuova udienza del processo per diffamazione intentato dal procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Lo Voi, contro Salvo Vitale e Riccardo Orioles, nella qualità, il primo di autore dell’articolo “Metti una sera a cena”, l’altro di direttore responsabile della redazione giornalistica di Telejato. E’ stato ascoltato, come teste unico il prof. Salvo Vitale, il quale ha risposto alle varie domande che gli sono state poste dall’avvocato difensore Bartolo Parrino, dall’avvocato dell’accusa e dal P.M, oltre che dal Giudice Palmeri, che presiedeva l’udienza. Salvo Vitale ha brevemente ripercorso la sua lunga carriera di giornalista, a partire dal 1964, quando scriveva per il giornale L’Ora di Palermo, le battaglie condotte con Peppino Impastato attraverso l’emittente radiofonica Radio Aut, per arrivare alla sua collaborazione con Telejato. Ha detto che a muovere la sua azione c’è sempre stata l’intenzione di fare un’informazione diversa legata a problemi reali del territorio e alle testimonianze delle persone vittime di ingiustizie. Su richiesta del Giudice Palmeri ha rivendicato la paternità sia dell’articolo in questione, sia di tutti gli altri articoli scritti negli ultimi cinque anni per Telejato, nei quali si è occupato di misure di Prevenzione e della gestione dei beni sequestrati a mafiosi o presunti tali. Per quanto riguarda il rapporto con Orioles ha detto che “era ed è basato sulla fiducia reciproca, e pertanto raramente egli ha preso visione di quanto pubblicato”. Nella sua ricostruzione della cena immaginaria, alla quale avrebbe partecipato il procuratore Lo Voi, egli ha detto che “bisogna distinguere il dato reale da quello immaginario e che, se nel dato reale c’è una cena alla quale partecipa il prefetto di Palermo e Cappellano Seminara, che porta in omaggio alla Saguto una collana d’oro, nella cena immaginaria partecipano una serie di figure, magistrati, militari, investigatori, amministratori, che rappresentano le espressioni più alte del potere in Sicilia. Se In questa cena si discute su quali misure prendere nei confronti di Pino Maniaci e della sua emittente, è perché esistono pregresse intercettazioni che preannunciano come era in atto un’operazione nei confronti del Maniaci”. Secondo Vitale “la frase ‘se quelli lì si spicciassero’ detta dalla Saguto al Prefetto Cannizzo, allorché le due donne parlano di Maniaci, conferma che ‘quelli lì’ erano i magistrati che si stavano occupando su come procedere nei confronti di Maniaci e che la Procura di Palermo, nella persona del suo massimo esponente, Lo Voi, non poteva non sapere.” “Questo - ha aggiunto il teste-imputato - motiva l’immaginaria presenza di Francesco Lo Voi alla cena”. Su domanda dell’accusa Salvo Vitale ha detto di “non potere escludere una motivazione personale di rivalsa del Procuratore nei confronti di chi ha condotto le inchieste di Telejato su un settore del Tribunale la cui presidente era legata a una serie di magistrati, collaboratori, compagni di corrente, per non parlare della parentela che lega la moglie di Lo Voi, Pasqua Seminara a Cappellano Seminara, al punto che costei è stata chiamata a testimoniare dalla Saguto a suo favore”. Sempre evitando di identificare l’immaginario con la realtà, Salvo Vitale ha chiarito che “l’obiettivo del suo articolo era quello di stimolare, attraverso l’uso della satira, una riflessione su come il potere, nelle sue varie articolazioni e attraverso chi detiene importanti cariche, può spesso decidere di procedere contro una piccola emittente e soffocare le voci libere che non si allineano al conformismo generale”. Pertanto ha invitato a riflettere su “come, attraverso questo processo si corre il rischio non di dare soddisfazione a una persona che si ritiene offesa, ma di soffocare l’intero diritto di satira e d’informazione”. Su proposta dell’avvocato Bartolo Parrino, che ha chiesto di produrre agli atti altro materiale, l’udienza è stata aggiornata al 5 marzo, ore 10 per le arringhe finali.

Misure di Prevenzione: tutto a posto e niente in ordine, scrive il 5 gennaio 2018 "Telejato". IN QUESTO ARTICOLO FACCIAMO IL PUNTO DELLA SITUAZIONE SULLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO E CI OCCUPIAMO DI QUANTO STA SUCCEDENDO NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI AI VIRGA DI MARINEO, QUELLI CHE ABBIAMO DEFINITO I PAPERONI DI SICILIA. Come al solito e come ai bei tempi della Saguto, troviamo sul Giornale di Sicilia l’articolo che traccia ed esalta l’immagine del magistrato, ne declama le attività, confronta i tempi interminabili per i vari procedimenti, usati durante la gestione Saguto, con quelli pur notevolmente lunghi, di due anni e mezzo, entro i quali si dovrebbe muovere, per chiudere i vari casi di sequestro o di confische, il nuovo presidente dell’Ufficio Misure di Prevenzione Raffaele Malizia, in carica da sei mesi. Sappiamo così che, con la nuova gestione sono stati emessi, ad oggi, 400 nuovi provvedimenti “con un saldo positivo di 100 nuove decisioni adottate” e che, con la nuova legge, sul tribunale di Palermo graverà anche il carico dei provvedimenti emessi da Agrigento, valutato il 30% in più, ma che vedrà la nomina di un altro magistrato in aggiunta ai cinque oggi in organico Luigi Petrucci, Giovanni Francolini, Ettorina Contino e Vincenzo Liotta, più il Presidente Malizia. Quindi sembra di capire che si sia aperta qualche nuova pagina, malgrado le scadenze e l’aumento del carico di lavoro. Per contro, a giudicare da quanto abbiamo potuto apprendere e sentire da numerosi “preposti”, cioè sottoposti alle misure di prevenzione, tutto sembra ancora fermo, o comunque si muove con lentezza esasperante tra un rinvio e l’altro. Oggi ci occupiamo di quanto sta succedendo nella gestione dei beni sequestrati ai Virga di Marineo, quelli che abbiamo definito I Paperoni di Sicilia, poiché secondo le stime della DIA il loro patrimonio ammontava a un miliardo e seicentomila euro. Dopo l’esplosione dello “Scandalo Saguto” si scoprì che l’amministratore giudiziario nominato, un certo Giuseppe Rizzo, raccomandato caldamente alla Saguto dal colonnello della DIA Fabrizio Nasca, era inesperto, addirittura, inidoneo e al suo posto, il giudice Montalbano, provvisorio supplente della Saguto, nominò un amministratore di Catania, un certo Privitera. Sarebbe normale chiedersi: ma non ce n’erano amministratori a Palermo, invece di nominare un catanese, che poi ha nominato altri catanesi come coadiutori? Con la conseguenza che, quando arrivano a Marineo è necessario pagar loro la trasferta. Naturalmente non è la prima volta che succede: basta pensare alla nomina fatta dal giudice Tona di Caltanissetta a Cappellano Seminara per l’amministrazione dei beni del sequestro Padovani, in gran parte ubicati a Catania. Questo Privitera, a detta dei pochi lavoratori rimasti al loro posto, non si fa mai vedere, ma ha nominato come coadiutore un altro catanese, il geometra Giuseppe Geraci, già coadiutore nell’amministrazione dei beni di Michelangelo Aiello, in particolare Villa Santa Teresa di Bagheria. Costui agisce come fosse il padrone, si è appropriato di un’Audi A3, confiscata al proprietario e se ne serve per i suoi spostamenti, in pratica è una sorta di factotum padreterno. Le attività della cava, prima gestite dai Virga e dal loro personale, sono state “affittate”, per quanto riguarda il calcestruzzo e il bitume all’impresa Tomasino, mentre le attività per il recupero e il trattamento degli sfabbricidi sono state affittate alla Palermo Recuperi. Rimane ancora discretamente attiva l’azienda agricola, anch’essa in affitto a un’azienda di Marineo. Allo studio Tumminello e Frisina di Marsala è stata affidata la gestione legale delle attività, mentre la vecchia società ACRI è stata dichiarata fallita lasciando senza il pagamento di sette mesi di stipendio e senza liquidazione gli operai che vi lavoravano e senza rimborso i numerosi creditori. In conclusione ormai il lavoro di quella che era una delle più grandi aziende siciliane nel campo del calcestruzzo è ormai ridotto a ben poca cosa, mentre il perito che avrebbe dovuto consegnare in tribunale i risultati delle sue stime, dopo un anno e mezzo ha chiesto un’altra proroga. A conti fatti, rispetto a quel miliardo e mezzo di euro gettato in pasto alla stampa, è rimasto un patrimonio reale che non supera i 20 milioni di euro, ma che il povero perito, oberato da pesantissimi lavori, ancora non è riuscito a quantificare, in attesa della nuova udienza fissata il 21 febbraio e in attesa di un temuto provvedimento di sfratto poiché i Virga sono proprietari delle case sequestrate, ne abitano alcune, mentre altre sono date in affitto, ma l’amministratore giudiziario da sei o sette mesi non ha chiesto a questi inquilini il pagamento dell’affitto, mentre molto probabilmente lo chiederà ai Virga. Insomma, siamo alle solite “Storie di ordinaria follia”.

La farsa di Palermo, scrive Piero Sansonetti il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La grande stampa nazionale ha deciso di risolvere il problema tacendo, o scrivendo solo qualche riga. Un po’ per pudore, un po’ probabilmente per imbarazzo. Come si fa a riferire delle fantasiosissime requisitorie che in questi giorni vengono pronunciate al processo di Palermo – quello sulla trattativa stato mafia – senza riderne un po’ o senza chiedersi come sia possibile che nella solennità di un aula di tribunale vengano lanciate accuse folli, e senza il briciolo di un briciolo di un briciolo di prova, verso personaggi che hanno avuto una grande rilievo nella storia recente dell’Italia? Non sembra più neanche un processo, sembra la ribalta di uno spettacolo trash, dove tutti tirano palle di fango. Perciò la maggior parte dei direttori ha deciso di glissare. Perché le possibilità sono solo due: o fai finta di niente, vista la assoluta inattendibilità delle cose che vengono dette; oppure t’indigni e chiedi che qualcuno intervenga. Purtroppo, a occhio e croce, nessuno è in grado di intervenire. E così ieri abbiamo sentito un Pm dire che Riina è stato venduto da Provenzano agli inquirenti. In particolare al generale Mori e probabilmente al capitano Ultimo, che lo catturò. Il Pm ha detto che la cattura di Riina è stata una vergogna per l’Italia. E ha finito per mettere sul banco degli imputati i giudici, che hanno già ampiamente assolto Mori da questa accusa, e anche l’ex procuratore di Palermo Caselli, che ancora recentemente ha sostenuto che la cattura di Riina è stata la salvezza per il paese. Poi i Pm hanno indicato l’ex presidente della Repubblica Scalfaro come responsabile, a occhio e croce, del reato di alto tradimento. E con lui il ministro Conso, il ministro Mancino e qualcun altro. Indizi? Prove? No: «Fidatevi di noi». Davvero non c’è nessuna possibilità che qualche autorità intervenga, interrompa questo scempio della storia e del diritto, e disponga, se serve, anche un po’ di aiuto psicologico per i Pm?

Quanto conta la difesa nel processo sulla Trattativa? Poco, scrive Massimo Martini il 26/01/2018 su Magazine Sicurezza". Oggi la procura formulerà le richieste di condanna per gli imputati superstiti. Per gli avvocati restano due settimane di tempo per le loro arringhe. Oggi, dopo duecentodieci udienze in quasi cinque anni, al processo di Palermo sulla cosiddetta trattativa l’accusa formulerà le sue richieste di condanna per i dieci imputati superstiti, dopo una requisitoria durata dieci udienze. Il titolo di una agenzia Ansa che ieri dava questa notizia, risultava singolare e indicativo: “Stato-mafia: processo si conclude, domani richieste condanne.” Il fatto che i difensori debbano ancora pronunciare le loro arringhe viene evidentemente considerato irrilevante. Del resto in conclusione dell’udienza di ieri uno scontro verbale fra il difensore del generale Mori, avvocato Basilio Milio e il presidente della corte d’assise Alfredo Montalto ha dato sostanza a quell’infelice titolo di agenzia. Il presidente ha assegnato alla difesa dei dieci imputati due settimane di tempo e a nulla sono valse le proteste dell’avvocato Milio che ha fatto notare come la pubblica accusa abbia avuto a disposizione oltre un mese. Va anche detto che le dieci udienze utilizzate dalla procura palermitana sono state in gran parte sfruttate per ripercorrere gli argomenti d’accusa già esaminati nei numerosi processi paralleli e propedeutici a questo, che si può definire riassuntivo – tutti, nessuno escluso, si sono conclusi con l’assoluzione degli imputati. Forse è per questo che il presidente della corte ha ritenuto meno impegnativo il ruolo della difesa. Di Massimo Bordin. Roma, 26 gennaio 2018

La trattativa che non c’è, le quattro domande di Zurlo che imbarazzano Di Matteo, scrive Massimo Martini il 26/01/2018 su Magazine Sicurezza. Terminata oggi la requisitoria al processo Stato-mafia. I Pm Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene hanno formulato pesanti richieste per il generale del Ros dei carabinieri Mario Mori, per il generale Antonio Subranni e per il colonnello dell’Arma, Giuseppe De Donno, equiparando chi ha lottato contro la mafia agli altri imputati nel processo, boss del calibro di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Alle pesanti richieste dei pm, l’autore di Oltre la trattativa risponde con una piccola intervista aperta a Nino di Matteo. Celebrata oggi l’udienza numero 210 del processo per la trattativa Stato-mafia, iniziato il 27 maggio 2013. Nell’Aula Bunker dell’Ucciardone, davanti alla corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto, molte sono le questioni irrisolte. Le udienze che vedono alternarsi i pm responsabili dell’accusa sembrano ancora ben lungi dal raggiungimento della verità. La narrazione consegnata in questi ultimi 25 anni dal circuito mediatico-giudiziario che vuole accreditare, al di là delle risultanze logiche e indiziarie, l’ipotesi (ardita) di un accordo tra apparati dello Stato (i carabinieri del Ros ed esponenti politici) e i boss mafiosi di Cosa Nostra, continua dunque tra contraddizioni e intrecci, più strumentali che utili a fare chiarezza nel vespaio di menzogne relative alle stragi del ’92 e agli assassinii dei giudici Falcone e Borsellino. La verità, infatti, risiede nell’informativa mafia e appalti: il fascicolo misteriosamente archiviato poco dopo la morte dell’eroe di Via D’Amelio. E’ questa la tesi di Vincenzo Zurlo, sottoufficiale dei carabinieri, laureato in giurisprudenza e specializzatosi in criminologia forense, autore del libro “Oltre al trattativa- Le verità nascoste sulla morte di Paolo Borsellino tra depistaggi e bugie”. Forte dello studio di migliaia di atti giudiziari, Zurlo ha approntato una serie di domande, una piccola intervista aperta al pm Nino Di Matteo, tra i più convinti sostenitori del processo sulla trattativa: “un processo che poggia su gambe di argilla” secondo la definizione dell’autore di Oltre la trattativa, e destinato a un’assoluzione che ne dimostrerà la totale infondatezza.

* Durante la requisitoria ha detto: «Brusca dipinge dunque un quadro in cui manca solo il mediatore. Quello che dice è attendibile». Come mai, se lo ritiene così attendibile, quando a Caltanissetta, in udienza le disse, durante il Borsellino bis: «Borsellino muore per l’indagine su mafia e appalti», non gli crede e non segue mai quella pista investigativa?

* Lei ritiene Riina attendibile nelle intercettazioni in carcere. In una di queste, il defunto capo di Cosa Nostra dice, testualmente, «il papello fu una cosa detta da lui (Brusca, ndr) e studiata da lui, sentimento suo», mentre Lorusso, il detenuto che fa con Riina la socialità, aggiunge: «Ciancimino, padre e figlio, fotocopia di qua e di là… normografo… ha fatto un collage e solo un collage…». Come mai non ne ha tenuto conto?

* Il papello, l’elenco con le richieste che Totò Riina avrebbe fatto allo Stato per fare cessare le stragi mafiose, è stato definito dal gup Marina Petruzzella “frutto di una grossolana manipolazione”, aggiungendo: “Ciancimino lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all’estero non avrebbe impedito la consegna dell’originale”. Siccome è evidente che le fotocopie, con l’uso di carte e inchiostri datati, impediscano l’accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura, e siccome Ciancimino, non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall’estero, le chiedo: da eccelso giurista qual è, imposterebbe un processo su una fotocopia prodotta da un calunniatore?

* Conosce l’art. 358 del c.p.p.? Sicuramente sì. Parla dei compiti del pubblico ministero. In una parte recita: “…e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.” Siccome durante la requisitoria, non solo non ci ha detto quali sono le prove (ma nemmeno gli indizi o i gravi indizi), a carico; ci racconterebbe dei fatti e circostanze emerse durante le indagini ed il dibattimento, a favore degli imputati?

Grazie, per l’attenzione. Le risposte, cortesemente, le giri al giudice Montalto, presidente della corte d’Assise, a Travaglio, alla Guzzanti ed a tutti quelli che in giro parlano di una trattativa che non c’è. Dottor Vincenzo Zurlo. Roma, 26 gennaio 2018

Il processo Stato-mafia finisce in farsa, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il pm Di Matteo chiede sei anni di galera per Mancino, 12 per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e zero per il boss Brusca. Se volete leggere questo articolo dovete mettervi nello stato d’animo di chi non si stupisce di niente. Altrimenti lasciate stare. I Pm del processo di Palermo (il famoso processo sulla presunta trattativa Statomafia) hanno chiesto una novantina d’anni di galera per alcuni degli imputati. Tra i quali un paio di mafiosi e una decina tra esponenti della politica e dell’arma dei carabinieri. Cinque anni li hanno chiesti per il giovane Ciancimino, Massimo, figlio di Vito (ex famigerato sindaco di Palermo), accusato di calunnia contro gli altri imputati. La sua testimonianza, giudicata calunniosa, è in realtà l’unico puntello alle tesi dell’accusa (ma questa cosa naturalmente fa un po’ sorridere, o sobbalzare, l’osservatore poco informato – non è l’unico non sense prodotto dal processo). Poi hanno chiesto 15 anni per il generale Mori, 12 per Marcello Dell’Utri e 6 per l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Non hanno potuto chiedere anni di galera per l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, perché nel frattempo è morto, ma nelle loro requisitorie lo hanno più volte indicato come il capintesta di tutta la congiura. Naturalmente è molto complicato qui dirvi di quale congiura si tratti. Perché i Pm ne hanno delineate almeno un paio e tra loro in netta contraddizione. Basta dire che al vertice del gruppo criminale, secondo le requisitorie, ci sarebbero stati lo stesso Scalfaro e Berlusconi. Capite? Scalfaro e Berlusconi, cioè i due personaggi più lontani tra loro di tutto lo scenario politico degli anni novanta. Del resto i Pm hanno mostrato una conoscenza molto superficiale di quello scenario politico, e dunque non c’è molto da stupirsi che possano confondere la sinistra Dc con Forza Italia e cose del genere. Tuttavia l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non sta neanche nelle richieste cervellotiche, o nell’osservazione che non c’è uno straccio di prova a carico degli imputati, e neppure nel fatto che si chiedano pene per delitti che altri processi (a Mori stesso, all’on Calogero Mannino e ad altri) hanno già accertato non esistere. L’aspetto più preoccupante è l’impostazione dell’accusa. Leggete qui con quali parole il Pm Di Matteo (che ora è diventato uno dei procuratori nazionali antimafia) ha spiegato il senso del processo: «Questo è un processo che punta a scoprire livelli più alti e causali più complesse. Legati non a un fatto criminoso ma a una strategia più ampia».

Che vuol dire? Vuol dire che i Pm di Palermo (o quantomeno Di Matteo, non sappiamo se gli altri si dissociano da questa idea) ritiene che il suo compito non sia quello di perseguire i reati ma di stabilire, con la sua autorità, la verità storica, e poi di sanzionare questa verità con delle esemplari punizioni. In questo modo Di Matteo aggira l’ostacolo principale di questo processo, e cioè il fatto che non c’è uno straccio di prova dei reati contestati agli imputati. Dice Di Matteo, in sostanza: «E che io devo stare lì col misurino a vedere se c’è qualche reato? Io sto più in alto: a me interessano le grandi strategie». Per dirla con parole ancora più semplici, il Pm dichiara in modo esplicito che quello di Palermo non è un processo penale ma un processo politico. Veniamo al merito della vicenda. Dunque, questo è un processo che è stato avviato dieci anni fa, il dibattimento va avanti da cinque anni, si riferisce ad avvenimenti di 26 anni fa, nessuno è in grado di stabilire quanto sia costato ai contribuenti. La tesi dell’accusa è che quando la mafia, all’inizio degli anni novanta, alzò il tiro sullo Stato, compiendo stragi, uccidendo magistrati, leader politici e comuni cittadini, ci fu un pezzo dello Stato (pezzo di governo, pezzo dei carabinieri e pezzo dei servizi segreti) che si adoperò per cercare di frenare queste stragi, ed evitare nuovi morti, trattando con i vertici mafiosi. Scambiò la fine delle stragi con alcuni benefici carcerari, compresa l’abolizione del 41 bis. Il punto però è che non esiste nessun indizio che questa trattativa ci fu. Anche perché nei processi paralleli a questo di Di Matteo e degli altri Pm palermitani, sono piovute assoluzioni. Il generale Mori, ad esempio, è stato già di- chiarato innocente. E così Calogero Mannino, ex ministro, che fin qui è l’unico rappresentante del governo che è stato accusato di aver trattato.

Ora uno si chiede: ma se noi sappiamo che non trattò il governo, non trattarono i servizi segreti, non trattarono i carabinieri, ma che diavolo di trattativa fu? E poi sappiamo anche che nessuno dei benefici indicati dagli accusatori fu concesso. Mancano i protagonisti del reato e manca il bottino. Voi capite che sembra una commedia surreale. Ma è più surreale ancora perché assieme all’accusa verso lo Stato (e fondamentalmente verso la sinistra Dc) di avere trattato con la mafia, c’è anche l’accusa a Dell’Utri ( e quindi a Berlusconi) di avere fatto la stessa cosa, ma, sembrerebbe, con un intento opposto. Perché l’accusa immagina i berlusconiani che trattano con la mafia per destabilizzare la Dc, la quale intanto tratta con la mafia per stabilizzare. C’è da diventare pazzi. Sembra una farsa. Una farsa, però, fino a un certo punto. Oltre il quale diventa davvero un dramma. E un po’ indigna. Indigna per esempio il modo nel quale è stato trattato l’ex presidente del Senato. Nessuno al mondo riesce a capire di cosa sia accusato Nicola Mancino, 86 anni, prestigiosissimo leader democristiano, più volte ministro, ex presidente del Senato. Dicono che non si ricordi di un incontro che forse ha avuto con il magistrato Borsellino, prima che Borsellino fosse ucciso dalla mafia, e che non si ricordi nemmeno di una telefonata di Claudio Martelli, che l’avrebbe messo in guardia su alcuni comportamenti dei Ros che non lo convincevano. Embé?

Si tratta di cose avvenute un quarto di secolo fa. E nessuno sa se l’incontro e la telefonata ci furono oppure no. E comunque, anche se ci furono, furono episodi normalissimi che non c’è nessun bisogno di nascondere. Eppure i magistrati chiedono che Mancino trascorra sei anni in carcere. Qui c’è poco da scherzare. C’è da avere seriamente paura. Qualche Pm una mattina si sveglia e ha il potere, sulla base di nulla, di riempire di fango un padre della democrazia italiana, e di chiedere, con arroganza, che sia sbattuto in carcere. E per di più questo Pm confessa bellamente che lui non cerca reati, ma “strategie più complessive”. Siamo sicuri che non esistano le condizioni per intervenire, da parte delle istituzioni? Sicuri che sia giusto che un magistrato rivendichi che la sua funzione non è quella di accertare i reati ma quella di processare la politica seguendo sue idee e teorie? Diceva Piero Calamandrei: «Non spetta alle toghe giudicare la storia di un paese». Già, Calamandrei. Chissà se i Pm di Palermo conoscono il nome di Calamandrei. Certo che se Calamandrei avesse conosciuto i Pm di Palermo, sarebbe inorridito…

Trattativa Stato-mafia, i pm: "Provenzano vendette Riina ai carabinieri". A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è Vittorio Teresi, scrive il 19 gennaio 2018 "La Repubblica". "L'arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e de Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell'azione dello Stato contro Cosa nostra". La cattura del boss corleonese Totò Riina come snodo della seconda fase della trattativa tra parte delle istituzioni e la mafia è al centro dell'udienza odierna del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, dedicata alla prosecuzione della requisitoria dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. A ripercorrere l'arresto del padrino, finito in manette dopo decenni di latitanza il 15 gennaio del 1993, è il pm Teresi certo, secondo quanto prospetta l'ipotesi accusatoria, che Riina venne "consegnato" ai carabinieri dall'ala di Cosa nostra vicina a Bernardo Provenzano. Riina, con cui i militari del Ros imputati al processo avevano intavolato un dialogo finalizzato a far cessare le stragi, era ritenuto un "interlocutore" troppo intransigente. Perciò gli si sarebbe preferito Provenzano, fautore della linea della sommersione, e lontano dall'idea del "papello", l'ultimatum che Riina avrebbe presentato allo Stato tramite i carabinieri. Provenzano dunque, dopo le stragi del '92, sarebbe entrato in gioco e avrebbe consentito la cattura del compaesano con la complicità del Ros pretendendo, tra l'altro, che il covo del capomafia "venduto" non fosse perquisito. "Era chiaro che tutto questo doveva essere tenuto segreto - ha spiegato Teresi - E dopo la cattura di Riina e l'uscita di scena anche di Ciancimino le linee dell'accordo sono chiare e si passa ai fatti". "Così come per i carabinieri è fondamentale mantenere il segreto sulla cattura di Riina - ha aggiunto il magistrato - altrettanto è importante, per la mafia, che nulla trapeli sul fatto". La Procura descrive uno Stato diviso in due: da una parte pezzi delle istituzioni pronti a trattare dopo gli attentati a Falcone e Borsellino per "paura e incompetenza", dall'altra un "manipolo" di uomini come l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e l'ex capo del Dap Nicolò Amato, convinti che si dovesse mantenere la linea dura contro Cosa nostra. I timori e l'incapacità di far fronte all'emergenza dunque avrebbero portato alcuni rappresentanti delle istituzioni a piegarsi al ricatto nell'illusione che alcuni cedimenti, come ad esempio, una attenuazione all'odiato 41 bis, potesse far cessare le bombe mafiose. "Non si comprese, ha detto il pm, che la mafia avrebbe letto tutto questo come il segno che si poteva rilanciare come avvenne con gli attentati nel Continente e trattare ancora per ricevere altri benefici". Teresi ha ricostruito tutta la parte dell'impianto accusatorio relativa alle concessioni fatte dallo Stato a Cosa nostra, nel 1993, sulla politica carceraria: dalla sostituzione dei vertici del Dap, come Amato, ritenuto troppo duro e allontanato senza preavviso dal suo incarico, alla revoca del 41 bis nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano a febbraio del 1993, alla nomina al ministero della Giustizia di Giovanni Conso che prese il posto di Claudio Martelli, il politico che, dopo le stragi del '92, aveva istituito il regime carcerario duro per i mafiosi. E ha fatto nomi e cognomi di chi "per paura o incompetenza" avrebbe avallato la politica della distensione: l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l'ex Guardasigilli Giovanni Conso, Aldalberto Capriotti, subentrato ad Amato al Dap e il suo vice Francesco Di Maggio. Sullo sfondo, nella ipotesi dell'accusa, restano entità non precisate che avrebbero consigliato a Cosa nostra la strategia da seguire. "Centri occulti che hanno suggerito alla mafia cosa fare per indurre lo Stato a cedere. Ci fu un'intelligenza esterna che ha orientato i comportamenti di Cosa nostra e si è fatta comprimario occulto dell'azione mafiosa riuscendo ad agire indisturbata perché poteva confidare nella linea della distensione scelta da pezzi delle istituzioni". "Se avesse prevalso la durezza - ha aggiunto il magistrato - nessuno spazio ci sarebbe stato per un dialogo che ha invece rafforzato la mafia e la sua azione terroristica. Se avesse prevalso la durezza, i consiglieri dei mafiosi sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia, ma nel clima di compromesso che ci fu, tutto si è confuso".

Perché usare Falcone per giustificare le proprie idee estreme? Scrive Piero Sansonetti il 30 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La decisione della Procura di Caltanissetta di chiedere la scarcerazione di Marcello Dell’Utri, in attesa che la Corte europea si pronunci sul suo caso, ha scatenato una campagna di “opposizione molto aggressiva guidata dal “Fatto Quotidiano”. Ieri Giancarlo Caselli, giorni fa Marco Travaglio, sono intervenuti con molta foga per contestare la competenza giuridica della Corte europea (e anche della Procura generale di Caltanissetta). Perché usare a sproposito Falcone per giustificare le proprie idee? Eper sostenere che i dubbi sulla colpevolezza di Dell’Utri e la fondatezza della sentenza Contrada sono improponibili. Travaglio ha intitolato il suo articolo “È rimorto Falcone”, riprendendo un vecchio titolo strepitoso dedicato, nel 1978, da “Lotta Continua” alla morte di papa Luciani (avvenuta un paio di mesi appena dopo la morte di Paolo VI). La tesi di Travaglio è che la definizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa (quello per il quale sono finiti in carcere prima Contrada e poi Caselli) spetta a Falcone, che immaginò questo reato negli anni 80. E dunque negare che quel reato esistesse prima del 1994 è un’offesa al magistrato ucciso da Cosa Nostra. Caselli a sua volta sostiene che il reato di concorso esterno esiste da quando esiste il codice Rocco (1932) perché è in quel codice che viene previsto il reato di concorso esterno (che oggi è stabilito dall’articolo numero 110), e dal 1982 (quando nel codice viene inserito il 416 bis che punisce l’associazione mafiosa) esiste il concorso esterno in associazione mafiosa.

Hanno ragione Travaglio e Caselli? No. vediamo perché.

Prima un brevissimo riassunto dei capitoli precedenti. Contrada fu condannato per questo famoso concorso esterno per fatti risalenti agli anni 80. E così pure Dell’Utri. Contrada fece ricorso alla Corte europea, la quale sostenne che il reato di concorso esterno, in Italia, fu definito dalla giurisprudenza solo a partire dal 1994, e perciò non era prevedibile prima, e perciò non era punibile. L’Italia ora dovrà risarcire Contrada per ingiusta detenzione. Dell’Utri aspetta la sentenza.

Perché ha torto Caselli e ha ragione la Corte europea? Vediamo innanzitutto cosa dice l’articolo 110 del codice penale: «Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita». Benissimo: c’è scritto “concorrono”, non “concorrono dall’esterno”. L’introduzione del concorso esterno non è stata decisa dal legislatore ma dall’interpretazione della legge da parte della magistratura. Del resto basterebbe chiedere questo a Caselli: come mai il reato di concorso esterno in banda armata non è stato mai né invocato né applicato? Eppure negli anni della lotta armata c’era una grande parte della magistratura, impegnata nella lotta al terrorismo, la quale sosteneva che intorno alle formazioni terroristiche ci fosse una retroguardia “esterna” di intellettuali e politici e giornalisti, che sostenevano le formazioni sovversive, pur senza farne parte, e erano a loro indispensabili. Lui stesso, mi pare, aveva questa idea. Mi ricordo bene persino l’espressione che si usava: «bisogna togliere l’acqua ai pesci». Eppure nessuno pensò al concorso esterno. Anche perché la logica ha una sua autonomia: il reato associativo già di per se prevede il concorso; come si fa a concorrere a un concorso, e per di più da fuori?

Perché ha torto Travaglio a farsi scudo con Falcone per difendere la sua convinzione che il concorso esterno sia sacrosanto? Perché Falcone ipotizzò il concorso esterno prima del 1989. Poi, in quell’anno, ci fu la riforma del codice penale. E nel 1991, poco prima di morire, Falcone scrisse: «Col nuovo Codice di procedura, non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici. Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata in dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa». Addirittura Falcone metteva in discussione il reato associativo. Altro che concorso esterno! Povero Falcone, usato, a sproposito, come un santino!

Se l’attentato è a un avvocato, zero tituli, scrive Piero Sansonetti il 4 gennaio 2018 "Il Dubbio". Il caso dell’avvocata Adriana Quattropani, alla quale hanno messo una bomba sotto l’automobile, è passato sotto silenzio sui media. Qualche giorno fa in Sicilia, a Pachino, hanno messo una bomba, che è esplosa, sotto l’automobile dell’avvocata Adriana Quattropani. Probabilmente è stata la mafia. La notizia è stata riportata dai giornali locali e dal Dubbio. Punto. Mettiamo l’avvocato in Costituzione. Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se avessero fatto saltare l’automobile di un magistrato. O addirittura di un giornalista. Penso che la notizia avrebbe conquistato la prima pagina di tutti i giornali. Alcuni giornali le avrebbero dedicato il titolo principale della prima pagina e svariati commenti. Sarebbe intervenuto il governo. Qualcuno avrebbe chiesto al Parlamento di varare una nuova legge ad hoc. Forse ci sarebbe stato uno sciopero di qualche ora. Il ministero avrebbe dato ordine alla questura di Caltanissetta di mettere sotto scorta la magistrata o la giornalista (ci sono molti giornalisti che sono sotto scorta anche se non hanno mai subito nessun attentato). Nel caso dell’avvocata invece non è successo niente di tutto questo. E immagino che a parte qualche migliaio di siciliani della provincia di Caltanissetta, e i lettori del Dubbio, nessun altro sia a conoscenza del fatto. Del resto negli ultimi mesi, sebbene non si abbiano notizie, per fortuna, di attentati a magistrati e giornalisti (i primi, giustamente, sono abbastanza protetti, i secondi, saggiamente, non sono considerati affatto pericolosi, come era una volta) si hanno invece diverse notizie di attentati agli avvocati. Un avvocato, addirittura è stato ucciso, a Lamezia Terme. Un’altra avvocata è stata ridotta in fin di vita a Milano. Il sistema informazione è pochissimo interessato a questi fatti, perché molto raramente il sistema informazione trova “complicità”, (o offre complicità) nel mondo forense, mentre invece, molto spesso, le trova e le offre nel mondo della magistratura. Negli ultimi anni l’alleanza di ferro tra magistrati e giornalisti ha messo gli avvocati in una condizione difficile. Esiste una parte della magistratura che considera l’avvocato come il nemico da battere. E il lungo anno che ha visto Piercamillo Davigo alla testa della associazione nazionale magistrati ha aggravato questa condizione. Ora le cose sono un pochino cambiate, con l’elezione di Eugenio Albamonte al vertice della Anm e la definizione della sua linea che vede nella collaborazione tra avvocati e magistrati la via giusta per migliorare il funzionamento della giustizia. Ma la linea di Albamonte, sebbene sia la linea ufficiale dell’associazione (e anche del Csm), non è certo maggioritaria in quel pezzo di magistratura che costituisce il nocciolo duro dell’alleanza coi giornalisti. Cioè quella più potente e più vistosa mediaticamente. E’ chiaro che il problema della tutela degli avvocati, sia dal punto di vista pratico – e persino fisico sia dal punto di vista “ideale”, si pone con urgenza. Quello che si è appena chiuso è un anno di grandi conquiste per la categoria (che ha ottenuto l’equo compenso, la modifica dei parametri forensi, il legittimo impedimento per le avvocate in gravidanza, e ha sventato la minaccia di alcune controriforme della giustizia che avrebbero indebolito lo stato di diritto). Resta però aperto il problema di chiarire, a livello di massa, il ruolo dell’avvocato nella società. Non è facile far passare l’idea che l’avvocato non è una appendice dell’imputato, e dunque, forse, del colpevole. Ma è una figura autonoma e decisiva per il funzionamento di una giustizia libera e fondata sulla prevalenza del diritto. L’idea che si va diffondendo sempre di più, grazie alla deriva giustizialista che sta travolgendo giornalismo e intellettualità, è che il valore della legalità sia tanto più forte quanto più sono numerose le condanne penali e quanto più sono severe le pene. E dunque è bene indebolire il ruolo e il potere dell’avvocato. E’ difficilissimo spiegare che non è così. La legalità è esattamente l’opposto dell’idea autoritaria e repressiva che sta dietro il giustizialismo, e che è la linfa di tutte le ideologie totalitarie. Il valore della legalità sta nella certezza del diritto, nella difesa dei diritti civili, nella limpidezza e lealtà delle regole di funzionamento del processo. Non esiste nessuna idea di legalità che possa prescindere dal concetto che la giustizia si afferma nei processi (e non nei sospetti o nei linciaggi mediatici) e che il processo deve svolgersi in una condizione di assoluta parità tra accusa e difesa. Proprio per questa ragione la figura dell’avvocato, cioè del rappresentante e del protagonista della difesa, ha una rilevanza assoluta nella affermazione di una società fondata sulla legalità. Tanto più è debole la figura dell’avvocato, tanto meno è forte il valore della legalità. Per questo gli avvocati, e in particolare il Cnf, si sono posti l’obiettivo di “costituzionalizzare” la figura del difensore. In modo da riequilibrare il rapporto con l’accusa e soprattutto in modo da chiarire il ruolo e l’importanza assoluta dell’” istituzione- avvocato”. La proposta è quella di riformare l’articolo 111 della Costituzione, quello che regola il giusto processo, con una piccola modifica dopo il secondo comma, introducendo un paio di frasette, brevi ma molto importanti: “Nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati (…) L’avvocato esercita la propria attività professionale in posizione di libertà e di indipendenza, nel rispetto delle norme di deontologia forense”. Non è una necessità burocratica. Non è un dettaglio. È una affermazione di principio e l’inizio di una battaglia. L’inizio? Sì, perché poi si dovrà ottenere un altro risultato: che l’articolo 111 della Costituzione sia applicato davvero e diventi senso comune. Oggi l’articolo 111 è una bellissima affermazione di principio, che sta lì, abbastanza lontano dalla pratica, dal senso comune e anche dalla conoscenza dell’intellighenzia, che in genere non ne sospetta nemmeno l’esistenza.

«Io, avvocata minacciata, dico: tutelano solo i magistrati e a noi ci lasciano soli», scrive Simona Musco il 3 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Adriana Quattropani, avvocata di Siracusa che il 29 dicembre scorso è stata oggetto di una intimidazione a Pachino: una bomba carta sotto la sua auto. «Ormai siamo sempre più lasciati allo sbaraglio. Siamo soli. I magistrati sono tutelati, noi invece, per non perdere il lavoro, siamo esposti a situazioni del genere». A parlare è Adriana Quattropani, avvocata di Siracusa che il 29 dicembre scorso è stata oggetto di una pesante intimidazione a Pachino: una bomba carta piazzata sotto la sua automobile, subito dopo aver “consegnato” al proprietario una stazione di servizio, un distributore Esso fallito e gestito da una famiglia coinvolta in indagini per mafia e finito al centro di una procedura fallimentare. Una tragedia sfiorata, considerando che la professionista si trovava poco distante, in un bar. Si tratta dell’ennesimo gesto intimidatorio ai danni di un avvocato, gesti che nell’ultimo anno si sono moltiplicati, fino a diventare quasi giornalieri. Una situazione, spiega al Dubbio Quattropani, che impone una riflessione da parte della politica sul ruolo della categoria e un intervento legislativo che consenta agli avvocati di poter svolgere con tranquillità il proprio lavoro. «Questa volta – spiega – credo che le cose cambieranno».

Avvocata, com’è andata?

«Io sono curatore fallimentare e quel giorno mi stavo occupando del fallimento di un distributore di benzina che si trova su una delle vie principali di Pachino. Avevo un appuntamento con il proprietario del distributore, che aveva avviato le procedure per la rivendita del bene e così, alle 9, dovevo incontrarlo assieme al suo avvocato per riconsegnare la struttura. La prima stranezza l’ho notata al mio arrivo: i sigilli, che erano stati messi a febbraio, erano stati violati. Ho chiamato subito la polizia, che non ha potuto fare altro che constatare la violazione. Però ho notato anche la presenza di un gruppo di persone che osservava i nostri movimenti. Una volta redatto il verbale di riconsegna, il proprietario del bene ha voluto offrirmi un caffè. Ci siamo spostati così su Piazza Indipendenza, parcheggiando le nostre auto l’una vicina all’altra. Appena ci siamo avvicinati al bancone abbiamo sentito un boato allucinante. Mi sono avvicinata alla vetrata e ho visto le persone scappare verso una viuzza».

Si è resa subito conto che si trattava della sua auto?

«No, inizialmente mi sono tranquillizzata, osservando la direzione delle persone in fuga. Ho pensato che potesse essere un petardo di capodanno, anche se il boato mi sembrava eccessivo. Appena siamo usciti dal bar, però, sono stata avvicinata da una persona che mi ha chiesto se la macchina fosse mia. Pensavo ostruisse il passaggio, invece quella persona mi ha spiegato che ci avevano messo una bomba sotto. Mi sono avvicinata e ho visto pezzi di plastica sul marciapiede e l’auto gravemente danneggiata».

Il distributore era gestito da persone coinvolte in indagini per mafia. C’entra qualcosa questo con l’intimidazione?

«Credo che quanto accaduto c’entri con il distributore. Non posso dire molto, perché le indagini sono in corso. Ma i soggetti coinvolti sono particolari, molto conosciuti».

Le intimidazioni e le aggressioni ai danni degli avvocati sono ormai all’ordine del giorno. Che momento sta vivendo la vostra categoria?

«Il momento è molto brutto. Veniamo utilizzati come baionette e non abbiamo protezione da parte di nessuno. Un rischio che è diventato ancora più grande alla luce della riforma che ormai è passata. Sono anche professionista delegata, quindi svolgo un lavoro che prima veniva fatto dai pubblici ufficiali. Adesso siamo noi avvocati, da soli e senza l’intervento di nessuno, a prendere possesso dell’immobile da mettere all’asta. È facile immaginare quali possano essere i rischi: possiamo trovarci davanti a persone normali oppure di fronte a soggetti come questi».

Vi sentite poco tutelati, dunque?

«Siamo lasciati completamente allo sbaraglio. Il magistrato – e non lo dico per mancanza di rispetto, perché è giusto che lo sia – è tutelato. Noi invece no. E non abbiamo scelta: se per paura delle ripercussioni non accettassimo l’incarico che ci viene affidato dal giudice si può star certi che la volta successiva non ce ne affiderà un altro. Se vogliamo lavorare, dunque, dobbiamo accettare l’incarico con tutti i rischi che ne conseguono».

C’è stata una reazione di fronte a quanto le è accaduto?

«Ho ricevuto solidarietà a 360 gradi, anche da parte dell’associazione nazionale magistrati. Mi stanno dimostrando molta vicinanza per quello che è accaduto, dal Consiglio dell’ordine, che ha subito diramato un comunicato, ai colleghi di associazione che operano nel siracusano. Molti avvocati, giorno per giorno, mi stanno contattando, anche molti che non conoscevo prima. So che c’è stata un’assemblea della camera civile per chiedere subito una riunione al Consiglio dell’ordine degli avvocati per le opportune future azioni a tutela della categoria».

Quali sono le vostre richieste alla politica?

«Credo sia necessario intervenire a livello legislativo. Devono esserci più tutele per la per la nostra categoria, specie in una zona come la nostra, che non è Aosta».

Crede che cambierà qualcosa?

«Ho sentito molta vicinanza. Questa volta penso che le cose si smuoveranno».

IL SOLITO MERCIMONIO ISTITUZIONALE.

Adesso le toghe rosse mollano il Pd per Grillo. La corrente di Davigo sostiene il candidato dei 5 Stelle. I dem: "Avessero vinto loro c'era da scappare all'estero", scrive Augusto Minzolini, Venerdì 28/09/2018, su "Il Giornale". I commenti più surreali sull'elezione di Davide Ermini alla vicepresidenza del Csm sono stati quelli di Giggino Di Maio e del Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che lamentano «l'assenza di indipendenza», visto che, come osserva il vicepremier grillino, si tratta di «un renzianissimo deputato fiorentino del Pd». Sul piano teorico sarebbe un appunto giusto. Solo che se si fa l'analisi del sangue di chi ha votato per il candidato dei 5stelle, Alberto Maria Benedetti, si scopre che è stato sostenuto da chi tra i consiglieri si rifà, in un modo o nell'altro, al perimetro dell'attuale maggioranza di governo, compresi gli eletti della Lega. Di più, la motivazione (quasi una requisitoria) con cui Piercamillo Davigo, leader di una delle correnti in cui si dividono i togati, ha appoggiato nelle riunioni preparatorie un altro dei nomi portati in Csm dai pentastellati, quello di Filippo Donati, è stata anch'essa squisitamente politica: «Non si può votare perché ha appoggiato le riforme di Renzi nel referendum». Insomma, siamo alle solite, in quel tempio dell'imparzialità che dovrebbe essere il Consiglio superiore della Magistratura, l'organo di autogoverno dei giudici, la logica è sempre la stessa: politica contro politica. Ed è squisitamente politica anche la principale novità: Magistratura democratica, la corrente dei giudici di sinistra, quelli che una certa letteratura ha soprannominato negli ultimi trent'anni come le cosiddette «toghe rosse», confluita da qualche anno in «Area», ha divorziato dal Pd. Per essere chiari, non ha votato per Ermini. Motivo? Anche questo tutto politico: quel mondo ha maturato un'avversione verso Matteo Renzi, molto simile a quella che da sempre nutre verso Silvio Berlusconi. «Mi odiano a tal punto...»: è stato il commento ieri dell'ex segretario del Pd. E, l'inimicizia a questo punto è ricambiata, almeno da una parte del vecchio partito di riferimento. «Hanno fatto di tutto sbotta il piddino Ettore Rosato, vicepresidente della Camera per metterla in quel posto a noi. E meno male che ha vinto Ermini. Immaginatevi se avesse vinto il candidato del fronte giustizialista che mette insieme grillini, leghisti, Davigo e le toghe rosse di un tempo... Ci sarebbe stato da scappare all'estero!». Squarciando il velo dell'ipocrisia, quindi, anche nell'anno del governo del cambiamento, per comprendere ciò che avviene nel mondo delle toghe, bisogna usare il metro della politica. Ad esempio, per lavorare ai fianchi la candidatura del prof. Alessio Lanzi, sponsorizzato da Forza Italia, l'argomento principale usato in queste settimane è stato: «È il candidato di Berlusconi». Ed ancora: come si fa a dare un senso alla decisione dei due consiglieri portati in Csm dalla Lega, di votare con Davigo e gli eredi delle toghe rosse, quando neppure venti giorni fa Matteo Salvini ha apostrofato come «sentenza politica» il sequestro dei 49 milioni di euro della Lega e, appena ieri, il fondatore del Carroccio, Umberto Bossi, è stato condannato ad un anno e 4 mesi per aver offeso l'ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano? Sarebbe una decisione incomprensibile senza l'aiuto di uno schema squisitamente politico: l'esigenza di stare con i grillini e non con il Pd. Anche se poi un leghista tutto d'un pezzo, come Stefano Candiani, non nasconde un certo imbarazzo nel ritrovarsi nel fronte giustizialista: «Ma che roba è questa?». Già, tutto sbagliato, tutto da rifare: sui temi della giustizia, più che guardare agli schieramenti politici, bisognerebbe rifarsi alla filosofia del diritto, decidere se stare con Cesare Beccaria o con Maximilien de Robespierre. Anche perché se la «ratio» è simile a quella del Parlamento, allora è meglio non fosse altro come garanzia che la maggioranza del Csm non ricalchi quella di governo. La vera «indipendenza», infatti, si dimostra sui fatti e non sul colore. All'alba del governo del cambiamento il ministro della Giustizia, Bonafede, promise una norma che impedisse a un magistrato che va in politica di tornare a fare il giudice. Una promessa solenne, seguita in questi mesi da un silenzio assordante.

POLITICA & TOGHE. Ermini (Pd) al Csm, patto Renzi-Berlusconi (con l'ok del Colle). Il Pd, d'accordo con Berlusconi, spiazza M5s e grazie alle manovre e ai voti di Cosimo Ferri (ex centrodestra) si prende il Csm. E il Colle? Scrive Gianluigi Da Rold il 28 settembre 2018 su "Il Sussidiario". Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva fatto un discorso esemplare a proposito dell'insediamento del nuovo Consiglio superiore della magistratura e in attesa della nomina del vicepresidente che, di fatto, essendo Mattarella il presidente, dirige normalmente i lavori e le grandi scelte di fondo. Aveva specificato Mattarella: "I componenti laici, secondo quanto prevede lo stesso articolo 104 della Costituzione, sono eletti non perché rappresentanti di singoli gruppi politici (di maggioranza o di opposizione) bensì perché, dotati di specifiche particolari professionalità, il Parlamento ha affidato loro il compito di conferire al collegio un contributo che ne integri la sensibilità". Persino uno dei quotidiani più attenti e apprensivi nelle vicende interne alla magistratura, che aveva sino al 25 settembre il timore di manovre poco chiare della correnti di "destra" dei cosiddetti membri togati, cioè i magistrati, in questo caso di Magistratura indipendente e di Unicost, si era tranquillizzato di fronte alle parole del Capo dello Stato e concludeva con un commento tranquillizzante: "Adesso, però, le parole di Mattarella sembrano indicare al plenum un'indicazione precisa: eleggere un tecnico e non un politico". Invece, tanto per cambiare, la stampa italiana non riuscirebbe ormai neppure a prevedere un temporale e il paventato rischio di una nomina di David Ermini è diventato realtà. Ermini è un avvocato penalista, che probabilmente ricalcherà le orme di Francesco Carnelutti e Giacomo Delitala, grandi giuristi un po' snob, che non "amavano" (eufemismo) le correnti nella magistratura, ma tecnico è una veste che gli sta un po' stretta. David Ermini è infatti stato rieletto deputato del Partito democratico e si è sempre distinto per essere più renziano dello stesso Matteo Renzi. Un protagonista rumoroso e appassionato della lotta politica all'interno del Parlamento e del suo stesso partito che non attraversa momenti felici. Chissà se parteciperà alla manifestazione di domenica prossima del Pd, anche se ha annunciato, a quanto sembra, la sospensione dal partito e dal Parlamento (ha dato le dimissioni a luglio, ma ieri era formalmente in carica: anomalie burocratiche italiane). In tutti i casi, Ermini stabilisce un primato nella storia del Csm, quello di un vicepresidente tutto politico che appartiene anche al partito di minoranza, che non sta al governo. E' un mistero eleusino, come dicevano gli antichi greci, che però svela qualche cosa che si sta muovendo nella viscere, piuttosto malandate, di questa "terza repubblica" suddivisa in feudi l'un contro l'altro armato. Attenzione al quadro complessivo riassunto brevemente. Si è appena conclusa la telenovela delle telenovele, cioè la nomina contrastata del presidente della Rai, con Marcello Foa a un passo dalla notorietà giornalistica nella storia italiana di Barzini, Malaparte e Montanelli. Vittoria governativa! Si è appena conclusa la rissa sui decimali della finanziaria o del documento di economia e finanza che fa incavolare l'Europa, che scomoda Francia e Bruxelles, che fa innalzare lo scontro fino ai "giuramenti" solenni del ministro dell'Economia, Giovanni Tria, e alle accuse di "assassinio politico" fatte dal vicepremier Luigi Di Maio a Matteo Renzi per aver pensato e varato il Jobs act. Partita incerta e vittoria problematica per tutti. E ora è scoppiato il putiferio sulla nomina di Ermini, imprevista, che ha mandato fuori dai gangheri un magistrato "integerrimo" e leggermente sopra le righe come Piercamillo Davigo, ex presidente dell'Anm e leader della nuova corrente da lui fondata "Autonomia e indipendenza". Davigo attacca a testa bassa: "La strettissima maggioranza con cui è stato eletto l'avvocato Ermini ha diviso in due il Csm a causa della diretta provenienza del nuovo vicepresidente dalla politica, unico tra tutti i laici eletti in Parlamento". Davigo non si ferma: "Questa è una scelta che dà la sensazione che il Csm sia il contrappeso del governo". Aggiunge anche che la scelta è legata a una parte: di un ampio e trasversale schieramento politico, si intende. Accuse gravissime che vengono riprese in altro modo da Luigi Di Maio: "Dove è l'indipendenza della toghe? Vuol dire che la cinghia di trasmissione si è invertita?". In più: "Il sistema è vivo e lotta contro di noi". Alla faccia del rispetto della giustizia italiana e della magistratura. La polemica è violentissima e incredibile, dato che solo alcuni giorni fa Di Maio invitava Matteo Salvini a non "attaccare la magistratura", dopo l'avviso di garanzia che era arrivato al ministro dell'Interno per la vicenda della nave Diciotti. E' vero che viviamo in un'epoca di parole al vento e di coerenza piuttosto problematica, ma c'è un limite a tutto. Persino il ministro della Giustizia, il garbato grillino Alfonso Bonafede, allibito, dice: una parte delle toghe si è messa a far politica. Tutto sommato quella di Bonafede è una scoperta dell'acqua calda, ma lascia spazio ad alcune riflessioni. Lo scontro all'interno del Csm riguarda probabilmente alcuni casi, come quello delle intercettazioni telefoniche, il perenne "caso Woodcock", ma non si inquadra in un vero dibattito sulla riforma della giustizia, non si citano Montesquieu, Tocqueville, magari Calamandrei o Falcone. Assomiglia piuttosto a una rissa tra correnti interne e riferimenti politici esterni, in nome della gestione e del possibile potere di interdizione del Csm. Per Davigo e la stampa che lo spalleggia, ad esempio, uno dei protagonisti negativi della vicenda è il leader di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri, un playmaker del collegamento tra politica e giustizia, un funambolo delle alleanze trasversali: magistrato, ora sta nel Pd, però ha buoni rapporti con le correnti di destra e forse anche con Berlusconi, ripensando al suo passato. Non sembra proprio un innovatore, Ferri, nella magistratura e nella giustizia italiana. Una sua intervista riporta un'avversione "salazariana", si potrebbe dire, contro la separazione delle carriere, tra giudice e pm, quindi in aperto contrasto con la Corte dei diritti europei che, dal luglio 1997, raccomanda all'Italia di evitare quello che Montesquieu chiamava un abuso, cioè che il giudice faccia lo steso mestiere del pubblico ministero e quindi si produca questo processo che è una sorta di ircocervo inquisitorio e accusatorio mescolato malamente insieme. Ma di fronte alla realtà politica di questi mesi, almeno fino alle prossime scadenze elettorali in Germania, negli Stati Uniti e poi in Europa, una grande e necessaria riforma della giustizia si ridurrebbe a un dibattito di "quisquilie e pinzillacchere", direbbe il grande Totò. Il problema attuale è quello di occupare posizioni in previsione degli eventi futuri. Occupare appunto feudi e fare una sorta di contrapposizione di poteri anarchici, senza alcun vero senso dello Stato. A noi la Rai, agli altri il Csm; e Tria chi lo difende e a chi deve rispondere? La tesi propagandata è sempre quella di rassicurare i mercati e non isolarsi. Sarà pure una strategia di sopravvivenza, ma la sensazione è che il paese e la stessa Europa siano sempre più divisi. Vedendo come Matteo Renzi ha difeso la nomina di David Ermini si potrebbe dire che c'è proprio un asse trasversale, che si contrappone dialetticamente (eufemismo) a questo governo giallo-verde. Si vede la mano del Pd, ovviamente, alcuni errori marchiani della maggioranza, forse qualche manovrina berlusconiana, qualche "grillino" dissidente e forse (perché no?) l'accompagnamento paterno del Quirinale. Strano quello che scrive il "quotidiano dei magistrati". Qualcuno si pone la domanda se sia vero che il voto ha disatteso le indicazioni di Mattarella. Forse qualcuno ha capito male le parole del capo dello Stato? 

Csm, chi è il vicepresidente David Ermini: l’amico di Tiziano Renzi arrivato in Parlamento con il Pd di Matteo. Il nuovo vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l'unico politico componente del nuovo plenum. Anche per questo motivo la sua elezione ha spaccato le correnti di togati a Palazzo dei Marescialli. Arriva da Figline, a quindici chilometri da Rignano ed è amico di famiglia dell'ex presidente del consiglio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Compagno di scuola di Maurizio Sarri, amico di vecchia data di Tiziano Renzi, è arrivato alla politica che conta grazie al figlio Matteo, che dal consiglio provinciale di Firenze lo ha portato fino in Parlamento. E adesso anche sulla poltrona di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Un cursus honorum di tutto rispetto quello dell’avvocato David Ermini, eletto tra le polemiche come successore di Giovanni Legnini. Il nuovo vicepresidente del Csm, infatti, è l’unico politico componente del nuovo plenum. Anche per questo motivo la sua elezione ha spaccato le correnti di togati a Palazzo dei Marescialli. Cinquantanove anni, proveniente da una famiglia di avvocati di Figline, in riva all’Arno, a soli quindici chilometri da Rignano. E infatti Ermini, che esordisce in politica nella corrente di sinistra della Dc, diventa presto amico di Tiziano Renzi, che dello scudo crociato fu consigliere comunale. L’esordio pubblico giovane Matteo avviene proprio a Figline nel 1996 in occasione di un dibattito con Valerio Onida. Regista del battesimo politico di Renzi è proprio Ermini. Che quindi farà strada grazie all’exploit del futuro premier. Dalla candidatura flop a sindaco di Figline – con lo slogan: David contro Golia – diventa prima consigliere provinciale con la Margherita – capogruppo quando il presidente della provincia è proprio Renzi – e poi nel 2013 deputato del Pd. Nel 2014 Renzi lo porta al vertice del partito, nominandolo responsabile Giustizia nel 2014. Lavora alla riforma Orlando sul processo penale e a quella delle intercettazioni. Difende i Renzi e Luca Lotti, coinvolti nell’inchiesta Consip, e attacca il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto sui social network: “Prima si prende di mira Renzi e poi si lavora sulle indagini? Ci sono mandanti?”. Insomma si comporta come tutti gli altri componenti del Giglio magico cercando, però, di tenere un atteggiamento sfumato nei confronti dei magistrati, almeno nelle dichiarazioni. Forse ha sempre ipotizzato un giorno di dover andare a dirigere il massimo organo di autogoverno delle toghe. Cosa che gli riesce grazie ai voti fondamentali di Magistratura Indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, collega deputato sui banchi del Pd, che nel 2018 li ha rieletti entrambi. L’avventura di Ermini, però, è durata pochi mesi: l’amico dei Renzi, adesso lascia Montecitorio per una residenza più esclusiva: Palazzo dei Marescialli. (Ha collaborato Carlo Giorni)

Non tutto sia comizio. L’autonomia del Csm è un bene, scrive Giuseppe Anzani, venerdì 28 settembre 2018, su  Avvenire. In democrazia non è necessario che tutto piaccia a tutti. È invece necessario che tutti rispettino le regole del gioco, e poi che ognuno faccia il suo gioco con onestà; e, terzo, sapere che le due cose vanno insieme, o cadono insieme. Non è piaciuto a Di Maio e a Bonafede che alla carica di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (il presidente, come si sa, è sempre il Capo dello Stato) sia stato liberamente eletto da quell’assemblea l’avvocato David Ermini, già deputato nelle file del Partito Democratico. Perché siano così costernati gli esponenti 5stelle che stanno al governo non si capisce bene, ma ciò che passa in cuor loro è affar loro, ne hanno facoltà. Che manifestino in pubblico il disappunto, e per giunta clamorosamente accusino, quasi fosse uno schiaffo alla loro lesa maestà, è affar nostro ed è affare di democrazia e di regole del gioco. Come sanno tutti, la prima regola di salvaguardia della libertà nei sistemi democratici è la divisione dei poteri sovrani: legislativo, esecutivo, giudiziario. Nella Costituzione italiana è disegnato un intreccio di bilancieri che reggono le funzioni, i pesi e i contrappesi, le facoltà e i limiti di ciascun organo dello Stato. In questo, anche in questo, sta la "coralità" della guida e (della vita) d’una comunità sociale libera da prepotenze e da ingiustizie. Il Csm è l’organo di autogoverno della Magistratura. Autogoverno significa che si governa da sé, e in ciò sta un caposaldo della autonomia e indipendenza dell’Ordine giudiziario. La giustizia, beninteso, cioè la soluzione dei conflitti civili, la cognizione delle accuse penali e il castigo dei delitti, non la fa il Csm: è affidata ai giudici, che sono soggetti soltanto alla legge, e pronunciano le sentenze in nome del popolo italiano. Ogni singolo giudice, in quel compito, impersona lo Stato, in presa diretta. Naturalmente, non può decidere secondo quel che gli piace, ma secondo la legge. Se sbaglia (e può sbagliare), c’è sempre sopra di lui un altro giudice (d’appello); e sopra quest’altro c’è la Cassazione come suprema istanza di legittimità. Se c’è una precauzione esterna da prendere, è quella che nessun giudice, nessun piccolo giudice – ricordate il film "Zeta" di Costa Gavras? – abbia sul collo il fiato d’un qualche potente; e dunque è giusto tener autonoma e affidare a un organo costituzionale la disciplina strutturale del rapporto e della funzione (reclutamento, tirocinio, formazione, incarichi, sedi, trasferimenti, sanzioni disciplinari). Proprio per questo esiste, e questo fa, il Csm: presieduto dal Capo dello Stato, ed eletto per due terzi dai magistrati e per un terzo dall’intero Parlamento. Autonomia è il contrario di mandati o indirizzi politici della maggioranza di turno. Ermini non ha il compito di fare l’amministratore delegato. Non credo sia necessario spiegare al vicepremier Di Maio e al guardasigilli Bonafede che quella carica non è tra quelle incluse nello spoil system, né lottizzabili alla Cencelli. Non è il vicepresidente l’organo che "possiede" e gestisce i compiti del Consiglio, fatto di persone che è lecito supporre dotate di qualche professionalità e coscienziosità; e magari di libertà, nel prendere decisioni collegiali in modo democratico. E non è neppure il Csm che "amministra la giustizia", che resta compito, come s’è visto, dei singoli giudici, cui singolarmente spetta – uno per uno – la soggezione «solo alla legge» senza nessun condizionamento, neanche del Csm. Questo è il disegno che raffigura il dover essere del sistema. Si dirà che nella storia delle vicende umane tutto può impolverarsi e contaminarsi. Ma appunto per questo ciascuno va richiamato alla sua vocazione, alla purezza del suo impegno, al giuramento che ha fatto, e in ultima istanza alla onestà e verità della sua vita. Ma questo vale per tutti; persone, organi, padroni sovrani (cioè noi come popolo) e servi (in latino il servo si chiama appunto minister). Magistratura compresa, si capisce; ma compreso Parlamento (a far buone leggi, che è il suo compito); e compreso governo (a guidare la barca di tutti, senza infiniti comizi).

Csm: come funziona, davvero, il sistema di elezione. Le correnti della magistratura e il "mercato" per assegnare i posti di rilievo: il vero disastro della giustizia italiana, scrive Maurizio Tortorella il 24 settembre 2018 su "Panorama". Si torna a discutere se il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura sia tra le cause della deformazione che lo ha trasformato da organo di governo della categoria a mercato di scambio tra le correnti che lo compongono. Si torna a parlare di “elezione per sorteggio”: per evitare che le correnti lavorino sotterraneamente nel Csm, come “finti partiti” interessati soprattutto a nomine e promozioni, non si dovrebbero più eleggere i suoi membri (i 16 “togati”, su un totale di 27) in base alla regola delle liste contrapposte, bensì per sorteggio fra tutti gli oltre novemila magistrati in attività. La proposta è formalmente in contrasto con l'articolo 104 della Costituzione, che prevede che i componenti del Csm siano "eletti". Ma comunque sta facendo rumore. Si legge di polemiche, petizioni, appelli…In realtà è una vecchia idea. A suggerire la tesi del “sorteggio”, una quindicina d’anni fa, per primo fu un fior di magistrato (di sinistra), oggi in pensione: Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino. Che la sua idea, a prima vista bizzarra, continui oggi a far discutere la categoria è forse il segnale della disperazione collettiva di fronte al busillis. La situazione, grosso modo, è questa. I novemila magistrati si dividono in cinque correnti. Due sono di sinistra: sono Magistratura democratica, fondata nel 1964 all’ombra del Pci, e il Movimento per la giustizia, nato come cartello elettorale tra due gruppi di sinistra, i Verdi e Articolo 3. A loro volta queste due correnti di sinistra si sono fuse, ma solo elettoralmente, in una terza che si chiama Area. Altre due correnti, poi, sono genericamente centriste: Unità per la Costituzione e Magistratura indipendente. Poi c’è l’ultima nata, Autonomia e indipendenza, che alcuni dicono “grillina” e ha connotati più corporativi. Bene. Un magistrato che decida di stare fuori da uno di questi cinque “partiti” è svantaggiato in tutto. Certo farà carriera, visto che questa è automatica grazie a due leggi del 1966 e del 1973: chiunque passi l’esame di Stato, sa che gli basterà sopravvivere qualche decennio per arrivare a ottenere lo stipendio di un presidente di Corte di cassazione. Ma pochi magistrati ne avranno effettivamente il ruolo, e di certo chi non fa parte di una delle correnti troverà molto difficile entrare nel “mercato” che ha il suo cuore nel Csm. Quel mercato funziona così: noi consiglieri della corrente A votiamo il candidato della corrente B per quel determinato ufficio, ma solo se i rappresentanti della corrente B voteranno il nostro per quell’altro incarico direttivo; noi di B aiutiamo il vostro giudice a non essere colpito dalla punizione (che possibilmente merita), ma ovviamente voi di A aiuterete il nostro. E via così, mercanteggiando. Sui giornali, raramente, emergono carteggi riservati che fanno spalancare gli occhi, e i casi più eclatanti di questa vergogna. Qualcuno ricorderà forse il caso di Cuno Tarfusser, già procuratore di Bolzano, che nel giugno 2016 il Csm escluse dal dibattito per la guida della Procura di Milano (malgrado si fosse regolarmente candidato). Non fu nemmeno ascoltato. Il motivo? “Io non ho mai aderito ad alcuna corrente” disse Tarfusser a Panorama “perché ritengo che aderirvi significhi schierarsi e questo, a mio parere, riduce la credibilità e l’autorevolezza di cui il magistrato deve nutrirsi. Se poi questa mia "apoliticità" abbia influito sulla mia esclusione non lo so, né mi interessa. Anzi, se così fosse ne sarei quasi onorato”. Tarfusser aveva messo il dito nella piaga. Da troppi anni il mercato del Csm funziona proprio così, e a nulla è servita la riforma del regolamento, nel settembre 2016. Un giudice lombardo, un “senza corrente” che tiene alla sua indipendenza e al suo anonimato come alla vita, spiega come funziona il mercato cui inutilmente si cerca di porre rimedio, denunciando quello che è il vero disastro della giustizia italiana. Il giudice fa un esempio, banale ma terribile: un certo pubblico ministero è impegnato a sostenere l’accusa in un importante procedimento davanti a un certo giudice o a una certa corte. Mettiamo che questo pm sia della corrente A, e che il giudice (o il presidente della corte) appartenga invece alla corrente B. Si avvicina la sentenza e il pm vorrebbe ottenere un successo, com’è ovvio. Allora parte un gioco “sommerso” di telefonate, pressioni, segnalazioni, intercessioni... Accade perfino che piccole delegazioni di corrente si spingano a contattare informalmente il giudice. Gli viene sottolineato che la corrente A del pm è fondamentale per ottenere una certa promozione che al Csm la corrente B, cioè quella di cui il giudice fa parte, ha da tempo chiesto per un “suo” magistrato. Gli si fa capire, insomma, che se la sentenza sarà negativa per il pm è molto probabile che al Csm i suoi amici di A non saranno molto disponibili ad allinearsi. Ovviamente il giudice è libero di agire come crede. Resta il fatto che dire "No" alla corrente cui ha affidato il suo destino professionale è praticamente impossibile. E che sono pochi i giudici insensibili alle pressioni e alle lusinghe dell’ambizione. Come credete che finirà? Avete capito…Ma statene certi: di tutto questo, nelle e dalle commissioni del Csm, non trapelerà mai nulla. Mai.

Il libro mastro delle sentenze truccate: sotto inchiesta venti magistrati, scrive l'11 giugno 2018 Alessandra Ziniti su "La Repubblica". Di che cosa stiamo parlando. Sentenze amministrative comprate e un’azione di dossieraggio per inquinare e depistare importanti inchieste penali. A febbraio una grossa indagine delle procure di Roma e Messina ha portato all’arresto di 15 persone per corruzione in atti giudiziari. In manette anche un pm della procura di Siracusa e il regista di questo giro di mazzette, l’avvocato siciliano Piero Amara con una grossa clientela internazionale. Tra gli indagati anche l’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato Virgilio. Sono partiti da un elenco di 35 sentenze trovato a casa di uno dei faccendieri e sono arrivati lì dove non avrebbero mai voluto arrivare, per di più consapevoli di essere solo sull'uscio di una porta che spalanca la strada a quella che potrebbe essere una delle più esplosive inchieste italiane sulla corruzione degli ultimi anni. Ci sono più di venti magistrati iscritti per corruzione in atti giudiziari nel registro degli indagati delle procure di Roma e di Messina per un giro enorme di processi aggiustati nell'ambito della giustizia amministrativa. Lo scenario che si apre, gravissimo e desolante al tempo stesso, è quello di un Consiglio di Stato e di un Consiglio di giustizia amministrativa fortemente condizionati dall'attivismo di un numero molto consistente di giudici a libro paga che avrebbero preso mazzette per favorire i clienti più importanti rappresentati dallo studio legale Amara-Calafiore, i due avvocati siciliani arrestati tre mesi fa e che da alcune settimane stanno facendo importantissime ammissioni riempiendo decine di pagine di verbali davanti ai pm romani coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e messinesi diretti dal procuratore Maurizio de Lucia. Alcuni atti, che coinvolgono seppure in maniera marginale un magistrato del penale di Roma il cui nome emerge dagli atti per alcune cointeressenze in società, sono stati mandati per competenza alla procura di Perugia ma l'indagine promette di allargarsi e interessare altri uffici giudiziari italiani. L'inchiesta è quella che, a febbraio, ha visto finire agli arresti quindici persone (e tra questi anche l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo) per un giro di corruzione allora valutato in 400 milioni di euro. Bazzecole rispetto al vorticoso passaggio di mazzette, molte delle quali estero su estero, che gli investigatori della Guardia di finanza stanno faticosamente ricostruendo in questi mesi. Partendo da questa sorta di libro mastro delle sentenze aggiustate, ma grazie anche alle dichiarazioni fatte dai due avvocati accusati di aver costruito questo fittissimo reticolo di relazioni capace di condizionare le sentenze della giustizia amministrativa in favore dei loro facoltosi clienti, tutti interessati ad appalti milionari, molti dei quali affidati dalla Consip. L'altra ma non meno importante faccia della medaglia era l'ingegnoso metodo, quello dei procedimenti cosiddetti "a specchio", che il pm amico di Amara, Giancarlo Longo, apriva a Siracusa con l'obiettivo o di entrare a conoscenza di elementi riservati di inchieste delicatissime (come quella milanese sulle tangenti Eni in Niger) condotte da altre procure o addirittura di inquinarle o rallentarli con atti appositamente compiuti. Un'attività di depistaggio e dossieraggio che viaggiava tra Roma, Milano, Siracusa e Trani e che resta al centro di un capitolo tra i più delicati dell'inchiesta. Il primo a parlare, dopo tre mesi in carcere, è stato il rampantissimo Piero Amara, 48enne avvocato originario di Augusta ma con una importante clientela internazionale e amicizie nelle stanze dei bottoni. Messa da parte la linea di difesa iniziale, quando aveva negato di aver pagato magistrati per indirizzare le sentenze, ha finito con spiegare, almeno in parte, qual era il meccanismo messo in piedi per facilitare i suoi clienti: ricorso al Tar se la gara andava male e da lì verdetto sicuro o in primo o in secondo grado. Di cose interessanti ne ha raccontate diverse ma avrebbe in parte cercato di spostare le responsabilità sul collega di studio Calafiore. Il quale non l'avrebbe presa benissimo. E così, quando i pm gli hanno contestato le dichiarazioni di Amara, anche Calafiore ha deciso di rompere il silenzio contribuendo a sua volta a mettere tanta carne al fuoco delle due procure. E alla fine, due settimane fa, anche lui si è "guadagnato" i domiciliari. Nomi su nomi di magistrati amministrativi "avvicinati" e una lettura, adesso ovviamente al vaglio degli inquirenti, dell'elenco delle sentenze aggiustate (qualcuna con relativa cifra accanto) custodito da uno dei faccendieri che lo studio legale Amara-Calafiore utilizzava per sbrigare i suoi affari. Almeno quindici i nomi dei componenti del Consiglio di Stato finiti sotto indagine a cui si aggiungono quelli iscritti a Messina tra giudici del Consiglio di giustizia amministrativa e dei Tar di Palermo e Catania. Un "cerchio magico", quello messo su negli ultimi anni da Amara e Calafiore, del quale facevano parte anche diversi avvocati (anche qui molti nuovi indagati) rappresentanti delle imprese favorite nei contenziosi amministrativi: tra i più importanti il contenzioso Ciclat e quello della Exitone. Anche Fabrizio Centofanti, imprenditore anello di questa catena, haottenuto i domiciliari. Ma lui continua a tacere.

Dossier e depistaggi per condizionare i processi, spiata anche l'inchiesta sulle tangenti Eni. Quindici arrestati tra Roma e Messina, tra cui l'avvocato Piero Amara e il magistrato Giancarlo Longo. Avevano messo in piedi una finta indagine per inquinare quella della procura di Milano su Descalzi e le mazzette per il petrolio in Nigeria. In manette anche Enzo Bigotti, già coinvolto nel caso Consip. Ed è indagato Riccardo Virgilio, ex presidente del Consiglio di Stato, scrive Alessandro Ziniti il 6 febbraio 2018 su "La Repubblica". Alla fine l'avvocato più rampante d'Italia è finito agli arresti, insieme ai componenti di quel cerchio magico, magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali - grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi - sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l'esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano.

L'avvocato rampante. Piero Amara, 48enne avvocato di Augusta, una clientela internazionale di primissimo piano tra le aziende ma anche consigliere per gli investimenti di molti magistrati della giustizia amministrativa, tra il Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa e il Tar Sicilia, è il protagonista principale dell'operazione della Guardia di finanza che questa mattina, in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare firmate dai gip di Roma e Messina, ha eseguito i provvedimenti restrittivi.

Nella rete giornalisti, magistrati e professori. Quindici quelli in Sicilia chiesti ed ottenuti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia. Oltre ad Amara, è finito agli arresti il magistrato Giancarlo Longo, fino a qualche mese fa pm alla Procura di Siracusa e poi trasferito per motivi disciplinari dal Csm al tribunale civile di Napoli, dove sono in corso perquisizioni. Tra gli arrestati figurano anche Enzo Bigotti, imprenditore già indagato per il caso Consip, l'avvocato Giuseppe Calafiore, socio e collega di Amara, il professore universitario della Sapienza di Roma Vincenzo Naso. Provvedimenti restrittivi, tra gli altri, anche per il dirigente regionale Mauro Verace e per il giornalista siracusano Giuseppe Guastella. Indagato per concorso in corruzione l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio: la richiesta di arresto è stata respinta perché non ci sono esigenze cautelari.

Inchieste specchio per spiare i processi. Associazione per delinquere, corruzione, falso, intralcio alla giustizia la sfilza di reati a vario titolo contestato agli indagati che, negli ultimi cinque anni, avrebbero pesantemente condizionato l'azione della giustizia sia in sede civile che penale. Di particolare gravità la posizione del giudice Longo, secondo le indagini a libro paga di Amara e del suo socio Calafiore. Ottantottomila euro in contanti più il prezzo di vacanze offerte a lui e a tutta la sua famiglia a Dubai e un capodanno a Caserta, il prezzo della corruzione del magistrato che, nella sua veste di pm a Siracusa, avrebbe servito gli interessi di Amara mettendo su un sofisticato meccanismo di procedimenti giudiziari "specchio" che, pur senza averne alcun titolo, gli avrebbe consentito di venire a conoscenza di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. A cominciare da quella, aperta presso la Procura di Milano, che vedeva indagato l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, proprio un mese fa rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria.

Il caso Eni e il finto rapimento. Proprio nel tentativo di inquinare l'indagine milanese, Amara ( difensore di Eni) avrebbe messo su un tentativo di depistaggio facendo presentare alla Procura di Siracusa il suo amico Alessandro Ferrara che, nell'estate 2016, denunciò di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano interessati a sapere da lui notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi ordito dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Ad aprire il fascicolo, che gli diede la possibilità per mesi di scambiare informazioni con il collega di Milano Fabio De Pasquale (che non cadde nel tentativo di depistaggio) fu proprio il pm Giancarlo Longo.

Le sentenze pilotate. L'attività inquinante del magistrato sarebbe invece stata decisiva nel consentire ai clienti o alle imprese vicine ad Amara  (a cominciare dal noto gruppo imprenditoriale Frontino di Siracusa) di aggiudicarsi importantissimi contenziosi amministrativi davanti al Tar Sicilia o al Cga, come quelli sul centro commerciale Open Land di Siracusa, per il quale il Comune fu condannato a pagare un risarcimento da 24 milioni di euro, o come quello sulla discarica Cisma a Melilli, o ancora quello sulla costruzione di un complesso edilizio a Siracusa che valse all'Am group un risarcimento da 240 milioni di euro.

L'esposto dei colleghi e le telecamere. A dare nuovo impulso alle indagini sul comitato d'affari diretto da Amara è stato un esposto firmato da 8 degli 11 sostituti della Procura di Siracusa nei confronti del collega Longo, ripreso poi dalle telecamere piazzate nella sua stanza dalla Guardia di finanza mentre, ricevuta notizia di microspie nel suo ufficio, cerca di rinvenirle per neutralizzare le indagini a suo carico. 

La rete delle toghe a libro paga: «Così i processi si aggiustavano». L’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Fabrizio Centofanti gestivano il sistema, scrive Fiorenza Sarzanini il 6 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Un giudice del Consiglio di Stato, un magistrato della Corte dei Conti, un pubblico ministero di Siracusa, un ufficiale della Finanza, un alto funzionario del ministero dell’Economia: nella “rete” tessuta dall’avvocato Piero Amara e dall’imprenditore Fabrizio Centofanti c’erano le giuste pedine per avere informazioni riservate sulle indagini in corso e soprattutto per “aggiustare” i processi. Personaggi di alto livello che sarebbero stati messi a “libro paga” per garantirsi decisioni favorevoli nel settore amministrativo e così avere la certezza di aggiudicarsi gli appalti pubblici, primi fra tutti quelli di Consip. Ma anche per “spiare” le inchieste, in particolare quella sulle tangenti dell’Eni avviata a Milano. Amara e Centofanti sono stati arrestati su richiesta delle procure di Roma e Messina. Ai domiciliari ci sono altre 13 persone, compreso Enzo Bigotti, l’imprenditore amico di Denis Verdini e già finito nel fascicolo Consip proprio per aver ottenuto commesse milionarie.

Soldi a Malta. Per Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo Ielo avevano chiesto l’arresto. Nell’ordinanza si spiega che «la misura non è necessaria perché è ormai in pensione», ma nei suoi confronti rimane l’accusa gravissima di aver “pilotato” ben 18 tra sentenze, ordinanze e decreti in modo da favorire le società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore (sfuggito alla cattura visto che due giorni fa è partito per Dubai). Virgilio avrebbe anche annullato una decisione del Tar che escludeva un’azienda di Bigotti dalla gara per le “Buone scuole”. L’appalto rientrava, secondo l’accusa, nella spartizione dei lavori assegnati da Consip decisa a tavolino tra le imprese partecipanti. In cambio il giudice avrebbe ottenuto il trasferimento di 750 mila euro che aveva depositato su un conto svizzero «in un veicolo societario maltese, la Investment Eleven limited messa a disposizione da Amara». E secondo il gip «l’operazione ha rappresentato un’utilità concreta per Virgilio assicurandogli, da un lato, di non dover dichiarare al fisco italiano la somma di denaro detenuta in Svizzera e, dall’altro, di essere garantito nell’investimento effettuato».

La “soffiata”. Tra le persone perquisite ieri c’è Emanuele Barone Ricciardelli, funzionario del ministero dell’Economia. In una intercettazione del 3 agosto scorso parla con Bigotti e lo avvisa «di segnalazioni della Guardia di Finanza per turbativa d’asta nella gara Consip», e soprattutto «di accertamenti con le Procure». Le indagini del Nucleo Tributario di Roma sono effettivamente in pieno svolgimento e il dirigente promette di attivarsi. Scrive il giudice: «Nella stessa giornata Barone Ricciardelli inoltrava alla procura di Roma, tramite mail certificata, una richiesta formale per conoscere l’esistenza di iscrizioni a carico di Bigotti nel registro degli indagati».

Accertamenti sono in corso anche sulla ristrutturazione di una casa che Luigi Della Volpe ha affittato a partire dal 2014 ad una società di Centofanti che a sua volta lo ha subaffittato ad Amara. Della Volpe potrebbe infatti essere un ufficiale della Guardia di Finanza ora ai servizi segreti, e il sospetto degli inquirenti è che quel contratto sia in realtà fittizio e utilizzato semplicemente per l’emissione di false fatture.

L’ex assessore. È lungo l’elenco degli indagati e comprende altri giudici che si sarebbero messi a disposizione. Uno è Nicola Russo, che faceva parte dello stesso collegio di Virgilio e con Centofanti è legato da antica amicizia. Nel 2016 il giudice, nel ruolo di componente della Commissione tributaria di Roma, è stato accusato di aver favorito l’imprenditore Stefano Ricucci. E di essere stato ricompensato con pranzi, viaggi e i favori di alcune ragazze. Cinque anni fa fu invece accusato di sfruttamento della prostituzione minorile e a difenderlo c’era sempre l’avvocato Amara. Verifiche sono state disposte pure sul consigliere Raffaele De Lipsis e sul giudice contabile Luigi Caruso, entrambi avvisati da Amara di essere sotto intercettazione. Violazioni fiscali sono state invece contestate a Umberto Croppi, assessore alla Cultura quando sindaco di Roma era Gianni Alemanno. Croppi è presidente del Cda di Cosmec, azienda che fa capo a Centofanti. Secondo l’accusa avrebbe «evaso le imposte sui redditi e l’Iva per un totale di quasi 43mila euro grazie ad una serie di fatture relative ad operazioni inesistenti inserite nella contabilità societaria».

Siracusa, magistrati contro un pm. Ecco chi ha fatto saltare il banco, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 6 Febbraio 2018 su Live Sicilia.  Il retroscena: otto magistrati denunciarono Giancarlo Longo. L'inchiesta. “È con profondo imbarazzo...”, inizia così l'esposto che ha dato vita all'inchiesta delle Procura di Roma e Messina. Sono guidate da Giuseppe Pignatone e Maurizio De Lucia che ai tempi in cui entrambi lavoravano a Palermo erano maestro e allievo. Stamani sono stati arrestati magistrati, avvocati, professioni e giornalisti. Si sarebbero messi d'accordo per inventare complotti come quello che scuote l'Eni, aprire fascicoli fantasma, acquisire le carte di altre indagini, minacciare e spiare colleghi. Sono stati proprio otto magistrati siracusani, il 23 settembre 2016, a firmare l'esposto per denunciare i rapporti fra un collega, Gianluca Longo, e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, tutti e tre raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Procura di Messina. Anticipavano tutto ciò che sarebbe emerso nel corso delle indagini. “Nell'ambito della gestione di diversi procedimenti penali - si leggeva nell'esposto – si sono palesati elementi che inducono a temere che parte dell'azione della Procura della Repubblica possa essere oggetto di inquinamento, funzionale alla tutela di interessi estranei alla corretta e indipendente amministrazione della giustizia”. In calce i nomi dei magistrati Margherita Brianese, Salvatore Grillo, Magda Guarnaccia, Davide Lucignani, Antonio Nicastro, Vincenzo Nitti, Tommaso Pagano e Andrea Palmieri. L'esposto partiva dalla vicenda Open Land, società della famiglia di imprenditori Frontino, che ha costruito il centro commerciale “Fiera del Sud” in viale Epipoli, a Siracusa. Si è aperto un braccio di ferro tra l’amministrazione comunale ed il gruppo imprenditoriale che ha chiesto un risarcimento di oltre 20 milioni di euro al Comune per un ritardo nella concessione edilizia. È stata una sentenza del Cga, allora presieduto da Raffaele De Lipsis, a stabilire che Open Land, assistita dagli avvocati Amara e Calafiore, doveva essere risarcita. Per quantificare il danno fu scelto un commercialista di Pachino, Salvatore Maria Pace. Pure quest'ultimo è finito nei guai giudiziari e si trova agli arresti domiciliari. Solo che lo scorso giugno il Consiglio di giustizia amministrativa, con una nuova composizione, ha revocato la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento. Bisogna rifare la perizia e valutare di nuovo il danno. Nel frattempo il Comune di Siracusa è stato costretto a pagare 2 milioni e 800 mila euro.

Quei veleni tra pm che hanno portato all’arresto di Longo, scrive Errico Novi l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’indagine di Messina è partita da un esposto di 8 sostituiti della procura di Siracusa, contro il collega che maneggiava fascicoli relativi agli appalti del Comune. Che a Siracusa ci fosse un verminaio il Csm lo aveva accertato poco meno di un anno fa. La lista dei protagonisti, nel vortice dei veleni in Procura, includeva già Giampaolo Longo, l’ex pm dell’ufficio inquirente siciliano (da luglio trasferito a Napoli come giudice nella sezione distaccata di Ischia) arrestato martedì scorso con accuse di corruzione e falso, in un quadro da associazione a delinquere. Secondo il gip di Messina Maria Vermiglio, il collega sarebbe il perno della presunta cricca che vedrebbe coinvolti imprenditori, avvocati e appunto magistrati, e che avrebbe depistato indagini per favorire, in particolare, i clienti del legale di Eni Piero Amara. Non c’era solo Longo, nell’elenco dei cattivi finito già a maggio scorso nel mirino di Palazzo dei Marescialli, in parallelo con i primi passi dell’inchiesta di Messina: con lui anche il capo della Procu- ra siracusana, Francesco Paolo Giordano, e un altro sostituto, Maurizio Musco, protagonista a sua volta di un primo “ciclo” di intricatissime vicende relative allo stesso ufficio inquirente e già condannato in via definitiva per il reato di abuso. È fissato per oggi alle 13.30, nel carcere di Poggioreale a Napoli, l’interrogatorio di garanzia per Longo. Dovrà rispondere alle contestazioni mossegli nell’ordinanza del gip di Messina: sarebbe stato al soldo degli interessi di Amara, con una «mercificazione» della propria attività di pm. Avrebbe acquisito informazioni utili ai suoi sodali attraverso l’apertura di fascicoli sui reati attribuiti agli imprenditori clienti dell’avvocato presunto correo. Ma la ricostruzione dei fatti non si annuncia semplice. Perché appunto molte delle attività illecite con cui l’ex sostituto di Siracusa avrebbe approfittato della propria funzione riguardano proprio le vicende attorno alle quali si è scatenata la guerra tra toghe monitorata l’anno scorso dal Csm, in seguito alla quale Longo ha chiesto e ottenuto il trasferimento d’ufficio. Il difensore del magistrato, Bonny Candido, contesta intanto «la sproporzione della misura cautelare», la custodia in carcere, «anche tenuto conto del fatto che il mio assistito da diversi mesi non svolge più funzioni inquirenti». Secondo l’avvocato Candido dunque, «l’ordinanza non può non essere carente dei requisiti di attualità e pericolo di reiterazione di reati». Ma la difesa segnalerà nel corso dell’interrogatorio anche un altro aspetto: «Pochi giorni fa Longo ha presentato alla Procura di Messina due corpose e circostanziate denunzie sui fatti oggetto del procedimento in questione che avrebbero dovuto essere approfondite prima di chiedere e disporre la misura», dice il difensore del magistrato. Si tratta delle ricostruzioni fatte dall’ex pm di Siracusa sui conflitti insorti nell’ufficio in cui ha lavorato fino a meno di un anno fa. Una tensione in cui non si sono risparmiati colpi, e che ha spinto altri otto magistrati a presentare l’esposto al Csm e alla Procura di Messina (competente per i reati commessi dai colleghi di Siracusa), da cui si è sviluppata l’inchiesta sui presunti depistaggi. Al centro dei veleni c’era anche il fascicolo aperto da Longo per indagare sul presunto complotto ai danni dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi, ma non solo. Si trattava anche di affari che vedevano coinvolta l’amministrazione cittadina di Siracusa. Non a caso il sindaco Gancarlo Garozzo ieri ha ricordato con perfidia «l’impegno» di Longo nei confronti della sua giunta. Dal porto di Augusta agli appalti comunali, dai servizi di gestione delle risorse idriche ai rifiuti, i fascicoli maneggiati dall’ex pm toccavano non solo gli interessi dell’Eni, ma anche quelli della politica locale. Ed è questa l’altra faccia dell’intreccio che oggi Longo proporrà al giudice nell’interrogatorio.

Caso Siracusa, ci sono altri due magistrati indagati. Si tratta del sostituto procuratore Marco Di Mauro e dell'ex pm Maurizio Musco, scrive l'8 febbraio 2018 "La Repubblica”. Ci sono altri due magistrati indagati nell'inchiesta della procura di Messina che ha coinvolto l'ex pm di Siracusa Giancarlo Longo, arrestato martedì con le accuse di corruzione, associazione a delinquere e falso. Si tratta del sostituto procuratore Marco Di Mauro e dell'ex pm Maurizio Musco, già condannato per abuso d'ufficio con sentenza definitiva in altro procedimento. Indagati anche l'avvocato Ornella Ambrogio e il suocero di Longo, accusato di riciclaggio. Longo da alcune ore sta rendendo interrogatorio. Musco e Di Mauro, nei cui confronti sono state effettuate perquisizioni, hanno ricevuto l'avviso di garanzia nei giorni scorsi. Secondo i pm di Messina, Longo, in cambio di denaro e regali, avrebbe pilotato una serie di indagini per favorire i clienti di due avvocati siracusani: Piero Amara, che è anche legale dell'Eni, e Giuseppe Calafiore. Amara è finito in manette e sarà interrogato domani a Roma, mentre Calafiore è latitante a Dubai. L'indagine, coordinata dal procuratore di Messina Maurizio de Lucia, si intreccia con un'altra inchiesta dei pm romani su sentenze del Consiglio di Stato "comprate". Anche nel filone romano, che riguarda tra gli altri l'ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio, è coinvolto Amara.

Indagini inquinate, depistaggi e sentenze comprate: 15 arresti tra Roma e Messina. C'è anche un magistrato. Nei guai il giudice Giancarlo Longo e l'avvocato Piero Amara, scrive Andrea Ossino il 6 Febbraio 2018 su “Il Tempo”. Magistrati, avvocati, notai, funzionari pubblici, faccendieri e giornalisti. Tutti al servizio del miglior offerente. Ci risiamo: ancora una volta un terremoto giudiziario parte da Milano, attraversa la Capitale, supera lo stretto, oltrepassa Messina e si abbatte su Siracusa e la sua procura. In carcere finiscono quindici persone. Tutte raggiunte da un’ordinanza consegnata dalla Guardia di Finanza. C’è il facilitatore a servizio di grandi aziende: Pietro Amara, siracusano di 48 anni. Sulla carta è un avvocato, ma secondo le tre procure che hanno condotto l’inchiesta (Milano, Roma, Messina), Amara non è solo un legale. È un uomo di potere, con relazioni importanti capaci di inquinare indagini e commettere reati tributari, sempre vicino a molti magistrati della giustizia amministrativa, del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa e del Tar Sicilia. È lui il fulcro delle 2 associazioni a delinquere entrate nel mirino degli inquirenti. Tra gli indagati anche il notaio ed ex deputato regionale siciliano Giambattista Coltraro. E poi ci sono i magistrati compiacenti, oggetto di un esposto partito dai loro stessi colleghi aretusei. Erano in 8 a denunciare gli strani intrecci di interesse degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Dopo l’intervento del Csm un magistrato di Siracusa aveva anche chiesto il trasferimento a Napoli nel tentativo di evitare quell’incompatibilità ambientale che aveva creato non pochi problemi. Il trasferimento, concesso, non lo ha salvato: il pm Giancarlo Longo è stato arrestato anche grazie alle cimici piazzate nei suoi uffici. Se ne era accorto, ma troppo tardi. Gli inquirenti lo indagavano già per quei fascicoli auto assegnati e reinterpretati grazie a consulenze sospette. Amara, Calafiore e Longo sarebbero i promotori di un'associazione a delinquere. E se qualcuno non si piegava sarebbe stato screditato con articoli di stampa grazie alla penna “compiacente” del giornalista Giuseppe Guastella, firma del periodico “Il Diario”. E poi c'erano le pressioni esercitate ai danni dei pubblici funzionari coinvolti nei procedimenti amministrativi. Dalla costruzione del centro commerciale Fiera del Sud del Gruppo Frontino all'ampliamento della discarica gestita dalla Cisma Ambiente passando per gli appalti Consip e le sentenze del consiglio di Stato: i casi sono numerosi. E in tutti, o quasi, spunta il faccendiere Alessandro Ferraro, già noto alle cronache anche per le vicende legate al calcio scommesse. Ai domiciliari finiscono Giuseppe Guastella, Davide Venezia, Fabrizio Centofanti, Mauro Verace, Salvatore Maria Pace, Vincenzo Naso, Francesco Perricone, Sebastiano Miano, Ezio Bigotti e Luciano Caruso. Indagati anche Gianluca De Michele e Francesco Perricone. Nelle carte c’è anche il nome di Raffaele De Lipsis, ex presidente del Cga, oggi in pensione, già finito sotto accusa nello scandalo Ustica Lines perché avrebbe cercato di convincere il suo successore, Claudio Zucchelli, ad accogliere un ricorso dell'armatore Ettore Morace. De Lipsis, che presiedeva il collegio del Cga, nel 2014 fece tornare la popolazione di Rosolini e Pachino alle urne, invalidando il voto delle sezioni elettorali. E ancora c’è l'ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, indagato in relazione a una vicenda relativa alla Sai8, società che gestiva il servizio idrico siracusano. Dulcis in fundo il depistaggio nel caso Eni: si cerca di capire se Amara e Ferraro abbiano costruito un falso dossier sull’esistenza di un complotto contro l’Eni per screditare l'amministratore delegato Claudio De Scalzi, rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. Una storia tutta da raccontare: nell'estate 2016 Ferraro aveva anche denunciato di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano. I millantati rapitori sarebbero stati interessati a conoscer notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi. Sarebbe stato ordito addirittura dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Sul fatto era stato aperto un fascicolo. Da chi? Da Longo.

I DETTAGLI. INDAGATO IL NOTAIO MESSINESE COLTRARO – L’inchiesta della procura di Messina: Arrestati il magistrato Longo e i legali Amara e Calafiore, scrive il 6 febbraio 2018 Stampalibera.it. Alla fine l’avvocato più rampante d’Italia è finito agli arresti, insieme ai componenti di quel cerchio magico, magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali – grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi – sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l’esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano.

L’avvocato rampante. Piero Amara, 48enne avvocato di Augusta, una clientela internazionale di primissimo piano tra le aziende ma anche consigliere per gli investimenti di molti magistrati della giustizia amministrativa, tra il Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa e il Tar Sicilia, è il protagonista principale dell’operazione della Guardia di finanza che questa mattina, in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare firmate dai gip di Roma e Messina, ha eseguito una ventina di provvedimenti restrittivi.

Nella rete notai, giornalisti, magistrati e professori. Quindici quelli in Sicilia chiesti ed ottenuti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia. Oltre ad Amara, sono finiti agli arresti il magistrato Giancarlo Longo, fino a qualche mese fa pm alla Procura di Siracusa e poi trasferito, per motivi disciplinari dal Csm al tribunale civile di Napoli, l’avvocato Giuseppe Calafiore, anche lui avvocato nonché socio e collega di Amara, il notaio Giambattista Coltraro, ex parlamentare siciliano eletto nella lista Movimento popolare per Crocetta, il professore universitario de La Sapienza di Roma Vincenzo Naso. Provvedimenti restrittivi, tra gli altri, anche per il dirigente regionale Mauro Verace e per il giornalista siracusano Giuseppe Guastella. Indagato per concorso in corruzione l’ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio: la richiesta di arresto è stata respinta perché non ci sono esigenze cautelari.

Inchieste specchio per spiare i processi. Associazione per delinquere, corruzione, falso, intralcio alla giustizia la sfilza di reati a vario titolo contestato agli indagati che, negli ultimi cinque anni, avrebbero pesantemente condizionato l’azione della giustizia sia in sede civile che penale. Di particolare gravità la posizione del giudice Longo, secondo le indagini a libro paga di Amara e del suo socio Calafiore. Ottantottomila euro in contanti più il prezzo di vacanze offerte a lui e a tutta la sua famiglia a Dubai e un capodanno a Caserta, il prezzo della corruzione del magistrato che, nella sua veste di pm a Siracusa, avrebbe servito gli interessi di Amara mettendo su un sofisticato meccanismo di procedimenti giudiziari “specchio” che, pur senza averne alcun titolo, gli avrebbe consentito di venire a conoscenza di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. A cominciare da quella, aperta presso la Procura di Milano, che vedeva indagato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, proprio un mese fa rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria.

Il caso Eni e il finto rapimento. Proprio nel tentativo di inquinare l’indagine milanese, Amara (difensore di Eni) avrebbe messo su un tentativo di depistaggio facendo presentare alla Procura di Siracusa il suo amico Alessandro Ferrara che, nell’estate 2016, denunciò di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano interessati a sapere da lui notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi ordito dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Ad aprire il fascicolo, che gli diede la possibilità per mesi di scambiare informazioni con il collega di Milano Fabio De Pasquale (che non cadde nel tentativo di depistaggio) fu proprio il pm Giancarlo Longo.

Le sentenze pilotate. L’attività inquinante del magistrato sarebbe invece stata decisiva nel consentire ai clienti o alle imprese vicine ad Amara (a cominciare dal noto gruppo imprenditoriale Frontino di Siracusa) di aggiudicarsi importantissimi contenziosi amministrativi davanti al Tar Sicilia o al Cga, come quelli sul centro commerciale Open Land di Siracusa, per il quale il Comune fu condannato a pagare un risarcimento da 24 milioni di euro, o come quello sulla discarica Cisma a Melilli, o ancora quello sulla costruzione di un complesso edilizio a Siracusa che valse all’Am group un risarcimento da 240 milioni di euro.

L’esposto dei colleghi e le telecamere. A dare nuovo impulso alle indagini sul comitato d’affari diretto da Amara è stato un esposto firmato da 8 degli 11 sostituti della Procura di Siracusa nei confronti del collega Longo, ripreso poi dalle telecamere piazzate nella sua stanza dalla Guardia di finanza mentre, ricevuta notizia di microspie nel suo ufficio, cerca di rinvenirle per neutralizzare le indagini a suo carico.

Pm Roma, sentenze “aggiustate” per 400 mln. Sono tre le sentenze “aggiustate” contestate dai pm della Procura di Roma all’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, indagato per corruzione in atti giudiziari nell’inchiesta, coordinata con la Procura di Messina, che ha portato oggi all’arresto di 15 persone. Il giudice Virgilio (oggi in pensione) avrebbe pilotato tre sentenze che hanno inciso favorevolmente per clienti degli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore (indagati in concorso con il magistrato). Le sentenze, in particolare – in base a quanto accertato dai procuratori aggiunti Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini – riguardano una società del gruppo Bigotti che, nell’ambito delle gare Consip, riesce ad ottenere un appalto pari a 388 milioni di euro. Nei procedimenti Enzo Bigotti era difeso da Amara. L’attività di indagine che coinvolge l’ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, nasce dall’analisi dei flussi finanziari di alcuni imprenditori. In particolare i magistrati di Roma seguendo il denaro delle società legate all’imprenditore Fabrizio Centofanti individuano una somma di 751 mila euro depositata in Svizzera il primo gennaio del 2016 e riconducibile a Virgilio. Si tratta di denaro che il magistrato non ha dichiarato al fisco e non, precisano gli inquirenti, frutto di corruzione. Il denaro viene poi spostato su una società maltese legata agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore e gestita da una loro testa di legno. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti i due avevano proposto a Virgilio di investire quel denaro e qualora fosse andata male l’operazione, sarebbe stata compensata da una fidejussione personale dei due verso il giudice. L’investimento proposto coinvolgeva una società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato nel procedimento), in passato socio del padre di Matteo Renzi. Per chi indaga l’utilità corruttiva sta nella promessa della garanzia personale fatta dai due avvocati se l’affare fosse andato male.

Corruzione, “Longo tentò di ostacolare l’inchiesta sulle tangenti di Eni in Nigeria”. Giancarlo Longo era al servizio di Giuseppe Calafiore e Piero Amara: al soldo dei due avvocati, tentava di inquinare i processi dei colleghi magistrati per favorire i loro clienti. Lo scrivono gli inquirenti nell’ordinanza di custodie emessa dalle Procure di Roma e Messina nei confronti di 15 persone, che a proposito della condotta dell’ex pm di Siracusa parlano di “mercificazione della funzione giudiziaria”. I metodi “disinvolti” che le Procure imputano a Longo sono ben esemplificati in uno dei capi di imputazione contestati: quello che riguarda il cosiddetto caso Eni. Longo, su input di Amara, legale esterno della multinazionale del petrolio dello Stato italiano, avrebbe messo su un’indagine, priva di qualunque fondamento, su un presunto e rivelatosi falso piano di destabilizzazione della società del cane a sei zampe e del suo ad Claudio Descalzi. In realtà, per gli inquirenti che hanno arrestato anche Amara e Calafiore, lo scopo sarebbe stato intralciare l’inchiesta milanese sulle presunte tangenti nigeriane in cui l’amministratore delegato era coinvolto, quella su una presunta corruzione internazionale per una mega tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari per la concessione del giacimento petrolifero Opl-245. Tutto ha inizio nel 2016 quando Alessandro Ferraro, anche lui tra gli arrestati, e collaboratore di Amara, sporge denuncia alla procura di Siracusa sostenendo di essere stato vittima di un tentativo di sequestro. Longo, che conosceva Ferraro in quanto aveva indagato su di lui in passato, si assegna il fascicolo sul presunto rapimento. E comincia a svolgere una serie di indagini con acquisizioni documentali “di dubbia utilità”, dicono gli inquirenti che hanno ricostruito la vicenda, “ma certamente idonee a portare a conoscenza della società Eni l’esistenza di un procedimento penale nel quale risultava in qualche modo coinvolta“. I magistrati parlano di “regia occulta di Amara che, avvalendosi dell’asservimento di Longo, orchestrava una complessa operazione giudiziaria il cui fine ultimo era di ostacolare l’attività di indagine svolta dalla procura di Milano nei confronti dei vertici dell’Eni”. Ferraro, nel suo rocambolesco racconto, cita la figura di un personaggio, Massimo Gaboardi, tecnico petrolifero “la cui posizione, effettiva attività lavorativa, esistenza di legami con i protagonisti della vicenda, non è ben chiara, né costituì oggetto di approfondimento alcuno”, spiegano gli investigatori. Gaboardi viene sentito da Longo, prima come teste, poi indagato e racconta di un complotto volto a destabilizzare l’Eni. Le sue dichiarazioni vengono confermate da un altro soggetto, Vincenzo Armanna. I due parlano di gruppi di potere italiani e nigeriani che avrebbero complottato per compromettere l’Eni attraverso la delegittimazione di Descalzi. Lo scopo sarebbe stato determinarne la sostituzione con Umberto Vergine, ex ad di Saipem. Contestualmente sulla storia indaga però anche la Procura di Trani che nel tempo ha ricevuto tre esposti, ma siccome l’origine della vicenda sarebbe a Siracusa gli atti dei colleghi pugliesi vengono trasmessi a Longo. A luglio del 2016, però, il pm è costretto a mandare tutto alla procura di Milano che sull’Eni ha aperto un’indagine per corruzione internazionale. “Nonostante fosse stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Milano – scrivono i magistrati che hanno arrestato l’ex pm siracusano – Longo continuava a compiere atti nell’ambito del suddetto procedimento quali la notifica di informazione di garanzia ai dipendenti dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvacke a Umberto Vergine”. Tra dossier falsi e falsi verbali di interrogatorio – sempre secondo gli inquirenti – si mette su un vero e proprio piano di depistaggio. Per gli inquirenti “Gaboardi era stato pagato da Ferraro per comparire all’interno del procedimento istruito a Siracusa, come depositario di conoscenze relative al presunto complotto ordito ai danni di Descalzi e della società Eni”. I magistrati parlano di “regia occulta di Amara che, avvalendosi dell’asservimento di Longo, orchestrava una complessa operazione giudiziaria il cui fine ultimo era di ostacolare l’attività di indagine svolta dalla procura di Milano nei confronti dei vertici dell’Eni”. Corruzione, il pm: “Il giudice Virgilio aggiustò sentenze per 388 milioni. E lo aiutarono a nascondere 750mila euro”. Si era fatto aiutare da Piero Amara e Giuseppe Calafiore a nascondere al fisco 751mila euro e in cambio avrebbe aggiustato tre sentenze in maniera favorevole alle loro società. È l’accusa che la Procura di Roma muove a Riccardo Virgilio, ex presidente di sezione del Consiglio di Stato indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso nell’operazione che ha portato in carcere 15 persone con accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione in atti giudiziari. L’accusa ruota attorno a un trasferimento di denaro di 751.271,29 euro da un conto svizzero intestato all’ex giudice oggi in pensione alla Investment Eleven Ltd, intercettato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. La società, scrivono i magistrati di piazzale Clodio, ha sede a Malta ed è riconducibile ad Amara e Calafiore, ma risulta amministrata dal prestanome.

Marco Salonia.  In base a quanto ricostruito dagli inquirenti i due avevano proposto a Virgilio di investire quel denaro e qualora fosse andata male l’operazione, sarebbe stata compensata da una fidejussione personale dei due verso il giudice. L’investimento coinvolgeva anche la Racing Horse S.A., società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato), in passato vicino a Tiziano Renzi. Per chi indaga l’utilità corruttiva sta nella promessa della garanzia personale fatta dai due avvocati se l’affare fosse andato male. “L’operazione di finanziamento – è la tesi dei procuratori aggiunti Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini – ha rappresentato una concreta utilità per Virgilio perché l’ingente somma di denaro detenuta da Virgilio su un conto svizzero induce a ritenere che la stessa sia, quanto meno, non dichiarata al fisco” e perché “di certo il trasferimento della somma di denaro presso la società maltese rappresenta un ulteriore passaggio per rendere più difficile al fisco la sua individuazione”. Cosa avrebbe fatto il giudice in cambio? Secondo la tesi accusatoria, “Virgilio avrebbe ricevuto tali utilità per la sua funzione di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato – scrive il Gip – nonché per avere emesso e per emettere numerosi provvedimenti in sede giurisdizionale, monocratica e collegiale, verso soggetti i cui interessi erano seguiti dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore”. In base ai documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza, proseguono i magistrati, “tutti i provvedimenti emessi dal Virgilio come estensore o come Presidente del Collegio, nell’arco temporale precedente e successivo all’erogazione delle utilità descritte, hanno prodotto effetti favorevoli nella sfera delle due società”, che avevano rapporti con quelle di Amara e Calafiore. Gli inquirenti si riferiscono a due vicende pendenti davanti al Consiglio di Stato: “Il contenzioso Ciclat, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo Amara-Calafiore” e “il contenzioso Exitone S.p.a, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo Amara-Calafiore, detenuta dalla S.T.l. Spa, riconducibile a Bigotti Ezio”, anche lui tra gli arrestati. Proprio il gruppo Bigotti sarebbe stato favorito in modo tale da ottenere appalti da 388 milioni di euro, nell’ambito delle gare bandite da Consip.

Virgilio ha un ruolo anche nella vicenda che ha contrapposto il consorzio Open Land – che stava costruendo il centro commerciale Fiera del Sud – e il comune di Siracusa. Nel 2013, da presidente del consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana Virgilio aveva riconosciuto alla società un risarcimento da 35 milioni di euro.  “In tale contenzioso – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – Virgilio era il Presidente del Collegio, mentre difensore della società era l’avvocato Attilio Toscano, collega di studio di Amara. Inoltre il legale rappresentante della società Open Land era Formica Giuliana, madre di Frontino Concetta, compagna di Calafiore”.

Depistaggio Eni, così i pm hanno fermato le manovre dei registi del complotto. Che ora sono indagati. Alla Procura di Milano è toccato districare il filo attorcigliato per anni dalle Procure di Trani e Siracusa. La pm Laura Pedio ora ha in mano un gomitolo con una trama intricata e oscura che si dipana tra Italia e Nigeria e che puzza di spioni e di petrolio. Ha a che fare con l’Eni, questa storia, un centro di potere che pesa quanto uno Stato. È la storia di un complotto. Coinvolge i vertici di Eni (l’ad Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni), un paio di consiglieri indipendenti dell’azienda petrolifera italiana (Luigi Zingales e Karina Litvack) e arriva a evocare l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. Sullo sfondo, faccendieri, petrolieri, manager, avvocati. E un grande affare, quello che ha portato Eni e Shell in Nigeria, a cercare petrolio nell’immenso campo Opl 245, previo esborso (secondo il pm milanese Fabio De Pasquale) di una mega-tangente da 1 miliardo e 92 milioni di dollari. Ma il complotto è reale o apparente? Chi sono le vittime e chi i burattinai? I pm di Milano rispondono ora a queste domande raccontando una commedia in quattro atti.

Atto primo, Trani, gennaio 2015. È il 23 gennaio quando alla Procura di Trani arriva un esposto anonimo: il primo di una serie di tre che raccontano un “programma criminoso” volto a “portare alla sostituzione dell’attuale manager Descalzi” con altri (l’ad di Saipem Umberto Vergine, oppure l’allora ad di Telecom Franco Bernabè). “Per fare ciò, sarebbero state esercitate pressioni sul presidente del Consiglio Renzi”. Come? Un uomo d’affari siriano, tale Raduan, prende contatti con un imprenditore del Giglio Magico, Andrea Bacci. Poi, dopo che Renzi nel 2014 ha nominato Descalzi, si mette in moto “un meccanismo di delegittimazione del nuovo vertice Eni”. Protagonisti: Gabriele Volpi, “noto imprenditore italo-africano” che opera in Nigeria, Luigi Zingales e gli avvocati Antonino Cusimano (capo dell’ufficio legale di Telecom), Luca Santamaria (legale di Bernabè) e Bruno Cova. Sullo sfondo, le inchieste aperte dalla Procura di Milano – da quel guastafeste di De Pasquale – su Eni-Saipem-Algeria e su Eni-Opl245-Nigeria. Nella seconda, Descalzi, il predecessore Scaroni e il “mediatore” Luigi Bisignani sono accusati per la tangente petrolifera in Nigeria. Arriva in Procura anche una registrazione in cui due persone – che si scoprirà essere Alessandro Ferraro e Massimo Gaboardi – sostengono la tesi della macchinazione. L’Eni entra in partita consegnando documenti richiesti dai pm di Trani, Carlo Maria Capristo e Alessandro Pesce. Gli anonimi, curiosamente, mostrano di sapere ciò che solo dentro l’Eni si sa, per esempio che tra quei documenti ci sono email tra Zingales, critico contro le eventuali pratiche illegali di Eni, e la presidente Emma Marcegaglia.

Atto secondo, Siracusa, agosto 2015. Il 13 agosto 2015, il sedicente imprenditore Alessandro Ferraro presenta una denuncia alla Procura di Siracusa in cui racconta di essere stato sequestrato nella notte da tre uomini, due neri e un italiano. Interrogato, racconta al pm Giancarlo Longo una storia identica a quella arrivata anonima a Trani: il complotto contro i vertici Eni. Poi deposita ai pm un documento (“Report n.1”) firmato da Massimo Gaboardi. Contiene la stessa vicenda: un tale Raduan Khawthani, uomo d’affari mediorientale in contatto con gli imprenditori renziani Marco Carrai e Andrea Bacci, avrebbe tentato d’imporre a Renzi la nomina di Vergine al vertice di Eni. Fallito quell’obiettivo, è partita una campagna diffamatoria. “I servizi nigeriani hanno invaso le email di Eni con una serie di informazioni” poi usate “da Zingales e Litvack”. Gaboardi fa entrare in partita anche un nuovo personaggio: Vincenzo Armanna, “ex dirigente Eni che odia Descalzi ed Eni”. Armanna racconta al pm che un nigeriano, Kase Lawal, gli ha chiesto, in cambio di 2 milioni di dollari, di “demolire Descalzi”, proteggere Scaroni e favorire Vergine. Armanna aggiunge che gli era stato chiesto di “diffondere l’informazione, falsa, sul finanziamento da parte dell’intelligence israeliana delle campagne elettorali” di Renzi. Intanto l’8 luglio 2016 i pm di Siracusa mandano un avviso di garanzia per diffamazione aggravata a Vergine, Zingales e Litvak. Curioso: per la diffamazione si procede solo dopo querela di parte e nessuno ha querelato i tre. Il 15 luglio, il procuratore Giordano si libera del caso, mandando gli atti a Milano. Fuori tempo massimo, il 28 luglio, col fascicolo già a Milano, il direttore degli affari legali di Eni, Massimo Mantovani, “sana” l’anomalia e invia a Siracusa la querela di parte contro i tre.

Atto terzo, Milano, luglio 2016. Il 15 luglio 2016 il fascicolo processuale arriva a Milano, nelle mani del pm De Pasquale. Il magistrato sente puzza di depistaggi e capisce che le manovre squadernate a Siracusa potrebbero avere come obiettivo quello di azzoppare la sua indagine per corruzione internazionale su Opl 245, con indagati Scaroni, Descalzi e Bisignani. Legge le carte, interroga i personaggi coinvolti e smonta il “grande complotto”. Appura che Alessandro Ferraro, il “grande accusatore” dell’indagine di Siracusa, è “persona che ha subito numerose condanne per ricettazione, truffa, falsità materiale, sostituzione di persona, uso abusivo di carte di credito”, già in passato arrestato e condannato. E il renziano Bacci? Sì, aveva parlato di Vergine con Raduan Kawthani, ma era soltanto una “blanda raccomandazione” rimasta senza alcuna conseguenza. De Pasquale riesce a ribaltare la prospettiva. Quelli che secondo Trani e Siracusa avrebbero ordito il complotto sono vittime del complotto ordito da chi lo denunciava. Più complesso, ricostruisce De Pasquale, il ruolo di Armanna: “Le sue dichiarazioni (…) potrebbero avere una base di verità, ma ciò in nessun modo consente di affermare che quanto esposto negli scritti anonimi recapitati a Trani abbia fondamento”. Il pm il 20 marzo 2017 chiede l’archiviazione delle accuse a Vergine, Zingales e Litvack.

Atto quarto, Milano, oggi. Siamo alla scena finale di questa vaudeville, con il rovesciamento dei ruoli. Entra in partita la pm della Procura di Milano Laura Pedio. Se i “diffamatori” sono vittime innocenti, i colpevoli devono essere coloro che li hanno accusati: quelli indicati come i registi del “complotto” (Vergine, Varone, Zingales, Litvack) sono vittime di un “complotto” architettato da quelli che si erano presentati a Trani e Siracusa per denunciare il “complotto”: Ferraro e Gaboardi, insieme con personaggi nigeriani. Ma hanno fatto tutto loro? Personaggi squalificati come Ferraro e Gaboardi avevano solide sponde nell’Eni: come l’avvocato siracusano Pietro Amara, “legale esterno di Eni spa” in processi per reati ambientali. Amara, Ferraro, Gaboardi e “altre persone interne ad Eni spa in corso di identificazione” sono ora indagate a Milano per associazione a delinquere, ha scritto Luigi Ferrarella venerdì sul Corriere della sera: per aver “concordato e posto in essere un vero e proprio depistaggio” per “intralciare lo svolgimento dei processi in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti” e “per screditare i consiglieri indipendenti di Eni”. Ora la pm Pedio dovrà metter la parola fine a questa storia.

Al Supermarket delle sentenze: ecco l'inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato. Rapporti opachi tra giudici e avvocati. L’ombra della corruzione su alcune cause milionarie. Accade in uno dei Palazzi del vero potere romano, che ha la parola definitiva sugli appalti pubblici. Ecco i nuovi sviluppi della bufera Consip, scrivono Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". È una mattina fredda di gennaio dell’anno scorso. Italo Bocchino e Alfredo Romeo sono uno di fronte all’altro. Parlano di Carlo Russo, il presunto facilitatore che, insieme a Tiziano Renzi, avrebbe dovuto aiutarli ad agganciare l’amministratore delegato della Consip Luigi Marroni. E di cause milionarie decise dai giudici del Consiglio di Stato. «Abbiamo preso un altro bidone», dice Bocchino parlando di una sentenza negativa arrivata qualche giorno prima da Palazzo Spada. Nel mirino dell’ex delfino di Gianfranco Fini c’è Stefano Vinti, l’avvocato amministrativista ingaggiato da Romeo per i contenziosi con i suoi concorrenti. Bocchino parla a briglia sciolta: non sa che i carabinieri del Noe stanno registrando tutto. «Vinti c’ha un pacchetto di dieci cose là, capito?», spiega a Romeo. «Perché quando va a fare qualche operazione... non è che va a fare l’operazione... questi sono di Romeo per la cosa di Romeo... Va là, dice “questi sono per te”, no? Poi negozia dieci cose. Su questo si è distratto. Perché secondo me era certo che tu... che vinceva perché aveva ragione. La distrazione ha portato allo scarso studio della cosa... Ma ora li possiamo recuperare?». «Vinti, un negoziatore di cause», appuntano i carabinieri del Noe. L’intercettazione è nascosta in una piega dell’informativa Consip, e fa drizzare le antenne prima ai pm di Napoli, poi a quelli di Roma. Se i militari parlano subito di possibili «aderenze che l’associazione» potrebbe avere «in seno alla giustizia amministrativa» e di «cause oggetto di mercimonio», qualche settimana fa il pm Henry John Woodcock decide di aprire un nuovo filone. Il nuovo ramo d’inchiesta finisce per competenza, come quello su Consip e sul presunto traffico di influenze illecite di papà Renzi e Russo, alla procura di Roma, che sta ora approfondendo l’esistenza, o meno, di eventuali illeciti penali. In particolare, l’esistenza o meno di corruzione in atti giudiziari. Ai magistrati della Capitale il nome dell’avvocato Vinti non è affatto sconosciuto: sono mesi e mesi, infatti, che un pool di quattro magistrati (Stefano Fava, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo) sta indagando su un presunto sistema di compravendita delle sentenze della giustizia amministrativa. Accendendo un faro su faccendieri, politici conniventi, giudici e professionisti che, dentro ai tribunali e al Consiglio di Stato, riuscirebbero a fare il bello e il cattivo tempo. Aggiustando cause importantissime, pilotando appalti pubblici milionari, stravolgendo decisioni economiche di enorme rilievo per la pubblica amministrazione e per aziende che danno lavoro a migliaia di persone. Se i sospetti degli inquirenti fossero confermati, sarebbe un colpo al cuore della giustizia amministrativa. E a un pezzo fondamentale del sistema giuridico nazionale: perché se, come dice Romeo, «i tribunali amministrativi sono le vere commissioni giudicatrici delle gare d’appalto» (quasi ogni decisione della Consip viene infatti appellata prima al Tar e poi a Palazzo Spada), il Consiglio di Stato è da sempre una camera di compensazione dei poteri economici e politici del Paese, e i suoi membri considerati grand commis di Stato, scelti spesso e volentieri come collaboratori fidati di ministri e sottosegretari.

Gli investimenti del giudice. «Non conosco gli atti che lei mi legge e non posso ricordare i fatti dopo tanto tempo», replica all’Espresso Bocchino, spiegando che la conversazione tra lui e Romeo non nasconde alcun mercimonio, ma solo una chiacchierata da bar. «So solo che Romeo era convinto di avere ragione e che rimase sorpreso e amareggiato dalla sconfitta giudiziaria. Anche perché si era affidato a un principe del foro molto bravo e molto noto. Gli eventuali commenti che facemmo davanti a un caffè erano dettati dallo stupore, ed erano consolatori». Si vedrà. Di certo l’inchiesta è molto complessa e gli sforzi messi in campo da procure (anche di altre regioni) e corpi specializzati della Finanza sono enormi. Un altro avvocato finito nel mirino dei magistrati romani si chiama Piero Amara. Un legale di Siracusa molto conosciuto in Sicilia e a Roma, e accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni insieme a Fabrizio Centofanti (l’ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone spiega all’Espresso di non voler fare commenti, sottolineando che «la mia azienda ha una struttura industriale reale e solida, e non ha certo bisogno di truccare i conti») e una ventina di altri indagati. Durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara sono stati trovati anche documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Il suo nome è Riccardo Virgilio, ed è stato fino a un anno fa presidente (facente funzioni) del Consiglio di Stato. Alessandro Pajno, il nuovo numero uno di Palazzo Spada vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella, lo ha sostituito nel febbraio del 2016. Le carte trovate nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere, raccontano alcune operazioni finanziarie di Virgilio. Che all’Espresso risulta non solo essere stato titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni Novanta al Credito Svizzero, ma anche di aver investito oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd, i cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria. Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Quest’ultimo è un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari del padre Tiziano. Qualche mese fa è stato in predicato - secondo alcuni quotidiani - di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. Poi, Bacci è finito nuovamente sui giornali lo scorso fine gennaio perché qualcuno ha sparato alcuni colpi di pistola prima contro la sua auto parcheggiata, poi contro l’insegna di una delle sue ditte. Un messaggio che ancora non ha un mittente: gli inquirenti fiorentini indagano per scoprirlo. Spulciando i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven, si legge chiaro e tondo che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire addirittura «un ritorno del 50 per cento l’anno», grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso «a sviluppare la tecnologia N-Touch») e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), «la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio». Amara, sentito dall’Espresso, è categorico. «L’operazione è stata tutta tracciata. Il presidente Virgilio ha fatto un bonifico con nome e cognome. Ha messo anche la causale: “finanziamento socio”» ragiona l’avvocato. «Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel lontano 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia molto ricca. E le ricordo che Malta, non è più un paradiso fiscale da un pezzo. Insomma, è tutto regolare». Ma perché l’ex presidente della Cassazione avrebbe dovuto investire in una tecnologia mai sentita? «Guardi, la N-Touch, inventata da un ingegnere geniale, è basata su un microchip interno al cellulare, che permetterebbe agli utenti di godere di una straordinaria realtà aumentata. Ho consigliato io il presidente di investire nel business. La Telecom era impazzita quando noi, con la Teletouch srl, abbiamo firmato il memorandum con loro. Temo però che adesso l’operazione rischi di saltare, dopo che i giornali hanno parlato di Bacci come possibile amministratore delegato di Telecom Sparkle». Virgilio risulta anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagata dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle. Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si scopre che i fondi investiti sono proprio «parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006» dal giudice. Amara ci tiene a spiegare anche questo passaggio: «Le somme contenute nel conto furono trasformate in polizza vita nel 2005. Nel 2014 il presidente ha liquidato la polizza e investito nella Investment. Chi c’è dietro la Investment? Solo io e il mio socio Giuseppe Calafiore». Anche lui, per la cronaca, indagato per associazione a delinquere.

Sistema Bigotti. Amara è il legale del presidente Virgilio anche in altre operazioni finanziarie (ha gestito un contenzioso sull’eredità della zia tra il magistrato suo cliente e altri eredi, che per chiudere la partita hanno deciso di donare alla famiglia Virgilio un appartamento ai Parioli del valore di circa 800 mila euro), ma soprattutto è un professionista esperto che, al Consiglio di Stato, si muove come un pesce nell’acqua. Tra i tanti clienti importanti, Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma di recente assurto all’onore delle cronache per il caso Consip. Ezio Bigotti, fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato dall’Espresso un mese fa è infatti - intercettazioni alla mano - il vero nemico giurato di Romeo: che ripeteva ai suoi fedelissimi, prima di essere arrestato per corruzione, come proprio Bigotti sarebbe diventato in pochi anni il dominus di un sistema di potere in grado di fare il bello e il cattivo tempo nella Consip. Più forte rispetto a quello messo in piedi dallo stesso Romeo. Un uomo, Bigotti, vicinissimo a deputati importanti di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare «cartelli» per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come i francesi di Engie Servizi (l’ex Cofely, i finanziari hanno fatto perquisizioni anche nella loro sede), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato. «È vero», sostiene l’avvocato Amara, «che sono legato a Bigotti, tra l’altro abbiamo vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di millantato credito. Ma ci tengo a sottolineare che io non ho seguito Ezio nelle cause al Consiglio di Stato, né contro Romeo né contro la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre - soprattutto contro Romeo - ha perso. Soprattutto io, da quando sono entrato in affari con Virgilio, ho evitato di incrociarmi con lui in un’aula di giustizia». È un fatto che anche Bigotti, che gestisce servizi di vario tipo nei palazzi della pubblica amministrazione in una decina di regioni italiane, sia però finito nel mirino della procura di Roma. Che prima ha perquisito la Consip prendendo tutte le carte delle gare miliardarie degli ultimi anni, poi ha mandato la Finanza a perquisire direttamente le sue aziende. Gli inquirenti hanno trovato una serie di fatture emesse dalla Dagi di Piero Amara a favore della Sti spa di Bigotti, per oltre un milione di euro. Anche la Exitone, sempre controllata da Bigotti, ha rapporti di fatturazione dubbia con Amara per, a detta degli investigatori, centinaia di migliaia di euro. Anche Bigotti è stato iscritto nel registro degli indagati. Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II (schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato), è considerato da chi lo conosce bene il miglior “architetto” di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e di fare man bassa, grazie ad abilità fuori dal comune, di gare milionarie. Ma Bigotti sembra anche un campione di ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parla anche l’ad di Consip Marroni insieme a due suoi collaboratori. È il 24 ottobre 2016 e il giorno dopo Marroni ha in agenda un incontro con Bigotti, che sarà accompagnato dall’avvocato Amara e da Verdini. Location: il ristorante “Al Moro”, nel centro di Roma. Marco Gasparri (il dirigente che poi accuserà Romeo di avergli pagato mazzette per 100 mila euro) è nella stanza di Marroni. I due discutono di quale sia la migliore strategia per convincere Bigotti a smettere di fare ricorsi a catena in caso di sconfitta a una gara della stazione appaltante. «Gasparri dice che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni», appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici: «E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi». A quel punto interviene l’altro dirigente presente, Martina Benvenuti, sottolineando «che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti». Il giorno dopo, davanti a un’amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni, Bigotti si lamentò «dell’atteggiamento aggressivo» di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti - in un esposto mandato alla procura di Roma per chiarire il contenuto della conversazione al Moro - ha spiegato che volle quel colloquio solo per parlare «di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. «Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentata dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo». Non sappiamo se l’ad di Consip abbia espresso remore. Di certo Bianchi, all’Espresso, spiega che il presunto conflitto di interessi con Siram è del tutto inesistente: «È solo una “coincidenza” di interessi: Siram difendendo se stessa difendeva infatti le ragioni di Consip (che aveva assegnato proprio a Siram la gara, ndr), dalla quale avevo oltretutto ottenuto l’ok a difendere Siram. Non ho ovviamente mai assunto la difesa di clienti in conflitto con Consip». Bianchi è titolare di uno degli studi amministrativisti più importanti del paese. Primeggia con quello di Vinti, con quello del potente avvocato Angelo Clarizia, con Gianluigi Pellegrino e con il professor Federico Tedeschini.

Il sospetto del mercimonio. Anche Amara, seppur meno blasonato, è molto conosciuto al Consiglio di Stato. L’avvocato di Siracusa (dove la Exitone di Bigotti, autore di molti ricorsi, ha da poco deciso di spostare la sua sede legale) in passato è stato chiacchierato per suoi rapporti considerati troppo stretti con giudici amministrativi siciliani e pm della città aretusea, come Maurizio Musco (condannato di recente dalla Cassazione per abuso d’ufficio) e Giancarlo Longo, sul quale - si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno - sta indagando la procura di Messina, a causa di un presunto comitato d’affari denunciato da alcuni colleghi di Longo. «Sono al centro di un complotto», ha replicato il magistrato che ha indagato di recente su una presunta macchinazione internazionale ai danni dell’ad dell’Eni, Claudio De Scalzi, basata su alcuni anonimi rivelatisi poi privi di riscontri. L’inchiesta sulla giustizia amministrativa e i sospetti di sentenze «oggetto di mercimonio», però, non è cominciata oggi. Ma dura da anni. Il via l’hanno dato alcuni esposti arrivati ai pm romani, e ha trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata “Labirinto”. A luglio 2016 il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari: secondo l’accusa avrebbe aiutato l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni con l’Agenzia delle Entrate. La procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip (che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo) sia la Cassazione hanno bocciato la richiesta. In attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana del Consiglio di Stato. In un altro filone dell’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nella rete degli investigatori sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza e il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Quest’ultimo è stato indagato per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumante Ferrari, 247 mila euro in contanti. Tra libri e bottiglie di vino sono stati trovati anche alcuni elenchi con nomi di giudici del tribunale ordinario, avvocati e magistrati amministrativi, oltre a sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Una di queste, in particolare, suscita da mesi l’interesse degli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada conservata da Mazzocchi e forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato. Per la cronaca, a presiedere il collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che in una lettera al “Corriere della Sera” ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso «senza i titoli necessari». Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico.

Eni e Consip, dossier e depistaggi: ecco chi è l'uomo nel mirino di quattro procure. Da Milano a Messina, da Roma a Palermo, i pm di tutta Italia si litigano Piero Amara. Siciliano, 48 anni, uno studio con sede nella Capitale e a Dubai, sarebbe al centro di un sistema di relazioni tra consiglieri di Stato e aziende che partecipano ad appalti milionari. Ma lui si difende: «Lobby oscure mi vogliono mettere in difficoltà. Ne uscirò pulito», scrive Emiliano Fittipaldi il 23 ottobre 2017 su "L'Espresso". Si chiama Piero Amara, ha 48 anni, uno studio legale ben avviato con sedi a Roma e Dubai, un mucchio di magistrati importanti come amici, un po’ di politici di destra e sinistra che lo stimano, ed è certamente l’uomo del momento. Almeno per le procure di mezza Italia, da Milano a Messina passando per Roma e Palermo, che se lo litigano per reati assortiti, e che credono che l’avvocato siciliano con natali ad Augusta non sia affatto un semplice collaboratore legale dell’Eni, ma il perno di un sistema di relazioni tra imprenditori e giudici compiacenti, o - per dirla meglio, tra consiglieri di Stato e aziende che partecipano agli appalti pubblici milionari. Un “facilitatore” di grande potere, inserito nei board di associazioni dove sono seduti spalla a spalla avvocati e togati, di fare affari con impresari vicini al governo, di creare “cartiere” - questa una delle ipotesi d’accusa - per false fatturazioni, di costruire falsi dossier per distruggere manager pubblici e ostacolare processi penali in corso. «Leggende metropolitane», dice Amara scuotendo il capo. «Sono solo un avvocato di provincia che ha avuto un po’ di successo e che ora lobby oscure vogliono mettere in difficoltà. Non ho nulla da nascondere. E uscirò pulito anche da questa buriana. Come diceva mio nonno, che faceva il contadino, “male non fare paura non avere”». Partiamo dall’inizio. Se l’avo coltivava la terra, il papà di Piero, Giuseppe Amara, ha scelto un’altra strada. Quella della politica. “Pippo”, così lo chiamano gli amici, geologo per diletto e professore di matematica e fisica, sui campi non mette mai piede, preferendo megafoni in piazza e salette di partito. Giuseppe è ambizioso e capace, e già negli anni ’80 riesce a diventare un pezzo grosso del partito socialista della sua città, diventando anche presidente del consorzio Asi (area di sviluppo industriale) della zona, dove insistono da sempre importanti aziende della chimica e del petrolio. Ad Augusta la sua influenza dura lustri, nonostante gli alti e bassi che accomuna i destini di molti dirigenti del pentapartito della prima Repubblica: finito in 18 diversi procedimenti penali per abuso di atti d’ufficio, truffa, usura, papà Amara (tranne in un caso, per cui è stato condannato in via definitiva per minacce a un pubblico ufficiale) ne è però sempre uscito alla grande, tra archiviazioni, assoluzioni o prescrizioni. A Siracusa si narra che sia stato lui a spiegare al giovane Piero quanto importante fosse, per un politico, avere buone relazioni con i magistrati della procura. Il rampollo prediletto, accento siciliano marcato ma eloquio fluente (la madre è stata professoressa di italiano alle medie), fa il liceo classico in paese e poi si iscrive a giurisprudenza a Catania, dove diventa allievo prediletto del professore Giovanni Grasso. Un luminare di diritto penale. Amara comincia a fare l’avvocato proprio nel suo studio, e poi, grazie al rapporto tra Grasso e un altro docente di fama come Federico Stella (storico avvocato dell’Eni), nel 2002 ha l’occasione della vita, e comincia a lavorare per il Cane a Sei Zampe. Per il nostro colosso energetico Amara junior si specializza in diritto ambientale, e difende la multinazionale nei tanti processi per inquinamento e avvelenamento in cui è chiamata in giudizio, in primis per i disastri causati dai petrolchimici di Siracusa e di Gela. «Ho una percentuale di successo del 100 per cento», spiega Piero fiero agli amici. In effetti Amara ne vince tanti, di processi. Talmente tanti che qualcuno, malignamente, comincia a pensare che le statistiche non possano essere genuine e solo farina del suo sacco, ma figlie di rapporti privilegiati tra l’avvocato e qualche giudice inquirente. Così nel 2012 il ministero di Grazia e Giustizia manda gli ispettori alla procura di Siracusa, per indagare, in particolare, sull’operato dei pm Maurizio Musco e dei procuratori capo Roberto Campisi e Ugo Rossi. Anche se i vigilanti spiegano di non aver riscontrato «anomalie o irregolarità in ordine alla gestione delle indagini e alla definizione del procedimento», il Csm - su richiesta del ministero - spedisce d’ufficio Rossi e Musco lontano da Siracusa. Non solo. I miasmi della procura aretusea si trasformano in esposti incrociati tra gruppi di avvocati e magistrati l’un l’altro contrapposti, che finiscono in un fascicolo penale della procura di Messina. Alla fine le condanne sono pesanti. A febbraio 2017 la Cassazione ha confermato in via definitiva quelle contro i pm Rossi e Musco. Quest’ultimo si è beccato un anno e sei mesi per abuso d’ufficio perché non s’è astenuto durante una vicenda giudiziaria che riguardava l’iter di approvazione della piattaforma Oikoten. Vicenda in cui era coinvolto - come legale interessato - proprio Amara. Di cui Musco era molto amico, tanto da avere consuetudini e alcuni rapporti economici (l’affitto di un locale per una società di cui il magistrato era titolare). «Una vicenda bagatellare, mi dispiace per il povero Musco, sulla storia di Oikoten ci sarebbe ben altro su cui indagare», protesta Piero che ci tiene a sottolineare di non aver mai abbandonato un amico in vita sua. Nemmeno Alessandro Ferraro, l’imprenditore con cui oggi è indagato a Milano per associazione a delinquere per depistaggio. L’accusa dei magistrati meneghini è grave: Amara e Ferraro (detto dai nemici “Sandro Napoli” per via delle sue origini campane), insieme al tecnico del settore Oil&Gas Massimo Gaboardi, avrebbero costruito infatti un falso dossier sull’esistenza di un fantomatico complotto contro l’Eni, e in particolare contro il suo amministratore Claudio De Scalzi. Un inganno costruito con esposti anonimi e con dichiarazioni firmate di Gaboardi, spediti prima alla procura di Trani che li ha poi trasmessi a Siracusa. Il dossier, ipotizzano ora gli inquirenti, se da un lato mirava a screditare gli ex consiglieri dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvack (secondo i falsi documenti sarebbero stati loro, insieme a fantomatiche spie nigeriane e imprenditori iraniani, a voler far dimettere De Scalzi a favore del capo di Saipem Umberto Vergine), dall’altro voleva intralciare proprio le delicate inchieste su Eni della procura di Milano. Quelle, per intenderci, condotte da anni dal pm Fabio De Pasquale, che ha indagato De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni per alcune presunte tangenti milionarie versate in Nigeria. Ecco: Amara junior sarebbe il regista e la mente dell’intera operazione, mentre Gaboardi e Ferraro gli esecutori materiali della spy-story inventata di sana pianta. Ferraro, sentito da L’Espresso, nega con forza ogni addebito. «Secondo la procura avrei consegnato assegni da migliaia di euro a Gaboardi per spingerlo a fare false dichiarazioni ai pm di Siracusa, come Giancarlo Longo. Ma in realtà sono io che ho ricevuto soldi da Gaboardi che mi ha pagato per alcuni lavori svolti da mie società», ragiona l’imprenditore, che ammette di conoscere da tempo Gaboardi perché «mio socio in alcune aziende del settore petrolifero in Romania». Amara già in passato era finito nei guai della giustizia per alcune testimonianze rilasciate dall’amico Ferraro davanti ai magistrati della procura siciliana, in merito a un presunto giro di calcio-scommesse messo in piedi da calciatori del Catania. “Sandro” e Piero (che allora era il legale del presidente del Catania Antonino Pulvirenti, che qualche hanno dopo è stato accusato di aver comprato lui stesso partite in serie B) indagati “in concorso”, furono poi assolti da ogni accusa. Amara a chi gli fa notare il lungo elenco delle sue traversie ci tiene a evidenziare che, nei vari processi in cui è finito, non ha mai preso una condanna. Almeno finora. Anche un patteggiamento a 11 mesi di carcere per accesso abusivo a un sistema informatico per carpire notizie segrete dalla Dda di Catania, in effetti, si è «estinto» nel 2014, con la «cessazione degli effetti penali» del reato. E i rapporti con Ferraro? «È un amico, ma non ha nessun legame con il mio studio professionale. È da almeno vent’anni anni, ne sono sicuro, ha improntato la sua vita al rigido rispetto della legalità». Il casellario giudiziario, però, disegna una giovinezza (e pure un presente) quanto meno turbolento: se a 19 anni Ferraro è finito in carcere per ricettazione di documenti falsi («quelle carte d’identità non erano mie, ma di un ragazzo minorenne mio amico: mi sono preso la colpa, noi meridionali siamo fatti così», ci spiega), nel 2004 “Sandro Napoli” è diventato definitivamente leggenda tra i compaesani per aver osato sfidare, dal suo piccolo concessionario di Catania, nientemeno che la Bmw di Monaco di Baviera. «È stato come Davide contro Golia», esultano ancora quelli che vogliono bene all’imprenditore. Forse esagerano. Di sicuro, dopo aver aperto due rivenditori di moto Bmw a cavallo dei due millenni, e in seguito a inconciliabili divergenze economiche con il colosso tedesco, Ferraro prima tenta le vie legali, poi delibera («colpa del mio cattivo carattere») di passare alle maniere forti. Così “sequestra” 600 motociclette e le nasconde nelle campagne e nei garage intorno la città. «In realtà nessuno sa dove le ho messe. Non ho minacciato di bruciarne una al giorno finché la Bmw non mi dava quello che mi spettava, come invece le hanno raccontato. Le ho semplicemente fatte sparire» ricorda l’imprenditore contattato al telefono. «Le ho nascoste bene però. La Finanza ne ha trovate solo una novantina, dopo mesi e mesi di appostamenti. Lo sa, noi meridionali abbiamo una marcia in più...». Ferraro riuscì nell’impresa che nemmeno il mago Houdini mentre era latitante: un giudice l’aveva, guarda un po’, accusato di estorsione. «Un altro pm catanese capì invece che stavo solo tentando di esercitare le mie ragioni. Forse esagerando, ma non ero certo io ad essere dalla parte del torto. Alla fine ho transato, ho restituito le moto e ottenuto ciò che mi spettava dalla Bmw, che ha ritirato le denunce. Spero comunque che queste vecchie storie non inducano i pm milanesi a pensare male di me. I miei conti con la giustizia li ho già saldati». Se i magistrati meneghini stanno cercando di capire se per la faccenda del dossier Eni ci fu depistaggio o meno, e se i pm di Messina stanno analizzando i rapporti tra Amara e altri colleghi della procura di Siracusa (tra loro ci sarebbe proprio Giancarlo Longo, che lo scorso giugno, poco dopo l’apertura da parte del Csm di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, ha chiesto di essere mandato via: ora è a Napoli), un pool di magistrati di Roma ha messo nel mirino l’avvocato di Augusta per i suoi rapporti con alcuni giudici amministrativi del Consiglio di Stato. In particolare le relazioni con Nicola Russo, di cui Amara è difensore in un procedimento penale assai delicato, e con l’ex presidente di sezione Riccardo Virgilio, che con il legale dell’Eni ha fatto qualche affare curioso. Già: come rivelato qualche mese fa dall’Espresso Virgilio e Amara, insieme all’imprenditore Andrea Bacci, caro amico di Matteo Renzi e del ministro dello Sport Luca Lotti, hanno provato ad entrare nel business telefonico. Virgilio nel 2014 ha finanziato una società maltese per oltre 750 mila euro, e ha firmato un contratto di finanziamento che gli garantirebbe un diritto di opzione per il controllo delle quote di Teletouch. Una società tra i cui soci compaiono Amara e lo stesso Bacci, e che aveva firmato un memorandum non vincolante addirittura con Telecom Italia. Amara, grande amico dell’ex ministro Francesco Saverio Romano, e di politici come gli ex presidenti della Regione Sicilia Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, sottolinea che i legami economici con Virgilio sono «limpidi», e che non ci sono «mai stati conflitti di interesse nelle vertenze al Consiglio di Stato per i miei clienti. In primis con quelle che riguardano le imprese di Ezio Bigotti». L’avvocato non fa un nome a caso: Bigotti, infatti, è uno dei suoi clienti più in vista. Un imprenditore diventato famoso (suo malgrado) dopo il caso Consip: Alfredo Romeo, grande imputato dello scandalo, lo considerava - intercettazioni alla mano - il suo grande avversario nell’appalto da 2,7 miliardi per i servizi dei palazzi della pubblica amministrazione. Originario di Pinerolo, recordman dei contenziosi ai Tar e al Consiglio di Stato, insieme ad Amara e al senatore di Ala Denis Verdini, Bigotti - ha raccontato l’ex ad di Consip Luigi Marroni - qualche mese fa in un pranzo al ristorante “Al Moro” di Roma protestava contro «l’atteggiamento aggressivo» della stazione appaltante nei confronti delle sue società. «Volevo solo» ha specificato in un esposto lo stesso Bigotti «parlare a Marroni di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip celebre per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. «Bianchi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram» chiarisce l’imprenditore di Pinerolo. «Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo». Quello che Bigotti non spiega è che Siram combatte contro di lui, da anni, una battaglia legale durissima nei Tar e nel Consiglio di Stato. In ballo c’è un presunto “scippo” delle Soa, cioè le certificazioni obbligatorie senza le quali un’azienda non può partecipare a gare d’appalto per l’esecuzione di appalti pubblici. Documenti che le aziende di Bigotti hanno ottenuto attraverso la cessione di un ramo d’azienda di Siram. Che ora sta tentando disperatamente di riottenerle indietro. Ad oggi, se i pm romani hanno mandato la Finanza a perquisire sia le aziende di Bigotti sia di altri concorrenti della gara FM4 (tra cui i francesi di Cofely, secondo Marroni «molto vicini» a Denis Verdini), è un fatto che Piero ed Ezio siano stati indagati insieme per alcuni reati tributari. Insieme al solito Ferraro, al socio di Amara Giuseppe Calafiore, e all’imprenditore Fabrizio Centofanti, sodale dell’avvocato siracusano in alcuni impianti fotovoltaici nel Lazio. La società che avrebbe emesso fatture false per operazioni inesistenti si chiama Da.Gi srl ed è intestata alla moglie di Amara; le società di Bigotti avrebbero ricevuto dalla stessa Da.Gi fatture false per oltre un milione di euro. A che servivano queste operazioni? «Lei dice che qualcuno potrebbe pensare che si tratti di somme destinate a creare fondi neri? Si sbaglia. È tutto regolare, riuscirò a dimostrarlo. Vuole sapere perché Bigotti, che è di Pinerolo, ha spostato a Siracusa la sede legale delle sue società? Guardi, le dico senza problemi che gliel’ho suggerito io stesso. Era da tempo sotto tiro per vicende tributarie da alcuni magistrati di Torino, e visto che la legge non impedisce spostamenti di questo tipo, ho pensato che Siracusa potesse essere - per le dichiarazioni fiscali del futuro, naturalmente - una sede più serena, senza preconcetti». Di sicuro un luogo dove gli Amara, da due generazioni, hanno tanti amici. E, forse, pure qualche santo in paradiso.

A 60 ANNI DALLA LEGGE MERLIN: SIAMO TUTTI PUTTANE.

«Egregia senatrice, ci sfruttano fino all’osso». Le lettere che le prostitute inviarono alla senatrice Merlin, scrive il 25 febbraio 2018 "Il Dubbio". "Onorevole Senatrice Merlin. Mi affido alla vostra grazia, perché è l’ultima porta che mi è rimasto di bussare. Il Giugno del 1948 prendevo posto come Direttrice nella casa di Meretricio di Via […] a G., con una paga di L. 5000 mensili, dovendo comprarmi il pane. Il mese di Agosto 1950 il mio mensile veniva aumentato di 2000, complessivo 7000 al mese, facendo 17 ore di lavoro consecutivo al giorno, senza minimo riposo, né ferie, né feste, né mensili doppi. La padrona dove io lavoravo è di nome […], Via […], tenutaria di tre case Meretricio, una a L., Via […], e due a G., una Via […], e l’altra Via […]. Solo da quando incominciai a mettermi contro alla tenutaria, e in favore del vostro onorevole progetto, di qui in cominciarono le mie pene. Ma con tutto ciò i miei reclami verso la padrona aumentavano, forse perché gli chiesi per quale motivo che la tariffa era di L. 180 invece di essere diviso come si doveva, io facevo i conti pagando alle Signorine solo 80 lire, mentre le altre 100 venivano incassate dalla padrona. Mi venne risposto dalla padrona che erano affari che a me non importavano. Io per potere vivere dovevo ingoiare, e per un pò di tempo non reclamai più. Mangiare scarso a tutta la casa, poca igiene, finché non arrivai di nuovo a reclamare. Per l’inverno i riscaldamenti erano miseri, le ragazze mi facevano pena, e si lamentavano con me. Ma quando passai tale reclamo alla padrona mi venne risposto di non interessarmi, e di eseguire i suoi ordini. Un giorno ripresi una Signorina che aveva comperato della biancheria dalla padrona stessa a un prezzo molto rilevato, e la ragazza mi rispose che se voleva rimanere in quella casa bisognava che si servisse dalla padrona per ché tutto ciò che faceva bisogno alle ragazze dovevano comprare da lei, biancheria, attrezzi per l’igiene ecc…. Di questo mio protesto ebbi un altro rimprovero. Non voglio spiegarle più niente, perché, ci sarebbe troppo da dire dello sfruttamento verso Signorine e personale. Da notare che una Cameriera prende 1000 lire mensile e si deve comperare il pane, mangiando se è il caso i rifiuti. Il 6 Agosto 1951 venni licenziata, non ne so il motivo. Chiesi alla padrona la mia liquidazione, ma furono delle parole inutili. Io non so più dove rivolgermi. Sono senza un libretto di lavoro, dato che nel momento del licenziamento la padrona non me lo volle dare, e a me è una cosa che mi necessita molto, per trovare una occupazione. M’affido alla vostra grazia, di farmi magari ottenere uno solo dei miei diritti. Ho lavorato onestamente, mentre solo perché non potevo vedere tutte quelle cose disumane, io oggi devo, dopo anni di lavoro, essere messa fuori senza una lira. Sperando di essere da lei considerata e che faccia qualche cosa per me ringrazio vostra onorevole grazia. Ossequi" seguono cognome, nome e indirizzo

"Egregia Senatrice Merlin Da tanto tempo che volevo scrivere oggi mi sento in vena. Vedo con mio sommo dispiacere, che ancora non si decidono di far chiudere queste case immonde. Poveri giovani Pederasti che per pochi soldi ci stanno. Altri giovani attivi per i ricchi depravati, camerieri, garzoni, come capita. E quegli specchi americani… Certi dissoluti ci vedono attraverso e assistono allo spettacolo, a pochi centimetri: lo sapevate? Cosi la magione diventa sempre più ricca… Tutto il resto non conta, per quella donna diabolica. Mi fanno ridere quando vengono per far le visite di controllo. La maggioranza sono sempre d’accordo (mangiano tutti e tutti tacciono). Nel mese di marzo 1950 venne una bella giovane di anni 21 naturalmente non pratica di nulla. Incominciò il traffico, le fecero fare l’esame del sangue, dopo dieci giorni ebbe la risposta positiva. Quanti sifilitici à fatti solo lei? Mettiamo che sono solo 40 al giorno, che codesta bella signorina accontentava, dieci giorni 400 persone. Poi il resto, le conseguenze che vengono dopo. Questi luoghi abbietti. Non le dico poi delle povere ragazze! Vengono sfruttate e consumate fino alle midolle. E devono tacere e fare silenzio. Signora Senatrice faccia un’opera pia, al più presto possibile faccia chiudere". segue pseudonimo

"Signora Deputatessa Merlin Io ò saputo dalle mie compagne della legge che fà per noi prostitute. Io non me ne intendo; sono una povera donna che faceva la serva e sono delle campagne di C. e vorrei tornarci a fare la serva o la contadina non questo mestiere che mi fà schifo. Ero a M. e M. mi faceva terrore e io uscivo poco, avevo paura dei trammi e delle macchine, ma un giorno uscivo e incontrai uno che mi si mise dietro a camminare dietro. I miei padroni tutte le sere facevano cene, ballavano e poi si baciavano e anche con le mani non stavano fermi bene e io pensai che fare all’amore non era peccato e mi ci misi con un giovanotto che non parlava come noi di C. Ma un giorno mi portò nella sua camera perché disse «ò male allo stomaco». Ma altroché male lui, mi prese e mi cosò anche mentre io piangevo e dissi «ò paura ò paura». Poi non mi à sposato e mi à fatto fare il figliolo. Io sono prostituta perché i padroni non mi rivolevano e loro erano come me e peggio e si facevano sempre cornuti fra elli. ò paura di venire via per la fame e per chiedere perdono alla famiglia che sono onesti fratelli e sorelle. Però a C. sarei felice, ci sono nata, c’è l’aria sana, gli olivi e la vendemmia e anche i contadini mi volevano bene. M’aiuti Signora Deputatrice io voglio salvare mio figlio". seguono cognome, nome e indirizzo

Quando Lina liberò le donne dai bordelli…, scrive Lanfranco Caminiti il 24 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Sessanta anni fa la legge della senatrice Merlin metteva fine alle “case chiuse”. L’art. 3 della nostra Costituzione recita così: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». E va bene, lo conosciamo tutti. Eppure, quel «senza distinzione di sesso», lo dobbiamo a Angelina Merlin, detta Lina. Era stata eletta all’Assemblea costituente del 1946 e aveva fatto parte della Commissione dei 75, incaricati di redigere la Carta costituzionale. C’erano solo altre quattro donne, oltre la Merlin: le due democristiane Maria Federici e Angela Gotelli, e le comuniste Nilde Iotti e Teresa Noce. Tutte avevano a vario modo partecipato alla Resistenza. Vita straordinaria, quella della Merlin. Nata nel 1887 a Chioggia, aveva conseguito la maturità magistrale e si era poi trasferita in Francia, per meglio conoscere la lingua e la letteratura francesi, materia in cui conseguirà la laurea e che insegnerà. Nel 1919 aderisce al Partito socialista, e inizia a collaborare con Giacomo Matteotti, proprio sulla condizione femminile, arrivando a dirigere la rivista “La difesa delle lavoratrici”. Quando, dopo l’assassinio di Matteotti, il fascismo si consoliderà, il suo destino è già segnato. Subirà cinque arresti in due anni, perderà il lavoro di insegnante perché si rifiuterà di prestare giuramento al regime, si trasferisce a Milano dove collabora con Filippo Turati, ma viene condannata a cinque anni di confino in Sardegna, si sposa e rimane vedova, riprende l’attività antifascista e alla Liberazione si trasferisce a Roma, per l’impegno politico a tempo pieno. Viene eletta al Senato nel 1948 e rieletta nel 1953, poi alla Camera dei deputati nel 1958. Il ’ 58 è l’anno cruciale, quello della legge Merlin. Ma Lina Merlin il disegno di legge sulla chiusura delle “case di tolleranza” lo aveva in realtà presentato dieci anni prima, nel 1948. A parte la sua sensibilità e le indagini sulla condizione della donna, di tutte le donne, la Merlin era rimasta colpita dall’abolizione del “registro delle prostitute” in Francia nel 1946, all’indomani della Liberazione. A compiere “l’impresa” era stata una donna dalla vita rocambolesca e leggendaria, Marthe Richard, dell’età della Merlin, che a sedici anni era già prostituta e nel 1912 aveva conseguito il brevetto di pilota e guidava un aereo tutto suo, regalatole dal marito, un facoltoso commerciante. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la Richard era stata poi arruolata nei Servizi segreti francesi, nella stessa divisione di Mata Hari, un ruolo che le venne persino riconosciuto ufficialmente ma che intanto le fece scrivere libri vendutissimi da cui si girarono dei film. Quando Hitler invade la Francia, Martha si salva diventando amante di un boss marsigliese, che – si scoprirà dopo – faceva il doppio gioco. Finita la guerra, intraprende la carriera politica, e riesce a eliminare prima in un distretto di Parigi e poi a livello nazionale il registro della prostituzione. In Italia, presentato il progetto nel 1948, dopo un lungo iter parlamentare c’era stata sua prima approvazione solo nel 1952. Ma per la fine del mandato parlamentare la proposta non divenne legge, e nel 1953 la Merlin, rieletta, ripresentò il disegno di legge, che finalmente terminò il suo iter parlamentare il 20 febbraio 1958, giusto sessant’anni fa. L’espressione “case di tolleranza” si doveva al Cavour che, dopo i numerosi casi di malattie veneree contratte dai soldati sabaudi tra il 1859 e il 1860, aveva affidato al medico Casimiro Sperino il compito di compilare un efficace regolamento che, con la dizione “Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione”, venne emesso nel febbraio 1860. Esteso prima alle province settentrionali fino alla Toscana annesse al Regno con i plebisciti di quell’anno, con l’unificazione nazionale tale regolamentazione entrò anche nelle province del Sud. Con il Regolamento si autorizzava, dietro rilascio di apposita licenza, l’apertura di postriboli di Stato suddivisi in due categorie e tre classi, si fissavano le tariffe, il guadagno della tenutaria e della prostituta oltre alle imposte da pagare allo Stato. Insomma, “si tollerava”. Invece l’espressione “case chiuse” si doveva al Crispi, e al suo ‘ Regolamento sulla Prostituzione’ del 1888. Oltre agli aspetti igienici e amministrativi, si raccomandava che le “case” fossero distanti da luoghi pubblici e di culto, che non si tenessero feste, e che le finestre e le persiane restassero sempre visibilmente “chiuse”, per non dare scandalo. A gennaio del 1958 perciò la proposta di legge Merlin giunge alla Camera. Le case chiuse autorizzate sono cinquecentosessanta, per un totale di duemilasettecento prostitute. Ogni prestazione costa da un minimo di duecento lire (cinque minuti in un bordello di terza categoria) fino a quattromila (un’ora in una casa di lusso). Ogni ragazza serve da trenta a cinquanta clienti al giorno. Il denaro non finisce solo in mani private, ma anche allo Stato, che incamera una percentuale sul ricavato per un totale di cento milioni di lire all’anno in cambio di alcuni servizi, fra cui il controllo sanitario delle lavoratrici. È dal 1948 che se ne parla, e ora sembra si sia arrivati in dirittura d’arrivo. Due anni prima Indro Montanelli, nel suo Addio, Wanda aveva scritto: «Tette e bandiera, Signora. Sono il riassunto della storia d’Italia, i suoi inseparabili pilastri, il suo motore, la chiave per comprenderla. Abolire l’uno significa distruggere l’altro. Un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede Cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre grandi istituzioni trovavano la più sicura garanzia». Alla Camera, il dibattito è violento, surreale. Angelo Rubino, medico sifilografo, del Partito monarchico: «Ancora più importanti sono i dati pervenutimi da Milano, dove nel 1954 si sono avuti 350 casi di sifilide, da Bologna dove se ne sono avuti 97, con notevole aumento rispetto al precedente anno 1953, quando se ne erano registrati solo 13, a Bari con 220 casi nuovi nel 1954, da Pavia con 50 casi mentre nel 1953 se ne erano registrati solo 37 e nel 1952 solamente 14. A Pavia negli ultimi mesi del 1953 e primi del 1954 due prostitute girovaghe, successivamente ospedalizzate, sono state responsabili di 29 casi di contagio nella città di Pavia e 15 a Voghera». Gli risponde a muso duro Gisella Floreanini del Partito comunista: «Riferendoci all’Unione Sovietica notiamo che gli affetti da malattie veneree erano il 50 percento negli ultimi anni del regime zarista; dopo il 1917 furono subito e solo il 6 percento e oggi là, come accadrà da noi grazie all’approvazione di questa legge, non esiste più la prostituzione». Chissà come si sarà procurata quei dati. Comunque, la legge Merlin è approvata definitivamente dall’assemblea della Camera dei deputati con 385 voti a favore e 115 contrari. Oggi, la sensibilità sociale sulla questione si è di nuovo modificata. Strumentalizzata, a fini di propaganda politica, spesso venata da caratteri di razzismo e di intolleranza, nuovi fenomeni sociali interrogano sulle forme e sull’utilità di quella legge e sui suoi limiti, anche per la crescita di una consapevolezza tra chi si definisce “sex worker”. Da questo punto di vista molto si deve, a esempio, all’attività di Pia Covre, fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute: «Criminalizzarle è sbagliato: relega sempre di più le lavoratrici del sesso nell’underground, mettendole in pericolo». È, per capirci, proprio il rovesciamento di quell’ideologia che aveva trovato nelle considerazioni di Cesare Lombroso una sua sistematizzazione. Nel suo libro del 1893, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, puntualizzava che «la regressione naturale delle donne è la prostituzione e non la criminalità, la donna primitiva essendo una prostituta più che una criminale». Se esse divenivano prostitute ciò era dovuto non alla lussuria ma alla pazzia morale, alla mancanza di pudore e alla insensibilità, insomma all’infamia del vizio, venendo attirate da ciò che è vietato e dandosi, così, a tale genere di vita, trovandovi la maniera migliore per guadagnarsi l’esistenza senza lavorare. Ma sarebbe ingiusto ricordare la Merlin solo per quella legge. A lei si devono, anche: l’abolizione del nomen nescio che veniva apposto sugli atti anagrafici dei trovatelli, i figli di N. N.; l’equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale; la legge sulle adozioni che eliminava le disparità di legge tra figli adottivi e figli propri; e la soppressione definitiva della cosiddetta clausola di nubilato nei contratti di lavoro, che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano. Beh, buon compleanno, Merlin.

L'ipocrisia del "Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico, scrive il 19/05/2014 Simona Bonfante, Giornalista, blogger, su "L'Huffingtonpost.it". Mai credere al Tizio che racconta di come la tal persona sia arrivata al successo solo perché passata dal letto di un Caio importante. Alle persone piace spettegolare, compiacersi del fatto che, se quello ha fatto carriera mentre lui no, è perché ha usato la più ovvia delle scorciatoie - e l'auto-compiacimento non viene meno anche se completamente privo del conforto di elementi probatori. Nel gioco sociale del chi-si-è-scopato-chi-per-arrivare-al-potere si arruola chiunque manifesti più autostima che talento, e può avere qualunque ruolo, costui: il capufficio, la conduttrice tv, il personaggio politico venuto dal nulla. Con il suo "Siamo tutti puttane" Annalisa Chirico sdogana il tema, dando sfogo ad un dibattito pubblico sul puttanismo come condizione più o meno universale dell'essere; ed ad un altro dibattito, al primo speculare - un dibattito clandestino, non necessariamente edificante, gossipparo appunto - su chi si sia scopata lei per arrivare lì. Il coté pubblico della discussione sul puttanismo, va detto, non è tra i più appassionanti e coinvolge per lo più una categoria socio-anagrafica precisa, gli ex sessantottini - attualmente divisi in rimasti tali, e divenuti anti - del cui moralismo ipocrita e della cui doppiezza tra morale pubblica e privata, esiste in realtà già tutta una sterminata letteratura che spazia dalla politica al costume - di cui oltretutto sono ormai addirittura gli stessi protagonisti a farsi autori. È stato il moralissimo Scalfari, per dire, a raccontare il bigamismo crudele cui ha sottoposto per una vita le sue due rispettabilissime signore, non appunto la fatica editoriale della nostra. La Chirico dunque non scopre l'acqua calda, né aggiunge elementi probatori al velleitarismo moralizzatore delle se-non-ora-quandiste. Ci dice quanto quelle siano ipocrite - cosa acclarata - ma non ci fa vedere cosa sia la non-ipocrisia. Dice "noi" siamo tutti puttane, lasciandoci inferire che lo sia anche lei. Non ci dice tuttavia se e in che modo lei stessa si sia prostituita - col proprio corpo o la propria mente - per arrivare ad essere una frequentatrice di salotti tv dopo esser partita, come tanti, da un blog - un blog addirittura radicale, nel senso di pannelliano. Figuriamoci la popolarità! Questa omissione, oltre a nutrire il cazzeggio gossipparo, rende l'autrice ipocrita al pari dei suoi avversari, perché a farci puttani sono scelte personali precise, non generiche condizioni dell'essere, o particolari appartenenze culturali. Si può cioè scegliere eccome anche di non essere puttani. Se non si vuole essere ipocriti al pari dei moralisti di cui si denuncia l'ipocrisia, quindi, non basta collezionare citazioni colte da Wikipedia, farci su un libello e dedurre che puttani siamo tutti. Bisogna partire da sé. Dire "io sono puttana/o" - se lo si è stati davvero - ed argomentare, circostanziare, far arrivare al cuore del puttanismo. Fare i nomi dei personaggi importanti a cui ci si è prostituiti ottenendone vantaggi - rassegnandosi al fatto che questo potrebbe creare imbarazzi nei salotti per bene, che proprio la popolarità ci ha invece adesso abituati a frequentare. Alludere senza provare è ipocrisia. Toh, gossip - e il gossip lo avevamo già. Essere così anti-ipocriti da raccontare di sé avrebbe permesso al dibattito sul puttanismo di andare oltre la inevitabile curiosità su quali lenzuola possano eventualmente essere risultate decisive alla carriera dell'autrice, e mostrare piuttosto come la moralità - che i sinistri riconducono ad una proiezione virginale di sé - si misuri invece proprio sulla capacità di spogliarsi delle ipocrisie coperte dall'anonimato, dall'astrazione, e vestirsi piuttosto di verità, anche quelle meno convenienti per chi come mestiere ha scelto di operare, non di letto, ma di intelletto, ponendosi oltretutto l'ambizione non di contrapporre luoghi comuni a luoghi comuni ma di scardinare il giochetto intellettualmente vile per cui cattiveria, corruzione morale, pavidità - ipocrisia, appunto - appartengono al dirimpettaio, sempre e solo all'altro da sé.

Annalisa Chirico, “Non avrei mai scritto Siamo tutte puttane se non avessi seguito le udienze del processo Ruby, scrive il 4 agosto 2014 “Libreriamo”. Stasera al Festival Capalbio Libri 2014 Annalisa Chirico presenta il suo ultimo libro “Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto”. Un titolo indubbiamente esplicito e volutamente d’impatto ma che assume tutt’altro significato se viene letto alla luce di certi accadimenti politico-sociali che per mesi hanno monopolizzato l’informazione italiana. Edito da Marsilio, il libro ha già scatenato parecchio dibattito, soprattutto tra gli esponenti “bacchettoni” della sinistra italiana. Annalisa Chirico, giornalista e blogger, ha lavorato anche al Parlamento europeo conducendo campagne a favore della libertà di scelta, contro gli eccessi del sistema giudiziario e carcerario, per un femminismo libertario e moderno. Noi l’abbiamo intervistata e le abbiamo chiesto di parlarci del suo libro.

Di cosa parla “Siamo tutti puttane”?

«Il mio libro è un grido di rivolta contro la dittatura in Italia del politicamente corretto, è un pamphlet anti-moralista che da una parte rivendica il sacrosanto diritto di ciascuno di farsi strada nella vita come meglio può, nel rispetto ovviamente della legge ma usando tutte le risorse a disposizione e dall’altra parte propone un femminismo pluralista che rifiuta il modello di donna “angelo del focolare”, madre e moglie perfetta. Il vero femminismo deve lottare affinché sia riconosciuta la libertà di ciascuna donna di essere quello che vuole e parte dall’idea che tutti quanti siamo appunto Angeli e Demoni, non esiste la purezza angelicata; non c’è solo la donna apollinea ma anche quella dionisiaca, che usa abilmente e spregiudicatamente il proprio corpo, il proprio desiderio sessuale e rivendica il fatto naturale di essere donna e di avere un ventre».

Tu ti definisci una “femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione”. Cosa rispondi alle femministe che invece sono contro la mercificazione della donna?

«Non esiste nessuna mercificazione della donna né del suo corpo perché se uno vendesse il proprio corpo saremmo nell’ambito della schiavitù, cosa che è vietata nel nostro Paese. Al massimo esiste la vendita di servizi (sessuali, nell’ambito della prostituzione) o nell’ambito della pubblicità, dell’arte, del cinema (vendita della propria immagine). La donna non è mercificata ma anzi ha la libera facoltà di usare il proprio corpo. Io ribalto il paradigma di queste femministe che io chiamo “Taleban-femministe”. Non c’è nessuno che mercifica le donne o fa di loro degli oggetti, le donne sono dei soggetti attivi, artefici assolute del proprio Destino; anzi ci troviamo all’interno di un paradosso poiché sono proprio i discorsi di certe femministe che hanno trasformato le donne in oggetti. Giunti a questo punto devo fare una precisazione importante: c’è da distinguere tra la prostituzione libera e volontaria, che esiste, e il racket della prostituzione, un fenomeno criminale da combattere, che in Italia è reato. La prostituzione pro libera e pro volontaria invece esiste e a questo devono arrendersi tutte le varie santone del comune senso del pudore, del Sacro Canone Femminile».

Ho letto che hai seguito il processo Ruby da cronista. Questa vicenda ha influito nella stesura del tuo libro?

«All’Università mi occupo di studi di genere ma non avrei mai scritto questo libro se non avessi seguito le udienze del processo Ruby dove sostanzialmente si è tenuto un processo alla Morale, al comune senso del pudore. Per certi versi non sembrava di essere a Milano ma a Kabul ai tempi dei Talebani. Un processo in cui delle donne, una trentina di ragazze, chiamate lì in qualità di testimoni, sono state interrogate, vivisezionate nella loro vita privata e privatissima, nella loro vita sessuale, nelle loro passioni private. I trenini e i merletti di una festa sono diventati oggetto di dibattimento e di istruttoria. A tal proposito devo dire due cose: la prima è che i tribunali devono occuparsi di reati, non di peccati, poiché dei peccati ciascuno risponde alla propria coscienza; e la seconda è che l’assoluzione di Berlusconi in secondo grado senza una nuova istruttoria, al di là delle motivazioni che leggeremo, ci dice una cosa chiara, cioè che le prove per cui Berlusconi era stato condannato a 7 anni in primo grado sono state completamente falcidiate in secondo grado, ritenute cioè non attendibili, non sussistenti. Che poi è quello che io scrivo nel libro: in quel processo non c’erano le prove, Berlusconi non è un santo, quelle ragazze non sono morigerate di Dio e non credo che vadano tutte le domeniche a Messa».

Ultima domanda. Progetti per il futuro? Cosa ti aspetti dopo Capalbio?

«Veramente andrò in vacanza. Anzi ti direi che dopo Cabalbio spero di gustare una buona cena con le persone che verranno a presentare il libro con me».

LA PROVOCAZIONE DI “LIBÉRATION”: UNA PROSTITUTA SPESSO COSTA MENO DI UNA DONNA DA CONQUISTARE, MA LA MAGGIOR PARTE DEGLI UOMINI PREFERISCE COMUNQUE PERDERE SOLDI PER RIMORCHIARE, ANCHE SOLO PER UNA NOTTE. COME SI SPIEGA QUESTA SCELTA?

TUTTE LE DONNE SI FANNO PAGARE PER IL SESSO, SOLO CHE CON LE PUTTANE SI PATTUISCE UNA SOMMA MENTRE CON LE ALTRE IL DENARO E’ INVISIBILE, HA LA FORMA DI REGALO, E LA SFIDA ECCITA DI PIU’ L’UOMO, CHE ALLA FINE SPENDE MOLTO DI PIU’. DUNQUE, CHI È PIÙ PUTTANA? LA DONNA CHE VUOLE FARE UN BUON COLPO O CHI ESIGE CENE, DIAMANTI E VIAGGI?

Da Dagospia del 23 novembre 2016. Agnès Giard per “Libération”. Una prostituta spesso costa meno di una donna da conquistare, ma la maggior parte degli uomini preferisce comunque perdere soldi per rimorchiare, anche solo per una notte. Come si spiega questa scelta? Nel 1980 l’antropologa Paola Tabet affermò che la parola “prostituta” non significa nulla perché indica una categoria di donne a parte: quelle che si fanno pagare per il sesso. Il problema è che tutte le donne sono disponibili a contrattare in cambio di un valore-prestigio o di un regalo, secondo lei. Nella maggior parte delle società, se non tutte, la donna è un oggetto di scambio, al pari di beni mobili o immobili. Spingendosi oltre, la Tabet sostiene che, tra le prostitute, quella più indipendente - cioè che si gestisce da sola - trasgredisce le regole sociali. Queste regole vogliono che il compenso ricevuto per il sesso, vada ai genitori, ai fratelli, al pappone. Invece, scandalo: questa prostituta si comporta da donna libera? Sarà questa la ragione per cui viene stigmatizzata? La sociologa francese Catherine Deschamp, nel 2011 ha pubblicato un libro intitolato: “Sesso e denaro: due mostri sacri?”, in cui raccoglie i risultati di un’inchiesta parallela sulla prostituzione nelle vie di Parigi e sui riti di seduzione nei bar. In entrambi i casi, i soldi circolano. Le donne che si fanno offrire da bere flirtano più o meno consapevolmente con il fantasma della prostituzione, ma c’è una differenza enorme: non sono tenute ad andare a letto con gli uomini. Ed è per questa ragione che gli uomini le trovano più affascinanti. Paradossalmente, quando i soldi sono troppo visibili, la relazione perde il suo prezzo. Il denaro deve sparire affinché la relazione uomo-donna abbia un valore. Dice la Deschamps: «I meccanismi del desiderio implicano un regalo ambiguo, tipo un bicchiere al bar, che non dà alcun impegno. Un bicchiere che verrà ritenuto pura cortesia, nel caso in cui il desiderio non è reciproco, o che può introdurre al sesso. I confini restano sfocati e permettono di salvare la faccia». Le apparenze sono salve. Se la donna accetta di andare a letto, in cambio di tanti bicchieri offerti, potrà sempre dire che è stata “soggiogata”. E’ quello che si chiama il potere della seduzione. Al contrario della prostituzione, il denaro esiste ma senza che debba essere conteggiato o richiesto, senza assicurare il colpo sicuro del rapporto sessuale. Chiunque faccia un intervento che renda visibile le modalità dello scambio è un intruso, significa fine della seduzione. Il denaro può essere il motore del desiderio, ma non va detto. E’ una forma di ipocrisia? La stessa Catherine Deschamps è combattuta: è perfettamente cosciente che “il sentimento di amoralità”, necessario alla nascita del desiderio, implica una forma di flirt con il fantasma della puttana. Quando due sconosciuti si incontrano in un bar giocano con questo fantasma e creano le condizioni ideali per un incontro eccitante e trasgressivo. Ma attenzione, bisogna che la donna faccia finta di resistere, seguendo i codici sociali in vigore. Una preda troppo facile da conquistare ha meno valore. Il concetto lo riassunse con ironia Nietzsche, nel 1883, e prima ancora Stendhal, nel 1833: «Si vende, chi non si è donato». Ispirandosi a queste citazioni, la Deschamps fa la sua ipotesi: la stigmatizzazione che colpisce le prostitute non è la stessa che colpisce le donne che si concedono facilmente? Quanto tutto va velocemente, l’uomo non è che un cliente. L’illusione è svanita. Lui preferisce la donna che lo fa aspettare e che non parla di soldi, perché lei, almeno, gli dà l’idea di essere irresistibilmente seducente. Per lei, lui si prodiga più del previsto. Allora la prostituta è discriminata perché riceve una somma pattuita per concedersi all’istante? Quando una donna da sedurre è pagata per vie intermediarie, è più valorizzata? In questo senso, il prezzo e il valore non sono sinonimi. Le somme dispensate dagli uomini nei bar per sedurre, se non sono conosciute in anticipo, spesso sono superiori a quelle che spenderebbero per assicurarsi una donna da marciapiede. Anche i più poveri, per fare colpo, ordinano una bottiglia di champagne, per mostrare valore e rendersi interessanti. Paola Tabet vede un sistema dove il “generoso donatore” e “la donna riconoscente” diventano la sordida manifestazione della disuguaglianza fra i sessi: le donne sono facilmente corruttibili perché sottomesse al potere del denaro. E’ possibile creare uno scambio senza che ci sia un regalo? Fare un dono senza creare un debito? Sembra che il debito sia la conditio sine qua non per un legame affettivo fra gli esseri umani. La mentalità non cambia. Per la gente il sesso per il sesso non è affatto femminile. Essere persone serie, significa non giocare con il sesso. Ne hanno diritto solo gli uomini. Le donne devono avere un progetto coniugale, cercare il tizio con il quale creare una coppia. Per farlo, tutti i mezzi vanno bene, soprattutto mostrare la scollatura ma fare finta di non avere voglia di sesso, avere l’aria distratta e distante, rifiutare la prima sera ma lanciare promesse allusive, così per l’uomo diventa una sfida. E’ il loro capitale erotico, da far fruttare. Alla fine, chi è più puttana? La donna che vuole fare un buon colpo o quella che per scopare esige fiori, cene, diamanti e viaggi?

ABORTO. 40 ANNI DOPO LA LEGGE 194.

La legge italiana sull’aborto è la Legge n. 194 del 22 maggio 1978, che consente alla donna, nei casi previsti dalla legge, di poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica. Oggi, nonostante la legge, sono praticati aborti clandestini. Pertanto, è necessario affermare che la legge 194/78 ha permesso un cambiamento sostanziale del fenomeno abortivo nel nostro Paese, ma la sua applicazione deve essere ulteriormente migliorata.

La legge sull'interruzione volontaria di gravidanza è composta da 22 articoli. L'articolo 12 si occupa del caso in cui la donna, che deve praticare l'interruzione di gravidanza sia minorenne. La legge prevede infatti che la richiesta di interruzione di gravidanza sia fatta personalmente dalla donna; se però la donna ha un'età inferiore ai 18 anni, per l'interruzione della gravidanza è richiesto l'assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela.

Tuttavia, la 194 prevede che nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone che esercitano la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleti i compiti e le procedure previste dalla legge e rimetta entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare. Questi, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle sue ragioni e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna a decidere la interruzione della gravidanza. Qualora il medico accerti l'urgenza dell'intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di 18 anni, indipendentemente dall'assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza ricorrere al giudice tutelare, certifica l'esistenza delle condizioni che giustificano l'interruzione della gravidanza. Questa certificazione costituisce titolo per ottenere in via d'urgenza l'intervento e, se necessario, il ricovero.

A leggere la relazione del Ministero si scopre che in Italia in un anno vi sono state all’incirca 4 mila interruzioni legali effettuate da minorenni, di queste 1.426 sono state chieste da parte di minorenni, decise ad escludere dalla decisione chi esercita la patria potestà, molte di più rispetto agli anni precedenti quando la media si aggirava intorno alle 1.330 interruzioni l’anno.

Ed è soprattutto in calo l’età media delle ragazze, che fanno ricorso ad un’interruzione di gravidanza. Cinque su dieci hanno diciassette anni e tre su dieci ne hanno sedici. E quindi è allarme, lo ripetono in tanti. Ma la Relazione del Ministero continua. Più di 6 minorenni su dieci non interpella nessuno del proprio nucleo familiare e si rivolge direttamente ai consultori. Se manca il consenso dei genitori o non lo si voglia richiedere, come accade in oltre la metà dei casi, si ricorre al Giudice Tutelare dei minori.

Più di sei minorenni su dieci (il 65%) decidono di interrompere la gravidanza per motivi psicologici. Le altre per motivi socio-economici. Il Rapporto del Ministero sottolinea che al giudice le minorenni dichiarano quasi sempre che il figlio «è un serio ostacolo ai progetti di vita futura». La maggior parte adduce motivi «psicologici» e circa il 30 per cento parla di motivi di studio. Le richieste arrivano soprattutto da ragazze che vivono al Nord: il 45%. Mentre il 25% da ragazze che vivono nel centro Italia, il 23% da giovani meridionali e il 7% dalle isole.

E allora, va bene l'allarme, ma le interrogazioni parlamentari da parte dei deputati per far fare qualcosa al governo sono finite nel nulla. E ad emergere, da storie come quella della minorenne che voleva tenere il figlio a dispetto dei genitori e dai dati del Ministero di Giustizia, è soprattutto una scarsa informazione sui metodi contraccettivi e un'assenza di educazione sessuale.

Riguardo al fenomeno degli aborti clandestini si denota che tornano le mammane. E ora non sono più solo oscure praticone, ma anche ginecologi compiacenti che operano nei loro studi privati, lontano dagli occhi indiscreti. Ma c’è anche di peggio: chi non ha neppure i soldi per pagare queste soluzioni alternative, si rivolge a «mamma Internet» per procurarsi medicinali che provocano i cosiddetti aborti farmacologici, pericolosi per la salute della donna, ma sempre più diffusi tra giovanissime ed emarginate. «È un fenomeno in crescita ed incontrollato e molto pericoloso per la salute della donna» ammette il Presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo).

Il motivo di questo ripiego? In una distorsione della legge: «Probabilmente una piena applicazione della 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza eviterebbe il diffondersi di tali fenomeni». In pratica, la legge non è sempre garantita nella sua applicazione. E l’alto tasso di obiettori di coscienza che, attuando un loro diritto, rifiutano di praticare l’aborto pongono ostacoli organizzativi non facili da superare. Nelle strutture sanitarie pubbliche, infatti, risulta obiettore il 60% dei ginecologi, il 46% degli anestesisti e il 39% del personale non medico.

La presenza di così tanti obiettori negli ospedali allunga le liste di attesa per fare un aborto e favorisce così indirettamente, secondo molti ginecologi, il ricorso all’aborto clandestino e soprattutto a quello farmacologico. Si tratta di cosiddetti farmaci off-label, impiegati per un utilizzo differente rispetto a quello per cui sono nati. «È il caso delle prostaglandine: principi presenti in medicinali destinati alla cura dell’apparato gastrico (anti-ulcere), ma che possono avere anche un effetto abortivo soprattutto all’inizio della gravidanza». Le prostaglandine sono acquistabili dietro prescrizione medica, ma il problema è che sono facilmente reperibili in mercati clandestini e su Internet.

Gli esperti di farmacologia avvertono che si tratta di un pericolo serio, un uso improprio di farmaci che sono destinati ad altre funzioni col rischio di provocare effetti collaterali imprevedibilmente gravi. I rischi maggiori sono quelli relativi a forti emorragie e infezioni.

L’uso dell’aborto farmacologico è molto diffuso e il farmaco si compra in farmacia.

A favorire l’aborto è, anche, il fallimento dei Consultori Familiari: pochi e inadeguati: sulla carta 2.063, di fatto 1 ogni 57 mila abitanti. Le liste di attesa di attestano oltre i 50 giorni. In Italia sono 2.063 i consultori familiari secondo gli ultimi dati del Ministero della Sanità. Secondo un’indagine svolta in sei città italiane (Napoli, Roma, Torino, Milano e Bologna) portata avanti dall’Associazione Altro Consumo, il rapporto reale è di un consultorio ogni 57 mila abitanti. Infatti molte strutture non sono aperte, sono in ristrutturazione o semplicemente sono inesistenti.

L’indagine è stata fatta su 146 strutture nelle sei città. A Milano la lista segnala 21 consultori. Due risultano chiusi e uno accorpato ad un’altra struttura. In media un consultorio ogni 70 mila abitanti. Le liste di attese per una visita vanno dai 40 ai 50 giorni.

A Bologna c’è un consultorio ogni 41 mila abitanti e il tempo di attesa è in media di 63 giorni.

A Torino i consultori presenti sono 21, ma 6 sono chiusi e la popolazione ha a disposizione un consultorio ogni 57 mila abitanti. Roma è la città con più consultori 51, sette di questi però, risultano chiusi e la media è un consultorio ogni 58 mila abitanti. Al San Camillo di Roma gli specialisti non obiettori sono tre su 50.

A Napoli i dati sono veramente sconcertanti: i consultori sono 18, ma di questi 7 sono chiusi. I tempi di attesa sono di 40 giorni. Infatti al Nuovo Policlinico in un anno su 1.370 donne che hanno richiesto di interrompere la gravidanza solo 862 sono state sottoposte a Ivg.  In tutti i grandi comuni della provincia, come Giugliano (300mila abitanti), Pozzuoli e altri paesi della provincia vesuviana, c’è una unica Asl per comune con un unico punto di riferimento per le Ivg. È evidente la difficoltà ad esercitare il diritto ad abortire legalmente.

Al Rizzoli di Ischia (dove anni fa il primario finì al centro di un’inchiesta per aborti clandestini) il servizio Ivg non è mai stato istituito. A Napoli quasi il 90% degli specialisti sono obiettori di coscienza. Al Policlinico sono 54 su 60, fra cui il primario.

Le donne della Basilicata nella loro Regione non hanno possibilità di effettuare l’interruzione di gravidanza e devono emigrare al centro Italia.

Colpisce la distanza fra le dichiarazioni dei politici a sostegno della 194 e la realtà concreta vissuta da tutte le donne.

Unione Europea, arriva la risoluzione per aborto e omosessuali. Un emendamento presentato a Strasburgo prevede "corsi nelle scuole per un'educazione sessuale pro gay, meno obiettori di coscienza , e procreazione assistita per le lesbiche", scrive di Ignazio Stagno su “Libero Quotidiano”. Corsi a scuola per l'educazione sessuale sugli omosessuali, meno obiettori di coscienza per gli aborti, e più figli per gay e single. L'Europa ci vuole così. II 21 e 22 ottobre al Parlamento europeo sarà votata una risoluzione che, in caso di approvazione, inviterà gli Stati membri a garantire a tutti aborto, contraccezione, fecondazione assistita, corsi obbligatori a scuola sull’identità di genere e contro la discriminazione delle persone omosessuali. La risoluzione, va detto non ha un effetto vincolante sugli stati membri ma resta comunque una linea guida per le politiche sociali da adottare. 

Figli per gay e single - La risoluzione 2013/2040(INI), "riconosce che la salute e i diritti sessuali e riproduttivi costituiscono un elemento fondamentale della dignità umana di cui occorre tener conto nel contesto più ampio della discriminazione strutturale e delle disuguaglianze di genere" e invita gli Stati membri a tutelare la salute sessuale e riproduttiva". Con questi "consigli di Bruxelles" gli Stati membri dovranno "offrire scelte riproduttive e servizi per la fertilità in un quadro non discriminatorio e garantire l’accesso ai trattamenti per la fertilità e alla procreazione medica assistita anche per le donne senza un partner e le lesbiche". 

Spot e aborto per tutti - La risoluzione approfondisce anche l'accesso all'aborto che dovrà "essere universale, (…) legale, sicuro e accessibile a tutti". Il testo è di fatto contro gli obiettori di coscienza. La risoluzione afferma che "l’aborto è spesso evitato o prorogato da ostacoli che impediscono di accedere a servizi adeguati, come l’ampio ricorso all’obiezione di coscienza". Per questo "gli Stati membri dovrebbero regolamentare e monitorare il ricorso all’obiezione di coscienza nelle professioni chiave". Il documento manifesta anche "preoccupazione per il fatto che il personale medico sia costretto a rifiutarsi di prestare servizi per la salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti negli ospedali e nelle cliniche di stampo religioso in tutta l’UE". L'aborto dovrà pure essere sponsorizzato: "Gli Stati membri dovranno ricorrere a vari metodi per raggiungere i giovani, quali campagne pubblicitarie, marketing sociale per l’uso dei preservativi e altri metodi contraccettivi, e iniziative quali linee verdi telefoniche confidenziali". Ma la vera rivoluzione arriva a scuola.

Corsi sui gay a scuola - Infatti secondo la risoluzione "dovranno essere obbligatori corsi di educazione sessuale nelle scuole che includano la lotta contro gli stereotipi, i pregiudizi, tutte le forme di violenza di genere e violenza contro le donne e le ragazze, fare luce sulla discriminazione basata sul genere e sull’orientamento sessuale, e denunciarla, e sulle barriere strutturali all’uguaglianza sostanziale, in particolare all’uguaglianza tra donne e uomini e tra ragazze e ragazzi, oltre che porre l’accento sul rispetto reciproco e la responsabilità condivisa". Inoltre "l’educazione sessuale deve includere la fornitura di informazioni non discriminatorie e la comunicazione di un’opinione positiva riguardo alle persone LGBTI, così da sostenere e tutelare efficacemente i diritti di giovani LGBTI". L'Europa di fatto ci impone una maschera gayfriendly. Di Stato. 

Pillola del prima possibile, scelta da donna “responsabile”. Per gli esperti è fondamentale assumerla il prima possibile adottando il farmaco più efficace. L’80% delle donne che l’ha utilizzata ha cambiato in positivo i propri comportamenti contraccettivi, scrive “Libero Quotidiano”. Ogni anno, quasi una donna su tre ha rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata, ma la contraccezione d’emergenza rimane sottoutilizzata. Quasi tre italiane su dieci tra i 16 e i 45 anni hanno avuto rapporti sessuali a rischio di gravidanza indesiderata. Malgrado ciò sono ancora tantissime le donne che non hanno valutato l’opportunità di ricorrere alla contraccezione d’emergenza. Anche perché sono spesso inconsapevoli dei rischi ai quali si sono esposte e continuano ad avere idee confuse. Inoltre circa il 45% pensa che la contraccezione di emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% ne ignora il meccanismo d’azione. Ma c’è anche chi crede possa causare infertilità o che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. Eppure per quasi sette donne su dieci, la contraccezione d‘emergenza è una scelta responsabile per evitare una gravidanza ancora non voluta, e la possibilità di disporre di questo farmaco è considerata come “un passo in avanti” per l’universo femminile. Sono questi alcuni dei principali risultati emersi dalla prima ricerca sulla contraccezione d’emergenza (CE), presentata a Venezia nell’ambito del 15th World Congress on Human Reproduction. L’indagine, svolta dall’istituto di ricerche BVA Healthcare per HRA Pharma su oltre 7mila donne in cinque paesi europei, in Italia ha messo sotto la lente 1.234 donne sessualmente attive, equamente distribuite sull’intero territorio nazionale.

I risultati italiani. Tutte le italiane intervistate hanno dichiarato di non volere al momento figli, per questo il 78% utilizzava già un metodo contraccettivo. Eppure circa il 30% delle donne si è trovata comunque a dover gestire il rischio di una gravidanza non voluta. Le cause? Principalmente perché in quella particolare occasione non stavano utilizzando alcun metodo contraccettivo, oppure lo avevano sospeso temporaneamente (il 45%). Ed anche perché il preservativo si era rotto o era scivolato via (41%), e avevano dimenticato la “pillola contraccettiva”, il cerotto o non avevano inserito l’anello vaginale (26%). Uno scenario di fronte al quale le donne hanno reagito diversamente: ben l’80% non è ricorsa alla contraccezione d’emergenza, sulla quale ha invece puntato appena il 20% (di queste un terzo l’aveva già utilizzata in precedenza, e soltanto in un quinto dei casi appena una volta).
Insomma, si assiste a un evidente sottoutilizzo di questo strumento contraccettivo in un Paese in cui i numeri parlano di un 33% di gravidanze indesiderate che nel 50% dei casi si traducono in un’interruzione volontaria di gravidanza (Carbone - Rivista di ginecologia consultoriale 2009).

Donne tra sottostima dei rischi e incertezze. Secondo i dati rilevati dall’indagine, tra le donne regna una mancanza di consapevolezza dei rischi ai quali si espongono. A causa di un errore di valutazione, il 43% ha infatti ritenuto di non essere a rischio, così non ha utilizzato la CE. Ma gioca un ruolo importante anche l’incertezza su come ottenere la prescrizione o procurarsi il farmaco (per il 35%). Non solo, c’è anche chi è convinta che il farmaco non sarebbe stato più efficace dopo due giorni dal rapporto sessuale, e quindi ha abbandonato l’idea. Mentre, nel 27% dei casi ha giocato un ruolo determinante la paura di una futura infertilità o di utilizzare un metodo troppo aggressivo.

Le percezioni sbagliate. Esistono poi nella mente delle donne intervistate alcune idee errate. Quasi il 45% ritiene che la contraccezione d’emergenza abbia un effetto abortivo e il 34% non ne conosce esattamente il meccanismo d’azione. Il 15% crede che possa anche causare infertilità, e il 16% che sia stata concepita per le adolescenti al primo rapporto sessuale. “Queste idee appartengono al passato – chiarisce la professoressa Rossella Nappi, ginecologa, endocrinologa e sessuologa all’Università di Pavia – ormai sappiamo esattamente come e quando funziona la contraccezione d’emergenza, non è altro che un ulteriore supporto contraccettivo. Un ultimo efficace baluardo prima di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza. Un aiuto non per donne distratte o irresponsabili, ma un completamento proprio per quante già usano la contraccezione consapevole, ormonale o di barriera, che in quel particolare momento ha fallito”.

La pillola del “prima possibile”. Ma accanto a quante ignorano rischi e meccanismi d’azione ci sono anche donne consapevoli che, nell’86% dei casi hanno fatto ricorso alla CE entro le 24 ore dal rapporto in quanto coscienti che la sua efficienza è maggiore se assunta rapidamente. “È confortante vedere che ci sono donne attente nel valutare l’efficienza di una metodica di prevenzione – aggiunge la professoressa Nappi – anche se rimane ancora molto da fare. Non dimentichiamo che la contraccezione d’emergenza serve per abbassare il potenziale di fertilizzazione del ciclo, spostando o bloccando del tutto l’ovulazione. Ed è chiaro quindi come la tempestività di assunzione giochi un ruolo chiave per assicurare la riuscita dell’intervento. Rispetto al passato abbiamo fatto passi in avanti. Grazie, infatti, a molecole più innovative come l’Ulipristal acetato, da circa un anno presente anche in Italia, è possibile ridurre, nelle prime 24 ore, di ben due terzi il rischio di gravidanza indesiderata rispetto alle vecchie formulazioni con Levonorgestrel. E con un atout in più: la sua capacità protettiva è doppia rispetto al Levonorgestrel nelle 72 ore dal rapporto a rischio. Bisognerebbe perciò iniziare a parlare di “pillola del prima possibile” e non di “pillola del giorno dopo”.

Donne più responsabili nella contraccezione. C’è poi un altro dato che emerge con evidenza: dopo l’utilizzo della contraccezione d’emergenza le donne sono diventate più responsabili. Tant’è che ben il 61% delle italiane ha iniziato a prestare maggiore attenzione all’assunzione o all’uso del proprio contraccettivo. Il 22% si è rivolta al proprio medico per approfondire l’argomento e il 18% ha cambiato metodo di contraccezione. Solo il 26% delle donne ha ritenuto di essere inciampata in un caso isolato e quindi non ha ripensato al proprio comportamento contraccettivo di base. La contraccezione di emergenza sembra dunque un’occasione di educazione alla salute sessuale quando viene prescritta con una adeguata informazione.

La CE, un passo in avanti per le donne. Nonostante il sottoutilizzo della CE, il 72% delle donne ritiene che questo metodo sia un vero passo in avanti per l’universo femminile. Quasi sette donne su dieci (il 69%), credono sia una scelta responsabile per evitare una gravidanza indesiderata e che debba essere considerata come un normale contraccettivo da usare dopo il rapporto sessuale non adeguatamente protetto (il 33%). L’81% è convinto che non ci si debba vergognare di utilizzarla e non debba essere considerato come un argomento tabù. Mentre il 53% delle donne pensa sia la dimostrazione di una mancanza di responsabilità nel modo in cui si gestiscono i propri sistemi contraccettivi.

Nove donne su dieci chiedono più informazioni. Di certo le italiane hanno fame di informazioni: ben il 90% vuole saperne di più. Per questo chiedono al proprio medico e al ginecologo un ruolo più attivo. Il 42% desidera essere informata sull’esistenza della contraccezione di emergenza: come funziona, dove e come assumerla quando necessario. E sempre il 42% vorrebbe ricevere una consulenza che le aiuti a trovare un metodo di contraccezione continua più adeguato. Il 40% desidera che il medico fornisca consigli su cosa fare nel caso in cui si dimenticasse il contraccettivo e sulle situazioni a rischio di gravidanze indesiderate. Il 30% che le assista dopo l’uso del contraccettivo di emergenza per essere rassicurate. Infine il 45% vorrebbe poter ottenere un appuntamento il giorno stesso per un consulto di emergenza. “Dall’indagine emerge che seppure sia ancora molto ridotto l’utilizzo della contraccezione d’emergenza – spiega la dottoressa Nicoletta Orthmann, dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda) – le donne che invece l’hanno assunta comprendono pienamente l’importanza di questa opzione contraccettiva per la tutela della propria salute sessuale e riproduttiva. Dobbiamo tenere conto della loro richiesta di maggiori informazioni, che dovrebbe essere considerata come un’opportunità concreta per parlare di sessualità consapevole, di prevenzione contraccettiva stabile e di pianificazione familiare anche a quelle donne che non hanno fatto una scelta a riguardo. Nel nostro Paese purtroppo manca ancora un progetto organico e strutturato di educazione alla sessualità, alla salute riproduttiva e alla contraccezione”.

Accesso difficile per più di quattro donne su dieci. L’indagine ha infine indagato sulle esperienze vissute dalle donne nel richiedere la CE. Solo poco più della metà delle intervistate ha dichiarato di avere ottenuto il farmaco in modo tutto sommato semplice e in tempi brevi (57%) e appena il 41% ha ricevuto consigli. Mentre una su quattro ha ricevuto la prescrizioni senza alcuna informazione. E ancora, sempre una donna su quattro ha dichiarato di essersi sentita a disagio e persino giudicata o di aver subito una paternale (18%). “Di fronte a questi dati emerge la necessità – sottolinea Orthmann – e in questo senso è cruciale il ruolo del ginecologo quale interlocutore di riferimento, di favorire l’accesso alle donne a uno strumento di prevenzione che da un lato non le esponga a un’eventuale interruzione volontaria di gravidanza e dall’altro abbia il valore aggiunto di farle riflettere e prendere coscienza dei rischi nei quali possono incorrere”.

Abortisce da sola nei bagni dell'ospedale Pertini. I medici erano tutti obiettori di coscienza, scrive “Libero Quotidiano”. Valentina ha abortito nel bagno dell'ospedale Sandro Pertini di Roma tra atroci dolori senza che nessuno dei medici presenti nel reparto muovesse un dito per aiutarla. Il perché è presto detto: in servizio c'erano solo medici obiettori che mentre la giovane donna era piegata in due e vomitava per effetto dei farmaci per interrompere la gravidanza l'unica cosa che sono stati in grado di fare è stata quella di mostrare il Vangelo accusandola di infanticidio lei e suoi marito. Eppure l'aborto di Valentina non era frutto di un capriccio. Lei e il suo compagno Fabrizio avevano scoperto che la bimba che attendevano era affetta da una grave malattia genetica, di cui la madre era portatrice, per cui non c'è una prognosi di sopravvivenza, e ha deciso quindi di interrompere la gravidanza al quinto mese. Il racconto - "Mi sono rivolta la mio ginecologo", racconta la donna in una conferenza stampa organizzata dall'Associazione Cosioni, "il quale, tuttavia, si è rifiutato di farmi ricoverare perchè obiettore di coscienza. Due giorni dopo, sono riuscita a ottenere il ricovero all’ospedale Sandro Pertini. Qui, mi hanno indotto il parto (anche se viene definito aborto terapeutico, di fatto al quinto mese di gravidanza si tratta di un parto vero e proprio), ma il travaglio è durato molte ore e così, al momento del parto vero e proprio, il medico che mi aveva ricoverata (non obiettore di coscienza) non era più di turno e medici e infermieri presenti, tutti obiettori a quanto pare, non sono intervenuti, lasciandomi sola con mio marito che mi ha assistita mentre partorivo nel bagno della stanza. Troppo sconvolti da quello che era accaduto - ha concluso la donna - non abbiamo avuto neanche la forza di denunciare la struttura e gli operatori sanitari". "La legge 194", tuona il segretario dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, "prevede che in tutti i reparti di ostetricia e ginecologia ci siano medici obiettori e non, così da garantire la continuità del servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Dovrebbero essere le Regioni a vigilare sull'applicazione della legge ma i numeri dell’ultima relazione al Parlamento e la bocciatura dell’Italia, da parte del Consiglio d’Europa, per l’eccessivo numero di obiettori di coscienza presenti nelle nostre strutture, ci dicono che non è così". La bocciatura da parte del Consiglio d’Europa, ha ricordato Gallo, è dovuta al fatto che l’elevato numero di obiettori di coscienza rischia di mettere a repentaglio l’applicazione della legge con ripercussioni anche molto gravi.

Roma,"Io, abbandonata in bagno ad abortire". L'accusa di Valentina, affetta da una malattia genetica costretta a ricorrere all'interruzione di gravidanza al quinto mese. "In ospedale erano tutti obiettori". E la donna, complice il cambio turno resta sola, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "Io sognavo un figlio, un bambino che avesse qualche possibilità di una vita normale. Invece mi sono ritrovata ad abortire al quinto mese sola come un cane. Abbandonata in un bagno a partorire il feto morto, con il solo aiuto di mio marito Fabrizio. E tutto questo per colpa di una legge sulla fecondazione ingiusta, di medici obiettori, di uno Stato che non garantisce assistenza". Valentina Magnanti ha 28 anni, minuta e combattiva con un filo di voce racconta la sua storia. Fotografia di un'Italia condannata dall'Europa nei giorni scorsi per violazione della legge sull'aborto, dei diritti delle donne, proprio a causa dei troppi medici obiettori.

Cosa c'entra la legge 40?

"Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l'accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto".

Quando ha deciso di abortire?

"Ci avevamo tanto sperato in quei mesi che il piccolo fosse sano, ne avevamo già perso uno per gravidanza extrauterina. È stato un colpo, ma la malattia è terribile per cui con mio marito Fabrizio abbiamo deciso..."..

E qui comincia la serie dei medici obiettori.

"Scopro che la mia ginecologa lo è, si rifiuta di farmi ricoverare. Riesco dopo vari tentativi ad avere da una ginecologa del Sandro Pertini il foglio del ricovero, dopo due giorni, però, perché soltanto lei non è obiettore".

È il 27 ottobre 2010 quando entra in ospedale.

"Incominciano a farmi la terapia per indurre il parto, a base di candelette, mi dicono che non sentirò nulla. E invece..."

Cosa accade?

"É stato un inferno. Dopo 15 ore di dolori lancinanti, tra conati di vomito e momenti in cui svengo, con mio marito sempre accanto che non sa che fare, che chiama aiuto, che va da medici e infermieri dicendogli di assistermi, senza risultato, partorisco dentro il bagno dell'ospedale. Accanto a me c'è solo Fabrizio".

Medici e infermieri?

"Venivano per le flebo, ma nessuno li ha visti arrivare quando chiamavo aiuto. Nessuno ci ha assistito nel momento peggiore. Forse perché da quando sono entrata a quando ho partorito era cambiato il turno, c'erano solo medici obiettori".

È molto amareggiata.

"Già una arriva in ospedale disperata, perché in quel figlio ci hai creduto e sperato per cinque mesi, poi ti mettono ad abortire a fianco delle neo mamme e senti i bambini piangere, uno strazio. In più, mentre ero lì stravolta dal dolore entravano degli attivisti anti aborto con Vangeli in mano e voci minacciose".

Lei però non ha denunciato.

"Quando è finito tutto non avevo più la forza di fare nulla. L'avvocato parla di omissione di soccorso, io so solo che nessuno deve essere trattato così in un Paese civile. Il responsabile è lo Stato che non garantisce un servizio sanitario adeguato. Nel Lazio quasi tutti i ginecologi sono obiettori. Pensate la desolazione che troppi devono vivere, obbligati a implorare per un ricovero, per abortire, come me, un figlio desiderato".

Adesso il tribunale le dà ragione.

"Almeno sulla legge 40 sì. Mi sono rivolta all'associazione Coscioni e abbiamo fatto ricorso perché anche chi ha malattie genetiche possa accedere alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impanto, perché non ci si debba ritrovare ad abortire al quinto mese. E ora il tribunale, per la seconda volta in due mesi, ha sollevato dubbi di costituzionalità su questo punto della legge. Forse ora anch'io potrò diventare madre".

Aborto al Pertini, Zingaretti: "Verifiche in corso". Ma la Asl si difende: "La coppia fu assistita". La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perchè affetta da una grave malattia genetica trasmissibile ma al Sandro Pertini ha raccontato di essere stata lasciata sola a espellere il feto in un bagno dell'ospedale a causa dell'alto numero di medici obiettori. La Asl: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora e a noi risulta che è stata prontamente seguita", continua “La Repubblica”. "Una vicenda drammatica, su cui vanno avanti verifiche e indagini, anche se i fatti risalgono al 2010". Così il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha commentato la denuncia di una coppia che ha raccontato di essere stata lasciata sola durante un'interruzione volontaria di gravidanza all'ospedale Pertini di Roma a causa dell'alto numero di medici obiettori. Nel Lazio, va ricordato, il 93% dei ginecologi è obiettore di coscienza, su una media nazionale dell'85%. La donna, Valentina Magnanti, era stata costretta ad abortire al quinto mese perché affetta da una grave malattia genetica trasmissibile. Ma ha raccontato che all' ospedale Sandro Pertini dove avrebbe dovuto sottoporsi all'intervento accompagnata dal marito, non ha trovato medici e infermieri pronti ad assisterla nei momento più delicato e per questo l'espulsione indotta del feto sarebbe avvenuta in solitudine in un bagno del nosocomio. Il marito chiamava i sanitari e questi rispondevano "veniano, veniamo", ma nessuno si presentava. L'Asl Roma B, dal quale dipende l'ospedale Sandro Pertini, ha diffuso però una sua versione dei fatti: "La signora - afferma l'Asl - fu seguita dal personale che ha l'obbligo dell'assistenza anche nel caso di obiezione di coscienza. Nel caso specifico due medici non obiettori che fanno parte dell'équipe istituzionalmente preposta all'Ivg". E, aggiunge la nota: "Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora Valentina e a noi risulta che è stata prontamente assistita ed avviata alla sala parto per il 'secondamento' (l'espulsione della placenta) e per le successive procedure previste nel post parto". Ma, secondo il racconto della coppia che comunque poi decise di non presentare una regolare denuncia, più volte nelle fasi più delicate avrebbero inutilmente chiesto assistenza. Intanto la Regione, ha affermato Zingaretti, "da due mesi" ha avviato dei "tavoli tecnici sui consultori, sul Progetto nascita e la tutela della 194, come grande opportunità di prevenzione e sostegno alla donna, che non sempre, come abbiamo visto, per colpa di tante disattenzioni, è a livelli civili nel Lazio". "Fra pochi giorni presenteremo - ha aggiunto Zingaretti - le linee guida uscite da questi tavoli per il rilancio della 194 della funzione preventiva e di presenza di consultori e vedere come affrontare questo tema, di effettiva garanzia dell'offerta di un servizio che come abbiamo visto non sempre è tale". A chi gli chiedeva se la Regione avrebbe attivato un'indagine sul caso, il governatore ha spiegato: "E' un fatto drammatico avvenuto alcuni anni fa ma siamo a lavoro e siamo pronti a proporre una via d'uscita, una soluzione a questo grave problema. Adesso la cosa più importante è evitare che questa condizione limiti in forma sostanziale l'applicazione della legge".

Legge 194: una storia, scrive Maria Grazia Colombari il 22 maggio 2018 su “Il Corriere della Sera”. Antonina Vitale aveva già dei figli scoprì di essere nuovamente incinta. Non potendo permettersi un altro figlio si rivolse alla sua ostetrica che le procurò in modo clandestino l’aborto. Le conseguenze furono drammatiche: non solo rischiò seriamente la vita ma lei e l’ostetrica, accusata di procurato aborto, furono incarcerate per due anni.

L’aborto infatti negli anni 60 era vietato e considerato reato contro la morale e la stirpe, secondo il Codice Rocco del 1930 che rimarrà in vigore sino alla legge 194 del 1978.

Nel 1973 Loris Fortuna poneva l’accento sul tema aborto; in Italia c’ era il centro di informazione su sterilizzazione e aborto (CISA) e venivano organizzati pullman per portare le donne a Londra ad abortire.

Nel 1975, 20mila donne scendevano in piazza per chiedere un’interruzione di gravidanza libera, gratuita ed assistita.

Ma sarà la tragedia di Seveso del 77 a focalizzare l’attenzione sull’aborto in quanto lo scoppio della centrale nucleare avrebbe potuto procurare seri danni ai nascituri.

Così con 170 voti a favore e 148 contrari, il 18 maggio 1978 si approva la legge 194: in Italia l’aborto non è più un reato!

L’Italia cattolica ha un sussulto e a 6 giorni dall’approvazione arriva la condanna di Paolo VI che sostiene l’illegittimità dell’aborto; non solo ma nel 1982 il Papa ribadirà che è immorale l’uso degli anticoncezionali.

Il 17/18 maggio del 1981 vengono proposti due referendum: uno da parte del Movimento della Vita che chiede l’abolizione della 194 e l’altro da parte dei Radicali di Pannella e Bonino che vogliono una riscrittura più ampia della legge e permettere che siano aumentate le strutture dove si pratica l’aborto. Entrambi non superano il quorum e non vengono approvati. Dunque la legge 194 non viene cancellata.

L’interruzione di gravidanza è un tema di scottante attualità perché in Irlanda l’aborto è ancora illegale e secondo i dati ufficiali sono circa ogni anno 3.500 le donne che vanno in Gran Bretagna per abortire, con una spesa decisamente alta 2mila sterline Ma sono numericamente di più quelle che comprano online le pillole abortive che sono ovviamente illegali. L’interruzione di gravidanza è consentita solo c’è rischio per la vita della donna. Per chi pratica aborti clandestini sono aperte le carceri. In Irlanda il prossimo 25 maggio ci sarà il referendum esattamente come successe in Italia nel 1981. C’è una forte mobilitazione e si parla per il momento di 160 mila donne irlandesi pronte a manifestare nelle piazze per legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza. In Italia secondo i dati Istat grazie alla legge 194, ai consultori e alle pillole del giorno dopo, gli aborti sono calati: nel 2016 erano 84 mila a fronte dei 254.mila circa degli anni 80. Per rendere più efficace la 194 si dovrebbe tuttavia modificare l’art.9 che permette ai medici obbiettori d coscienza di non praticare l’aborto. Perché se è legittimo questo articolo tuttavia quel tipo di scelta non può inficiare il beneficio. Nelle relazioni del ministero della salute i risulta che in molte regioni sia difficile abortire per la presenza considerevole di medici obiettori. Nel Molise è obiettore di coscienza il 93,3% dei ginecologi, il 92,9% nella PA di Bolzano, il 90,2% in Basilicata, l’87,6% in Sicilia, l’86,1% in Puglia, l’81,8% in Campania, l’80,7% nel Lazio e in Abruzzo. E gli obbiettori stanno aumentando … Speriamo che alle irlandesi venga risparmiato l’art.9…Aristotele sosteneva che proprietario dell’embrione era il padre e solo lui poteva decidere su eventuale aborto! Ci sono voluti tantissimi secoli perché questa maschilista affermazione venisse sconfessata dalla scienza medica. Teniamo puntati i riflettori sul referendum irlandese.

QUARANT’ANNI DOPO LA 194. Giù le mani dall'aborto. Una grande battaglia civile. Vinta con una buona legge. Il numero è in calo. Ma ancor oggi per tante donne è una drammatica lotteria. Tra interventi clandestini, false obiezioni di coscienza e pillole d’emergenza trovate on line, scrive Susanna Turco il 14 maggio 2018 su "L'Espresso". Era una «tragedia italiana», è stata una battaglia collettiva, simbolica, epocale. Una rivoluzione. «Imperfetta ma riuscita», come ha detto il medico e scrittore Carlo Flamigni. Dove è finita, quarant’anni dopo, la legge 194? Dirlo fuori dai cliché è difficilissimo. «Qualche tempo fa eravamo stati chiamati dagli studenti di un liceo di Roma, per discutere Mina Welby del fine vita e io di aborto. Mentre parlava lei i ragazzi erano affascinati, quando è venuto il mio turno erano, invece, distratti. Come se, sotto sotto, si domandassero: questo non è un problema, perché ti riscaldi tanto? Ma che cosa vuoi?». Mirella Parachini, ginecologa pioniera della 194 e attivista radicale, racconta così, con franchezza e ironia, l’ultima frontiera, il punto in cui la ruota si è fermata, per adesso almeno. Per i liceali del 2018, del resto, la legge che rende le donne libere di scegliere sull’interruzione di gravidanza è ancora più lontana di quanto non fosse, per i liceali del 1978, il diritto di voto femminile. Un frammento delle cronache dell’epoca aiuta a misurare i passi: «Per noi l’autodeterminazione della donna, ormai, è diventata un principio intoccabile», proclamava alla Camera, in piena trattativa sulla legge, D’Alema a Ciriaco De Mita. Ma era D’Alema nel senso di Giuseppe, il padre di Massimo.

Da quell’«ormai» sono passati quarant’anni. Dal milione e mezzo di aborti clandestini stimati dall’Unesco per l’Italia dei primi anni Settanta, e gli 84 mila effettuati nel 2016 secondo legge, i termini della questione si sono fatti «più sottili». Tra l’applicazione a macchia di leopardo, che in alcune regioni d’Italia muta il diritto «in una drammatica lotteria», come dice Stefania Cantore dell’Unione donne in Italia parlando della situazione difficile di Napoli e Campania, i toni spesso a torto pimpanti delle relazioni ministeriali, le campagne violente da parte degli anti-abortisti, che si sono preparati all’anniversario affiggendo a Roma il cartellone con il feto più grande che la storia ricordi. In mezzo a tutto ciò, si viaggia anche su altri canali di un diritto acquisito. Che va difeso “Per non tornare nel buio” come recita il recente libro di Livia Turco: ricordando, come dice Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, che «la 194 tutela la salute delle donne, che quindi renderla inapplicabile significa volerle colpire»; o lottando per migliorare, con una maggior diffusione dei farmaci, o per la contraccezione gratuita. Ma senza tralasciare il dato di fondo: la legge funziona, nonostante molte criticità.  «Ci sono cose che non vanno, ma non bisogna fermarsi alla lamentela. Se guardo indietro, benedico una legge che è servita a portare avanti la libertà delle donne di scegliere su se stesse», dice ancora Parachini. Un diritto conquistato e in parte svuotato. Non solo per le difficoltà di accesso: anche perché, come racconta uno studio Istat elaborato in occasione dei 40 anni della 194, in Italia si fanno meno figli e in età più avanzata, è entrata in gioco la contraccezione d’emergenza (enorme la crescita di questi anni), e tra bassi tassi di fecondità e bassi tassi di aborti (tra i più esigui dei paesi occidentali), la questione si è spostata, è andata da un’altra parte.

Molise, il caso limite. Saltano all’occhio, ad esempio, i dati raccolti per L’Espresso un sondaggio secondo il quale il 90 per cento dei ragazzi interpellati, età compresa tra i 15 e i 18 anni, non è mai entrato in un consultorio; solo il 6 per cento crede che funzionino; soltanto il 4 andrebbe lì a parlare di una eventuale gravidanza. Fotografia di un fallimento. Ben oltre la realtà di una rete che ha sempre faticato ad avviarsi. La 194, in effetti, faceva dei consultori una pietra angolare del contatto con le donne, il primo punto di riferimento, dall’educazione alla contraccezione al rilascio del certificato per abortire. Un ruolo mai davvero sviluppato. Nel 1980 c’erano 917 consultori - nessuno in Molise, quattro in Sicilia. In trentasei anni se ne sono aggiunti appena mille. Nell’ultima relazione del ministero della Sanità, infatti, i consultori censiti risultano 1.944 (4 in Molise), pari a un tasso dello 0,6 per ventimila abitanti (per legge quel tasso dovrebbe essere 1, cioè quasi il doppio). «È chiaro che i ragazzi non frequentano i consultori, è un dato di evidenza: perché non li conoscono», spiega Anna Pompili, cofondatrice di Amica (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto): «Ormai i consultori non riescono più ad andare nelle scuole. Sono ridotti a fare le veci degli ambulatori. Hanno equipe ridotte all’osso, non si riesce a gestire nemmeno l’ordinario».

La realtà è lontana anche dalle statistiche: «I dati ministeriali non la fotografano. Nella regione Lazio, ad esempio, sotto la voce “consultori” ci sono anche centri vaccinali, per disabili, di psichiatria infantile. A Milano, su 33 consultori, 12 sono privati e, di questi, 10 sono confessionali. Come può parlare di contraccezione il consultorio Massimiliano Kolbe? Al massimo, se va bene, parla di metodi naturali e della loro straordinaria efficacia», dice Pompili. Che porta un altro esempio: «Ho lavorato al consultorio di Cesano di Roma, una frazione importante, più di 10 mila abitanti e tante donne immigrate. In poco tempo sono andate in pensione, progressivamente: assistente sociale, ostetrica, psicologa. Alla fine eravamo rimaste in due ginecologhe con una infermiera. La Asl ci ha spostato ad altri consultori: ufficialmente però quello di Cesano resta aperto, c’è una infermiera due volte a settimana che risponde alle telefonate. E una ginecologa che va a fare i pap test ogni tanto». Sempre nel Lazio, la consulta dei consultori nel 2014 ha fatto una indagine, dalla quale risultava poco più della metà dei consultori avevano equipe mediche complete, e nella grande maggioranza dei casi i locali riuscivano a restare aperti due giorni su sette. La stessa relazione del ministero della Salute, in effetti, non nasconde la problematica di una «non adeguata presenza sul territorio». Che è alla base anche della scarsa diffusione dei metodi contraccettivi tra i giovani, un punto sul quale l’Italia continua a non brillare a paragone con il resto d’Europa.

Benedette pillole. Calano gli aborti: ogni anno sono un po’ meno, sulla serie lunga dagli oltre 200 mila della fine dei Settanta, fino agli 84 mila del 2016. Ovviamente anche perché cambiano gli stili di vita. Di questi anni è ad esempio il boom della contraccezione d’emergenza. Con l’entrata in commercio della pillola dei cinque giorni dopo (2012) e l’abolizione dell’obbligo di ricetta le vendite si sono moltiplicate: secondo i dati Aifa, la distribuzione della pillola dei cinque giorni dopo è schizzata dalle quasi 7,7 mila confezioni del 2012, alle 189 mila del 2016; e quella della Norlevo, nota come “pillola del giorno dopo”, nel 2016 ha registrato un dato di vendita pari a 214,532 confezioni, in aumento rispetto al 2015 in cui registrava 161,888 confezioni distribuite. Il che porta dritti alla domanda: «Visto che proprio per le giovanissime, negli ultimi anni, la percentuale di aborti non è calata, perché non rendere più facile l’accesso a questi farmaci anche per le minorenni?», dice Parachini.

Il buco nero del sommerso. I dati sono comunque in discesa. Non solo tra le italiane. Ma anche tra le immigrate, che rappresentano circa un terzo delle interruzioni totali, ma il cui tasso di abortività è in calo da qualche tempo. Tutto a posto dunque? Fino a un certo punto. «In ospedale poco tempo fa c’erano tante nigeriane, che improvvisamente sono tutte scomparse», racconta Pompili: «Il ministero si rallegra per il calo, ma non si domanda dove siano finite, quelle nigeriane. Oltre a sbandierare che siamo sotto i centomila aborti l’anno, si dovrebbe domandare se queste donne abbiano improvvisamente smesso di abortire, o se magari siano andate altrove», nota Pompili. Il sospetto, non riscontrabile in dati, è che in parte il fenomeno ritorni nel privato, fuorilegge, in casa, tra le mura. Non più mammane e ferri da calza, certo. La contemporaneità porta strumenti che prima non c’erano: il web e i farmaci. Via internet si ricava qualsiasi informazione, comprese tutte quelle necessarie ad abortire. Si può sapere a chi rivolgersi per ottenere ricette e certificati, si può trovare un qualsiasi aiuto e ogni genere di istruzione, ci si può anche procurare i farmaci necessari ad abortire. Una procedura più rischiosa, oltreché illegale: ma rendere difficili gli aborti spinge anche in quella direzione. Verso il Cytotec, ad esempio, un farmaco che una volta serviva per le ulcere gastriche. Così, in ospedale ci si finisce d’urgenza. Quanto ai numeri, difficile quantificare i fuorilegge. Il ministero della Salute pubblica i dati Istat derivati da un modello statistico, che peraltro è invariato da anni. Secondo questi studi, a situarsi fuori dalla legge sono tra i 12 e i 15 mila aborti l’anno, più 3-5 mila delle straniere. Come racconta Filomena Gallo, però, i segnali concreti di questo fenomeno da una parte ci sono, dall’altra sono pochi. La relazione annuale del ministero della Giustizia (anche in via Arenula devono dire ogni anno come sta andando la 194 dal loro punto di vista) segnala che nel 2016 ci sono stati 33 procedimenti penali per violazione della 194, con 42 persone coinvolte. Troppo poche, in rapporto ai 20 mila stimati dall’Istat. Una esiguità che peraltro lo stesso rapporto del ministero della Giustizia sottolinea: quasi fosse una buona notizia, quando invece si tratta del segno di un mistero. Ma allora, come tornano i conti? Ci sono solo piccolissimi segnali che indicano direzioni possibili. Ad esempio Women on web, un’organizzazione digitale “per il diritto all’aborto” con sede ad Amsterdam, invia per posta, a chiunque ne faccia richiesta, la combinazione di misoprostolo e mifepristone (le due pillole per l’aborto farmacologico) nei Paesi dove la pratica o è illegale o è inaccessibile: ebbene, secondo dati non ufficiali, le italiane li cercano sempre di più: 28 donne nel 2013, 53 nel 2014, 278 nel 2015, fino alle 474 del 2017. I numeri sono relativi, il trend però chiarissimo. Se questi sono i dati di chi sostiene la libera scelta della donna senza fini di lucro, c’è solo da supporre cosa possa accadere nei vasti mondi in cui il guadagno c’entra eccome. Per lo meno, significa che qualcosa non funziona, più di quanto le esultanze ministeriali non dicano. In Italia del resto l’aborto farmacologico stenta a decollare: entrato in commercio nel 2009, in meno di dieci anni è passato dallo 0,7 al quasi 16 per cento del totale degli aborti. Una crescita veloce, che però è scarsissima, rispetto agli altri paesi in cui è consentito l’utilizzo della Ru486. «Tutti gli altri paesi europei sono sopra il 50 per cento», spiega Anna Pompili. Ci sono limitazioni oggettive, nel nostro Paese, che potrebbero essere superate. Ad esempio, nonostante la commercializzazione sia avvenuta attraverso il meccanismo del mutuo riconoscimento, l’Aifa ha stabilito che le italiane possono utilizzare la Ru486 fino alle sette settimane (49 giorni) mentre negli altri paesi europei il limite è più ampio e arriva a 63 giorni e le ultime raccomandazioni della Fda allargano il regime a settanta giorni, raccomandando che la somministrazione avvenga in casa. Da noi invece nella maggior parte delle regioni è ancora necessario il ricovero ospedaliero di tre giorni. Altro che casa. «Gli stessi farmaci servono per gli aborti spontanei: ma in quei casi, sempre secondo Aifa, possono essere somministrati in ambulatorio. Invece se si tratta di aborti volontari, no», dice Pompili.

Dove il diritto non esiste. Ovviamente, come racconta chi se ne occupa, se si affermasse l’aborto farmacologico sarebbero superati due dei limiti più gravi nell’applicazione della 194: l’obiezione di coscienza dei singoli medici e delle intere strutture ospedaliere. L’ultimo elemento, fa si che la 194 sia garantita, di fatto in poco più di metà delle strutture (si sfiora giusto adesso il 60 per cento): in teoria, invece, dovrebbe essere il cento per cento. Parachini è lineare: «La legge lo dice benissimo. L’ente ospedaliero è tenuto in ogni caso, in ogni caso ad assicurare l’espletamento. L’espletamento, non il trasferimento». In pratica, infatti, tutto ciò significa che per interrompere la gravidanza è necessario spostarsi. Di provincia o di regione. Anche in questo caso i dati del ministero sbiadiscono il fenomeno, perché pubblicano i dati su base regionale. Ma già se, grazie all’Istat si scende a livello di provincia, il discorso è un po’ più chiaro: città come Isernia, Crotone, Frosinone o Fermo totalizzano zero aborti. Là è impossibile interrompere la gravidanza. Le centinaia di donne che ne hanno avuto necessità, sono emigrate per lo meno nella provincia più vicina. Quando non fuori regione. Accade anche l’inverso, come racconta ad esempio il caso di Petralia Sottana, tremila abitanti e almeno 300 donne che ogni anno arrivano da fuori per fare gli interventi di interruzione di gravidanza, in una regione dove l’obiezione supera l’86 per cento. Gli ostacoli che si incontrano sulla strada dell’interruzione non sono tutti visibili al primo colpo d’occhio. L’ultimo emerso in ordine di tempo è quello di Napoli dove, certificato da una inchiesta del Mattino, è saltato fuori che il Pertini accetta fino a sette persone al giorno, e il Cardarelli fino a quattro il martedì e il giovedì. In una regione dove da anni non si riesce a quantificare quanti siano gli obiettori di coscienza. Gli ultimi dati, del 2013 e comunque parziali, parlano dell’81,8 per cento dei ginecologi. È proprio l’obiezione a restare l’aspetto più critico di tutti. Percentuali altissime, picchi che sfiorano il 90 per cento, come in Basilicata, o casi da fiction, come il caso di un unico “non obiettore” in tutto il Molise. Il tema si è posto fin dall’inizio. Già nel 1980 gli obiettori erano il 70 per cento della popolazione medica. E, nonostante la vertiginosa discesa del numero di aborti, la situazione non accenna a migliorare, anzi. Il numero dei “non obiettori” continua a calare: un po’ perché molti raggiungono l’età della pensione, come ha segnalato la Laiga già tre anni fa, un po’ perché la prevalenza di medici obiettori ai vertici di ospedali e università non incentiva certo a prendere quella strada. Nel 2016, al congresso Fiapac di Lisbona sono stati presentati i risultati di un questionario sottoposto agli specializzandi in ginecologia delle università romane. Ebbene, un medico su tre aveva una conoscenza «insufficiente» della 194 e solo il 15 per cento si era occupato di interruzione volontaria, contro il 74 per cento che invece aveva affrontato gli aborti spontanei. Senza formazione, è difficile poi spingersi a scegliere quelle strade.

Idea: cambiare i concorsi. Ma come mai, anno dopo anno, il ministero certifica che «non ci sono particolari criticità nell’erogazione del servizio di Ivg», mentre invece dalle realtà locali arrivano notizie talvolta drammatiche? Silvana Agatone, presidente di Laiga, spiega: «Per arrivare ai dati che diffonde il ministero, ogni anno noi medici riempiamo una scheda, un foglio per ogni aborto. Accade che, se io vado in pensione, non faccio più schede. La ministra Lorenzin dirà: bene, sono calati gli aborti. Fa ridere? È questo quel che accade: non ci sono rilevazioni sulla richiesta di interrompere la gravidanza, ma solo sugli aborti effettuati. Se, ad esempio, il San Camillo di Roma riesce a offrire dieci posti al giorno ma la richiesta è di trenta, delle donne che restano fuori nessuno sa nulla, al ministero non arriva. A Trapani c’era un “non obiettore”. Faceva ottanta interruzioni al mese. È andato in pensione: non si sono fatti ottanta aborti. Domanda: dove sono finite le donne che non hanno potuto abortire a Trapani?». Invece, nessuno lo chiede: quando diminuisce l’offerta magicamente sembra diminuire anche la domanda. Chiosa di Parachini: «Al che, la ministra fa una cosa geniale. Prende il numero degli aborti, prende il numero degli obiettori, fa la divisione e conclude: ammazza, i “non obiettori” avanzano. La verità è che si tratta di un calcolo demenziale». Se è per questo, c’è chi l’obiezione vorrebbe toglierla del tutto. E chi pensa che i due diritti possano continuare a convivere. Ma, spiega Filomena Gallo, comunque «servirebbe una legge per disciplinare l’obiezione di coscienza, magari per impiegare in modo diverso chi fa quella scelta. Servirebbe anche un albo pubblico dei medici obiettori, cosicché le donne possano scegliere da chi farsi seguire, e la garanzia dei concorsi divisi a metà: cinquanta per cento dei posti per gli obiettori, l’altro cinquanta per i non obiettori». Proprio attorno a questo tema si muovevano le (poche) proposte di legge per modificare la 194 nell’ultima legislatura: avanzate, in termini diversi, da sinistra, Forza Italia e Cinque stelle. Non che gli attacchi alla 194 siano finiti. Anche se siamo lontani dall’epoca in cui Giuliano Ferrara chiedeva «la moratoria», le associazioni degli integralisti dell’antiaborto non hanno perso vigore. L’iniziativa più recente è quella di Pro-vita onlus, che si è appoggiata ai senatori di Lega e Fratelli d’Italia per promuovere, anche dalle aule del Senato, una campagna in cui chiede al ministero della Salute di diffondere fantomatiche informazioni «relative ai danni che l’aborto può causare alla salute delle donne». Ed è già alle viste un convegno sulla denatalità e un corteo anti-aborto. Buon anniversario, legge 194.

Aborto, quella copertina de L'Espresso. Era il 10 gennaio del 1975. L'Espresso mise in copertina una donna incinta messa in croce. Il numero fu sequestrato per “vilipendio” alla religione e il direttore dell'epoca, Livio Zanetti venne denunciato, scrive il 27 dicembre 2011 "L'Espresso". Chi era la ragazza coraggiosa messa in croce? In croce come Gesù, e però femmina, incinta e nuda. Drammatica, con quella luce livida, e insieme dolce. La chioma nera che scende sul petto pallido, la morbida curva del ventre teso dalla gravidanza, le braccia snelle, l’ombra scura del pube. Era la copertina dell’“Espresso” del  gennaio 1975, e fece un putiferio, tra governo Moro, mondo cattolico, gerarchie vaticane. Il titolo era “Aborto: Una tragedia italiana”. E fu l’inizio, in un’Italia clericale arretrata sul piano del costume e dei diritti, di una grande campagna di civiltà: il diritto delle donne a fuggire l’aborto clandestino, a non dover commettere un reato penale, a vedersi riconosciuta la sovranità sul proprio corpo. Non si dimentichi che, durante la battaglia per l’aborto sicuro, il segretario del Partito radicale Spadaccia era stato arrestato, la polizia caricava i cortei e perquisiva le redazioni, il segretario Dc Amintore Fanfani chiedeva atti di censura su stampa e cinema. La campagna culminò con la legge 194 del 1978 che legalizzò l’aborto, e il referendum dell’81 che lo difese con successo dagli attacchi dell’Ancien régime. Preistoria? Quasi. Non c’era Photoshop, nel 1975. Era tutto vero. Vera la modella incinta e dolente, scelta dal fotografo Dante Vacchi, un satanasso che aveva seguito la guerra d’Algeria per “Paris-Match”. Vera la tempesta politica provocata da Livio Zanetti direttore e Franco Lefèvre editor fotografico: seminato coraggio, raccolta tempesta. La campagna contro l’aborto clandestino fu, come quella per il divorzio, un pilastro del battagliero “Espresso” anni Settanta, e quella copertina, con la sua forza iconica (poi ripresa, variata, citata in campagne femministe, nella fotografia d’arte, nella performance) entrò nella storia del giornalismo d’inchiesta e di denuncia.

Utero mio non ti conosco: cosa pensano (e non sanno) i giovani dell'aborto. Scarsa consapevolezza e educazione sessuale. Unico aiuto: la Rete.  E un quarto dice no all’aborto. Abbiamo posto 10 domande a 1500 ragazzi under 18. Ecco cosa hanno risposto, scrive Elena Testi il 9 maggio 2018 su "L'Espresso". Le domande si diffondono tramite un messaggio WhatsApp. I ragazzi aprono il link e compilano. Magari vacillano un po’ di fronte alla dicitura “legge 194” - «che roba è?» - ma una volta compreso che i quesiti riguardano l’interruzione di gravidanza, i dieci interrogativi si diffondono con un passaparola via chat. Da nord a sud, in dieci giorni, al sondaggio proposto in forma anonima dall’Espresso aderiscono 1.500 ragazzi con un’età compresa fra i 15 ed i 18 anni: il 64,1 percento sono femmine, il 35.9 sono maschi. Sono passati 40 anni da quando le adolescenti scendevano in piazza mostrando cartelli con su scritto “l’utero è mio e lo gestisco io”. E molte cose sono cambiate. In meglio, se parliamo di diritti, di leggi, di pillole d’emergenza. Ma anche in peggio, se parliamo di consapevolezza “politica”, conoscenza del problema, dialogo per affrontarlo. Dalle 1.500 risposte, ad esempio, emerge una generazione spaccata: il 58,5 si dice favorevole alla libertà di interrompere la gravidanza mentre il 25,6 è contrario e il 15.9 non ha alcuna opinione in merito. Con differenze geografiche forti e inquietanti: al sud la maggior parte degli intervistati sono contrari, al nord molti si dicono favorevoli ma vedono l’interruzione di gravidanza come «un diritto ormai acquisito e per questo scontato». Dei contrari, il 45,2 per cento si dice tale «per motivi etici», il 40,8 «per motivi personali» mentre il 14 percento «per motivi religiosi». Non tutti sono così, s’intende. Specie nelle grandi città. In un liceo alle porte di Roma, c’è Chiara che ha lo zainetto calato su una spalla, il braccio destro stringe il vocabolario di latino: «È giorno di versione», dice ansiosa. Non ha ancora diciotto anni ma il sesso non le è certo sconosciuto, come del resto per quasi tutte le sue compagne di liceo. Insieme a lei ci sono due ragazze: una è appena maggiorenne, l’altra frequenta la sua stessa classe. «Per me l’aborto è un diritto essenziale», dice una. «Alla fine il corpo è tuo e per quanto il figlio sia di entrambi, quella che deve fare la parte difficile è la donna». Al trio si aggiunge un’altra adolescente dello stesso liceo: «Io conosco una ragazza che ha deciso di non tenere il bambino, penso che alla fine abbia fatto bene perché a 16 anni non abbiamo la maturità per crescere un figlio». Prevale la volontà di continuare con gli studi, di considerare la gravidanza un ostacolo troppo grande per il proprio percorso di vita: sono questi i principali motivi che spingono un adolescente a voler abortire. «Ma c’è chi», dice una di loro, «invece decide di proseguire perché non vuole mettere fine a una vita”. In Italia i dati sono chiari: siamo il paese europeo con il minor numero di aborti tra i giovani. L’ultimo report pubblicato dal Ministero della Salute e datato 2016 parla di «2.596 interruzioni di gravidanza tra giovani che non hanno ancora compiuto 18 anni, con livelli più elevati nell’Italia centrale». È invece in crescita costante il cosiddetto fenomeno delle “baby mamme”, giovani che partoriscono tra i 15 ed i 20 anni: in base agli ultimi numeri pubblicati si parla di più di 20 mila madri minorenni nel nostro Paese. Tra gli adulti del domani c’è chi addossa la colpa proprio ai limiti della legge 194: l’aborto senza il consenso dei genitori passa attraverso l’approvazione del giudice tutelare che entro cinque giorni, come previsto dall’articolo 12, valuta la situazione e concede o meno alla minorenne la possibilità al trattamento chirurgico. Molti non conoscono la procedura e di fronte alla parola “giudice” restano interdetti. Una ragazza si infiamma: «Credo sia una decisione da prendere senza chiedere il permesso dell’autorità giudiziaria, perché si tratta di una questione personale, a maggior ragione se riguarda un minore, che ha tutti i diritti del mondo di decidere di rifiutare una gravidanza». Un’altra chiede invece «un adeguato supporto psicologico per chi è intenzionato ad abortire, in modo che possa essere il più informato e consapevole sulla questione». Sembra incredibile ma ancora nel 2018 nella scuola italiana l’insegnamento all’affettività e al sesso viene concepito come un argomento scottante, difficile, che è meglio appaltare alle famiglie, almeno stando ai risultati del sondaggio: per il 68.3 per cento l’educazione sessuale non entra in classe perché «è vista dalle istituzioni come un tabù» e solo il 39 per cento afferma di avere appreso tra i banchi di scuola l’uso dei contraccettivi. Se si va oltre la superficie si scopre che spesso, anche quando c’è, l’educazione sessuale consiste in una sola lezione in tutti i cinque anni della scuola superiore. Uno studente di un liceo classico di Lodi accusa: «I progetti sono di poche ore e spesso decisamente parziali. Spiegare la sfera della sessualità è un percorso lungo, non ci si può limitare a mostrare quali sono i metodi contraccettivi». Si aggiunge una ragazza di Perugia: «La preside del nostro liceo aveva iniziato un percorso, ma questo si è interrotto dopo che alcuni genitori hanno protesto, ritenendo inopportuno che a scuole si insegnassero “certe cose”». Nel rapporto “Policies for sexuality education in the european union”, pubblicato dal Dipartimento Direzione generale per le politiche interne del Parlamento Ue, si scopre che l’Italia è uno dei sette paesi dove l’insegnamento all’educazione sessuale non è obbligatorio per legge: «Colpa», si legge nel documento, «dell’opposizione della Chiesa cattolica e di alcuni gruppi politici». Nel 1991 (cioè 27 anni fa!) il Parlamento tentò la svolta con un disegno di legge che introduceva l’insegnamento all’affettività con un modulo specifico durante le ore di biologia, ma la proposta naufragò e da allora nessuno ha più posto il problema. Sicché a portare l’educazione all’affettività nella scuole, a volte, sono gli stessi studenti: come nel caso della Rete degli Studenti Medi che durante alcune assemblee d’istituto, organizzate in varie scuole italiane, ha invitato degli esperti per parlare con i ragazzi, consapevoli del fatto che - se il rapporto con i genitori non è solido e il senso di vergogna prende il sopravvento - per molti non resta che il web. Già: i forum pullulano di richieste d’aiuto di adolescenti allarmati che chiedono cosa devono fare in caso di gravidanza. Una ragazza spiega: «Internet mi dà la possibilità di trovare le informazioni necessarie che non sarebbero reperibili altrove. Naturalmente trovare siti e fonti affidabili non è facile, ma si riesce». Un’altra aggiunge: «Dal momento che nelle famiglie si discute poco di questi argomenti, può capitare che qualcuno preferisca cercare soluzioni sul web a problemi imbarazzanti». Così accade che “dottor Google” prenda il posto dei consultori, spariti dalla vista. Solo il 9,7 per cento dei ragazzi riferisce di avere varcato la soglia di un consultorio almeno una volta e solo per il 6,3 per cento «i consultori funzionano». Quasi un ragazzo su due nemmeno sa rispondere alla domanda. Uno studente di Catanzaro dichiara di non sapere neanche se nella sua città esistono o meno; una ragazza di Roma dice di conoscere pochissime coetanee che hanno deciso di rivolgersi a «uno di quei centri per risolvere un problema». Le risposte al sondaggio sembrano confermare: alla domanda «in caso di gravidanza a chi ti rivolgeresti?» solo il 4 per cento pensa che andrebbe in un consultorio. Una sconfitta pesante per loro ma anche per la generazione precedente: quella che tanto ha lottato per il diritto di averli e di farli funzionare.

Aborto, come arrangiarsi nell’Italia degli obiettori. È una questione di fortuna: dipende da dove abiti, dai dottori che incontri, dalla disponibilità del servizio quel giorno. A volte ci si deve affidare a metodi non ufficiali, scrive Susanna Turco il 16 ottobre 2017 su "L'Espresso". Quando un lunedì all’alba, nella sala d’attesa dell’ambulatorio, dicono a Maria - nome di fantasia - che magari può provare a chiedere una pillola per abortire, invece di fare l’intervento di aspirazione (il «tubo grosso così», lo chiamano le donne in attesa senza complimenti), lei allarga gli occhi per la sorpresa come di fronte a una rivelazione rivoluzionaria. Una pillola?, domanda. Stenta a credere, tace. Non ne ha mai sentito parlare. Le sembra strano. E d’istinto ritiene di non averne diritto. Maria ha 39 anni, non è italiana ma sta nel nostro Paese da venti, vive in un paesino in provincia di Roma. Ha un mutuo, tre figli che studiano, pensa a tutto lei. Un quarto bambino proprio non se lo può permettere. Così ha preso un treno la mattina presto, senza dire niente. È integrata, Maria, tanto da sapere che al San Camillo, a Roma, c’è un posto che fa per lei. Prima era uno dei due ospedali, insieme col San Filippo Neri; uno dei sei, adesso, a dare a Roma la Ru486. Il seminterrato dall’apparenza abbastanza infame del reparto di Ostetricia e Ginecologia - sopra le nascite, sotto le interruzioni - dove da decenni la intrattabile e appassionata dottoressa Giovanna Scassellati protesta, non fa carriera, non fa altro che aborti. E ci crede, persino. Lo raccontano i fogli attaccati al vetro con lo scotch, scritti grandi in modo che siano visibili all’esterno, anche quando è tutto chiuso: «L’ambulatorio apre tutti i giorni alle otto, dal lunedì al venerdì. Presentarsi un quarto d’ora/venti minuti prima». E poi: «Servono fotocopie di un documento e della tessera sanitaria: NON SCADUTI», in maiuscolo. Ancora: «Contraccezione d’emergenza: le maggiorenni possono richiederla in farmacia senza ricetta». Senza ricetta è sottolineato: anni di battaglie per quel foglio, per quella sottolineatura. Ecco perché non è che in Italia sia tutto buio, no. È a sprazzi di luce, tra vortici di inferno nero. Insopportabile e ingiusto mix tra l’una e l’altra cosa. Dipende da dove vivi, dipende a chi chiedi. Un filo logico non c’è. Lo racconta ogni anno la relazione sullo stato di attuazione della legge 194, un ridicolo far le medie tra inferno e luce, per raccontare con sollievo fuori luogo una coerenza che invece nella realtà non si ritrova da nessuna parte. Come quando nella relazione si scrive con disinvoltura, parlando dell’obiezione di coscienza, che «in particolare emerge che le interruzioni volontarie di gravidanza vengono effettuate nel 59,6 delle strutture disponibili» – quasi che il restante 40,4 per cento delle strutture disponibili sia percentuale trascurabile, dove magari ci si astenga dal fare aborti per mero caso, per eleganza. Oppure, quando si sostiene che i non obiettori sono «in numero congruo» perché «considerando 44 settimane lavorative in un anno, a livello nazionale ogni non obiettore effettua 1,6 interruzioni a settimana, un valore medio tra il minimo di 0,4 della Val d’Aosta e il massimo di 4,7 del Molise» Quando è chiaro, chi attraversa questi mondi lo sa, che il tema non è mai il numero medio: è la disponibilità specifica, di quel giorno o di quella settimana, in un certo ospedale. E se il medico non obiettore è uno solo, la realtà che gli sta intorno segue i suoi ritmi, anche vitali. È cronaca, del resto. Come quel ginecologo di Bari: lui andò in ferie, il servizio di somministrazione della Ru486 e relativo numero verde vennero sospesi per tutto il periodo. O il medico del Policlinico Federico II a Napoli: lui morì, il servizio di interruzione gravidanze fu interrotto per due settimane: non c’era nessuno che potesse sostituirlo. E due settimane, per chi deve abortire, sono moltissime. Per la Ru486 ne possono trascorrere massimo sette, e di solito le prime quattro o cinque passano nell’inconsapevolezza di averne bisogno. Non è insolito quindi - con percentuali di obiezione così alte - ritrovarsi senza un ginecologo disponibile nei giorni che servono, che spesso sono appunto pochi - soprattutto con la Ru. È accaduto ad una signora di Salerno: niente medici non obiettori disponibili, a Salerno e ad Avellino. Così lei, quattro figli, 35 anni, a rischio di finire su una sedia a rotelle se si fosse arrischiata in una nuova gravidanza e parto, finì a prendere un traghetto per Capri, l’ultimo per via del mare forza otto, in pieno inverno. Drammatico come un racconto mensile di De Amicis, eppure reale: il ginecologo disponibile più vicino era là, sull’isola. Insomma un conto sono le grandi città: altra storia i piccoli centri e il sud. Se a Roma come a Milano almeno sei e sette ospedali distribuiscono la Ru486, in Basilicata e Calabria ce ne sono due, in tutto il Molise soltanto uno. Nelle Marche c’è San Benedetto del Tronto, mentre Ascoli Piceno l’anno scorso è finita sul New York Times perché l’unico presidio sanitario in zona per l’interruzione di gravidanza era garantito dall’Aied. Altro che pillole. L’associazione italiana per il controllo demografico (Aied appunto) ha un accordo con la Asl locale: tre medici non obiettori fanno i pendolari, da Roma e da Milano, per organizzare aborti una volta a settimana (il sabato), da realizzarsi appoggiandosi alla struttura ospedaliera, che di suo è priva di un ambulatorio per le interruzioni di gravidanza. È chiaro che di somministrare la Ru in questi casi nemmeno si parla, è considerato un lusso: servirebbe appunto che ci fosse il servizio di interruzione, con un numero sufficiente di ginecologi non obiettori per garantire i turni. E comunque la procedura di appoggio all’Aied non è ufficiale, un percorso ben definito, qualcosa che stia affisso ai muri dell’ospedale: è un passaparola, affidato agli umori, alle simpatie, alla buona volontà, al caso. Devi essere fortunata. Ecco, in posti come questo, già è un buon risultato - raccontano gli operatori - riuscire ad abortire prima che scadano le 12 settimane previste dalla 194. «Spesso le donne ce le mandano che stanno al limite, dopo aver fatto loro perdere un sacco di tempo, perché il problema grosso è il territorio che dà l’avvio alle procedure, è lì che si fa la differenza tra chi può contare su un servizio efficiente e chi no, tra chi trova un modo per organizzarsi e chi no», racconta Ernesto - nome di fantasia - che da vent’anni pratica aborti perché ci crede, pure lui. Anche se è arrabbiatissimo: «A sentire i racconti che mi fanno le donne, certi medici vorrei prenderli a calci. I maltrattamenti, la mancanza di rispetto. Molto si gioca attorno al fatto che le donne vivono l’aborto come un problema di cui non parlare. Se uno va in ospedale e non può fare le analisi perché la macchina per l’emocromo si è rotta, va a protestare: se una donna deve abortire, mica va in direzione sanitaria a lamentarsi perché non c’è un servizio di interruzione di gravidanza, o non danno la Ru486. Non trovi mai una donna che denuncia queste cose, perché le donne si vergognano», racconta. Eppure gli aborti calano, lo certificano le statistiche. Questo significa che la legge funziona? «Sì certo, funziona, come no. Anche noi abbiamo notato, in questi ultimi anni, un calo degli aborti fatti in ospedale, che però non è dovuto al miglioramento del servizio sul territorio, né alla somministrazione ospedaliera della Ru486, né all’aumento dei medici non obiettori. Il sospetto è che tutto sia finito inghiottito dentro il mercato degli aborti clandestini, coi farmaci, che è sempre più diffuso». Passare per la via legale è spesso difficile e farraginoso: il commercio online, con tutti i rischi che comporta, è invece di sempre più facile accessibilità. C’è anche chi lo racconta, dietro l’anonimato della rete. Come A., che alla fine di una accurata spiegazione della sua interruzione farmacologica fatta in casa, conclude: «Sì, è stato complicato, ma le testimonianze che ho letto in rete, mi hanno fatto capire che un aborto legale sarebbe stato troppo difficile da ottenere, per me».

Aborto, la pillola negata: ancora una volta l'Italia è fanalino di coda. Nel nostro Paese solo il 15 per cento delle interruzioni di gravidanza avviene in modo incruento con la Ru486. Contro il 93 in Finlandia e il 57 in Francia. Di chi è la colpa.  E cosa si deve fare, scrive Gianna Milano il 16 ottobre 2017 su "L'Espresso". Ho scoperto di essere incinta il 25 agosto, dopo 5 giorni di ritardo ho fatto il test. Positivo. Ho già un bimbo di due anni, il mio compagno è disoccupato e io precaria. Un bel casino. Ci pensiamo e ci ripensiamo. Decidiamo di non proseguire. Vado su Internet. Avevo sentito parlare della Ru486 e perciò chiedo al medico di famiglia come fare. Mi indirizza a una struttura ospedaliera dove c’è un poliambulatorio. Mi viene fissato un colloquio. Devo riflettere sulla mia decisione per una settimana. Intanto i giorni passano. Siamo a 46 e l’aborto farmacologico deve essere fatto, così vuole il regolamento, entro 49 giorni, ossia entro sette settimane. Da non credersi, alla fine ho dovuto fare il chirurgico in anestesia generale. Avrei preferito un metodo meno invasivo e gestire io la scelta. Invece l’ho dovuta delegare ad altri. Una beffa». Racconta Anna Z., una delle tante donne in Italia che non è riuscita ad accedere all’aborto farmacologico, reso possibile da noi dal 2009 quando l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha dato il via libera per l’utilizzo del mifepristone, noto con la sigla Ru486. Parecchio tempo dopo molti altri Paesi, come la Francia, dove è stato introdotto da circa trent’anni: esattamente nel 1989. Ma non è questa la sola anomalia. «Al momento dell’approvazione dell’RU486, il ministero della Salute chiese un parere al Consiglio Superiore di Sanità che inspiegabilmente trasse conclusioni opposte a quelle dettate dalle evidenze scientifiche disponibili, raccomandando il ricovero ospedaliero dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla “avvenuta espulsione del prodotto del concepimento”, ossia un ricovero che nella maggior parte dei casi sarebbe durato tre giorni. Paradossalmente mentre per l’aborto chirurgico è previsto il day hospital, per quello farmacologico no», dice Mirella Parachini, ginecologa al San Filippo Neri di Roma e già presidente della Fiapac (Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione). «Non solo. Mentre nel resto d’Europa si è stabilito che l’aborto farmacologico può essere fatto entro nove settimane da noi è possibile solo entro la settima, e questo fa sì che una notevole percentuale di donne ne venga esclusa», precisa Anna Pompili, ginecologa, e promotrice con Parachini di una petizione - avviata il 28 settembre e che ha già raccolto 6.500 firme - in cui si chiede alla ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, di semplificare l’accesso all’aborto farmacologico, rendendolo possibile anche fuori dagli ospedali, nei consultori e in ambito ambulatoriale. Petizione sottoscritta da Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), Associazione Luca Coscioni, Aied (Associazione italiana per l’educazione demografica) e sottoscritta da un fronte ampissimo di associazioni e personalità del mondo della cultura e della scienza. In Francia sono anche i medici di famiglia a dispensare i farmaci per l’aborto farmacologico che nel 2005 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha inserito nella lista delle medicine essenziali per la salute. «E nei Paesi scandinavi la procedura è seguita dalle ostetriche che fanno il counseling e danno le pillole», precisa Parachini. Il limite delle sette settimane e la trafila del ricovero in ospedale fanno sì che il nostro Paese sia il fanalino di coda in Europa per le interruzioni volontarie di gravidanza farmacologiche: intorno al 15 per cento sugli 87.639 aborti eseguiti nel 2015, secondo la relazione annuale del Ministero della Salute sulla attuazione della legge 194 che ha reso legale l’aborto in Italia nel 1978. Diversamente da noi, in Inghilterra nel 2013 gli aborti farmacologici sono stati il 49 per cento del totale, in Norvegia l’82 e in Svizzera il 68. Mentre in Francia l’anno prima sono stati il 57 per cento e in Finlandia hanno raggiunto il 93. Non in tutte le nostre regioni si osserva la procedura stabilita dal ministero. In alcuni casi si sono messe a punto linee di indirizzo, sulla falsariga di quelle seguite all’estero, e si è scelto di attuare l’aborto farmacologico in day hospital, evitando i tre giorni di ricovero. La prima è stata l’Emilia Romagna, poi la Toscana, il Lazio e di recente la Puglia. Colpisce la grande variabilità in Italia delle percentuali di interruzione volontaria di gravidanza farmacologica: si va dal 40 per cento in Liguria, al 32 in Piemonte, al 25 in Emilia-Romagna, al 20 in Toscana, al 18 in Puglia, al 15 in Lazio al 5 in Lombardia e al 3 di Campania e Calabria. Nelle Marche non lo fa nessuno, tranne a Senigallia dove dall’anno scorso è partita una “sperimentazione” che prevede il day hospital e il coinvolgimento nella prima fase di procedura dei consultori. Come si spiegano simili differenze fra regione e regione? «La questione sta nel rendere disponibile il metodo. Se si applicano politiche per favorirlo, non è certo la donna a dire di no» osserva Corrado Melega, ginecologo di Bologna, che ha contribuito con Carlo Flamigni all’esperimento pilota della sua regione, e con lui ha scritto “Ru486, le streghe sono tornate” libro in cui si fanno emergere verità e menzogne intorno a questa pillola. «I rischi dell’Ru486 sono minimi e diminuiti nel tempo: è un metodo semplice e sicuro per il quale esiste un’esperienza trentennale. Che senso ha stare a letto due giorni dopo che si è presa la prima pillola?» continua Melega. Secondo la ministra Lorenzin in questo modo non si lascia sola la donna in un momento difficile della sua vita. «Ma sarebbe meno sola se potesse stare a casa con le persone a lei care invece che in ospedale, ignorata dal personale sanitario che non è tenuto a fare assistenza psicologica» commenta Pompili, che ricorda come consigliere della Lorenzin siano tra gli altri Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella, autrici del libro “La favola dell’aborto facile: Miti e realtà della pillola Ru486” in cui si definisce la pillola «una grande truffa fatta sulla pelle delle donne, una truffa veramente atroce, sia per la carica di dolore che c’è nell’aborto in sé, sia per l’imbroglio che si fa quando si dice che l’aborto con la pillola è facile». «La trafila per chi sceglie il farmacologico è forse più coinvolgente, la donna vive in diretta sul proprio corpo ciò che sta accadendo. Magari produce più ansia. In ogni caso è una scelta. Con il chirurgico si delega al medico il problema e ci si toglie il pensiero. Quando la donna si sveglia dall’anestesia è tutto finito» osserva Marina Ravizza, ginecologa all’Ospedale San Paolo, di Milano. È prassi diffusa ormai che dopo aver preso al primo giorno del ricovero l’Ru486, ovvero il mifeprisone, un antagonista del progesterone che impedisce lo sviluppo dell’embrione, la donna scelga di andare a casa e firmi la dimissione volontaria per poi tornare in ospedale il terzo giorno e assumere le prostaglandine che consentono all’utero di contrarsi ed espellere il feto. «Un andirivieni che comporta una trafila burocratica non da poco: occorre compilare due cartelle cliniche, una il primo e l’altra il terzo giorno. Un deterrente per molti ospedali a fare l’aborto farmacologico. Si complica un metodo di per sé semplice che potrebbe tra l’altro disinibire molti dei ginecologi oggi obiettori di coscienza» sostiene Anna Maria Marconi, docente all’Università degli studi di Milano e primario all’ospedale San Paolo. La riluttanza dei ginecologi a eseguire aborti non è tanto per motivi religiosi. «Saranno il 10-15 per cento a obiettare per questo. È semmai una questione di ignoranza. Quando iniziano la specializzazione di ginecologia devono subito dichiarare se sono obiettori e nella sala in cui si fa l’interruzione di gravidanza non ci entrano. Non ne sanno nulla di aborto, tanto meno di Ru486, che in certi dispensari ospedalieri non esiste neppure. E poi gli aborti sono rogne. Si guadagna di più con la fecondazione in vitro», aggiunge Marina Toschi, vicepresidente dell’Associazione ginecologi territoriali (Agite). In Umbria solo a Narni e Orvieto, su undici punti in cui si fa l’aborto, si utilizza l’Ru486. Nel 2010 una commissione di esperti della regione, insieme al Comitato etico, elaborarono un protocollo perché l’aborto farmacologico si facesse in day hospital ma cadde tutto nel vuoto. Clamoroso e più recente il caso del Lazio: l’aprile di quest’anno la Regione propose di partire con una sperimentazione di 18 mesi per consentire l’aborto farmacologico nei consultori familiari, senza più ricovero o day hospital. Sarebbe stata una rivoluzione e sarebbe dovuta partire a maggio. Ma si sono sollevati mille scudi e non se n’è fatto nulla. «La ministra Lorenzin parla di appropriatezza delle prestazioni sanitarie. E poi si smentisce nei fatti. Tutte le pratiche mediche sono suscettibili di miglioramenti e sono ben accette, perché questa no? Le pillole si comprano ormai su Internet e sarebbe giusto adeguarsi ai tempi e parlare in difesa della 194 con un linguaggio nuovo», afferma Parachini. Il turismo dell’aborto farmacologico oggi avviene da una regione all’altra, o da una città all’altra della stessa regione, a seconda di dove è possibile farlo. «Da Frosinone, Viterbo, Rieti vanno per esempio a Roma. Da noi arrivano da città come Matera o altri centri del Sud. Oggi su 7.500 aborti che si eseguono ogni anno in Puglia, oltre il 10 per cento è con l’Ru486: a Lecce se ne fanno un po’, idem a Bari, a Foggia niente», racconta Antonio Belpiede, ginecologo all’ospedale di Barletta e uno dei pochi primari non obiettori. «Da circa un anno la giunta regionale della Puglia ha deliberato per il farmacologico in day hospital, per evitare ricoveri e liste d’attesa». Nel 2009 quando l’Aifa approvò l’introduzione dell’Ru486 ci fu in Italia una grande opposizione da parte del mondo cattolico: si diceva che avrebbe facilitato l’aborto. Il cardinale Bagnasco parlò di deriva morale, di aborto semplificato senza più un controllo. A ricordarlo è Ravizza. «In realtà, gli aborti negli anni non sono aumentati, erano 234 mila nel 1983, 118.579 nel 2009, e sono stati 87.639 nel 2015. La contraccezione è aumentata e gli incidenti di percorso sono più rari. Le interruzioni di gravidanza sono tre volte di più tra le donne straniere rispetto alle italiane, per questioni culturali ma anche per condizioni di vita», spiega Angela Spinelli, direttore del Centro nazionale prevenzione delle malattie e promozione della salute all’Istituto Superiore di Sanità. «I timori di deriva per le pillole che “banalizzerebbero” l’aborto ruotano in realtà attorno al rapporto di potere tra medico e donna: si restituisce a lei la scelta riproduttiva. E forse», conclude Pompili «parte delle ostilità nasce da questo». 

I 40 anni della Legge 194. Perché l'aborto non è un «diritto», scrive Marcello Palmieri giovedì 17 maggio 2018 su "Avvenire.it". La Legge 194 non parla mai dell'interruzione di gravidanza in questi termini, sottoponendolo piuttosto a una serie di condizioni stringenti. E la Consulta ha confermato. Non è un diritto, non è una libertà. È e resta una scelta drammatica ed estrema, che il diritto consente nella misura in cui un bene giuridico costituzionalmente sancito si pone in insanabile contrasto con un altro di pari valore: il diritto alla vita del concepito e quello alla salute fisica e psichica della gestante. È il vero spirito della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, la ratio – cioè l’obiettivo – che traspare da tutto il suo testo e che tante pronunce giurisprudenziali hanno confermato nel corso degli anni. Lo Stato «riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio», vi si legge nell’articolo 1. Quello stesso che più volte la sinistra e le forze radicali hanno tentato di far abolire, scontrandosi con una Corte costituzionale granitica nell’affermare che «il diritto alla vita – si legge per esempio nella sentenza 35 del 1997 –, inteso nella sua estensione più lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». D’altronde la legge 194 pone (porrebbe, se fosse davvero applicata ovunque per ciò che dice) maglie molto strette all’aborto, imponendo ogni volta il tentativo di rimuovere le cause per cui esso viene chiesto e subordinando in ogni caso la soppressione della vita nel grembo materno alla messa in atto di procedure piuttosto rigide: colloqui, attivazione di volontari, consulti medici, periodi di riflessione obbligatori... E, attenzione: mai in tutto il testo della norma all’interruzione volontaria della gravidanza viene associato il sostantivo «diritto». Al contrario – ed è sempre la legge a sancirlo –, 'diritti' sono quelli della donna «lavoratrice e madre» a trovare aiuto per conciliare queste due dimensioni, senza vedersi obbligata a sacrificarne una per l’altra. Così questo sfavore per l’aborto riecheggia costante – tranne qualche caso isolato – in tutte le magistrature d’Italia. Comprese le più alte. Per esempio, con sentenza 324 del 2013 la Consulta confermò la procedibilità d’ufficio per reato di interruzione colposa di gravidanza, consentendo quindi ai giudici di perseguire la violazione indipendentemente dalla querela di parte. Tra i motivi della decisione, la tutela costituzionale di cui godono la «protezione della maternità» e la «tutela del concepito». Sempre sul tema specifico è intervenuta pure la Cassazione, la cui sentenza 20.063 del 2014 ha ritenuto sussistente questa violazione penale qualora una negligenza dell’ostetrica causi la morte del feto. Stessa lunghezza d’onda per i tribunali: quello di Mantova, per esempio, che ha negato l’aborto a una minorenne rifiutatasi di comparire davanti al giudice tutelare per spiegare i motivi della richiesta, e quello di Bologna, che ha deciso (conformemente) un caso molto simile a quello affrontato nel 2014 dalla Cassazione. Resta dunque in chiaro il dramma di ciò che l’aborto è: la soppressione di una vita. La legge non lo tace, i giudici lo ricordano.

Aborto, una legge che resta «ingiusta». Movimento per la Vita: «Moltiplicati interventi clandestini». Amci: «Si è perduta la consapevolezza che è omicidio». Papa Giovanni XXIII: «Da 40 anni nessuno si è più preoccupato non solo dei bimbi ma neppure delle donne», scrive il 22 maggio 2018 "Romasette.it". A 40 anni di distanza, quella sull’interruzione volontaria della gravidanza – la 194 – resta una legge «ingiusta». Nel giorno dell’anniversario, lo denunciano a gran voce, usando quasi le stesse parole, molte realtà del mondo dell’associazionismo cattolico. A cominciare dal Movimento per la Vita italiano, secondo cui «l’affermata riduzione delle interruzioni volontarie di gravidanza come effetto della legge è inaccettabile». Il motivo, spiega la presidente Marina Casini Bandini, è che in questi 40 anni «si è ridotto il numero delle donne in età feconda per effetto del crollo della natalità e perché la cosiddetta “contraccezione d’emergenza”  ha moltiplicato gli aborti tanto clandestini da non essere conosciuti. Con il timbro di questa legge, osservano dal Movimento, sono avvenuti nel nostro Paese quasi 6 milioni di aborti legali. In realtà però, è la tesi di Casini Bandini, «ciò che può effettivamente aver potuto ridurre gli aborti è cresciuta sensibilità, a livello culturale, a favore della vita nascente e ciò è avvenuto anche grazie al Movimento per la Vita». Per la presidente Mov infatti «il massimo strumento di prevenzione dell’aborto è la consapevolezza che la gravidanza riguarda anche un essere umano che vive e cresce nel grembo della donna». Va in questa direzione l’impegno dei Centri di aiuto alla vita, che «hanno aiutato a nascere 200mila bambini non contro le madri ma insieme alle madri», la cui esperienza il Movimento mette a disposizione della società intera. «Se un numero limitato di volontari con pochi mezzi ha potuto ottenere questo risultato, molto più grandi sarebbero gli effetti positivi se lo Stato accogliesse come modello l’opera dei Centri di aiuto alla vita – prosegue la presidente -. I centri locali possono documentare il loro servizio alle comunità civili in cui essi hanno sede». Il Movimento comunque, assicura Casini Bandini, «continuerà con tenacia operosa a contrastare la pretesa di affermare l’aborto come diritto umano fondamentale e rivolge un appello a tutte le forze politiche perché il tema del diritto alla vita fin dal concepimento non sia emarginato». Non solo. Per la presidente del Movimento è «indispensabile» una riforma dei consultori familiari «per restituirli alla loro funzione originariamente prevista di essere strumenti esclusivamente destinati ad evitare l’aborto a concepimento avvenuto». Il Movimento comunque «continuerà a riconoscere nel concepito “uno di noi” con la fiducia che tale convinzione divenga patrimonio comune della intera società italiana perché conforme alla ragione, alla scienza moderna, alla cultura giuridica che ha per fondamento la dignità umana, l’uguaglianza e i diritti dell’uomo». Filippo Maria Boscia, ginecologo e presidente dell’Associazione medici cattolici italiani (Amci) oltre che direttore del Dipartimento per la salute della donna e la tutela del nascituro all’Ospedale Santa Maria di Bari, cita i dati del Sistema di sorveglianza epidemiologica delle ivg (interruzioni volontarie di gravidanza), secondo cui nel 2016 gli aborti sono stati 84.926, vale a dire il 3,1% in meno rispetto ai 87.639 del 2015. Eppure, osserva, «c’è poco da cantare vittoria. Questa diminuzione è ampiamente compensata dall’enorme incremento degli aborti “nascosti”». Anzi: il totale delle interruzioni volontarie di gravidanza è in continuo aumento, anche tra le giovanissime, solo che è più difficile averne dati precisi, mentre in questi 40 anni «si è progressivamente perduta la consapevolezza che l’aborto sia a tutti gli effetti un omicidio». Quando parla di aborti “nascosti”, il ginecologo fa riferimento al «cosiddetto aborto chimico o farmacologico», che avviene attraverso “farmaci” come la pillola del giorno dopo o quella dei 5 giorni dopo,- di cui nel 2016 sono state acquistate in Italia rispettivamente 214.532 e 189.589 confezioni. «Contrariamente a quanto viene detto – chiarisce Boscia -, non si tratta di contraccezione d’emergenza ma di un intercettivo postcoitale che in caso di avvenuto concepimento blocca l’impianto dell’embrione impedendone l’annidamento. Dunque un vero e proprio aborto nascosto». In più, sono facilmente accessibili su internet kit per un “aborto fai da te”. E ancora, farmaci antinfiammatori vengono talvolta usati per indurre un travaglio abortivo vero e proprio: un «falso aborto spontaneo». Per Boscia, insomma, «il calo delle ivg è legato alla diminuita fertilità in generale, al ricorso alla pillola del giorno dopo, agli aborti clandestini (che continuano), a quelli spacciati come spontanei, tutti dati che mancano nella statistica del ministero». Sulla stessa linea la posizione espressa dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, attraverso il presidente Giovanni Paolo Ramonda, che parla della 194 come di una legge «iniqua, come ogni legge che permette l’uccisione di un essere umano, quali la pena di morte e l’interruzione dell’idratazione e alimentazione per le persone in cosiddetto stato vegetativo». Da 40 anni, osserva Ramonda, «nessuno si è più preoccupato non solo dei bimbi ma neppure delle donne. Fu invocata per la liberazione della donna ma dietro a questi slogan si celava l’inganno. Don Benzi diceva che l’aborto provoca sempre due vittime: il bimbo mortalmente, la mamma per sempre». Anche per Ramonda, «una delle emergenze oggi è la diffusione incontrollata di pillole spacciate come contraccettive ma che hanno effetti abortivi. Molti giovani cadono in questo tranello, ignari delle pericolose conseguenze. L’Italia ha bisogno di aiuti alle gestanti, oggi sempre più sole e spinte a disfarsi del figlio da una società abortista: lavoro, aiuti economici e materiali, protezione da chi vuole farle abortire». E il presidente della Papa Giovanni XXIII cita il caso di Marcellina, «una ragazza madre con una lieve insufficienza mentale – ricorda -. Per tre volte le consigliarono di abortire ma lei diede alla luce quattro figli, tutti andati in adozione. Qualche anno fa, una delle figlie, dopo un’interminabile ricerca, arrivò a trovare sua madre. Voleva dirle grazie per il dono della vita». La Comunità fondata da don Oreste Benzi dal 1997 opera al fianco delle donne che vivono una maternità difficile, accompagnando le gestanti con l’obiettivo di rimuovere le cause che le porterebbero ad abortire. In quell’anno infatti nasce a Rimini il Servizio Maternità Difficile e Vita col compito di coordinare le iniziative della Comunità Papa Giovanni XXIII «verso la difesa del bambino non ancora nato, l’essere umano più povero e indifeso, la fase della vita umana più a rischio», spiegano dalla Comunità. In questi anni, informano, ha raccolto circa 600 richieste di aiuto, di cui il 67% proveniente da donne in gravidanza. «Il 50% di loro aveva intenzioni abortive: di queste il 18% ha abortito volontariamente, il 4% spontaneamente, il 43% ha proseguito la gravidanza con la nostra assistenza. Delle restanti non è noto l’esito».

Quel cumulo di "fake-news" sull'aborto. Conferenza alla Camera per l'anniversario della legge 194: "Difenderemo l'obiezione di coscienza", scrive Federico Cenci il 22 maggio 2018 su "In Terris". Nello stesso Parlamento italiano in cui quarant’anni fa venne approvata la legge 194, oggi si torna a discutere di aborto. E lo si fa con un piglio critico ma anche propositivo, con l’intento dichiarato di difendere l’obiezione di coscienza, applicare la parte della legge rimasta disattesa e alimentare una cultura di difesa della vita nascente.

Riformare i consultori. Il dibattito, nella sala conferenze della Camera, è stato promosso dal senatore Alessandro Pagano (Lega) e ha visto la partecipazione di alcune delle principali sigle pro-vita italiane. La presidente del Movimento per la Vita italiano (Mpvi), Marina Casini, ha ricordato che in quattro decenni di legge sull’aborto sono stati uccisi 6milioni di bambini nel grembo materno, due volte e mezzo la popolazione di Roma. Sottolineando l’esperienza dei Centri di aiuto alla Vita (Cav), la Casini ha anche ricordato che sono stati salvati circa 200mila bambini. Del resto - ha detto - “c’è un coraggio innato nella donna, che si esprime quando non si dà spazio alla menzogna” per cui il feto sarebbe soltanto un grumo di cellule. Le gestanti in difficoltà, dunque, hanno solo bisogno di essere accolte, ascoltate, aiutate. Per questo - ha proseguito la Casini - è importante trasferire il lavoro volontario dei Cav nei consultori familiari, per applicare la parte della legge 194 sugli aiuti alle donne. Sulla stessa lunghezza d’onda Francesca Romana Poleggi, dell’associazione ProVita Onlus, la quale ha spiegato che i moduli di consenso informato nei consultori sono spesso parziali e lacunosi. La Poleggi ha presentato la massiccia campagna messa in atto dall’associazione in questi giorni in tutto il territorio nazionale: camion vela ricordano che nel grembo materno c’è un bambino, per cui l’aborto è un omicidio. È per questo - ricorda l’associazione - che sette ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza.

Difendere l'obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza, appunto. Altro tema caldo nel dibattito. All’unisono i relatori hanno ribadito la necessità di difenderla dagli attacchi che provengono da alcuni settori politici. L’ex deputata Eugenia Roccella ha stigmatizzato la falsa argomentazione secondo cui l’alto numero di obiettori impedirebbe l’attuazione delle legge 194. “Il carico di lavoro per i medici non obiettori è di 1,5 aborti a settimana”, ha detto citando i dati della relazione del Ministero della Salute. Sulle barricate Simone Pillon (Lega), che si è detto pronto a presentare in Senato un ddl per difendere il diritto all’obiezione di coscienza dei farmacisti.

Le "fake-news" sull'aborto. La diffusione di queste ultime si intreccia con la questione del “cumulo di fake-news” - per mutuare la senatrice Paola Binetti (Forza Italia) - che fa da sfondo al tema dell’aborto. Ancora la Poleggi ha ricordato che la presunta diminuzione di interruzioni volontarie di gravidanza è fittizia, perché i dati non tengono conto degli aborti farmacologici. Da annoverare - secondo l’attivista - nell’alveo delle fake-news anche la convinzione per cui la legalizzazione dell’aborto ostacolerebbe la mortalità materna. La Poleggi, a titolo di esempio, ha illustrato che in Polonia, dove la legge è molto restrittiva, muoiono per questa causa tre donne su centomila, mentre in Messico, Paese dalla legge molto progressista, il tasso sale a trentotto su centomila.

Contrastare il "neo-colonialismo". Sull’estero si è rivolto anche lo sguardo di Emmanuele Di Leo, presidente di Steadfast Onlus, che ha denunciato una “nuova forma di neo-colonialismo” ai danni dell’Africa da parte di alcune ong. “Queste organizzazioni - ha detto - istituiscono cliniche per aborti illegali in aree rurali come quelle del Kenya e formano i nuovi medici a fare aborti per ottenere denaro facilmente”. Di Leo ha quindi presentato la campagna Steadfast LifeAid, che agirà in Europa “per contrastare questa colonizzazione ideologica” lavorando sulle strutture sanitarie e facendo pressioni sugli organismi politici.

La denatalità. E mentre in Africa si assiste a un boom demografico, motivo per cui alcune organizzazioni maltusiane diffondono la cultura abortista, in Italia la denatalità è ormai un grave problema. “Se avessimo quei 6milioni di abitanti in più - ha osservato Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia - forse non staremmo oggi a discutere di legge Fornero”. Crisi demografica di cui hanno parlato anche Carlo Fidanza (deputato di Fratelli d’Italia) e Gian Luigi Gigli, neurologo e già presidente del Mpv, che nel sostenere la necessità di una riforma dei consultori ha commentato: “Se non bastassero ragioni di giustizia e di umanità a suggerirlo, a muovere il legislatore dovrebbe essere almeno la preoccupazione per le conseguenze dell’inverno demografico che avanza”. Ad ogni modo, come ha chiosato Pagano, “il vento sta cambiando”. Se da un lato c’è chi attenta all’obiezione di coscienza, dall’altro c’è un ampio fronte di chi è pronto a battersi per difendere la vita nascente.

MANICOMI. 40 ANNI DOPO LA LEGGE 180.

Quarant’anni dalla legge 180. Viva Basaglia, che ci salvò dai manicomi, scrive Lanfranco Caminiti il 20 Maggio 2018 su "Il Dubbio".  «Tu, o Signore, non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!». Paolo VI recita il suo De profundis in San Giovanni in Laterano ai funerali di Stato per Aldo Moro, davanti facce impietrite in un’immagine che passerà alla storia. Ci sono tutti. Ma il corpo di Aldo Moro non c’è, perché la famiglia, in forma strettamente privata, lo sta seppellendo a Torrita Tiberina. È il 13 maggio 1978. Presidente della Repubblica è Giovanni Leone, presidente del Senato è Amintore Fanfani, presidente della Camera è Pietro Ingrao – il primo comunista a quella carica – e presidente del Consiglio è Giulio Andreotti, in un governo (è l’Andreotti IV, il trentaquattresimo della Repubblica, il secondo della VII legislatura, che il 16 marzo, giorno del rapimento di Moro, ha avuto la fiducia con 545 voti favorevoli, 30 contrari e 3 astenuti) che si regge con il sostegno dei comunisti. Ministro della Sanità è Tina Anselmi, democristiana. Martedì 2 maggio la Camera ha approvato il disegno di legge Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori che è stato poi approvato dal Senato il 10 maggio. Da oggi, 13 maggio, si chiamerà legge 180 o più comunemente “legge Basaglia”. Durerà poco più di sei mesi: le sue norme essenziali, infatti, saranno inserite negli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/ 1978, dicembre, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. L’apparecchio per applicazioni di elettroshock, usato negli anni ‘ 50 e ‘ 60, si presenta come una cassettina rettangolare di legno lucido. Dimensioni: lunghezza cm 47, larghezza cm 37, profondità cm 17. Maniglia e serratura di sicurezza. Sollevato il coperchio, appare un pannello in metallo, con le apparecchiature di manovra e di controllo. Su un lato, uno scomparto che contiene la cuffia a due elettrodi, da applicare sul capo del paziente, gli accessori, il cordone, la presa di corrente. Al centro del pannello c’è uno schermo graduato con una lancetta: è il milliamperometro magneto- elettrico con portata di 400 mA, per misurare la corrente durante le applicazioni. Sotto c’è un orologio, con l’indice dei minuti, l’indice dei secondi e una scala da zero a 60: serve a misurare il tempo di applicazione. Ai lati dell’orologio, due manopole: la prima regola l’emissione di corrente, che aumenta ruotando la manopola da sinistra verso destra e diminuisce in senso inverso; la seconda regola la velocità del glissando, un termine di origine musicale per indicare la fase in cui la corrente sale da zero al valore massimo predeterminato. Più veloce è il glissando, più violenta è la contrazione tonica del paziente; più lento è il glissando, più a lungo il paziente resta cosciente. Infine ci sono due morsetti, a cui si collegano i conduttori che partono dalla cuffia applicata sul capo del paziente. Operazioni preliminari: occorre preparare gli elettrodi della cuffia avvolgendoli in garze bagnate con una soluzione di cloruro di sodio; spalmare le tempie del paziente con una pasta per elettroshock e proteggergli la bocca con un salvadenti di gomma. Mentre l’elettricità attraversa il cervello del paziente, sul pannello resta accesa una luce rossa. Legge 14 Febbraio 1904, n. 36: «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati». (pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 43 del 22 febbraio 1904) Testo formato da complessivi articoli: 0011 ART. 1: «Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a se’ o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere». Dice Bruno Orsini – psichiatra, docente, deputato democristiano al parlamento dal 1976 (vi entra con la corrente di Fanfani «per fare la riforma sanitaria e credo di avere contribuito a farla» ) al 1994, relatore della legge 180, che la legge del 1904 non era una legge sanitaria, ma sostanzialmente una legge di ordine pubblico che si proponeva di difendere la società da una vera o presunta violenza dei folli. Dice anche che la 180 nasce per tre circostanze favorevoli: 1) l’avvio del generale processo di riforma della sanità italiana per cui il Parlamento, al fine di superare esclusioni, separatezze e disuguaglianze, pose mano all’elaborazione e alla definizione di un sistema globale e unitario, aperto in condizioni di eguaglianza a tutti i cittadini che superasse la logica corporativa e assicurativa del mutualismo: il Servizio Sanitario Nazionale; 2) lo sviluppo e il consolidamento di straordinari progressi nella terapia delle psicosi che, rendendo meno severe le prognosi ed attenuando l’entità e la durata delle manifestazioni morbose più gravi, diminuivano le dinamiche espulsive nella pubblica opinione nei confronti dei malati di mente; 3) i rapporti fra le forze politiche sono migliorati, c’è un governo di unità nazionale e socialisti e comunisti possono accettare riforme proposte dalla Democrazia cristiana – è il periodo Moro- Berlinguer. Dice ancora: la saldatura tra ’ 68 e basaglismo fu oggettiva. Divenne una bandiera e fece sì che il manicomio fosse l’obiettivo prevalente, il più centrato e anche il più giusto della contestazione. Franco Rotelli, psichiatra, uno di quelli che raggiunse Franco Basaglia e lavorò con lui e poi è stato direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste per dieci anni, dice che la legge 180 è una legge molto semplice che recita così: la legislazione precedente viene abolita. Poi nel reparto arrivava il professore, con gli aiuti, gli assistenti, gli infermieri e uno di questi portava la cassettina di legno lucido di 47 centimetri per 37 per 17 e cominciava la cerimonia, pubblica perché doveva essere esemplare e avere l’effetto di moltiplicare la sofferenza fisica e morale alimentando angoscia in quelle povere ossa accartocciate sui letti. Lo squadrone avanzava con lentezza, gli ammalati urlavano cercando di nascondersi, ma il rituale prevedeva ogni particolare: tre o quattro infermieri che immobilizzavano il candidato all’elettromassaggio, la messa in opera della cassettina, gli elettrodi sul corpo di uno, la manopola in movimento, la luce rossa che s’accendeva su un pannello mentre la scossa elettrica annullava la mente del malato e faceva sembrare cadavere il suo corpo steso. Il rituale del terribile gioco comprendeva anche il coro dei lamenti, il vociare ossessivo rotto da qualche urlo meno indistinto degli ammalati, adulti e bambini, in attesa del turno di punizione, la loro paura di fronte all’orrore dello spettacolo di cui tra poco sarebbero stati vittime. Il rituale prevedeva anche il contrappunto della voce “diversa”, gli ammonimenti, le minacce, i consigli del professore, il professor C. psichiatra di Torino, l’uomo che avrebbe dovuto alleviare le pene dei malati dell’ospedale psichiatrico di C. e usò cinquemila elettromassaggi, portatori di nuovo atroce dolore. Fuori c’è anche l’infermiere Giuseppe B., che non è stato sentito in istruttoria e vuole parlare al processo; sta in disparte, discosto dagli altri, pensieroso. Anch’egli guarda nella memoria. Si ricorda di una volta che lo avevano mandato a prendere un malato che cantava nel cortile, per sottoporlo a un elettromassaggio. Di quel malato “loro” non sapevano nulla. Nemmeno il nome. Il professor C. aveva detto: «Portami su quello che canta». Negli 86 manicomi italiani erano ricoverati alla fine degli anni Sessanta centomila persone. «Finché il nostro sistema sociale non si rivela interessato al recupero di chi è stato escluso (così come all’abolizione di ogni meccanismo di sopraffazione, sfruttamento ed esclusione) la riabilitazione del malato mentale – come qualsiasi azione tecnica in ogni altro settore – resta limitata ad un’azione umanitaria all’interno di una istituzione apparentemente non violenta, che lascia intatto il nucleo centrale del problema. Per questo ogni soluzione tecnico- specialistica che non tenga conto di ciò che sottende l’istituzione e la sua funzione sociale, si limita ad agire come un semplice palliativo che serve tuttalpiù a rendere meno pesante la pena», Franco e Franca Basaglia, Morire di classe, Einaudi, 1969. E anche: Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, 1963; Thomas Szasz, Il mito della malattia mentale, Il Saggiatore, 1966; Franco Basaglia, Che cos’è la psichiatria, Baldini Castoldi Dalai, 1967; Erving Goffman, Asylums, Einaudi, 1968; Franco Basaglia, L’istituzione negata, Einaudi, 1968; Ronald Laing, L’Io diviso, Einaudi, 1969; Ronald Laing e Aaron Esterson, Normalità e follia nella famiglia. Undici storie di donne, Einaudi, 1970. E ancora: si rimane colpiti da quante numerose sono state in Italia le esperienze di apertura dei manicomi e di impostazione di interventi psichiatrici nel territorio: Gorizia, Parma, Perugia, Arezzo, Trieste, Venezia, Firenze, Torino, Reggio Emilia, Ferrara, Terni, Rieti, Sassari, Napoli, Roma. Alle nove meno un quarto arriva nel cortile un furgone degli ospedali psichiatrici. Porta i degenti del manicomio di C. che devono testimoniare. Giovanni C., Giuseppe L., Francesco C., Alfieri C. R., della sezione lavoratori, in ordine, puliti, sereni, con la camicia bianca e la giacca; uno ha anche la dentiera nuova, al posto dei denti fracassati da un elettromassaggio. Sostenuto da un infermiere c’è Giovarnbattista B., un vecchio dalla faccia scavata e sofferta: ottant’anni, l’unico con la divisa del manicomio (i larghi calzoni, camiciotto a righe), stanco, spento, malato davvero, ma rotto nel corpo prima che nella mente. A piedi giungono due ex ricoverati, Luigi S. e Mario M., anch’essi devono testimoniare. Tutti sono tesi ma quieti, e nel grande cortile, nell’aria ferma, sotto il cielo azzurro d’estate trascorre una eccitazione sottile e sconosciuta, come impalpabile per gli estranei che passano. Le promesse sono state mantenute: si fa il processo allo psichiatra C. Non importa che cosa accadrà alla fine; o almeno non importa ora, oggi, in questo giorno atteso da anni. Per la prima volta, nella loro storia di malati istituzionalizzati, essi conoscono il diritto di parlare. (Alberto Papuzzi, Portami su quello che canta). Alla base del nuovo equilibrio parlamentare si collocano gli esiti elettorali del giugno 1976. Le elezioni vedono l’avanzata elettorale del Partito Comunista, che incrementa il risultato ottenuto l’anno precedente nelle consultazioni amministrative che lo avevano portato al governo di molte grandi città italiane. La Democrazia Cristiana, con il 38 percento, è sempre il partito di maggioranza relativa, tuttavia questo risultato va a discapito dei suoi tradizionali alleati di governo – liberali, repubblicani, socialdemocratici – ridotti ai loÈ ro minimi storici. La discussione sul Servizio Sanitario Nazionale riprende in un mutato quadro politico, a partire da cinque nuovi progetti di riforma proposti dai partiti di quasi tutto l’arco costituzionale, seguiti infine da un progetto del governo stesso. Di questi solo il progetto presentato dai liberali ripropone l’ospedale psichiatrico e la sua trasformazione in ospedale specializzato, mentre tutti gli altri ne prevedono un superamento. La discussione dei cinque disegni di legge sul Servizio Sanitario Nazionale inizia il 27 aprile all’interno della Commissione Igiene e Sanità della Camera.

L’ 8 dicembre 1977 il testo della Riforma Sanitaria elaborato dalla commissione approda alla Camera dei deputati per la discussione, comprensivo delle disposizioni che regolano i trattamenti sanitari obbligatori. Gli articoli sulla psichiatria impegnano fin da subito il dibattito parlamentare. Tra il 15 e il 20 dicembre 1977 le disposizioni della Riforma Sanitaria in materia di trattamenti psichiatrici vengono presentate all’assemblea. Il relatore della legge è Bruno Orsini (Democrazia cristiana), psichiatra ed esponente della maggioranza, che si è occupato di preparare il testo in commissione insieme agli onorevoli Triva (Partito comunista) e Tiraboschi (Partito socialista). Nella sua relazione all’assemblea Orsini propone una breve ricostruzione della storia dell’assistenza psichiatrica con particolare riferimento alla situazione italiana. Sostiene: «La legge che abbiamo dinanzi è basata su principi, che non sono il frutto di una improvvisazione, bensì di un lungo travaglio, di una lunga storia, di una lunga lotta culturale ed operativa condotta da quanti a questo settore hanno dedicato la loro vita e condotta anche da quanti in questo settore hanno vissuto la loro difficile condizione umana» (Daniele Pulino, Prima della legge 180, Alphabeta Verlag). È il 16 novembre 1961 quando il giovane Basaglia entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Ci sono più di 600 internati, senza più volto senza più storia. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione ma, quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia, è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno. Il 27 gennaio 2017 l’ultimo internato lasciava l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.

Franco Rotelli: «40 anni fa chiudemmo i manicomi. Basaglia, un pensiero incancellabile». Intervista allo psichiatra Franco Rotelli su Franco Basaglia e sulla legge 180 approvata nel 1978 che ha chiuso i manicomi, scrive Angela Azzaro il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". «Una cosa è certa: i manicomi non torneranno mai più. È una brutta storia finita per sempre grazie alla legge 180 che il 23 maggio compie 40 anni». Franco Rotelli è uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana, uno dei giovani che negli anni 70 insieme a Franco Basaglia costruisce qualcosa di straordinario per l’Italia e per il mondo: chiudere i manicomi e cambiare completamente l’idea che si ha della psiche, della normalità e della malattia. Un salto culturale e sociale che, con tutti i limiti, è ancora vivo: «È – commenta Rotelli – una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68». Nel 2013 è stato eletto con il Pd nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Per dieci anni è stato direttore generale dell’azienda sanitaria di Trieste, attualmente presiede la commissione Sanità e politiche sociali della Regione.

Quando incontra Basaglia?

«Lo ho conosciuto nell’ospedale psichiatrico di Parma, mi ero appena laureato. Nel ‘ 71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente di centrosinistra, Michele Zanetti, che vuole effettivamente cambiare le cose. Io lo seguo».

Quale situazione trovate?

«Trieste sconta in quegli anni il problema degli esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese: un conto era vivere nelle campagne istriane negli anni Quaranta un altro vivere in città negli anni Cinquanta. Arriviamo in un manicomio con 1300 persone in una città che avrebbe dovuto averne molte di meno. Le immagini che ci troviamo davanti sono quelle terribili, immortalate nelle fotografie dell’epoca. Sbarre, contenzione, elettroshock».

I famigerati manicomi: quale legge li regolava?

«Era in vigore la legge del 1904, che stabiliva condizioni oggi impensabili: prevedeva che tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico fossero da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura».

Che cosa decidete di fare?

«Cambiare non era facile. Ma a nostro favore c’era l’esperienza di Gorizia, precedente a quella di Parma, che aveva assunto molta importanza a livello nazionale e il successo del libro di Basaglia, pubblicato nel ‘ 68, L’istituzione negata. Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile fino ad allora, qualcosa di irripetibile. La carta bianca viene presa sul serio da Franco che ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. Il clamore mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati».

C’è un legame con i movimenti anti autoritari e studenteschi che in quegli anni stanno cambiando la società italiana?

«Succede che da un luogo chiuso, oppressivo come il manicomio, nasce un’ondata liberatoria: una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68. Quella generazione di scalmanati riesce a cambiare la realtà dei manicomi, assumendosi grandi responsabilità. Si aprono i reparti, si mescolano uomini e donne, si apre l’ospedale all’esterno. Si modifica lo statuto giuridico delle persone ricoverate. Una piccola legge del ‘ 68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che – anche se ricoverato – dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero».

Un fatto passato alla storia è quella di un gigantesco cavallo di legno e cartapesta che viene portato in corteo da ospiti, medici, volontari. Si rompe il muro di separazione tra interno ed esterno. Ricorda quel giorno?

«Marco Cavallo, questo è il suo nome, viene costruito da Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia insieme alle persone che partecipano ai laboratori nati all’interno dell’ospedale. Nel ‘ 73 si attraversa la città: è la rappresentazione scenica del cambiamento che si sta attuando. La città reagisce con interesse, ma le resistenze non sono poche. Il quotidiano Il Piccolo scrive contro di noi articoli molto violenti. Il Pci vuole e non vuole, approva e non approva quello che stiamo facendo. Allora il Pci a Trieste contava molto, era il partito di Vidali con migliaia di iscritti».

Questo dissenso crea una battuta d’arresto?

«Assolutamente no. Noi andiamo avanti. C’è un clima da “liberazione”: ogni giorno leviamo qualche vincolo, combattendo contro la paura delle gente e contro le regole. E costruiamo una forma di welfare artigianale: nascono le prime cooperative sociali di persone ricoverate. Fino a quel momento, lavoravano ma senza essere retribuiti. Gradualmente si crea un sistema di protezione sociale. Le persone iniziano a uscire, a trovare casa, a farsi una vita anche senza avere una famiglia».

Qual è la sfida a quel punto?

«Alla fine del ‘ 73 non era chiaro se si dovesse riformare l’ospedale psichiatrico – umanizzandolo, abbellendolo e rendendolo più civile – o farlo fuori. Questa opzione fu chiara alla fine del ‘ 74. Pensammo: va distrutto. Altrimenti l’esclusione sarebbe rimasta come elemento fondante».

Era un periodo di grandi discussioni, di un lavorìo intellettuale oggi forse incomprensibile. Ricorda altre querelle?

«Un altro dibattito riguardava “il dopo”. Secondo alcuni la malattia mentale non esisteva, era solo una conseguenza del malessere sociale. Noi eravamo convinti che i manicomi andassero chiusi, ma che si dovessero costruire servizi sufficientemente forti nel territorio: servizi che aiutassero le persone a curarsi e a vivere una vita dignitosa. Non volevamo buttare la gente in strada. Volevamo buttare via i manicomi. Dicevamo: le persone vanno curate, assistite, in un altro modo, con un altro paradigma, ma vanno aiutate! In California, negli stessi anni, chiudono i manicomi e le persone finiscono per strada senza alcun sostegno. Oggi fanno i conti con quella scelta e sono venuti da noi a studiare cosa è stato invece fatto in Italia».

Arriviamo così al 23 maggio del 1978, giorno in cui viene approvata la legge 180 che abolisce i manicomi. Che cosa succede?

«Il gruppo originario che lavorava con Basaglia, non si muoveva solo in ambito psichiatrico. L’idea era quella di cambiare in generale la qualità della vita, la democrazia di questo Paese, di allargare le sue regole. La sfida era quella di spostare i confini della cosiddetta normalità. Quando arriva la legge che consente di chiudere i manicomi è un passo importante. Ricordo che quando fu approvata fummo sorpresi anche noi, non ce l’aspettavamo che potesse arrivare. Lo stesso Basaglia fu sorpreso dalla velocità con cui fu approvata. Moro era stato da poco ucciso. Questa drammatizzazione portò a una accelerazione impensabile fino a quel momento. Quando arriva la 180, noi abbiamo ancora 500 persone nell’ospedale psichiatrico. Fu molto bello, anche perché eravamo giovani».

Come ricorda quei giorni?

«Pochissimi mesi prima dell’approvazione della legge, andammo a occupare una casa. Basaglia non era d’accordo. Ci fu uno scontro all’interno dell’equipe tra chi voleva affrettare le cose sul piano concreto e Franco che temeva ripercussioni negative. Diceva: “State fermi, non rompete troppo, e non estremizzate delle pratiche che rischiano di creare fratture politiche”. Aveva capito che la legge stava per essere approvata. Tutto era messo in discussione: le carceri, le case di riposo, le politiche per i minori – all’epoca c’erano gli orfanotrofi – le classi speciali».

Si mettono in discussione anche i concetti di normalità e di malattia…

«La parola malattia applicata a queste questioni è una forzatura, questo non vuol dire che non esista qualcosa che si possa definire malattia, ma solo se diamo un valore relativo a questa parola. Non esiste lo schizofrenico, esistono persone che hanno disturbi schizofrenici. E non è la stessa cosa. Perché se una persona ha dei disturbi schizofrenici, tu puoi parlarci, vedere che cosa puoi fare. Se invece hai davanti lo schizofrenico, hai davanti una totalità che aggredisci riempendolo di farmaci o usandogli violenza. Dire schizofrenico è quindi un semplicismo, ma lo è anche negare che esista un problema di salute mentale. Un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento, una stigmatizzazione, la perdita del lavoro. Se non contrasti tutto questo insieme non risolvi granché. Si deve fare in modo che le persone non precipitino: si deve cioè garantire loro una socialità invece che bombardarli di farmaci».

Come è oggi la situazione italiana?

«Rispetto agli anni Sessanta gli aspetti deteriori sono venuti meno. E’ stata assimilata l’idea che i manicomi non si riaprono. Il clima culturale da questo punto di vista è cambiato. E non si torna indietro. Si tratta di un cambiamento irreversibile. Ma mancano i servizi. I centri di salute mentale sono aperti poche ore al giorno e sono chiusi il sabato e la domenica. C’è molto da fare».

Come rilanciare la sfida al cambiamento?

«Noi abbiamo elaborato una proposta di legge per il nuovo Parlamento, firmata da Pd e da Liberi e Uguali che presenteremo il 1 febbraio in una conferenza stampa al Senato. Parla di servizi e dice che bisogna destinare il 5 per cento della spesa sanitaria alla salute mentale. I centri di salute mentale devono restare aperti sempre, perché non è che si diventa matti solo i giorni feriali, si ribadisce che la contenzione fisica è proibita, che bisogna sostenere di più le cooperative sociali, i piccoli appartamenti protetti per un numero limitato di persone e che ogni azienda sanitaria deve avere un centro di salute mentale con un budget proprio».

Quindi la legge 180 non si tocca?

«Assolutamente non si tocca. La legge 180 resta così. Quella che presentiamo è una legge attuativa della 180. Quando nel 1904 fu approvata la legge per costruire i manicomi, nel 1909 ci fu un regolamento applicativo molto preciso. Con la 180 questo è mancato. Alcune regioni hanno fatto buone leggi, altre no. C’è stato qualche piano nazionale. Ma si tratta di strumenti molto deboli. Noi proponiamo una legge che rafforzi la governance».

A Trieste però ce l’avete fatta, il progetto continua…

«Sì ci siamo riusciti sia con le giunte di centrosinistra sia con quelle di centrodestra. È abbastanza dura, perché le regressioni ideologiche sono a portata di mano, perché le logiche di esclusione sono sempre immanenti, la farmacologizzazione dei problemi è sempre la via più semplice, perché le risorse vanno conquistate con le unghie e con i denti. Ma abbiamo resistito: ci sono quattro centri di salute mentale, aperti 24 ore al giorno, una rete di piccoli appartamenti, una rete di cooperative sociali, abbiamo vari laboratori di pittura, teatro, arte, manufatti vari».

Dagli anni Settanta lei ha a che fare con la sofferenza, con il dolore, con tanti problemi. Come ha retto?

«Noi abbiamo avuto la fortuna di vivere una dimensione collettiva, siamo stati un gruppo molto ampio, con molti ricambi e un forte legame affettivo oltre che professionale. Negli ultimi anni si fa più fatica, perché tutto è più istituzionalizzato e si è spinti verso la solitudine, l’individualismo. Ma aver mantenuto in piedi servizi abbastanza forti, ha consentito una ossigenazione continua, anche se c’è sempre la preoccupazione che tutto questo possa venire meno».

Ma Basaglia non è stato dimenticato?

«La storia che lui rappresenta è come un fiume carsico: sparisce e poi ricompare là dove meno te lo aspetti. Siamo per esempio sorpresi dall’interesse che ci viene mostrato dall’estero, da gruppi di studiosi che vogliono conoscere quello che abbiamo fatto. A volte sono gli stessi governi a mostrare interesse, come è accaduto per il Brasile ai tempi di Lula. I problemi più drammatici di questa storia sono stati superati, quindi essendo meno drammatici sono anche meno evidenti. Il fatto, per esempio, che si sia riusciti a superare gli ospedali psichiatrici giudiziari, anche se con soluzioni che vanno tenute ancora sotto osservazione, è accaduto negli ultimi anni. All’epoca non c’eravamo riusciti»

La rivoluzione Basaglia, quando l'Italia diventò civile. Quarant’anni fa la legge 180 che cancellò i manicomi.  Ma molto resta ancora da fare, scrive Luigi Manconi il 26 aprile 2018 su "L'Espresso". Prima, bisogna conoscere il prima. In caso contrario, non si può discutere seriamente del dopo: ovvero i quattro decenni trascorsi da quando, nel 1978, il Parlamento approvò la legge 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. E il prima era fatto di quella condizione di spoliazione e annichilimento che - come scrisse Primo Levi a proposito di altre e più lontane situazioni - rende l’individuo «materia umana». Lo riduce, cioè, alla sua sofferenza fisica e alla sua corporeità dolente. Così erano gli esseri umani - uomini e donne di tutte le età - rinchiusi nei manicomi e nei loro dispositivi di prigionia: sbarre, camicie di forza, cinghie e legacci, letti di contenzione. E, ancora, sporcizia, escrementi, bave e sudori. Se qualcuno non ricorda, o non vuole ricordare, ci sono le foto di Gianni Berengo Gardin e di Carla Cerati e di Raymond Depardon, il documentario “Matti da slegare” di Bellocchio, Agosti, Petraglia e Rulli, e i reperti dell’archeologia psichiatrico-giudiziaria, tutt’ora rintracciabili in molte città italiane. Il manicomio come il carcere sono stati, nelle società democratiche, i principali luoghi non solo della “cosizzazione” delle persone e del loro spossessamento, ma anche quelli della deprivazione sensoriale e psichica. In questo scenario, la “legge Basaglia” ha rappresentato una fondamentale riforma, pressoché unica nel mondo, che ha promosso una nuova concezione della salute e della dignità della persona malata di mente. Nello stesso anno, altre due leggi, quella sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e quella istitutiva del servizio sanitario nazionale che ha affermato il diritto universale alla salute, riconoscono nuovi spazi di autodeterminazione della persona. Ne discende una concezione innovativa della salute, quale stato di benessere fisico, mentale e sociale, che si raggiunge quando gli individui sviluppano e valorizzano le proprie risorse (molte o poche o residuali che siano) e la propria capacità di indipendenza. Come ha scritto Stefano Rodotà, una concezione della salute che si fonda sul «diritto che più caratterizza il rapporto tra libertà e dignità». Sono riforme, quelle del 1978, che nascono dalla mobilitazione culturale, professionale e sociale, e che vedono coinvolti medici, infermieri, associazioni di familiari e intellettuali. Da quella elaborazione non discende affatto che «la malattia mentale non esiste», frase mai pronunciata da Franco Basaglia (come conferma lo psichiatra Peppe Dell’Acqua) e che tanti - in buona o cattiva fede - gli hanno voluto attribuire. Si è tentato, così, di ridurre a grossolana caricatura un pensiero che era e resta estremamente sofisticato. E, come accade per tutti i processi di emancipazione, anche questo ha comportato fatica e dolore, arretramenti e sconfitte. E la capacità innovativa di quella legge ha incontrato sulla sua strada grandi ostacoli. Solo nel 1994 si è definito il piano che delineava le strutture da attivare a livello nazionale; e che dava l’avvio ad una riorganizzazione sistematica dei servizi preposti all’assistenza psichiatrica. Chiudere i manicomi, realizzare una rete di servizi pubblici ispirati alla psichiatria di comunità, integrati nel sistema del Servizio Sanitario Nazionale non è stato facile e non si tratta, certo, di un percorso compiuto. Tutt’altro. Sono ancora troppe le disparità territoriali e in tante realtà sono state aperte case di cura che ricordano gli ospedali psichiatrici (l’80 per cento contano più di 30 posti e non sono inserite in contesti urbani), dove, troppo spesso, i farmaci sono l’unica forma di trattamento terapeutico della malattia mentale. Infine, una questione cruciale e particolarmente dolorosa, quella relativa al difficile percorso delle famiglie e delle associazioni per uscire dall’isolamento e costruire relazioni. Famiglie e associazioni che, consapevolmente, chiedono sostegno e cure, trovandosi spesso senza conforto e senza assistenza. E ciò a causa dei ritardi nella costruzione di servizi territoriali adeguati, nell’attuazione di progetti di supporto al recupero e all’autonomia del paziente e in conseguenza dei tagli apportati al servizio sanitario nazionale e al sistema di welfare. E, poi, fortissime resistenze al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e una vischiosa persistenza della coercizione fisica (letto di contenzione) nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Piuttosto sarebbe necessario, e quanto mai urgente, investire sulla ricerca e sulla sperimentazione nel campo della prevenzione, negli ambienti di vita e di lavoro, affrontando le cause che minacciano l’equilibrio e la salute mentale. Ma buone pratiche e situazioni di eccellenza si sono affermate, a dimostrazione che altre forme di cura della malattia mentale e di presa in carico delle persone che ne soffrono sono possibili. Tutto ciò deve molto, moltissimo all’attività e al pensiero di Franco Basaglia. Un pensiero tanto radicale quanto fondato scientificamente, e clinicamente verificato. Capace, cioè, di andare alle radici psichiche della malattia e a quelle epistemologiche della sua cura. Per questo motivo, anche un’altra falsa attribuzione, a ben vedere, non gli è affatto estranea. Quella frase («Da vicino nessuno è normale») è stata scritta in realtà da Caetano Veloso ed è postuma alla morte di Basaglia, avvenuta nel 1980. Ma per la sua potenza poetica potrebbe pienamente appartenergli.  

Un diario dalla sofferenza. La malattia mentale non smorza la percezione del dolore e non annulla l’inclinazione allo studio, alla ricerca, alla lettura di testi anche complessi. Lo racconta Alberto Fragomeni nel suo libro "Dettagli inutili". Un lucido resoconto di esperienze possibili grazie riforma della psichiatria italiana. Per superare i pregiudizi, scrive Eugenio Borgna il 25 ottobre 2017 su "L'Espresso". La legge 180 ha radicalmente cambiata, nel 1978, la ragione d’essere pratica, e anche teorica, della psichiatria italiana, cancellandone le intollerabili modalità di realizzazione, e rendendola la migliore delle psichiatrie possibili; ma ancora oggi non sempre, e non in ogni regione, le modalità concrete di fare psichiatria corrispondono ai grandi ideali scientifici, etici e umani, che animano la legge di riforma, e questo in particolare nel contesto dei servizi ospedalieri di psichiatria. Ci sono servizi nei quali le porte sono chiuse, e nei quali la dilagante somministrazione psicofarmacologica non si accompagna a strategie psicoterapeutiche e socioterapeutiche; e ci sono servizi nei quali la contenzione, questa violenza che ogni psichiatria degna di questo nome rifiuta, continua a essere attuata. Sono nondimeno comportamenti, questi, che non mancano, e sono forse frequenti, anche in quelle strutture che si possono chiamare, almeno indiziariamente, comunitarie. Come si correlano con queste mie considerazioni generali le esperienze di Alberto Fragomeni, l’autore di “Dettagli inutili”, che è il doloroso splendido diario della sua sofferenza psichica rivissuta nel corso degli anni con coraggio, e con passione? Sono esperienze vissute in un dialogo senza fine con il dolore, con la depressione, con il male di vivere, con il male oscuro, con la maniacalità, e con una cura non sempre capace di ascolto e di comprensione; e sono esperienze descritte con un linguaggio di una bellezza e di una ricchezza emozionale, di una chiarezza e di una leggerezza, semplicemente straordinarie. Sono esperienze che noi leggiamo con stupore nel cuore: affascinati dall’intensità e dalla profondità delle riflessioni, e delle risonanze interiori, e dalla resistenza ferma e ardente alle influenze dolorose della malattia, e delle modalità di comportamento talora fredde e impazienti da parte di medici e di infermieri. Sono esperienze che testimoniano della sensibilità e della dimensione umana della sofferenza, anche quando questa è acuta e profonda, straziante talora e alienante, e che dimostrano la grande radicale importanza della relazione, dell’essere in dialogo, nell’articolazione della cura in psichiatria. Sono esperienze che solo chi ne abbia a soffrire conosce fino in fondo, e riesce a descrivere nella sua palpitante verità psicologica e umana; consentendo alla psichiatria di avvicinarsi al cuore della sofferenza: altrimenti irraggiungibile. Sono esperienze espresse con un linguaggio di grande chiarezza, e di non comune pregnanza emozionale, che consente ad Alberto Fragomeni di farci conoscere i suoi pensieri e le sue emozioni, i suoi modi di rivivere la sofferenza e le sue doti di intuizione e di riflessione, la sua capacità di de-limitare l’influenza della malattia e di mantenere in ogni momento la coscienza acuta del suo malessere. La malattia, le accensioni brucianti della malattia, non spengono mai la percezione acuta del senso della sofferenza, e non lacerano, e nemmeno incrinano, la inclinazione allo studio e alla ricerca, alla lettura e alla rilettura di grandi e complessi testi di filosofia. Leggiamo stupefatti che egli si avvicina a libri fra i più complessi della filosofia moderna, come sono quelli di Karl Jaspers e di Martin Heidegger, con passione e con entusiasmo; e questo nonostante che da molti anni ormai la sua vita si svolga in un appartamento protetto: così è chiamata la struttura comunitaria in cui vive. La storia della sua vita si svolge senza che mai si manifestino comportamenti incrinati da aggressività, e invece sempre sigillati da una rara gentilezza. Nemmeno mai vengono meno la comprensione e l’accoglienza del modo di vivere delle pazienti e dei pazienti con cui Alberto Fragomeni si incontra. Sono esperienze le sue, che solo la legge di riforma della psichiatria italiana ha reso possibili nel contesto di quella che è stata la chiusura dei manicomi nei quali, come si sa, la dignità della sofferenza psichica veniva radicalmente negata, e lacerata. Questo libro, sulla scia di straordinarie capacità espressive, testimonia della ricchezza umana e della gentilezza d’animo che si accompagnano alla malattia in psichiatria, e della rivoluzione alla quale è giunta in essa la cura non più irrigidita, e pietrificata, nei soli binari della farmacoterapia, ma allargata a modelli psicoterapeutici e socioterapeutici. Sono cose che tutti conosciamo, e cerchiamo di fare, ma che Alberto Fragomeni dimostra essere necessarie in questo bellissimo libro, che tutti dovrebbero leggere, non solo psichiatri e psicologi, e che ha in sé un grande valore formativo e, anche, educativo, perché ci confronta con l’aspetto interiore della malattia e della sofferenza in psichiatria, e ci aiuta a non perdere la speranza nemmeno quando non si possa giungere alla completa risoluzione della condizione di malattia. Un libro che si comincia a leggere, e non si riesce a interrompere: affascinati dalla sua originalità, e dalla sua umanità, dalla sua tenerezza, e dalla sua sensibilità. Un libro che ci invita a riguardare e a superare il groviglio dei pregiudizi che non consentono ancora oggi di riconoscere la dimensione psicologica e umana della sofferenza psichica, della malattia in psichiatria, ricondotta abitualmente alla sua reificazione, alla sua riduzione a esperienza senza significato, e senza valore. Sono pochi i libri che, come questo, possano essere utilmente letti e illustrati nelle scuole, anche nella scuola primaria, al fine di ridare alla malattia in psichiatria, e alla grande sofferenza che l’accompagna, la loro irrevocabile dignità, e la loro nobiltà. Seguendo modelli formativi, come questo, ci si potrebbe attendere che, sulla scia della straordinaria rivoluzione che ha portato in Italia alla restaurazione della libertà nel deserto agghiacciante dei manicomi, la follia sia considerata come una dimensione della vita alla quale ciascuno di noi possa andare incontro. Il grande respiro etico del pensiero e dell’azione di Franco Basaglia non si limiterebbe allora alla realizzazione di una psichiatria umana e gentile, ma entrerebbe a fare parte della vita delle giovani generazioni, al di là di una opinione pubblica indifferente, e non di rado ostile, alla accoglienza di ogni forma di sofferenza psichica.

Malattia mentale, l'esperienza di Trieste e Gorizia dove i 'matti' sono persone. E' l'isola che c'è, dove il pensiero del padre della 180 è diventato realtà. I centri di salute mentale sono sempre aperti. E qui si spende meno della media. La professoressa di storia: «Sento ancora le voci.  Ma la mia vita è cambiata», scrive Marco Pacini il 26 aprile 2018 su "L'Espresso". Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia (1969). Foto di Berengo GardinSe uno volesse “vedere” la rivoluzione di Franco Basaglia a 40 anni dalla legge che porta il suo nome potrebbe salire fin qui, sulla schiena di Trieste, zona Ponziana-San Giacomo. Zona disagio, lontana più di quanto dica una mappa dal salotto dell’impero che l’orgoglio patrio ribattezzò piazza Unità d’Italia, dal lungomare di Barcola, da quello che resta dei caffè letterari, dalla libreria di Saba, dalle vie della belle époque in abito asburgico. In via del Molino a vento 123 c’è una palazzina di mattoni rossi di inizio ’900, ristrutturata nel 2008, dove il viavai dei mattiscandisce le ore che non si contano più. Non serve: le porte sono aperte giorno e notte. Una sala accoglienza, un tavolo con le tazza da tè, niente liste d’attesa. Un giardino dove si fermano a parlare e a fumare pazienti, infermieri, assistenti sociali. Al piano di sopra sei camere con bagno per i “ricoveri”, al momento vuote. Sono tutti fuori i matti. Valentina, una giovane donna con «disturbi seri», occupava uno di quei letti fino a qualche giorno fa. Poi se ne è andata e nessuno l’ha trattenuta. Adesso sta parlando con lo psichiatra che dirige il centro, Matteo Impagnatiello. «Vuole stare ancora un po’ qui, mi ha chiesto di tornare, il posto c’è. Le persone qui ci devono stare volontariamente», dice il medico dopo averla congedata.

Le persone. Non è frequente sentir pronunciare la parola pazienti, men che meno malati, dai medici e dagli operatori della salute mentale, a Trieste. E ti sembra un eccesso di politicamente corretto finché, dopo qualche ora trascorsa tra le stanze dei Centri di salute mentale (oltre a questo ci sono altri tre presidi territoriali a Trieste) o lungo le vie del parco di San Giovanni, tra le palazzine di fine 800 che costituivano la cittadella-manicomio chiusa da Basaglia, ti accorgi che è spesso difficile riuscire riconoscere in un crocchio di persone i matti dai normali. All’ultimo piano della palazzina rossa c’è un’ampia mansarda con stanze comuni usate anche dalle associazioni del quartiere. «Ci sono venuti anche i bambini del rione per qualche attività», racconta lo psicologo del “Csm distretto 2” Oscar Dionis, che si occupa soprattutto di disagio degli adolescenti e tiene i contatti con la neuropsichiatria infantile dell’ospedale pediatrico Burlo-Garofalo, poco distante. «È attraverso questi luoghi - aggiunge Impagnatiello - queste stanze usate da tutti, che si rompe lo stigma». Come? La parola è “negoziazione”, spiega lo psichiatra. Con i pazienti in primo luogo, «ma anche con la gente del quartiere, i negozianti, i residenti del complesso di edilizia popolare qui di fronte. Tutti quelli che vivono attorno a questo luogo». Dal piano di sotto sale la voce di una sofferenza. Forte, rivendicativa. E nei volti di chi va e viene la sofferenza la leggi anche senza sentirla. I matti non scompaiono. Vivono. Quattro medici, due psicologi, diciotto infermieri, un assistente sociale, otto operatori. Le persone che bussano al Csm in cerca di aiuto o solo di una parola, sono 120/150 al giorno, il 7 per cento stranieri. I numeri di via del Molino a vento sono analoghi a quelli di quasi tutti i Csm del Friuli Venezia Giulia, dove la “180”, con qualche resistenza residua e non senza difficoltà nei quattro decenni trascorsi dalla sua approvazione, ha dimostrato che tutto quello che era stato pensato nella lunga gestazione della rivoluzione è “praticamente vero”, secondo l’espressione forse più cara (e più ripetuta) a Franco Basaglia. Prima di dirigerci verso l’ex manicomio, dove la psichiatria triestina ha il suo quartier generale, è necessario cercare chi naviga in direzione contraria, o almeno nutre dei dubbi sul “praticamente vero”. Un buon candidato potrebbe essere il sindaco Roberto Dipiazza, che sta armando i vigili urbani con le pistole e guida una giunta con tratti marcatamente di destra securitaria. Il sindaco di una città che va giustamente fiera della sua regata velica (tanto che arrivando dalla costiera o dal Carso ti accoglie il cartello “Città della Barcolana”, non di Svevo, Saba... o Basaglia), ma che del quarantesimo anniversario della rivoluzione basagliana, dell’«unica vera riforma fatta in Italia» (Norberto Bobbio, 1985), si è completamente dimenticata. «Ah sì... Già, quarant’anni... quando?», sono infatti le prime parole di Dipiazza. Il prossimo 13 maggio, sindaco...Ma se si cerca in Dipiazza un nemico della “180”, pronto a sommergerti con una serie di numeri che traducono in pericolosità tutta quella libertà dei matti, no, non lo si trova. E non solo perché quei numeri non esistono. Soprattutto perché qui la rivoluzione è patrimonio largamente condiviso, quasi intoccabile. «Sì, è vero, all’inizio qualche problema c’è stato... ricordo quel ragazzo uscito dal manicomio che uccise i genitori tanto tempo fa. Ma la legge Basaglia è stata una conquista di civiltà da cui non si può tornare indietro». Nelle parole del sindaco di Trieste c’è anche l’impronta indelebile di ricordi personali. «Da ragazzino abitavo in via Verga, che confina con l’ex manicomio. Con alcuni amici avevamo fatto un buco dove c’era la rete. Volevamo andare oltre quel muro che separava il parco dalla città. Siamo entrati più volte, sbirciavamo nascosti da una siepe. E quello che vedevamo e sentivamo era la fine del mondo. Persone che urlavano, che venivano lavate tutte insieme dentro le gabbie...». Già, il manicomio. «Forse non si può dire lager, ma insomma...». Nel gennaio del 1977, in uno dei vecchi edifici di questo manicomio, città nella città che sale sulle pendici del Carso, Franco Basaglia annunciò la fine del percorso iniziato a Gorizia nel ’61, proseguito a Parma, e finalmente realizzato a Trieste dopo quei due tentativi naufragati sui pregiudizi, sulla psichiatria tradizionale, farmacologica e contenitiva, ancorata al dogma messo nero su bianco dalla legge del 1904: il matto è pericoloso. «Chiuderemo il manicomio di Trieste entro un anno», scandì lo psichiatra veneziano davanti ai giornalisti e ai politici increduli. Lo smantellamento del manicomio iniziò in realtà nel 1980. Ma un anno dopo lo strappo di Basaglia fu varata la “sua” legge, anche se negli archivi parlamentari porta un altro nome. Il relatore era Bruno Orsini, democristiano. Come il giovane presidente della Provincia di Trieste di allora, Michele Zanetti. Fu lui ad aprire le porte di Trieste a Franco Basaglia, l’eretico, il radicale, il “filosofo”, per la maggior parte dei suoi colleghi. Ci ha scritto un libro Zanetti. Ne sta scrivendo un altro, autobiografico, «perché è la cosa più importante che ho fatto nella mia vita». Nessuna enfasi però. Oggi, la risposta alla domanda “perché lo fece?” suona più burocratica, che orgogliosa o compiaciuta. «Perché Basaglia era il migliore, abbiamo fatto un concorso e abbiamo preso il migliore. Tutto qui». In consiglio provinciale il Pci votò contro l’arrivo del “filosofo” dei matti. Poi capì, «e dall’opposizione votava tutte le delibere che adottavamo per favorire il lavoro di Basaglia», ricorda Zanetti. Eccolo il parco di San Giovanni, l’ex manicomio. Ci si arriva dall’alto imboccando via Edoardo Weiss, lo psicoanalista ebreo triestino che portò il pensiero di Freud in Italia e sfuggì all’Olocausto. Su uno degli edifici del vecchio manicomio la scritta è ancora leggibile: “La libertà è terapeutica”, il più basagliano degli slogan, coniato in realtà da Ugo Guarino. Lungo i vialetti vanno e vengono persone indaffarate, furgoncini carichi di piante e attrezzi da giardinaggio. Si sta preparando “Horti tergestini”, la rassegna di piante, fiori e cose naturali che ogni anno richiama qui migliaia di persone. E migliaia, in questi quarant’anni, sono stati anche gli psichiatri, gli operatori, i politici, venuti da tutto il mondo a studiare il modello Trieste, l’utopia realizzata. Dell’ultima delegazione, oltre agli psichiatri e agli operatori del mental health, facevano parte anche un giudice e uno sceriffo. Sono venuti da Los Angeles. Poi il Senato californiano ha incontrato via Skype il direttore del Dipartimento di salute mentale, Roberto Mezzina, e la sua équipe. E il progetto sta partendo: esportare Trieste in California. «Nella delegazione c’era anche Allen Frances, padre del Dsm 4 (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentale ndr) e uno dei padri della psichiatria biologica. Insomma non certo un sostenitore del nostro lavoro... Ha avuto una folgorazione», racconta Mezzina, «e una volta tornato in California ha scritto sull’Huffington post che “se Los Angeles è il peggior posto del mondo per ammalarsi, Trieste è il migliore”». Alessandro Norbedo e Roberto Colapietro, coordinatore e infermiere psichiatrico, entrano nell’ufficio di Mezzina. Sono da poco tornati dall’Honduras, che ha bussato a Trieste per cercare un aiuto nella gestione dei moltissimi detenuti con disturbi mentali in uno dei paesi più violenti del mondo. «Sempre di più... I contatti con chi viene qui per capire come lavoriamo e chi ci chiede di mandare operatori nelle loro strutture si sono quadruplicati negli ultimi 15 anni», spiega il direttore del Dipartimento, «ormai abbiamo rapporti con 40 paesi». Nella palazzina della direzione, di fronte alla quale campeggia la scultura di Marco Cavallo, icona della rivoluzione basagliana, si discute, si preparano gli incontri di “Articolo 32”, il gruppo di protagonismo che con quel nome sottolinea ancora una volta il legame strettissimo della rivoluzione con la Costituzione. Izabel Marin, brasiliana arrivata a Trieste sull’onda dell’eredità che Basaglia ha lasciato in quel paese, Pietro Degrassi e Adriano Germek, spiegano l’attività di “Articolo 32” di cui sono animatori. Adriano è il matto dei tre: a San Giovanni non c’è un gruppo, un’associazione, una cooperativa, che non veda protagoniste le persone, al di là dello steccato salute/malattia. Forse perché “impazzire si può”, come si intitola il ciclo di convegni che da sei anni il gruppo organizza. Oltre al corso di “tecniche di supporto tra i Pari”. Dove i Pari sì, sono i pazienti. Anche con disturbi gravi. Come la storica Silvia Bon, che il suo contributo di supporto dapari lo offre da tempo anche al di fuori di San Giovanni. Ti guarda e ti anticipa la professoressa. Come se leggesse nello sguardo la curiosità del visitatore “normale”, che si aggira nell’isola che non c’era e ora c’è, “praticamente vera”. «Sento le voci...», dice la storica con il suo ultimo libro sull’esodo degli istriani e dalmati in mano. Lo dice guardandoti dritto negli occhi. «Schizofrenia... Sa, parlare di schizofrenia non è mai stato facile. Lo era molto meno negli anni Ottanta, quando è iniziata questa lunga esperienza di sofferenza e passavo da diversi approcci terapeutici, basati sui farmaci. Poi nel ’92 sono stata presa in carico dal Csm di Barcola, ho cominciato a sentirmi meglio, una persona. Non si tratta solo di sintomi, quelli si possono ripetere, e si ripetono. Prendo ancora i farmaci, ma sono cambiata. Ho visto persone come me travolte dalla sofferenza riaprirsi al sorriso, ecco. Faccio parte del gruppo “Uditori di voci”... parlare di schizofrenia non è facile, ma quando lo puoi condividere lo è un po’ di più». La «presa in carico» di cui parla Silvia Bon è il primo passo della 180 “applicata” che con l’aiuto di Roberto Mezzina si può riassumere così: 1) ingresso a bassa soglia: c’è sempre un Csm non lontano da casa, facile da contattare, aperto 24 ore sue 24, in grado di fornire una risposta rapida; 2) si parte dalla persona più che dalla malattia, viene attivato un processo personalizzato che si può articolare con altre risorse, non solo chimiche, un progetto di vita; 3) il progetto ha anche un contenuto economico, coinvolgendo cooperative per esempio, e riguarda la casa, il lavoro, la socialità. Non solo clinica. Effetto collaterale: il Fvg spende meno della media nazionale per la salute mentale in rapporto alla spesa sanitaria complessiva. «Se tu non spendi per il privato e la residenzialità psichiatrica passiva questo è il risultato», conclude il direttore del dipartimento sfogliando gli ultimi bilanci. Ma cosa è rimasto del vecchio manicomio? «Nulla. Per le emergenze ci sono i reparti di diagnosi e cura psichiatrica all’interno degli ospedali. Da noi ci sono 6 posti letto, per lo più vuoti», risponde Mezzina. E di questo manicomio? Sorridono gli psichiatri e gli operatori del basaglismo realizzato. Qui il manicomio era un lontano ricordo anche quando alcune casette di San Giovanni erano abitate dagli ultimi ex internati che non avevano ancora trovato una sistemazione fuori. Gli ultimi tre hanno lasciato la casetta due anni fa e ora abitano al piano terra di una palazzina a Opicina, il pezzo di Trieste a maggioranza slovena che sta sull’altopiano. Uno dei tre è l’ultima lobotomizzata in Italia ancora in vita. Testimone quasi muta di un orrore non lontano che si chiamava psichiatria. Nel breve viaggio a ritroso alla ricerca delle radici di una rivoluzione nel suo quarantennale, l’ultima tappa è Gorizia, dove tutto iniziò nel 1961 attirando l’attenzione della cultura europea che “covava” il ’68. E si chiuse drammaticamente proprio nel ’68 con l’«incidente»: il paziente in permesso giornaliero che tornò a casa e uccise la moglie. Se il Comune di Trieste si è distratto sull’anniversario, a Gorizia non si trova nemmeno un cartello che indichi la strada per il “Parco Basaglia”, l’area verde tra l’attuale ospedale e l’ex manicomio, dove nel ’61 lo psichiatra veneziano trovò 600 pazienti che vivevano come in un lager. Compresi gli alcolisti e gli epilettici. Qui non sembra esserci la stessa condivisione, lo stesso orgoglio per l’utopia realizzata che anima la quasi totalità degli operatori triestini. O almeno non è questo il primo impatto varcando la soglia del Dsm nel cuore dell’ex manicomio, a qualche metro dal confine con la Slovenia, il “muretto di Gorizia” ai tempi di Basaglia. Marco Cernic è l’infermiere psichiatrico con maggiore anzianità. «Sono qui dal ’77». Basaglia? «Troppo Basaglia, non abbiamo sentito parlare d’altro che di Basaglia in tutti questi anni, secondo me c’è molta politica», scandisce nell’atrio, accanto alla figura in cartone a grandezza quasi naturale dello psichiatra della “180”. Ma dev’essere un’eccezione, perché il funzionamento della psichiatria goriziana diretta da Marco Bertoli, la sua filosofia, non hanno nulla di diverso da quella triestina. Molto da quella di gran parte del resto d’Italia, dove la contenzione per esempio, come ricorda Roberto Mezzina «è ancora praticata in modo massiccio». E come conferma Peppe Dell’Acqua, che ha preceduto Mezzina nella direzione della psichiatria triestina ed è una figura di riferimento non solo nazionale della rivoluzione. Una rivoluzione ancora incompiuta al di fuori dell’Isola che c’è. «Perché le Regioni hanno proceduto con modalità e velocità diverse», spiega Dell’Acqua. «Non esiste omogeneità, purtroppo. Ci sono aree in cui sono nate esperienze straordinarie grazie ad associazioni e coop sociali. Ma in molte Regioni la psichiatria non si è trasformata. Dalla Lombardia alla Sicilia, le forme organizzative sono spesso tali per cui le persone non accedono a tutto ciò che la legge consente. Negli ospedali ci sono ancora reparti di Diagnosi e cura a porte chiuse, dove si applica la contenzione. Solo in due o tre casi su dieci la contenzione non si fa più». Ma non è solo una questione di modello organizzativo; si tratta piuttosto dell’assunzione di un pensiero, questo manca. E non è poco, «visto che quel pensiero, quel modello teorico», conclude Dell’Acqua, «non è altro che l’ingresso nel diritto di tutti i cittadini italiani». Questo piccolo, parziale, viaggio nella “180 realizzata” non ha una fine. Ma ha avuto un inizio prima di salire in via del Molino a vento. In un caffè-libreria di Trieste dietro Ponterosso, il rettangolo di mare che si infila in città. Franco Rotelli arrivò a Trieste da Parma insieme a Basaglia, nel 1971. Ne raccolse l’eredità nel 1979, quando il padre della “180” fu chiamato a Roma, un anno prima della morte. Il resto della storia è noto: il basaglismo realizzato a Trieste è gran parte opera sua, soprattutto nei primi, difficili, anni della riforma. «Eravamo una piccola minoranza all’interno di un clima culturale particolare», ricorda Rotelli sorseggiando un’acqua tonica. Ma anche in Europa si respirava lo stesso clima, soprattutto in Francia... Deleuze-Guattari, Foucault, Sartre... «Già, e in Francia ci sono ancora 30-40 mila persone nei manicomi...». Appunto: perché in Italia no? «Per la peculiarità del pensiero basagliano: azione e determinazione». E lo chiamavano “il filosofo”... «Era un uomo di pensiero. Ma con la forza di immaginare il cambiamento delle istituzioni. È stata una rivoluzione politica, non solo intellettuale, culturale. Nel suo testo più noto, l’“Istituzione negata”, Basaglia mette al centro il funzionamento delle istituzioni». Avvertivate i potenziali pericoli? «Ne eravamo consapevoli. Ma ridurre la pericolosità nei confronti dei matti riduceva la loro, riduceva la violenza complessiva». Rotelli torna quasi ogni giorno a San Giovanni, nell’ex manicomio che ha chiuso. Ci andrà anche oggi. Sorseggia, si ferma. C’è un’ultima cosa che vuole dire, fare. «Un’inchiesta, vorrei fare un’inchiesta. Andare in giro e chiedere alla gente: capisco che la “180” sia considerata una delle più grandi conquiste culturali del ’900 per noi psichiatri, ma per voi...?». Forse perché “impazzire si può”, azzardiamo. «Sì, forse perché il rischio della sofferenza, di diventare matti, c’è in tutti noi. E vorremmo restare persone, nella sofferenza».

Disagio mentale, se scrivere diventa la cura. Il racconto di un uomo da molti anni in cura, che affronta il tabù della malattia psichiatrica e il suo intrecciarsi con i piccoli aspetti della vita quotidiana. È "dettagli inutili" di Alberto Fragomeni, scrive Sabina Minardi il 25 ottobre 2017 su "L'Espresso".  I farmaci. Il desiderio di una sigaretta. Le relazioni timide con i medici e con gli altri pazienti. I piccoli gesti. Sembrano dettagli inutili: sono la quotidianità. Frazionata, vivisezionata, nello sforzo di aggiungere un tassello in più nel cammino verso la normalità. Si intitola proprio “Dettagli inutili” (pp. 148, euro 12) il libro che Alberto Fragomeni, da una decina d’anni in cura per disturbi mentali a Bergamo, ha scritto e che le Edizioni Alphabeta Verlag hanno pubblicato nella Collana “180”: un archivio, con 17 titoli in catalogo, del mondo della salute mentale. Con la prefazione di Massimo Cirri, l’autore racconta i disturbi psichiatrici con ironia, distacco e con un’intelligenza disarmante. Confermando ciò che la medicina sa: che la scrittura è via di guarigione. Terapia per conoscere se stessi, per esplorare i propri limiti, e per averne cura, persino. Parola per dissacrare, per esaltare, per informare. E per liberare da molti tabù.

 “La libertà sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e le morti invisibili". "Potrebbe succedere a chiunque nel nostro Paese: attraversi in macchina l'isola pedonale, contravvenendo al codice della strada, e invece di essere multato vieni inseguito e arrestato da vigili urbani, carabinieri e guardia costiera sulla spiaggia. Poi, con il TSO, sei rinchiuso nel reparto di psichiatria dell'ospedale della tua zona, sedato, legato, non ti viene dato né da bere, né da mangiare, ai familiari è impedito di visitarti"... Così scrive Giuseppe Galzerano nel suo intervento in questo libro. Galzerano descrive l'esperienza di un suo amico, Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare, morto dopo più di quattro giorni di letto di contenzione cui era stato costretto per un TSO. Il processo contro i responsabili della "reclusione" è in corso.

La libertà sospesa. TSO, psicologia, psichiatria, diritti è il nuovo titolo di Fefè Editore dedicato al Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, a cura di Renato Foschi (Università Sapienza di Roma). Un argomento di estrema attualità: è recente la condanna in primo grado di alcuni medici giudicati responsabili della morte del maestro Francesco Mastrogiovanni, deceduto in regime di TSO dopo cinque giorni di letto di contenzione, senza acqua né cibo. Il TSO rappresenta una “eccezione” al diritto costituzionale per cui, poste certe condizioni (urgenza, mancanza di presidi extra-ospedalieri e rifiuto delle cure), al cittadino – con un provvedimento del sindaco – sono sospesi, per sette fino a quindici giorni, alcuni diritti elementari. Secondo i dati ISTAT, in Italia, nell’ultimo decennio si sono effettuati ogni anno oltre 10.000 trattamenti psichiatrici “obbligatori”. Sono, inoltre, in discussione progetti di legge finalizzati ad estendere le possibilità di applicazione del TSO. Parlare del TSO vuol dire aprire scenari drammatici, a volte veri e propri orrori umani e familiari, che rimangono sotterranei e riescono a raggiungere l’opinione pubblica solo in casi estremi come quello di Mastrogiovanni. Scenari che meriterebbero l’attenzione quotidiana dei cittadini più accorti e sensibili, e delle “pubbliche autorità” (giudici, medici, sindaci, ecc.) da cui l’applicazione del TSO dipende. In questo libro a più voci di Fefè Editore, curato da Renato Foschi, ne scrivono oltre allo stesso Foschi, psicologi, psichiatri, giuristi e giornalisti: Giuseppe Allegri, Giorgio Antonucci, Ines Ciolli, Gioacchino Di Palma, Giuseppe Galzerano, Nicola Viceconte, Philip G. Zimbardo. Con la chiusura di Ascanio Celestini.

La Libertà Sospesa. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Psicologia, Psichiatria, Diritti. Fefè editore ha, da poco, pubblicato un volume da me curato sul Trattamento Sanitario Obbligatorio in psichiatria. Pochi conoscono l’argomento. Il progetto è partito dalla conoscenza della morte di Francesco Mastrogiovanni, che ha scoperchiato un Vaso di Pandora fatto di coercizioni e morti durante un trattamento sanitario che vorrebbe essere invece aiutare il paziente (i morti durante i TSO non sono un numero irrilevante). Il TSO è un dispositivo contenuto nella L. 180/78 (cosiddetta Legge Basaglia) e poi nella 833/78 (Legge di istituzione del SSN) che consente la sospensione della libertà individuale e il ricovero coatto sulla base di una ordinanza del sindaco e due certificati medici che sanciscano l’urgenza del caso. Le condizioni per attuare un TSO sono, quindi, (1) l’urgenza, (2) la mancanza di possibilità di cura extra-ospedaliera, e (3) il rifiuto di cure da parte del paziente. Il TSO dura sette giorni ed è ripetibile una volta in sequenza e più volte nel corso della vita. Il libro fa luce su alcuni aspetti giuridici, psicologici e psichiatrici legati al TSO su cui ritengo sia bene riflettano sia gli operatori (medici, infermieri, psicologi), sia i pazienti. A mio parere, il problema principale della epistemologia della medicina è la difficoltà a fare i conti con la ragionevolezza di certe “malattie”, continuando a “ristrutturarle” sulla base di nuove cure e terapie…le malattie psichiatriche, sotto questo aspetto, sono prototipiche. Certo se poi qualcun altro che non sia il malato, ci guadagna, sarà difficile andare oltre la retorica. Ad. es. quanto costa un TSO al giorno? Quanto costa la somministrazione di un nuovo farmaco antipsicotico? Una giornata di ricovero in Italia varia dai 600 ai 900 euro e ci sono neurolettici che possono arrivare a costare molto. I reparti psichiatrici italiani sulla base di circa 10000 TSO all’anno (dati ISTAT) riescono ad avere quindi dei rimborsi milionari. Inoltre a prescindere dalla bontà dei sistemi di cura e di diagnosi psichiatrica – che sono costantemente messi sotto accusa da un numero crescente di studiosi ed expazienti-, le cure coercitive partono dall’idea che ci siano casi in cui sia necessario sospendere la libertà individuale come se il paziente potesse sempre essere potenzialmente un pericoloso criminale. Come generalmente si temono i criminali, così si si può temere il malato di mente; si crea, quindi, un sistema di controllo valido per entrambi. La preoccupazione dei fautori del TSO per il malato (e ci sono alcuni progetti di legge che vogliono che diventi una pratica più lunga) potrebbe, dunque, in primo luogo mascherare preoccupazioni di altro genere. Sul versante positivo, dobbiamo affermare anche che negli ultimi 150 anni non c’è stata solo una psicopatologia psichiatrica controllante e coercitiva, ma c’è stata anche una storia diversa creata da persone che si sono autonomizzate dal proprio contesto e che  sono state in grado di vedere le cose dall’alto…Freud, Janet, Montessori, Basaglia, Foucault…e con queste ci sono state moltissime altre personalità, meno note, forse più discrete, che però hanno grandemente contribuito  alla lunga e mitologica saga che contrappone le persone libere da quelle che vivono nella preoccupazione.  Sono lieto soprattutto perché alcune di queste persone libere (e qualcuno degli autori ha già lasciato dei tagli nella storia della psicologia e della psichiatria) hanno contribuito alla scrittura del volume da me curato.

Andrea Soldi: 25 anni, ucciso su una panchina a Torino. Bloccato e ammanettato da due vigili urbani per un Trattamento sanitario obbligatorio, il ricovero coatto nei reparti di Psichiatria previsto in casi eccezionali di pericolo. È l'ultima di una serie di vittime. C'è Mauro Guerra, 33 anni, che fuggiva da un arresto per Tso solo pochi giorni fa, nei campi della bassa padovana. È stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. Ci sono poi i casi di Franco Mastrogiovanni Giuseppe Casu, morti invece mentre erano nelle mani dei medici dentro gli ospedali. Ecco le loro storie. Per non dimenticare, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.

Morto durante il Tso, trasferiti i tre vigili della pattuglia. La sorella della vittima: "Non insabbiate nulla". Cordoglio del sindaco per la tragedia di piazzale Umbria, polizia municipale sotto accusa: i tre agenti sono stati "assegnati a servizi non operativi". Fassino: "Massima severità se emergeranno responsabilità personali". I parenti della vittima in procura dal pm Guariniello che ha aperto un'inchiesta, scrive Gabriele Guccione su “La Repubblica”. Il sindaco Piero Fassino ha telefonato questa mattina ai familiari di Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto mercoledì pomeriggio del 5 agosto 2015 durante un ricovero forzato eseguito da una pattuglia dei vigili urbani, dal Centro di salute mentale dell’Asl 2 e dagli infermieri del 118 ai giardinetti di piazzale Umbria. Un intervento che, è l'accusa dei testimoni e degli amici della vittima, sarebbe stato messo in atto con violenza immotivata: "Andrea era tranquillo, i vigili in borghese lo hanno preso per il collo, alle spalle. Mentre lo stringevano aveva la lingua fuori e non respirava più. Lo hanno caricato in ambulanza a faccia in giù, ammanettato". I tre vigili si sono difesi dicendo che l'uomo aveva dato in escandescenze ma questa circostanza non ha per ora trovato conferma tra i testimoni. L'ospedale Maria Vittoria ha riferito che Soldi, all'arrivo al pronto soccorso, era "già in arresto respiratorio" e che le manovre rianimatorie "non hanno purtroppo avuto successo". tre vigili della pattuglia, annuncia il Comune, sono stati intanto trasferiti: "Il comandante della Polizia municipale, Alberto Gregnanini - dice una nota - allo scopo di raccogliere ogni elemento di verità utile ai primi atti disposti dalla Procura, ha promosso un approfondimento sulle modalità dettagliate dell'intervento di mercoledì e ha disposto, in via prudenziale, l'assegnazione dei tre agenti coinvolti a servizi non operativi". Il sindaco Piero Fassino ha aggiunto che "se verranno rilevate delle responsabilità personali, queste dovranno essere perseguite con rigore e con la massima severità". “Intendo manifestarvi il cordoglio della città intera per questo grave lutto che vi ha colpito”, si sono sentiti dire, da Fassino, il padre Renato (che dopo aver parlato con i testimoni in piazza ha dichiarato "Mio figlio è stato ammazzato con cattiveria"), la sorella Cristina e il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi, che si sta occupando del caso. “Da parte nostra – ha aggiunto il primo cittadino – assumeremo tutte le misure e svolgeremo tutti gli accertamenti del caso per fare luce su questo tragico episodio”. "Chiedo che venga fatta luce sulla morte di mio fratello. E che non venga insabbiato nulla". Lo ha detto la sorella della vittima, che stamattina ha accompagnato in procura il cugino avvocato Giovanni Maria Soldi per un incontro con il pm Raffaele Guariniello che sta indagando sull'episodio. "Mio fratello - ha raccontato Cristina - era malato. Soffriva di schizofrenia dal 1990. Ma era già stato soggetto a trattamenti sanitari e non c'era stato alcun problema. Era un buono e non aveva mai fatto del male a nessuno. Mezz'ora prima rideva e scherzava: non doveva essere ammanettato, non doveva essere trattato in quel modo. Non doveva finire così". L'avvocato Soldi ha detto di essere stato chiamato dal sindaco, Piero Fassino: " Ha espresso la sua vicinanza e il cordoglio della Città, e ha affermato che, per quanto possibile, stanno acquisendo ogni informazione utile. Quanto all'inchiesta, per quello che mi pare di capire ci sono versioni discordanti. Bisognerà trovare la quadra. Ma ho fiducia in Guariniello". La famiglia Soldi, questa mattina, prima di andare dal pm, ha fatto un sopralluogo in piazzale Umbria alla ricerca di testimoni. In mattinate è andato in procura anche il comandante dei vigili urbani Alberto Gregnanini.

In nove foto la verità sulla morte di Andrea. L’inchiesta della procura torinese sulla tragedia del Tso. Raffica di interrogatori in piazza Umbria: i militari del Nas sequestrano un telefonino, scrive Massimiliano Peggio su “La Stampa”. «Sono due giorni che non dormo. Una cosa del genere non mia era mai capitata. La vicenda ha avuto una dinamica complessa. Mi sento vicino ai familiari e rispetto il loro dolore». Così diceva ieri pomeriggio l’infermiere dell’Asl To 2 uscendo provato dopo un lungo interrogatorio in Procura, di fronte alla polizia giudiziaria del pm Raffaele Guariniello. L’infermiere è stato il primo dei sanitari interrogati, collaboratore del dottor Pier Carlo Della Porta, lo psichiatra del servizio territoriale che da tempo seguiva Andrea Soldi, l’uomo di 45 anni morto durante un Tso, malgrado il ricovero al Maria Vittoria. Lui e il medico, con altro personale di un’ambulanza, erano presenti in piazzale Umbria per eseguire il ricovero forzato concordato con i familiari di Andrea, per il quale era stato chiesto l’intervento della pattuglia dei vigili urbani. Sempre ieri sono stati sentiti la sorella della vittima, Cristina e il papà Renato, accompagnati dal loro legale, Giovanni Maria Soldi. Per ora non ci sono iscrizioni formali nei confronti dei vigili urbani o di altro personale. Si attende il risultato dell’autopsia che sarà eseguita dal responsabile della medicina legale dell’ospedale di Alessandria, Valter Declame. Ma di fatto gli investigatori stanno raccogliendo gli elementi d’indagine ipotizzando profili di reato di omicidio colposo o lesioni colpose gravi, che hanno portato alla morte. Stando infatti ai primi accertamenti sul corpo di Andrea, le tracce riscontrate dai sanitari sarebbero compatibili con quelle di un’asfissia. E su questo solco hanno lavorato ieri i carabinieri del Nas di Torino, cui il pm ha affidato l’incarico di raccogliere le testimonianze delle persone che hanno assistito al Tso, mercoledì scorso, in piazzale Umbria. Il primo passo è stato sequestrare il telefonino del pensionato, ex carabiniere in pensione, che dalla sua finestra di casa ha fotografato l’ultima fase dell’intervento dei vigili, ritraendo Andrea a terra, con le mani ammanettate dietro la schiena, immobile, a faccia in giù. Il suo telefonino contiene 9 foto che saranno raccolte in un cd e inviate già in giornata al pm con una prima informativa, con i verbali delle testimonianze. Una decina in tutto. Quella dello stesso pensionato che ha assistito a tutta la scena e quella di Maria Ifrim, romena, che si trovava con il figlioletto nei pressi del bar Ari’s, con altri connazionali. Preziosa, inoltre, la testimonianza di un impiegato delle poste che era seduto sulla panchina accanto a quella occupata da Andrea. Ha visto il suo volto scurirsi e diventare cianotico, fino agli spasmi. Lo ha visto caricare sull’ambulanza ammanettato, a pancia in giù, proprio lui che era un omone di 150 chili. Anche la direzione sanitaria dell’Asl To 2 ha avviato «accertamenti interni», richiedendo una relazione sull’accaduto al servizio psichiatrico. Anche Giuseppe Uva venne ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il TSO".

Padova. Rifiuta il Tso, aggredisce i carabinieri che gli sparano: ucciso. Mauro Guerra, 30 anni, aggredisce un carabiniere e scappa: freddato dal collega. La tragedia nei campi di Carmignano di Sant'Urbano. E la famiglia chiede chiarezza. Il carabiniere che ha sparato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo, scrive “Il Mattino di Padova" il 30 luglio 2015. E' stato iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo il carabiniere che ha sparato e ucciso Mauro Guerra, il giovane che era scappato dopo aver rifiutato il trattamento sanitario obbligatorio. Un gesto dovuto da parte della procura di Rovigo (competente nel territorio della Bassa) anche per permettere al militare di nominare un difensore che potrà essere presente alle prove balistiche e alle ricostruzioni dell'accaduto. Intanto è stato dimesso il carabiniere che era stato aggredito da Guerra. Fatto che ha portato il collega militare a sparare e uccidere il giovane. Il carabinieri ferito è stato dimesso con una prognosi di 30 giorni per le 6 costole fratturate e i colpi alla testa ricevuti da Guerra. Hanno ucciso un uomo nudo e disarmato. L’hanno freddato i carabinieri in mezzo alla campagna. Mauro Guerra, 33 anni, laureato in Economia aziendale, dipendente di uno studio di commercialista di Monselice, buttafuori per arrotondare in un locale di lap dance, pittore e designer per passione, è morto dissanguato dopo che un colpo di pistola gli ha oltrepassato il fianco destro. È successo ieri a Carmignano di Sant’Urbano, un paese dove tutti conoscono i carabinieri per nome. Lì la gente li conosce uno per uno perché loro sono la Legge. Solo che quella stessa Legge, ieri, ha tolto la vita a un uomo disarmato. Violento ma disarmato. Gli ha sparato il comandante di stazione, il maresciallo Marco Pegoraro, insediato appena tre mesi fa nel comando che copre una vasta zona rurale tra l’estremo lembo della provincia di Padova e l’inizio di quella di Rovigo. Due colpi in aria e uno al fianco (anche se alcuni testimoni dicono di aver sentito quattro botti) con la sua Beretta calibro 9 di ordinanza. Voleva salvare un collega. Voleva fermare il trentatreenne per togliergli dalle grinfie Stefano Sarto, 47 anni, brigadiere del nucleo Radiomobile di Este, l’unico a rincorrere Mauro Guerra mentre questo, scalzo e in mutande, provava a fuggire attraverso i campi. Il militare l’ha raggiunto dopo una corsa sfiancante sotto il sole cocente. Seppur stremato è riuscito a stringergli una manetta al polso. Sembrava tutto finito. La trattativa estenuante iniziata poco prima delle 13 per un trattamento sanitario obbligatorio pareva essere giunta a conclusione. Ma dopo un accenno di remissione Guerra ha reagito in modo brutale. È riuscito a liberarsi dalla stretta e ha iniziato a colpire il brigadiere alla testa con le manette. Il militare è finito a terra e lui, cento chili per un metro e ottanta, ha continuato a infierire. Il comandante di stazione ha visto la scena da lontano. Ha intimato l’alt. Ha sparato due colpi in aria ma la brutale aggressione continuava. Così ha mirato e ha fatto fuoco ancora, stavolta puntando la canna dell’arma sul corpo nudo che copriva il collega a terra. Il colpo ha trafitto il giovane al fianco, gli ha tolto in un attimo forze e respiro. La rabbia della sorella Elena, che ha cercato inutilmente di avvicinarsi alla salma. I familiari: «Ci nascondono qualcosa». E c’è chi ha pensato al caso Aldrovandi. Medici e infermieri presenti per ultimare il trattamento sanitario obbligatorio sono accorsi per tamponare la ferita. Cinquanta minuti di massaggio sul posto. L’elisoccorso che parte da Treviso. Le pattuglie dei carabinieri che si moltiplicano. Operai che escono dalle fabbriche. Residenti che accorrono in strada. Sembrava potesse farcela ma alla fine il suo cuore si è fermato. Mauro Guerra è morto poco prima delle 16. «Nemmeno un cane si uccide in questo modo», gridava la sorella Elena trovando la solidarietà di tutti i compaesani. Una personalità complessa quella di questo ragazzo cresciuto con i genitori nell’abitazione di via Roma 36. Costituzione robusta e animo sensibile. Passione per la cultura fisica ma propensione per l’arte. Ci metteva poco a venire alle mani, Mauro Guerra. Con la stessa facilità, poi, ti poteva parlare dell’amore e della fede in Dio. Aveva fatto il militare in uno dei reparti più duri: i carabinieri paracadutisti. Poi la sorte l’aveva allontanato dalle forze armate e aveva scelto di proseguire con gli studi. Il suo era un caso noto. In questi ultimi anni aveva perso i punti cardinali e, a volte, esagerava con le reazioni. Lo sapevano i medici del paese, lo sapeva il sindaco e lo sapevano anche i carabinieri. Il suo atteggiamento era facilmente fraintendibile. A tratti molesto. In genere mandava messaggi via Facebook ma qualche giorno fa si è spinto oltre. Ha inviato un mazzo di fiori a casa di una ragazza del posto, una ventenne che evidentemente gli piaceva. Lei che lo conosceva è corsa dai carabinieri a raccontare tutto e in quel momento si è attivato tutto l’apparato previsto per legge quando si annusano casi di possibile stalking commessi da persone potenzialmente border line. Probabilmente, in quel momento, le autorità hanno deciso di agire. Ieri verso mezzogiorno sono stati i familiari a segnalare il precario equilibrio umorale di Mauro Guerra. Quando la pattuglia del nucleo Radiomobile si è presentata davanti a casa, il trentatreenne è uscito in cortile nudo. Indossava solo le mutande. Sudava e parlava a sproposito. Sosteneva di voler parlare con un certo “Vito”, militare in forze alla stazione di Carmignano che evidentemente lui conosceva bene. Ma i protocolli previsti in questi casi sono rigidi e chi deve essere preso in consegna dall’autorità sanitaria non può scegliersi questo o quel carabiniere. Così gli animi si sono scaldati in un attimo. Mauro entrava e usciva di casa. I militari gli parlavano e lui non li ascoltava. Si innervosiva sempre di più e non dava retta a nessuno, nemmeno ai genitori. Medici e infermieri dell’ambulanza, partiti dal pronto soccorso dell’ospedale di Schiavonia per un “codice verde”, sono stati avvisati strada facendo che la situazione si stava complicando. E dalla prospettiva di un semplice ricovero in Psichiatria, si sono trovati a dover praticare la tracheotomia a un giovane dissanguato. Ora i compaesani piangono per Mauro Guerra. Piangono per la morte di un ragazzo che hanno visto nascere. Piangono perché stavolta a sparare è stata la Legge.

Legato, sedato ed infine ucciso. L'assurda morte di Giuseppe Casu per Trattamento Sanitario Obbligatorio. Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra. La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia: «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d'astinenza. «Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelamente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo». «Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficenti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".

Franco Mastrogiovanni, per il maestro morto di Tso giustizia a metà. Il caso del maestro lasciato morire sul un letto d’ospedale in Trattamento sanitario obbligatorio a Vallo della Lucania. In appello sono stati condannati medici e infermieri, sospese le interdittive. I Radicali ora chiedono una “Legge Mastrogiovanni” per la riforma del Tso, scrive Lidia Baratta su “Linkiesta” il 16 Novembre 2016. Il maestro Francesco Mastrogiovanni, Franco per gli amici e i parenti, è morto a 58 anni durante un Tso, Trattamento sanitario obbligatorio, con le caviglie e i polsi legati al letto. Dopo 87 ore di inferno. Il 15 novembre la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Salerno ha condannato i sei i medici e gli undici infermieri in servizio nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove Franco era ricoverato. Anche gli infermieri, assolti in primo grado, sono stati condannati per sequestro di persona e conseguente decesso. Con la pena, però, sospesa. Ai medici già condannati sono state riconosciute invece le attenuanti generiche ed è stata revocata l’interdizione dai pubblici uffici. Per loro l’accusa è di falso in atto pubblico. «Simbolicamente è una sentenza importante perché dice che tutti sono responsabili. Siamo rimasti un po’ delusi per la revoca dell’interdizione dai pubblici uffici e l’abbassamento delle condanne dei medici», dice Grazia Serra, nipote del maestro e membro del comitato Verità e giustizia per Franco Mastrogiovanni, che nei giorni scorsi ha lanciato la campagna #diamovoceafranco. Per non far calare il silenzio su una storia di abusi e torture, anche se il termine nel nostro ordinamento non è ancora riconosciuto. Simbolicamente è una sentenza importante perché dice che tutti sono responsabili. Siamo rimasti un po’ delusi per la revoca dell’interdizione dai pubblici uffici e l’abbassamento delle condanne dei medici. Ottantasette ore. È la mattina del 31 luglio del 2009 quando Mastrogiovanni, «il maestro più alto del mondo», come lo chiamano i suoi alunni per via del suo metro e novanta di altezza, finisce in Tso al centro di salute mentale dell’ospedale di Vallo della Lucania. Ottantasette ore dopo, viene dichiarato morto. Durante il ricovero, mentre dorme, viene legato mani e piedi al letto, mangia una sola volta e assorbe poco più di un litro di liquidi solo tramite flebo. Quello che assume per tre giorni e mezzo è un cocktail di calmanti e sonniferi. Sedato, anche se non aveva mostrato aggressività all’ingresso in ospedale. Come si vede dai video delle telecamere dell’ospedale, il maestro dal suo letto chiede di bere, urla, tenta di liberarsi. Nel reparto c’è un caldo infernale. Suda. Viene lasciato nudo per ore sul letto in preda alla disperazione. Nessun medico si avvicina a lui. E alla fine arriva il silenzio: muore intorno alle 2 di notte del 4 agosto 2009, ma il personale sanitario se ne accorge dopo più di cinque ore. In quei giorni la nipote Grazia presenta alla porta dell’ospedale. «Mi hanno detto che era meglio non parlarci per non farlo agitare», racconta. «Poi mi hanno assicurato che stava bene e che stava seguendo le terapie». Il giorno dopo arriva la notizia della morte di Franco Mastrogiovanni per edema polmonare. La sera prima del ricovero il maestro si sarebbe trovato a Pollica, il comune amministrato da un sindaco che di lì a poco salirà tristemente agli onori della cronaca, Angelo Vassallo, ucciso nel 2010. Percorre in macchina l’isola pedonale e i vigili lo segnalano al sindaco, che ordina il Tso. La mattina dopo Mastrogiovanni è di nuovo in auto, viene seguito da vigili e carabinieri fino al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze, a San Mauro Cilento. Qui rifiuta di consegnarsi e cantando versi anarchici si butta senza vestiti in mare, dove rimane per due ore accerchiato dagli agenti. Da riva, i medici dell’Asl confermano la necessità del Tso. Anche se il maestro è calmo e lucido. Prima di salire sull’ambulanza con le sue gambe, va a farsi una doccia e beve un bicchiere d’acqua al bar. E così, calmo e collaborativo, appare nei video dei primi momenti del ricovero. Dà la mano agli infermieri che entrano nella sua stanza e mangia (per l’ultima volta) da solo. Poi comincia l’inferno. «Mi hanno detto che era meglio non parlarci per non farlo agitare», racconta la nipote. «Poi mi hanno assicurato che stava bene e che stava seguendo le terapie». Il giorno dopo arriva la notizia della morte. Franco Mastrogiovanni era già conosciuto dalle forze dell’ordine come “noto anarchico”. Da ventenne era stato vicino al movimento anarchico. E aveva pure subito due processi con annesse incarcerazioni dalle quali era uscito con la fedina penale pulita. Nel 1973 finisce dentro dopo essersi beccato una coltellata nel gluteo nello scontro che si conclude con la morte di di Carlo Favella, segretario locale degli studenti missini. Nel 1999 contesta una multa, viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, ma a sua volta accusa gli agenti di arresto illegale e i giudici gli danno ragione. Di tanto in tanto Mastrogiovanni soffriva di crisi depressive e nutriva un certo timore delle divise. Ma aveva sempre condotto una vita normale. Tant’è che continuava a insegnare. Negli anni Ottanta ottiene una cattedra a Sarnico, sul lago d’Iseo. Poi torna in Campania. Dove nel 2002 e nel 2005 subisce due Tso. Quello del 2009 è il terzo. Franco conosce bene i reparti di psichiatria del territorio. Quando gli agenti lo trascinano via dal mare, lui dice: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». Il video della telecamere dell’ospedale mostra come Mastrogiovanni nelle 87 ore di contenzione sia stato abbandonato e lasciato morire nel suo letto. Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza, è stato il testimone chiave del processo. Anche lui senza cibo né acqua per giorni. A questa storia Costanza Quatriglio ha dedicato il documentario 87 ore, costruito proprio sulle immagini delle telecamere interne dell’ospedale. Il 30 ottobre 2012 in primo grado cinque dei sei medici del reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in servizio durante il Tso di Franco Mastrogiovanni, erano stati condannati per sequestro di persona, morte come conseguenza di altro delitto (il sequestro) e falso pubblico. Il sesto medico era stato riconosciuto colpevole solo per il sequestro e il falso. Gli infermieri invece erano stati assolti da tutte le accuse per aver solo obbedito agli ordini. Ora, dopo la sentenza di secondo grado, sono stati tutti ritenuti colpevoli. Ma potranno tutti tornare a lavorare nelle corsie d’ospedale. L’ultimo caso di morte durante un Trattamento sanitario obbligatorio risale all’inizio di novembre. Fabio Boaretto, 60 anni, ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Madre Teresa di Calcutta nel comune di Este, Padova, muore a meno di 24 ore dal ricovero. Il pm di Padova ora ha aperto un’inchiesta e ha deciso di far eseguire l’autopsia sul corpo del paziente. Andrea Soldi, invece, 45enne torinese, al lettino dell’ospedale non ci è arrivato neanche. Il 5 agosto del 2015 viene fermato mentre è seduto su una panchina. Ammanettato e a pancia in giù, muore soffocato durante il tragitto verso il Tso. Ora il gup di Torino ha accolto la richiesta dei familiari di citare in giudizio il Comune di Torino e la Asl To2. Poco prima della morte di Soldi, Mauro Guerra era morto in provincia di Padova dopo essere stato colpito dal proiettile di un carabiniere per essersi rifiutato di sottoporsi al Tso. Massimiliano Malzone, invece, è morto mentre si trovava in Tso accasciandosi improvvisamente sul pavimento dell’ospedale di Polla, nel salernitano. Prima di lui era toccato a Giuseppe Casu, morto dopo sette giorni di Tso a Cagliari nel 2006. E a Francesco Mastrogiovanni, «il maestro più alto del mondo». Ora i Radicali chiedono una “Legge Mastrogiovanni” con un progetto di riforma del Tso che «preveda un’assistenza legale obbligatoria per i malati che si trovino in queste situazioni e la massima trasparenza delle condizioni di cura all’interno dei reparti». Perché «non ci siano mai più casi come quello del maestro di Vallo della Lucania».

Così hanno ucciso Mastrogiovanni. Fermato e legato a un letto per più di 90 ore. Senza acqua né cure. Finché muore. Il video integrale sul nostro sito. Un'iniziativa dei parenti della vittima e della onlus "A Buon Diritto" di Luigi Manconi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Ucciso per futili motivi. Si chiamava Francesco Mastrogiovanni, aveva 58 anni e faceva il maestro elementare. Mastrogiovanni non è morto in una rissa casuale con qualche teppista. In una mattina di fine luglio del 2009, un vasto spiegamento di forze dell'ordine è andato a pescarlo, letteralmente, nelle acque della costiera del Cilento (Salerno) e lo ha portato al centro di salute mentale dell'ospedale San Luca, a Vallo della Lucania, per un trattamento sanitario obbligatorio. Tso, in sigla. Novantaquattro ore dopo, la mattina del 4 agosto 2009, Mastrogiovanni è stato dichiarato morto. Durante il ricovero è stato legato mani e piedi a un letto senza un attimo di libertà, mangiando una sola volta all'atto del ricovero e assorbendo poco più di un litro di liquidi da una flebo. La sua dieta per tre giorni e mezzo sono stati i medicinali (En, Valium, Farganesse, Triniton, Entumin) che dovevano sedarlo. Sedarlo rispetto a che cosa non è chiaro, visto che il maestro non aveva manifestato alcuna forma di aggressività prima del ricovero. Aveva sì cantato, a detta dei carabinieri, canzoni di contenuto antigovernativo, come si addice a un "noto anarchico", sempre secondo la definizione dei tutori della legge locali. E poi, sì, aveva mostrato disappunto al ritrovarsi imprigionato. Aveva urlato, addirittura, e sanguinato in abbondanza dai tagli profondi che i legacci in cuoio e plastica gli avevano provocato sui polsi. Aveva chiesto da bere, tentato di liberarsi, pianto di disperazione e, alla fine, rantolato nella fame d'aria dell'agonia. Il personale del San Luca non si è lasciato turbare da questo baccano, come testimoniano le telecamere a circuito chiuso che hanno seguito il martirio del maestro di Castelnuovo Cilento. Queste riprese sono la più schiacciante prova d'accusa di un processo che si avvicina alla sentenza. Martedì 2 ottobre 2012, nel tribunale di Vallo della Lucania, il pubblico ministero Renato Martuscelli pronuncerà la requisitoria contro sei medici e 12 infermieri del San Luca in servizio durante il ricovero di Mastrogiovanni. I 18 imputati saranno giudicati per sequestro, falso in atto pubblico (la contenzione non è stata registrata) e morte in conseguenza di altro reato. Da venerdì 28 settembre il sito de "l'Espresso", in collaborazione con l'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi e con l'accordo dei familiari di Mastrogiovanni, mostra in esclusiva il filmato integrale registrato all'ospedale San Luca. Una sintesi di queste immagini era stata mandata in onda da "Mi manda RaiTre" quando il processo era appena iniziato. Quasi tre anni di udienze hanno confermato che un cittadino italiano, entrato in ospedale in buone condizioni fisiche e senza avere commesso reati, ne è uscito morto dopo pochi giorni senza che ai parenti fosse consentito di visitarlo. «Dopo tre anni», dice Manconi, «la famiglia di Mastrogiovanni ha deciso, con grandezza civile, che il suo dolore intimo diventi pubblico affinché la crocifissione del loro congiunto non si ripeta». Vediamo i fatti. La notte precedente il ricovero, il 30 luglio 2009, Franco Mastrogiovanni si trova a Pollica, comune gioiello del Cilento amministrato da un sindaco popolarissimo, Angelo Vassallo. Mastrogiovanni percorre in macchina l'isola pedonale. I vigili urbani lo segnalano al sindaco dicendo che il maestro guida ad alta velocità e ha provocato incidenti. Non è vero ma Vassallo ordina il Tso. Il provvedimento dovrebbe seguire, e non precedere, i pareri di due medici diversi. Ma tanto basta per aprire la caccia. La mattina dopo, Mastrogiovanni viene avvistato di nuovo in auto e inseguito da vigili e carabinieri. L'uomo arriva al campeggio dove sta trascorrendo le vacanze. Lì rifiuta di consegnarsi e si getta in mare. Per due ore resterà in acqua accerchiato dalla capitaneria di porto, dalle forze dell'ordine e da una decina di addetti dell'Asl. I medici che lo visitano da riva lo giudicano bisognoso di Tso e confermano il provvedimento del sindaco di Pollica benché il maestro in quel momento si trovi in un altro Comune (San Mauro Cilento). Mastrogiovanni ha già subito il Tso nel 2002 e nel 2005. Tra i suoi precedenti figurano anche due periodi in carcere. Uno nel 1999, quando Mastrogiovanni contesta una multa, viene arrestato e condannato in primo grado dalla requisitoria dello stesso Martuscelli che è pm nel processo per la sua morte. Il maestro sarà assolto in secondo grado e risarcito per ingiusta detenzione. Altrettanto ingiusta la prima incarcerazione, nove mesi tra Salerno e Napoli nel 1972-1973. Il ventenne Mastrogiovanni, vicino al movimento anarchico, finisce dentro per essersi beccato una coltellata nello scontro che si concluderà con la morte di Carlo Falvella, segretario locale del Fuan, l'associazione degli studenti missini. Nonostante il suo terrore delle divise e i periodi di depressione, Mastrogiovanni ha una vita normale. A metà degli anni Ottanta emigra e va a insegnare a Sarnico, in provincia di Bergamo. Poi torna in Campania, dove le informative di polizia lo marchiano ancora come sovversivo. In realtà, senza rinnegare la militanza passata, Mastrogiovanni non svolge attività politica. Si dedica al suo lavoro e alla passione per i libri. Ma i periodi di carcerazione ingiusta lo hanno segnato. Quando il 31 luglio 2009 si consegna per il suo ultimo Tso gli sentono dire: «Se mi portano a Vallo della Lucania, mi ammazzano». La previsione è azzeccata. Per tre giorni e mezzo, Mastrogiovanni viene trattato con durezza inaudita dal personale che sembra ignorare la presenza delle telecamere. «Il video», prosegue Manconi, «è l'illustrazione attimo per attimo dell'abbandono terapeutico e del mancato soccorso. Mastrogiovanni è stato crocefisso al suo letto di contenzione». Le immagini sono dure, a volte insopportabili. Ma proprio grazie al filmato, il processo è stato rapido, considerati i tempi della giustizia italiana. La presidente Elisabetta Garzo ha imposto alle udienze un ritmo serrato e ha sfoltito la lista dei 120 testimoni, concedendone solo due per ognuno degli accusati. Nelle testimonianze della difesa il Centro di salute mentale del San Luca funzionava secondo le regole e la contenzione dei pazienti non era praticata. Il video è una smentita solare di questa tesi. Anche la giustificazione del direttore del Centro, il dottor Michele Di Genio che ha sostenuto di essere in ferie e di avere lasciato la guida del reparto al suo vice, Rocco Barone, è stata smentita dal filmato. A volte gli stessi consulenti chiamati dalla difesa hanno aggravato la posizione degli accusati. Francesco Fiore, ordinario di psichiatria alla Federico II di Napoli, ha dichiarato che Mastrogiovanni era un non violento e soffriva di sindrome bipolare affettiva su base organica, un disturbo del tutto compatibile con una vita normale e con l'assunzione di responsabilità. Come esempio di personalità affetta da questa sindrome, Fiore ha portato Francesco Cossiga, ministro e presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica. «Non condivido la contenzione», ha concluso il professore in aula. Alcuni pazienti del San Luca hanno parlato di maltrattamenti e della contenzione praticata come terapia abituale. Un'altra ex ricoverata che vive una vita del tutto normale, Carmela Durleo, ha riferito di molestie sessuali da parte degli infermieri. Invano i legali della difesa hanno tentato di screditarla e di escluderla dalle testimonianze in quanto psicopatica. E la nipote di Mastrogiovanni, Grazia Serra, in visita dallo zio, è stata tenuta fuori per non turbare il paziente. Micidiale per gli accusati è stato il contributo del professor Luigi Palmieri, sentito nell'udienza del 29 novembre 2011. Ordinario di medicina legale alla Seconda Università di Napoli e convocato in aula come perito dell'Asl Salerno 3, Palmieri ha sostenuto che fin dalla mattina del 3 agosto, il giorno precedente la morte, Mastrogiovanni mostrava segni di essere colpito da infarto, che l'elettrocardiogramma è stato eseguito solo post mortem, che i valori dei suoi enzimi erano gravemente alterati, che non aveva bevuto a sufficienza, che non doveva essere imprigionato e che tutte le linee guida sulla contenzione in vigore in Italia o all'estero sono state ignorate dal personale dell'ospedale San Luca. Eppure, i tecnicismi della giustizia rendono incerto l'esito del processo. Il reato più grave contestato è il sequestro di persona: fino a dieci anni di reclusione se commesso da un pubblico ufficiale che abusa dei suoi poteri. È questo il cardine dell'accusa, secondo l'impostazione del primo pubblico ministero Francesco Rotondo, poi trasferito di sede. Ma il primo passo del sequestro di Mastrogiovanni sta nel Tso firmato dal sindaco Vassallo, mai indagato per la morte di Mastrogiovanni e a sua volta ucciso il 5 settembre 2010 in un attentato rimasto senza colpevoli. È vero che, codice alla mano, sequestro significa privazione della libertà personale. Ma nella contenzione i margini delle responsabilità sono più incerti e rischiano di cadere interamente sugli esecutori materiali, gli infermieri. Né la Procura ha tentato di giocare altre carte come l'omicidio colposo o preterintenzionale. Assenti dalle imputazioni anche le lesioni aggravate, evidenti dai risultati dell'autopsia e da uno dei momenti più terribili del filmato, quando una larga pozza di sangue uscito dai polsi martoriati di Mastrogiovanni viene asciugata con uno straccio da un'addetta alle pulizie. L'avvocato di parte civile Michele Capano, rappresentante dell'Unasam (Unione associazioni per la sanità mentale), ha ricordato la battaglia dei Radicali per introdurre nel codice penale il reato di tortura in risposta ai tanti casi (Mastrogiovanni, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva) elencati nel libro di Manconi e Valentina Calderone "Quando hanno aperto la cella". Manconi stesso, da senatore, ha presentato un disegno di legge sulla tortura. Per rendere giustizia a Mastrogiovanni dovrà bastare il codice attuale, anche se nessun codice prevede l'omicidio per caso. Il meccanismo di questo delitto lo ha spiegato in udienza l'imbianchino Giuseppe Mancoletti, compagno di stanza del maestro. Prima fase: «La sera del 3 agosto Mastrogiovanni gridava moltissimo». Seconda fase, il silenzio della morte. Terza fase, dopo che la salma è finita all'obitorio, improvvisi e notevoli miglioramenti nel reparto. Se Mastrogiovanni non avesse avuto compagni e parenti combattivi, la fase finale sarebbe stata: non è successo niente. Troppe volte, negli ospedali e nelle carceri, non è successo niente.

Muore in ambulanza durante un Tso, la procura apre un’inchiesta. Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, 49 anni aveva impedito ai sanitari chiamati dalla sorella di entrare nella stanza, poi ha accusato il malore fatale: domani l’autopsia, scrive “Il Resto del Carlino” il 12 luglio 2015. La Procura della Repubblica di Macerata ha aperto un fascicolo per la morte dell’imprenditore di Penna San Giovanni, Amedeo Testarmata, di 49 anni, deceduto in ambulanza mentre veniva sottoposto a Tso (trattamento sanitario obbligatorio). L’uomo, disoccupato, viveva con i genitori e la sorella e da tempo aveva manifestato problemi psichici e depressione. Sabato sera, la sorella si è accorta che non stava bene e ha chiamato il medico curante al quale però il quarantanovenne avrebbe vietato di entrare in camera. Il sanitario ha allora chiesto l’intervento dei carabinieri e del 118 per sottoporre il suo paziente al Tso. Ma Testarmata ha cercato di impedire anche l’ingresso del personale medico. Ha accusato un malore, si è cercato di rianimarlo ed è stato trasferito nell’autoambulanza, dove è deceduto forse per collasso cardiocircolatorio. Per chiarire la vicenda e le cause esatte della morte il pm Luigi Ortenzi ha avviato le indagini contro ignoti per omicidio colposo. Domani sarà effettuata l’autopsia.

Malzone, un cilentano di Agnone, morto a Polla dopo un tso, scrive “Unico Settimanale” il 26 giugno 2015. È morto in circostanze da chiarire, durante un Trattamento sanitario obbligatorio, un uomo di 39 anni. I familiari hanno molti dubbi sulle cause del decesso e lamentano che durante i 12 giorni di ricovero non hanno mai potuto vederlo. Si chiamava Massimiliano Malzone, viveva in un piccolo paese del Cilento, Agnone. Il 28 maggio era stato ricoverato nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale Sant’Arsenio di Polla, in provincia di Salerno. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. «Durante il suo penultimo ricovero mio fratello chiamava due, ma, anche tre volte al giorno. Quest’ultima volta no. I medici, quando chiamavo in reparto – racconta Adele, sorella di Massimiliano – mi dicevano che mio fratello stava benino, ma che aveva un atteggiamento aggressivo». Questa, secondo la signora Adele, è stata la motivazione utilizzata dai sanitari per vietare ai familiari di entrare in reparto. «Io ho chiamato sempre in ospedale per sapere come stava Massimiliano, aspettando che me lo facessero vedere. Ci vogliono due ore di macchina per arrivare a Polla e aspettavamo che ci dicessero che potevamo entrare in reparto», aggiunge Adele. Massimiliano, durante il suo ultimo ricovero, ha contattato la famiglia una sola volta. Poche ore prima del decesso. Lo ha fatto, intorno alle 12.45 di lunedì 8 giugno, utilizzando un cellulare che gli avrebbe prestato forse una paziente. Il ragazzo voleva contattare un legale. «Deve dargli il numero dell’avvocato, vogliono farci passare per pazzi qua dentro», avrebbe detto la compagna di stanza di Massimiliano alla sorella del ragazzo. Adele ricorda che la telefonata fu interrotta bruscamente. Alle 17, secondo quanto affermato dai medici in reparto, il ragazzo stava bene. Dopo meno di 3 ore la noti­zia del decesso. «Com’è possibile? – si chiede Adele — Com’è successo?». Massimiliano, secondo i medici, sarebbe morto per arresto cardiaco. La procura di Lagonegro ha avviato un’indagine per accertare le cause del decesso. Bisognerà attendere 60 giorni per i risultati dell’autopsia. La storia di Massimiliano richiama alla memoria quella di Francesco Mastrogiovanni, maestro di Castelnuovo Cilento deceduto nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura di Vallo della Lucania il 4 agosto 2009. Due storie diverse, ma con tratti comuni. Entrambi cilentani, entrambi morti durante un Trattamento sanitario obbligatorio. Entrambi, durante il ricovero, tenuti lontani dai propri cari. In comune anche un medico. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. Francesco Mastrogiovanni era stato legato mani e piedi al letto dell’ospedale, per oltre 80 ore. Il 26 e il 30 giugno si svolgeranno le ultime udienze del processo d’appello per il caso Mastrogiovanni, la sentenza è prevista per il mese di settembre. Nel caso del maestro di Castelnuovo Cilento, la verità è emersa grazie alla presenza, nel reparto, di un sistema di video­sorveglianza, sequestrato dalla polizia giudiziaria durante le indagini della magistratura. Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Vallo della Lucania è attualmente chiuso e una parte dei medici e degli infermieri sono stati trasferiti nell’ospedale di Polla. Nel reparto psichiatrico di Polla non ci sono le telecamere. Le immagini di Mastrogiovanni sono ancora impresse nella mente di chi le ha viste. Immagini mute che urlano giustizia, e ora giustizia dev’essere fatta anche per Massimo. È necessario sciogliere ogni dubbio. È doveroso nei confronti della famiglia e della giovane vittima.

Morte di Riccardo Magherini, tutte le indagini di quella notte. Tutte svolte dai carabinieri (e dagli indagati), scrive Riccardo Magherini viene dichiarato morto alle 3.00 del 3 marzo 2014, giunto ormai cadavere da Borgo San Frediano al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dopo aver chiesto "inginocchiato a mani giunte, aiuto". Apparentemente per i carabinieri quell'uomo a “d'orso nudo” (errore grammaticale presente nel verbale, ndr), “quell'energumeno”, “in un elevato stato di agitazione psicomotoria”, aveva “prima procurato dei danneggiamenti al vetro di una pizzeria, aveva rapinato un passante di un cellulare e aveva rotto il vetro di un auto” e “dopo che un medico gli aveva somministrato un medicinale che lo portava alla calma” proprio mentre i carabinieri, come scrivono loro stessi nei loro verbali, appuravano queste informazioni “il soggetto andava in arresto cardio respiratorio quindi i sanitari presenti sul posto iniziavano le manovre di rianimazione” e poi Magherini “decedeva durante il trasporto in ospedale”. Questa è l'informativa, che si conclude con una nota, per segnalare agli ufficiali in servizio i fatti. La ricostruzione è incredibilmente falsa. Non lo dice chi scrive, lo dicono i fatti e le testimonianze che la smentiscono con facilità. Ma per i carabinieri, quella sera, in fin dei conti Riccardo Magherini è un uomo che è morto per un arresto cardiaco. Come può succedere. Non c'entrebbero niente i calci ricevuti da Magherini e tutte le azioni di compressione che ha subito da quei quattro carabinieri il 40enne fiorentino e riferite da decine di testimoni. Solo un infarto. E allora perchè quel giorno il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Firenze svolge ventidue attività d'indagine di cui almeno diciassette nella notte? Perchè c'è l'esigenza di far dire alla volontaria della Croce Rossa, interrogata accanto al cadavere di Riccardo Magherini, che all'arrivo della prima ambulanza il 40enne fiorentino respirava ancora ed era vivo? Perchè quella notte maggiori e capitani dell'Arma passano ore ad interrogare persone e a cercare prove contro il morto Riccardo Magherini? Perchè di questo si tratta, in quelle ore i carabinieri cercano le prove contro un morto. Lo fanno per alleggerire le loro responsabilità nonostante sia soltanto morto d'infarto. Eppure qualcuno al comando di Borgognissanti sa che non è andata in questo modo. Lo sa esattamente dal minuto in cui gli appuntati Corni e Dalla Porta chiamano il maresciallo Castellano e riferiscono la morte di Magherini. Probabilmente c'è panico nei comandi del nucleo investigativo dei Carabinieri. Perchè quell'infarto sanno tutti perfettamente che non può reggere. Troppi calci da spiegare. Troppi testimoni di quello che è successo. E allora inizierà una serrata attività d'indagine svolta soltanto dai carabinieri, dagli stessi colleghi di chi intervenne in Borgo San Frediano ed è stato protagonista della morte di Magherini. Indagini finalizzate a far emergere l'aspetto peggiore della vita dell'ex promessa della Fiorentina. Per “metterlo” male. Per far passare quell' “energumeno” per un tossicodipendente, violento, che quella sera sarebbe stato anche un delinquente. Riccardo Magherini, incensurato, verrà denunciato da morto per furto e danneggiamenti. Su quel foglio trasmesso alla Procura di Firenze accanto al suo nome c'è una croce nera. Rimarrà unico indagato per la sua stessa morte fino al giorno della denuncia della famiglia contro tutti gli intervenuti sul luogo. I quattro carabinieri si faranno refertare al pronto soccorso con prognosi da due a dieci giorni. Lo faranno dopo aver svolto attività di indagine e soltanto dopo la morte di Magherini. L'appuntato Della Porta rimarrà all'interno del pronto soccorso per soli 8 minuti. Il maresciallo Castellano per 7. L'appuntato Corni sulla sua diagnosi vedrà anche scritta la descrizione di "un soggetto violento e agitato". Ma quell'uomo anche chi referta i carabinieri lo vedrà soltanto cadavere. E allora perchè scrivere in una diagnosi queste cose? Riccardo Magherini, come già detto, viene dichiarato morto alle 3.00 al pronto soccorso di Santa Maria Nuova dove arriverà in asistolia. Una morte sopraggiunta in Borgo San Frediano. A nulla sono servite le manovre rianimatorie eseguite all'arrivo della seconda ambulanza. Con le manette ai polsi, per “almeno un minuto perchè i militari non trovavano le chiavi”. Magherini era morto lì ed invece è stato trasportato in ospedale. Giusto per essere chiari, se Riccardo Magherini fosse stato dichiarato morto sulla strada sarebbe dovuto arrivare sul posto il pm di turno per disporre la rimozione della salma e sarebbe iniziata una procedura diversa da quella attuata in questo caso.

Appena comunicato il decesso iniziano le indagini.

Alle 3.05 gli appuntati Corni e Della Porta, per cui la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo (a Corni vengono contestate anche le percosse) visti i fatti di Borgo San Frediano, interrogano una delle volontarie della Croce Rossa intervenute sul posto. Anche a lei verrà contestato l'omicidio colposo. Questo interrogatorio si svolge accanto al corpo di Riccardo Magherini appena morto. “Le verrà fatto dire – sostiene l'avvocato Massimiliano Manzo, legale dei volontari della Croce Rossa – che con la mano avrebbe sentito il respiro di Magherini”. Esattamente questo. Quella volontaria avrebbe messo la mano, con il guanto di lattice, alla bocca del 40enne e avrebbe sentito il suo respiro. Purtroppo non sarà così, e quelle affermazioni verbalizzate accanto al cadavere di Magherini sono totalmente cambiate in sede di Polizia Giudiziaria tanto da fare dire al legale della donna che quell'interrogatorio " si è svolto in condizioni allucinanti”. “I carabinieri hanno negato ai miei assistiti la possibilità di assistere quell'uomo” dirà con forza il legale. E questa testimonianza sarà fondamentale per mantenere Magherini in vita all'arrivo della prima ambulanza. Influirà su tutta la condotta dei soccorsi da parte dei volontari. Non collegherebbe infatti l'infarto, motivo della morte di Magherini secondo i carabinieri, ai calci sferrati e alla pressione esercitata dai militari sul corpo a terra dell'uomo durante e dopo le fasi di fermo.

Contemporaneamente alle 3.10 appresa la notizia della morte, il maresciallo Castellano (anche lui a giudizio per omicidio colposo), interroga nella caserma di Borgo Ognissanti, insieme ad uno dei due ufficiali (un capitano, ndr) che vengono informati dalla nota di cui sopra, il pizzaiolo della prima pizzeria visitata da Magherini ed a cui il 40enne fiorentino avrebbe rubato il cellulare, comunque immediatamente restituito e causa poi dell'esigenza dell'arresto in flagranza che i carabinieri stavano operando su Riccardo. Anche in quel verbale c'è un sottile elogio all'operato dei militari “che tentavano di bloccarlo cercando di vincere la resistenza opposta dallo stesso che sbracciava e urlava le solite frasi senza senso. Posso dire, per quanto da me osservato direttamente, che i militari presenti sul posto, componenti di due pattuglie, non hanno assolutamente usato violenza nei confronti del soggetto da loro fermato, cioè non l'hanno picchiato ma cercavano solo di bloccarlo fisicamente, nè tantomeno hanno fatto uso di armi, limitandosi al suo contenimento. Ho tuttavia visto un carabiniere che sanguinava vistosamente dalla testa”. Questo dice quell'uomo. E l'opera di contenimento così limitata descritta da questo testimone è ampiamente smentita da altre decine di testimonianze.

Alle 3.30 poi è il maggiore Carmine Rosciano, comandante del Nucleo investigativo dell'Arma, ad incaricare due marescialli in servizio al reparto scientifico di andare a Borgo San Frediano sui “luoghi di interesse alle indagini”. Lì quegli stessi fotograferanno i danni alle due vetrine delle pizzerie, quelli all'auto (che da quelle foto non riporta vetri rotti), e l'iPhone con il vetro infranto che avrebbe rubato Magherini. C'è tutto tranne il luogo dove il 40enne verrà immobilizzato e morirà. Magari poteva esserci una macchia di sangue. Un segno. No, niente.

Alle 4.00 viene ricevuta la denuncia querela per danneggiamenti del proprietario della seconda pizzeria visitata da Riccardo Magherini. Al comando di Borgo Ognissanti, l'uomo dirà “di essere informato da un passante che Magherini aveva aggredito un carabiniere” e che durante tutte le lunghe operazioni di arresto e dei soccorsi rimarrà sempre all'interno della sua pizzeria, a circa dieci metri dal luogo della morte di Riccardo Magherini.

Alle 5.20, al comando di Borgo Ognissanti, veniva interrogato da un sottoufficiale dell'Arma (un maresciallo, ndr) uno dei due testimoni che avrebbero seguito tutto l'esito delle azioni di Magherini in San Frediano.

Il giovane riferiva che mentre camminava per Borgo San Frediano veniva avvisato dal pizzaiolo, di cui sopra, del furto del suo cellulare quasi contemporaneamente all'arrivo della prima macchina dei carabinieri. Magherini viene individuato. E' a terra in ginocchio e chiede aiuto. Poi però dopo aver consegnato il cellulare “spontaneamente”, “l'uomo cercava di scappare, ma veniva immediatamente bloccato da tutti e quattro i carabinieri presenti, che nonostante numericamente superiori facevano fatica a tenerlo fermo. Tant'è che nel tentativo di immobilizzarlo, l'uomo riusciva a strappare dalle mani di un carabiniere le manette, con le quali lo colpiva in fronte, mentre un altro carabiniere veniva raggiunto da diversi schiaffi. Dopo un’ azione piuttosto concitata, l'uomo viene finalmente ammanettato sulla schiena ed appoggiato a terra. Ma anche così non dava segno di calmarsi, infatti alcuni dei carabinieri presenti dovevano ancora comunque tenerlo fermo con le mani. Solo dopo circa cinque minuti, l'uomo finalmente accennava a calmarsi”. L'accenno era probabilmente il sopraggiungere dell'arresto cardiaco. Queste scene, così descritte, appartengono soltanto a questa testimonianza. Le manette “strappate” e i “diversi schiaffi” non compaiono in nessuna delle altre decine di testimonianze. Simili soltanto a quelle dell'amico che con lui assiste alla scena insieme però alle stesse altre decine di persone. Proprio in quegli stessi minuti all'ospedale di Santa Maria Nuova, gli appuntati Corni e Della Porta relazionavano sugli oggetti personali ritrovati negli abiti di Magherini. La carta d'identità, che solo in ospedale i carabinieri visioneranno, un mazzo di chiavi, due bustine di miele, una di nimesulide, dei soldi in contanti, un accendino, la carta della Conad. Non c'è droga. Non ci sono armi.

Sono frangenti importanti e frenetici, alle 5.30 un ufficiale dell'Arma (un capitano, ndr), accompagnato da due sottoufficiali, fa visita alla moglie di Riccardo Magherini. In quel momento è nella sua abitazione con il figlio Brando. Viene svegliata nel cuore della notte e le viene immediatamente chiesto se il marito si drogava. Se usava medicinali. Non le viene subito comunicato che Riccardo è morto in quella tragica circostanza. Le verrà detto quando i militari lasceranno la casa. Non prima che la donna firmi un verbale in cui dice proprio che il marito faceva uso di droghe. Ma quella frase sarà smentita (con una sottolinenautura in neretto, ndr) nelle dichiarazioni rese alla Pg con la specifica di “non aver mai pronunciato quelle frasi”. In quei minuti Guido Magherini, padre di Riccardo, telefona commosso e frastornato alla Polizia. “Mi hanno detto che è successa una disgrazia a mio figlio”. La Polizia passerà all'uomo i carabinieri, ma della prosecuzione di quella chiamata al centralino non c'è più traccia dal momento in cui l'uomo parla con i carabinieri. Stesso discorso per un amico che chiama pochi istanti dopo. “Fine registrazione” si legge sulle trascrizioni dei Ctu.

Alle 5.45 viene sentito, da un sotto ufficiale al comando dei Cc di Borgo Ognissanti, il secondo dei due testimoni che vedrebbe gli ultimi frangenti di Riccardo Magherini a San Frediano. Dichiara di “offrirsi di rincorrere l'uomo” appena saputo che aveva rubato un cellulare. E così fa. “Rincorrevo l'uomo” si legge nella sua testimonianza. Poi l'arrivo dell'auto dei carabinieri. La prima. E poi il racconto, molto simile a quello dell'amico. Saranno solo loro due a vedere queste scene. In certi casi però ritrattate in altre deposizioni. “A quel punto i quattro Carabinieri intervenuti intimavano all'individuo di stare fermo ma lo stesso tentava di allontanarsi; e quindi dopo numerosi inviti i carabinieri tentavano di bloccarlo ma l'individuo si divincolava dalla loro presa, infatti ha tolto le manette ad uno dei Carabinieri e sferrava con le stesse dei colpi al viso di uno dei carabinieri, ha dato tre-quattro schiaffi ad un altro Carabiniere. I carabinieri tentavano di bloccalo per renderlo inoffensivo ma lo sconosciuto ha opposto resistenza e profferiva ricordo ad alta voce frasi del tipo ""... aiuto,... chiamate la polizia, mi stanno sparando... ". "Finalmente i Carabinieri riuscivano ad ammanettarlo e sebbene immobilizzato lo sconosciuto ha sferrato dei calci ad uno dei Carabinieri e ha tentato sempre di opporsi ai carabinieri. Dopo alcuni minuti lo sconosciuto si calmava. Ho deciso di ritornare alla pizzeria per restituire il cellulare al pizzaiolo e dopo sono ritornato dove i trovava lo sconosciuto e in quel momento era sopraggiunta un'ambulanza”. Quindi sulla scena di Magherini appare anche questa figura che fa le veci dei carabinieri restituendo corpi di reato e offrendosi in una caccia all'uomo.

Sono circa le 5,40 (il verbale inizierà alle 6.00) quando un'altra testimone, la proprietaria del Fiat Doblò, viene chiamata a casa da un maresciallo dell'Arma che la inviterà a recarsi al comando di Borgo Ognissanti “per deporre una testimonianza in vista del processo per direttissima” per i danneggiamenti fatti in Borgo San Frediano qualche ora prima da un uomo a lei sconosciuto. Lei chiede di poter andare la mattina dopo aver accompagnato i figli a scuola. Ma quella testimonianza, le dicono i carabinieri, è urgente e serve al processo della mattina seguente. Ma quale processo? Le fanno anche intendere che Magherini ha ricevuto un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Quella donna testimonierà i fatti di fronte ad un capitano dell'Arma. Ma sarà costretta a dover scrivere all'avvocato Fabio Anselmo, difensore della famiglia Magherini, per dire che quei carabinieri non scrivevano sul verbale quando lei parlava dei calci a Riccardo. E racconterà le ragioni della chiamata. Ma soprattutto quella donna saprà della morte di Magherini soltanto il giorno dopo leggendo un quotidiano online. Perchè inventarsi la storia del processo per direttissima? Riccardo Magherini è morto da ore ormai. Perchè raccontare queste falsità? In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, il maresciallo Stefano Castellano con gli appuntati Vincenzo Corni, Davide Ascenzi e Agostino Della Porta, su cui tutti pende una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo, redigevano l'annotazione di servizio. Hanno scritto che la forza esercitata per i quattro militari è stata assolutamente contenuta e misurata alla violenza esercitata da Magherini. Annotazione di servizio che chiama in causa quei due testimoni di prima. Escludendo invece i molti altri che hanno assistito alla scena. E' sempre delle ore 6.00 la relazione degli agenti della terza 'gazzella' intervenuta in Borgo San Frediano. Non vedono praticamente niente di quello che accade, anche perchè arrivano dopo l'ammanettamento di Magherini. Vedono solo il loro collega ferito, che accompagnano in ospedale, e dopo qualche minuto dall'arrivo della seconda ambulanza si rendono conto che l'uomo ormai non “rispondeva alle sollecitazioni mediche”.

Alle 6,10 sarà interrogato al comando di Borgo Ognissanti il medico giunto a San Frediano sulla seconda ambulanza. Dirà di essere arrivato aver rilevato l'arresto cardiaco per poi aver iniziato a praticare le manovre rianimatorie. Non dirà di averle iniziate con le manette inserite. Non dirà, come farà poi, che dai volontari è stato riferito che l'intervento della prima ambulanza è stato negato dai Cc. E purtroppo si renderà anche protagonista di una telefonata al 118, agli atti, e tutta da approfondire. Rispondendo alla domanda ma ha preso roba?, diceva “Ora ti dico di sì, poi ti spiego..”. Una chiamata che appare strana. Molto.

In quei minuti, alle 6,25 un capitano dell'Arma interroga un volontario della Croce Rossa intervenuto sulla prima ambulanza. L'uomo dirà di arrivare e “trovare una persona a terra. Faccia a terra, ammanettato dietro la schiena. Tenuto bloccato da un agente. Mi si è fatto incontro un altro agente che mi chiedeva se a bordo c'era un medico per poter sedare la persona immobilizzata”. La risposta che conseguirà, cioè il “no, non c'è il medico”, non consentirà ai volontari della Croce Rossa di poter effettuare alcuna operazione di assistenza sanitaria a Magherini proprio perchè i militari avrebbero consentito solo ad un medico di assistere Riccardo. Perchè andava sedato. Ma non c'è scritto su quel verbale. Anche per questo volontario la procura chiederà il rinvio a giudizio per omicidio colposo.

Toccherà poi alle 6,50, al comando di Borgo Ognissanti, all'infermiere giunto in San Frediano sulla seconda ambulanza. Ad interrogarlo è il comandante del Nucleo investigativo in persona. Descriverà le operazioni di rianimazione. Non verrà però citata la scena delle manette, poi ricordata in successivi verbali.

Alle 7.00 a Borgo Ognissanti tocca ad un'altra volontaria della Croce Rossa arrivata sulla prima ambulanza, anche per lei la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Riferirà che i carabinieri hanno rappresentato “l'uomo come una persona aggressiva” e che quindi “non potevano intervenire”. Ricorda la scena della collega che mette la mano alla bocca per verificare la respirazione già citata nel verbale delle 3,05 ma firmerà successivamente una dichiarazione in cui spiegava le condizioni in cui si sono svolti gli interrogatori smentendo proprio le affermazioni dei verbali svolti nelle prime ore.

Le indagini proseguono frenetiche e alle 8.10 Guido Magherini viene sentito circa le abitudini del figlio dal comandande della caserma dei carabinieri di Piazza Pitti. Nel frattempo il maggiore Rosciano ha disposto la trascrizione dei colloqui tra 'gazzelle' e 112. Poi una macchina parte da Borgo Ognissanti pe ritirare la cartella di intervento del 118 e intorno alle 9 arriva la comunicazione del Pm Bocciolini che incarica le aliquote di Polizia giudiziaria di Polizia e Carabinieri di effettuare indagini, al momento contro ignoti, e sentire testimoni per fare chiarezza sulla morte di Riccardo Magherini in vista anche dell'autopsia. E nel giorno della morte di Riccardo Magherini saranno solo i carabinieri a svolgere le indagini. Per poi trasmettere il fascicolo alla pg che comincerà dal 5 marzo le proprie indagini, sempre affiancata da polizia e carabinieri.

Infatti dopo la comunicazione del pm alle 12.30 un ufficiale, (un capitano, ndr) e due sotto ufficiali dell'Arma, svolgono la perquisizione nella stanza dove aveva alloggiato Magherini all'hotel St. Regis. Esito 'negativo'. Non viene trovata droga. Questo è quello che cercano in quei momenti i carabinieri. Non la troveranno neanche in una macchina descritta comunque con oggettivo disgusto per il disordine.

Dopo l'auto, alle 14.00 i carabinieri visitano casa di Riccardo Magherini in via delle Campore. Trovano un “elevato quantitativo di medicinali”. E tra i farmaci descritti fotografano anche il Fluifort aperto, la Tachipirina ed il Malox. Tratteggiando nel verbale il ritratto di un abituale consumatore di farmaci. Un ipocondriaco. Se poi ai farmaci si associa la cocaina si crea mix perfetto per una morte come quella sopraggiunta quella notte. In quegli stessi minuti, al comando di Borgo Ognissanti, viene ascoltato il medico personale di Riccardo con domande specifiche su abusi di droga o disturbi di salute che potevano affliggere Magherini. Ma le risposte del medico non daranno spunti in tal senso. Nemmeno quelle del cameriere del ristorante Neromo, le cui immagini delle telecamere sono state prese alle 5 la mattina, e che riferisce di un Riccardo Magherini “tranquillo e sereno”. Ne descrive la cena la sera prima. Una serata tranquilla. Niente di utile per quelle indagini. E questo è quello che accade nelle 12 ore successive alla morte di Riccardo Magherini. Indagini serrate dei carabinieri. Per la morte di un uomo che loro stessi attribuiscono fin da subito ad un infarto. Un normale infarto. Normalità che durerà poco. In quelle ore i carabinieri non possono sapere che a Riccardo Magherini verranno riscontrate lesioni su tutto il corpo e che la droga a cui volevano attribuire la morte invece non la causerà. Al contrario dei calci e dela compressione toracica, non compresi nel protocollo di arresto violato dai quattro militari, e a cui è stato sottoposto l'uomo.

Questo è realmente accaduto. Queste indagini sono realmente avvenute. Sembra incredibile che sui carabinieri abbiano indagato i carabinieri. Ma è vero. Sembra incredibile che in quei minuti nessun ufficiale dell'Arma abbia sentito il bisogno morale, il dovere civile ed il solo semplice buon senso, che appartiene alle persone comuni, di passare le indagini alla Polizia. Di astenersi almeno dal svolgerle. Anche solo per il rispetto verso un uomo morto sotto la loro divisa sporcata dal sangue di Riccardo Magherini. Ma il rispetto, ad oggi, non c'è mai Stato. In attesa dell'udienza preliminare prevista per l'8 gennaio 2015.

I SOLITI MISTERI IRRISOLTI.

Uranio, Commissione: "Inadeguate norme sicurezza militare e negazionismo: risultato devastante". "Criticità hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari". Relazione approvata ma contestata dallo Stato Maggiore della Difesa: "Accuse inaccettabili", scrive Alberto Custodero il 7 febbraio 2018 su "La Repubblica". È ora di ammettere che l'uranio impoverito può essere la causa di tumori. È questa la conclusione cui è giunta la quarta Commissione costituita nella storia del Parlamento italiano per indagare sulle complesse questioni che concernono l’utilizzo dell’uranio impoverito, la cui relazione finale è stata approvata con 10 voti favorevoli e due contrari. Come ha riferito il presidente Gian Piero Scanu, i due contrari sono stati Elio Vito di Forza Italia e Mauro Pili del gruppo misto. Donatella Duranti, vicepresidente della Commissione: "Una maggioranza molto larga, indice del metodo che abbiamo usato in questi due anni, della più ampia condivisione. E ponendoci con grande onestà intellettuale di cui pensiamo di essere portatori". Le "reiterate sentenze della magistratura ordinaria e amministrativa", si legge nella relazione conclusiva, hanno "costantemente affermato l'esistenza, sul piano giuridico, di un nesso di causalità tra l'accertata esposizione all'uranio impoverito e le patologie denunciate dai militari o, per essi, dai loro superstiti. Per l'uranio è stato altresì riconosciuto sul piano scientifico, con la Tabella delle malattie professionali Inail approvata nel 2008, il nesso causale per la nefropatia tubolare". Le conclusioni della Commissione sono contestate dallo Stato Maggiore della Difesa, richiamandosi anche all'improvvisa dissociazione di uno dei periti consultati dall'organismo di inchiesta parlamentare. "Anche alla luce delle dichiarazioni rilasciate dal professor Trenta - si legge nella nota - le forze armate respingono con fermezza le inaccettabili accuse". Lo Stato Maggiore ribadisce che "le Forze Armate italiane mai hanno acquistato o impiegato munizionamento contenente uranio impoverito. Tale verità è emersa ed è stata confermata anche dalle commissioni tecnico-scientifiche ingaggiate dalle quattro Commissioni parlamentari che, dal 2005 ad oggi, hanno indagato su tale aspetto" con "centinaia di ispezioni in siti militari, in aree addestrative e poligoni". Da parte sua, il professor Giorgio Trenta, subito dopo l'approvazione della relazione, ha dichiarato: "Non ho mai detto che l'uranio impoverito è responsabile dei tumori riscontrati nei soldati. Le mie affermazioni sono state travisate". "Il presidente della Commissione - ha spiegato Trenta - cita una perizia in cui affermavo che l'uranio al massimo poteva essere il mandante, non l'esecutore materiale. Io parlavo di un militare che lavorava in un campo di atterraggio e decollo degli aeroplani che portavano le bombe all'uranio depleto in Kosovo che aveva una pista in terra battuta. Quindi quando gli aeroplani atterravano facevano un polverone, e questo faceva sì che inalasse microparticelle ma non di uranio, ma del materiale che stava nella pista". "Tutte le agenzie internazionali, a partire dall'Oms, hanno sempre escluso una responsabilità dell'uranio impoverito - ha insistito Trenta -. Nessuno l'ha mai provata". La replica è affidata al presidente della Commissione, il deputato dem Gian Piero Scanu, che ricorda come llLe affermazioni del professore Trenta sull'uranio sono depositate in una sua perizia giurata presso la Corte dei Conti dell'Abruzzo. Nell'audizione in Commissione, il 23 marzo 2016, "gli fu chiesto due volte se confermava quel testo e non ne negò la paternità. Non si riesce a capire per quale motivo ora il professore voglia negare 'la responsabilità di tali proiettili nel generare le nanopolveri che sono la vera causa di molte forme tumorali'". Contro il professore anche Mariella Cao, leader dell'associazione pacifista Gettiamo le Basi, che da decenni in Sardegna denuncia l'inquinamento ambientale dei poligoni militari e si è costituita parte civile nel processo sui cosiddetti veleni di Quirra. "Conosciamo Giorgio Trenta - ha dichiarato Cao all'Ansa -, nella precedente commissione parlamentare d'inchiesta aveva negato qualsiasi connessione tra il torio e le malattie, sostenendo che il torio non è pericoloso. In quell'occasione il Pm Fordalisi aveva sollecitato l'apertura di una indagine a suo carico e trasmesso gli atti in Procura".

La relazione della Commissione. La relazione della commissione presieduta da Scanu (che non sarà ricandidato alle prossime elezioni politiche del 4 marzo) è un vero e proprio cahier de doléances che punta l'indice contro annose inefficienze delle Forze Armate in tema di sicurezza sui posto di lavoro e controlli e vigilanza sulla salute dei soldati, sia in Italia che nelle missioni all'estero". "Mai più militari morti e ammalati senza sapere perché, mai più una 'penisola interdetta'".

• VIGILARE SULLA MISSIONE IN NIGER. La Commissione parlamentare Uranio raccomanda "al prossimo Parlamento di vigilare con il massimo scrupolo sulle modalità di realizzazione della missione" in Niger, "anche per quanto attiene alla valutazione dei rischi, all'idoneità sanitaria e ambientale dei luoghi di insediamento del contingente, alla congruità delle pratiche vaccinali adottate e alle pratiche di sorveglianza sanitaria". "Il lavoro della Commissione è stata "un'opera a maggior ragione preziosa, ove si tenga presente che malauguratamente non appaiono sistematici gli interventi della magistratura penale a tutela della sicurezza e della salute del personale dell'Amministrazione della Difesa. Il risultato è devastante". "Molteplici e temibili" sono per la Commissione "i rischi a cui sono esposti lavoratori e cittadini nelle attività svolte dalle Forze Armate, ma anche dalla Polizia di Stato e dai Vigili del Fuoco". I lavori della commissione si concludono con la presentazione di una proposta di legge che prevede, tra l'altro, l'abolizione della giurisdizione domestica: oggi i controlli sono fatti in casa, ovvero i militari controllano se stessi (la cosiddetta giurisdizione domestica). Si arriva addirittura al paradosso che i Rappresentanti dei lavoratori non siano eletti dai lavoratori ma dall'amministrazione. La proposta prevede invece che i controlli siano effettuati da enti terzi con compiti precisi.

• "SCOPERTE SCONVOLGENTI CRITICITÀ NELLE MISSIONI ALL'ESTERO". "La Commissione d’inchiesta ha scoperto le sconvolgenti criticità che in Italia e nelle missioni all’estero hanno contribuito a seminare morti e malattie tra i lavoratori militari del nostro Paese. Desta allarme la situazione dei teatri operativi all’estero: è stata constatata l’esposizione a inquinanti ambientali in più casi nemmeno monitorati. Singolare è, inoltre, la scarsa conoscenza, ammessa dagli stessi vertici militari, circa l’uso in tali contesti di armamenti pericolosi eventualmente impiegati da Paesi alleati". "Il risultato è devastante. Nell’Amministrazione della Difesa continua a diffondersi un senso d’impunità quanto mai deleterio per il futuro, l’idea che le regole c’erano, ci sono e ci saranno, ma che si potevano, si possono e si potranno violare senza incorrere in effettive responsabilità. E quel che è ancora peggio, dilaga tra le vittime e i loro parenti un altrettanto sconfortante senso di giustizia negata. Ecco perché in data 15 ottobre 2017 la Commissione ha trasmesso la 'Relazione intermedia' al Ministro della Giustizia".

• IN MARINA 1100 CASI DI TUMORI CAUSATI DA AMIANTO. "Rischi minacciosi gravano persino su caserme, depositi, stabilimenti militari: sia deficienze strutturali (particolarmente critiche nelle zone a maggior sismicità), sia carenze di manutenzione, sia materiali pericolosi. La presenza di amianto ha purtroppo caratterizzato navi, aerei, elicotteri. Tanto è vero che la Commissione d’inchiesta è giunta ad accertare che solo nell’ambito della Marina Militare 1101 persone sono decedute o si sono ammalate per patologie asbesto-correlate".

• "PERSONALE DIFESA CATEGORIA DI LAVORATORI DEBOLI". "Le criticità sono alimentate da un problema irrisolto: l’universo della sicurezza militare non è governato da norme e da prassi adeguate. Restano immutate le scelte strategiche di fondo che attualmente ispirano la politica della sicurezza nel mondo delle Forze Armate. Quelle scelte strategiche che paradossalmente trasformano il personale della Difesa in una categoria di lavoratori deboli".

• GLI 8 MECCANISMI CHE OFFUSCANO I RISCHI E 'ASSOLVONO' I VERTICI. "Questi due anni di investigazioni a tutto campo hanno consentito di fare finalmente piena luce sugli otto meccanismi procedurali e organizzativi che oggettivamente convergono nel produrre il duplice effetto di offuscare i rischi incombenti su militari e cittadini e nel contempo di arginare le responsabilità dei reali detentori del potere.

Primo. I datori di lavoro sprovvisti di autonomi poteri decisionali e di spesa. 

Secondo. La vigilanza sulla applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro delle Forze armate è svolta esclusivamente dai servizi sanitari e tecnici della Difesa, i cosiddetti 'ispettori domestici'. La loro azione si è dimostrata insufficiente.

Terzo. La diffusa inosservanza degli obblighi inerenti alla valutazione dei rischi risulta perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento, dei rischi e delle responsabilità effettive. 

Quarto. I Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (Rspp) e i Medici competenti (Mc) in alcuni siti sono risultati addirittura assenti.

Quinto. I Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza sono nominati dal datore di lavoro. 

Sesto. La crisi del Centro Interforze Studi e Applicazioni Militari (Cisam), che ha dichiarato la propria incapacità operativa a provvedere a una completa caratterizzazione radiometrica. E del Centro Tecnico Logistico Interforze (Cetli).

Settimo. Un Osservatorio epidemiologico della Difesa scientificamente non accettabile. Ottavo. Gli importi dei pagamenti delle sanzioni amministrative eventualmente irrogate al personale militare e civile dell’Amministrazione della difesa per violazioni sanzioni sono pagate dallo Stato.

• LA PROPOSTA: "ABOLIRE I CONTROLLORI DI SE STESSI". "Basilare sarebbe, anzitutto, l’approvazione della proposta di legge-Scanu firmata dalla quasi totalità dei componenti della Commissione, più che mai indispensabile al fine di garantire un’effettiva prevenzione contro i rischi incombenti su militari e cittadini. Le norme ivi contenute rompono il perverso meccanismo della giurisdizione domestica e affidano la vigilanza sui luoghi di lavoro dell’Amministrazione della difesa al personale del Ministero del lavoro". "Tra le altre necessità: servizi ispettivi terzi ed efficienti. Una Procura nazionale sulla sicurezza del lavoro, altamente specializzata e con competenza estesa a tutto il Paese. Individuare il datore di lavoro di fatto. Garantire l’autonomia e la competenza degli organi di controllo. Prevedere Rappresentanti dei lavoratori eletti o designati dai lavoratori militari. Urgente anche il superamento dell’Osservatorio Epidemiologico della Difesa e l’affidamento delle indispensabili ricerche epidemiologiche nel mondo militare a un ente terzo e qualificato per coerenza scientifica come l’Istituto Superiore di Sanità".

• L'EMERGENZA AMBIENTALE DEI POLIGONI DI TIRO. "Sono emerse rilevanti criticità che investono in primo luogo i temi della salute dei lavoratori e dei cittadini che vivono nelle aree adiacenti agli insediamenti militari, nonché della salubrità degli ambienti. La Commissione non ritiene accettabile che l’adozione di misure di prevenzione e sicurezza nei poligoni e nelle strutture industriali della difesa possa essere condizionata dalla indisponibilità di mezzi finanziari adeguati. Sono particolarmente significativi i dati emergenti dalle indagini sui poligoni di tiro relativi alla salute dei cittadini che vivono nelle aree adiacenti i poligoni, soprattutto in Sardegna". "Un aspetto rilevante riguarda l’utilizzo dei missili anticarro Milan, il cui sistema di puntamento include una componente radioattiva, consistente in una lunetta di torio che, dopo il lancio, ricade sul terreno. Per quanto riguarda il personale, sono stati numerosi i militari ammalati". "È emerso come le attività di brillamento venissero condotte tenendo in scarsa considerazione le condizioni di sicurezza degli operatori e delle popolazioni residenti. Numerose criticità presenta anche il poligono di Capo Teulada, a causa di una situazione ambientale che risulta fortemente compromessa. Il dottor Emanuele Secci, sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari: "Dai dati che abbiamo rilevato, sembrerebbe che siano presenti nella penisola interdetta 566 tonnellate di armamenti e che in due anni ne siano stati eliminati otto”.

• "AMMETTERE CHE URANIO PUÒ ESSERE CAUSA DI TUMORI". Durante alcune audizioni è stata riconosciuta la responsabilità dell’uranio impoverito nella generazione di nanoparticelle e micropolveri, capaci di indurre i tumori che hanno colpito anche i nostri militari inviati ad operare in zone in cui era stato fatto un uso massiccio di proiettili all’uranio impoverito. "In relazione a tre specifici casi emersi nel corso dell’inchiesta, la Commissione ha convenuto di trasmettere gli atti acquisiti nelle rispettive audizioni presso le procure della Repubblica competenti".

Primo. "Si tratta della vicenda relativa al militare Antonio Attianese, vittima di una grave patologia insorta a seguito della sua permanenza in territori contaminati dalla presenza di uranio impoverito in Afghanistan. Davanti alla Commissione, il 15 marzo 2017, denunciava l’atteggiamento ostruzionistico di alcuni superiori e le gravi minacce da lui subite nel corso delle pratiche relative alla sua richiesta di causa di servizio".

Secondo. "È il caso sollevato dal Tenente Colonello Medico Ennio Lettieri che, il 5 luglio del 2017, affermava di essere stato direttamente testimone, nel corso della sua ultima missione in Kossovo, in qualità di direttore dell'infermeria del Comando Kfor, della presenza di una fornitura idrica altamente cancerogena di cui era destinatario il contingente italiano, in un contesto di scarsa o inefficiente sorveglianza sanitaria sui militari italiani ivi impiegati e di grave pericolosità ambientale, del tutto sottovalutato o ignorato dai comandi in carica".

Terzo. "La Commissione ha provveduto a trasmettere alla procura della Repubblica di Roma gli atti relativi all’esame testimoniale svolto il 16 novembre 2017 dal generale Carmelo Covato della Direzione per il Coordinamento Centrale del Servizio di Vigilanza, Prevenzione e Protezione dello Stato Maggiore dell’Esercito".

"Nel corso di un’intervista televisiva andata in onda pochi giorni prima, Covato aveva affermato che i militari italiani impiegati nei Balcani erano al corrente della presenza di uranio impoverito nei munizionamenti utilizzati ed erano conseguentemente attrezzati. Affermazioni, queste, che apparivano in contrasto con le risultanze dei lavori della Commissione e con gli elementi conoscitivi acquisiti nel corso dell’intera inchiesta".

Ustica e l’ipocrita giustizia bifronte. A 38 anni dalla strage, per la Cassazione penale ad abbattere il Dc9 fu una bomba, per la Cassazione civile un missile. In mezzo, risarcimenti milionari, scrive Maurizio Tortorella il 26 giugno 2018 su "Panorama". Trentotto anni dovrebbero bastare, per ottenere la verità, o almeno per ottenere una sola versione accreditata (e credibile) dei fatti. E invece, nel triste anniversario del 27 giugno 1980, gli 81 poveri morti della strage di Ustica continuano a ballare un’oscena danza macabra tra due verità giudiziarie, entrambe ufficiali ma opposte. Da una parte, infatti, esiste una sentenza penale definitiva, che risale al 2006: frutto di una lunga istruttoria, di un processo durato 272 udienze con oltre 4mila testimoni, e di 11 perizie affidate a tecnici di grande valore, quella pronuncia della Cassazione ha stabilito che il 27 giugno 1980 il Dc9 dell’Itavia, precipitato nel Tirreno lungo la rotta Bologna-Palermo, non cadde per colpa di un missile ma per una bomba. Alla fine di un procedimento che aveva messo insieme 1 milione e 750 mila pagine di istruttoria, con quella decisione di 11 anni fa i supremi giudici hanno assolto dall’accusa di depistaggio i generali dell’Aeronautica militare italiana, che peraltro avevano rinunciato alla prescrizione. Dall’altra parte esiste, al contrario, un ginepraio di processi in sede civile che hanno invece avvalorato la tesi del missile. L’ultima è stata una sentenza della Cassazione, pronunciata nel giugno 2017, che ha condannato lo Stato a risarcire con altri 55 milioni di euro i familiari delle 81 vittime. All’opposto dei loro colleghi del penale, i giudici della Cassazione civile si sono convinti (a dire il vero con molte incertezze) che l’incidente del volo Itavia si verificò “a causa dell’operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiavano parallelamente a esso, di un velivolo militare nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, e quale diretta conseguenza dell’ esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure quale conseguenza di una quasi-collisione verificati tra l’aereo nascosto e il Dc9”. Il ginepraio è reso ancora più intricato dal fatto che ora la terza sezione civile della stessa Cassazione sta per pronunciarsi sulle dimensioni del risarcimento riservato all’Itavia, la compagnia proprietaria del Dc9, andata fallita dopo il disastro e stabilirà se 265 milioni di euro liquidati dalla Corte di Appello bastano o sono troppi. Il motivo di questa assurda giustizia bifronte va cercato nei suoi effetti risarcitori: infatti, se la causa riconosciuta della strage è la bomba, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza dell'aereo ricade sull'Itavia; se è un missile, invece, la responsabilità cade interamente sullo Stato italiano, che avrebbe dovuto prevenire ed evitare l'evento. Va detto che da tempo lo Stato si è fatto carico dei risarcimenti: a ogni famiglia degli 81 morti sono stati assegnati 200 mila euro (per un totale di 15,8 milioni) mentre nel 2004 i 141 familiari superstiti hanno ottenuto un vitalizio di 1.864 euro netti mensili rivalutabili, per un totale di altri 31 milioni al 31 dicembre 2014. Si stima pertanto che lo Stato spenda ancora circa 4 milioni di euro l’anno soltanto per i vitalizi. Ma all’assurdità della giustizia bifronte si aggiunge un altro assurdo, se possibile ancora più grave e politicamente rilevante. Nella scorsa legislatura, i parlamentari della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno scoperto l’esistenza di documenti segreti dai quali emergerebbe con chiarezza la possibilità di un coinvolgimento diretto del terrorismo palestinese nella caduta dell’aereo. Secondo quei documenti, insomma, a far cadere il Dc9 sarebbe stata una bomba che il Fronte di liberazione della Palestina avrebbe piazzato sull’aereo come mostruosa ritorsione per l’arresto di alcuni suoi militanti in Italia. Carlo Giovanardi, che fino allo scorso 4 marzo è stato senatore, ha più volte chiesto al governo di togliere il vincolo del segreto di Stato da quelle carte, senza mai nemmeno ottenere una risposta. "È davvero assurdo e vergognoso che le nostre istituzioni continuino a parlare del dovere di ricercare la verità su Ustica " dice Giovanardi “quando il primo a nasconderla è proprio il governo italiano". Quanti altri anniversari serviranno per fare cadere quella scritta “Top secret”?

Esclusiva mondiale, i diari segreti di Arafat: Craxi, Andreotti e i fondi neri di Berlusconi. Molte le rivelazioni del leader palestinese sull’Italia: dopo un incontro segreto con l'ex Cavaliere mentì in cambio di soldi per salvarlo da un processo. La verità sul caso Sigonella. Il giudizio su Saddam. Così viene riscritta la storia degli ultimi decenni. Ampi stralci sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio, scrive Lirio Abbate il 2 febbraio 2018 su "L'Espresso". “L'Espresso” ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e poi presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Diversi stralci dei diari sono pubblicati sull'Espresso in edicola da domenica 4 febbraio. I diari sono 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania, per essere ricoverato in un ospedale di Clamart, alla periferia di Parigi dove morì un mese dopo. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato illecitamente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Arafat incontrò segretamente Berlusconi nel 1998, in una capitale europea, e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i dieci miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all'Olp, come sostegno della causa palestinese. Non era vero, ma Arafat rivela nei diari di aver confermato pubblicamente questa versione ricevendo in cambio un bonifico. Nel diario si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat. I diari rivelano inoltre la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era primo ministro e Giulio Andreotti ministro degli Esteri, durante la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Arafat rivela che fu Giulio Andreotti (e non Bettino Craxi, come si era sempre creduto) a consentire al terrorista Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi in Tunisia. Giulio Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, ha sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di mediatore nascosto tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. A lui venivano proposti gli attentati e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e scriveva: “Bene, bene”. Nessun attentato dell’Olp coinvolse l'Italia dopo il 1985. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat nei suoi diari, che confermano gli accordi segreti tra Olp e governo di Roma affinché il territorio italiano fosse preservato da attentati. La lettura dei diari rivela inoltre che Arafat era fortemente contrario alla Prima Guerra del Golfo (1990-1991), scatenata dall'allora presidente dell'Iraq Saddam Hussein: «Devo schierarmi con lui, il mio popolo me lo impone», scrive Arafat, «ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta anche di aver fatto negoziazioni di pace segrete con l’allora premier israeliano Yitzhak Rabin. E dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». Arafat dedica molto spazio a raccontare i suoi stretti rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro: racconta con affetto e stima i diversi incontri con lui, fino all'ultimo avvenuto all’Avana. I diciannove volumi di cui L’Espresso fornisce gli stralci sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno ceduto i documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film.

Silvio Berlusconi, Yasser Arafat nei suoi diari: "Ho mentito per salvarlo", scrive il 3 Febbraio 2018 "Libero Quotidiano". L’Espresso pubblica i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Olp. Si tratta di 19 volumi scritti in arabo a partire dal 1985 e conclusi nell'ottobre del 2004, quando Arafat ha lasciato il suo quartier generale a Ramallah, in Cisgiordania. La lettura del diario rivela ad esempio che Arafat aiutò Silvio Berlusconi quando questi era sotto processo per aver finanziato il Partito Socialista di Craxi. Arafat incontrò Berlusconi nel 1998 e dopo quell'incontro decise di confermare la falsa versione data da Berlusconi ai giudici, cioè che i 10 miliardi di lire al centro del processo erano destinati non al Partito Socialista Italiano bensì all’Olp. L’avvocato Niccolò Ghedini smentisce immediatamente: "Si tratta di materiale offerto a più persone nei tempi passati sui quali non è stato fatto nessun controllo in relazione alla verifica sull'autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto. I fatti ivi narrati, per quanto riguarda i rapporti con il presidente Silvio Berlusconi, sono assolutamente non fondati e contraddetti dalle stesse dichiarazioni ufficiali più volte rilasciate pubblicamente dallo stesso Arafat".

Arafat e i fondi neri di Berlusconi: ecco i diari segreti. Le bugie per salvare l'ex Cav dai processi. La verità sul caso Sigonella. L’incontro con Di Pietro. Gli appunti riservati del capo palestinese. Diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. E che l'Espresso ha letto in esclusiva, scrive Lirio Abbate il 7 febbraio 2018 su "L'Espresso". Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, il più celebre e misterioso protagonista della causa palestinese, ha riversato per diciannove anni i suoi pensieri più segreti nelle pagine di diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. Li ha scritti in arabo, iniziando nel 1985. Ha continuato fino all’ottobre del 2004, un mese prima della morte. I diari rivelano tutto quello che in vita Arafat non ha detto pubblicamente. Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso. I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. Sono appunti che rivelano ciò che faceva e pensava uno dei protagonisti del XX secolo, prima leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di uno Stato che non è mai nato. Nei diari di Arafat si parla anche del nostro Paese. Ci sono molti riferimenti a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e a Silvio Berlusconi, e soprattutto al dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella (1985), il più grave incidente diplomatico mai avvenuto tra Italia e Usa. Si parla poi del famoso (e fino a ieri solo ipotizzato) accordo per evitare che ci fossero attentati terroristici in Italia. Ma soprattutto nei diari si racconta del rapporto tra il leader palestinese e Berlusconi. C’è anche la rivelazione di un incontro segreto fra i due, avvenuto in una capitale europea nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo nel quale il Cavaliere era imputato di aver gestito, attraverso la società offshore All Iberian, i miliardi in nero destinati dalla Fininvest al Partito socialista di Bettino Craxi.

Sono fatti poi dichiarati prescritti dal tribunale, ma di cui ora si apprendono retroscena sconosciuti. Il Cavaliere, per difendersi durante il processo, aveva indicato come beneficiario finale dei suoi dieci miliardi di lire l’Olp, a cui avrebbe fatto pervenire il denaro - come sostegno alla causa palestinese, su richiesta di Craxi - usando come mediatore Tarak Ben Ammar: produttore televisivo tunisino amico e socio di Berlusconi, oggi nel cda di Mediaset ma anche in quelli di Generali, Mediobanca, Telecom Italia e Vivendi. Tarak Ben Ammar aveva confermato questa versione, sostenendo che quei soldi erano andati a lui, legalmente, per poi essere destinati all’Olp. Quindi non erano, secondo Berlusconi e Ben Ammar, finanziamenti illeciti a Craxi. Arafat nei suoi diari racconta però una storia molto diversa. Scrive infatti di essere rimasto estremamente sorpreso nell’apprendere dai giornali che Berlusconi lo aveva finanziato: di quei dieci miliardi all’Olp non era mai arrivata nemmeno una lira. Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: «Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco». Arafat ribadisce quindi di non aver mai ricevuto i dieci miliardi e lo dice chiaramente anche a Berlusconi. Ma il leader palestinese, contemporaneamente, apre una porta al Cavaliere: gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma di aver ricevuto quei soldi, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente, in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano.

L’incontro segreto rivelato da Arafat è confermato all’Espresso da personalità che erano presenti. A questa storia nel diario del leader palestinese vengono riservate dieci pagine, dove si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat.

L’incontro con Di Pietro. Negli appunti c’è anche la notizia di un incontro tra Arafat e Antonio Di Pietro, nel 1998. L’ex magistrato arriva a Gaza nello stesso periodo in cui è in corso il processo All Iberian a Milano. E Arafat scrive nel suo diario: «Non ho potuto dire nulla a Di Pietro perché avevo già un accordo personale con Berlusconi». Contattato dall’Espresso, Di Pietro oggi dice: «Non era una rogatoria e non ero lì per All Iberian. In quel periodo avevo già lasciato la magistratura. È vero, ho incontrato Arafat, ma il motivo lo tengo per me». E poi aggiunge: «In quel periodo ero sotto attacco dall’area di Berlusconi». Facendo riferimento a quello che scrive il leader palestinese l’ex magistrato spiega: «So bene a cosa si riferisce Arafat negli appunti. Ripeto, l’ho visto e ci ho pure parlato a lungo. Abbiamo anche pranzato insieme e con noi c’erano altre quattro persone».

Il caso Sigonella. I diari rivelano poi la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio, durante e dopo la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi. Durante il sequestro della nave il governo italiano cerca di risolvere la vicenda contattando Arafat. Il quale invia sull’Achille Lauro un suo uomo, Abu Abbas, indicandolo come mediatore. Dopo pochi giorni i quattro dirottatori e Abu Abbas portano la nave in Egitto e rilasciano i passeggeri: ma uno di loro - l’americano Leon Klinghoffer, di origini ebraiche - era stato ucciso e gettato in mare. Secondo gli accordi, i terroristi sarebbero dovuti andare in Tunisia, con un aereo e un salvacondotto, sempre in compagnia di Abu Abbas. Venuti a conoscenza della morte di Klinghoffer, però, gli americani fanno alzare in volo i loro caccia e costringono l’aereo in cui i cinque si trovano ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Qui, dopo una lunga trattativa, i quattro terroristi si consegnano alle autorità italiane. Ma gli americani vogliono anche l’arresto di Abu Abbas, considerandolo un terrorista al pari dei quattro. Gli italiani si rifiutano di consegnarlo, al punto da circondare l’aereo con i carabinieri. E consentono così ad Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi prima in Tunisia poi a Gaza. Chi ha letto gli appunti di Arafat rivela che la linea dura del governo italiano verso le pretese americane sarebbe stata decisa non da Craxi - come si è sempre creduto - ma da Andreotti, che era in contatto diretto con Arafat. Sarebbe stato Andreotti a imporre di fatto a Craxi di fermare gli americani e di rispettare gli accordi presi con Arafat. Del resto Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, aveva sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di “mediatore nascosto” tra l’Olp e gli americani. Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato o un omicidio. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. Chi lo ha conosciuto e gli è stato al fianco per diversi anni conferma all’Espresso che Arafat «non ha mai ordinato un attentato. A lui venivano proposti e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e diceva: “bene, bene”». Ma nessun attentato dell’Olp coinvolse il nostro Paese. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat. E per questo doveva essere preservata da attacchi.

Il triangolo Gelli, Berlusconi, Craxi. Parlando di Craxi, Berlusconi e Licio Gelli, il capo dell’Olp racconta nei suoi appunti una storia che li vede tutti e tre collegati tra loro. Si tratta di una vicenda dei primissimi anni Ottanta, quando Roberto Calvi - allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli - ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi (membro della sua loggia, la P2) e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua. Ci sono anche alcuni aneddoti che Arafat riporta nei suoi appunti e collegati alle visite ufficiali in Italia. Ad esempio, il 5 aprile 1990 il capo dell’Olp arriva a Roma con un volo proveniente da Parigi. Deve incontrare, tra gli altri, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Arafat scrive nel diario che quando arriva al Quirinale il capo del protocollo gli fa togliere il cinturone con la pistola, quello che lui portava sempre con sé. Arafat racconta che a quel punto i pantaloni erano troppo larghi e gli cadevano. Per questo si presentò davanti a Cossiga tenendoli stretti con le mani, evitando una brutta figura istituzionale. Al Capo dello Stato disse: «Mi scusi signor Presidente, non è colpa mia ma del suo ambasciatore...», quello che gli aveva fatto togliere il cinturone. Anche il giorno della consegna del Premio Nobel per la Pace, il comandante palestinese scrive che il programma della cerimonia ha avuto un ritardo a causa della sua divisa militare che comprendeva la pistola. Il 17 luglio 1990 Arafat, che per lungo tempo era stato single (e mai erano apparse donne nella sua vita) sposa Suha Tawil. Lui confida sul diario: «Come faccio a sposarmi con Suha? Io sono già sposato con la Palestina ed il suo popolo».

L’amicizia con Fidel. Arafat dedica poi molto spazio a raccontare i suoi rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro, fino all’ultimo incontro avvenuto all’Avana. Quasi coetanei, i due avevano in comune anche la militanza guerrigliera e i principali nemici, cioè Stati Uniti e Israele. Entrambi, inoltre, amavano le uniformi, portavano la barba e avevano il carisma del leader capace di suscitare grandi speranze e aspettative nei propri popoli. Oltre che a Cuba, Castro e Arafat si erano incontrati spesso alle riunioni dei Paesi non allineati e ai funerali dei vecchi leader sovietici, dai quali entrambi avevano ricevuto sostegno politico e un fiume di rubli negli anni della Guerra Fredda. Le pagine dei diari raccolgono poi il disagio e lo sfogo del capo palestinese quando deve appoggiare Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo (1990-1991). Così scrive Arafat: «Devo schierarmi con lui: il mio popolo me lo impone. Ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo». Arafat racconta quindi di negoziazioni di pace, segrete, con l’allora premier Yitzhak Rabin, mentre dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile». I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film. Il carico di testimonianza che lascia Arafat è pesante. E non sarà facile, per molti, accettare le conseguenze delle rivelazioni contenute nelle pagine di questo diario.

I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti. Mentre emergono nuovi inediti particolari, l’Anp apre un’inchiesta sul nostro scoop, scrive Lirio Abbate il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". I diari che il leader dell’Olp Yasser Arafat ha lasciato in eredità alla storia, i cui primi stralci sono stati pubblicati in esclusiva mondiale sull’ultimo numero dell’Espresso, ci mostrano il volto di un comandante temuto da molti ma innamorato del suo popolo. Nelle pagine dei diciannove volumi che solcano i fatti dal 1985 all’ottobre del 2004 c’è la storia di una tragedia, quella palestinese, vista con gli occhi di un uomo che scrive di vivere e resistere per la sua gente. E negli appunti ricorre spesso una frase: «Il mio più grande amore è la Palestina». Aver rivelato l’esistenza di questi diari e una parte del loro contenuto (stralci che L’Espresso ha pubblicato dopo averli riscontrati) ha mandato su tutte le furie il nipote del defunto leader palestinese, Nasser al-Kidwa, oggi presidente della Yasser Arafat Foundation (Yaf). Al-Kidwa ha scritto in un nota che Arafat «effettivamente ha lasciato dei diari nei quali ha segnato le sue osservazioni sugli eventi politici incorsi durante la sua lunga lotta, ma questi diari sono in possesso della Yaf e nulla di essi è stato ceduto». Kidwa ha assicurato che la fondazione «farà presto una revisione di tutti i contenuti dei diari e, dopo aver preso una decisione politica in merito, li svelerà al pubblico». Ma una parte delle memorie del leader palestinese sono, evidentemente, sfuggite al controllo del nipote. Tanto che l’Autorità palestinese ha deciso di aprire un’inchiesta per scoprire come sia avvenuta la fuga di notizie. I fiduciari che hanno in custodia gli appunti del leader dell’Olp rivelano anche altri punti del manoscritto. In particolare sui rapporti con Papa Giovanni Paolo II e alcune delle loro conversazioni private, durante gli incontri in Vaticano. Chi è stato accanto al leader palestinese conferma che Arafat «scriveva i suoi pensieri e quel che gli dicevano i suoi interlocutori su un quadernetto grande come il palmo d’una mano, da cui non si separava mai». E in questi lunghi anni c’è stato qualcuno vicino al leader che si è preso cura di conservare questi quadernetti. Dagli appunti, come ha rivelato L’Espresso, emergono incontri segreti, fra cui quello con Silvio Berlusconi, e il versamento di somme di denaro per ottenere una dichiarazione che avrebbe dovuto proteggere il Cavaliere dal processo per i fondi neri della società off shore All Iberian, in cui era imputato insieme a Bettino Craxi. Un favore a Berlusconi? Di sicuro, negli effetti. Ma nelle intenzioni «potrebbe essere stato anche un tentativo di salvare Craxi, che si era speso tanto per la Palestina», dice Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, impegnata per la difesa della Palestina e tra le fondatrici della rete internazionale delle “Donne in nero contro la guerra e la violenza”, che conosceva bene il capo dell’Olp e ne era amica. «La falsa dichiarazione di Arafat (aveva confermato la versione del Cavaliere, secondo la quale i fondi al centro del processo erano una donazione all’Olp e non un finanziamento illecito al Psi, Ndr) può essere quindi stato un atto di amicizia e di riconoscenza», aggiunge Morgantini. L’ex europarlamentare sostiene che «questi gesti di generosità facevano parte della personalità di Arafat», quindi «non credo che alla base ci sia stato uno scambio di favori. In fondo Craxi aveva fatto tanto per Arafat». Morgantini aggiunge che il suo amico Arafat invece «non aveva rispetto per Berlusconi. Ma se l’obiettivo era quello di salvare Craxi, allora potrebbe essersi reso disponibile a risolvere il problema». Ricevendo in cambio versamenti dal Cavaliere o no? «Non lo so. Ma non ho mai visto Arafat circondato dal lusso o dalla ricchezza. Conduceva una vita parca e i soldi li usava per la politica o per donarli a chi ne aveva di bisogno. Per se non teneva nulla e viveva in abitazioni modeste». Eppure era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo... «Non so se nascondesse il denaro. Certo viveva in maniera molto sobria», risponde Morgantini. La celebrità mondiale di Yasser Arafat è durata a lungo. Sono stati pochi gli uomini politici a riuscire ad occupare, come ha fatto lui fino alla sua morte avvenuta nel novembre 2004 a Parigi, le prime pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Occorre partire da lontano, nel dicembre 1968 quando il settimanale americano “Time” gli ha dedicato la copertina: allora, per la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale Arafat era solo un capo terrorista e il portavoce d’una oscura organizzazione, Al Fatah, che aveva giurato la distruzione di Israele. L’aspetto esteriore dell’uomo contribuiva a questa immagine: con la “kefiah” araba o un berretto militare, mal rasato, gli occhi nascosti dietro lenti scure, un abito cachi pieno di tasche, portava sempre una pistola alla cintura o un mitra a tracolla. Tuttavia chi lo conosceva nell’intimità sostiene che queste apparenze erano ingannevoli. Lontano dai media, senza niente in capo e vestito normalmente, quell’ometto grassottello e calvo - dicono i suoi amici di un tempo - era un conversatore gioviale e un capo generoso. Paradossalmente, il comandante conosceva solo superficialmente le questioni militari e non era abile con la pistola. I suoi aggiungono anche che era un uomo sensibile al punto da singhiozzare quando fu proiettato per lui un documentario sul massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. E, secondo i testimoni che gli sono stati accanto, le lacrime gli spuntavano anche quando parlava delle sventure del suo popolo. Ad ascoltare i suoi amici, Arafat non era né un estremista né un sognatore. Sapeva, come del resto emerge anche dai diari, che bisognava trovare un modus vivendi con gli israeliani. Già nel 1968 diceva: «Se gli ebrei e i palestinesi potessero unirsi, il Medio Oriente entrerebbe nell’età dell’oro. Il genio, le risorse naturali e intellettuali dei nostri due popoli basterebbero a vincere l’egoismo, la corruzione e la doppiezza della maggior parte dei regimi arabi». Arafat aveva accumulato sconfitte senza mai disperare e anche nei momenti più difficili mostrava fiducia. Leggeva con attenzione i giornali e le sintesi della stampa internazionale che gli veniva fornita dai suoi collaboratori. E approfittava dei pochi momenti liberi per giocare a scacchi o guardare cartoni animati su videocassette. Il poeta palestinese Mahmoud Darwish ha sintetizzato così la figura di Arafat: «La sua politica non sempre è stata giusta. Lo critichiamo e talvolta lo giudichiamo con severità. Ma lui è il simbolo della nostra identità, della nostra unità e delle nostre aspirazioni nazionali».  

Totò, Peppino, Arafat e Berlusconi. L’esclusiva “mondiale” dell’Espresso sui “diari” di Arafat non torna. I testi non li ha visti nessuno, le date ballano, i testimoni smentiscono. Controinchiesta di Luciano Capone del 7 Febbraio 2018 su “Il Foglio”. La notizia, annunciata già da sabato pure su Repubblica, tradotta anche in inglese, era davvero clamorosa: “L’Espresso ha scoperto, in esclusiva mondiale, i diari segreti di Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese”. L’impressione era che quella di Lirio Abbate fosse l’inchiesta giornalistica dell’anno, o forse anche del secolo, vista l’importanza dal punto di vista storico e politico che può essere contenuta nei diari “segreti” di uno dei leader più importanti e controversi – questa è la formula di rito – della seconda metà del Novecento. Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella vita personale e politica di Arafat, l’anticipazione degli “ampi stralci” riguardasse un episodio giudiziario della vita di Silvio Berlusconi. E anche la storia, in realtà, non tornava molto: l’idea che nel 1998 Arafat si fosse incontrato in segreto con Berlusconi per chiedergli soldi in cambio di una falsa testimonianza nel processo “All Iberian” sul finanziamento illecito al Psi di Bettino Craxi appariva ben più bizzarra della storia di “Ruby nipote di Mubarak”. E la parte più inverosimile, naturalmente, è il fatto che un personaggio storico si descriva nel suo diario personale come un taglieggiatore o un corrotto. Ma se ci sono i documenti originali, se la grafia è quella di Arafat, c’è poco da discutere.

Pareva strano che, di tutto ciò che di interessante c’è stato nella sua vita, Arafat parlasse di un processo di Silvio Berlusconi. Dopo la pubblicazione, domenica, dell’“esclusiva mondiale” però il mondo ha ignorato l’esclusiva. Nessun grande giornale internazionale in questi giorni ha ripreso l’inchiesta giornalistica dell’anno. E per un semplice motivo: i “diari segreti” di Arafat sono talmente segreti che non ce li ha neppure l’Espresso. Il settimanale non solo non li ha pubblicati, ma non li ha neppure mai visti. L’inchiesta non ha alla base un documento scritto, ma è il frutto, almeno finora, della tradizione orale. Un aedo incontra Lirio Abbate e gli narra il contenuto dei diari segreti: “Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso”, scrive il giornalista. Inoltre, oltre a non sapere chi sia la fonte orale, quale ruolo abbia e come sia entrato in possesso di questo prezioso materiale storico, non si capisce questi diari da dove provengano e dove siano adesso di preciso: “I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi – scrive il settimanale – che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film”. E qui la faccenda si fa già abbastanza evanescente. Il problema è che non solo non vengono resi noti i nomi dell’aedo e dei fiduciari lussemburghesi, che in qualche modo avrebbero prelevato da Ramallah e dal controllo dell’Anp i diciannove volumi, ma neppure il nome di questa fondazione francese che ora li custodisce. Eppure se l’obiettivo è mettere a disposizione questi “diari segreti” per lo studio, gli storici – che si fidano più dei documenti originali rispetto ai racconti – per studiare questi benedetti diari dovrebbero quantomeno sapere dove si trovano. In Francia, dove sarebbe questa fondazione che possiede le memorie del leader palestinese, i giornali hanno completamente ignorato la notizia. Silenzio totale sull’esclusiva mondiale.

Aiuta a inquadrare la possibile origine di questi presunti e invisibili “diari segreti” la versione dell’onorevole Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi: “Alcuni mesi orsono – ha dichiarato – un tizio ha avvicinato me e una persona vicina al presidente Berlusconi, dicendo di essere in possesso di questi diari di Arafat in cui c’erano scritte cose compromettenti su Berlusconi, ma che avrebbe potuto distruggerli in cambio di denaro”. L’avvocato capisce che la cosa non è proprio limpida quando l’interlocutore, proveniente da ambienti “variegati” dice di poter fornire solo una traduzione in francese e si rifiuta di mostrare l’originale dei diari in arabo per valutarne la genuinità, e interrompe le comunicazioni. Convinto di essere di fronte a uno dei tanti falsi diari di personaggi storici che di tanto in tanto circolano, liquida tutto con un suo “mavalà”. Ora vede riemergere l’identico racconto orale come esclusiva inchiesta giornalistica: “Il settimanale l’Espresso pubblica con grande risalto stralci degli asseriti diari di Arafat. – scrive Ghedini in una nota – Il materiale in questione è stato offerto a più persone nei tempi passati e alle richieste di verifica della autenticità della provenienza, della completezza e del contenuto non è stato possibile alcun controllo”. L’avvocato smentisce il contenuto di ciò che è riportato e spiega tutto con la battaglia politica: “E’ sintomatico, che tale materiale in circolazione già da tempo e mai ritenuto di reale interesse appaia, guarda caso su l’Espresso, proprio a pochi giorni dalla consultazione elettorale”. Anche la Yasser Arafat Foundation, che possiede i veri diari del leader palestinese e non ha ancora deciso se pubblicarli o meno dopo averli revisionati e ripuliti, ha preso le distanze e annunciato querele: “Quello che l’Espresso ha pubblicato riguardo a ciò che sono stati definiti come i diari di Yasser Arafat è illegale e viola l’etica giornalistica”, ha dichiarato il presidente della fondazione Nasser al Kidwa che è il nipote di Arafat (davvero, non come Ruby).

Nella copertina su Ilaria Capua il documento era vero, ma le accuse false. I diari ricordano l’(inesistente) intercettazione di Crocetta. Ma quella di Ghedini, si dirà, è la naturale reazione di una persona che è il legale del Cav. e uno dei più importanti dirigenti di Forza Italia. Il punto è che, in termini molto simili, è la stessa identica posizione che ha preso l’ambasciatore di Palestina in Italia: “L’articolo dell’Espresso sostiene di basarsi su un presunto diario di Yasser Arafat, senza essere in grado di dimostrarne l’effettiva esistenza. Si tratta di un articolo che vuole mettere in cattiva luce il leader e simbolo della lotta nazionale del popolo palestinese – scrive l’ambasciatore Mai Alkaila – Chiediamo ai media e all’Espresso in particolare di essere scrupolosi nella verifica delle fonti prima della divulgazione delle loro notizie; e di non coinvolgere la questione palestinese in discussioni politiche accese dalla campagna elettorale”. Se già a questo punto i diari de relato di Arafat somigliano più a una patacca che a una rivelazione mondiale, è entrando nei dettagli che molte cose non tornano. L’Espresso scrive che nelle sue memorie Arafat parla di un incontro segreto con Berlusconi, avvenuto in una capitale europea, nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo All Iberian nel quale Berlusconi era imputato per aver finanziato in maniera illecita il Psi di Craxi. Un processo in cui Berlusconi verrà condannato in primo grado e poi prosciolto per prescrizione. Ebbene, una versione della difesa era che i circa 10 miliardi di lire contestati non erano finiti nelle casse del Psi, ma erano andati su richiesta di Craxi all’Olp di Arafat attraverso la mediazione del produttore televisivo tunisino, e amico di Berlusconi, Tarak Ben Ammar. Niente finanziamento illecito a Craxi, quindi. Questa è la versione finora confermata da tutte le parti in causa, ma a cui non credettero i giudici di primo grado.

L’Espresso ora dice che nei suoi presunti diari Arafat scrive che questa storia è falsa, quei soldi non sono mai arrivati all’Olp. “Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. – scrive il settimanale – Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: ‘Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco’”. A quel punto il leader palestinese fa una proposta-ricatto a Berlusconi: “Gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano” (quale? E quando?). Sono molte le cose che non tornano nella vicenda. L’Espresso scrive che nel diario ci sono “i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat”, ma non pubblica nessuno di questi dettagli, non dice neppure quanto sarebbe costata questa falsa testimonianza. Ma la cosa più banalmente sorprendente è che questa testimonianza non esiste. “Arafat non è mai apparso nel processo – dice al Foglio il professor Ennio Amodio, all’epoca avvocato di Berlusconi nel processo All Iberian – Ho letto questa notizia con stupore, nel processo non si è mai parlato di questa vicenda, non so da dove salti fuori”. Arafat non ha testimoniato? “Ma si figuri”. E’ mai stata usata qualche sua intervista nella difesa? “No, è una notizia che non è mai emersa, me la ricorderei”.

“Mesi fa un tizio mi ha avvicinato, voleva soldi in cambio della distruzione di questi asseriti diari”, dice Niccolò Ghedini. L’altro aspetto che non torna è uno dei pochi virgolettati di Arafat, tra l’altro con un errore di trascrizione del nome di Ben Ammar: “Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco”. Appare un’affermazione singolare. Ben Ammar è sì un amico di Berlusconi, ma da prima è un amico dei palestinesi. Tra i due è l’imprenditore maghrebino che conosce Arafat, non il Cavaliere. Ben Ammar proviene da un’importante famiglia tunisina: è il nipote del padre della patria Bourghiba (davvero, non come Ruby). Il padre, Mondher Ben Ammar, è stato ambasciatore tunisino in Italia e in mezza Europa e poi ministro del governo per una decina d’anni. Sua sorella e zia di Tarak, Wassila Ben Ammar, era la moglie del presidente Bourghiba e ha avuto un ruolo di primo piano nella politica tunisina: aveva una forte influenza su Bourghiba e fu la principale artefice nel 1982, dopo la guerra in Libano, del trasferimento di Arafat e del quartier generale dell’Olp in Tunisia, paese che ospiterà il centro delle operazioni palestinesi per una decina di anni. Il Foglio ha provato a contattare Tarak Ben Ammar, per sentire la sua versione sulla ricostruzione dell’Espresso: “Sono attualmente a Los Angeles. Comunque è fake news”, è la sua risposta. L’altro dettaglio riguarda l’incontro con Berlusconi organizzato da Arafat “in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998” in cui sarebbe stato raggiunto l’accordo economico in cambio della falsa testimonianza. Ora, c’è da dire che realmente Berlusconi ha visto Arafat nella primavera del 1998, ma non era all’estero e nient’affatto in segreto: si sono incontrati il 12 giugno 1998 a Roma durante il viaggio di Arafat in Italia. Il leader palestinese incontrò papa Giovanni Paolo II, poi il leader di Forza Italia all’Excelsior, il leader dei Ds Massimo D’Alema e anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. E se l’accordo fosse avvenuto in quella occasione? Appare improbabile, visto che ormai il processo All Iberian era chiuso: il 2 giugno, dieci giorni prima, il pm Francesco Greco aveva iniziato la requisitoria. E in ogni caso la testimonianza di Arafat in quel processo non c’è mai stata. Un altro punto con diverse incongruenze in questo diario di Arafat in cui si parla prevalentemente di Berlusconi, è il triangolo con Craxi e Gelli (c’è sempre Licio Gelli in qualche documento segreto e scottante). L’Espresso scrive che chi ha letto il diario di Arafat dice che Arafat nelle sue memorie parla di una vicenda che li vede collegati. “Roberto Calvi – allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli – ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi – riporta l’Espresso – e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua”. In questa specie di fiera dell’est del passaporto la prima cosa che non si capisce è cosa dovesse farsene Calvi di un passaporto nicaraguense (non esattamente un passepartout), la seconda è se poi l’abbia mai ricevuto. Ci sono poi, nella ricostruzione, due cose abbastanza inverosimili: la prima è che il segretario del Psi si mettesse a trafficare passaporti falsi in prima persona e la seconda è che il leader dell’Olp fosse consapevole di tutta la trafila. Ricordiamo che questi sono i diari di Arafat e quindi se è lui a scrivere la vicenda dovrebbe essere andata così, con Craxi che chiama e dice: “Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio Berlusconi, a cui l’ha chiesto Licio Gelli, che Roberto Calvi gli ha chiesto la cortesia di procurargli un passaporto falso del Nicaragua. Che dici, me ne procuri uno?”. C’è poi un problema di date, che non tornano. L’Espresso scrive che la vicenda del passaporto nicaraguense di Calvi è dei “primissimi anni Ottanta”. Calvi muore nel giugno 1982, quindi è prima. Nel marzo 1981 viene scoperta la lista degli appartenenti alla P2, da quel momento Gelli è latitante e verrà arrestato l’anno successivo, quindi i “primissimi anni Ottanta” è prima del 1981. Resta solo il 1980, ma non si capisce bene cosa debba farsene Calvi di un falso passaporto nicaraguense visto che è a piede libero. Tra l’altro, per la cronaca, quando il 18 giugno 1982 il presidente del Banco Ambrosiano viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra, nelle sue tasche viene trovato un passaporto falso a nome “Gian Roberto Calvini” e non è del Nicaragua (viste le sue conoscenze e frequentazioni, di certo non c’era bisogno di scomodare Gelli, Berlusconi, Craxi e Arafat per un documento falso).

“Ciao Yasser sono Bettino, mi ha detto Silvio che Licio Gelli gli ha detto che Calvi cerca un passaporto falso del Nicaragua. Ne hai uno?” Nel caso dell’Espresso non si può dire che l’inchiesta si basi su un documento falso, semplicemente perché il documento non c’è proprio. E’ quindi, questa dei “diari di Arafat”, una faccenda diversa rispetto all’“inchiesta” sui “trafficanti di virus” (sempre di Lirio Abbate) che ha disintegrato Ilaria Capua. In quel caso il documento era vero, ma le accuse false. Ed è anche diverso dallo scoop, sempre dell’Espresso, sul resoconto delle spese sostenute dal Vaticano per il rapimento di Emanuela Orlandi. In quel caso il documento era tarocco, ma esisteva. I “diari di Arafat” ricordano piuttosto l’intercettazione di Crocetta su Borsellino, quando l’Espresso chiese le dimissioni del presidente della Sicilia dopo aver pubblicato un’intercettazione che non esiste.

Caso Tobagi: i giornalisti che furono condannati dicevano la verità, scrive Francesco Damato il 4 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Le ombre sul delitto del 1980. L’articolo del magistrato Guido Salvini che il Corriere della Sera ha curiosamente pubblicato solo in edizione on line, e in Cronaca di Milano (e che pubblichiamo qui sotto), ha il merito di ribadire, in polemica tanto dettagliata quanto civile con i suoi colleghi Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, gli inconvenienti in cui purtroppo incorsero, per sottovalutazione o altro, le indagini sul mortale attentato terroristico subìto nel 1980 dal povero Walter Tobagi. Del quale non riesco mai a scrivere senza commuovermi perché, oltre che un collega, Walter era un carissimo amico. Lo ricordo ancora quando veniva a Roma a fare le sue inchieste e trovava sempre il tempo per fare due chiacchiere con me in un ristorante vicino Piazza Navona. Ah, Walter, quanto mi manchi da quasi 37 anni. Eri un giornalista serio e generoso, oltre che coraggioso. I colleghi Renzo Magosso e Umberto Brindani, per quanto condannati pesantemente, hanno avuto la fortuna di incontrare alla fine nei loro percorsi giudiziari un magistrato come Guido Salvini. Che ha avuto la pazienza, la competenza e il coraggio di riabilitarli, almeno sul piano mediatico per ora, rispetto all’accusa di avere diffamato chi non accertò bene le responsabilità del delitto Tobagi. Walter, già scampato a un sequestro, sarebbe sfuggito anche alla morte se inquirenti, Carabinieri e quant’altri avessero saputo utilizzare le informazioni di cui pure disponevano su ciò che si stava preparando contro di lui. Grazie agli approfondimenti e alle rivelazioni del dottor Salvini, già occupatosi come magistrato del sequestro di Tobagi tentato due anni prima dell’assassinio, potranno forse ottenere giustizia con le nuove garanzie della giurisdizione internazionale. Temo che così non potranno fare per ragioni di tempo i parlamentari socialisti e i giornalisti dell’Avanti!, con l’allora direttore politico Ugo Intini in testa, che nel 1985 furono condannati per avere criticato la conduzione delle indagini sull’assassinio di Tobagi e il processo che seguì. L’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, come è stato di recente già ricordato su questo giornale, rischiò di essere “processato” dal Consiglio Superiore della Magistratura per avere osato condividere le critiche dei suoi compagni di partito. A salvarlo fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che minacciò l’uso dei Carabinieri per impedire al Consiglio Superiore, peraltro da lui stesso presieduto per dettato costituzionale, di sostituirsi al Parlamento nei rapporti col capo del governo in carica. In quei tempi c’era ancora l’autorizzazione a procedere, per cui i deputati socialisti denunciati per diffamazione dall’allora pubblico ministero di Milano Giuseppe Spataro non avrebbero potuto essere processati senza il consenso della Camera. Che fu dato a scrutinio segreto, con un incrocio di sì dell’opposizione comunista e della sinistra democristiana. Alle condanne penali seguirono, con i soliti tempi della giustizia di rito italiano, quelle civili per un ammontare complessivo di circa trecento milioni di lire. Che i giornalisti dell’Avanti! pagarono di tasca loro per il sopraggiunto fallimento della storica testata del Psi. Tanto volevo ricordare solo per rinfrescare la memoria a quanti vorrebbero rimuoverla, fra magistrati, politici e giornalisti.

Dopo 30 anni si riapre il caso Tobagi. Intervista al giudice Guido Salvini: «Gli 007 sapevano», scrive Rocco Vazzana il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Walter Tobagi è morto a causa di una serie di leggerezze investigative. È la tesi del giudice Guido Salvini che riapre un capitolo dolorosissimo degli anni di piombo: l’assassinio dell’inviato del Corriere della Sera, avvenuto il 28 maggio del 1980 per mano del terrorismo rosso. E a distanza di tanti anni spunta un’informativa dei carabinieri che aveva messo in guarda sui pericoli che correva il giornalista. Ma gli investigatori non diedero peso a quell’avviso. «La Procura in un primo momento prova a negare persino l’esistenza di questa informativa, ma quando viene prodotta la copia del documento ne sminuiscono il contenuto, giudicandolo poco attendibile», spiega Guido Salvini, il giudice che ha ritrovato quel documento. Senza alcune leggerezze investigative Walter Tobagi si sarebbe potuto salvare. È questa la tesi del giudice Guido Salvini che riapre un capitolo buio degli anni di piombo: l’assassinio dell’inviato del Corriere della Sera, avvenuto il 28 maggio del 1980 per mano del terrorismo rosso.

Giudice, perché secondo lei Tobagi avrebbe potuto salvarsi?

«Per rispondere a questa domanda bisogna fare qualche passo indietro rispetto all’omicidio del giornalista per accorgersi che qualcosa non torna nelle indagini. Quando qualche mese dopo l’assassinio viene arrestato per reati minori Marco Barbone, leader della Brigata XXVIII marzo e tra gli esecutori dell’omicidio, il Nucleo antiterrorismo sostiene di aver scoperto da poco un volantino manoscritto in una sede delle Formazioni comuniste combattenti in cui era possibile riscontrare la grafia di Barbone. E questo dettaglio viene considerato un elemento di accusa importante. Ma da un punto di vista investigativo c’è qualcosa che non torna, è poco verosimile, non è mai successo che si trovi un testo scritto a mano e tra centinaia di persone, perché a Milano centinaia di persone appartenevano a formazioni terroristiche, si individui a colpo sicuro una persona».

E come arrivano allora a Barbone secondo lei?

«La storia è un’altra. Io sono riuscito a trovare una relazione dei Carabinieri datata 4 giugno 1980, appena una settimana dopo l’omicidio, in cui viene riportata un’attività di appostamento sotto casa di Barbone e della sua fidanzata, Caterina Rosenzweig, per conoscerne i movimenti. Significa che subito dopo la morte di Tobagi gli inquirenti sanno già qualcosa e, a colpo sicuro, capiscono in che direzione indagare, come racconta nella sua relazione il maresciallo che ha fatto l’appo- stamento. L’ 11 giugno scattano le intercettazioni a Barbone, Rosenzweig e Morandini (altro componente del gruppo)».

Cioè, Tobagi è morto da una settimana e la Procura sa già quale gruppo ha agito e chi ha sparato. Indagini superefficienti o c’è qualcosa di strano?

«Secondo me dopo la morte del giornalista gli investigatori si rendono conto di aver commesso un grave errore. Capiscono cioè di aver sottovalutato le notizie che di cui già erano in possesso da tempo sul gruppo, grazie all’attività di Ciondolo, il sottoufficiale che era riuscito a infiltrarsi tra i terroristi attraverso Rocco Ricciardi, il “postino” che conosceva alcuni della Brigata XXVIII marzo. Ma quando si accorgono dell’errore è troppo tardi, Tobagi è già morto. E per non ammettere pubblicamente il grave errore provano a costruire una sorta di percorso alternativo per giustificare il successo postumo dell’attività investigativa. Da qui la storia del volantino manoscritto».

Quindi gli inquirenti capiscono di aver sbagliato e dopo la tragedia riaprono una pista che avevano scartato?

«Il Nucleo antiterrorismo aveva un confidente già da un anno. E durante il processo di primo grado salta fuori un’informativa del dicembre del 1979 in cui Ricciardi, “il postino”, mette in guardia Ciondolo sull’intenzione di uccidere Tobagi da parte di un nuovo gruppo terroristico che ha ripreso in mano un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti contro il giornalista. La Procura in un primo momento prova a negare persino l’esistenza di questa informativa, ma quando viene prodotta la copia del documento ne sminuiscono il contenuto, giudicandolo poco attendibile. Aggiungono poi che la Brigata XXVIII marzo non esisteva neppure all’epoca delle confidenze di Ricciardi. Ma è una ricostruzione debole. Perché, come racconta Francesco Giordano, altro fondatore del gruppo, loro si costituiscono nel novembre del 1979 col nome Guerriglia Rossa e cambiano denominazione poco dopo – trasformandosi in Brigata XXVIII marzo, in onore alle Brigate Rosse che aveva avuto quattro militanti uccisi a Genova in quella data – ma si tratta sempre dello stesso identico gruppo, formato dalle stesse persone: sei, che nel dicembre ‘ 79 facevano già rapine insieme».

Quell’informativa è l’unica occasione in cui Ricciardi parla del “progetto Tobagi”?

«I Carabinieri sostengono di sì. Ma Ciondolo smentisce, dice che incontrava il suo confidente Ricciardi almeno una volta a settimana e di aver redatto almeno trenta informative. Sono scomparse. In ogni caso, quella prodotta durante il processo venne resa pubblica dall’allora ministro della Difesa socialista Lelio Lagorio, generando la reazione della Procura che, invece di mettersi alla ricerca delle altre mancanti, si scaglia contro chi ha tirato fuori il documento. Ma la versione di Ciondolo è confermata dal generale Nicolò Bozzo, uomo dall’altissimo profilo morale e professionale, che ha ricordato la presenza di un grosso pacchetto di informative. Io stesso ho ritrovato una di queste informative per sbaglio, mentre lavoravo a un altro processo».

Senza questa sottovalutazione Tobagi si sarebbe salvato?

«Prima di rispondere a questa domanda voglio sottolineare una cosa. Io non credo che ci siano complotti da scoprire dietro la morte di Tobagi, cioè sono convinto sia stato ucciso dai sei di quel gruppo senza suggeritori o mandanti, convinti con quell’omicidio di poter entrare nelle Br. La storia del delitto maturato in ambienti P2 o tra gli stessi giornalisti comunisti per me non ha senso. Ma quando si commette un errore investigativo e si perpetua questo errore nelle aule di Tribunale, facendo condannare delle persone, l’errore diventa una colpa. E contribuisce ad alimentare dietrologie sbagliate. Io capisco che erano anni bui, con gambizzazioni e morti ogni settimana, un errore di sottovalutazione poteva succedere. L’importante è però correggere in corsa gli sbagli. Se avessero ascoltato Ricciardi forse Tobagi avrebbe avuto una scorta».

Craxi arrivò a via Solferino e disse: «Il mandante dell’omicidio è qui…», scrive Paolo Delgado il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il leader socialista era convinto che l’omicidio fosse nato tra le stanze del Corriere della Sera. Oggi le dichiarazioni del giudice Guido Salvini, secondo cui i carabinieri di Milano erano stati a più riprese avvertiti dei rischi che correva il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso a 33 anni il 28 maggio 1980 dalla Brigata XXVIII marzo, una neonata formazione terrorista rossa, sono una curiosità storica, la prova di una sottovalutazione costata la vita a un giovane e molto brillante cronista. C’è stato un tempo in cui avrebbero fatto tremare dalle fondamenta tutti i palazzi del potere. Proprio intorno all’omicidio Tobagi si accese, negli anni ‘ 80, il primo grande scontro tra il Psi di Bettino Craxi e la procura di Milano, con tanto di intervento dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Il 5 dicembre 1985, nelle sue vesti di presidente del Csm, Cossiga vietò al Csm di discutere una mozione di censura contro l’allora presidente del Consiglio Craxi in seguito ai suoi attacchi rivolti alla procura di Milano per il caso Tobagi. Cossiga minacciò di recarsi di persona alla riunione del plenum del Csm per impedire il dibattito e fece schierare un battaglione di carabinieri in assetto antisommossa nei pressi di palazzo dei Marescialli, la sede del Consiglio superiore della magistratura, avvertendo che, se i togati avessero occupato l’aula per proseguire il dibattito sulla mozione contro Craxi, avrebbe ordinato di intervenire e sgombrare con la forza il palazzo. Per protesta tutti i 20 membri togati del Csm rassegnarono le dimissioni. Nella redazione del Corrierone Walter Tobagi, cattolico, socialista e craxiano, autore di libri articoli e inchieste sul terrorismo, non era molto amato. Faceva parte del comitato di redazione, era presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, ed era ai ferri corti con la stragrande maggioranza del sindacato, vicino alle posizioni del Pci o della sinistra Dc. Nelle assemblee delle Federazioni regionale e provinciale della stampa gli attacchi durissimi contro il craxiano erano pane quotidiano. Sulle bacheche di via Solferino campeggiavano scritte come Walter Tobagi= Craxi driver. Gli assassini di Tobagi venivano da un ambiente molto vicino a quello del Corriere. La Brigata XVIII marzo (data in cui, in quello stesso 1980, i Nuclei del generale Dalla Chiesa avevano ucciso quattro brigatisti in via Fracchia, a Genova) era composta da ragazzi delle Milano bene: Marco Barbone, il leader che tirò il colpo di grazia a Tobagi, era figlio di uno dei dirigenti della Sansoni. Paolo Morandini era figlio del celebre critico cinematografico Morando. Caterina Rosenzewig, la fidanzata di Barbone (assolta per l’omicidio Tobagi), veniva da una famiglia ricca e amica dei Tobagi. Prima di uccidere Tobagi il gruppo aveva ferito alle gambe un altro giornalista, Guido Passalacqua. Avevano deciso di alzare il tiro in vista di un arruolamento nelle Brigate Rosse con ruoli dirigenti. Franco Tommei, uno dei principali esponenti dell’Autonomia milanese, che li conosceva bene, li definiva beffardo come sempre: «Yuppies del terrorismo». Scelsero Tobagi proprio perché, come disse barbone al processo, «era l’uomo di Craxi all’interno del Corriere e il Psi era secondo noi la forza politica che poteva ricompattare il potere». I killer di Tobagi vennero arrestati nel settembre 1980. Si pentirono praticamente prima ancora di ritrovarsi con le manette serrate ai polsi e uscirono di galera già nel 1983. Craxi non credeva alla versione dei terroristi, fatta propria anche dall’accusa, che negavano l’esistenza di mandanti. Era convinto che l’attentato fosse stato organizzato per colpire il Psi, e non dagli esecutori materiali. Basava la sua accusa sul volantino di rivendicazione, scritto in uno stile e con una punteggiatura inusuali per i testi diramati all’epoca dalle formazioni armate e insisteva sull’esistenza di un’informativa dei carabinieri che avvertiva di un possibile attentato contro la Questura. Lo stesso volantino, inoltre, conteneva un’informazione di cui difficilmente i giovani terroristi potevano essere in possesso: un brevissimo passaggio di Tobagi nel Cdr del Corsera (iverso da quello del Corriere della Sera) già nel 1974. La procura negò di essere mai venuta a conoscenza dell’informativa. Il ministro degli Interni Scalfaro confermò che almeno i carabinieri ne erano invece certamente in possesso. Un altro elemento di frizione tra il partito del Garofano e la procura di Milano riguardava la ‘ spontaneità’ della confessione degli assassini. Secondo la Procura avevano deciso di confessare quando non erano ancora neppure sospettati, tanto che lo stesso Dalla Chiesa si era mostrato ‘ sorpreso’. Proprio la confessione spontanea spiegava secondo la procura la mitezza delle condanne. Il Psi riteneva invece che il commando avesse deciso di parlare solo dopo essersi visto scoperto di fatto ottenendo una rapida scarcerazione in cambio della disponibilità a collaborare contro l’Autonomia milanese, dalla quale provenivano i ragazzi della XXVIII marzo. Seguì una raffica di accuse e di querele da parte della procura e in particolare del sostituto Armando Spataro che portarono al braccio di ferro del dicembre 1985 tra Quirinale e l’organo di autogoverno della magistratura, probabilmente il più esasperato conflitto istituzionale nella storia della Repubblica. Salvini sembra oggi dare ragione a Craxi. Sostiene infatti che le indagini sulla XXVIII marzo erano state avviate da tempo e cita un «documento in cui si parla di un appostamento sotto casa di Barbone già il 4 giugno, appena sei giorni dopo il fatto». Il giudice difende quindi i giornalisti Renzo Magosso e Umberto Brindani, condannati nel 2004 per diffamazione dopo aver denunciato su Gente sia le informative disattese dai carabinieri sia una perquisizione in casa Barbone, in via Solferino, vicinissima alla redazione del Corriere, avvenuta già due giorni dopo il delitto. Craxi non dimenticò mai il caso Tobagi. Qualche storico redattore del Corrierone ricorda ancora una sua visita nella redazione di via Solferino nella seconda metà degli anni 80. Bokassa gelò tutti quando, dopo essersi informato con finta disinvoltura sulle macchine da scrivere in uso nella redazione commentò: «E’ proprio con una macchina come queste che è stata scritta la rivendicazione dell’omicidio Tobagi, vero?. In anni più recenti le accuse più feroci contro l’ex leader del Psi sono arrivate dalla figlia di Tobagi, Benedetta, che nel suo libro del 2009, “Come mi batte il cuore”, aveva accusato il leader socialista di aver speculato sulla morte de padre e di aver nascosto una ‘ pista P2’ nella ricerca dei mandanti per l’omicidio del giornalista. Risposta durissima di Stefania Craxi che si disse «offesa» dalle «farneticazioni e allucinazioni» di Benedetta Tobagi, che all’epoca dell’omicidio del padre aveva sei anni. La Pista P2 in effetti è del tutto incredibile ma anche il teorema di Craxi sul complotto contro il Psi non è più realistico. Ma per il resto, dunque sulla sottovalutazione degli avvertimenti e sulla spontaneità delle confessioni degli assassini di Tobagi, tutti i torti Bokassa probabilmente non li aveva. 

Moby Prince, la Commissione d’inchiesta: ora tocca ai giudici, scrive Gaetano Pecoraro il 23 febbraio 2018 su "Le Iene". L’intervento dopo il servizio di Gaetano Pecoraro e i nuovi elementi che mettiamo a disposizione. Dopo il nostro servizio sulla tragedia del Moby Prince andato in onda mercoledì scorso, interviene anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro che ha provocato 140 morti nel 1991. Mentre noi aggiungiamo nuovi elementi utili per le indagini. “Uno dei servizi della trasmissione Le Iene era dedicato alla tragedia del traghetto Moby Prince. Il servizio cercava di approfondire alcune questioni ancora poco chiare agli occhi dell’opinione pubblica", ha dichiarato il presidente della Commissione, Silvio Lai. "A tal riguardo voglio ricordare che per permettere una completa e rigorosa ricostruzione dei fatti abbiamo trasmesso alla Procura, per competenza, gli atti relativi al lavoro della Commissione. Peraltro la Procura di Livorno ha già aperto mesi fa un fascicolo”. La Commissione d’inchiesta, nella relazione finale presentata il 24 gennaio in Senato aveva evidenziato alcuni punti fermi: la sera del 10 aprile 1991 quando il traghetto Moby Prince si scontrò fuori Livorno con la petroliera Agip Abruzzo non c’era nebbia in mare, come sostenuto dalle inchieste della magistratura. La Commissione ha criticato molti punti delle sentenze a cui si è arrivati finora, in 26 anni, e le gravi negligenze nei soccorsi. Oltre al servizio andato in onda, noi de Le Iene abbiamo deciso di fornire altri elementi utili a capire cosa sia successo veramente quella notte. Mettiamo così a disposizione di tutti, per la prima volta in versione integrale, le registrazioni del canale radio 16 (il canale d’emergenza) con le comunicazioni avvenute dalle ore 22 alle ore 24 della notte del 10 aprile 1991. Pubblichiamo inoltre gli atti della Commissione d’Inchiesta. Il servizio della Iena Gaetano Pecoraro di mercoledì solleva dubbi in particolare su un punto: quello del carico della petroliera (scarica qui il documento). Dalle registrazioni delle comunicazioni radio tra la petroliera Agip Abruzzo e i soccorritori, emerge che a incendiarsi non sia stato il petrolio greggio (che è anche il carburante delle navi) ma della nafta, un derivato del petrolio utilizzato dai motori diesel. “Capitaneria, c’è la nafta incendiata in mare!”, dice il comandante della petroliera Agip nelle registrazioni. I soccorritori rispondono: “Cioè, che cosa è incendiato in mare? La nafta?”. “Sì, una nave ci è venuta addosso, la nafta è andata a mare e ha preso fuoco!”. La cosa è appunto strana, perché a riversarsi in mare sarebbe dovuto essere il greggio trasportato e non la nafta. Anche i soccorritori cercano di capire meglio: “Ma sta uscendo nafta da voi o dalla nave che è venuta addosso a voi?”. E il comandante della petroliera Agip risponde chiaramente: “Da noi”. Questo dato è confermato dalle condizioni del corpo dell`unico marinaio del Moby Prince morto per annegamento, a cui è stata trovata nafta nella trachea e sui vestiti (scarica qui un estratto della deposizione del responsabile delle autopsie sulle vittime e la ricostruzione del recupero del cadavere nella sentenza del Tribunale di Livorno). Da dove arrivava tutta quella nafta? Un’ipotesi viene sempre dalle registrazioni radio. Emerge, infatti, che a incendiarsi sia stato anche il locale pompe: “Sono Paoli, vedevo che dal locale pompe esce parecchio fumo”, dice il comandante della Sicurezza Agip ai soccorritori. Che rispondono: “è il locale pompe, c’eravamo proprio noi a tirarci dell’acqua sopra”. Il punto fondamentale è che, se la petroliera stava pompando fuori nafta, vuol dire che lì ci doveva essere anche un’altra imbarcazione che la stava ricevendo. E se lì c’era una terza nave, magari è per la sua presenza imprevista e non per la nebbia che il traghetto non è riuscito a evitare la petroliera. La Commissione parlamentare, del resto, parla in più punti di un ostacolo che avrebbe “portato il comando del traghetto a una manovra repentina per evitare l’impatto, conducendo tragicamente il Moby Prince a collidere con la petroliera”. Molti, troppi dubbi sono ancora aperti su questa tragedia, e noi de Le Iene stiamo continuando la ricerca di ogni elemento che possano portare alla verità. Continua quindi la nostra indagine, che vedrete in onda prossimamente con nuovi sviluppi. 

Moby Prince, familiari vittime: "Pensavano a salvare la stagione turistica, ma vaffa...", scrive Marco Billeci il 4 gennaio 2018 su Repubblica Tv. "Noi per ventisette anni abbiamo chiesto verità e giustizia e nessuno ci ha ascoltato, questa é la tragedia più dimenticata di Italia. Ed é vergognoso ascoltare ancora un comandante della capitaneria dire che Livorno gli deve essere grata perché ha salvato la stagione turistica, ma vaffa...!". Così Loris Rispoli - presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della Moby Prince - nel suo intervento durante la presentazione della relazione finale della commissione d'inchiesta parlamentare sull'incidente tra una petroliera e il traghetto Moby Prince avvenuto nel 1991 a largo del porto di Livorno, in cui persero la vita 140 persone. E per Angelo Chessa, figlio del comandante del traghetto: "La relazione della commissione ci restituisce fiducia nello stato dandoci ragione su quello che abbiamo sempre detto, compreso il fatto che l'equipaggio non ha avuto nessuna colpa ma anzi ha fatto di tutto per salvare i passeggeri".

Moby Prince: tra errori e depistaggi. "Niente nebbia" e le accuse della commissione alla capitaneria di Livorno. Oggi in Senato, le conclusioni di due anni di lavori per fare luce sulla più grande sciagura del mare dal dopoguerra avvenuta a Livorno nel 1991. L'Agip Abruzzo non doveva essere in quel posto. E sui passeggeri: "Qualcuno poteva essere salvato", scrive Laura Montanari il 24 gennaio 2018 su "La Repubblica". Non è stata la nebbia la causa della collisione fra il Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo. E quest’ultima era in un posto dove non poteva stare. C'era un radar alla stazione piloti, perché la capitaneria non l'ha usato per sapere chi era coinvolto nell'incidente, non una "bettolina" del mare, ma un traghetto pieno di passeggeri diretto in Sardegna? Azzera molte delle "verità" rimaste nelle carte precedenti, cancella certezze e consegna nuovi scenari e qualche interrogativo senza risposta, la commissione parlamentare d’inchiesta sulla tragedia del Moby Prince. 140 morti nelle fiamme che si sono scatenate sul traghetto il 10 aprile 1991 salpato alle 22,03 e schiantatosi contro la petroliera alle 22,25 quando viene lanciato il Mayday che nessuno ascolta: "Moby Prince, Moby Prince siamo entrati in collissione...". Quasi due ore senza soccorsi, come in preda a un'amnesia collettiva, e sul traghetto si legge ora, "qualcuno poteva essere salvato". Perché non è vero, dicono i periti, che sono morti tutti nel giro di trenta minuti. E questo punto aggiunge tragedia alla tragedia. Gli errori. Oggi al Senato la commissione presieduta da Silvio Lai (Pd) consegnerà la relazione finale ai familiari delle vittime, a quelli che in tutto questo tempo si sono battuti per una verità diversa da quelle processuali che puntavano l'indice sulla nebbia o su un errore umano. «Due anni di lavoro sono serviti alla commissione per fissare alcuni punti fermi che in tanti anni erano rimasti in secondo piano». Per esempio il fatto che il comando dell'Agip Abruzzo (348 metri, 82mila tonnellate di petrolio greggio) «non ha posto in essere condotte pienamente doverose», la sagoma del traghetto «era inconfondibile dal ponte della petroliera e fu percepita con precisione». E allora perché non venne dato subito l’allarme? Perché i soccorsi si sono concentrati tutti e soltanto sulla petroliera e sul suo equipaggio? Dalle 161 pagine redatte dai parlamentari dopo 73 sedute, emergono forti le responsabilità della capitaneria di porto di Livorno: «ci fu impreparazione e inadeguatezza nei soccorsi». Il personale aveva un addestramento adeguato? ci si interroga nel rapporto.

I misteri. La relazione della commissione parlamentare, nella premessa, ammette che a distanza di tanto tempo non sono stati risolti tutti i dubbi, ad esempio resta un mistero il tragitto compiuto dall’Agip Abruzzo: «ci sono punti non congruenti sulle attività della petroliera e sul tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno. Veniva da un porto egiziano come sostenuto ufficialmente, aveva fatto scalo in Sicilia come appreso dalla commissione o proveniva da un altro porto ancora come risulta dalla documentazione acquisita dai Lloyd?».

La capitaneria. Una parte importante dell’inchiesta riguarda la vicenda assicurativa e uno strano accordo firmato in fretta e furia, due mesi dopo la tragedia, fra Navarma e Snam-Agip e custodito alle Bermuda (è stato recuperato dalla guardia di finanza) rimasto finora sconosciuto: le parti si accordano per non attribuirsi reciproche responsabilità. Altra anomalia: "appare anche il fatto che a fronte di una valorizzazione a bilancio Navarma 1991 del traghetto Moby Prince per circa 7 miliardi di lire, il traghetto stesso è stato assicurato per 20 miliardi di lire, come sul fatto che l’assicurazione ha liquidato i 20 miliardi per la perdita totale del traghetto nel febbraio del 1992, quando erano ancora in corso le indagini preliminari, con Achille Onorato, in quanto armatore Navarma, indagato. Il fatto è stato certamente favorito dall’accordo armatoriale del giugno 1991 Snam/Agip/Padana/Skuld".

Nel mare. C’è poi il capitolo delle ricerche infondo al mare dove giacciono ancora i resti degli scafi, piccole parti di entrambi. Recuperarli, dice la commissione, può servire a stabilire l’esatto luogo dell’impatto e a questo lavora la Marina. "Possono aiutare a stabilire l'esatto punto della collisione". Un elemento importante ai fini dell'esatta ricostruzione della dinamica. La Marina militare ha già effettuato un sopralluogo e si pensa di ispezionare il fondale con nuovi strumenti tecnologici, come per esempio i robot sottomarini. Legata ai soccorsi c’è la questione di quanto potevano essere sopravvissute le persone a bordo del traghetto in fiamme. Si diceva al massimo 30 minuti, ma diversi fra testimoni e periti tendono ad allungare i tempi, in certe aree della nave e questo elemento non è un dettaglio: significa che soccorsi migliori avrebbero potuto salvare delle vite.

L'impatto. L'impatto del traghetto con la petroliera è delle 22,25.  La commissione in base alle testimonianze raccolte esclude la nebbia come causa e anche la velocità. Di certo la Moby ad un certo momento vira di 30 gradi: perché? Una delle ipotesi è che vi fosse stata una esplosione a bordo. Secondo alcune perizie la Moby trasportava esplosivo ad uso civile. "Il Ministro degli Interni Vincenzo Scotti, in un appunto del Capo del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Prefetto Parisi inviato alla sua attenzione il 28 gennaio 1992, conferma la presenza di tracce di esplosivo «a uso civile» rinvenute in un locale a prua del traghetto. In un altro appunto lo stesso Prefetto Parisi aveva riferito al Ministro Scotti di tracce di tritolo e di nitrato di ammonio rinvenute nei locali di alloggiamento dei motori elettrici delle eliche di prua del traghetto". Esclusa la pista terroristica, escluse nuove ispezioni dal momento che il Moby è stato smembrato appena tre anni dopo l'incidente: l'ipotesi più probabile resta quella di un'avaria al timone. Di certo dopo la collisione il Moby resta incastrato all'interno della petroliera e per disincagliarsi fa una retromarcia.

Le reazioni. "Siamo arrivati a conclusioni unanimi. Lo abbiamo fatto senza lasciarci trascinare dalle suggestioni. Sulle concretezze appurabili abbiamo ricostruito i fatti e le dinamiche dell'incidente. Le prime evidenze alle quali siamo approdati sono totalmente diverse da come, allora, furono appurate. Non c'era la nebbia e le vittime non morirono tutte entro 30 minuti. Due certezze che in sede giudiziaria furono i pilastri delle sentenze di assoluzione". Lo dice il senatore Silvio Lai (Pd), presidente della Commissione d'inchiesta sul disastro del Moby Prince, che oggi ha presentato la relazione finale. "Al tempo stesso riteniamo di poter affermare - spiega il senatore Pd - che sia intervenuta un disturbo della navigazione per il Moby Prince unitamente alla posizione di divieto di ancoraggio per l'Agip Abruzzo. Il coordinamento delle operazioni di soccorso è risultato inadeguato ed è avvenuto con colpevole ritardo così come il comando della petroliera non pose in essere condotte pienamente doverose rispetto all'altra nave. Sono state inoltre trovate palesi incongruenze sulle attività dell'Agip Abruzzo e sul tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno". "La Commissione - prosegue Lai - ritiene altresì che l'attività di indagine della Procura di Livorno, sottesa al processo di primo grado, sia stata carente e condizionata da diversi fattori esterni. In particolare appare aver avuto un indubbio effetto condizionante il fatto che le indagini siano state svolte utilizzando memorie provenienti da chi aveva gestito soccorsi od anche limitandosi a riscontrare perizie medico legali legate esclusivamente alla riconoscibilità dei corpi. Cosi come colpisce l'accordo assicurativo dopo soli due mesi dall'evento tra gli armatori delle due navi". "Consegneremo - conclude Lai - alla Procura della Repubblica gli atti e la relazione finale cosi come trasparentemente ogni documento dell'inchiesta sul Moby Prince, anche secretato, sarà disponibile a tutti. Il lavoro della Commissione ha gettato le basi per dissolvere la nebbia attorno alla tragedia".

MOBY PRINCE/ Nuove verità 26 anni dopo il disastro: nessuno provò a salvare i 140 passeggeri. Moby Prince, la nuova testimonianza che smentisce la verità processuale a 26 anni dalla sciagura: la Commissione parlamentare d'inchiesta ha concluso i lavori, scrive il 4 gennaio 2018 Emanuela Longo su "Il Sussiadiario". Dall'intenso lavoro della Commissione d'inchiesta sul drammatico incidente della Moby Prince emerge anche un'altra terribile verità, a distanza di 26 anni dalla sciagura ed ha a che fare proprio con le 140 vittime dell'incidente. Secondo le due sentenze che hanno chiuso il caso senza alcun colpevole, i passeggeri del traghetto avrebbero avuto solo 20 minuti di vita. Nella realtà però, le cose sarebbero andate diversamente: dallo scontro con la petroliera sono trascorse interminabili ore prima dell'arrivo dei soccorsi. A provarlo sarebbero i vari elementi raccolti dalla Commissione d'inchiesta, a partire dalla consulenza di un medico legale secondo la quale i 140 passeggeri avrebbero respirato per ore il fumo. Ci sarebbe inoltre l'immagine di un uomo che dopo molte ore sarebbe salito sul ponte della nave per chiedere aiuto, prima di essere carbonizzato in pochi minuti. Fino a quel momento, però, si suppone sia stato in un luogo sicuro. Ed ancora, dalle foto scattate dai vigili del fuoco, c'è fuliggine sulle auto e le orme di molte mani. Secondo i periti, anche dopo che le fiamme furono domate molte persone si spostarono in cerca di un luogo sicuro. A rafforzare tale tesi, la testimonianza di Alessio Bertrand, unico sopravvissuto: "Quando mi hanno soccorso ho detto che c’erano ancora persone vive". La conclusione, drammatica, è che nessuno tentò di salvare i 140 passeggeri. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

NUOVA TESTIMONIANZA: “NON C’ERA NEBBIA”. Lo scorso dicembre la Commissione parlamentare d'inchiesta ha ufficialmente concluso i suoi lavori in riferimento alla sciagura del Moby Prince, il traghetto che la sera del 10 aprile 1991 si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo. Nella collisione morirono 140 persone ma per 26 lunghi anni, quanto accaduto nel porto di Livorno ha rappresentato dei maggiori misteri italiani. Oggi, come spiega il quotidiano La Stampa, dopo il lavoro della Commissione d'inchiesta si fa sempre più concreta la necessità di riscrivere da zero la storia sulla drammatica vicenda, anche alla luce alcune nuove certezze emerse nel corso del lungo lavoro. A ribaltare l'ormai superata versione processuale, sarebbe ora la testimonianza di Guido Frilli che già all'epoca dei fatti aveva spiegato agli inquirenti ciò che aveva realmente visto la notte del disastro, sebbene il suo verbale non entrò mai nel fascicolo d'indagine. Frilli ha poi ribadito la sua verità anche al cospetto della Commissione d'inchiesta: "Quella notte in rada non c’era nebbia, lo ribadisco. Sono stato alla finestra fino all’una del mattino e vedevo con chiarezza ciò che stava accadendo". Le sue parole andrebbero così a smentire definitivamente l'ipotesi della nebbia che secondo i magistrati aveva rappresentato la principale causa del disastro del Moby Prince, del quale non si conoscono ancora dinamiche esatte e cause. La stessa versione fornita da Frilli, spettatore involontario, era stata fornita anche dall'ex pilota del porto di Livorno, dall'avvisatore marittimo e da due ufficiali della Guardia costiera. Lo stesso Frilli ha sottolineato come anche nei giorni successivi all'incidente si fosse recato in Capitaneria riferendo l'assenza di nebbia.

MOBY PRINCE: TERMINATI I LAVORI DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA. Il racconto emerso dal testimone in Commissione parlamentare d'inchiesta non era mai emersa prima e solo adesso, a lavori ormai conclusi, arriva la conferma che le indagini condotte negli anni passati sarebbero state superficiali e poco fedeli a quanto realmente accaduto. Il lavoro della Commissione presieduta da Silvio Lai del Pd è durato 25 mesi durante i quali si sono susseguite 72 audizioni, tutte mirate a fare luce su quanto avvenuto la notte del 10 aprile 1991. Per la relazione finale occorrerà ancora attendere alcuni giorni ma quanto emerso assume una così elevata importanza da rendere concreta l'apertura di una nuova inchiesta. Ed è proprio questo ciò che sperano i parenti delle vittime che da anni cercano la verità su quanto accaduto 26 anni fa: "Non so se arriveremo mai alla verità totale. Di certo, l’esito delle audizioni dimostra che a provocare il dramma non è stata la distrazione dell’equipaggio. Non credo che sarà mai possibile, ma sarebbe utile capire anche le cause dell’impatto", ha dichiarato Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto.

Moby Prince, tutte le carte su menzogne e omissioni. La relazione: 2 mesi dopo la strage intesa tra compagnie per la rinuncia a indennizzi, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". «La Commissione si dichiara stupita che a 26 anni dal disastro della Moby Prince molte dichiarazioni rese in sede di audizione siano convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell’accaduto». La nebbia che non c’è mai stata faceva comodo a tutti. Doveva esserci, ad ogni costo. Per costituire un alibi, per dare la colpa ai morti che non potevano più difendersi. E coprire così sotto una coltre di bugie le responsabilità, le negligenze, le convenienze, di quasi tutti i soggetti coinvolti nella tragica notte della Moby Prince. Dieci aprile 1991, il traghetto che si schianta contro la petroliera Agip Abruzzo all’uscita dal porto di Livorno. Centoquaranta vittime. Nessun responsabile. «L’attività di indagine della Procura è stata carente e condizionata da diversi fattori esterni». Come le «enormi pressioni cui sembra essere stata oggetto». 

I lavori. Non si salva nessuno, nella bozza di relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause del più grande disastro della marineria italiana nel dopoguerra, che domani a Roma presenterà le proprie conclusioni. Neppure la magistratura dell’epoca. In due anni di lavoro, i parlamentari guidati dal senatore Silvio Lai hanno avuto spesso la sensazione di essere presi per i fondelli dai testimoni che avevano convocato. Non si sono rassegnati. Quesiti, consulenze tecniche, perizie. Non tutti i punti oscuri sono stati chiariti. «Ma affermiamo con sicurezza di aver raggiunto una ricostruzione decisamente più vicina alla realtà storica. Non tutta la verità ma di sicuro una verità più ricca». Al punto che la Procura di Livorno ha già aperto una nuova inchiesta, «atti relativi contro ignoti». Dice Loris Rispoli, presidente di «140», l’associazione delle vittime, che si tratta di un risarcimento. «I pm lavorarono malissimo. Speriamo che ora si possa chiarire davvero, partendo dal lavoro della Commissione». 

Le novità. Sono elencate in cinque punti. 1) «Si esclude che la nebbia sia stata la causa delle tragedia... Non c’è stato, prima del disastro, un fenomeno atmosferico di generale riduzione della visibilità in rada». 2) «Il comando della petroliera non ha posto in essere condotte pienamente doverose». Il traghetto rimase incagliato per alcuni minuti nella motocisterna. «C’era il tempo per valutare la situazione e dare le corrette comunicazioni ai soccorritori». 3) «Dalla Capitaneria di porto di Livorno non partirono ordini precisi per chiarire entità e dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione». Ovvero la Moby Prince. I soccorsi si concentrarono soltanto sulla petroliera. «Ci fu impreparazione e inadeguatezza». 4) «Ci sono punti non congruenti», questo l’eufemismo usato dai relatori, «sulle attività della petroliera e sul suo tragitto compiuto prima di arrivare a Livorno».

L’accordo. «Ci si è chiesti se la rapidità con cui si è giunti ad accordi fra compagnie e armatori non abbia contribuito da subito ad abbassare il livello di attenzione sulla tragedia». Il quinto e ultimo punto è anche il più scabroso. Ci è voluto l’intervento della Guardia di finanza per recuperare il documento da un broker delle isole Bermuda, dov’era custodito. Il 18 giugno ‘91, a Genova, viene siglato un accordo tra Navarma, proprietaria di Moby Prince, e Snam-Agip spa, armatore della petroliera. Le due parti rinunciano a qualunque pretesa di indennizzo reciproco. Sono passati appena due mesi dalla strage. Ancora non si sa nulla. Ma non si attendono gli esiti dell’inchiesta della magistratura, appena agli inizi. «In solo due mesi, gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità, non approfondendo eventuali condizioni operative o motivazioni dell’incidente attribuibili ad uno dei due natanti». I parlamentari sottolineano come Moby Prince fosse assicurata con una estensione della polizza ai «rischi di guerra», benché navigasse solo nell’alto Tirreno. L’armatore Vincenzo Onorato ha detto che la pratica era abituale. I consulenti della commissione sostengono che invece «non era giustificata». «Anomalo appare anche il fatto che a fronte di una valorizzazione a bilancio del 1991 di circa 7 miliardi di lire, il traghetto fosse assicurato per 20 miliardi, cifra liquidata nel febbraio del 1992. A indagini preliminari ancora in corso». 

Le cause. La commissione parla di «una possibile alterazione della navigazione» della Moby Prince. L’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti ha riferito di un appunto della Polizia che confermava le tracce di esplosivo «a uso civile» rinvenute nel locale a prua del traghetto. Ma dal lavoro della commissione non emergono conferme. Solo l’ipotesi, corroborata dal fatto che prima dell’impatto le luci d’allarme della Moby Prince erano accese, di «un evento inatteso» sul traghetto, che ha portato come conseguenza il blocco del timone. «Non si può quindi escludere un’avaria».

La petroliera. «Negli anni, sulla posizione dell’Agip Abruzzo sono state fornite plurime indicazioni quasi sempre incompatibili una con l’altra. I consulenti della commissione hanno individuato ben 19 diverse coordinate, punti dichiarati o rilevati prima o subito dopo la collisione». Le nuove indagini della Marina militare portano almeno qui alla verità. «La suddetta nave era in zona interdetta alla navigazione e in divieto di ancoraggio». Era dove non doveva essere, con un carico sconosciuto. Ma da dove arrivava? Snam ha sempre sostenuto che giunse direttamente dall’Egitto dopo 5 giorni di viaggio. Il sistema di controllo della Lloyd List Intelligence, al quale la commissione ha avuto accesso, racconta invece di soste mai dichiarate a Fiumicino e Genova, prima di Livorno. «La dichiarazione di provenienza fornita da Snam è in contrasto con i dati ufficiali». Un falso. «La commissione ritiene che il comportamento di Snam-Eni sia connotato di forte opacità». Tutti avevano qualcosa da nascondere, dopo quella notte. La Capitaneria di porto «non ha valutato la gravità della situazione», anche per «incapacità». Non è un dato da nulla, davanti a 140 vittime, molte delle quali erano ancora in vita dopo la collisione. Agip Abruzzo e Moby Prince avevano i loro segreti, e le loro compagnie un accordo segreto. Quindi più nebbia per tutti. Per coprire i morti, e soprattutto i vivi.

Moby Prince, l’ultima verità 26 anni dopo. Concluso il lavoro della Commissione d’inchiesta: “La nebbia un’invenzione, i 140 non furono soccorsi”. La Commissione parlamentare è stata istituita nel 2015 e a dicembre, dopo 72 audizioni, ha concluso il suo lavoro. Sul disastro restano ancora molti misteri e si ipotizza la trasmissione degli atti alla procura per una nuova inchiesta, scrive il 04/01/2018 Nicola Pinna su "La Stampa". Guido Frilli non è un fantasma spuntato fuori all’improvviso. Si fece vivo e parlò anche 26 anni fa, ma allora nessuno lo ascoltò. Provò persino a mettere per iscritto tutto ciò che aveva visto la notte del disastro, ma il verbale con la sua testimonianza non è mai finito nel fascicolo di un’indagine. Ora le cose cambiano. E non è un dettaglio. Quello che Guido Frilli ha visto dalla finestra della sua casa di Livorno è nero su bianco nel resoconto dell’ultima seduta della Commissione parlamentare d’inchiesta sul dramma del Moby Prince. «Quella notte in rada non c’era nebbia, lo ribadisco. Sono stato alla finestra fino all’una del mattino e vedevo con chiarezza ciò che stava accadendo». Ecco, questa è la pietra tombale sulla vecchia verità processuale. Una verità che però non ha mai chiarito la dinamica (e le cause) del drammatico scontro tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo. A distanza di così tanto tempo la storia è quasi tutta da riscrivere, perché su uno dei grandi misteri italiani ora ci sono almeno tre nuove certezze. La più importante si basa (anche) sul racconto di Guido Frilli: di fronte alla Commissione d’inchiesta lo avevano detto anche altri e così sembra sgretolarsi l’ipotesi della nebbia, che per i magistrati era la causa principale del disastro. Prima dello spettatore involontario, una versione più o meno simile l’avevano data ai senatori l’ex pilota del porto di Livorno, l’avvisatore marittimo e persino due ufficiali della Guardia costiera. «Nei giorni successivi all’incidente - ha sottolineato Frilli - mi sono presentato in Capitaneria per riferire della perfetta visibilità in rada e della totale assenza di nebbia». Di un racconto così prezioso non si era mai saputo nulla, ma dal lavoro della Commissione d’inchiesta (presieduta da Silvio Lai del Pd) viene fuori che le indagini sono state superficiali e le conclusioni poco fedeli alla realtà dei fatti. La relazione finale sulle 72 audizioni fatte in 25 mesi di lavoro verrà presentata tra qualche giorno, ma insieme alla questione della nebbia ci sono altri due passaggi che consentono di riscrivere la storia. E che lasciano aperta l’ipotesi di una imminente trasmissione degli atti alla procura per sollecitare l’apertura di una nuova inchiesta. Quello che i parenti delle vittime chiedono da anni: «Non so se arriveremo mai alla verità totale - dice Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto -. Di certo, l’esito delle audizioni dimostra che a provocare il dramma non è stata la distrazione dell’equipaggio. Non credo che sarà mai possibile, ma sarebbe utile capire anche le cause dell’impatto».  La sopravvivenza dei 140 del Moby Prince e l’organizzazione dei soccorsi sono gli altri due punti su cui saltano fuori i nuovi dettagli. A rileggere le due sentenze che hanno chiuso il caso senza colpevoli, i passeggeri del traghetto appena partito da Livorno e diretto a Olbia avrebbero avuto solo 20 minuti di vita. Ma in realtà, dal momento dello scontro con la petroliera, a bordo della nave sono trascorse ore interminabili e drammatiche. E le prove messe insieme dalla Commissione d’inchiesta sono diverse. Una è la consulenza di un medico legale (ancora secretata) che ha chiarito un particolare su cui già c’era qualche indizio: i 140 hanno respirato per ore il fumo. In più c’è l’immagine di quell’uomo che dopo molte ore sale sul ponte della nave per chiedere aiuto: in pochi minuti il suo corpo è stato carbonizzato e questo dimostra che fino a quel momento era stato in un luogo sicuro. Infine, ci sono le foto scattate dai vigili del fuoco, entrati per primi nel garage del traghetto: sulle auto coperte di fuliggine (che si deposita quando le fiamme sono spente) ci sono le orme di tante mani. E questo per i periti significa che quando il rogo era stato domato dentro la nave arroventata parecchie persone ancora si spostavano alla ricerca di un luogo sicuro. La testimonianza del mozzo Alessio Bertrand, unico sopravvissuto del Moby Prince, rafforza la nuova certezza: «Quando mi hanno soccorso ho detto che c’erano ancora persone vive». Il capitolo soccorsi è quello che nelle prime indagini non è mai stato affrontato, ma negli atti degli interrogatori fatti dalla Commissione c’è una pesante ammissione dell’allora comandante del porto, Sergio Albanese: «Il traghetto era un corollario, ci siamo concentrati sulla petroliera». A salvare i 140 passeggeri, dunque, nessuno ci ha provato. 

Disastro Moby Prince, 26 anni dopo un'altra verità. La testimonianza di Guido Frilli, scrive Paolo Salvatore Orrù su "Tiscali News". Il disastro del Moby Prince avvenne la sera del 10 aprile 1991, quando il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo entrarono in collisione nella rada del porto di Livorno.  In seguito all'urto si sviluppò un incendio che causò la morte delle 140 persone tra equipaggio e passeggeri, si salvò solo Alessio Bertrand, un giovane mozzo napoletano. Sono passati quasi 27 anni da quella immane tragedia, eppure la verità è ancora di là da venire. Lo scorso dicembre, con l’audizione di Guido Frilli da parte commissione d’inchiesta del Senato presieduta da Silvio Lai (Pd), è stato possibile intravedere sprazzi di luce. Frilli ha infatti sostenuto che in rada non c’era assolutamente un filo di nebbia (che sinora era stata considerata la vera colpevole della tragedia). Lui è un testimone oculare: all'epoca dei fatti abitava sul lungomare di Livorno proprio davanti al luogo del disastro. Si legge nel resoconto della commissione di inchiesta: “affacciatosi alla finestra quella notte, ebbe la percezione di una perfetta visibilità tanto che vide la sagoma della petroliera con alcune persone che correvano lungo il ponte, mentre un altro corpo, avvolto dal fumo nero, si muoveva poco più a nord”. Particolari che potevano essere osservati, vista la distanza, solo con l'assenza di nebbia. Il testimone, per confermare la perfetta visibilità, ha detto che l'isola di Gorgona era “perfettamente visibile”. Dalle dichiarazioni del cittadino livornese si evince un altro particolare mai emerso prima. E cioè che l'Agip Abruzzo era illuminata in maniera anomala e risultava molto vicina alla costa (oggi le navi sono ancorate a una distanza maggiore dalla terraferma ndr). Il testimone ha anche ricostruito la dinamica dell'incendio sulla petroliera percepita dal terrazzo della sua casa: sarebbe stata caratterizzata “da denso fumo che si sollevava dal ponte cui seguirono grandi bagliori di fiamme”. Peraltro, conferma Frilli, non vide altri natanti fra la costa e la petroliera, e non si è sentito di escludere la presenza di un elicottero. Frilli ha precisato che il traghetto era avvolto da un fumo denso e scuro, mentre il fumo che saliva dalla petroliera era più chiaro e si muoveva lentamente in direzione verso ovest - nord ovest. E ha ricordato particolari agghiaccianti, come quella una figura umana di piccole dimensioni, con una maglietta bianca, che correva sul ponte della petroliera. Quella maglietta poteva essere quella di Bertrand. Che un anno fa, interrogato dalla commissione d’inchiesta, aveva asserito tutto il contrario da quanto sostenuto da Frilli.  A lui infatti il timoniere della Moby Prince aveva detto che la collisione era avvenuta a causa della fitta nebbia. “Incontrai il timoniere, gli chiesi cos’era successo e mi disse: c’era nebbia e siamo finiti contro un’altra nave”. Bertrand però dice anche che lui la nebbia non la vide, gliela comunicò il timoniere, Aniello Padula. Moby Prince, una vicenda complessa. Per ora si può fare affidamento solo sulla verità processuale, che ravvisò come possibile causa dello scontro l’errore umano da parte dell'equipaggio del Moby: tutte le commissioni d'inchiesta e tutti i processi, fino all'ultima archiviazione disposta dalla Procura di Livorno nel 2010, censurano il comportamento della plancia del Traghetto, comandata da Ugo Chessa, defunto anch'egli nella tragedia. L'imprudenza del Comandante, per i giudici non ha certo determinato la tragedia nei suoi mortali sviluppi, tuttavia ha contribuito a non evitarla. Tra le accuse rivolte all'equipaggio del Moby Prince si elencano: il mal funzionamento di alcuni apparati di sicurezza a bordo della nave; l'aver fatto scendere prima del dovuto il pilota del porto Federico Sgherri; la mancata dovuta attenzione nelle procedure di uscita dal porto; la velocità troppo elevata in fase di uscita; l'aver lasciato aperto il portello del traghetto in fase di navigazione. Tra le cause della disattenzione è stato indicato più volte erroneamente, anche dagli organi di stampa dell'epoca, il fatto che l'equipaggio potesse essere distratto dalla gara di ritorno della semifinale di Coppa delle Coppe tra la Juventus e il Barcellona. Questa ipotesi è stata però decisamente respinta dalla testimonianza del superstite Bertrand, il quale, durante vari interrogatori, ha più volte dichiarato di aver personalmente portato alcuni panini in plancia comandi e che il personale di guardia si trovasse al proprio posto nella gestione del traghetto. Per Luchino Chessa, figlio del comandante Moby e portavoce familiari vittime, la commissione di inchiesta sta facendo ‘un grade lavoro’. Alla giornalista di tiscali.it, Paola Pintus, che lo aveva intervistato aveva spiegato: “la Commissione d'inchiesta sta facendo un gran lavoro e sta raggiungendo dei risultati insperati fino a un po’ di tempo fa. All'esame ci sono dei dati di fatto che stanno scompaginando le vecchie carte processuali e stanno riscrivendo tutto quello che era stato costruito in precedenza". Se 27 anni vi sembrano pochi.

MOBY PRINCE. NON FU NEBBIA KILLER, RESTA SOLO QUELLA GIUDIZIARIA. Scrive il 2 settembre 2017 Paolo Spiga su "la Voce delle Voci ". Non fu la nebbia. Questa la fondamentale acquisizione operata dalla commissione parlamentare d’inchiesta che indaga sulla strage del Moby Prince, quando nella notte del 10 aprile 1991 morirono bruciate 140 persone. Uno dei peggiori buchi neri della nostra storia, una delle più colossali tragedie italiane rimaste senza risposta e, soprattutto senza colpevoli, a ben 26 anni da quei fatti. Inchieste che hanno regolarmente girato a vuoto, nulla di fatto in tutti i gradi di giudizio, depistaggi a non finire. L’unica speranza adesso resta in questa commissione varata circa un anno fa e comunque approdata a qualche significativa conclusione. Come ad esempio il fatto che la nebbia – considerata da sempre la causa numero uno – non c’entra un bel niente. Almeno questo, per ora. “Era una notte chiara e luminosa”, hanno sempre raccontato le cronache. E invece nei fascicoli giudiziari quei chiarori si trasformano in nebbia impenetrabile, che rende ancor più invisibili le mani assassine che hanno provocato la tragica collisione. Ricordiamo che eravamo proprio nel giorno del rompete le righe per l’invasione americana in Iraq, con un gigantesco via vai di navi a stelle e strisce soprattutto in quell’area di costa toscana, dove si trovava la strategica postazione di Camp Derby. E sono non pochi i racconti di traffici più che sospetti di armi, di trasbordi di materiale bellico effettuati proprio in quelle acque. Così fa rilevare la relazione presentata dalla commissione presieduta dal Pd Silvio Lai: “le differenze emerse e il confronto con gli atti acquisiti consentono di ipotizzare scenari differenti rispetto a quelli che sono stati definiti nel corso delle diverse fasi processuali e negli anni successivi”. Più nello specifico, a proposito della nebbia – sic – killer, ecco le novità. In una comunicazione radio captata dalla petroliera Agip Abruzzo prima dell’impatto con il Moby Prince, emerge una frase, “Livorno ci vede, ci vede con gli occhi”, che lascia poco spazio all’ipotesi di una nebbia fitta. Agli atti, poi, c’è un’altra comunicazione captata, quella di un aereo in atterraggio a Pisa che “vede distintamente l’area del disastro pochissimo tempo dopo la collisione tra le due imbarcazioni”. Non è finita. Perchè il cosiddetto “video D’Alesio”, ripreso pochissimo tempo dopo l’impatto con una telecamera amatoriale da un’abitazione che si affaccia lungo la rada – viene scritto nella relazione – “mostra un’immagine chiara della scena che rende dubbiosi riguardo l’ipotesi della nebbia. Su questo argomento la commissione ha avanzato precise domande agli auditi e in primo luogo agli ufficiali dell’Agip Abruzzo. Stante quanto premesso – viene aggiungo dai commissari presieduti da Silvio Lai – le ricostruzioni dei marittimi della petroliera sulla presenza di nebbia in rada consentono di ridimensionare sensibilmente, fino ad escluderla, la rilevanza di tale fenomeno”. La nebbia meteo si è diradata. Farà lo stesso quella giudiziaria?

Milano, 1971: Simonetta Ferrero uccisa nei bagni della Cattolica. Un seminarista entrò per chiudere il rubinetto e si trovò davanti alla terribile scena di un delitto: sulla porta e sulle pareti macchie di sangue, ditate e manate dappertutto, e per terra il corpo senza vita di una ragazza. Il giallo è tuttora irrisolto, scrive Dino Messina il 30 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La mattina di lunedì 26 luglio 1971 il seminarista padovano Mario Toso, 22 anni, entrò di buonora all’Università Cattolica per assistere alla messa delle otto. Finita la funzione salì al primo piano della scala G per vedere se c’erano comunicazioni che lo riguardavano nella bacheca dell’Istituto di scienze religiose. Ma si fermò, attratto dallo scrosciare insistente dell’acqua che proveniva da un bagno delle donne. Entrò per chiudere il rubinetto e si trovò davanti alla terribile scena di un delitto: sulla porta e sulle pareti macchie di sangue, ditate e manate dappertutto, e per terra, riverso sul fianco destro, il corpo senza vita di una ragazza. Il seminarista cercò qualcuno per dare l’allarme, ma non trovò nessuno. A chiamare la questura fu uno dei due custodi di turno, Mario Biggi. Il giovane religioso se ne tornò al seminario di Mirabello Monferrato, casualmente lo stesso istituto dei salesiani frequentato dalla vittima durante le scuole elementari. La polizia non fece fatica ad accertare che la ragazza distesa sul pavimento si chiamava Simonetta Ferrero, detta Munny, di cui i genitori avevano denunciato la scomparsa già dal sabato precedente. Il luogo del delitto, l’Università Cattolica, e la personalità della vittima, delineavano uno scenario del tutto insolito per gli inquirenti. Simonetta era una ragazza di 26 anni, bella ma non appariscente, bruna con gli occhi verdi, che si era laureata in Scienze politiche nell’ateneo di Largo Gemelli con una tesi sul concetto di premio nell’ordinamento costituzionale inglese. Il fatto che la facoltà da lei seguita fosse diretta dal costituzionalista Gianfranco Miglio, uno dei consiglieri del presidente della Montedison Eugenio Cefis, unito al vantaggio di essere figlia di un dirigente del gruppo, Francesco, ex commerciante di vini, aveva aperto le porte della Montedison alla giovane Simonetta, che a 26 anni si trovava a capo della sezione laureati. In pratica selezionava i più meritevoli. Di recente aveva respinto una decina di domande di assunzione e gli inquirenti seguirono anche questa traccia, ma la violenza dell’esecuzione lasciava pensare a un delitto passionale, o a una tentata violenza sessuale, che tuttavia l’aggressore non riuscì a portare a termine come venne dimostrato dall’autopsia. Escluso il movente di rapina, perché al dito la povera Simonetta aveva ancora l’anello d’oro e nel portafogli vennero trovati i trecento franchi francesi che aveva appena cambiato prima di partire con la famiglia per la Corsica. E allora? Al capo della squadra mobile Enzo Caracciolo e ai suoi uomini, che riferivano al magistrato Ugo Paolillo, lo stesso che era di turno due anni prima il giorno della strage di piazza Fontana, non restò altro che ricostruire le ultime ore di vita della giovane. Simonetta viveva con i genitori Francesco e Liliana, casalinga, e con le sorelle, Elena, biologa, assistente all’università Statale, ed Elisabetta, laureanda in biologia, in un appartamento di via Osoppo. Non ancora fidanzata, di abitudini piuttosto tradizionali per quei tempi tumultuosi, era volontaria della Croce Rossa e impegnata nel tempo libero anche con le Dame di San Vincenzo. La mattina di sabato 24 luglio, in una Milano calda e semideserta, Simonetta era uscita per cambiare le lire in franchi prima della partenza per la Corsica, era passata in una tappezzeria, poi in un negozio di estetista in via Dante, per la depilazione prenotata in vista delle vacanze al mare. Dopo aver comprato un dizionario italiano-francese, si era diretta verso la Cattolica: secondo alcune ipotesi per ritirare delle dispense nella libreria interna dell’ateneo, che aveva trovato chiusa, secondo altre proprio per fermarsi ai bagni che ben conosceva nell’ateneo che aveva frequentato per quattro anni. Una banale sosta per motivi fisiologici, che le costò cara. Simonetta entrò nell’ateneo dall’atrio principale di largo Gemelli, quindi attraversò due cortili prima di arrivare al terzo porticato da cui si accedeva ai bagni della scala G. Le lezioni e anche gli esami erano finiti, la facoltà in un sabato di fine luglio era semideserta, si sentiva solo il rumore dei martelli pneumatici azionati da un gruppo di operai che lavoravano proprio vicino al luogo del delitto. Un rumore che probabilmente coprì le urla disperate di Simonetta, mentre lottava con il suo aggressore prima di cadere trafitta da 32 pugnalate, sette delle quali, all’addome, al petto e al collo, mortali. Gli operai e i pochi studenti presenti nell’ateneo quella mattina furono interrogati. Ma le indagini presto si arenarono. Venne rintracciato un falso ingegnere navale sulla quarantina che frequentava la Cattolica con il solo scopo di importunare le studentesse. Fu segnalata la presenza di un giovane di 25 anni che aggrediva le ragazze con parolacce. Gli studenti pendolari sulla ferrovia Milano Saronno indicarono la presenza di un giovane che andava in giro a dire che preferiva le ragazze della Cattolica e mostrava un coltello a serramanico. Tutti questi personaggi, al pari di altri 300 possibili testimoni o portatori di una pur minima verità sulla morte di Simonetta, vennero interrogati senza risultato. Il principale sospettato rimaneva il seminarista Toso: perché era entrato in un bagno delle donne e perché era tornato precipitosamente in seminario? Gli inquirenti con trovarono prove a suo carico, così come nessuna prova venne trovata a carico di un giovane prete sospettato e trasferito, ma neppure indagato. Intanto, precipitosamente, il luogo del delitto venne ripulito. Non fu mai trovata l’arma del delitto. Come aveva fatto l’assassino a farla sparire e, soprattutto, come aveva potuto uscire dall’università, con i vestiti sporchi di sangue, senza che nessuno lo notasse? Furono commessi errori nell’indagine e non c’era all’epoca il test del dna, che avrebbe potuto aiutare a risolvere il caso utilizzando i pezzetti di pelle dell’aggressore rimasti nelle unghie di Simonetta. Intanto, si facevano avanti anche i mitomani. In questura arrivò una lettera dall’Emilia con «l’identikit dell’assassino», che in realtà si rivelò essere il ritratto dell’astronauta americano Alfred Warden, al comando della missione Apollo 15. Ventidue anni dopo, nel 1993, il questore Achille Serra ricevette una lettera anonima che puntava il dito contro un padre spirituale della Cattolica. I funerali di Simonetta Ferrero furono celebrati giovedì 30 luglio nella chiesa dei santi martiri Gervaso e Protaso in via Osoppo dallo zio della vittima, monsignor Carlo Ferrero, presidente dell’Istituto di scienze teologiche della Pro Deo di Roma, che l’aveva introdotta nell’Università Cattolica. La chiesa era piena, nessuna autorità presente, soltanto una grande delegazione della Croce Rossa. Dopo 46 anni la morte di Simonetta Ferrero rimane ancora un mistero.

Lidia Macchi, sul corpo 4 capelli di un uomo sconosciuto: non è Binda. È la novità emersa martedì nell’aula gip del tribunale di Varese, dove i quattro periti hanno esposto i risultati della relazione. La ventenne fu uccisa nel 1987, il cadavere è stato riesumato trent’anni dopo in cerca di tracce di dna, scrive Roberto Rotondo il 9 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non sono stati trovati peli o capelli riconducibili all’imputato Stefano Bindasulla salma di Lidia Macchi, la studentessa ventenne uccisa nel 1987 le cui spoglie sono state riesumate per capire se vi fossero o meno elementi del dna riconducibili all’uomo accusato dell’omicidio. Spuntano però quattro capelli, senza bulbo, che i periti incaricati dal gip hanno trovato nella zona pubica: appartengono tutti alla stessa persona e secondo gli esperti non sono riconducibili né a Stefano Binda né a un familiare della ragazza uccisa. Sarebbero dunque di un altro uomo. È la novità emersa martedì nell’aula gip del tribunale di Varese, dove i quattro periti hanno esposto i risultati della relazione. Vi sarebbe «alta probabilità» che le formazioni pilifere - che data la lunghezza i periti indicano come capelli - siano rimaste sul corpo in seguito a un rapporto sessuale - il primo della sua vita, e consenziente - che la ragazza avrebbe avuto, quella notte, dopo essere uscita dall’ospedale di Cittiglio dove si era recata a far visita a un’amica, il 5 gennaio del 1987. Poche ore dopo fu uccisa a coltellate. «Sono contento, questi risultati dimostrano la mia innocenza», ha riferito Binda ai suoi difensori, gli avvocati Sergio Martelli e Patrizia Esposito. L’analisi è stata effettuata dall’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo, dal colonnello del Ris di Parma Giampietro Lago, dal maggiore del Ris Alberto Marino e dalla professoressa Elena Pilli, del dipartimento di biologia evoluzionistica dell’università di Firenze. I periti, in aula, hanno definito la perizia come un «unicum» nel panorama forense, per l’enorme mole di materiale analizzato su un cadavere riesumato dopo 30 anni. Una volta trasportata la salma in laboratorio, gli esperti hanno dovuto attendere che i resti si asciugassero, poiché erano impregnati d’acqua. Dopo aver iniziata la disamina, sono stati rinvenuti 6mila piccolissimi reperti, tra peli e capelli, in particolare nella zona pubica. Il vestito con cui era stata avvolta la salma, un abito da sposa, ha protetto dal tempo i reperti. Gli esperti hanno diviso in cinque gruppi il materiale pilifero, e alla fine sono arrivati a isolare quattro peli senza bulbo che, analizzando il dna mitocondriale, non sono attribuibili né alla vittima né a elementi del suo nucleo familiare, né alle persone che hanno eseguito l'autopsia. La buona notizia per la difesa è che questi peli, probabilmente dell’assassino, di sicuro non appartengono a Stefano Binda. Secondo i periti la ragazza, sarebbe stata uccisa in un lasso di tempo compreso tra 30 minuti e 3 ore dalla fine del rapporto sessuale. Ora i periti dovranno replicare le loro conclusioni, esposte davanti al Gip nell’incidente probatorio, davanti alla corte d’assise nella prossima udienza. La salma, restituita ai familiari, assistiti dall'avvocato Daniele Pizzi, verrà riportata nel cimitero di Casbeno a Varese, dove si trova la tomba.

Lidia Macchi, il medico legale: «Non fu uccisa in quel bosco, e il rapporto sessuale fu consenziente». Il professor Mario Tavani, che effettuò l’autopsia, ha rivelato in aula alcuni aspetti finora non trapelati del suo rapporto del gennaio 1987. Nella Panda della studentessa solo due macchioline di sangue, nessuna traccia di terriccio sugli stivali, scrive Roberto Rotondo il 19 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera".  Lidia Macchi non fu uccisa in quel bosco. E mezz’ora prima di morire ebbe il suo primo rapporto sessuale, consensuale, in tutta probabilità con quello che poi divenne il suo assassino. Si complica ulteriormente il giallo della morte della studentessa di Cl, un «cold case» che, dopo 29 anni, è arrivato in corte d’Assise al termine dell’inchiesta effettuata dalla procura generale di Milano. Mercoledì è stato interrogato, in aula, il medico legale che all’epoca effettuò l’autopsia. Il professor Mario Tavani ha rivelato alcuni aspetti finora non trapelati del suo rapporto del 1987. Ha raccontato che, a esito della sua analisi, scoprì che Lidia Macchi non venne uccisa nel bosco di Cittiglio, a pochi metri dalla stazione ferroviaria, e che la ragazza quella notte, il 5 gennaio 1987, ebbe un rapporto sessuale consenziente. Dunque, non fu violentata, il suo corpo venne trasportato e inoltre fu uccisa dopo mezz’ora circa dal primo rapporto sessuale della sua giovane vita. Il professor Tavani ha chiarito in aula quale fosse, a suo parere, l’arma del delitto, e cioè un coltellino di marca «Opinel», con il quale l’omicida inflisse 29 coltellate, prima al collo, poi all’addome e infine sulla schiena, quando la ragazza era già in terra. Il tutto tra le 23 e le 4 di mattina. Va detto che l’ordinanza del gip che ha disposto l’arresto dell’imputato Stefano Binda, 49 anni, ammette che il rapporto sessuale fu probabilmente consenziente, ma avanza l’ipotesi che la costrizione avrebbe potuto essere non fisica, bensì effettuata con minaccia. Il medico legale tuttavia ha escluso che sul corpo della povera ragazza vi fossero lesioni da azioni di afferramento o per immobilizzazione o costrizione fisica. E anche sul luogo del delitto è stato molto deciso: «Nella Panda della vittima - ha riferito - non c’era alcuna traccia di sangue se non due macchioline. Quando si colpiscono delle arterie del collo, come è avvenuto in questo caso, escono quantità di sangue a fiotti, e lo schizzo va lontano. Ventinove coltellate sferrate in una macchina l’avrebbero imbrattata in una maniera incredibile. Inoltre intorno al corpo e nella terra non c’era sangue. Sono quasi certo – ha infine affermato il dottore – che sia l’amplesso che l’uccisione non si siano avvenute in quel luogo. E lo dimostra anche il fatto che negli stivali di Lidia non c’era polvere e nessun segno del terriccio». Nel pomeriggio sono stati ascoltati altri periti che hanno analizzati i reperti rimasti. Poche informazioni sono oggi utilizzabili. Ma una spicca. Il dna sul lembo della busta spedita ai parenti di Lidia - che contiene la lettera anonima che sarebbe attribuibile all’imputato - non è compatibile con quello di Binda. Non fu lui a leccarla. Rimane un rammarico: i vetrini con il liquido seminale dell’uomo che incontrò Lidia quella notte, furono distrutti per errore dal tribunale di Varese. I consulenti oggi in aula hanno affermato che se li avessero avuti, avrebbero detto con certezza se appartenevano o meno all’imputato.

L’omicidio dimenticato: Mino Pecorelli, scrive Valter Vecellio il 20 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il giornalista viene ammazzato la sera del 20 marzo a Roma, il processo in cui sono imputati anche Andreotti e la banda della Magliana vede tutti assolti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto (e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive (e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ripensato. Ma nessuno si è ricordato (e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro (da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue. Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori (oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…). Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile». Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito. Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…». C’è tantissimo altro (e di altro interessante, e che merita di essere letto e riletto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’ “oggi”. Un filo d’Arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno (Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro). Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi. Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere». Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste. Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano (e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting-pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.

La vera fine di Salvatore Giuliano, scrive il 22/03/2018 Paola Carella su “Il Giornale". “Io così sacciu la storia e accussì la racconto”. Così inizia il racconto di Giacomo Bommarito, la vedetta di Salvatore Giuliano, u picciutteddu, nel libro intervista “Io c’ero”, di Valentina Gebbia e Nunzio Giangrande, edito da Dario Flaccovio editore. Una lunghissima intervista, fatta a più riprese, in cui l’ultraottantenne racconta, dopo un silenzio durato settanta anni, la Sua storia su una delle figure più note e controverse della storia italiana e internazionale, quella del bandito Salvatore Giuliano. Qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Attraverso questo libro si ridisegna il profilo di un personaggio raccontato in oltre quaranta libri, film e personaggio di primo piano nei testi storici e nei saggi dal secondo dopoguerra in poi. Eppure la vicenda di Salvatore Giuliano si svolse in un arco temporale di soli sette anni, dal 1943 al 1950, anno della sua presunta morte. Tanti i misteri che ruotano attorno alla sua figura: Turiddu, come lo chiamavano i suoi, era al tempo stesso uomo amato dalla sua terra e bandito terribile di cui persino i servizi segreti internazionali si occuparono. Nel secondo dopoguerra la Sicilia deteneva il deprimente primato nazionale di uccisioni, rapine, sequestri ed estorsioni e le Forze dell’Ordine, anche per i tristi trascorsi siciliani, spesso erano “strumento di oppressione e soprusi ai servizi del signore più forte”. Montelepre era un piccolo paesino su un colle nella Sicilia occidentale e aveva sempre covato il seme della ribellione e dell’insofferenza al potere, imposto con la forza, sin dai tempi della carboneria mazziniana. La seconda guerra mondiale aveva lasciato tanta miseria e le elezioni italiane del giugno 1946 avevano messo la DC con il governo De Gasperi alla guida del paese: ovunque in Sicilia serpeggiava il malcontento della popolazione, affamata e senza lavoro, che si fece sentire da più parti, il contrabbando diviene un’alternativa di sopravvivenza, così inizia la storia di Salvatore Giuliano. Giacomo Bommarito nella sua testimonianza ripercorre passo dopo passo la vita di un uomo fuorilegge, protetto da tutti, restituendo una verità scomoda con dovizia di particolari e dettagli. Nei capitoli che si susseguono vengono riportati numerosi momenti di quei sette anni di latitanza: dall’intervista di Mike Stern, che intervistò Giuliano nel suo rifugio sui monti di Montelepre, immortalati in una fotografia riportata nel libro fino all’incontro con la giornalista/spia svedese Maria Cyliakus con la quale era nata una relazione. E ancora gli incontri con il colonnello americano Charles Poletti insieme al Principe Raimondo Lanza di Trabia: una narrazione fitta e intrinseca, dal linguaggio semplice, in cui si vuole fare luce su molti angoli bui, compreso quello del famoso diario in cui il bandito annotava qualunque cosa e che fu la sua condanna a morte. Un racconto, quello riportato dai due autori, che mostra una versione molto diversa da quella ufficiale, ma che trova affinità con i ricordi degli anziani: tanti i dettagli che trovano riscontro con la storia e che destano numerosi interrogativi ai quali ancora nessuno sa o vuole rispondere, come quello sulla strage di Portella della Ginestra:-“ Ero la vedetta di Salvatore Giuliano, andavo a prendere il pane, gli portavo le sigarette e Giuliano non ha mai sparato a Portella della Ginestra. L’ho visto Giuliano a Portella, l’ho visto quando è andato e l’ho visto quando è tornato, lui era un bandito, non era cattivo, se aveva un pezzo di pane lo dava a chi aveva più fame di lui”. Secondo quanto dice l’uomo la strage venne ordinata dalla mafia e dalla politica di allora – “per mettere il popolo siciliano contro Giuliano, la mafia doveva consegnare alla giustizia Giuliano morto perché sapeva troppe cose”. Come è possibile che Salvatore Giuliano avesse ordinato la strage di Portella della Ginestra? Come avrebbe potuto sparare contro amici, parenti, quegli stessi che lui aiutava? Nel 2016 si sarebbe dovuta attuare la desecretazione degli atti relativi alla strage di Portella ma ad oggi siamo ancora in attesa.  Accanto a Salvatore Giuliano gravitavano pezzi della mafia, dello Stato e dei servizi segreti: qual è la verità sul suo conto e sulla sua morte? Tanti gli interrogativi che non trovano risposta come quello che ruota attorno alla morte del bandito ed ecco che il testimone racconta di un appuntamento a Borgetto al quale Turiddu si presentò vestito in abiti eleganti il 6 luglio del 1950 ma la morte di Giuliano risalirebbe al 5 luglio 1950 e le foto mostrano una scena che è molto lontana simile a una scenografia. Il corpo ritrovato era davvero il suo? L’Europeo, nel 1950 titolava “Di sicuro, c’è solo che è morto”, eppure neanche questa è mai stata una certezza.

35 anni di depistaggi: è la fine del mistero Orlandi? Intorno alla sparizione di Emanuela, il 22 giugno 1983, di confusione ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni, scrive Paolo Delgado l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". A Roma si dice “caciara”. Vuol dire confusione, trambusto, chiasso assordante. Intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, di caciara ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni. Un polverone fittissimo, una sagra dei depistaggi, delle rivelazioni clamorose ma traballanti e sempre prive di conferme, delle ricostruzioni ardite basate però su sabbie mobili. Nel corso dei decenni nel “caso Orlandi” c’è passato di tutto: l’attentato al papa Giovanni Paolo del 1981 e l’attentatore Ali Agca, i Lupi grigi turchi e i servizi segreti dell’est, la banda della Magliana e il Banco ambrosiano di Roberto Calvi l’appeso, fior di cardinali tra cui l’allora assessore agli Affari generali della segreteria di Stato vaticana Re e l’immancabile Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Dire pezzi da 90 è ancora poco. Anche se la sparizione di quella ragazzina quindicenne ha tenuto banco per decenni sulle prime pagine dei giornali e in decine di programmi tv la realtà è che se ne sa pochissimo e quel poco che si dà spesso per acquisito è invece incerto. C’è stato davvero un sequestro, un rapimento finalizzato a chissà quale scopo? Nulla lo prova. Esiste davvero una connessione tra la scomparsa della cittadina vaticana, figlia di un funzionario della Santa Sede, che quella sera stava tornando a casa dalla lezione di musica a un passo dal Senato col suo flauto in borsa e quella di Mirella Gregori, figlia di un barista, scesa in strada per parlare con un mai individuato “amico” meno di due mesi prima e mai più ricomparsa? Impossibile dirlo. E’ un’ipotesi ma frutto forse solo della suggestione. Le due ragazze avevano la stessa età, sono svanite misteriosamente nell’arco di poche settimane, alcune telefonate dei presunti rapitori avevano collegato i due casi, ma erano impostori. Troppo poco per dirsi sicuri del nesso. La sera di quel 22 giugno Emanuela aspettava l’autobus con due amiche in Corso Rinascimento, di fronte palazzo Madama. Però all’ultimo momento scelse di non salire: «Troppo affollato, aspetto il prossimo». Con la testa la ragazza quella sera stava altrove. Uno sconosciuto la aveva abbordata, le aveva proposto un lavoretto ben remunerato, pubblicizzare cosmetici durante una sfilata delle Sorelle Fontana. Era tentata, ne aveva già parlato al telefono con la sorella che l’aveva però sconsigliata, poi con le amiche, altrettanto contrarie e sospettose. Avevano ragione loro. La ditta di cosmetici in questione di quell’offerta non sapeva niente. In compenso da quelle parti girava da un pezzo un tipo furbo che rimorchiava ragazze e ragazzine con quella promessa a fare da esca. Nei giorni successivi, quando la notizia corredata da foto era già sui principali quotidiani della capitale arrivano due telefonate, un ragazzo, “Pierluigi” e un uomo, “Mario”: il primo fornisce elementi credibili. Raccontano in telefonate distinte di aver visto la ragazza insieme a un’amica. “Mario” assicura che Emanuela se n’è andata volontariamente ma col progetto di tornare per il matrimonio della sorella. Nessuno li individua. Nessuno li trova. Il caso esplode il 3 luglio, quando è il papa in persona a parlarne rivolgendosi ai rapitori, durante l’Angelus. La giostra inizia a girare vorticosamente solo in quel momento. Arrivano a raffica telefonate con richieste di scambio tra la ragazza e Alì Agca, il ‘ lupo grigio’ che aveva sparato al papa. A chiamare è per 16 volte un uomo con marcato accento anglosassone, ma si fa sentire, meno spesso, anche un mediorientale. Fanno ritrovare nastri con una voce disperata che chiede aiuto. Ma non è Emanuela: è la registrazione di un film. Ancora nel novembre 1984 i Lupi grigi insistono e assicurano di avere nelle loro mani entrambe le ragazze. L’affare monta, inevitabilmente si intreccia con le ombre addensate su Marcinkus, rinvia allo scandalo del banco Ambrosiano e all’uccisione di Roberto Calvi. Ma sono fantasie. Le telefonate dei Lupi grigi sono in realtà orchestrate dalla Stasi tedesca e servono a confondere le acque per stornare dai servizi segreti i sospetti di aver organizzato l’attentato al papa. Di elementi che autorizzino a ipotizzare qualche collegamento tra la bambina romana e il banchiere impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra non ce ne sono. Nel XXI secolo Emanuela Orlandi torna al centro delle cronache grazie a una telefonata, anche questa anonima, che arriva al programma di Raitre Chi l’ha visto?. Suggerisce di «andare a vedere chi è sepolto nella basicilica di sant’Apollinare a Roma e allude a un “favore” fatto da Enrico De Pedis, “Renatino” uno dei capi della Banda della Magliana ucciso nel 1990, al cardinal Poletti. Che a Sant’Apollinare sia sepolto tra santi e papi proprio lui, il temuto Renatino, lo sanno tutti e quando, sette anni dopo, la tomba verrà aperta saranno ritrovati solo i resti del bandito. Nel frattempo però si è scatena- ta una corsa in massa alla rivelazione. Antonio Mancini, “Accattone”, altro bandito della Magliana, ricorda di aver riconosciuto nel “Mario” che aveva telefonato subito dopo la scomparsa un bandito detto “Rufetto”, sodale appunto di Renatino. Ancora qualche anno e “Accattone” precisa: a rapire la ragazza era stata la banda, per farsi restituire dallo Ior i soldi investiti dai criminaloni attraverso l’Ambrosiano. A chiamare in causa Renatino era stata anche una sua ex amante, Sabrina Minardi, ex moglie di un calciatore della Lazio, Bruno Giordano. La donna è palesemente un po’ sbroccata. Confonde le date e squaderna ricostruzioni inverosimili ma dà anche indicazioni reali. E’ lei a far scoprire l’immensa grotta sotterranea a cui si accede dall’appartamento di una sua amica, Daniela Mobili, nella quale sarebbe stata tenuta segregata Emanuela prima di essere uccisa dallo stesso Renatino. E la Bmw sulla quale, secondo l’improbabile teste, l’autista di Renatino, “Sergio”, avrebbe caricato la ragazza, portata al Gianicolo già drogata dalla governante della Mobili. Ma non parla solo la Magliana. Si affaccia il lupo grigio in persona, Alì Agca: rapimento per conto del vaticano, anzi no corregge cinque anni dopo, a opera della Cia. Comunque «è viva e tornerà». Si affaccia padre Anorth, esorcista principe del Vaticano: Emanuela è morta nel corso di un festino a base di droga e sesso. Conferma due anni dopo il pentito di mafia Calcara, a cui un non meglio precisato boss avrebbe rivelato che la ragazza era finita male nel corso di un festino e le spoglie erano state occultate in Vaticano. Di sfuggita spunta un agente del Sismi: «È viva, sedata in un manicomio in Inghilterra». Impossibile dire quante di queste rivelazioni, mai supportate da elementi concreti, arrivino da mitomani, quante rispondano a logiche che con il caso Orlandi in sé non hanno nulla a che vedere, come il depistaggio organizzato negli anni ‘ 80 dalla Ddr, e quanto invece la confusione avesse il preciso obiettivo di rendere impossibile orizzontarsi, coprendo così i veri responsabili del fattaccio. Forse l’elemento più inquietante, proprio per la sua distanza dall’affaire internazionale che è stato ipotizzato e raccontato per decenni, arrivò dall’avvocato della famiglia Orlandi Gennaro Egidio che raccontò a Pino Nicotri, il giornalista che più e meglio di tutti si è occupato del caso: «I motivi della scomparsa ella ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Il rapimento, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no. La verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Ma non per questo meno amara». Peccato che l’avvocato sia morto prima di poter spiegare le sue sibilline parole, anche se l’avvocato sospettava il coinvolgimento di una parente di Emanuela. Ma se tra una settimana l’esame del dna dovesse dire che le ossa ritrovate nella Nunziatura di via Po sono quelle della quindicenne scomparsa 35 anni fa il coinvolgimento di qualche pezzo grosso del Vaticano diventerebbe di fatto certo, e la “caciara” di questi decenni si rivelerebbe tutt’altro che casuale.

Servizi, Ior e Mafia: il caso Orlandi è il “complotto perfetto”. Il mistero della ragazza scomparsa nel 1983 forse vicino alla soluzione. Lunedì i risultati del dna sulle ossa trovate in Nunziatura, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". Per capire se quelle ossa sono davvero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, bisognerà ancora attendere i tempi tecnici necessari alle perizie. Dicono dai sette ai dieci giorni. Ma qualcuno sostiene che dieci giorni siano un tempo abbastanza inspiegabile, per avere degli esiti che normalmente si hanno nella metà del tempo. Ma di “congetture”, in questo pezzo, ne metteremo già tante, quindi questa ce la risparmiamo. Una cosa però già si sa. Anzi, due. Le ossa, che sarebbero state trovate in due punti diversi dello stesso ambiente, un appartamento in ristrutturazione all’interno di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica a Roma, appartengono a due corpi. Almeno uno di questi è una donna, conclusione a cui si può arrivare grazie ad una prima, sommaria, analisi del bacino. E secondo indiscrezioni, sarebbero ossa di corpi non ancora adulti. Non ci sarà ancora la conferma definitiva, quindi, ma ce n’è abbastanza per lasciarsi suggestionare dall’ipotesi che sì, quelle ossa potrebbero essere di Emanuela e Mirella. O di una delle due. E questo anche escludendo quello che sembra sia un equivoco delle ultime ore, riguardante Don Pietro Vergari, il sacerdote indagato in passato per la vicenda Orlandi, per essere stato colui che si fece promotore della sepoltura in Sant’Apollinare di Renatino De Pedis, uno dei capi della banda della Magliana. Ai tempi, indagando sul legame fra la criminalità romana e la scomparsa di Emanuela, saltò fuori il suo nome, ma la posizione del sacerdote venne poi archiviata. La figura di Don Vergari, nelle ore immediatamente successive al ritrovamento delle ossa a Villa Giorgina è stata nuovamente rievocata, perché si diceva avesse lavorato proprio alla Nunziatura Apostolica, anche se in un periodo successivo alla scomparsa di Emanuela. Tuttavia, dopo alcune ricerche, sembrerebbe che in realtà il sacerdote abbia prestato la sua opera pastorale presso la Penitenzeria Apostolica, allora guidata dall’arcivescovo francescano Gianfranco Girotti, e non alla Nunziatura. E sarebbe stato proprio lavorando a Regina Coeli che Don Vergari avrebbe conosciuto De Pedis. Chiarito questo aspetto, rimane la domanda iniziale: se fossero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, quelle ossa? Intanto sarebbe interessante capire da quanto tempo si trovavano a Villa Giorgina. Da sempre? Oppure solo da poco? Sono state ritrovate casualmente oppure qualcuno ha voluto che fossero trovate? E nel caso della seconda ipotesi, chi e perché ha voluto farle trovare, proprio ora e proprio in un immobile di proprietà del Vaticano? Prima di tutto va fatta una considerazione: tutti i personaggi di grosso calibro, coinvolti da inchieste e indagini, nella scomparsa di Emanuela Orlandi, sono morti. E’ morto il cardinale Marcinkus, deus ex machina dello Ior. E’ morto, e sappiamo come, anche Roberto Calvi. E’ morto e sepolto, come già detto, anche Renatino De Pedis. E visto che nello storytelling di questa vicenda non ci siamo fatti mancare neppure la mafia, sono morti anche entrambi i dominus mafiosi del tempo, cioè Riina e Provenzano. Chiunque potesse sapere qualcosa, sulla scorta di ciò su cui si è indagato, è già passato a miglior vita. A parte Pippo Calò, il cassiere della mafia, che sta al 41 bis e che vorrebbe incontrare la famiglia Orlandi. Una richiesta fin qui negata dalle Istituzioni. Insomma, chiunque potesse sapere qualcosa o è morto o non è a piede libero. Ma ne siamo certi? Se invece qualcuno che sa e può dimostrare di sapere, calcasse ancora liberamente questa terra? E se magari, questo qualcuno, per motivi da scoprire, avesse fatto sapere a qualcun altro in Vaticano della sua esistenza, chiedendo qualcosa? Visto che abbiamo tirato in ballo la mafia, facciamo un esempio mafioso: quando si chiede il pizzo ad un negoziante, lo si fa all’inizio con le buone, in maniera anche conciliante. Poi, se il commerciante non si piega al racket, si passa alle minacce. E prima di mettere bombe al negozio, si lascia davanti alla saracinesca una bottiglia con dentro della benzina. Intimidazione. E se queste ossa fossero una bottiglia piena di benzina, lasciate su una delle tante porte del Vaticano? Se fossero un’intimidazione? Congetture e suggestioni, che oggi lasciano il tempo che trovano. Ma che magari, fra dieci giorni, avranno una sostanza e soprattutto una prospettiva diversa.

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano). La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso, scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio".

C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero ( e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati.

E c’è la "bandaccia" naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio "l’Accattone" Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di ‘ Renatino’ De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente.

C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande.

Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente.

Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte.

A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’’ Americano’ che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca, scrive Pino Nicotri il 29 giugno 2018 su "Blitz Quotidiano”. Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca alla sirena Pietro. Ammettiamo per un attimo che l’ennesimo asserito colpo di scena del mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non sia la solita panna montata con clamore, ma inesorabilmente sempre destinata a sgonfiarsi. Ammettiamo cioè che davvero, come “rivela” Pietro Orlandi con soli 35 anni di ritardo, ma tacendo anche questa volta la fonte della nuova “notizia”, il Vaticano abbia nascosto la telefonata che ne annunciava l’avvenuto rapimento la sera stessa della scomparsa di Emanuela, cioè del 22 giugno 1983. Vedremo che l’eventuale averla nascosta è stato del tutto ininfluente, ma intanto ci sono comunque da fare varie considerazioni:

 1) – la telefonata in questione, se davvero è stata fatta, è più facile che sia opera depistatrice di chi ha sequestrato ed eliminato Emanuela per i purtroppo usuali motivi da cronaca nera anziché opera dei fantomatici rapitori intenzionati a ricattare papa Wojtyla per motivi politici o malavitosi. I motivi politici si voleva fossero la volontà di ottenere la liberazione del terrorista turco Alì Mehmet Agca, condannato all’ergastolo per avere sparato a Wojtyla nell’81 oppure la volontà ammorbidire l’impegno anticomunista di quel Papa. I motivi malavitosi si vuole consistessero nella volontà di ottenere la restituzione di soldi a dire di alcuni prestati per le varie attività anticomuniste del pontefice polacco, motivi ipotizzati quando ormai era chiaro che la pista “politica”, quale che essa fosse, era una bufala. Motivi TUTTI che comunque, chiacchiere a parte, non sono mai stati dimostrati. Stando a quanto dice Pietro Orlandi, la persona che avrebbe telefonato la sera del 22 giugno 1983 ha chiesto di parlare col papa. Ma come poteva ignorare che il papa anziché in Vaticano era nella natia Polonia la temibile organizzazione che si vuol fare credere abbia rapito Emanuela?  E’ infatti lo stesso Pietro Orlandi il primo a sostenere che, politica o malavitosa, si tratta di comunque un'organizzazione composta da spezzoni di servizi segreti vari, banca vaticana IOR, mafia, malavita romana, ecc.  La ha scritto in un suo libro e lo ha detto a Vanity Fair nel maggio 2011, lo ha infine ripetuto di recente a Micromega.  Un’organizzazione dunque che sicuramente, specie la banca IOR che è del Vaticano e ha la sede DENTRO il Vaticano, sapeva che Wojtyla NON era “in casa” bensì ancora in Polonia, dove si era recato soprattutto per sostenere la lotta anticomunista e antisovietica del sindacato Solidarnosc. Una motivazione, quella del viaggio, talmente politica ed eversiva per il regime comunista polacco, e per l’Unione Sovietica dalla quale la Polonia dipendeva mani e piedi, più che sufficiente per mettere Wojtyla sotto la lente di ingrandimento di vari servizi segreti, non solo italiani, e sapere passo passo dove fosse e cosa stesse facendo. E’ quindi assolutamente impossibile che i “rapitori” e il loro telefonista di questa ennesima “rivelazione” appartenessero alla fantomatica “organizzazione” temibile e tentacolare di cui parla con insistenza l’Orlandi.

 2) – Guarda caso, si tratta di un copione identico a quello messo in piedi l’anno successivo, 1984, da Mario Squillaro, lo zio di Stefania Bini, che dopo avere sequestrato e ucciso la giovane nipote ha sostenuto coi genitori che gli aveva telefonato qualcuno per dire che la ragazza era stata rapita. Anche lei da un gruppo di turchi che volevano una bella cifra per il riscatto.

3) – E sempre guarda caso, si tratta dello stesso depistaggio tentato da Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi, che dopo averla uccisa accecata dalla gelosia si è inventata che era stata rapita.

4) – Ad accompagnare Wojtyla nel viaggio in Polonia, compresa l’andata e il ritorno in aereo, c’era il suo amico polacco Jacek Palkiewicz, che il caso vuole fosse anche mio amico perché viveva in Veneto e lo avevo conosciuto per motivi di lavoro. Come ho scritto anche in libri, Jacek mi ha sempre ESCLUSO che nel viaggio di ritorno Wojtyla avesse avuto motivi di preoccupazione diversi dal temere eventuali complicazioni con le autorità polacche riguardo il decollo per il rientro a Roma: nessuna telefonata clamorosa dal Vaticano o da altrove riguardo “rapimenti” e affini, ma solo gioia per la riuscita del viaggio e la mancanza di pretesti di qualunque tipo da parte dei polacchi.

5) – E’ incredibile che qualunque affermazione snocciolata da Pietro Orlandi venga sempre immediatamente accolta come oro colato. E sì che di bidoni e di “verità” fasulle ne ha avvalorate ormai troppe. Vediamone in dettaglio alcune:

a – le rivelazioni e le promesse di Agca.

b – La pista di Luigi Gastrini alias il falso “007 Lupo Solitario”.

c – La pista del pentito della mafia Vincenzo Calcara.

d – La pista del fotografo romano Marco Fassoni Accetti, diventato famoso per avere “confessato” ai magistrati di avere organizzato lui il rapimento di Emanuela, della quale ha esibito agli Orlandi, che gli hanno creduto, un flauto che sosteneva essere quello della ragazza.

e – Le orge con uccisione finale di Emanuela ipotizzate da don Amorth, il famoso esorcista della Chiesa. Che ha riportato la pista delle orge in un suo libro, pubblicato dopo averne consegnato le bozze a Pietro Orlandi, che non ha avuto nulla di ridire; la stralunata pista delle tomba di Enrico De Pedis con dentro la “soluzione del mistero”, pista della quale era convinta anche la sorella Natalina Orlandi.

f – La pista della “supertestimone” Sabrina Minardi asserita “amante decennale di De Pedis” quando lei stessa ha ammesso che si sono frequentati per appena due anni, per giunta mente lei svolgeva la professione di prostituta d’alto bordo. A definire mitomane Sabrina Minardi, comunque smentita dalle indagini, è stata la sua stessa sorella Cinzia.

g –  Tralasciamo il fatto che De Pedis viene sempre automaticamente definito – a mo’ di riflesso pavloviano – “boss della banda della Magliana” quando invece è stato sempre assolto in tutti i gradi di giudizio perfino dall’accusa di esserne stato un semplice membro o gregario. Tant’è che quando nel febbraio ’90 venne ucciso era in regolare possesso di patente e passaporto. Tralasciamo.

Quello che però colpisce è l’astio verso la sua vedova, Carla di Giovanni, alla quale anche di recente Pietro Orlandi sulla rivista Micromega, ripetendo quando già detto a Vanity Fair 6 anni fa, ha attribuito dichiarazioni gravi per sostenere di fatto una combutta della donna col procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. Le parole riportate non con precisione assoluta da Pietro Orlandi sono estrapolate – e tenute fuori contesto – dall’intercettazione di una telefonata della vedova a don Piero Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare, che all’epoca di quella telefonata aveva ricevuto un avviso di garanzia per poter analizzare l’archivio del suo computer riguardo la faccenda “tomba di De Pedis/scomparsa di Emanuela Orlandi”. Che il telefono di don Vergari fosse sotto controllo era ovvio e ben noto anche ai diretti interessati. Che non per questo hanno rinunciato a sfoghi personali contro l’assurdità dell’inchiesta sulla tomba – inchiesta già condotta e archiviata nel 1997 – e contro il prolungarsi dell’intera inchiesta sul “rapimento” basata sulle farneticazioni autoaccusatorie del fotografo Marco Fassoni Accetti, finite con l’accusa di calunnia e autocalunnia. Da notare che l’infinito tiro a segno su De Pedis e sulla sua tomba ha procurato alla vedova anni certo non di divertimento, ma di dolore intenso.  Un po’ di humana pietas non guasterebbe. Specie da parte di chi si proclama cattolicissimo e nella Santa Sede ci ha lavorato e abitato una vita e tutt’oggi continua ad abitare nelle sue case. La vedova De Pedis in particolare era furiosa, comprensibilmente, perché chiedeva inutilmente ormai da anni al sostituto procuratore Giancarlo Capaldo di controllare il contenuto della bara del marito in modo da porre fine alle chiacchiere e poterne trasferire altrove la salma evitando il sospetto di una traslazione per nascondere chissà quale il contenuto. Ovvio lo sfogo liberatorio quando ha saputo dagli avvocati che Pigantone avrebbe ordinato a breve a Capaldo l’ispezione della bara, come in effetti poi avvenuto.

6) – Strano che Pietro Orlandi prenda per oro colato le “rivelazioni” più strampalate e rifugga invece ostinatamente da altre, per l’esattezza da tutte quelle che possono contraddire la vulgata del “rapimento” e riportare la scomparsa di Emanuela nel purtroppo solito alveo delle scomparse di minorenni. A partire da quanto affermato dallo stesso avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, compresi i suoi sospetti sull’amico “misterioso” della zia Anna Orlandi;

7) – Anche ammesso che la telefonata “rivelata” da Pietro Orlandi pochi giorni fa sia stata fatta e che il Vaticano l’abbia nascosta, di cosa si lamentano Pietro e gli altri fan del “rapimento”? Forse che la pista fatta imboccare alle indagini non è stata proprio quella del rapimento?  La pista del rapimento è stata fatta imboccare grazie ai vari e imprudenti pubblici appelli di Wojtyla, ben otto a partire da quello del 3 luglio, grazie alle insistenze degli stessi Orlandi e grazie all’informativa alquanto sballata dell’allora Sisde fornita al magistrato Margherita Gerunda, che stava indagando su ipotesi più normali e realistiche e che per questo venne sostituita dopo poche settimane.

POST SCRIPTUM. Non è la prima volta che Pietro Orlandi riporta “rivelazioni” altrui evitando però di fare i nomi delle fonti. E’ già avvenuto almeno due volte ai danni di don Vergari per metterlo in cattiva luce.

– Ecco cosa ha dichiarato nel 2012, evitando come sempre di fare i nomi: “Che a Sant’Apollinare ci fossero giri strani e gravitasse un pezzo di malavita romana, non solo De Pedis con cui don Vergari era in confidenza, è purtroppo qualcosa di risaputo. Le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari”. Peccato però che i verbali delle deposizioni testimoniali di suor Dolores, il suo permettere che gli alunni del Da Victoria cantassero nel coro di S. Apollinare e gli atti giudiziari tutti smentiscano in blocco le affermazioni di Orlandi compresa la possibilità che le “rivelazioni” in questione, anche a volere ammettere che siano state davvero fatte, possano essere vere.

– A “Chi l’ha visto?” sempre Pietro Orlandi ha sostenuto che in Vaticano gli avevano detto che nelle stanze sotterranee della basilica di S. Apollinare “avveniva di tutto e di più”, con chiara allusione quanto meno a orge. Peccato che anche le fonti di queste affermazioni, ammesso che siano mai state fatte, siano rimaste anonime…Possiamo fermarci qui. Con una sola annotazione finale: che direbbe Pietro Orlandi se la stampa riportasse come oro colato le malignità che in Vaticano non risparmiano neppure lui e la sua famiglia? A partire dal fatto che coi primi stipendi pagatigli dallo IOR lui si è comprato una Maserati, acquisto ammesso e confermato.

Delitto di Arce, la perizia del Ris conferma: "Serena Mollicone uccisa nella caserma dei carabinieri". I militari hanno analizzato i frammenti di legno recuperati nel corso della nuova autopsia sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne uccisa nel 2001, scrive Clemente Pistilli il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Serena Mollicone è stata uccisa all'interno della caserma dei carabinieri di Arce. Al principale sospetto dei magistrati di Cassino, impegnati a distanza di 17 anni dall'omicidio a far luce sulla morte della ragazza, è arrivata ora la conferma dai carabinieri del Ris. Gli investigatori in camice bianco hanno ultimato la perizia sui frammenti di legno recuperati, nel corso della nuova autopsia effettuata sulla salma della vittima, sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne e si sono convinti che quel materiale provenisse dai locali appunto della caserma. Il 1 giugno 2001 Serena Mollicone, 18enne di Arce, in provincia di Frosinone, uscì di casa per recarsi all'ospedale di Isola Liri e nel primo pomeriggio, rientrata nel suo paese, sparì. Il corpo della giovane studentessa venne trovato due giorni dopo da alcuni volontari della Protezione civile in un boschetto di Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, con un sacchetto di plastica sulla testa, e le mani e i piedi legati. Venne presto indagato un carrozziere di Rocca d'Arce, con cui la diciottenne si sospettò avesse un appuntamento, Carmine Belli, ma l’uomo venne prosciolto in via definitiva ed è ora tra quanti invocano giustizia per Serena. Nel 2008 poi si verificò un altro episodio misterioso, il suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che era tra i militari presenti in caserma il giorno della scomparsa della 18enne. Un dramma che ha portato gli investigatori a intensificare le nuove indagini intanto aperte per cercare di scoprire i colpevoli dell’omicidio. In Procura a Cassino si sono man mano convinti che la giovane sia stata picchiata a morte, dopo un violento litigio, all'interno della caserma dell'Arma di Arce, dove si era recata forse per denunciare strani traffici in paese, che sia stata portata agonizzante nel boschetto di Anitrella e che, scoperto che respirava ancora, sia stata soffocata. Un omicidio a cui avrebbe fatto seguito una serie di depistaggi. Sono stati così indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l'ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, il luogotenente Vincenzo Quatrale per concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, e l'appuntato Francesco Suprano per favoreggiamento. Le indagini dei carabinieri di Frosinone, consegnata anche la perizia dei Ris, appaiono ormai concluse e a breve il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo dovrebbe tirare le somme. Forse l'ora della verità su uno dei peggiori cold case italiani è giunta.

Omicidio Mollicone: tutti gli indizi che portano alla caserma. La perizia dei Ris conferma la tesi investigativa: Serena sarebbe stata uccisa presso la sede dei Carabinieri di Arce, scrive Barbara Massaro il 28 settembre 2018 su "Panorama". Serena Mollicone sarebbe stata uccisa presso la caserma dei Carabinieri di Arce, nel frosinate. Ne sono convinti i Ris (Reparto Investigazioni Scientifiche) dell'Arma che hanno depositato in procura a Cassino gli esiti della perizia eseguita dopo la seconda autopsia sul corpo di Serena Mollicone, 18 anni, trovata senza vita in un boschetto di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena) ad Anitrella, località a pochi chilometri da Arce nel 2001.

Cosa hanno scoperto i Ris. I Ris, su richiesta della procura, hanno analizzato alcune polveri di legno e vernice rilevate sul nastro adesivo con cui la diciottenne è stata legata, mani e piedi, prima di essere abbandonata nel boschetto dove, due giorni dopo, è stata trovata morta. Quelle stesse polveri sarebbero state ritrovate in alcuni ambienti della caserma e quindi quel nastro potrebbe provenire proprio dalla sede dei Carabinieri di Arce esattamente come i frammenti di legno rimasti attaccati al corpo della vittima. Quel legno proverrebbe, infatti, dalla porta della stanza della caserma dove la giovane (che si era presentata per sporgere denuncia) sarebbe stata uccisa. Nel novembre dello scorso anno un altro indizio aveva portato a credere che il luogo dell'omicidio potesse essere proprio la caserma. Le lesioni sul capo della vittima sarebbero, infatti, state compatibili con la frattura rinvenuta proprio sulla porta della caserma di Arce. A stabilirlo, in quel caso, era stata la consulenza medico scientifica firmata dalla Dottoressa Cristina Cattaneo e consegnata al procuratore capo di Cassino Luciano d’Emmanuele che, a 18 anni di distanza dai fatti, cerca di dare un nome all'assassino di Serena Mollicone insieme al sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo. Quel documento unito alla perizia consegnata nella serata del 27 settembre 2018 in Procura potrebbe portare alla conclusione di uno dei più drammatici cold case della storia della cronaca italiana.

I fatti. Era il primo giugno 2001 quando Serena, studentessa diciottenne di Arce, venne vista entrare nella Caserma dei Carabinieri di Via Valle. A quanto pare (così sostiene da sempre suo padre Guglielmo Mollicone) avrebbe voluto denunciare qualcuno per qualcosa. Due giorni dopo quel primo di giugno il suo corpo sarebbe stato trovato senza vita in un boschetto di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena) ad Anitrella, località a pochi chilometri da Arce. Era imbavagliata, legata e la sua testa era avvolta da un sacchetto di plastica. Sul corpo evidenti segni di lesioni, ma nessuna violenza carnale. Dopo 16 anni non è ancora chiaro cosa sia successo in quei due giorni e soprattutto non ha ancora un nome il suo o i suoi assassini. Nel frattempo sei persone sono state iscritte nel registro degli indagati. Il carrozziere Carmine Belli è stato processato e assolto, il brigadiere Santino Tuzi si è ucciso, il cadavere di Serena è stato riesumato e papà Guglielmo Morricone non ha mai smesso di chiedere giustizia per la figlia convinto che Serena da quella caserma di Arce non sia mai uscita uccisa per qualcosa che sapeva. Da sei anni, con l'accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere, sono indagati l'ex comandante dei Carabinieri Franco Mottola, suo figlio Marco e la moglie di Mottola.

La tesi dell'accusa. L'accusa sostiene che Serena quel giorno si sia recata in caserma per denunciare un giro di spaccio di droga che avrebbe coinvolto anche il figlio dell'allora comandante dei Carabinieri, Marco Mottola. La giovane è stata vista entrare dal brigadiere Tuzi che, nel 2008, dichiarerà: "Serena quel giorno è entrata in caserma per fare una denuncia, io ho chiamato l’appartamento del comandante e mi hanno detto di farla salire. Quando ho lasciato il lavoro intorno alle 14.30 Serena non era ancora uscita". In quel periodo di tempo l'aguzzino o gli aguzzini della ragazza l'avrebbero picchiata prendendola a pugni e calci e facendole sbattere il capo sulla porta d'ingresso della stanza. La Mollicone, priva di sensi, ma non ancora morta, sarebbe stata quindi legata e imbavagliata e portata nel boschetto di Fonte Cupa. Dopo una buona quantità di tempo qualcuno sarebbe tornato a verificare lo stato del corpo della ragazza rendendosi conto che era ancora viva e decidendo di metterle la testa all'interno di un sacchetto di plastica per ucciderla soffocandola. Il corpo è stato scoperto due giorni dopo.

Il suicidio Tuzi. Una serie di depistaggi, reticenze e omertà a lungo taciute hanno rischiato di far archiviare il delitto senza che nessuno fosse condannato. Una battuta d'arresto all'intero impianto accusatorio era stata data dal suicidio di Tuzi trovato morto nella sua auto ucciso da un colpo di pistola all'addome sparato dalla pistola d'ordinanza. La figlia di Tuzi, all'indomani della deposizione della perizia medica, rompe il silenzio e oggi al Messaggero dice: "Mio padre è stato ricattato, qualcuno gli ha prospettato ritorsioni contro figli e nipoti. Per questo, per anni, ha taciuto sulla morte di Serena". E poi ha aggiunto: "Quanto emerso dalla consulenza conferma a pieno la tesi sostenuta da anni da Guglielmo Mollicone: che Serena quel giorno si sarebbe recata in caserma. Per quanto concerne mio padre, credo che il suo silenzio, durato sette anni, sia stato il frutto di un senso di protezione nei confronti della famiglia. Qualcuno lo ha ricattato, non ho le prove ma è quello che abbiamo portato all'attenzione della Procura che ha riaperto le indagini sulla sua morte".

La fiducia di Mollicone. Anche Guglielmo Mollicone si è detto fiducioso dai dati emersi dalla consulenza: "A questo punto - commenta l'uomo assistito dall’avvocato Dario De Santis - mi aspetto che si arrivi presto a una svolta per sapere chi ha ucciso mia figlia. La procura di Cassino sta facendo un ottimo lavoro e sono sicuro che stavolta la strada è quella giusta". Per Francesco Germani, l’avvocato che assiste la famiglia Mottola, "Non c’è alcun elemento oggettivo a carico dei miei assistiti. Si è trattato di rilievi tecnici che ci vedono fiduciosi. Del resto, tutti gli accertamenti svolti in precedenza sono stati negativi". Il caso era stato riaperto nel 2016 su istanza della Procura di Cassino che ha chiesto la riesumazione del cadavere affinché fosse trasferito all'istituto di medica legale di Milano dove la Dottoressa Cattaneo l'ha analizzato per più di un anno.  La consulenza era stata disposta per accertare eventuali correlazioni tra la morte di Serena e la sua presenza il primo giugno nella caserma dei carabinieri di Arce. 

Strage di Bologna, la mano dei Servizi segreti: i documenti inediti sull'Espresso. Nuovi elementi rivelano le complicità dello Stato e il ruolo di Licio Gelli nell'attentato che il 2 agosto del 1980 è costato la vita a 85 innocenti. Ve li raccontiamo nel numero in edicola da domenica 29 luglio, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 27 luglio 2018 su "L'Espresso". Il capo della P2, i finanziamenti e il misterioso documento “Bologna”. Le protezioni che i servizi hanno fornito ai terroristi neri coinvolti nella strage e un secondo covo rimasto finora segreto. L'ombra di Gladio sulle sul curriculum criminale del quarto neofascista sotto processo con l'accusa di essere uno degli esecutori. Insomma, sulla bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni di Bologna che ha ucciso 85 innocenti, i misteri sono ancora molti. Conosciamo gli esecutori, ma non i nomi degli ideatori politici. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. A 38 anni dalla strage, L’Espresso in edicola a partire da domenica 29 luglio, pubblicherà un ampio servizio esclusivo sull’attentato: con tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera, una strage di Stato. La mano di alcuni uomini dei servizi fedeli non alla Costituzione ma a Licio Gelli, il fondatore della loggia segreta P2. Prendiamo, per esempio, Valerio Fioravanti, il terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti». C'è poi l'imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini. Al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. Tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio,la famosa rete militare segreta anticomunista, L'Espresso ha recuperato le foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e i fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. Infine il ruolo del Gran Maestro della P2: Licio Gelli, morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale nel filone sui mandanti. E che L'Espresso è in grado di rivelare: tra le sue carte dell’epoca sequestrate a Gelli ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro». Milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari. A chi erano destinati quelle somme indicate nel documento “Bologna”? Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980, è convinto di una cosa: «Mani esterne hanno sempre lavorato contro la verità. Esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».

La strage di Milano, Firenze, Roma, 27 luglio 1993: tre bombe, dieci morti e il dubbio che non sia stata solo mafia. Un anno dopo l'uccisione di Falcone e Borsellino e due mesi dopo la strage di via dei Georgofili, quello del 27 luglio è il momento più buio della Repubblica. E dalle nuove carte emergono molti nuovi dettagli, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2018 su "L'Espresso". Una ragazza bionda e un uomo scendono da una Fiat Uno parcheggiata vicino al Padiglione d’arte contemporanea a Milano. È il 27 luglio del 1993. Manca meno di un’ora a mezzanotte. Dall’automobile da cui si stanno allontanando a piedi esce del fumo. I due non hanno paura per quello che si lasciano alle spalle, ma di una pattuglia di vigili urbani che va loro incontro in via Palestro. Temono di essere scoperti. E così giocano d’anticipo: richiamano l’attenzione di uno dei due vigili, Alessandro Ferrari, a cui danno l’allarme per il pennacchio di fumo. Poi la bionda e il suo compagno si allontanano in fretta, facendo cadere in trappola l’agente della polizia municipale e mandandolo così a morire. Il fumo arriva infatti da una miccia accesa che innesca quasi cento chili di tritolo sistemati sul sedile posteriore della Uno. Che esplode, provocando una strage. Sono cinque i morti. È il primo botto della serata. Sì, perché in quella sera di venticinque anni fa, pochi minuti dopo una notte in cui esplodono altre due bombe, quasi in contemporanea, non solo a Milano ma anche a Roma, in punti diversi: a piazza San Giovanni in Laterano (danneggiando la Basilica e il Palazzo Lateranense) e pochi minuti dopo all’esterno della chiesa di San Giorgio al Velabro. Si pensò anche a un tentativo di golpe. Fu questa almeno la sensazione dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, a capo di un governo tecnico di transizione. Ciampi temeva che stesse per accadere qualcosa di oscuro per la tenuta democratica del Paese. Per Ciampi si poteva concretizzare il pericolo di un colpo di Stato che nasceva dall’eccezionalità di quegli avvenimenti, compresa l’interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nella notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993: un evento che mai prima di allora si era verificato, tanto che l’allora presidente del Consiglio non riuscì a comunicare con i suoi collaboratori o con gli apparati di sicurezza. Un black-out che ancora oggi nessuno ha spiegato. Fu una notte convulsa. Ciampi, parlando poi con i magistrati che hanno indagato sulle stragi, spiegò di «ricordare perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio Supremo di Difesa. Di questa convocazione venne informato anche il Presidente della Repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, ndr). Ricordo che, in un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l’ipotesi dell’attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della Polizia Vincenzo Parisi, escludevano la fondatezza di quella pista avanzando l’ipotesi della matrice mafiosa». Sì, era stata la mafia. I boss di Cosa nostra dell’area corleonese continuavano ad alzare il tiro contro lo Stato, piazzando bombe davanti ai simboli dell’arte, del patrimonio culturale e della Chiesa, nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese. E uccidendo chi si trovava nei paraggi. Le testimonianze raccolte all’epoca dagli investigatori e le indagini avviate anche con il contributo di collaboratori di giustizia, alcuni dei quali si sono autoaccusati di quelle stragi, portano però a considerare l’ipotesi che non sia stata solo la mafia. Che in quegli attacchi di Cosa nostra vi fossero anche elementi esterni all’organizzazione. Uno dei misteri riguarda proprio la donna bionda uscita dall’auto piena di esplosivo in via Palestro, il 27 luglio. Anche i testimoni di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio dello stesso anno) parlano della presenza di una donna bionda; e lo stesso è riferito dai testimoni dell’attentato di via Fauro a Roma, quello contro Maurizio Costanzo (14 maggio). Questa signora bionda all’epoca ha meno di trent’anni e di lei esiste un identikit. Tra i numerosi testimoni di via Palestro ce n’è uno che ricorda molto bene la donna, vestita di scuro, accanto alla pattuglia di vigili. L’ha vista parlare con loro. I collaboratori di giustizia invece non hanno mai confermato il coinvolgimento di donne in queste stragi. L’attacco allo Stato aveva una doppia finalità. La prima era orientare la politica in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, coltivata come una forma di ricatto nei confronti dei partiti a Roma, che avevano tradito le aspettative della Cupola, prima la Dc e poi il Psi. Il quasi analfabeta Leoluca Bagarella si era dato da fare per formare un nuovo partito politico, “Sicilia Libera”, che avrebbe dovuto far eleggere candidati appartenenti a Cosa nostra. Il secondo obiettivo era una dimostrazione di forza attraverso azioni eclatanti che avrebbero avuto risalto internazionale. In un Paese già scosso, sul piano politico e istituzionale, dalle indagini su Tangentopoli, quelle bombe erano un tentativo di destabilizzare ulteriormente le strutture democratiche. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, a conferma del messaggio terroristico che si doveva diffondere con le bombe, ha detto ai pm di essere stato incaricato di imbucare a Roma, subito prima degli attentati del 27 luglio, alcune buste indirizzate al Corriere della Sera e al Messaggero contenenti una lettera anonima, in cui era scritto: «Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno ed in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S. Garantiamo che saranno a centinaia». Restano quindi, anche 25 anni dopo, molte domande. Ci fu un contributo di soggetti esterni a Cosa nostra, ci furono mandanti esterni alla mafia? I clan, attraverso quel programma di azioni criminali dirette a sconvolgere dalle fondamenta l’ordine pubblico, hanno voluto in qualche modo intervenire in un vuoto della politica nazionale per agevolare l’ascesa o la permanenza al potere di soggetti con cui poter interagire in modo proficuo, ristabilendo un rapporto a difesa e protezione degli interessi mafiosi? E quel rapporto era riconducibile a uno scambio che avrebbe dovuto prevedere da una parte un appoggio elettorale e dall’altra qualche intervento abrogativo delle norme contro la criminalità organizzata, come il 41bis per i boss in carcere? Sì, guardando a venticinque anni fa restano ancora tanti gli interrogativi. E tra questi c’è il mistero della mancata strage dello stadio Olimpico a Roma nel gennaio 1994, quando i fratelli Graviano volevano massacrare centinaia di carabinieri impegnati nel servizio d’ordine di una partita di calcio. Il telecomando non funzionò e l’attentato per fortuna fallì. L’episodio può essere letto come l’atto conclusivo di una campagna stragista, che, per le modalità e gli obiettivi avrebbe raggiunto un effetto terroristico-eversivo eccezionale. La decisione di non mettere più bombe dopo quel fallimento era forse una conseguenza dell’evoluzione della politica nazionale? Oppure è legato all’arresto dei fratelli Graviano avvenuto a Milano poche settimane dopo il fallito attentato? Che rapporto c’era tra l’originaria pianificazione di questa strage e il progetto politico, in qualche modo concretamente attuato alla fine del 1993, di dar vita al partito di Cosa nostra, “Sicilia Libera”, con caratteristiche autonomiste e indipendentiste? E perché poi si abbandonò questo progetto per concentrare i voti su vecchie conoscenze, magari transitate verso nuove formazioni politiche come Forza Italia? Il giudice per le indagini preliminari di Firenze che aveva archiviato l’indagine sui mandanti esterni alle stragi in cui erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (riaperta nei mesi scorsi dalla procura) ha scritto: «Le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa nostra agito a seguito di input esterni». Chi diede questi input? E perché? Le sentenze, fondate sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno suggerito una parola chiave: “trattativa”. Questa “trattativa” emerge per la prima volta in una sentenza della corte d’assise di Firenze che ha condannato nel giugno del 1998 i boss, mettendo un punto fermo sull’interpretazione da dare a quella tragica stagione di bombe. I 10 morti e 95 feriti complessivi (e i danni al patrimonio artistico) costituiscono l’altissimo prezzo che il Paese ha dovuto pagare ad una strategia messa in atto dagli “specialisti” di Cosa nostra, ma forse pianificata in ambienti collocati al di sopra del sottoscala dove si riuniva la “cupola” composta da Provenzano, Riina, Bagarella e soci. Certo è che dopo il 1994 la campagna terrorista di Cosa nostra finisce. Una campagna che la mafia aveva portato avanti nel tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale del Paese, come ha detto il pubblico ministero Gabriele Chelazzi nel processo ai responsabili di quegli attentati del ’93. Resta ancora il dubbio sui veri fini delle azioni, sui veri mandanti. Purtroppo, in molti casi le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, le inchieste e i processi hanno chiarito solo in parte i fatti. Un quarto di secolo non è ancora bastato per riempire le caselle ancora vuote e ricostruire la verità che non può essere solo giudiziaria ma anche politica.

Il mistero mai risolto della Falange Armata dietro le bombe del '93. 25 anni fa, con la strage di via dei Georgofili, e gli attentati a Roma e Milano, iniziava la seconda fase terroristica di Cosa Nostra. La storia mai chiarita della sigla oscura che la rivendicava, scrive Federico Marconi il 25 maggio 2018 su "L'Espresso". Sono passati 25 anni da quando duecento chili di esplosivo devastarono il centro di Firenze. Era da poco passata l’una di notte del 27 maggio 1993 quando esplose la bomba posizionata all’interno di un Fiorino bianco parcheggiato in una piccola e stretta stradina chiusa al traffico, via dei Georgofili. L’esplosione costò la vita a cinque persone, 48 rimasero ferite. Crollò la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano furono gravemente danneggiati insieme a decine di opere d’arte. Nei concitati minuti successivi all’esplosione, mentre i soccorritori cercavano di salvare le persone residenti nella via, si pensò che la tragedia fosse dovuta ad una fuga di gas. Ma bastò poco per capire che si trattava di un attentato, simile a quello di due settimane prima nel centro di Roma, a via Fauro, dove un’autobomba era scoppiata al passaggio della macchina di Maurizio Costanzo. «Qui a Firenze vedo gli stessi segni. La deformazione delle lamiere, le condizioni delle pareti, tutto uguale» affermava ai cronisti presenti il direttore della Protezione Civile Elveno Pastorelli. «È terrorismo indiscriminato» tuonavano i procuratori fiorentini Pier Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Poco dopo mezzogiorno la prima rivendicazione con una telefonata alle redazioni Ansa di Firenze e Cagliari: «Qui Falange Armata. Gravissimo errore continuare a negare, confondere e mistificare da parte degli organi investigativi e inquirenti le nostre potenzialità politiche e militari. Eccovene un’altra testimonianza». Oggi sappiamo chi sono i responsabili delle bombe sul continente. Da Totò Riina in poi, tutta la cupola mafiosa è stata condannata come responsabile di quella strategia della tensione che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90. Stava finendo un’epoca, il potere di Cosa Nostra era fiaccato non solo dalle inchieste giudiziarie della procura di Palermo, ma anche dalla fine del mondo della Guerra Fredda e dalla scomparsa dei referenti politici che avevano permesso e protetto l’ascesa criminale della mafia siciliana. E mentre i boss trattavano con pezzi dello Stato, com’è stato appurato dalla sentenza del tribunale di Palermo del 20 aprile, seminavano sangue, paura, terrore, per alzare la posta in gioco. Sono ancora molti i misteri che avvolgono quella drammatica stagione della storia del nostro Paese. E uno di questi riguarda la Falange Armata: una sigla terroristica che ha rivendicato tutte le bombe mafiose del ’92-’93, ma anche omicidi, rapine, attentati in tutto il Paese. Di tutto e di più. Tanto che, contando le sole rivendicazioni, avremmo di fronte una tra le più temibili organizzazioni terroristiche della storia italiana.

25 ANNI DI RIVENDICAZIONI. La prima rivendicazione della Falange Armata è datata 27 ottobre 1990. Alle 12.20 la redazione bolognese dell’Ansa riceve la telefonata di un uomo con un forte accento straniero: intesta alla “Falange Armata Carceraria” la responsabilità dell’omicidio di Umberto Mormile. L’educatore carcerario del carcere di Opera era stato ucciso l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, freddato da sei colpi di pistola sparati da due sicari della ndrangheta. La sua condanna a morte era stata firmata dai boss della potente cosca calabro-lombarda Domenico e Rocco Papalia. Mormile fu ucciso per aver negato un permesso al boss, che all’epoca era solito tenere colloqui con uomini dei servizi segreti. E furono proprio questi a indicare a Papalia la sigla con cui rivendicare l’attentato: «Antonio Papalia, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione “Falange Armata” dell’omicidio Mormile» ha dichiarato il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini il 26 aprile 2015. Dopo la prima telefonata ne seguirono decine e decine. Il 5 novembre 1990, la Falange rivendica l’omicidio a Catania degli industriali Francesco Vecchio e Alessandro Rovetta. Nel corso della chiamata all’Ansa di Torino, il telefonista anonimo fa riferimento anche all’operazione del 10 ottobre a via Monte Nevoso a Milano, in cui furono ritrovate – 11 anni dopo la prima perquisizione – nuove pagine del memoriale e delle lettere di Aldo Moro: «Moretti e Gallinari sanno molto di più e così pure i servizi segreti». All’inizio del 1991 viene rivendicata la strage del Pilastro, a Bologna, in cui persero la vita tre carabinieri. L’attentato fu uno dei tanti per cui furono condannati i membri della banda della Uno bianca e che insanguinarono l’Emilia a cavallo tra anni ’80 e ’90. Vengono minacciati poi nuovi attentati al presidente della Repubblica Francesco Cossiga, al direttore generale degli Istituti di pena Nicolò Amato, al giornalista Giuseppe D’Avanzo, alle redazioni de la Repubblica e l’Espresso. Sono annunciate nuove scottanti rivelazioni sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980: ma non verranno mai diffuse. Il 14 agosto viene rivendicato l’omicidio del giudice Scopelliti, il 6 ottobre quello dell’avvocato Fabrizio Fabrizi a Pescara, il 22 l’uccisione del maresciallo dei vigili urbani di Nuoro Francesco Garau. Il 3 novembre Falange Armata si intesta anche la responsabilità dell’attentato alla villa di Pippo Baudo: ««Il significato politico che abbiamo inteso conferire all’azione condotta ai danni della villa del signor Baudo a Santa Tecla, ritenevamo che almeno lui, uomo di spettacolo, ma anche di politica, non sarebbe dovuto risultare del tutto incomprensibile, così com’è apparso» afferma all’Ansa il solito telefonista anonimo. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Falange Armata fa propri gli attentati dinamitardi presso il commissario di Polizia di Bitonto, in Puglia, presso la sede del Comune di Taranto e una bomba sulle ferrovie salentine. La sigla rivendica poi tutti gli attentati eccellenti del ’92 - l’omicidio di Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, le bombe di Capaci e via D’Amelio - e le stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993. Tra gennaio e dicembre del 1994 viene rivendicato il duplice omicidio vicino Reggio Calabria degli appuntati dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, e altri due attentati a pattuglie di militari che riescono fortunatamente a salvarsi. Aumentano nel tempo le minacce: al neo presidente della Repubblica Scalfaro a quello del Senato Spadolini, al capo della Polizia Parisi e ai giudici Di Pietro e Casson. E poi tanti politici: Mario Segni, Claudio Martelli, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Alessandra Mussolini e Umberto Bossi, definito nelle telefonate «utilissimo buffone [...] pagliaccio finto, ma provvidenziale». Il 20 dicembre del 1994 il segretario del Carroccio riceve anche una lettera minatoria: «Se il governo che tutti noi – tu compreso – abbiamo voluto salterà, la nostra rappresaglia non avrà limiti». Il governo è quello eletto in primavera, con premier Silvio Berlusconi. Le telefonate continuano anche nella seconda metà degli anni ’90, dopo la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sempre minacce e rivendicazioni: come il furto di due Van Gogh e un Cezanne dalla Galleria di Arte Moderna di Roma o il ritrovamento di un’autobomba davanti al Palazzo di Giustizia di Milano nel 1998. O ancora l’omicidio di Massimo D’Antona nel 1999. Con il nuovo millennio le chiamate si diradano fino a terminare: nemmeno una tra il 2003 e il 2014. L’ultima minaccia è del 24 febbraio di quell’anno in una lettera arrivata al carcere milanese di Opera e indirizzata al capo dei capi, Totò Riina: «Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto stai tranquillo, ci pensiamo noi».

LE DUE MAPPE CHE COINCIDONO. Ma chi erano i falangisti? Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma dopo le prime telefonate, seguito dal pm Pietro Saviotti, è stato archiviato, mentre l’unica persona accusata di essere uno dei telefonisti anonimi, l’operatore carcerario Carmelo Scalone, è stato protagonista di una controversa vicenda giudiziaria. Dopo l’arresto del 1993, Scalone fu condannato nel 1999 in primo grado a tre anni di reclusione, prima di essere scagionato da tutte le accuse in Appello e Cassazione: ricevette anche un indennizzo di 35 mila euro dallo Stato per ingiusta detenzione. Calò poi il silenzio sulla Falange Armata. Fino al 2015, quando è stato chiamato a testimoniare al processo sulla trattativa Stato-Mafia Francesco Paolo Fulci. Diplomatico di lunga data, Fulci è stato il capo del Cesis, l’organismo di coordinamento tra il servizio segreto civile e militare, dal maggio 1991 all’aprile 1993. L’ambasciatore era stato fortemente voluto dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti per gestire una fase delicata della vita dei Servizi, travolti dagli scandali dei fondi neri del Sisde e dalla comunicazione dell’esistenza di Gladio. Fulci stesso finì nel mirino della Falange Armata, da cui fu ripetutamente minacciato. Per questo fece condurre alcuni accertamenti: «Chiesi a Davide De Luca (analista del Cesis, ndr) di verificare da dove partivano questi messaggi della Falange Armata» ha dichiarato Fulci di fronte ai giudici di Palermo, «lui venne da me con l’aria preoccupata portando due mappe: da dove partivano le telefonate e dove erano le sedi periferiche del Sismi. Le due mappe erano sovrapponibili». Subito dopo la strage di via Palestro del 27 luglio 1993, Fulci consegnò al comandante generale dei Carabinieri Federici, una lista di quindici ufficiali e sottoufficiali del servizio segreto militare, «per scagionare i servizi da ogni accusa». I quindici nomi erano di alcuni appartenenti alla VII divisione del Sismi, quella incaricata di gestire i rapporti con quella Gladio di cui a inizio degli anni ’90 era stata svelata l’esistenza. La VII divisione era composta da un gruppo di super agenti, gli Ossi (Operatori Speciali Servizio Italiano), addestrati ad operazioni di guerra non ortodossa e all’uso di esplosivi. Per questo, sempre ai giudici di Palermo, Fulci dirà: «Mi sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di “Stay Behind” (nome di Gladio, ndr)» Gladio però era stata smantellata nel 1990, come è possibile che fosse dietro la Falange Armata? «Sarà stato qualche nostalgico», l’opinione dell’ex ambasciatore.

COSA NOSTRA, NDRANGHETA E SERVIZI SEGRETI. La scorsa estate si sono di nuovo accesi i riflettori su questa organizzazione misteriosa grazie alla Procura di Reggio Calabria e all’inchiesta “Ndrangheta stragista”, con la quale sono stati individuati come mandanti degli attentati contro i carabinieri del 1994 i boss calabresi Antonio e Rocco Santo Filippone e il siciliano Giuseppe Graviano. La vicenda era stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale antimafia firmato dal magistrato Gianfranco Donadio. Sono proprio i Graviano, legati alle ndrine tirreniche, a chiedere ai Filippone di partecipare alla strategia stragista voluta da Totò Riina per garantire gli interessi mafiosi in quel periodo di passaggio della vita politica italiana che si sarebbe concluso con le elezioni del 28 marzo 1994. I tre attentati, che costeranno la vita a due carabinieri, furono rivendicati dalla Falange Armata. E nelle pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dai procuratori Federico Cafiero De Raho e Roberto Lombardo, è scritto che dietro alla sigla si celava «un gruppo – o forse più di un gruppo – di soggetti che aveva pianificato, fin dagli albori, in modo attento e meticoloso, una utilizzazione strumentale ai propri fini della sigla terroristica in esame che aveva inventato e dato (anche, ma per nulla esclusivamente) in “sub-appalto” ad entità criminali e mafiose»: «La Falange Armata utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità». Finalità che non erano né economiche, né ideologiche, ma politiche, «espressione di una sordida lotta per il potere». E i soggetti che stavano dietro Falange Armata erano «inseriti in delicati apparati dei gangli statali». Cosa Nostra decise di utilizzare la sigla Falange Armata nell’estate del 1991, durante le riunioni di Enna, in cui si pianificò la strategia del terrore per dare uno scossone allo Stato. Uno dei testimoni, Filippo Malvagna, ricorda: «Furono i corleonesi – ed in particolare Totò Riina – a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati “Falange Armata”». Ma come nel caso dell’omicidio Mormile, anche in questo caso fu un entità esterna a suggerire a Cosa Nostra di utilizzare la Falange Armata per rivendicare le stragi. «L’idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata» scrivono i magistrati reggini «è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato». Le stesse strutture già citate dall’ambasciatore Fulci: «Il loro nucleo era costituito da una frangia del Sismi e segnatamente, da alcuni esponenti del VII reparto [...] che avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli». Lo stesso Gelli che in quegli anni tramava con mafiosi ed estremisti di destra al progetto delle leghe meridionali, sul modello del Carroccio padano, per chiedere l’indipendenza del Sud dal resto del Paese. Mafiosi, ndranghetisti, agenti speciali dei servizi segreti: il mistero ancora avvolge la Falange Armata, l’organizzazione senza appartenenti che rivendicava gli attentati di tutti.

Bologna, quando mettere le bombe era un modo per far politica, scrive Paolo Delgado il 3 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Da Piazza Fontana al massacro della stazione di Bologna, una lunga scia di sangue e di misteri di Stato durata 11 anni. È stata la più sanguinosa e feroce di tutte: 85 vittime, il crimine più orrendo nella storia della Repubblica. Eppure quella di Bologna è stata una strage “fuori stagione”: la si potrebbe definire inattesa, se il termine non suonasse sinistro, e dunque difficilmente comprensibile. La vera stagione delle stragi, quella in cui le bombe esplodevano con frequenza oggi inimmaginabile anche se fortunatamente non tutte mietevano vittime, era iniziata nel 1969 e si era prolungata sino al 1974. Per rendere l’idea di cosa s’intenda basti dire che solo le Sam, Squadre azione Mussolini, attive soprattutto a Milano e nel nord, firmarono in quei cinque anni un’ottantina di attentati esplosivi. Per convenzione si data l’esordio della tremenda “stagione delle stragi” al 12 dicembre 1969, quando alle 16.37 del pomeriggio una bomba esplose nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano. L’attentato uccise subito 13 persone, altre quattro non sopravvissero alle ferite. I feriti furono 83. Una seconda bomba, nella sede milanese della Banca commerciale italiana, in piazza della Scala, non esplose. A Roma, nelle stesse ore, i botti furono tre: una bomba nel sottopassaggio di via Veneto, una di fronte all’Altare della Patria in piazza Venezia e un’altra all’ingresso del Museo del Risorgimento, nella stessa piazza. Nella capitale i feriti furono 16. Le esplosioni si verificarono tutte nell’arco degli stessi 53 minuti. Lo shock fu immenso e il seguito peggiorò le cose: la morte in questura dell’anarchico Pino Pinelli precipitato non si saprà mai come dal balcone della Questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, le false accuse contro gli anarchici, i depistaggi e le reticenze dello Stato, la scoperta del coinvolgimento di un neofascista arruolato e poi fatto fuggire all’estero dai servizi segreti, Guido Giannettini, “l’agente Zeta”, la farsa di un processo spostato da Milano, sede naturale, a Catanzaro nel quale sfilarono uno dopo l’altro gli uomini del potere muti e reticenti. Ma in quel 12 dicembre 1969 la stagione del sangue era iniziata già da mesi, il 25 aprile, con una bomba al padiglione Fiat della fiera di Milano, nessuna vittima, molti feriti. Poi, il 9 agosto, nel pieno dell’esodo estivo, otto ordigni scoppiarono su altrettanti treni. Le bombe del 12 dicembre furono le prime a uccidere, non a esplodere. La cosiddetta “strategia della tensione” avrebbe fatto nei cinque anni successivi 113 vittime in 4.584 attentati. Le stragi propriamente dette falciarono in quegli anni 50 persone. Secondo un luogo comune diffuso quanto infondato la sola strage di cui si conoscono almeno gli esecutori è quella di Bologna, arrivata sei dopo la fine della “strategia della tensione”. È un’idea sbagliata per molti motivi: prima di tutto esistono enormi dubbi, diffusi anche tra i magistrati che si sono occupati di stragi e di neofascismo sulla effettiva colpevolezza dei condannati per quella strage, i militanti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. In secondo luogo, anche limitandosi alla in questo caso molto discutibile verità giudiziaria, i condannati non sarebbero né gli ideatori né gli esecutori materiali del massacro ma solo una sorta di “anello intermedio”. Infine e soprattutto i colpevoli per la strage di piazza Fontana sono stati individuati, i neofascisti Franco feda e Giovanni Ventura, anche se non condannati. Essendo stati già assolti in via definitiva in precedenti processi non potevano infatti essere riprocessati, e in ogni caso ventura è del frattempo deceduto. Piazza Fontana è una strage impunita, non più misteriosa. Ne seguirono parecchie. Il 22 luglio 1970, nel pieno della rivolta di Reggio Calabria, la più lunga rivolta urbana di tutto l’Occidente dal dopoguerra in poi, della quale anche per insipienza della sinistra avevano preso le redini i neofascisti, una esplosione sui binari provocò il deragliamento di un treno a Gioia Tauro: sei morti. Il 31 maggio un’autobomba uccise tre carabinieri a Peteano, in provincia di Gorizia. Reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Il 17 maggio 1973, un anarchico sospetto però di legami con vari servizi segreti qua e là per il mondo e con l’estrema destra, tirò una bomba nel cortile della Questura di Milano nel corso della commemorazione del commissario Luigi Calabresi, ucciso l’anno precedente: quattro morti, 40 feriti. Il 28 maggio 1974 la bomba di piazza della Loggia a Brescia, esplosa nel corso di una manifestazione sindacale antifascista, uccise otto persone. Quest’anno è diventata defiitiva la condanna per gli ordinovisti veneti Carlo maria Maggi. Pochi mesi dopo, il 4 agosto, l’attentato al treno Italicus fece 12 vittime e ne ferì 105. Che queste stragi, come molti altri attentati, rientrino nella stessa cornice è praticamente certo. Si trattava di una strategia di infiltrazione nei gruppi dell’estrema sinistra, di provocazione e di innalzamento costante della tensione con al termine il miraggio del golpe codificata dai teorici della guerra non convenzionale, molti dei quali si erano incontrati nel noto convegno svoltosi nel maggio 1965 all’Hotel Parco dei Princìpi a Roma, organizzato dall’Istituto di studi militari Pollio, appunto sulle strategie di “guerra rivoluzionaria e non convenzionale”. Ma parlare di identica cornice non implica affatto una regia comune o l’esistenza di un’unica centrale. È al contrario probabile che ciascuna strage risponda a logiche, circostanze e anche organizzatori diversi, sia pure nell’ambito dello stesso progetto di massima e degli stessi ambienti politici. Sono peraltro leciti dubbi anche sulla omogenietà tra l’ultimo attentato, quello dell’Italicus, e quelli precedenti. Altrettanto discutibile il coinvolgimento diretto dello Stato. L’idea che a organizzare le stragi fossero i governi o i vertici dei servizi segreti dell’epoca, largamente diffusa negli ambienti di sinistra dell’epoca, è fantapolitica venata di paranoia. Molto più probabilmente tra i servizi segreti e gli ambienti neofascisti sussisteva un rapporto in cui ciascuno dei due soggetti pensava di poter usare e manipolare l’altro. Certamente, nel clima della “guerra non convenzionale”, i neofascisti furono usati in funzione di infiltrati provocatori, ma gli stessi neofascisti pensavano di sfruttare la postazione ai loro fini, tutt’altro che coincidenti con quelli dei servizi stessi. La strage di Bologna cade però in una fase tutta diversa. In pochi anni il mondo e l’Europa erano cambiati: caduti i regimi fascisti in Spagna, Portogallo e Grecia, caduta l’amministrazione Nixon negli Usa, ogni pur tenue rapporto sospettabile si connivenza con l’estrema destra era stato tagliato. Per innalzare la tensione, in un Paese dove ferimenti e omicidi politici erano non per modo di dire all’ordine del giorno, non c’era certo bisogno e neppure ci si trovava di fronte a un’insorgenza sociale o politica “di sinistra” tale da giustificare un ritorno alla strategia della tensione. È vero che alcune bombe erano tornate a esplodere prima di quella tremenda di Bologna nel 1979 ma erano rimaneggiate in modo tale da fare solo rumore. Poche settimane prima della strage un ordigno era stato rinvenuto a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, proprio nel giorno del raduno degli alpini nella stessa piazza Indipendenza. La strage fu evitata perché il timer non funzionò, ma l’artificiere del Movimento popolare rivoluzionario Emanuele Macchi, che firmò l’attentato, ha sempre sostenuto di aver modificato la bomba proprio per non farla esplodere. Dal momento che lo stesso Mpr era responsabile anche dei precedenti attentati a Roma, in ciascuno dei quali gli ordigni erano stati rimaneggiati in modo da renderli di fatto inoffensivi è probabile che Macchi non menta. Senza entrare in particolari, anche il contesto indica la strage di Bologna come sostanzialmente diversa da quelle precedenti e probabilmente da inquadrarsi più nel quadro delle tensioni internazionali, in particolare sullo scenario mediorientale, che in una sanguinosa “coda” della strategia della tensione. Il 23 dicembre 1984 un altro treno, il Rapido 904, fu squassato da un’esplosione. In quella passata poi alla storia come “la strage di natale” perirono 17 persone e i feriti si contarono a centinaia. Non fu una bomba politica e neppure legata a terrorismo internazionale. Quella del dicembre 1984 non fu l’ultima bomba della serie iniziata nel 1969 ma il primo anello di una nuova catena di sangue, le stragi mafiose. Serviva, secondo l’impianto dell’accusa, a distogliere l’attenzione dalle deposizioni dei primi grandi pentiti di mafia ed era stata organizzata, sempre stando alle condanne, da Pippo Calò, il boss di Cosa nostra che viveva a Roma. Ma il mandante, Totò Riina, è stato assolto tre anni fa. Un simile attentato era anomalo per gli usi di Cosa nostra, indicava però un cambio di strategia che si sarebbe dispiegato solo sei anni dopo, con le stragi di Capaci e via D’Amelio e poi con gli attentati dinamitardi di Roma, Firenze e Milano. La strategia della guerra aperta contro lo Stato.

LA VERITÀ SULLA BOMBA. Strage di Bologna, le carte segrete sui palestinesi. I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del "Lodo Moro", scrive Gian Marco Chiocci il 28 Luglio 2017 su "Il Tempo". È giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell’estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell’epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio ‘79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l’apertura di un’inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent’anni. Ma a 37 anni dal mistero dell’esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l’accordo fra i fedayn e l’Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi. Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell’autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all’interno dell’auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell’organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l’Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh. Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all’accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all’arabo residente a Bologna, l’accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l’intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell’arresto a Ortona rappresentava l’inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c’era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l’Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all’accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l’arresto di Saleh, i vertici dell’Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos “lo Sciacallo” e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi – stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall’omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell’ala oltranzista dell’Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell’Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l’invito alla prudenza dell’ala «moderata» e più violenta e reclamò un’azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l’Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall’allora responsabile dell’informazione Abu Sharif («io personalmente siglai l’accordo con l’Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beirut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp (...) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell’Italia all’impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l’ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell’anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l’idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado – così riportano le note coperte dal sigillo del segreto– di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l’attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all’epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut. Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l’allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l’imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l’Olp di Araf. Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l’ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L’Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E’ l’inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel ‘73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna. Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c’è più feeling.Ogni canale viene interrotto. E’ il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d’aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E’ stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent’anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all’indomani dello scoppio nelal sala d’aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l’estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi. E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell’Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l’avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come anica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beiurut un leader dell’Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che noi loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto. Mettetela come vi pare ma l’escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece – all’epoca - diventa l’unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l’Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi (e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell’ingiustificata presenza a Bologna del gruppio Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell’Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l’inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l’esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Kram, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell’inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015. Oggi gli unici che si ostinano a negare l’importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri necessari. D’ora in poi, chi non agisce, è complice.

Libri. “I segreti di Bologna”: perché sulla strage la verità è ancora lontana, scrive il 2 agosto 2018 Francesco Filipazzi su Barbadillo. In occasione del 2 agosto, ogni anno vengono riaperte vecchie ferite e proposte nuove letture di quella che è stata la strage più grave del dopoguerra italiano, la Strage di Bologna. La verità giudiziaria, fra depistaggi, silenzi e manomissioni, è notevolmente carente e nel corso degli anni la sentenza finale, che condanna i terroristi neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, è stata messa più volte in discussione, sotto molti aspetti. Un paio d’anni fa fece invece scalpore un libro, scritto dal magistrato in pensione, Rosario Priore, insieme a Valerio Cutonilli, dal titolo “I segreti di Bologna”. Il filo conduttore del volume, ampiamente contestato dall’associazione dei Famigliari delle Vittime e da molta parte della stampa, tanto che qualcuno arrivò ad ipotizzare una denuncia per il reato di depistaggio, è legato all’ipotesi della “pista palestinese”. Questo filone di indagine non è stato molto battuto dalla magistratura bolognese, ma al contrario rinverdito negli anni da inchieste parlamentari, da Francesco Cossiga, ai tempi presidente del Consiglio e dagli interrogatori del terrorista Carlos, legato al gruppo palestinese Fplp e ai servizi segreti della Germania est. Il volume in sé è molto interessante e ha il pregio di non proporre una soluzione incontestabile al mistero di Bologna. Anzi, riguardo all’esplosione del 2 agosto, vengono valutate tutte le ipotesi ma non viene mai sentenziato che la strage è necessariamente di matrice palestinese. Semplicemente viene presentata una serie di fatti, verificati, che hanno preceduto l’attentato. Ciò che del libro appare estremamente interessante, a parere nostro, è in realtà tutta la ricostruzione dei rapporti intercorsi negli anni ’70 fra servizi italiani, gruppi palestinesi, mondo arabo, Libia, Brigate Rosse e altri gruppi della sinistra extraparlamentare. In sostanza gli autori spiegano in modo piuttosto dettagliato, avvalendosi di informative dei servizi e documenti giudiziari, la ragnatela di rapporti e contatti che hanno animato alcuni capitoli fra i più importanti della Guerra Fredda. Una guerra in gran parte segreta, di cui ancora oggi non sappiamo tutto. La narrazione dei fatti parte dal caso dei “missili di Ortona”. La notte fra il 7 e l’8 novembre 1979 dei militanti di Autonomia Operaia vengono fermati dalle Forze dell’Ordine italiane mentre trasportano dei missili Strela, di fabbricazione sovietica. La situazione è poco chiara ed iniziano le indagini, che portano all’arresto di un militante palestinese, a Bologna. Quella che sembrerebbe una normale azione di polizia diventa però una crisi internazionale. I missili infatti sono del Fplp, un gruppo piuttosto importante nel terrorismo internazionale legato alla causa palestinese, che infatti nei mesi successivi ne rivendica la proprietà e ne chiede la restituzione, in base agli accordi presi fra l’organizzazione e l’Italia. Ma quali accordi? Qui esplode il bubbone. L’atlantista Italia, per evitare attentati e ritorsioni, avrebbe infatti intrattenuto rapporti e preso accordi con i terroristi palestinesi (all’epoca peraltro non integralisti islamici ma di ispirazione piuttosto socialista e marxista) per far sì che questi potessero transitare in Italia senza problemi, trasportando anche armi e munizioni. L’accordo è noto con il nome di Lodo Moro. Nel libro vengono quindi ricostruiti tutti i retroscena, presentati attori e circostanze dello stesso. L’affaire Ortona dunque sarebbe stata una rottura dell’accordo stesso da parte dell’Italia, per volere di Cossiga. Il Fplp iniziò quindi a minacciare ritorsioni. In questo clima di tensione, con i servizi in allerta per il pericolo di un attentato dinamitardo, arriva il 2 agosto con relativa strage. Certo, la strage per ipotesi potrebbe essere attribuita senza troppi problemi al Fplp, o al massimo al gruppo del terrorista Carlos, noto bombarolo legato sia al Fplp che ai servizi della Germania Est. Il libro però non manca di mettere in dubbio questa ricostruzione sotto il profilo della volontarietà dell’azione. L’esplosione sarebbe da attribuire ad un passaggio di armi destinate ai gruppi terroristici che ruotano attorno all’Olp, ma un errore umano avrebbe provocato la detonazione. Questa pare di capire, è la versione più accreditata secondo gli autori, i quali però, come già detto, non danno una risposta definitiva. In generale il volume è un tentativo di spiegare le dinamiche, talvolta perverse, che hanno mosso la politica internazionale dell’Italia negli anni ’70. Una politica fatta talvolta di doppiezze ed equilibrismi, che se studiata in modo corretto aiuta a capire anche gli sviluppi successivi della geopolitica mediterranea. Riguardo la strage, certamente vengono aggiunti elementi interessanti al quadro globale nel quale avvenne, ma la ricerca della verità completa è ancora piuttosto lunga ed ardua. Va inoltre sottolineato che la “pista palestinese” proprio di recente è stata esclusa dal nuovo capitolo processuale aperto di recente, riguardante il ruolo di Gilberto Cavallini.

Strage di Bologna, ecco (tutte) le fake news dell’Espresso, scrive Massimiliano Mazzanti lunedì 30 luglio 2018 su "Il Secolo D’Italia". Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo: Caro direttore, purtroppo, un quotidiano non gode dello stesso statuto comunicativo di una trasmissione satirica televisiva e, per tanto, non è lecito in alcun modo lasciarsi andare al turpiloquio che, nel caso delle “rivelazioni” sui rapporti Gelli-Servizi deviati-Nar-Cavallini dell’Espresso di domenica sarebbe l’unico linguaggio adatto per ribattere adeguatamente alle fake news propalate ai lettori di quel giornale. Tre, sostanzialmente, le tesi lanciate dal settimanale e riprese – inopinatamente senza commenti o analisi – da diversi quotidiani, tra i quali quelli con la cronaca di Bologna: Cavallini era in possesso di un “pass” speciale per accedere agli arsenali segreti di “Gladio”; i “servizi segreti” aiutarono Valerio Fioravanti ad accedere al corso Auc dell’Esercito; i “servizi” aiutarono in ogni modo i Nar, occultando la matrice fascista della strage di Bologna.

Il “pass” di Cavallini. Dopo l’arresto, nel corso della perquisizione, la Polizia ritrovò a Cavallini, tra una miriade di altre cose, una banconota strappata da mille lire e ne repertò il ritrovamento. Per anni quel pezzo di carta non ha significato nulla, mentre oggi, su segnalazione dell’Associazione familiari delle vittime, quel mezzo foglietto potrebbe essere l’indizio che collega l’imputato nel nuovo processo per la bomba alla stazione niente meno che a “Gladio”. Infatti, tra la vasta documentazione giudiziaria accumulata sulla struttura segreta della Nato, ci sarebbero anche parecchie banconote spezzate da mille lire, la cui funzione sarebbe stata quella di certificare l’appartenenza alla “rete” del soggetto che, presentandosi a un arsenale segreto con una metà del biglietto di banca, sarebbe stato identificato tramite la perfetta coincidenza di quella stessa metà con l’altra conservata dai custodi delle armi. Ora, non solo non è certo che gli “armieri” di “Gladio” utilizzassero proprio questo sistema, ma anche quando così fosse stato, nel caso di Cavallini, due circostanze non tornano proprio. In primo luogo, negli anni del terrorismo, la banconota da mille lire era quella con riprodotto il profilo di Giuseppe Verdi e contraddistinta da una sequenza alfa-numerica di tre lettere e sei numeri; ora a Cavallini è stata trovata una banconota con le due cifre finali “63” e, pare, tra le tante che farebbero parte della documentazione “Gladio” ce ne sarebbe anche una con le due cifre finali “63”; curiosamente, però, gli autori dello “scoop” non citano le lettere della seria che sole potrebbero associare la banconota di Cavallini alla serie eventuale di “Gladio”. Non bisogna essere Sherlock Holmes per capire che, se di una cifra di 6 numeri, si prende in considerazione quella formata dagli ultimi due, si riducono a 99 le possibilità di trovare una coincidenza ed è facile che, confrontando una banconota (quella di Cavallini) con tante o tantissime (quelle di “Gladio”) si trovi anche il fatidico “63”. In secondo luogo, proprio quella banconota – e anche l’avventurosa interpretazione che ne hanno dato le parti civili – è da quasi due anni nella disponibilità dei pubblici ministeri che hanno rinviato a giudizio Cavallini, i quali, però, non solo non l’hanno ritenuta utile per il processo in corso, ma la scartarono come prova nelle indagini preliminari del secondo troncone delle nuove investigazioni per la strage – quelle così dette “sui mandanti” -, al termine delle quali chiesero appunto l’archiviazione (non ottenuta perché la Procura generale ha deciso di avocare questa seconda inchiesta). Forse, in questa decisione dei pm di Bologna ha avuto non poco peso un particolare evidentemente sfuggito ai grandi giornalisti de “L’Espresso”: le mezze-banconote repertate nelle inchieste su “Gladio” – inchieste, detto per inciso, che non hanno portato alla luce alcunché di illegale commesso da questa struttura Nato – sono appunto, come si diceva, quelle con Verdi; mentre a Cavallini fu trovato un mezzo biglietto della serie dedicata a Marco Polo ed entrato in circolazione nel 1982. Insomma, per quanto è dato conoscere, la possibilità di collegare Cavallini a “Gladio” sulla base di quella banconota è pari a zero.

Fioravanti ufficiale grazie ai “servizi segreti”. L’altro mirabile “scoop” dell’Espresso è costituito dal fatto che Fioravanti, nel 1977, fu ammesso, durante il servizio di Leva, al Corso Allievi ufficiali, non ostante i reati di cui si sarebbe macchiato prima di partire per il servizio militare. Ora, “Giusva” partì per la Scuola di Cesano nell’aprile del ’77, a 19 anni e, per quanto avesse qualche denuncia alle spalle, non era gravato da alcun precedente passato in giudicato, mentre era pur sempre l’ex-attore di successo di un noto sceneggiato televisivo. È tanto difficile pensare che qualcuno – un maresciallo “fan” dei <Benvenuti>, un ufficiale “amico di famiglia” e non necessariamente i “servizi segreti” – abbia “spinto” un po’ la richiesta del ragazzo di fare la Leva in una condizione migliore rispetto a quella ordinaria? Per altro, a volerla ragionare tutta, questa vicenda, andrebbe rilevato un altro particolare, che balza agli occhi, leggendo lo “scoop” de “L’Espresso”, quando su questa materia viene richiamato il sodalizio di Fioravanti e Alessandro Alibrandi. Nel 1977 la Sinistra parlamentare ed eversiva – con un particolare ardore da parte di Lotta continua – sollevò una interminabile e vastissima polemica contro Antonio Alibrandi, padre di Alessandro e magistrato in quel di Roma, per il così detto “Processo degli 89”, coi quali il giudice tentò di mettere un freno a un tentativo di inquinamento delle Forze armate da parte dei movimenti eversivi “rossi”. Ad Alibrandi padre fu riservato – da parte di Lotta continua e non solo, anche da parte del Pci – esattamente lo stesso trattamento usato con Luigi Calabresi e che portò, come si ricorderà, all’assassinio del commissario di Polizia per mano degli stessi capi di Lc. Ciò non solo può spiegare, in relazione ai Nar, almeno parte dell’involuzione radicale del figlio Alessandro – pur sempre un ragazzo che vede il padre aggredito sguaiatamente dal “sistema” di cui faceva parte e che avrebbe dovuto tutelarlo -; ma, in relazione ai fatto oggi contestati a Fioravanti, il “Processo agli 89” testimonia semmai del clima di pesante timore di essere infiltrato da forze ostili – queste sì, innegabilmente, finanziate e addestrate da una potenza straniera, l’Urss, dalle Br al Pci, come ha dimostrato Valerio Riva – in cui operava l’Esercito. E che in questo “clima” si soprassedesse sui “nei” dei ragazzi di destra arruolati nella Leva è a dir poco scontato e tutt’altro che significativo.

L’asse Servizi deviati-Nar. Infine, a pochi giorni dalla celebrazione del 2 agosto, per quanto scomodo risulti, bisogna rimarcare ancora una volta quanto sia falsa e stucchevole questa vera e propria leggenda dei “servizi deviati” che aiutarono i Nar a occultare le loro responsabilità sulla strage di Bologna. A poche ore dallo scoppio della bomba, esattamente alle 21.30 del 2 agosto, quando ancora inquirenti e investigatori – cioè: forze di polizia e magistrati – non erano neanche sicuri che si fosse trattato di un attentato, il prefetto Italo Ferrante diramò una richiesta di investigazioni in tutta Italia a carico di qualsiasi estremista di destra. Alle 11 del giorno dopo, con un secondo telegramma, lo stesso Ferrante precisò meglio i confini degli accertamenti da fare, citando anche i nomi di Mario Tuti, Luciano Franci e Piero Malentacchi. Ne giorni successivi – non ostante polizia e magistrati brancolassero sostanzialmente nel buio – la “pista nera” prese sempre più corpo: come, se non proprio in base alle “veline” dei servizi segreti, gli unici “titolati” a formulare accuse e ipotesi senza doversi curare troppo delle formalità e degli indizi? Fu questo il depistaggio? Semmai, anche se nessuno sembra volersene ricordare, i “servizi” che cercarono di indirizzare altrove le indagini non furono quelli “deviati” e “nostrani”, bensì quelli francesi, tedeschi, americani e di “mezza Europa” che, come scrissero all’epoca i giornali, si riunirono a Bologna per indagare congiuntamente, sollevando l’irritazione degli inquirenti bolognesi e degli “spioni” italiani. I “servizi”, “deviati” o meno, piaccia o no a Paolo Bolognesi, in quei primi giorni di indagine fecero senz’altro sopra a tutto e solo due cose: nascosero la presenza di Thomas Kram a Bologna la notte tra l’1 e il 2 agosto e intervennero evidentemente sulle redazioni giornalistiche il 5 agosto affinché non si desse alcuna importanza al comunicato dettato all’Ansa – e pubblicato solo dal Giornale d’Italia -, con cui il “Fronte popolare per la Liberazione della Palestina” ammetteva le proprie responsabilità. Curioso, no? I “servizi deviati” ebbero la possibilità – negli istanti fatidici dell’immediato dopo-attentato – di segnalare la presenza a Bologna di un noto terrorista straniero e, qualche giorno dopo, di indicare per loro stessa ammissione i responsabili della strage e, al contrario, per “proteggere” i Nar, indirizzarono le indagini sul “terrorismo nero”. Evidentemente, nella redazione de L’Espresso e pur troppo non solo lì, lo spazio per le comiche non è ancora finito.

STRAGE DI BOLOGNA: I DEPISTAGGI E L’ONESTÀ INTELLETTUALE. Scrive Dimitri Buffa l'1 agosto 2018 su L’Opinione. Prepariamoci, da domani per un’intera giornata si tornerà a parlare di un terribile episodio di 38 anni prima, la strage di Bologna. E si tornerà a parlare dei depistaggi, dei mandanti politici, della Loggia P2. Parole che viaggiano da anni senza alcuna onestà intellettuale. E senza alcuna logica che non sia quella ideologica. Nella città felsinea, inoltre, si prevedono le solite sceneggiate fatte di manifestazioni condite con fischi alle autorità politiche e con declamazioni a effetto. Tutto si vedrà e sentirà, come da 38 anni a questa parte, tranne un qualcuno che – a mo’ di imitatore di quel bambino che esclamò: “il Re è nudo” – si erga e dichiari, una volta per tutte, che di quella strage, al di là di una sentenza passata in giudicato che consegna alla storia tre colpevoli di repertorio, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e l’allora minorenne Luigi Ciavardini (più un quarto in dirittura d’arrivo, Gilberto Cavallini, protagonista suo malgrado di un ennesimo processo fotocopia fuori tempo massimo), noi non sappiamo nulla. Anzi, non vogliamo saperlo. E che i depistaggi ci furono, eccome se si furono, sebbene tutti ai danni di coloro che poi sarebbero stati condannati, ossia lo stato maggiore degli ex Nar, è cosa certa. Ma le vittime furono proprio quei “ragazzini” – all’epoca – pieni di rabbia esistenziale e di desiderio di vendicarsi contro tutto e tutti e quindi facili a essere incastrati fin da subito nelle manovre di depistaggio del Sismi della P2, come a sinistra amano tuttora chiamarlo. E a parte la storia arcinota del finto ritrovamento, il 13 gennaio del 1981, sul treno Taranto-Milano di armi ed esplosivo analogo a quello usato a Bologna, ci furono anche due vere e proprie esecuzioni ai danni di esponenti dell’estrema destra (più un tragico caso di scambio di persona in un ulteriore episodio) che nel piano di depistaggio ordito dal Sismi – preoccupatissimo che venisse fuori il cosiddetto Lodo Moro a favore dei terroristi palestinesi e arabi in Italia o le manovre di Gheddafi nel Mediterraneo – dovevano da morti essere incolpati della strage. Il primo fatto risale al 6 gennaio del 1981. Alcuni uomini della Digos stanno appostati vicino all’abitazione dell’ex militante Nar, Pierluigi Bragaglia – a via Vallombrosa, a Roma in zona Cortina d’Ampezzo – che possiede una Renault 5 rossa. Poche ore prima era stato ucciso Luca Pierucci, militante di quello stesso gruppo armato, perché considerato un delatore. Arriva una Renault 5 dello stesso modello e colore di quella di Bragaglia – oggi rifugiato riconosciuto come tale in Brasile proprio come l’ex leader dei proletari armati per il comunismo Cesare Battisti – gli uomini della Digos aprono il fuoco ma uccidono la ventottenne Laura Rendina che stava sul sedile posteriore. In macchina c’erano due coppie appena tornate dal ristorante. Nessuna traccia di Bragaglia. La caccia ai Nar – con ogni mezzo e con ogni modalità – era cominciata ufficialmente all’inizio di settembre del 1980 quando vennero spiccati i mandati di cattura ai danni di tutti loro proprio per la strage di Bologna. La manovra orchestrata dal depistaggio del Sismi era di far uccidere tutti quelli possibili per poi incolparli da morti. Manovra che se non era riuscita con Bragaglia, e a rimetterci la vita fu una povera donna innocente, andò in qualche maniera “meglio” con Pierluigi Pagliai e con Giorgio Vale. Pagliai, localizzato in Bolivia dal Sismi il 5 ottobre 1982, era un militante neofascista della vecchia guardia. Riparato in Sudamerica come tanti suoi camerati. Cinque giorni dopo viene ucciso da una calibro 22 con le mani alzate davanti alla chiesa “Nuestra Señora de Fátima” di Santa Cruz de la Sierra. Tornerà cadavere in Italia sullo stesso Dc9 dell’Alitalia che aveva portato il commando. Il 5 maggio di quello stesso terribile anno, il 1982, Giorgio Vale, un ventenne di Terza posizione, veniva crivellato di colpi a Roma nella casa “covo” di via Decio Mure 43 al Quadraro. Naturalmente alla stampa parlarono prima di “suicidio” e poi di conflitto a fuoco, ma ben presto venne fuori che Vale non aveva sparato neanche un colpo mentre chi aveva fatto irruzione ne aveva esplosi quasi un centinaio, uno solo dei quali mortale, alla tempia dello stesso giovane terrorista. La strage che “doveva essere fascista” per ordine dei servizi segreti militari che dovevano coprire il Lodo Moro e i patti coi gruppi armati terroristi palestinesi in Italia (che qualche giorno dopo l’esecuzione di Pagliai, il 9 ottobre 1982, avrebbero ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, davanti alla Sinagoga di Roma) era stata certamente depistata. Ma le vittime del depistaggio erano stati proprio i militanti della destra eversiva.

Strage di Bologna, i giudici escludono Carlos dai testi: la “pista palestinese” resta fuori dal processo a Cavallini. Secondo la Corte d'Assise, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 aprile 2018. Niente “pista palestinese” nell’ultimo processo sulla strage di Bologna. Lo hanno deciso i giudici della corte d’Assise del capoluogo emiliano, escludendo i testimoni indicati dalla difesa di Gilberto Cavallini, l’ex Nar accusato a 38 anni di distanza di concorso nella strage del 2 agosto 1980. Per sostenere l’ipotesi alternativa della verità giudiziaria, i legali dell’ex estremista nero volevano ascoltare alcuni testimoni: tra tutti anche Ilich Ramirez Sanchez alias ‘Carlos‘, il terrorista detenuto in Francia. Secondo la Corte, l’indagine bis archiviata nel 2015 è stata esaustiva e non ha trascurato nulla. No anche alla deposizione dell’ex senatore Carlo Giovanardi. Ammessi invece Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, le tre persone condannate in via definitiva che tutte le parti hanno chiesto di ascoltare. L’ipotesi dell’accusa – il pool di pm è coordinato dal procuratore capo Giuseppe Amato – è che Cavallini abbia partecipato alla preparazione della strage, fornendo ai condannati supporto e covi in Veneto. L’ex Nar, oggi sessantacinquenne, sconta il massimo della pena per alcuni omicidi politici, tra cui quello del giudice Mario Amato, poche settimane prima della strage di Bologna. Fu l’ultimo della banda di terroristi a essere catturato, a Milano, nel settembre 1983 e fu condannato per banda armata nello stesso processo che portò all’ergastolo Mambro e Fioravanti, mentre Ciavardini, minorenne nel 1980, ebbe una condanna a 30 anni. La rilettura delle migliaia di pagine di atti processuali definisce secondo l’accusa un ruolo più preciso di Cavallini nella preparazione della bomba nella sala d’aspetto di seconda classe che devastò un’ala dello scalo bolognese. Al processo deporrà anche a Carlo Maria Maggi, ex leader di Ordine Nuovo, mentre non è stat ammessa la deposizione di Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova indicato dalle parti civili. Non è stata ammessa neanche la testimonianza dei feriti o dei parenti delle vittime, perché, in sostanza, l’oggetto delle loro testimonianze è agli atti. Intanto prosegue il percorso dell’inchiesta della Procura generale sui mandanti dopo l’avocazione del fascicolo con l’avvio di una rogatoria in Svizzera. per verificare gli eventuali movimenti per diversi milioni di dollari che, prima dell’eccidio, sarebbero partiti da un conto bancario elvetico aperto riconducibile al maestro venerabile della Loggia P2 Licio Gelli.

Chi ha compiuto la strage di Bologna? Scontro in Aula. Frassinetti (FdI) nega la matrice neofascista: il centrosinistra insorge, ma tanti studiosi seguono piste alternative, scrive il 2 agosto 2018 "In Terris". La Camera dei Deputati si è trasformata stamattina in qualcosa di simile a un saloon del far west. Ad accendere la miccia dello scontro, dopo il minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Bologna, l'intervento della deputata Paola Frassinetti (FdI), la quale si è fatta interprete di un sentimento diffuso presso molti storici, giornalisti e gente comune, ossia che la matrice neofascista dell'attentato sia per nulla scontata, nonostante le sentenze passate in giudicato. Secondo l'onorevole, “la verità non s’è ancora affermata. I veri colpevoli non sono stati ancora condannati. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che i giudici a Bologna sono sempre stati prigionieri di logiche idelogiche-giudiziarie con lo scopo non di ricercare la verità ma di riuscire, a tutti i costi, ad arrivare alla conclusione che la matrice fosse nera per ragione di Stato”. E ancora ha proseguito la deputata di FdI: "Bisognerebbe avere lo stesso coraggio del presidente Cossiga quando nel 1991 ebbe l'onestà di ammettere che si era sbagliato e che la strage non era addebitabile ad ambienti di estrema destra chiedendo anche scusa".

I tumulti in Aula. Dai banchi di Pd e Leu le parole sono apparse come un'eresia. Fin da subito molti deputati hanno reagito con urla e strepiti. Ha preso la parola Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd e oggi deputato Leu, il quale ha ricordato che le stragi non riuscirono a privare l'Italia della democrazia. “Attorno a noi c’erano solo bombe – ha concluso tra gli applausi del centrosinistra – ma quegli attentati non riuscirono a portarci dove volevano”. L'intervento di Bersani ha però accentuato lo scontro. Giovanni Donzelli (FdI) ha fatto un accorato discorso rivolto al deputato di Leu. “Se qualcuno pensa che c’è una forza democraticamente eletta che ha causato le stragi deve dirlo, sarebbe come se io accusassi la forza politica di Bersani di aver rapito Moro”, ha attaccato Donzelli, scatenando ulteriori polemiche. Sulla vicenda, intervistato dall'Ansa, ha detto la sua anche Paolo Bolognesi, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime della Strage di Bologna: "La loro fortuna è di essere deputati, perché altrimenti sarebbero denunciati per depistaggio. L'immunità di parlamentari li salva dall'accusa".

I dubbi sulla matrice neofascista. Il tema della matrice della strage di Bologna tiene banco da trentotto anni, quanti sono passati dall'esplosione alla stazione. Nel corso del tempo si è diffusa l'idea che esista su quell'evento una verità storica diversa da quella processuale, anche da persone di sinistra. Tra queste Rossana Rossanda, cofondatrice de Il Manifesto, che in un'intervista del 2008 al Corriere della Sera affermò: "Ci sono molti conti che non tornano", disse, chiedendosi quale – a differenza di quella di Piazza Fontana dove "il quadro neofascista è plausibile" - sia la logica politica della strage. Una pista seguita da storici e giuristi è quella palestinese, cui ha accennato anche la Frassinetti nel suo intervento di oggi alla Camera sottolineando che "il nuovo processo iniziato a Bologna in Corte di Assise a marzo è un'altra occasione perduta" perché "invece di approfondire la pista che porta a verificare l'ipotesi dell'esistenza di una ritorsione del terrorismo palestinese...". Ne parlò un anno fa in un'intervista ad In Terris l'avvocato romano Valerio Cutonilli, che scrisse insieme al giudice Rosario Priore Strage all’Italiana (ed. Trecento) e I segreti di Bologna (ed. Chiarelettere).

2 agosto, l’alfabeto della strage di Bologna. Angela e Zangheri, il bus, Cavallini, l’orologio e i misteri: non basta un vocabolario per l’orrore e i segreti, scrive Gianluca Rotondi il 2 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera".

Angela Fresu. La vittima più giovane del massacro. Aveva appena tre anni quel 2 Agosto 1980. Era con la madre Maria, 24 anni, emigrata dalla provincia di Sassari e impiegata in una fabbrica di confezioni a Empoli. Stava andando con due amiche e la figlioletta in vacanza al Lago di Garda. Erano insieme nella sala d’aspetto della stazione quando la deflagrazione le spazzò via. Si salvò solo una delle amiche. Al nome di Maria Fresu è legata un’anomalia che ha alimentato teorie, complotti e sospetti. Del corpo della ventiquattrenne non fu trovata traccia, se non, a distanza di tempo, un lembo di pelle. Come se si fosse disintegrata, ipotesi ritenuta assai improbabile da alcuni esperti.

Bene Carmelo. Le parole dell’indimenticato attore e drammaturgo risuonarono dalla torre Asinelli la sera del 31 agosto del 1981, nel primo anniversario della strage, quando davanti a migliaia di bolognesi declamò alcune letture della Divina Commedia. Dedicò quell’interpretazione struggente non alle vittime del massacro, ma ai tantissimi feriti che riuscirono a sopravvivere. L’evento fu accompagnato da polemiche e divisioni, anche in Rai, che ne impedirono la trasmissione. L’amministrazione comunale volle invece fortemente rispondere al terrorismo con la cultura.

Cavallini. L’ultimo dei Nar ad arrendersi e a finire a processo, 38 anni dopo l’attentato, con l’accusa di aver dato supporto logistico a Mambro e Fioravanti per commettere l’eccidio. Secondo la Procura fornì covi e mezzi in Veneto, lui 65 anni, sepolto dagli ergastoli ma in semilibertà, sarà interrogato dopo l’estate.

Desecretazione. Insieme ai mandanti del massacro, resta uno dei nodi che hanno segnato questi 38 anni. Nonostante promesse e impegni dei governi, di qualsiasi colore, non si è mai arrivati alla compiuta desecretazione degli atti custoditi negli archivi di Stato. Nemmeno la direttiva Renzi ha scalfito il muro eretto in questi anni, con archivi solo parzialmente aperti e molti altri rimasti inaccessibili insieme ai tanti segreti sulla stagione dell’eversione e sul grumo di poteri che anche negli apparati dello Stato hanno depistato o addirittura favorito le stragi.

Esplosivo. Quello nascosto in una valigetta e usato per compiere la strage è ancora oggi oggetto di analisi. Secondo gli atti giudiziari dei processi celebrati in questi anni, il 2 Agosto ‘80 furono usati 23 chili di esplosivo, circa 5 di una miscela di tritolo e T4 e 18 di nitroglicerina a uso civile. Nel processo in corso contro Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage, il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni ha disposto una nuova perizia sull’esplosivo per via dei dubbi sollevati nell‘appello bis sulla reale composizione dell’ordigno.

Fioravanti e Mambro. Gli ex neofascisti ragazzini dei Nar condannati con sentenza passata in giudicato insieme a Luigi Ciavardini si sono sempre dichiarati innocenti per Bologna mentre hanno confessato decine tra omicidi e rapine commessi con il gruppo armato di estrema destra. Recentemente hanno testimoniato entrambi nel processo all’ex compagno d’armi Cavallini.

Gelli. Il venerabile maestro capo della loggia massonica P2, già condannato per calunnia aggravata dalle finalità di depistaggio sulla strage e scomparso nel 2015, viene ritenuto dall’Associazione dei familiari il grande burattinaio che non sviò solo le indagini ma fu tra i mandanti e finanziatori della strage, il punto di raccordo tra servizi deviati e neofascisti arruolati per destabilizzare il Paese.

Innocentisti. Non sono pochi coloro che hanno a più riprese sostenuto che la verità sul 2 Agosto non sia quella cristallizzata nelle sentenze, peraltro rimaste monche quanto a mandanti e finanziatori. Tra loro figurano intellettuali, scrittori e magistrati che non hanno mai creduto alla verità giudiziaria e anzi hanno invitato a seguire piste alternative, finora rimaste prive di riscontri.

Lo Sciacallo. Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos, è un terrorista di origine venezuelano condannato in Francia per diversi attentati commessi col suo gruppo Separat. In più occasioni ha sostenuto di avere informazioni preziose sulla strage. Inizialmente accusò Cia e Mossad, poi i servizi segreti americani attraverso Gladio.

Mandanti. Il buco nero del 2 Agosto. La Procura in questi anni ha aperto e archiviato i fascicoli nati dagli esposti dei familiari per arrivare ai mandanti che ordinarono la strage. Di recente la Procura generale ha avocato a sé l’inchiesta che ora punta dritto su coloro che avrebbero finanziato i terroristi neri. L’inchiesta ruota attorno al documento intitolato «Bologna– 525779 – X.S.» e relativo a un conto aperto da Licio Gelli alla Ubs di Ginevra, proveniente dal fascicolo del processo per il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Per l’Associazione da quel conto sarebbero usciti milioni di dollari serviti a finanziare il massacro.

Neofascisti. Tra le ipotesi oggetto della nuova inchiesta, anche il finanziamento da parte della massoneria in favore di elementi dell’estremismo nero veneto, per esempio alla galassia di Ordine Nuovo di Carlo Maria Maggi, condannato in via definitiva per la strage di piazza della Loggia, a Brescia.

Orologio. Fermo alle 10,25, è uno dei simboli della strage alla stazione insieme all’autobus 37. Tornò in funzione dopo l’esplosione ma successivamente fu di nuovo bloccato, un fermo-immagine, ora eterno, per ricordare per sempre l’ora esatta della strage e coltivare la memoria.

Pista palestinese. È la pista alternativa(archiviata)alla verità codificata dai processi uscita dalla commissione Mitrokhin. Una strada sulla quale si è a lungo indagato senza successo e che vedeva nella rottura del Lodo Moro, l’immunità per l’Italia dagli attentati e il libero passaggio dei terroristi mediorentali nel Paese, la ragione del massacro a Bologna.

Quadro. Quindici giorni dopo la strage, l’Espresso pubblicò in copertina un quadro a cui Renato Guttuso diede lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Guttuso aggiunse solo la data del 2 Agosto 1980.

Risarcimenti. Li chiedono ininterrottamente da anni i familiari delle vittime e dei feriti. Alcune promesse sono state mantenute ma non tutte. Restano i vuoti sugli indennizzi e le pensioni.

Servizi. La mano degli apparati deviati dello Stato, dei gruppi di potere occulto che insieme a massoneria ed eversione nera avrebbero commissionato e depistato le indagini. È questo secondo i familiari delle vittime l’ultimo tassello per comporre il puzzle di quella stagione di terrore.

Trentasette. L’autobus divenuto il simbolo del massacro. Un bus di linea che dopo l’esplosione venne utilizzato per trasportare i cadaveri all’obitorio e permettere alle ambulanze di assistere i feriti. Quest’anno torna in moto per la prima volta e accompagnerà il corteo fino alla stazione.

Ustica. La tragedia del Dc 9 è stata più volte accostata alla strage, come se ci fosse un legame tra i due eventi e una unica matrice, quella libico-palestinese dietro i due attentati. Ma l’ipotesi emersa secondo alcuni dalla commissione Moro e che si fonderebbe su un patto, violato dall’Italia con i fedayn arabi, non ha mai trovato riscontri.

Vittime. Bambini, studenti, intere famiglie, pensionati, vacanzieri e lavoratori. Ottantacinque morti e più di duecento feriti che ancora chiedono verità e giustizia. I loro parenti sono di nuovo tornati in Tribunale a distanza di 38 anni nel processo a carico di Cavallini.

Zangheri. I compagno professore, il sindaco della strage, infonde coraggio alla città ferita a morte e pretende risposte. «Non arretreremo» dice in una piazza Maggiore gremita e attonita, con a fianco il presidente della Repubblica Pertini.

IL SOLITO PERICOLO NUCLEARE.

Pericolo armi nucleari: non c'è solo la Corea del Nord. Ecco quali sono i dieci paesi più pericolosi al mondo. La situazione particolare di India e Pakistan. E il rischio atomico riguarda anche l'Italia, scrive il 28 gennaio 2018 su Panorama Eleonora Lorusso. La Corea del Nord non rappresenta la sola né la prima minaccia nucleare al mondo, bensì la settima. Sono almeno 9 i Paesi con un arsenale atomico in grado di colpire una potenza nemica. Nonostante la crisi nordcoreana e il braccio di ferro con gli Stati Uniti che prosegue da mesi, infatti, nell'elenco degli Stati pericolosi ci sono anche Russia, Cina, India e Pakistan, senza dimenticare Israele e alcune potenze del Vecchio Continente. L'Italia non dispone né di impianti nucleari, né tantomeno di armi di questo tipo, ma ospita sul proprio territorio modernissime testate americane.

Non solo Corea del Nord. La tregua olimpica scattata ancor prima dell'inizio dei Giochi invernali di Peyongchang sembra aver sospeso le provocazioni tra il Presidente americano Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un. La minaccia atomica, però, incombe come dimostrano le parole pronunciate da Papa Francesco che, in occasione del viaggio in Cile e Perù, ha richiamato l'attenzione sul pericolo di un conflitto con armi atomiche. A preoccupare, infatti, non è la sfida a chi ha il "bottone più grosso" per il controllo dell'arsenale atomico tra Washington e Pyongyang: paesi come l'India e il Pakistan, che si contendono territori come il Kashmir, sono entrambi in possesso di testate nucleari. Nella lista degli Stati che dispongono di missili balistici intercontinentali, in grado di montare ordigni nucleari, figurano anche la Russia, la Cina e Israele, oltre al Canada e ad alcuni paesi europei, come Gran Bretagna e Francia.

Chi possiede l'atomica. Stati Uniti e Russia rappresentano le maggiori potenze nucleari, con il 90% di tutti gli armamenti di questo tipo nei propri arsenali. Si tratta, però, degli unici due Stati al mondo tenuti, in base ai Trattati START, a sottoporsi a periodiche ispezioni pubbliche. Fino agli anni '90 esisteva un sostanziale equilibrio e l'atomica veniva considerata quasi un deterrente: il suo uso avrebbe danneggiato entrambi. Nel 1966 gli Usa raggiunsero il maggior numero di bombe all'idrogeno disponibili, circa 32 mila, per poi iniziare a ridurne la quantità fino alle 7.700 della fine del 2012. L'arsenale sovietico, invece, raggiunse la propria massima disponibilità nel 1988 con 45mila testate nucleari, poi diminuite alle 8.500 dichiarate cinque anni fa. Con la fine della Guerra Fredda lo scenario è però molto cambiato: oggi il nucleare rappresenta anche una forma di approvvigionamento energetico di cui da tempo rivendicano il diritto al possesso anche paesi come l'Iran o la stessa Corea del Nord.

Il nucleare in Italia. In Italia non ci sono più centrali nucleari attive: le quattro esistenti (Latina, Trino vercellese, Caorso e Garigliano), realizzate dal 1958, sono state chiuse per vetustà e soprattutto in seguito all'esito del referendum del 1987, fortemente influenzato dall'incidente di Cernobyl dell'anno prima. Tuttavia non mancano armi nucleari: secondo un report della Federation of American Scientists, ce ne sarebbero circa 70 sotto la custodia statunitense, nelle basi americane di Ghedi (BS) e Aviano (PN). Il documento spiega che, oltre alla loro presenza per un eventuale uso da parte dei militari americani, l'accordo di "condivisione nucleare" (Nuclear Sharing) della NATO prevede anche un "addestramento di piloti italiani per il possibile uso delle armi e la partecipazione italiana alle riunioni del Nuclear Planning Group NATO". Lo scorso autunno la stoccaggio degli ordigni era finito al centro del dibattito parlamentare, anche perché era emersa la presenza, accanto a bombe piuttosto datate come le B-61 (anni '80), B61-3, B61-4 e B61-10, di testate di modernissima generazione, montabili sia sui Tornado italiani che sui nuovi F-35. Il caso, però, è passato in secondo piano, anche perché la US Air Force e il Joint Chiefs of Staff hanno secretato il report incriminato.

Gli ordigni atomici in Europa. Hanno aderito al Nuclear Sharing NATO anche altri Stati europei, come Germania, Belgio e Olanda, che ospitano testate nucleari: i membri delle Nazioni Unite in possesso di armi atomiche sono infatti vincolati a dislocarne un certo numero sul territorio di uno Stato alleato che non ne dispone. In Europa era interessata dal piano anche la Grecia (fino al 2001). La Turchia, pur non essendo parte dell'Unione europea, aderisce alla "condivisione nucleare" e dunque ha stoccate circa 50-90 testate nella base aerea di Adana. Sempre in Europa, la Gran Bretagna, dopo anni di collaborazione con gli Stati Uniti in campo nucleare, assemblò proprie testate atomiche, soprattutto nel periodo della Guerra Fredda. Attualmente disporrebbero di poco più di 220 ordigni. Per quanto riguarda la Francia, invece, dopo un lungo periodo di test nell'ambito del nucleare civile, sviluppò anch'essa bombe all'idrogeno e oggi custodirebbe nel proprio arsenale circa 300 ordigni.

Il club nucleare: anche in Giappone? Oltre a Usa, Russia, Francia e Gran Bretagna, fanno parte di questo ristretto gruppo di Stati che hanno realizzato, testato e dispongono di ordigni atomici anche la Cina: tutti hanno aderito al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) del 1970 e costituiscono anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza ONU. Secondo alcune indiscrezioni, anche il Giappone potrebbe presto dotarsi di armi atomiche, entrando di fatto tra i cosiddetti Nuclear Weapon States, le nazioni che dispongono di armamenti atomici. Contando su una tecnologia nucleare già molto presente e sviluppata in ambito civile, secondo gli esperti a Tokyo occorrerebbe poco più di un mese a realizzare un ordigno all'idrogeno.

Gli Stati non TNP. Agli Stati che hanno aderito al TNP si devono poi aggiungere quelli che, pur disponendo di ordigni, non hanno accettato le limitazioni del Trattato: si tratta di India, Pakistan, Corea del Nord (che vi si è ritirata nel 2001 dopo un'iniziale adesione) e Israele. Nel caso dell'India va tenuto presente che nel 2005 vennero siglati alcuni accordi con gli Stati Uniti, riconosciuti dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA), che prevedevano una collaborazione tra New Dehli e Washington nell'ambito del nucleare civile ed escludevano l'India dai paesi con armi atomiche. Disporrebbe di poco meno di 100 testate nucleari, circa lo stesso quantitativo del vicino Pakistan, che iniziò a sviluppare un programma atomico dopo la sconfitta con l'India stessa nella guerra di liberazione bengalese a partire dal 1972. Anomala la posizione di Israele, che ufficialmente non ha mai confermato né smentito di possedere armamenti atomici, ma segue una politica di "deterrenza nucleare", contando su circa 200 ordigni, secondo alcune stime.

In caso di guerra tra le Coree? Anche Corea del Sud e Canada hanno aderito al Nuclear Sharing della NATO, che riguarda parte dei paesi europei come l'Italia: stoccano, dunque, ordigni atomici sotto il controllo e la custodia degli Stati Uniti, che ne conoscono i codici di attivazione. Tra il 2004 e il 2008 Seul è stata al centro di una serie di ispezioni da parte dell'AIEA, dopo il sospetto di test non autorizzati con uso di plutonio. Ne risultò che il governo sudcoreano rispettava gli impegni ad un uso civile della tecnologia atomica. In caso di conflitto, però, il Trattato di non proliferazione a cui ha aderito, decadrebbe: per questo, se scoppiasse una guerra con la Corea del Nord, quella del Sud potrebbe utilizzare in modo diretto gli arsenali condivisi con gli USA.

I SOLITI TRATTATI INTERNAZIONALI (VERI O FALSI).

Mare ceduto alla Francia Fdi denuncia Gentiloni. La Meloni in procura a Roma, scrive "Il Giornale" Lunedì 19/03/2018. Giorgia Meloni non ci sta. E davanti alla possibilità che una parte del Mar di Sardegna e del Mar Ligure venga ceduta alla Francia, la leader di Fratelli d'Italia si prepara a dare battaglia con un esposto alla Procura di Roma presentato con Guido Crosetto contro il premier uscente Paolo Gentiloni per fare luce su questo trattato tra Italia e Francia che dovrebbe entrare in vigore il prossimo 25 marzo e che rischia di far perdere all'Italia ampie zone di un mare molto pescoso, oltre al diritto di sfruttamento di un importante giacimento di idrocarburi individuato di recente. Al governo uscente la Meloni, che aveva già annunciato azioni durissime in ogni sede per scongiurare le conseguenze di questa vicenda dai contorni definiti «torbidi», intima di «agire immediatamente per interrompere la procedura unilaterale di ratifica attivata dalla Francia presso Bruxelles, che in caso di silenzio assenso da parte italiana conferirà de iure i tratti di mare in questione alla Francia arrecando un gravissimo danno ai nostri interessi nazionali». Dalla Farnesina arrivano rassicurazioni. Non ci sarebbe alcun pericolo di cessioni di acque territoriali perché «l'accordo bilaterale del marzo 2015 non è stato ratificato dall'Italia e non può pertanto produrre effetti giuridici». Ma a Fratelli d'Italia non basta, anzi la Meloni invoca l'intervento del presidente Sergio Mattarella «affinché questo trattato, che importa variazioni del territorio italiano, si sottoposto al voto di ratifica del Parlamento come previsto dall'articolo 80 della nostra Costituzione». Nell'esposto, che verrà sottoscritto da tutti i parlamentari di Fdi, si ipotizzano i reati di atti di ostilità e infedeltà contro lo Stato italiano. «Fratelli d'Italia - avverte la leader del partito - non permetterà a un governo delegittimato dal voto popolare di regalare a una nazione straniera una parte delle nostre acque territoriali». Questo mentre nel mar Adriatico, il rigetto nei giorni scorsi da parte del Consiglio di Stato dei ricorsi delle Regioni Abruzzo e Puglia, ha di fatto dato il via libera alla ricerca di gas e petrolio in un'area di 30mila chilometri quadrati ad una società inglese. Insomma, noi le ricerche le andiamo a fare all'estero, ma lasciamo i nostri mari a disposizione degli stranieri.

Il ministero degli Esteri risponde a Giorgia Meloni, che sosteneva che con il Trattato di Caen il 25 marzo sarebbero stati "scandalosamente sottratti al Mare di Sardegna e al Mar Ligure alcune zone molto pescose e il diritto di sfruttamento di un importante giacimento di idrocarburi". L'accordo non è stato ratificato, scrive Next Quotidiano domenica 18 marzo 2018.  La notizia di possibili cessioni di acque territoriali alla Francia è priva di ogni fondamento, “l’accordo bilaterale del marzo 2015 non è stato ratificato dall’Italia e non può pertanto produrre effetti giuridici”. Lo precisa la Farnesina in una nota stampa che viene genericamente indirizzata “relativamente alle dichiarazioni di alcuni esponenti politici”.

Il trattato di Caen e il Mare di Sardegna ceduto alla Francia. Nella nota non è fatto alcun nome ma appare evidente il riferimento a Giorgia Meloni, che ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un post in cui si scrive che “In assenza di un intervento del governo italiano, il 25 marzo entrerà in vigore il Trattato di Caen con il quale verranno scandalosamente sottratti al Mare di Sardegna e al Mar Ligure alcune zone molto pescose e il diritto di sfruttamento di un importante giacimento di idrocarburi recentemente individuato. Per questo Fratelli d’Italia intima il governo in carica ad agire immediatamente per interrompere la procedura unilaterale di ratifica attivata dalla Francia presso Bruxelles, che in caso di silenzio-assenso da parte italiana, conferirà de iure i tratti di mare in questione alla Francia arrecando un gravissimo danno ai nostri interessi nazionali”. Aggiungendo “chiediamo inoltre l’intervento del presidente della Repubblica Mattarella affinché questo trattato, che importa variazioni del territorio italiano, sia sottoposto al voto di ratifica del Parlamento come previsto dall’articolo 80 della nostra Costituzione”. Meloni annuncia anche di aver presentato con Guido Crosetto “un esposto alla Procura di Roma contro Paolo Gentiloni per fare piena luce su questa storia dai contorni torbidi”. Che però secondo la Farnesina invece tanto torbidi non sono. Questo perché il famoso accordo, di cui si parla dal 2016, non è stato ratificato dal Parlamento italiano: «I confini marittimi con la Francia sono pertanto immutati e nessuno, a Parigi o a Roma, intende modificarli”. E quanto alla data del 25 marzo, “essa, come informa l’ambasciata di Francia a Roma, riguarda semplicemente una consultazione pubblica nel quadro della concertazione preparatoria di un documento strategico sul Mediterraneo che si riferisce al diritto ed alle direttive europee esistenti e che non è volta in alcun modo a modificare le delimitazioni marittime nel Mediterraneo».

L’errore sulle cartine e il trattato di Caen. L’ambasciata – dice ancora la Farnesina – riconosce che le cartine circolate nel quadro della consultazione pubblica contengono degli errori (in particolare le delimitazioni dell’accordo di Caen, non ratificato dall’Italia) e aggiunge che ‘esse saranno corrette al più presto possibile'”. Infine, dal ministero degli Esteri italiano sottolineano che “a breve si terranno consultazioni bilaterali previste a scadenze regolari dalla normativa UE al solo fine di migliorare e armonizzare la gestione delle risorse marine tra i Paesi confinanti, nel quadro del diritto esistente”. La storia dei mari della Sardegna va avanti da un paio di anni, quando anche all’epoca mancava la ratifica del Parlamento italiano.

All’epoca venivano raccontati come “ceduti da Renzi” e la tematica è stata oggetto anche di un’interrogazione del M5S al Senato, dopo il racconto di un sequestro, chiaramente illegittimo, di una barca italiana in zona:

il 13 gennaio 2016 il peschereccio italiano “Mina”, mentre stava praticando la pesca del gambero in profondità, viene tratto in stato di fermo nel porto di Nizza, da una motovedetta della Gendarmerie maritime; la motivazione del fermo è lo sconfinamento dell’imbarcazione italiana in acque territoriali francesi;

dall’agenzia “Ansa” del 14 gennaio 2016 si apprende che il comandante del peschereccio avrebbe dichiarato: «Sono saliti a bordo e ci hanno chiesto con arroganza se nascondevamo armi. Anzi volevano che tirassimo fuori le armi. Poi hanno minacciato di metterci le manette e dopo aver preso il comando dell’imbarcazione ci hanno portati al porto di Nizza. (…) Eravamo in acque italiane (…) tanto è vero che lo scorso anno, nello stesso punto in cui ci trovavamo ieri, non ci è stato contestato nulla. (…) Da ieri sono fermo qui a Nizza, con i miei due membri di equipaggio e non ci dicono nulla. Da parte loro è stato un abuso di potere e un sequestro di persona avvenuto in acque italiane e noi abbiamo le prove per dimostrare che non era territorio francese. Perché è tutto registrato»;

il 16 gennaio le autorità francesi hanno motivato il fermo dichiarando che il “Mina” ha sconfinato nelle acque nazionali francesi, rese tali da un accordo bilaterale tra Italia e Francia, fatto a Caen il 21 marzo 2015, il quale ha modificato il confine marittimo di circa un miglio a favore della Francia;

il peschereccio sarebbe stato rilasciato a seguito del pagamento di una cauzione;

considerato che: “Corsicaoggi” del 22 gennaio riporta che l’oggetto del trattato bilaterale sia una sorta di scambio territoriale, secondo il quale l’Italia cede la porzione di mare cosiddetta “fossa del cimitero”, detta “la fossa dei gamberoni”, in cambio delle secche tra la Capraia, l’Elba e la Corsica;

dal sito del Ministero della difesa si apprende che il 21 marzo 2015 si è svolto a Caen in Francia un incontro bilaterale denominato “Ministeriale 2+2 Esteri Difesa, Italia-Francia”. Al vertice hanno preso parte il Ministro della difesa Pinotti con il suo omologo Jean-Yves Le Drian e i Ministri degli affari esteri di Francia e Italia, Laurent Fabius e Paolo Gentiloni Silveri;

risulta agli interroganti che il testo dell’accordo bilaterale non risulterebbe consultabile neppure nelle banche dati governative, così come non sarebbe stato ancora predisposto dal Governo il previsto disegno di legge di ratifica. Conseguentemente la legge di autorizzazione alla ratifica non è stata ancora approvata dal Parlamento italiano;

a giudizio degli interroganti, non essendo ancora in vigore il trattato bilaterale del 21 marzo 2015 le acque contese sono da considerarsi a tutti gli effetti acque italiane, si chiede di sapere:

da chi sia stata pagata la cauzione per il rilascio del peschereccio italiano “Mina”, in quanto sia consistito l’importo e in base a quale norma vigente sia stata applicata la sanzione;

quali siano i motivi per cui a valle del trattato nessuna delle istituzioni coinvolte, sia locali che nazionali che europee, sarebbe stata informata dell’accordo;

da chi sia stato firmato l’accordo bilaterale tra Italia e Francia e se i Ministri in indirizzo ne siano stati informati;

quale procedura sia stata seguita per la firma del trattato e se tale procedimento preveda l’inoltro di informative ai soggetti coinvolti;

se intendano intraprendere, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, una fase di audizione dei portatori di interesse in modo da recepire ed attuare quindi politiche corrette nel rispetto dei luoghi e dei cittadini;

se intendano avviare, per quanto di competenza, un processo di revisione delle procedure di firma e ratifica dei trattati internazionali, nonché delle modalità di informativa destinate ai soggetti coinvolti.

Un’altra interrogazione è stata presentata dalla senatrice PD Donatella Albano. Questa, all’epoca, la risposta del sottosegretario agli esteri Benedetto Della Vedova. La risposta di Della Vedova sugli accordi Caen: Anche all’epoca si sottolineava che il Trattato di Caen non era ancora in vigore, perché appunto mancava la ratifica. Che non è mai arrivata.

Quel trattato tra Italia e Francia che regala miliardi di euro a Parigi, scrive il 17 marzo 2018 Francesco Manta su "Gli Occhi della Guerra" de "Il Giornale". Il prossimo 25 marzo dovrebbe entrare in vigore il Trattato di Caen, sottoscritto nel 2015dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ed il suo omologo francese, con il quale diverse decine di miglia marittime passeranno alle acque territoriali francesi. Secondo gli estremi del trattato, infatti, alcune porzioni di mare verranno sottratte al Mare di Sardegna e al Mar Ligure, per passare sotto la competenza economica della Francia, che gioverà di acque costiere in Corsica da 12 a 40 miglia, mentre la Zes (Zona Economica Speciale) in prossimità delle acque territoriali sarde, estenderà la competenza francese per le 200 miglia marittime in questione. Il trattato è passato in sordina rispetto all’opinione pubblica nazionale, i cui risvolti sono potenzialmente economicamente molto dannosi per il nostro Paese. Si perde, infatti, un tratto di mare molto pescoso, che danneggerà notevolmente l’industria ittica delle zone italiane interessate, senza considerare il fatto che l’Italia rinuncia, per un cavillo, allo sfruttamento di un giacimento di idrocarburi individuato al largo della Sardegna, e che dunque passerà in mano francese. Per un Paese importatore netto di risorse minerarie, rinunciare ad un giacimento del genere non pare molto lungimirante. Si parla infatti di 1.400 miliardi di metri cubi di gas, nonché 420 milioni di barili di petrolio. Le dimensioni non sono impressionanti, è vero, ma non comunque trascurabili: azzardando un paragone con il giacimento Zohr, considerato il più grande del mondo, al largo delle coste egiziane, di cui Eni è proprietario per la quasi totalità, parliamo di un giacimento che è circa un decimo. L’articolo 4 del Trattato di Caen, dunque, agevola lo Stato francese all’accesso al giacimento qualora le trivellazioni fossero effettuate in acque francesi, e con l’entrata in vigore di questo trattato ciò è particolarmente facilitato. A ciò, inoltre, si somma una sospetta azione da parte del governo italiano, che ha bloccato due anni fa la compagnia norvegese Statoil che aveva richiesto formalmente l’autorizzazione ad effettuare dei carotaggi del fondale. La gravità dell’azione, in senso meramente pratico, risiede anche nel fatto che non sembrano previste alcune royalties da corrispondere al governo italiano, visto lo sfruttamento di un giacimento completamente in acque italiane, ma che con le modifiche dei confini marittimi attuati, lascerebbero alla Francia l’assoluta libertà di azione, senza obblighi, lasciando all’Italia soltanto eventuali, sebbene marginali, danni ambientali. Il tutto sembra condito da un alone di totale apatia che il governo italiano al momento sembra voler mantenere nei confronti di questo accordo: dal momento che non vi è stata ratifica formale via legge del trattato, la Francia ha attivato presso Bruxelles una procedura unilaterale di ratifica, che il 25 marzo, in caso di silenzio-assenso da parte italiana, conferirà de iure tali tratti di mare alla Francia. L’unico a poter porre un freno a tale procedura è il presidente del Consiglio in pectore, lo stesso Paolo Gentiloni che ha sottoscritto il trattato; il quale, tuttavia, non sembra muoversi in tal senso. La polemica e le preoccupazioni sono state sollevate dagli esponenti del centrodestra italiano, tra i quali Giorgia Meloni, Daniela Santanché e Roberto Calderoli, i quali hanno espresso il loro dissenso verso il trattato e hanno chiesto ufficialmente a Gentiloni di provvedere ad annullare l’accordo. In particolare, il senatore della Lega ha sostenuto quanto segue: “Non possiamo regalare alla Francia, sulla base di un trattato mai ratificato dal Parlamento italiano, un’importante porzione di acque territoriali in Liguria e Sardegna, tratti di mari ricchissimi di fauna ittica, fondamentali per la nostra pesca, e fondali marini ricchissimi di idrocarburi con giacimenti molto promettenti, capaci di fornire nel giro di pochi anni decine di miliardi di metri cubi di gas e centinaia di milioni di barili di petrolio. […] Gentiloni intervenga subito con Parigi, diversamente considereremo anche l’ipotesi di farlo rispondere del danno erariale causato all’Italia regalando alla Francia decine di miliardi tra fauna ittica e idrocarburi”. 

Confini marittimi Italia-Francia, “il nuovo accordo lascia a Parigi le zone più pescose”. Protestano le opposizioni per l'intesa che in base a una convenzione Onu del 1982 aggiorna l'estensione delle acque territoriali. Roma dovrà rinunciare a una porzione al largo della Liguria e a qualche miglio a sud-ovest della Corsica. Polemica sul mancato coinvolgimento delle associazioni di categoria dei pescatori, scrive Andrea Tundo il 20 febbraio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Interrogazioni parlamentari, richieste d’intervento del presidente della Repubblica, sospetti, mezze verità e ammissioni. Da una settimana tiene banco la discussione riguardo al Trattato di Caen che ridisegna i confini tra Italia e Francia al largo delle coste di Liguria e Sardegna. Un accordo maturato dopo dieci anni di trattative per il quale il governo ha ricevuto l’accusa di “aver svenduto ampie porzioni di mare particolarmente pescose”. La firma posta dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni lo scorso 21 marzo era un atto necessario per aggiornare i confini alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) del 1982. L’Italia ha quindi rinunciato a un piccolo triangolo di mare – ma ‘prezioso’ dicono le opposizioni – al largo della Liguria e a qualche miglio di acque a est e sud-ovest della Corsica.

Il caso dei pescherecci. La questione diventa politica a metà gennaio. Fino a quel momento, il tutto era rimasto semisconosciuto poiché il trattato non è mai stato ratificato dall’Italia. E non c’è nulla di strano nell’anno di “vuoto”: come spiega a ilfattoquotidiano.it l’onorevole di Sel Erasmo Palazzotto, membro della commissione Esteri, “i tempi di ratifica spesso sono molto lunghi, stiamo ancora rendendo ufficiali accordi stretti negli Anni Novanta”. La Francia è stata più celere e, un mese fa, ha fermato diversi pescherecci italiani al largo della Liguria e della Sardegna. Secondo i comandanti, le imbarcazioni si trovavano in acque dove, da sempre, calano le reti. Un tratto mare particolarmente ricco per la pesca di gamberoni e pesce spada, quindi ambito. I fermi hanno provocato gli interventi in serie di parlamentari di maggioranza e opposizione, oltre a diversi esponenti politici e amministrativi della Liguria. Tutti chiedono al Governo di spiegare e sottolineano come nessuno abbia ascoltato i pescatori prima della firma.

Le risposte dei ministeri e le nuove “valutazioni. Rispondendo a un’interrogazione del Movimento 5 Stelle, il sottosegretario Benedetto Della Vedova chiarisce: “Il ministro Gentiloni ha disposto che fosse sollevata formalmente nei confronti della Francia la questione della giurisdizione marittima sul punto di fermo e sequestro (essendo avvenuto in una zona di pesca italiana), ottenendo per le vie ufficiali dalle autorità francesi l’ammissione di un “deprecabile errore” di competenza territoriale e le loro scuse formali”. Aggiungendo poi una specifica riguardo il Trattato di Caen: “Non è ancora in vigore e non è quindi applicabile nel caso in questione”. Sull’onda delle proteste, proseguite negli scorsi giorni, giovedì la Farnesina ha diramato una nota: “Il tracciato di delimitazione delle acque territoriali e delle restanti zone marittime riflette i criteri stabiliti dall’Unclos”, spiegando anche che “la parte italiana ha ottenuto di mantenere immutata la definizione di linea retta di base per l’arcipelago toscano” e “anche per quanto riguarda il confine del mare territoriale tra Italia e Francia nel mar Ligure, in assenza di un precedente accordo di delimitazione, l’Accordo di Caen segue il principio dell’equidistanza come previsto dall’Unclos”. Specificando come per il tratto “tra Corsica e Sardegna è stato completamente salvaguardato l’accordo del 1986, inclusa la zona di pesca congiunta”. Restano i dubbi sul perché l’Italia abbia chiuso un negoziato salvo riservarsi “ulteriori approfondimenti al termine dei quali verrà fatta una valutazione globale ai fini di un’eventuale avvio della ratifica”, come ha affermato ancora Della Vedova. Perché solo ora dopo sei anni di dialogo che ha coinvolto anche i ministeri di riferimento per pesca, trasporti ed energia?

L’articolo 4: non solo la pesca. Non solo i pescherecci, dunque, sono al centro degli accordi (e delle dispute) tra Italia e Francia. Anche nel Trattato di Caen. L’articolo 4 disciplina infatti “lo sfruttamento di eventuali giacimenti di risorse del fondo marino o del suo sottosuolo, situati a cavallo della linea di confine”. Gas e petrolio, quindi. Alcuni media sardi hanno avanzato l’ipotesi che il vero nodo della revisione sia proprio questo. Al largo di Stintino, infatti, la compagnia norvegese Tgs-Nopec ha richiesto un permesso di “prospezione idrocarburi” in una vasta area che comprende le province di Sassari e Oristano, che – stando al sito del ministero dell’Ambiente – attende la Valutazione d’impatto ambientale. L’area però, secondo le coordinate, non ricadrebbe lungo la linea di confine. E visto che l’accordo inizia a vedere la luce ben dieci anni, l’ipotesi appare quanto mai remota.

Mare ceduto, Francia fa dietrofront: ​"Non modifichiamo le frontiere". La Francia costretta a (ri)modificare le cartine del Mar Mediterraneo dopo le polemiche sul mare ceduto al transalpini, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Non si placa la polemica sul trattato di Caen e la cessione da parte dell'Italia di alcuni tratti del mar Ligure e di quello di Sardegna alla Francia. Nei giorni scorsi la politica si era scontrata sul tema, con Giorgia Meloni in prima fila nel denunciare la cessione a riflettori spenti di "zone molto pescose" e del "diritto allo sfruttamento" di un giacimento di gas appena scoperto nel nostro mare. Ebbene, dopo le reazioni stizzite del Pd alla pubblicazione della notizia sugli organi di stampa, anche la Francia è stata costretta al dietrofront. Facciamo un salto indietro. Il 25 marzo i francesi terranno una consultazione pubblica per elaborare un documento strategico sul Mediterraneo. Niente di strano. Peccato che ai documenti preparatori del dibattito allegarono delle cartine del mar di Sardegna che già comprendeva la piena operatività del trattato di Coen e - dunque - l'acquisizione da parte di Parigi dei nostri mari. A sentire il sottosegretario agli Affari Europei, Sandro Gozi, il trattato non è operativo perché il Parlamento non l'ha ancora ratificato. Per Gozi "nessuno intende modificare i confini marittimi tra Italia e Francia". Resta il fatto che la Francia abbia già ridisegnato le sue cartine. Non solo. Perché nel gennaio del 2016 un peschereccio fu intercettato dalla gendarmeria d'Oltralpe, sequestrato nel porto di Nizza e liberato solo dietro cauzione. In realtà il peschereccio si trovava in acque italiane, ma i francesi si comportavano come se fossero state già loro. Parigi alla fine ammise l'errore. Ma se tre indizi fanno una prova...Per Mauro Pili, battagliero politico sardo, infatti, non si sarebbe trattato affatto di un errore. Ci avrebbero provato, insomma. "Sono stati beccati e sono stati costretti a cambiare il tutto a 4 giorni dalla scadenza", scrive Pili su facebook. Lo stesso, infatti, è successo col la querelle delle cartine modificate. L' ambasciata francese a Roma ieri ha presentato le sue scuse e si è impegnata a far cambiare il carteggio. Lo stesso ha fatto il ministero della Transazione ecologica, spiegando che non c'è da parte loro il desiderio di "modificare le frontiere marittime nel Mediterraneo".

L'affondamento del Panigaglia. Dal blog I Segreti della Storia, il racconto di una pagina poco conosciuta di storia del mare, scrive Cristina Di Giorgi il 19/03/2018 su "Il Giornale d’Italia". Costruito ai Cantieri del Muggiano di La Spezia nel 1923, il Panigaglia, in servizio nella Regia Marina quale nave per il trasporto di munizioni e come posamine, fu largamente impiegato fin dalle prime fasi del secondo conflitto mondiale. L’equipaggio, composto da tre ufficiali e 61 tra sottufficiali e graduati, fece sempre e comunque il proprio dovere, anche quando si palesarono all’orizzonte le tragiche e incerte giornate legate all’armistizio dell’8 settembre 1943. In quella circostanza l'unità venne requisita dalle forze tedesche che occuparono la città ligure e un mese dopo, in ottobre, il Panigaglia venne gravemente danneggiato da un raid aereo: fu infatti centrato da alcune bombe. La Kriegsmarine decise di recuperarlo e rimetterlo in sesto: venne dunque ribattezzato “Westmark” e continuò a svolgere il suo compito di posa di campi minati. A partire dal 28 settembre 1944 la nave iniziò dunque il suo servizio sotto la bandiera della Marina del Terzo Reich, che portò avanti fino a quando venne auto-affondata dagli stessi tedeschi poco prima della resa (secondo alcune fonti il 19 aprile 1945, secondo altre il 29, dunque a insurrezione già avvenuta). A guerra conclusa l’Italia (e la sua Marina) si apprestarono a subire le condizioni imposte al tavolo della pace dalle Nazioni vincitrici del conflitto. E il Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947 riguardò da vicino anche la Nave “Panigaglia”: fu infatti tra quelle che dovevano essere cedute agli Alleati, in questo caso alla Francia, a partire dal 1948, così come previsto dall’Annesso XII al Trattato stesso. Tale situazione, nonostante le suddette cessioni fossero state contenute, provocò molti malumori tra uomini della Marina Militare. Si veda in proposito, in particolare, il comportamento dell'Ammiraglio Raffaele De Courten, che rassegnò le proprie dimissioni da Capo di Stato Maggiore. Quanto al “Panigaglia”, il destino volle che la nave fosse una delle poche (forse l’unica) adibita a trasporto munizioni ancora in linea, in un momento nel quale le Forze Armate procedevano alla smilitarizzazione e allo smantellamento delle fortificazioni lungo i confini e nelle isole del Mar Mediterraneo. Per questo, il piccolo posamine (durante i vari lavori di recupero ne fu ridotta la stazza di quasi 400 tonnellate), venne impiegato per la smilitarizzazione dell’Isola di Pantelleria, così come imposto dal Trattato di Pace. Sulla piccola isola, occupata dalle forze alleate già nel giugno 1943, vi era ancora un grande quantitativo di munizioni, proiettili d’artiglieria e di vario genere, nonché esplosivi. Durante una di queste missioni, lasciata Pantelleria, il 21 giugno 1947 la nave, agli ordini del Tenente di Vascello Agostino Armato e con a bordo 65 uomini di equipaggio, avrebbe dovuto sbarcare oltre 300 tonnellate di materiale esplodente nella rada antistante Porto Santo Stefano (alle pendici del Monte Argentario), che avrebbero dovuto poi essere stoccate presso i depositi di Pozzarello. Parteciparono alle operazioni anche 12 operai civili, che sotto lo sguardo del loro superiore, Armando Loffredo, iniziarono a scaricare su due pontoni galleggianti. Qualcosa però andò storto, come raccontato sui giornali il giorno successivo (2 luglio): “Il primo allarme pare si sia avuto verso le 11, quando uno scoppio a prua, apparentemente di scarsa gravità, faceva avvertire i marinai che qualche cosa di grave stava per accadere. Subito i membri dell’equipaggio si precipitavano, seguiti dai dodici operai addetti allo sbarco, verso il luogo minacciato. Il capobarca Armando Loffredo, domandava se doveva allontanarsi o no con il barcone, che era già quasi completo del carico da trasportare a terra. Non faceva in tempo a ricevere la risposta. In breve tutta la coperta divenne un inferno di esplosioni: saltavano in aria i piccoli mucchi di munizioni accatastate sul ponte in attesa del trasbordo e con esse saltavano in aria pezzi di coperta che ricadevano con lugubri tonfi nel mare. Le esplosioni si propagarono sottocoperta e alle 11:10 con un fragoroso boato, mentre il semaforo di Monte Argentario trasmetteva verso terra disperati segnali di soccorso, saltava in aria l’intero deposito di munizioni. Poi saltavano le caldaie e getti di vapore bollente si levavano in aria. La nave si rovesciava immediatamente”. In quella drammatica mattina morirono in 68, tra militari e civili: si salvarono soltanto dieci membri dell’equipaggio, che per puro caso si trovavano a terra, lontani dal luogo dell’esplosione, tra cui lo stesso comandante, il Tenente di Vascello Armato.

CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.

Quando la sinistra odiava Baglioni, scrive Daniele Zaccaria il 6 Febbraio 2018, su "Il Dubbio". Dalla “maglietta fina” alla direzione artistica del festival di Sanremo. La luminosa carriera di un autore snobbato dalla critica, adorato dal grande pubblico e oggi celebrato da (quasi) tutti. Gli altri parlavano di rivoluzioni, di liberazioni, di pace e di locomotive, di giustizia e di libertà, e lui cantava soave «passerotto non andare via». Non ci mise molto a finire nella lista nera: vacuo, commerciale, inconsistente come una “maglietta fina”, quasi certamente di destra, magari anche fascista, di sicuro sospetto. Comunque impresentabile nelle consorterie della canzone d’autore: erano gli anni 70 e bastava poco per diventare un nemico del popolo. Non aveva la gravità di De André, l’istrionismo surreale di Dalla, l’impegno sociale di Guccini, ma neanche l’ermetismo poetizzante di De Gregori o la vena erudita di Battiato. Persino Battisti, con quall’aura nera da “cantante missino” e il suo individualismo anarchico suscitava più rispetto. Lui, Baglioni Claudio, classe ‘51 romano di Montesacro non aveva nulla di tutto questo, ma più di tutti gli altri ha incarnato il destino della canzone italiana, unendo almeno tre generazioni di fan. In oltre quarant’anni di carriera ha venduto milioni di dischi e non si è mai curato del malanimo degli altri, della critica snob; l’unica scornata con i suoi avversari è avvenuta fuori tempo massimo, nel 1988 quando viene fischiato al concerto di Torino per Amnesty International, ma fu una contestazione patetica, animata da reduci spaesati e residuali ( più triste e fuori tempo di loro solo Antonio Ricci, il creatore di Striscia la notizia che appena pochi giorni fa ha definito Baglioni «un cantante insopportabile, amato dai fascisti con il cervello intoppato dal botulino» ). Nel frattempo le sue melodie si erano già insinuate negli anfratti della memoria collettiva, cantate a squarciagola da orde di ragazzine sui pulman delle gite scolastiche, sputate dai juke box sulle spiagge, sussurrate dagli innamorati: E tu come stai, Sabato pomeriggio, Amore Bello, Lampada Osram e soprattutto Questo piccolo grande amore, il singolo più venduto nella storia della musica italiana e proclamato nel 1985 “canzone del secolo” proprio sul palco del festival di Sanremo, lo stesso che da stasera lo vedrà come gran cerimoniere. Con quella poetica da storie di vita quotidiana, fatta di avventure estive, di amori non corrisposti di muretti e motorini, Baglioni continuava a irritare i puristi, talmente accecati dal pregiudizio da non accorgersi che i testi del cantautore romano erano molto meno sciatti e banali di quanto loro andavano scrivendo con il pilota automatico. Il passaggio tra gli anni 70 e 80 intanto è trionfale, con la tournée Ale-oo porta centinaia di migliaia di giovani ai suoi concerti e con l’album La vita è adesso straccia tutti i record di vendite. Dopo quel successo, come spesso accade, arriva la crisi, creativa e personale, che lo porta a un silenzio di cinque anni. Baglioni è finito, Baglioni è depresso Baglioni non ha più niente da dire, giubilano i detrattori. E invece Baglioni ripresenta nel 1990 con Oltre, un album bellissimo, il migliore della sua carriera, con un suono internazionale e la partecipazione di artisti come Paco De Lucia, Didier Lockwood, Youssou N’Dour, Pino Daniele. Un disco che “suona benissimo” e spiazza la critica costretta rimangiarsi la bile con cui aveva celebrato il suo prematuro funerale artistico. Anche l’album successivo Io sono qui è un successo di pubblico e di critica. I tempi sono maturi perché Baglioni rompa il suo soffitto di cristallo. Ci pensa Fabio Fazio, che nel 1997 lo porta in Tv a condurre con lui Anima mia, la trasmissione cult di Rai3 che rivisita in chiave ironica la musica pop degli anni 70. Quel pubblico “di sinistra” che fino a qualche anno prima ne parlava facendo la fine bouche lo rivaluta improvvisamente, quei cenacoli che storcevano il naso ogni volta che le radio sbrodolavano le sue melodie ora scoprono uno splendido 45enne, colto, spiritoso, e, incredibile ma vero, anche progressista e sensibile ai diritti sociali e civili. Per loro dev’essere stato un vero cortocircuito sentirlo gorgheggiare El pueblo unido jamas sera vencido assieme agli Intillimani. Ma come, Baglioni non era di destra? No, non lo è mai stato. E chi lo conosce non si è certo stupito del concerto che nel 2006 ha tenuto a Lampedusa per sostenere l’accoglienza ai migranti per i quali ha scritto il brano Noi qui, evento che ha replicato più volte nel corso degli anni. Nell’ultima parte della sua produzione c’è stato un sobrio ritorno al classico con canzoni meno sperimentali e ritornelli più orecchiabili, lavori più che dignitosi con alcuni pezzi capaci ancora di lasciare il segno e arrangiamenti sempre di livello. La consacrazione del festival è in fondo l’approdo naturale di una carriera fantastica, trascorsa a pensare, scrivere e suonare canzoni, con lui Sanremo torna nel suo elemento naturale, la musica. Con buona pace di quello squadrista di Antonio Ricci.

I NUOVI SANTI.

Sant’Alce Nero, tra archi, frecce e l’ostensorio…, scrive Luciano Lanna il 31 dicembre 2017 su "Il Dubbio". Alce Nero, il guerriero Sioux, dopo aver combattuto con Toro Seduto a Little Bighorn, si è convertito al cattolicesimo. È iniziato l’iter di beatificazione. Non solo parlava, era diventato anche un fervente cattolico. Non è il primo, ma la notizia è clamorosa. Alce Nero, il famoso Sioux reso celebre dal libro di John Neihardt, è in lista d’attesta per diventare uno dei santi della Chiesa cattolica. Già nel 2012 papa Ratzinger canonizzava l’indiana Kateri Tekakwitha, la prima santa autoctona dell’America del Nord. Prima di lei – vissuta tra il 1656 e il 1680 e appartenente alla tribù dei Mohawk – i pochi santi statunitensi o canadesi erano tutti euro- americani. Oltretutto, il percorso di canonizzazione era cominciato con Pio XII, che la dichiarò venerabile, e con Giovanni Paolo II che la beatificò. Adesso, l’ultima riunione della Conferenza episcopale degli Usa riunitasi a Baltimora, su richiesta del vescovo Robert D. Gruss di Rapid Citu nel South Dakota, ha dato il via libera alla ricognizione nei confronti di Nicholas Black Elk del popolo Lakota, il celeberrimo Alce Nero della controcultura degli anni Sessanta e Settanta. Uno dei nomi cult delle generazioni della contestazione – Alce Nero parla figurava nelle biblioteche di quasi tutti gli adolescenti accanto ai libri di Garcia Marquez e di Tolkien, di Hermann Hesse e di Jack Kerouac e la sua immagine nei poster affissi in molte stanze – potrà finire dentro l’iconografia delle chiese del cattolicesimo dell’era Bergoglio. E non c’è niente di strano, perché il pellerossa si era convertito al cattolicesimo in epoca non sospetta. L’effetto- sorpresa è generato solo dal fatto che i famosi libri in cui si parla di lui non accennano mai al fatto che già nel 1887 Alce Nero, ventitreenne, aveva conosciuto il cattolicesimo tramite i gesuiti che vivevano nella sua riserva di Pine Ridges. I gesuiti, lo si sa bene, tendono a non considerare il messaggio evangelico come qualcosa di esclusivamente euro- occidentale, e lavorarono molto a sottolineare i tratti comuni con la spiritualità monoteista dei pellerossa. Quando un Sioux Lakota si convertiva al cattolicesimo non doveva conseguentemente rinnegare le ritualità fondamentali della religione che stava per abbandonare. I missionari gesuiti spiegavano agli indiani che c’era una continuità tra la religione dei Lakota e il cattolicesimo. Inoltre, accettarono gli usi e le tradizioni locali e preservarono gli aspetti della cultura locale non in aperto contrasto con il cristianesimo. E così il guerriero e sciamano Alce Nero – che a dodici anni aveva partecipato con Toro Seduto alla battaglia di Little Bighorn in cui fu sconfitto Custer, che a ventiquattro anni si recò in Europa col circo di Buffalo Bill e che, ancora nel 1890, parteciperà all’ultima battaglia degli indiani a Wounded Knee, dove i nativi americani vennero definitivamente sconfitti – nella seconda fase della sua vita avrà un’esistenza tutta all’insegna del cristianesimo. Nel 1892 si sposa con Katie War Bonnet, convertita al cattolicesimo, e i loro tre figli vengono tutti battezzati. E uno o due anni dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1903, anche Alce Nero fa il grande passo e si fa battezzare col nome di Nicola Alce Nero. Non solo: inizia a prestare servizio come catechista ed educatore cristiano, continuando a svolgere la missione di sciamano tra la sua gente, non ravvisando nessuna contraddizione fra le tradizioni del Wakan Tanka e il cristianesimo. Di più: Alce Nero dichiarò di conoscere il credo niceno e spiegò esplicitamente: «Io credo nei sette sacramenti della Chiesa cattolica. Io stesso ne ho ricevuti sei: battesimo, comunione, confessione, cresima, matrimonio ed estrema unzione. Per diversi anni ho accompagnato i missionari cattolici che percorrevano la riserva annunciando Cristo al mio popolo. Posso dire perciò di conoscere la mia religione meglio di molti bianchi. Posso spiegare le ragioni per cui credo in Dio». Nel 1905 si risposò con Anna Brings White, vedova con due figlie. Ed ebbero altri tre figli; Alce Nero rimase con la seconda moglie fino alla morte di lei, nel 1941. È morto nel 1950 e riposa nel cimitero cattolico di Sant’Agnese a Manderson- White Horse Creek, Dakota del Sud. Il suo nome, come dicevamo, divenne famoso in tutto l’Occidente dopo che a partire dal 1931 – quando lui era da tempo un cattolico praticante – incontrò due antropologi, John G. Neihardt e Joseph Epes Brown, ai quali raccontò il suo passato e rivelò i rituali spirituali e le tradizioni religiose dei Sioux. Quel corpus di interviste ad Alce Nero rappresenta uno dei pochi memoriali di un leader spirituale nativo americano della generazione contemporanea di Cavallo Pazzo, Toro Seduto e Nuvola Rossa. Neihardt pubblicò solo trent’anni più tardi – nel 1960 – il libro Alce Nero parla. Vita di uno stregone dei sioux Oglala, straordinaria narrazione che non riguardava solo le vicende personali dello sciamano, ma si intrecciava con la storia del suo popolo, in guerra con i bianchi, e con le sue visioni mistiche, che lo accompagnarono fin dall’infanzia. E mentre il libro diventava uno straordinario caso editoriale, i primi a reagire al ritratto non fedele di Alce Nero che ne scaturiva furono proprio i gesuiti, i quali fecero subito notare come l’autore censurava inspiegabilmente la fede cattolica di Alce Nero. Del resto, già prima, in una lettera indirizzata a Neihardt, era stato lo stesso Alce Nero a protestare perché nel manoscritto che lui aveva letto nel 1934 non veniva menzionata la sua convinta fede cattolica. Qualcosa, insomma, va a risarcire questa sorta di censura. Non a caso, nella Chiesa nord- americana Black Elk viene da tempo considerato una sorta di ponte per la fusione ideale tra la cultura lakota e quella cattolica. «Questa inculturazione può rivelare qualcosa della vera natura e della santità di Dio», ha detto lo stesso monsignor Gruss annunciando la nomina a postulatore diocesano di Bill White del popolo Lakota e candidato al diaconato. E più di qualcuno spera nella matrice gesuitica di papa Bergoglio che, forse non a caso, ha parlato positivamente della “spiritualità indigena” anche nella sua enciclica Laudato sì.

LA NOVANTENNE BEFANA.

Così la Befana (fascista) compie 90 anni, scrivono il 6 gennaio 2018 Silvia Morosi e Paolo Rastelli su "Il Corriere della Sera”. L’immagine di una vecchina, gobba e con il naso appuntito, che dispensa doni e in alcuni casi anche carbone, è una tradizione radicata in molti popoli e culture, del passato e del presente. Il personaggio della Befana, come la conosciamo oggi, deriva da una fusione di costumi, usanze, consuetudini, ma anche di riti e cerimonie che nei secoli si sono stratificati e che la religione cristiana (che celebra l’Epifania con l’arrivo dei Re Magi) non è riuscita a oscurare. A rendersi conto della presa di questa tradizione sulla popolazione fu anche il fascismo, che vide nelle “origini romane” della Vecchina con la scopa un valido aiuto per la “romanizzazione” del Paese. Insomma, nient’altro che uno strumento di propaganda. Recepire e pianificare – Nel 1928, novant’anni fa, il regime arrivò così a istituire la “Befana fascista”, poi diventata “Befana del Duce” per volontà del segretario del Partito nazionale fascista Achille Starace (per avallare il culto della personalità di Benito Mussolini). Al motto di “ad ogni bimbo, un balocco, un dolce ed un oggetto utile” vennero distribuiti alle famiglie indigenti, nell’Italia grande proletaria, “pacchi della Befana” con pane, generi di prima necessità, zucchero, caffè, giocattoli. Il luogo preposto alla felicità dei beneficiari era la Casa del Fascio, che divenne sinonimo di casa di gioia e abbondanza. La genesi giornalistica – L’idea di riprendere la tradizione, con nuova enfasi, era nata anche per dare visibilità sul territorio ai Fasci femminili e all’Opera Nazionale Dopolavoro. Fu il giornalista Augusto Turati – scelto dal Duce come nuovo segretario nazionale del partito in sostituzione di Roberto Farinacci, nel quadro di normalizzazione dello squadrismo – che ordinò alle Federazioni provinciali del Pnf di sollecitare le donazioni in occasioni di questa festa da parte di commercianti, industriali e agricoltori, la cui gestione sarebbe stata curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste. Mussolini mette il cappello – A partire dal 1934, dopo la caduta in disgrazia di Turati (rispetto ad altre personalità del regime, aveva aderito al movimento fascista relativamente tardi, tra il 1920 e il 1921. Da caporedattore de “La Provincia di Brescia”, quotidiano moderato, aveva poi collaborato con il Corriere della Sera e diretto nel gennaio del 1931 La Stampa), la “Befana fascista” mutò la denominazione (per poco) – come ricordavamo sopra – in “Befana del Duce” o “Natale del Duce”. È bene ricordare che l’unico Natale riconosciuto da Mussolini era quello romano del 21 dicembre, e che l’inizio dell’anno era stato spostato al 28 ottobre per ricordare l’anniversario della Marcia su Roma, atto di nascita ufficiale del regime. L’iniziativa continuò anche durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, riprendendo la denominazione “Befana fascista” dopo l’instaurazione della Repubblica Sociale Italiana. La Befana di tutti – La nuova Età dell’Oro era iniziata. Significativa, ad esempio, fu la “Befana fascistaante litteram” organizzata a Buenos Aires dalla sezione argentina dell’Associazione lavoratori fascisti all’estero, che il 6 gennaio 1927 vide una grande partecipazione di emigrati italiani, con la distribuzione di 1.500 doni. Senza dimenticare che nel 1931, terzo anno dell’iniziativa, i pacchi raccolti furono oltre un milione. A quel punto Mussolini volle intestarsi direttamente l’operazione. La “Befana Fascista”, figlia dello stato corporativo mussoliniano, si frantumò in una miriade di befane postbelliche organizzate dalle categorie sociali e lavorative: la Befana dei tramvieri, quella dei vigili urbani, quella dei ferrovieri. Tanto che alla fine se ne impossessò la figura più materna della Repubblica: la Rai. Distribuendo anch’essa i suoi pacchi.

BUON COMPLEANNO AL CIAO.

Ciao compie (solo) 200 anni: è la parola italiana più celebre dopo «pizza». Esaltata dai partigiani e al Festival di Saremo, la sua prima attestazione scritta risale al 1818 (e a Milano), scrive Paolo Di Stefano il 23 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

«Ciao ciao bambina». Nel 1959 Domenico Modugno vinse a Sanremo con Johnny Dorelli cantando Piove. In realtà quella canzone resterà nella memoria per il ritornello: «Ciao ciao bambina», che presto si diffonderà all’estero nella trascrizione inglese «Chiow Chiow Bambeena», in quella tedesca «Tschau Tschau Bambina», in quella spagnola «Chao chao bambina». Dalida la cantò nella versione francese. Il linguista Nicola De Blasi (nel libro «Ciao», pubblicato dal Mulino) sostiene che la canzone di Modugno e di Dino Verde rappresentò la svolta decisiva nella fortuna internazionale della parola «ciao», la forma di saluto più familiare che si conosca non solo in Italia. In realtà, segnala De Blasi, il termine era già noto oltre i confini nazionali: in un romanzo francese di Paul Bourget del 1893, un personaggio diceva in italiano «Ciaò, simpaticone» e nei primi del Novecento veniva suonato un valzer intitolato «Ciao». Il saluto filtrò ben presto nei film neorealisti e nelle commedie all’italiana nel momento in cui il nostro cinema aveva un successo mondiale.

Dal cinema ai giornali. Nel film di Monicelli I soliti ignoti, del 1958, Gassman saluta l’amico Capannelle ricoverato in ospedale con le parole «Addio, ciao, bello». Insomma, il nostro «ciao» si diffonde nel mondo sulle ali del boom economico come «icona quasi fonosimbolica» e del diffondersi del «tu» nei rapporti personali. Tant’è che nel 1967, l’anno tragico per Sanremo in cui Tenco presenta Ciao amore ciao, la Piaggio decide di battezzare «Ciao» un suo motorino che con lo slogan pubblicitario «Bella chi ciao» punta sul pubblico giovanile. E ai lettori giovani, l’anno dopo, si rivolge anche il settimanale illustrato «Ciao 2001», mentre a grandi e bambini viene proposta la crema al cioccolato «Ciaocrem».

Nelle canzoni. Il ’68 è l’anno in cui sempre a Sanremo Luis Armstrong duetta con Lara Saint Paul cantando Ciao, stasera son qui. L’irresistibile ascesa di «ciao» giunge all’apoteosi nel 1990 con la mascotte eponima dei Mondiali di calcio. E attualmente, dopo «pizza», «ciao» è la parola italiana più pronunciata nel mondo fino a «ciao raga», «ciao neh», «ciaone». «Questa mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao»: va detto che il canto intonato dai partigiani, che si sarebbe imposto molto dopo come inno politico di resistenza e di liberazione, fu lanciato grazie anche a iniziative commerciali prestigiose come il disco di canti popolari italiani interpretati da Yves Montand. Il più celebre etnomusicologo, Roberto Leydi, dimostrò che Bella ciao è radicata nella tradizione popolare perché risale a un canto piemontese dell’Ottocento dove però manca la parola «ciao», che invece compare in un canto delle mondine anni Quaranta.

Le prime testimonianze. E pensare che l’origine della parola non ha nulla a che fare con la confidenza, se è vero, come è vero, che «ciao» deriva dal latino «sclavum», variante di «slavum» quando a essere ridotte in schiavitù erano le genti di provenienza slava. A partire dal Quattrocento si introduce l’abitudine di salutare qualcuno dichiarandosi suo schiavo (il friulano «mandi» proviene da «comandi»): da qui la parola «ciao» che origina dal veneziano «s’ciavo», schiavo, appunto. Ma c’è un compleanno che quest’anno va festeggiato: è esattamente di due secoli fa la prima attestazione scritta di «ciao» (che naturalmente doveva esistere in forma orale già da un po’), la stessa parolina che immettiamo decine di volte al giorno chattando su Facebook o su WhatsApp. Il 1818 è l’anno in cui il tragediografo cortonese Francesco Benedetti in una lettera accenna alle gentilezze ricevute da una signora che lo conduce alla Scala e dai milanesi in genere: «Questi buoni Milanesi cominciano a dirmi: Ciau Benedettin». D’altra parte un anno dopo la scrittrice inglese Lady Sidney Morgan allude al comportamento di alcuni spettatori che in un palco della Scala si scambiano un «cordial ciavo». Altra conferma del bicentenario arriva da una lettera della contessa veronese Giovanna Maffei, che nel 1818 riferisce al marito i saluti del figlio ancora bambino: «Peppi à appreso a dire il tuo nome, e mi disse di dir ciao a Moti». Oggi la funzione fonosimbolica si è moltiplicata, se al telefono, nella fretta del congedo, non facciamo che ripetere: cià cià cià cià cià cià…

SE TI TOCCA, TI TOCCA. LA RIVINCITA DEL DESTINO.

La rivincita del destino, scrive Massimo M. Veronese, Mercoledì 14/03/2018, su "Il Giornale". Sembrano storie ai confini della realtà, ma sono tragicamente vere. Ti mettono addosso quello strano brivido di inquietudine che ti prende quando all'inevitabile si sposa l'inspiegabile. Soffocano il sospiro di sollievo, capovolgono lo scampato pericolo. L'operaio egiziano che la morte perdona liberandolo da un treno che si incendia e fa strage di pendolari e che la vita condanna buttandolo sotto un treno merci dieci giorni dopo, per sbaglio o forse no. O lo studente americano che sfugge alla furia omicida di Seung-Hui Cho, suo compagno di scuola, nel campus di Virginia Tech per schiantarsi in auto per motivi incomprensibili quattro giorni dopo. Siamo padroni del nostro destino o esiste il destino, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo o forze oscure decidono al nostro posto? Se lo sono chiesti la religione, la filosofia, le scienze, e anche noi, più di una volta nella vita prima di passare rapidamente a pensare ad altro. Di certo le storie che vi raccontiamo qui sotto, e non sono nemmeno tutte, scrivono quasi la trama di Final destination, il primo di una pentalogia di film americani con un filo conduttore che sembra un nodo scorsoio: la morte che torna a riprendersi le persone che hanno osato sfidarla, i sopravvissuti a una tragedia che per una strana serie di circostanze muoiono negli incidenti più assurdi e incredibili. Non sono i sopravvissuti doppi e tripli che spuntano a ogni nuova tragedia. Questi sono la seconda chance che il fato, o la coincidenza, non ti regala. Jean de La Fontaine diceva: spesso s'incontra il proprio destino nella via che s'era presa per evitarlo. Occhio al navigatore...

Il riservista scampato all'11 settembre ucciso in un agguato a Baghdad. Dipendente della Port Authority, con ufficio al 68/esimo piano della Torre Nord, Frank Carvil, 52 anni, sarebbe morto nel tragico impatto del primo aereo contro le Torri gemelle se non avesse lasciato la scrivania pochi minuti prima della tragedia per un appuntamento improvviso. Riservista della Guardia Nazionale era stato però richiamato in servizio per combattere in Irak, nel Terzo Battaglione del 112/esimo reparto di Artiglieria. Il convoglio militare su cui viaggia viene assalito dai terroristi alla periferia di Baghdad. Muoiono in due, tre si salvano. Era il suo ultimo giorno di guerra. Poche ore dopo sarebbe tornato a casa. Per sempre.

Detenuto si salva dalla sedia elettrica e poi muore fulminato dal televisore. Michael Anderson Godwin era un assassino. Nel 1980, poco più che ventenne, aveva violentato e ucciso una ragazza poco più grande di lui, Mary Elizabeth Royem: i poliziotti trovarono il corpo seviziato in un appartamento del West Columbia. Per questo era stato condannato a morte, ma gli avvocati erano riusciti a trasformare la morte in carcere a vita. Anche lui, come la sua vittima, è stato trovato dagli agenti, durante un'ispezione di routine nel carcere di Columbia. Nudo, seduto sulla seggetta metallica della toilette, fulminato dalla scarica elettrica del televisore che stava cercando di aggiustare. Giustiziato dal filo scoperto di una cuffia.

Esce illeso dall'elicottero precipitato Due giorni dopo si schianta in aereo. Era appena stato dimesso dall'ospedale e doveva solo ringraziare il cielo. L'elicottero che pilotava si era schiantato contro una casa e lui ne era uscito con qualche graffio e un paio di botte, cioè niente, praticamente un miracolato. Non aveva però voluto sentire ragioni quando i medici gli avevano imposto riposo precauzionale e un periodo di osservazione. Michael Antinori, 30 anni, pilota provetto, aveva preso la porta e se n'era andato. Per prendere i comandi di un monomotore Cessna e volare dalla famiglia. Un volo durato 8 chilometri e finito in fiamme in un boschetto di Hillsborough Count, in Florida. Il cielo non perdona due volte.

Sopravvive all'attentato di Boston. Le è fatale una Ferrari gialla a Dubai. La sua foto era diventata il simbolo della strage alla maratona di Boston, 3 morti e 240 feriti, con il suo giubbottino nero, i piedi insanguinati, portata via di corsa da un vigile del fuoco, Tyler Dodd. Le schegge della prima delle due bombe piazzate dai fratelli Carnaev le spezzano le gambe, ma Victoria McGrath, 20 anni, studentessa e baby sitter, esce dal Tufts Medical Center sicura di avere una vita davanti. Le è fatale una Ferrari 458 Spider gialla che tre suoi amici noleggiano a Dubai per fare festa: si schianta a tutta velocità e prende fuoco. Non si salva nessuno. In tv dopo la strage aveva detto: «Non so che piani abbia Dio per me...».

Schiva la morte sulle Twin Towers Ma è vittima della strage del Queens. Feliz Sanchez, 28 anni, si era licenziato dalla banca d'affari Merrill Lynch il giorno prima dell'attentato al World Trade Center. Hilda Yolanda Mayor, 26 anni, dopo lo schianto, era scappata dal ristorante al primo piano delle Twin Towers dove lavorava. Lui, due mesi dopo, prende un Airbus dell'American Airlines diretto a Santo Domingo, dove avrebbe cominciato a lavorare per una squadra di baseball, lei sale sullo aereo per volare in vacanza. L'Airbus si schianta nel Queens, un borough di New York: 265 morti, sopravvissuti zero. «Feliz - dice il suo amico Cid Wilson - era convinto che per lui stesse cominciando una seconda vita...».

Chi evita l'incendio e muore bruciato Chi evita l'alluvione e muore in doccia. Il destino crudele ha a volte dettagli assurdi, sigilla le vite con un ghigno beffardo. É quello che succede a Donald Kellar, trentenne di Ridgeland, nel North Carolina. Il giorno di Natale, trentaquattro anni fa, se la cava per un soffio dal violento incendio che gli devasta la casa, sono i pompieri a tirarlo fuori di lì. A Capodanno gli stessi pompieri lo trovano morto carbonizzato dentro la propria auto incendiatasi in un parcheggio per un ritorno di fiamma. Ad Alessandro Taverna invece, 17enne di Crescentino, in provincia di Vercelli, è un gommone di fortuna a salvarlo dall'alluvione del Piemonte. Il padre lo trova morto in casa. Sotto la doccia.

I MOSTRI SIAMO NOI...

Frankestein fa 200 anni, ma parla anche di noi. Il primo libro di fantascienza della storia che fu scritto da una ragazza di soli 19 anni: Mary Shelley, scrive Daniele Zaccaria il 22 Settembre 2018 su "Il Foglio". Un’estate fredda e piovosa, quella del 1816, un gruppo di amici in vacanza sul lago di Ginevra. La sera bevono vino rosso, flirtano, scherzano e discutono; di poesia, di scienza, di letteratura, del futuro, il loro gioco preferito è un concorso letterario in cui ti devi inventare storie di fantasmi, racconti estemporanei costruiti sulla falsariga del romanzo gotico, genere snobbato dalla critica letteraria dell’epoca. Ci vuole immaginazione e rapidità di pensiero, la più brava di tutti è Mary, che è anche la più giovane, 19 anni e un talento mostruoso. È figlia della filosofa femminista Mary Wollstonecraft e del romanziere e giornalista William Godwin, il gusto letterario, l’amore per le scienze, un clima di sferzante anticonformismo accompagnano tutta la sua infanzia. Con lei a Ginevra ci sono i poeti George Byron e Percy Shelley che presto diventerà suo marito, il medico e aspirante scrittore John Polidori che nel 1819 pubblicherà Il Vampiro, primo romanzo della letteratura moderna dedicato al celebre succhiasangue. Ogni tanto viene a trovarli il fisico e chimico Humphry Davy, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, scopritore e mentore del grande Michael Faraday, a sua volta pioniere dell’elettromagnetismo. È in quelle eccentriche notti a Villa Diodati tra fumi dell’alcol e i lampi di genio che Mary Shelley concepisce il suo Frankestein, che non è solo un libro fantasy ma il primo grande romanzo di fantascienza. Il mostro, anzi la Creatura non è il frutto di un sortilegio, non è il prodotto di oscure forze del male o di astruse stregonerie, al contrario è figlio della ricerca scientifica, nasce in laboratorio, il suo fattore è un essere umano, la scintilla della vita è un “fluido galvanico” che rianima le fibre morte di carni ricucite, come il medico italiano Galvani faceva contrarre i muscoli dei cadaveri di rana, Viktor Frankestein, professore di filosofia naturale, crea un essere umano dotato di coscienza, capace di provare sentimenti estremi come la paura e l’odio e di consumare una tremenda vendetta nei confronti del “padre”. Nella sua prefazione Mary Shelley rende omaggio alle esperienze di Galvani, ai lavori di Benjamin Franklin, alle ricerche poco note di un anatomista chiamato George von Frakenau che sosteneva la tesi della rigenerazione spontanea della materia inerte. Aderisce al meccanicismo filosofico che utilizza la metafora della macchina come schema di spiegazione dei fenomeni naturali. Studi di sapienti e accademici che legge con passione, per accrescere la sua cultura personale ma soprattutto per trarre ispirazione letteraria. Viktor Frankestein non è ancora un uomo di scienza a tutto tondo, vive in bilico tra esoterismo e ragione, cerca suggestioni anche nel mondo della magia e dell’alchimia, ha letto i libri di Cornelius Agrippa, un occultista del Rinascimento, si entusiasma per gli scritti di Paracelso e rimprovera ai suoi colleghi di condurre studi banali e privi di coraggio. Ma è anche il miglior studente di anatomia e fisiologia alla prestigiosa Università di Ingolstadt e il più innovativo ricercatore dell’epoca; ammira la magìa per la sua sfrontatezza, per le biografie “storte” dei suoi fautori, ma realizzerà il sogno di penetrare il segreto della vita seguendo il metodo scientifico. Il flusso elettrico che attraversa e anima le carni morte ha la stessa intensità dei Lumi della ragione che brillavano in Europa. Il tragico corso di eventi che nasce dal rifiuto della Creatura le cui sembianze abnormi provocano estremo ribrezzo in Viktor, non è un monito moralista rivolto alla superbia degli scienziati che osano “sostituirsi a Dio” come hanno scritto in molti. La malvagità della Creatura è la reazione a una società che non ha la forza e la maturità di accettare il diverso, il difforme, e che lo emargina rendendolo un mostro incattivito. La vendetta feroce della Creatura che uccide il fratello e la moglie del suo creatore è in fondo una reazione umanissima di un uomo odiato da tutti a causa del suo aspetto esteriore. In questo Viktor Frankestein ha avuto un successo perfetto, ha creato un essere umano con tutte le sue debolezze e imperfezioni, con il suo bisogno di amore e la sua sete di rivalsa. Eppure nel corso dei secoli l’immagine della Creatura, confusa con il nome del suo creatore, ha subito una progressiva “mostrificazione” rappresentata poi nel cinema dal colosso con la testa quadrata cosparso di cicatrici, tutto grugniti e movenze robotiche, un figuro bestiale e repellente privo di intelligenza e senso morale. Andando nei dettagli Mary Shelley non descrive la sagoma espressionista di Boris Karlov che tanta fortuna ha avuto nell’immaginario collettivo, ma un uomo affetto da gigantismo e dall’aspetto molto sgradevole, nulla di più. Una creatura intelligente, che impara a leggere e a scrivere, che capisce i sentimenti degli umani e si allontana da loro per sopravvivere fino al tragico suicidio quando si dà fuoco tra i ghiacci dell’Artico. Ma noi continuiamo a immaginarlo e a rappresentarlo come “Frankestein il mostro”, una specie di zombie formato gigante. Perchè questo slittamento? I mostri in fondo ci rassicurano perché sono corpi estranei. Eccezioni alla regola, anomalie selvagge che non appartengono all’umano. Presenze minacciose, certo, ma soprattutto entità aliene e reiette dalla comunità. Le sembianze ibride e deformi fungono da segni visibili delle sventure di cui il mostro è portatore, mentre le sue mille metamorfosi seguono il corso dell’immaginario popolare in modo che ogni epoca sia in grado di partorire e di specchiarsi nei suoi peculiari mostri. Le società hanno un bisogno disperato di fabbricarli proprio perché, strappano l’orrore dalla sua dimensione anodina e quotidiana per assegnarlo al cliché dello straordinario, le loro incursioni nel mondo reale sono tanto spaventose quanto effimere. Nominato, isolato, eliminato il mostro, tutto sembra tornare nella norma. Nell’antichità il terrore e il ribrezzo suscitati dai mostri sono spesso associati allo stupore, alla contemplazione dei portenti e delle mirabilia di cui queste creature sono capaci, dei fantasmagorici poteri che sovvertono le leggi della fisica e della natura come l’invisibilità, l’invulnerabilità o addirittura l’immortalità. Se non proprio epifanie diaboliche i mostri sono la faccia oscura del divino, una punizione inviata dal cielo per castigare le nefandezze commesse dagli uomini come scriveva lo storico romano del IV secolo Giulio Ossequiente nel celebre Libro dei prodigi, il più accurato elenco di testimonianze di fatti insoliti, miracolosi e terrificanti avvenuti nel mondo classico. I protagonisti di cataloghi infernali, di racconti immaginifici popolati da chimere, basilischi, fenici, arpie, centauri, cerberi, ciclopi e centinaia di altri esseri dalle indecifrabili fattezze, accompagnano la nostra tradizione religiosa e letteraria, dalla notte dei tempi. Danno forma e corpo a inquietudini ancestrali e a timori atavici, ma sono anche squarci meravigliosi dell’immaginazione umana, straordinarie metafore della nostra capacità di creazione. Nel suo Manuale di zoologia fantastica Borges ci offre una incredibile parata di creature soprannaturali, come il Burak, cavalcatura celeste di Maometto capace di viaggiare nel tempo, o l’Anfesibe, serpente immaginario che sgretola la linearità dello spazio perché «si muove in due direzioni allo stesso tempo, possedendo due estremità anteriori». Frankestein appartiene anch’egli al catalogo multiforme delle creature fantastiche, ma non è un mostro, non è un’allegoria, la sua esistenza appartiene al campo del possibile, almeno per quel che immaginavano gli scienziati del 19esimo secolo. Il vero mostro moderno non fa più parte dell’antico bestiario. Se il freak, lo storpio, il menomato (dalla donna-scimmia, all’uomo elefante), nella loro innocua diversità provocano un disgusto misto a sincera compassione, colui che si macchia di atti e comportamenti mostruosi (ovvero antisociali) non merita alcuna comprensione o pietà. La sua nemesi si svolge all’ombra di patiboli, torce e forconi e linciaggi: che si tratti un ammasso di cadaveri ricuciti o di un realissimo serial killer di una grande metropoli, il mostro viene sempre catturato e giustiziato. Ecco un’altra trama consolatoria che abbiamo costruito attorno all’errare dei mostri: farli diventare il capro espiatorio del nostro malessere. Ma questi individui- mostro costituiscono ancora una volta un’eccezione alla regola, le loro azioni efferate non rispecchiano la morale pubblica ma la infrangono, non esprimono un sentimento collettivo, ma rimangono a loro modo “straordinarie”. Nei suo film a episodi I Mostri (1963) il regista Dino Risi compie invece l’operazione opposta: il mostruoso viene infatti ricollocato nel cerchio della normalità, il campionario di bassezze sfoggiato dai protagonisti, il familismo amorale, la loro incapacità patologica nel diventare cittadini, membri consapevoli di una comunità, è lo specchio rovesciato del boom economico e dei suoi sentimenti puliti. Dietro l’ottimismo di una società che corre spensierata verso un avvenire virtuoso si muove un popolo cialtrone, dall’indole meschina, ipocrita e, all’occasione, anche spietata. Sono i nostri genitori, i nostri cugini, i nostri amici più stretti, i nostri vicini di casa: non più fenomeni da baraccone e terrificanti anomalie, ma viziosi quanto banali compagni di vita. Così la commedia di costume umanizza il mostro e mostrifica la società in cui esso vive. E nessuno può più dichiararsi innocente e irresponsabile rispetto alle piccole, grandi nefandezze che commettiamo ogni giorno. Proprio come ci insegna il Frankestein di Mary Shelley, perché i veri mostri siamo noi.

I 25 ESERCITI PIU’ POTENTI AL MONDO.

I 25 eserciti più potenti al mondo. L’Italia è undicesima, tra Egitto e Germania, scrive Christopher Woody il 27/11/2018 su it.businessinsider.com. Con la sua strategia di difesa nazionale rilasciata all’inizio di quest’anno, gli Stati Uniti hanno dettagliato il passaggio da operazioni su piccola scala come la contro-insurrezione verso un potenziale combattimento con un rivale come la Russia o la Cina. I paesi di tutto il mondo hanno fatto passi simili, rifocalizzandosi su un conflitto su vasta scala. In mezzo a questi cambiamenti, è difficile trovare un confronto diretto tra forze militari. Il Military Strenght Ranking del 2017, compilato da Global Firepower cerca di colmare questo vuoto ricorrendo a oltre 55 fattori per assegnare un punteggio all’indice della forza militare a 136 paesi, aggiungendo Irlanda, Montenegro e Liberia alla lista dell’anno scorso. La classifica valuta la diversità degli armamenti posseduti da ciascun paese e pone un’attenzione particolare ai militari effettivi a disposizione. Vengono presi anche in considerazione la geografia, le capacità logistiche, le risorse naturali disponibili e lo status dell’industria locale. Mentre gli armamenti nucleari riconosciuti ricevono un punteggio extra, le riserve nucleari non sono calcolate nel punteggio. Inoltre, alle nazioni senza sbocco sul mare non vengono detratti punti per l’assenza della marina, anche se sono penalizzate per non avere una flotta mercantile. Gli stati con una marina militare sono penalizzati se non c’è diversità nei loro mezzi navali. Gli stati che aderiscono alla Nato hanno un leggero bonus perché teoricamente la coalizione condividerebbe le risorse, ma in generale non è stata presa in considerazione l’attuale leadership politica e militare di una nazione. Il punteggio dell’indice di potere superiore è 0.0000, che è “realisticamente irraggiungibile” per qualsiasi apparato militare secondo Global Firepower. Più si avvicinano a questo numero, più potente è il loro esercito. Ecco quindi i 25 eserciti più potenti al mondo:

25.  Canada. 

Indice della forza militare: 0,4356 (Nato)

Popolazione totale: 35.623.680

Personale militare complessivo: 88.000

Forza aerea complessiva: 413

Aerei da combattimento: 60

Carri armati: 80

Unità navali complessive: 63

Budget della difesa: 16,4 miliardi di dollari

24. Taiwan.

Indice della forza militare: 0,4331

Popolazione totale: 23.508.428

Personale militare complessivo: 1.932.500

Forza aerea complessiva: 843

Aerei da combattimento: 286

Carri armati: 2.005

Unità navali complessive: 87

Budget della difesa: 10,725 miliardi di dollari

23. Algeria

Indice della forza militare: 0,4296

Popolazione totale: 40.969.443

Personale militare complessivo: 792.350

Forza aerea complessiva: 528

Aerei da combattimento: 97

Carri armati: 2.405

Unità navali complessive: 85

Budget della difesa: 10,57 miliardi di dollari

22. Polonia

Indice della forza militare: 0,4276 (Nato)

Popolazione totale: 38.476.269

Personale militare complessivo: 184.650

Forza aerea complessiva: 466

Aerei da combattimento: 99

Carri armati: 1.065

Unità navali complessive: 83

Budget della difesa: 9,36 miliardi di dollari

21. Australia

Indice della forza militare: 0,4203

Popolazione totale: 23.232.413

Personale militare complessivo: 79.700

Forza aerea complessiva: 469

Aerei da combattimento: 78

Carri armati: 59

Unità navali complessive: 47 (due portaerei)

Budget della difesa: 23,3 miliardi di dollari

20. Vietnam

Indice di forza militare: 0,4098

Popolazione totale: 96.160.163

Personale militare complessivo: 5.488.500

Forza aerea complessiva: 283

Aerei da combattimento: 76

Carri armati 1.545

Unità navali complessive: 65

Budget della difesa: 3,365 miliardi di dollari

19. Spagna

Indice di forza militare: 0,4079 (Nato)

Popolazione totale: 48.958.159

Personale militare complessivo: 174.700

Forza aerea complessiva: 524

Aerei da combattimento: 122

Carri armati 327

Unità navali complessive: 46 (una portaerei)

Budget della difesa: 11,6 miliardi di dollari

18. Corea del Nord

Indice della forza militare: 0,3876

Popolazione totale: 25.248.140

Personale militare complessivo: 6.445.000

Forza aerea complessiva: 944

Aerei da combattimento: 458

Carri armati: 5.243

Unità navali complessive: 967

Budget della difesa: 7,5 miliardi di dollari

17. Pakistan

Indice di forza militare: 0,3389

Popolazione totale: 204.924.861

Personale militare complessivo: 919.000

Forza aerea complessiva: 1.281

Aerei da combattimento: 321

Carri armati: 2.182

Unità navali complessive: 197

Budget della difesa: 7 miliardi di dollari

16. Israele

Indice di forza militare: 0,3444

Popolazione totale: 8.299.706

Personale militare complessivo: 615.000

Forza aerea complessiva: 596

Aerei da combattimento: 252

Carri armati: 2.760

Unità navali complessive: 65

Budget della difesa: 20 miliardi di dollari

15. Indonesia

Indice di forza militare: 0,3266

Popolazione totale: 260.580.739

Personale militare complessivo: 975.750

Forza aerea complessiva: 478

Aerei da combattimento: 41

Carri armati: 418

Unità navali complessive: 221

Budget della difesa: 6,9 miliardi di dollari

14. Brasile

Indice di forza militare: 0,3918

Popolazione totale:207.353.391

Personale militare complessivo: 1.987.000

Forza aerea complessiva: 723

Aerei da combattimento: 43

Carri armati: 469

Unità navali complessive: 110

Budget della difesa: 29,3 miliardi di dollari

13. Iran

Indice della forza militare: 0,3131

Popolazione totale: 82.021.264

Personale militare complessivo: 934.000

Forza aerea complessiva: 505

Aerei da combattimento: 150

Carri armati: 1.650

Unità navali complessive: 398

Budget della difesa: 6,3 miliardi di dollari

12. Egitto

Indice di forza militare: 0,2751

Popolazione totale: 97.041.072

Personale militare complessivo: 1.329.250

Forza aerea complessiva: 1.132

Aerei da combattimento: 309

Carri armati: 4.946

Unità navali complessive: 319 (due portaerei)

Budget della difesa: 4,4 miliardi di dollari

11. Italia

Indice di forza militare: 0,2565 (Nato)

Popolazione totale: 62.137.802

Personale militare complessivo: 267.500

Forza aerea complessiva: 828

Aerei da combattimento: 90

Carri armati: 200

Unità navali complessive: 143 (due portaerei)

Budget della difesa: 37,7 miliardi di dollari

10. Germania

Indice di forza militare: 0,2461 (Nato)

Popolazione totale: 80.594.017

Personale militare complessivo: 208.641

Forza aerea complessiva: 714

Aerei da combattimento: 94

Carri armati: 432

Unità navali complessive: 81

Budget della difesa: 45,2 miliardi di dollari

9. Turchia

Indice di  forza militare: 0,2216

Popolazione totale: 80.845.215

Personale militare complessivo: 710.565

Forza aerea complessiva: 1.056

Aerei da combattimento: 207

Carri armati: 2.446

Unità navali complessive: 194

Budget della difesa: 10,2 miliardi di dollari

8. Giappone

Indice della forza militare: 0,2107

Popolazione totale: 126.451.398

Personale militare complessivo: 310.457

Forza aerea complessiva: 1.508

Aerei da combattimento: 290

Carri armati: 679

Unità navali complessive: 131 (quattro portaerei)

Budget della difesa: 44 miliardi di dollari

7. Corea del Sud

Indice di forza militare: 0,2001

Popolazione totale: 51.181.299

Personale militare complessivo: 5.827.250

Forza aerea complessiva: 1.560

Aerei da combattimento: 406

Carri armati: 2.654

Unità navali complessive: 166 (una portaerei)

Budget della difesa: 40 miliardi di dollari

6. Regno Unito

Indice di forza militare: 0,1917 (Nato)

Popolazione totale: 64.769.452

Personale militare complessivo: 279.230

Forza aerea complessiva: 832

Aerei da combattimento: 103

Carri armati 227

Unità navali complessive: 76 (due portaerei)

Budget della difesa: 50 miliardi di dollari

5. Francia

Indice della forza militare: 0,1869 (Nato)

Popolazione totale: 67.106.161

Personale militare complessivo: 388.635

Forza aerea complessiva: 1.262

Aerei da combattimento: 199

Carri armati: 406

Unità navali complessive: 118 (quatto portaerei)

Budget della difesa: 40 miliardi di dollari

4. India

Indice di forza militare: 0,1417

Popolazione totale: 1.281.935.911

Personale militare complessivo: 4.207.250

Forza aerea complessiva: 2.185

Aerei da combattimento: 590

Carri armati: 4.426

Unità navali complessive: 295 (tre portaerei)

Budget della difesa: 47 miliardi di dollari

3. Cina

Indice di forza militare: 0,0852

Popolazione totale: 1.379.302.771

Personale militare complessivo: 2.693.000

Forza aerea complessiva: 3.035

Aerei da combattimento: 1.125

Carri armati: 7.716

Unità navali complessive: 714 (una portaerei)

Budget della difesa: 151 miliardi di dollari

2. Russia

Indice di forza militare: 0,0841

Popolazione totale: 142.257.519

Personale militare complessivo: 3.586.128

Forza aerea complessiva: 3.914

Aerei da combattimento: 818

Carri armati: 20.300

Unità navali complessive: 352 (una portaerei, fuori servizio)

Budget della difesa: 47 miliardi di dollari

1. Stati Uniti

Indice di forza militare: 0,0818 (Nato)

Popolazione totale: 326.625.791

Personale militare complessivo:  2.083.100

Aerei complessivi: 13.362

Aerei da combattimento: 1.962

Carri armati: 5.884

Unità navali complessive: 415 (20 portaerei)

Budget della difesa: 647 miliardi di dollari

Quei pacifisti per forza che cancellano la storia. La "politica di potenza" è inevitabile tra gli Stati. Ai tempi della Grande guerra proprio come oggi, scrive Dino Cofrancesco, Giovedì 29/11/2018, su "Il Giornale". Negli articoli e saggi scritti durante gli anni della grande guerra, Max Weber, così giustificava lo scatenamento del conflitto da parte della Germania imperiale: «Un popolo di 70 milioni di abitanti, posto tra le potenze conquistatrici del mondo, aveva il dovere di diventare uno Stato di grande potenza. Dovevamo essere una grande potenza, e per poter far sentire anche il nostro peso nelle grandi decisioni del mondo, dovevamo arrischiare questa guerra. Avremmo dovuto farlo anche se avessimo potuto temere di soccombere. L'imponeva l'onore del nostro patrimonio etnico-culturale. Non è in gioco solo la nostra esistenza. Solo l'equilibrio reciproco delle grandi potenze garantisce la libertà dei piccoli Stati. Se non avessimo voluto arrischiare questa guerra, ebbene, allora avremmo potuto rinunziare alla creazione del Reich e avremmo potuto continuare ad esistere come un popolo di piccoli Stati». Oggi queste sembrano a noi «parole di colore oscuro». Se pensiamo all'inferno delle trincee evocato in film come Orizzonti di gloria di Kubrick o La Grande guerra di Monicelli alle devastazioni di territori un tempo fertili, alle vittime di strategie militari che sottovalutavano la potenza delle nuove tecnologie, alle lacerazioni sociali, morali e culturali di un dopoguerra che vide la nascita di opposti totalitarismi e di movimenti radicali responsabili, col terrore, di carneficine quantitativamente ben superiori a quelle belliche, alla irrimediabile finis Europae e all'ascesa di grandi potenze extraeuropee, ci è difficile non dare ragione al Papa che, nel 1917, avrebbe voluto mettere fine all'«inutile strage». Sennonché, come ha avvertito Rosario Romeo, uno storico la cui altezza d'ingegno era pari soltanto alla sua probità morale, col metro di Benedetto XV, non si comprende il passato. In una visione ispirata all'assolutismo etico, non solo la prima guerra mondiale ma «le rivoluzioni nazionali del '48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate», diventano inutili massacri. Anzi, l'intera vicenda umana finirebbe per «apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi, aspirazioni ed ideali». L'unico scienziato politico italiano che si sia occupato dell'azzardo del 1915, Gian Enrico Rusconi, è arrivato a conclusioni non dissimili. «È tempo, ha scritto, di riprendere e rivisitare i paradigmi classici della politica e della guerra e di ripercorrere con essi il processo decisionale che ha portato l'Italia dentro alla catastrofe originaria del secolo passato mentre poteva non entrarci o entrarci in altro modo. Per noi oggi è facile criticare la predominanza dei paradigmi dello stato di potenza che influenzano il ceto dirigente italiano del 1915, soprattutto quando si esprimono in modo esclusivo nella dimensione militare. Ma non possiamo proiettare antistoricamente i nostri attuali criteri di giudizio etico-politico che si sono formati proprio sulle esperienze negative di quel passato in contesti politici che vanno giudicati secondo altri criteri». Riportandoci ai contesti, la guerra civile europea non nacque da impulsi irrazionali e tribali ma da logiche specifiche e tipiche del tempo, da un gioco del potere finito in maniera catastrofica per vinti e per vincitori, incapaci di tenere sotto controllo un rischio che si voleva calcolato. Non pertanto le loro motivazioni erano campate in aria. E ciò valeva non solo per la Germania che, nel 1913, avendo superato come potenza industriale, l'Inghilterra, rimasta signora degli Oceani, se ne sentiva il fiato sul collo ma anche per l'Italia. Come rilevò il principe della storiografia liberale britannica, George Macaulay Trevelyan, che aveva trascorso più di tre anni al fronte italiano: la nazionalità d'Italia era «incompleta, e la sua indipendenza politica minacciata». Perciò essa doveva unirsi alla guerra comune contro quella Potenza che, vincendo, avrebbe «distrutto la sua indipendenza e che da lungo tempo» aveva «minato con la penetrazione pacifica le fondamenta della sua nazionalità incompleta». Non a caso «gli idealisti della Penisola, quasi senza eccezione, divennero il partito della guerra, poiché videro nella guerra contro le Potenze Centrali l'unica via per salvare l'indipendenza, le tradizioni, l'anima della Patria». Anche per l'Italia valeva la domanda: quale senso avrebbe avuto l'unificazione delle sue membra sparse se non si fosse tradotta nell'accesso al club di Stati che decidevano i destini del mondo? Protesa nel Mediterraneo, la penisola sarebbe rimasta terra di conquista per i Paesi affacciati sul mare nostrum, tirata da una parte o dall'altra da quanti non avrebbero esitato a seminar zizzania. È fuori di dubbio che l'Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare senza il tuono dei cannoni di agosto, ma il fatto è che la conflagrazione era scoppiata e che si trattava, per le sue classi dirigenti, di decidere su quale piatto della bilancia porre il suo peso decisivo. Per Gaetano Salvemini, storico insigne e interventista convinto, la vittoria degli Imperi Centrali avrebbe ridotto il Paese a Stato vassallo e del suo avviso era gran parte della società civile colta. Oggi ripeto quel mondo eserciti, peso determinante, egemonie politiche, zone mediterranee d'influenza- ci è divenuto del tutto estraneo: abbiamo messo tanti fiori nei nostri cannoni da renderli irriconoscibili. E tuttavia, a ben riflettere, siamo diventati devoti della Dea Pace e della Dea Umanità perché non siamo più noi a dover sopportare il peso della difesa e degli armamenti né siamo più in grado di condizionare gli eventi e le relazioni internazionali. È come se la perdita netta di potere dovuta alla catastrofe bellica ci avesse privato della facoltà di intenderne la dura necessità. Una felice incoscienza in un sistema internazionale bipolare ma sempre più pericolosa nel mondo dei Trump, dei Putin, dei Xi Jinping, dei Ram Nath Kovind, leader di Stati continentali oceanici che giocano oggi le partite che ieri furono mortali per la vecchia Europa.

GLI INCUBI DEI SOLDATI ITALIANI.

Gli incubi dei soldati italiani. Decine di militari, di ritorno dalle missioni "di pace" soffrono della "Sindrome del Vietnam": depressione, ansia, panico, scrive Fausto Biloslavo il 18 dicembre 2018, su "Panorama". "Nell’incubo mi sveglio e sono in mimetica su una branda da campo in Afghanistan. A fianco c’è un altro parà, sembra dormire, di spalle. Lo scuoto per chiedergli dove siamo, cosa succede. Lui si gira e ha la faccia dell’attentatore suicida che ci ha fatto saltare in aria. Alla fine si trasforma in un mostro, che apre le fauci e mi divora". Manuel Villani ha 36 anni e si porta la guerra dentro. Nel 2009, durante gli aspri combattimenti contro i talebani, era un paracadutista del 187° reggimento Folgore. La sua colonna è stata travolta da un kamikaze che guidava una macchina minata. Nove anni dopo soffre ancora di disturbi post traumatici da stress (Dpts), la ferita nella mente e nell’anima di tanti militari italiani che hanno combattuto le «guerre» di pace dall’Iraq all’Afghanistan. Incubi, spinte suicide, crisi di panico, scatti d’ira, depressione, perdita della parola: sintomi dell’orrore della guerra. Una malattia che per vergogna, ignoranza, burocrazia è stata a lungo un tabù. Dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati 222 militari con disturbi psicologici. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano 267. La punta dell’iceberg dello stress post traumatico che esplode anni dopo. Panorama ha raccolto le storie dei soldati italiani perseguitati dalla «sindrome del Vietnam».

Perseguitato dal kamikaze. «Il letto, di notte, è il mio campo di battaglia. Mi sento perseguitato dall’anima dell’attentatore. Rivedo i suoi occhi, l’esplosione e sento l’odore della carne bruciata, del carburante. Per non parlare delle urla dei mie compagni imprigionati fra le lamiere mentre il blindato prende fuoco» racconta Villani, che vive in Veneto. Il 3 luglio 2009, il parà della 4° compagnia Falchi spunta dalla botola di un Lince attaccato alla mitragliatrice. Il convoglio italiano pattuglia la zona di Shindad in Afghanistan. Un minivan accosta e Manuel incrocia lo sguardo del kamikaze al volante. «Trent’anni, senza barba, vestito di bianco. Ci siamo guardati negli occhi e ho pensato: è finita. Sono morto». L’esplosione lo travolge e il blindato si ribalta sul fianco. Con il timpano rotto e ferito al gomito, esce per primo mentre gli altri parà urlano lambiti dalle fiamme del Lince che ha preso fuoco. Villani riesce a tamponare l’incendio e a tirarli fuori. Tutt’attorno i brandelli del kamikaze: «Le budella sul parabrezza, la testa volata a 20 metri di distanza e un cane che azzanna un piede e se lo porta via». Qualche mese dopo iniziano gli incubi, ma «nonostante il terrore, come una droga, volevo tornare laggiù». Nel 2011 il parà parte di nuovo per l’Afghanistan e la situazione precipita. «Se qualcuno fa una grigliata mi torna in mente l’odore della carne bruciata e vomito. Non riesco più a innamorarmi, non provo emozioni. Quando è morta mia madre, che adoravo, non ho pianto una lacrima» dice Villani. «Due settimane fa sono andato a ritirare un pacco e dal magazzino è arrivata una ventata di aria calda. Ho rivisto l’esplosione, la luce e mi sono paralizzato».

Una moglie in prima linea. Nina ha sposato Tommaso nel 2016, il momento peggiore della malattia, che ha portato l’ex militare, un tempo paracadutista dell’anno, a tentare due volte il suicidio. «L’incubo ricorrente di mio marito è tornare a casa in una bara. Oppure che gli sparano addosso e viene colpito più volte dai proiettili. Una notte, dopo aver urlato nel sonno, si è svegliato di soprassalto e mi ha stretto le mani al collo. Era come in trance» racconta Nina. L’11 giugno 2009 Tommaso e la sua unità finiscono in un’imboscata. Il parà della Folgore spara all’impazzata dalla torretta del blindato fino a quando arriva il colpo di mortaio. Le schegge lo investono, il viso è bruciato, ma si riprende per tornare a sparare. Solo allora si rende conto che ha la mano destra tranciata e attaccata al braccio solo da un filo di pelle. «Dopo otto interventi chirurgici torna in caserma, ma emergono i primi sintomi» racconta la moglie. «Se sale sul blindato si sente male. L’odore della polvere da sparo gli fa venire la nausea». Non vuole ammettere di avere bisogno di aiuto, si vergogna di dirlo al reparto e teme di venire congedato. La situazione esplode a ridosso del Natale 2015 quando lo avvisano di prepararsi a un pronto impiego in Libia. «È crollato travolto da un panico devastante» spiega Nina. « Pochi mesi dopo, quando ero incinta di sette mesi, si è chiuso in bagno buttando giù una valanga di pillole. Sono infermiera e l’ho preso in tempo facendolo vomitare e mettendolo sotto la doccia gelata. La forza l’ho trovata nell’amore che provo per lui». Il calvario burocratico inizia con la Commissione medico ospedaliera di La Spezia. «Lo hanno trattato come un cane» dice Nina. «Erano anche minacciosi: perché sei spuntato dopo anni? Chi ti ha mandato con la diagnosi di stress post traumatico? Lo sai che perderai il lavoro e avrai problemi con la famiglia? Ci saranno anche dei furbetti che se ne approfittano, ma non Tommaso». L’invalidità legata alla patologia comporta un riconoscimento economico e le casse dello Stato sono sempre vuote. Alla fine la beffa: il disturbo da stress post traumatico è stato riconosciuto, ma non per cause di servizio.

«La mia testa è rimasta in guerra». C. R. oggi lavora nei ruoli civili previsti per i veterani. In Afghanistan era un artificiere, ma la sua «colpa» è stata rimanere solo contuso in un attentato e non ferito con cicatrici visibili. Il 2 luglio 2011, a Bakwa, il suo mezzo salta in aria e il militare non tornerà più lo stesso. «Quando sono rientrato in Italia pensavo che, nel traffico, l’auto davanti potesse esplodere da un momento all’altro» racconta l’artificiere della Folgore. La moglie va a vivere dai genitori per spingerlo a curarsi. «Di notte urlavo, ma all’inizio non sapevo neanche cosa fosse lo stress post traumatico» dice. «Sognavo sempre di essere in Afghanistan. Con il corpo ero tornato a casa, la testa era rimasta laggiù». In brigata e al Celio gli danno una mano, ma la burocrazia militare lo mortifica. Per la Difesa solo «il trauma contusivo a gamba e ginocchio sinistro» è legato «all’effetto immediato e diretto dell’evento terroristico» e non il disturbo post traumatico. L’artificiere deve assumere un avvocato, come molte vittime della sindrome del Vietnam. «Ho avuto il 40 per cento di invalidità e parte dell’elargizione speciale, ma resta l’amaro in bocca per colpa della burocrazia e della Commissione medico ospedaliera di La Spezia. Mi hanno fatto sentire uno schifo».

La foto drammatica. Kabul, 17 settembre 2009, un afghano scatta la foto drammatica del corpo decapitato di un soldato italiano in mezzo alla strada e i blindati Lince sventrati. A fianco del cadavere con la mimetica insanguinata, un parà con la pistola in pugno. Si chiama Ferdinando Buono, oggi ha 39 anni e convive con gli incubi della guerra. Il caporal maggiore scelto del 187°reggimento Folgore è uno dei sopravvissuti del più grave attentato kamikaze in Afghanistan alle nostre truppe: sei paracadutisti massacrati da una macchina minata. «Al momento dell’esplosione un calore fortissimo mi ha colpito in faccia. Poi il bianco del fumo, le lamiere del blindato che si deformano e il corpo di Giandomenico Pistonami che era fuori dalla botola e crolla nell’abitacolo senza la testa. Il sangue sulla mimetica è anche il suo» ricorda Buono. Lui si stacca un dito per uscire dal blindato. Le vittime sono devastate: un parà senza gambe, un altro tagliato a metà con le budella di fuori. Dopo cinque mesi di convalescenza il parà torna in servizio. «Ho tentato il suicidio lanciandomi da un ponte, ma sono finito in mare, non sugli scogli» racconta Ferdinando, che ha continuato a fare l’istruttore. «Se vedo una scarpa abbandonata penso al piede di uno dei mie amici morti nell’attentato. Rivedo in sogno la scena, ma i soccorsi non arrivano mai». A un certo punto non ce la fa più, lo mandano prima in convalescenza e poi in congedo. Ora lavora nei ruoli civili della Difesa. Per farsi riconoscere l’indennità da stress post traumatico è in causa. In dicembre il giudice ha fissato l’ultima visita per il sopravvissuto al massacro.

«Ho l'incubo di spararmi ma non muoio mai». Jonny D’Andrea era un soccorritore di prima linea, nervi d’acciaio e coraggio da leone per tuffarsi sotto il fuoco a salvare i feriti nelle missioni della brigata Folgore. «Ho visto il sangue, i caduti e mai avrei mai immaginato di vivere il calvario del disturbo post traumatico» dice il veterano. «L’incubo ricorrente è spararmi dentro una macchina e non riuscire comunque a morire». Il 7 agosto 2011, in Afghanistan, uno dei blindati Lince del convoglio di D’Andrea finisce su una trappola esplosiva. Il soccorritore dei paracadutisti riceve l’ordine di scendere per prestare le prime cure ai feriti. Appena si avvicina al blindato colpito si scatena l’inferno. «Correvo e sentivo i proiettili che mi sfioravano a pochi centimetri. Mi ha salvato Gesù» è convinto D’Andrea, che si carica sulle spalle il ferito più grave portandolo in salvo. Quando cerca di tirare fuori il secondo parà dal blindato «arriva il razzo Rpg, vicinissimo. L’esplosione mi butta a terra. I denti davanti vanno in pezzi, dall’orecchio sinistro non sento nulla e ho lesioni alle vertebre, ma riesco a trascinarmi verso il punto di evacuazione dove arrivano gli elicotteri». A casa iniziano i flash back. «Non dormo, sudo tutta la notte e sono collerico» dice D’Andrea. Quando è al volante schiva i tombini «perchè ho sempre paura che nascondano una trappola esplosiva». Il soccorritore attende la Croce d’onore e vuole tornare in servizio. «Non sono un giocattolo rotto. E voglio dimostrarlo».

Nome di battaglia Ringhio. Basco amaranto da paracadutista, barba rossiccia, occhi chiari e muscoli da vichingo: Carlo, nome di battaglia Ringhio, è sempre stato un «guerriero». In Iraq si faceva i selfie con il leggendario generale David Petraeus, in Afghanistan prima saltava in aria su un piatto a pressione talebano e poi combatteva cinque ore nell’inferno di Shewan. «Al momento del botto ti senti volare ed entri in una specie di tunnel. Sono attimi, ma quando ho chiuso gli occhi mi sembrava di veder scorrere la mia vita. Le orecchie ti fischiano, senti l’odore di bruciato e il sapore di zolfo in bocca, il sapore dell’Ied (trappola esplosiva ndr)». Poi una gamba ha iniziato a cedere assieme al braccio sinistro. L’esplosione gli aveva schiacciato le vertebre. Una volta in Italia, il chirurgo che lo opera gli dice che è fortunato a non essere rimasto paralizzato. «Quando cominci a pensare la bestia ti assale» spiega Ringhio. «Sogno che finisco sotto attacco e il mio mitra si inceppa». Se sente un’ambulanza scatta come una molla, come fosse sotto i colpi di mortaio a Baghdad. Racconta Carlo, che fa parte del gruppo sportivo paralimpico della Difesa: «Urlavo la notte e vedevo i pezzi smembrati dei caduti afghani che dovevamo ricomporre. Ogni sera prendo una pillola per dormire. Di giorno mi capita di guidare in mezzo alla strada temendo che nei sacchi dell’immondizia ci sia una bomba».

Il ferito di Nassirya. Il luogotenente in congedo dell’Arma, Vittorio De Rasis, vive in Lazio. È uno dei 19 carabinieri sopravvissuti alla strage di Nassirya provocata da un camion bomba. Non si separa mai da una foto di 15 anni fa, riverso sul cassone di un fuoristrada con il volto insanguinato. Gli iracheni lo stanno portando di corsa all’ospedale. «Più volte al mese ho l’incubo della strage» dice. «Vedo i caduti come Filippo Merlino, che dopo l’esplosione si avvicina barcollando, ma non ce la farà. O l’amico Cosimo Visconti, sopravvissuto. Ricordo la raffica del kalashnikov dei terroristi che sfondano la sbarra con il camion zeppo di tritolo. Sento i colpi della Mg del carabiniere scelto Andrea Filippa. E poi il muro che mi crolla addosso». Un tuono, i fuochi d’artificio o il tappo dello spumante fanno ripiombare De Rasis nell’angoscia. Lo stress post traumatico gli è stato riconosciuto. «Quando mio figlio esce di casa ho il terrore che venga ucciso in un attentato. L’incubo di Nassiryah non mi abbandonerà».

I soldati italiani vittime della “sindrome Vietnam”, scrive il 28 dicembre 2018 Fausto Biloslavo su Gli Occhi della Guerra su Il Giornale. «L’ onda d’urto dell’autobomba mi ha catapultato al di là di un muretto riparandomi dalle schegge. Subito dopo l’esplosione ho scavato fra le macerie recuperando con le mani insanguinate tre dei nostri feriti. Una volta tornato a casa è crollato tutto. Dormivo con un coltello da combattimento sotto il cuscino e ho pensato più volte di suicidarmi». Nella lunga e amara lettera scritta da Fernando, che vive in Toscana, non c’è solo il dramma del conflitto in Afghanistan, ma la cicatrice invisibile che gli ha lasciato nella mente. Anche i militari italiani sono stati colpiti dalla «sindrome del Vietnam», i disturbi post traumatici da stress di combattimento (Dpts) provocati da eventi drammatici come un attacco kamikaze, i combattimenti contro i talebani o gli scontri in Irak durante le nostre guerre di pace. I sintomi sono incubi terribili, crisi di panico, aggressività, istinti suicidi, ma i numeri dei soldati che hanno la guerra dentro sono ancora un tabù. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha ordinato «un bilancio totale corretto e reale» sui militari colpiti da disturbi psicologici, dopo le missioni in zone di guerra. Per ora si conosce solo la punta dell’iceberg: dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati dai teatri operativi 222 militari con problemi mentali di vario genere. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano stati 267. Per vergogna, ignoranza, ostacoli burocratici, o problemi legati ai riconoscimenti economici la malattia fantasma è rimasta a lungo un tabù. «Bisogna rassicurare i soldati che hanno bisogno di assistenza sul fatto che chiedere aiuto psicologico non provocherà in automatico problemi di carriera – ha dichiarato il ministro Trenta – e che un percorso di recupero ben fatto può renderli anche più resilienti e forti a vantaggio dell’esigenza operativa». Il primo maresciallo Fernando, che non vuole fare sapere a tutti il cognome ricorda come «il 30 giugno 2011 i talebani abbiano fatto saltare un’autobomba davanti alla sede del Prt con l’obiettivo di aprire una breccia e fare entrare altri kamikaze». Veterano delle missioni all’estero dai Balcani al Libano si salva per miracolo dall’esplosione e impugna la pistola per fronteggiare il nemico. Poi scava con le mani fra le macerie per salvare i commilitoni. «Al rientro in Italia sono cominciati gli incubi, l’insonnia, le allucinazioni su ombre che vedevo in casa, l’aggressività e gli sbalzi di umore. Il primo anno dopo l’attentato l’ho passato chiuso nel mio studio dove uscivo solo per mangiare e andare al bagno – spiega Fernando affetto da stress post traumatico – Ho pensato di buttarmi giù dal balcone e rischiato di accoltellare mia moglie e mio figlio in momenti d’ira. Per stare male non devi avere perso per forza un braccio o una gamba». Rachele Magro, psicoterapeuta, si è occupata di diversi casi di stress da combattimento: «Uno dei ragazzi andava in giro armato dopo essere rientrato in Italia per paura che qualcuno volesse fargli del male. Altri sono stati lasciati dalle consorti per i loro disturbi. Molti si sono attaccati alla bottiglia o usano psicofarmaci per offuscare i ricordi, ma non serve a nulla». Pure le donne soldato sono state colpite dalla «sindrome del Vietnam». Sulla pagina Facebook del ministro della Difesa, l’ex militare Valeria Monachella ha scritto: «In Afghanistan ho subito un attacco terroristico con la brigata Sassari (…) Invece di aiutarmi a riprendermi da una sindrome da stress post traumatica conclamata, l’esercito mi ha messo alla porta (…)». Magro, che è presidente del gruppo l’«Altra metà della divisa», composto da familiari dei nostri militari, rivela che «come associazione abbiamo evitato 5 suicidi dovuti al disturbo post traumatico solo nell’ultimo anno. E temo che possano aumentare sensibilmente». In settembre è stato inaugurato dal ministro Trenta, presso l’ospedale militare il Celio di Roma, il Centro veterani che si occuperà anche dei militari affetti da Dpts. «Talvolta si nascondono per omertà e timore di cosa può pensare il commilitone o la comunità dove vivi, ma chi è afflitto da disturbi post traumatici può e deve parlare», sottolinea Gianfranco Paglia, medaglia d’oro al valor militare dopo essere rimasto paralizzato durante la battaglia del pastificio in Somalia nel 1993. «Ai miei tempi il problema non veniva preso in considerazione. Adesso l’esercito sta cercando di avere due psicologi per brigata e uno fisso in teatro di operazioni – spiega Paglia costretto da un proiettile su una sedia a rotelle – In ottobre quando a Mogadiscio un nostro convoglio è stato attaccato da un kamikaze la Difesa ha inviato subito una squadra di psicologi». I problemi della malattia invisibile sono anche di altro genere e riguardano la ritrosia delle Commissioni militari ospedaliere sul territorio a riconoscere il Dpts. «Alcune sono più flessibili – ha scritto nella lettera denuncia Fernando – Ma siamo arrivati all’assurdo di tentare di catalogare un attentato con una moto imbottita di esplosivo, che fece ribaltare il Lince, come incidente stradale». Anche nel privato c’è chi ne approfitta: «Il primo medico legale a cui mi sono rivolto, una psichiatra di Firenze, mi aveva scambiato per un bancomat. Mi convocava per nulla e ogni volta mi chiedeva 100 euro». Al maresciallo sopravvissuto all’Afghanistan era stata riconosciuta un’invalidità del 24%, che per un punto non concede il diritto alla pensione seppure minima. Così ha dovuto fare causa al ministero della Difesa ottenendo il riconoscimento del 63% di invalidità complessiva. «Esiste un sottobosco o meglio dire una giungla di faccendieri che lucrano sulle persone come noi – spiega Fernando – Compresi legali che prendono sostanziose percentuali pure sugli interessi maturati allungando la causa di tre o quattro anni». Tutto a carico del militare che deve sborsare dai 45mila ai 60mila euro. La lettera di Fernando si conclude con un amaro sfogo: «La morale di questa storia è che sono stato ferito più volte dall’attentato, dalle Commissioni militari ospedaliere, dagli avvocati, dai medici legali, dall’Inps. Alla fine quello che mi ha fatto saltare in aria è stato il più degno di tutti».

2018 SOLITO RAZZISMO

Odio, morti, razzismo: è la guerra del calcio. Giornata da cani a Milano prima di Inter-Napoli. Muore un tifoso, feriti e arresti, scrive Errico Novi il 28 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". In una fredda mattina di dicembre l’Italia si sveglia con un altro morto del calcio. Si chiamava Daniele Belardinelli. Aveva 39 anni, era un capo ultras del Varese e aveva “atteso”, insieme con gli amici della curva nerazzurra, i tifosi del Napoli mercoledì sera, prima che iniziasse la gara fra Inter e Napoli a San Siro. Lo ha travolto un suv, proprio mentre il gruppo di violenti dava l’assalto a una carovana di partenopei, in arrivo a bordo di auto e pulmini. È la tragedia che rende tremenda una vera e propria crisi di sistema, impazzita in mille traiettorie tutte originate dalla notte di Milano. In pochi minuti: l’assalto dei teppisti in cui muore Belardinelli, tra i leader del gruppo ultras di Varese Blood & Honour, di simpatie fasciste; poi gli ululati razzisti al difensore del Napoli Kalidou Koulibaly, splendido atleta 27 enne di colore, nato in Francia ma senegalese per famiglia e per scelta; quindi la partita che degenera anche perché all’arbitro, Mazzoleni, non viene in mente di sospenderla, e dunque la rabbia dei giocatori del Napoli, dello stesso Koulibaly che applaude il direttore di gara e viene perciò espulso, del capitano Lorenzo Insigne che urla insulti a partita finita ( e persa 1 a 0 dal suo Napoli). Fino alle polemiche di ieri, alle promesse del ministro Salvini e del presidente Figc Gravina di un calcio ripulito dai violenti, la giornata di serie A prevista per domani e confermata nonostante il tifoso deceduto e gli appelli a fermare tutto. Una partita, una notte tragica, spalanca le porte di un incubo.

IL SISTEMA CALCIO CHE PERDE LA TESTA. La reazione del sistema, sportivo e politico, è nervosa. «Non ci fermiamo, la serie A andrà in campo», annuncia appunto il presidente della Figc Gabriele Gravina. Che dichiara l’ennesima guerra ai violenti e ai razzisti. «Chiederò al prossimo consiglio federale norme più chiare che consentano di sospendere le partite in caso di cori discriminatori», assicura. E dice anche di voler sentire il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Ma proprio il leader della Lega dice di voler «lasciare al calcio l’autonomia della decisione» in caso di ululati contro i giocatori di colore. Sono ore concitate, in cui arriva intanto la decisione del giudice sportivo: due giornate a porte chiuse per l’Iter, con il divieto di accesso previsto per la sola curva Nord, quella degli ultras nerazzurri, nella terza delle prossime gare casalinghe. Ma c’è anche la paradossale squalifica di Koulibaly: due giornate, una per il fallo da ammonizione commesso sull’interista Politano e l’altro per l’applauso polemico rivolto all’arbitro Mazzoleni un istante dopo. Il forte difensore francese di origini senegalesi posta uno splendido messaggio in cui si dice fiero del colore della propria pelle e di essere «francese, senegalese, napoletano: uomo». Ma non gli vale la “grazia” in ambito sportivo. Non ce n’è neppure per il capitano dei partenopei, Lorenzo Insigne: due giornate anche per lui. Inviperito l’allenatore degli azzurri, Carlo Ancelotti: «Avevamo segnalato tre volte alla Procura federale gli ululati razzisti, la prossima volta saremo noi a uscire dal campo». E proprio la dichiarazione di Ancelotti svela la terribile fragilità del sistema. Perché anziché mettere al primo posto la battaglia contro le discriminazioni, ancora il capo della Federcalcio Gravina se n’esce con una paternale senza senso: «Il risultato sarebbe negativo per quella squadra, se non vengono rispettate le procedure previste dalle regole: capisco tutto, capisco l’esigenza di dare tutela alla dignità degli uomini e la volontà di evitare queste pagine negative del mondo del calcio, ma non dimentichiamo che esistono le regole, dobbiamo migliorarle e pretenderne l’applicazione». Insomma Gravina è, come dire, comprensivo sulla questioncella della dignità umana, ma non al punto da metterla al primo posto.

LO STADIO SVELA LA VIOLENZA DIFFUSA. E la sceneggiata del calcio non risparmia neppure il presidente degli arbitri. Nicchi. Al procuratore federale Pecoraro che dichiara di ritenere «giusta la sospensione di Inter- Napoli», il capo dell’Aia suggerisce di «fare il procuratore» perché «alla sospensione delle partite ci pensiamo noi», cioè gli arbitri, «e i responsabili dell’ordine pubblico». Che infatti mercoledì hanno consentito il becerume di San Siro, finché a Koulibaly sono saltati i nervi, con la beffa capolavoro dell’espulsione (probabilmente decisiva per la sconfitta del Napoli). Spettacolo indegno quasi quanto quello offerto dai teppisti. E qui ad essere chiamata in causa è anche la politica. Salvini dice di voler convocare al Viminale non solo i club di serie A ma anche «i capi delle tifoserie», perché non si può morire «mentre si va a una partita» e i violenti devono essere tenuti fuori. Originale e forse persino apprezzabile idea di “concertazione” applicata alla violenza negli stadi. Ma per esempio, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti è un po’ più drastico del leader e prefigura «la chiusura degli stadi in cui si verificano episodi di razzismo». Intanto il questore di Milano Cadorna sciorina il bollettino del mercoledì nero: tre arresti, nove Daspo pronti ad essere affibbiati ad altrettanti ultras dell’Inter, «una risposta durissima» che arriva grazie ai filmati. La banda di scalmanati dell’Inter si era alleata con gli ultras neofascisti del Varese, tra cui il povero Belardinelli, con 2 Daspo alle spalle, e quelli del Nizza, che cercavano «vendetta» contro i napoletani. A due chilometri da San Siro l’assalto della triplice alleanza alla carovana partenopea. Poi il Suv che arriva dall’altra corsia e travolge il 35enne tifoso arrivato da Varese. Su tutto, il contrasto in apparenza insensato fra i dati degli incidenti negli stadi, calati nei primi 3 mesi di campionato addirittura del 50%, e l’esplosione improvvisa del becerume bestiale, fuori e dentro il Meazza. Come se i rigurgiti vilenti e razzisti covati da una parte della società si liberassero in quella dimensione affrancata dalle regole che il tifo calcistico ancora rappresenta. Una rivelazione inquietante, che costringe ora calcio e politica a contromisure proprio per quell’universo rabbioso che i fatti di mercoledì paiono aver improvvisamente portato alla luce.