Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2017

 

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

ITALIA ALLO SPECCHIO

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2017, consequenziale a quello del 2016. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

L’ITALIA DELLE RIFORME IMPOSSIBILI.

IL PARTITO DELL'ASTENSIONE.

LO "IUS SOLI" COMUNISTA.

ITALIANI SENZA INNO NAZIONALE.

ITALIANO: UOMO QUALUNQUE? NO! SONO TUTTI: CETTO LA QUALUNQUE.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

ANTROPOLOGIA SINISTROIDE. VIAGGIO NEL CERVELLO PROGRESSISTA CHE “HA SEMPRE RAGIONE”.

ITALIANI: VITTIME PATOLOGICHE.

L'ITALIA DEI SOCIAL. QUELLO CHE LA GENTE PENSA E SCRIVE...

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

PARLAR MALE DELL'ITALIA? LA GODURIA DEGLI ITALIANI.

L'ITALIA DEI CAMPANILI.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.

GLI ITALIANI NON SANNO PERDERE.

ITALIANI RANCOROSI.

ITALIANI: POPOLO DI TRADITORI.

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

L’IPOCRISIA DELLA RICONOSCENZA.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

ITALIA. IL PAESE DEI CAFONI.

ITALIANI: UN POPOLO DI ASOCIALI.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI.

ITALIANI SCROCCONI.

ITALIA. IL PAESE DEI LADRI.

LADRI DI BICICLETTE.

IL COMUNE SENSO DEL PUDORE.

GLI ITALIANI ED IL TURPILOQUIO.

L’ITALIA DEL TRASH (VOLGARE).

ITALIANI: UN POPOLO DI STUPIDI ODIOSI.

GLI ITALIANI E LA STUPIDITA’.

L’ITALIA DELLA SCARAMANZIA.

L’ITALIA DEI PAZZI.

L'ITALIA DEI FAVORITISMI (ANCHE IN FAMIGLIA).

CONCORSO INFINITO: CONCORSO TRUCCATO!

IL FASCINO DEL CONCORSO PUBBLICO E DEGLI ESAMI DI STATO (TRUCCATI).

LA REPUBBLICA DEI BROCCHI NEL REGNO DELL'OMERTA' E DEL PRIVILEGIO.

LA FINE DI UNA VITA FATTA DI BOCCIATURE.

VERONICA PADOAN ED IL RIBELLISMO DEI FIGLI DI PAPA’.

IL FAMILISMO AMORALE ED IL COOPTISMO AMORALE.

CERVELLI IN FUGA.

NON SIAMO STOICI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

VIVA GLI ANTIPATICI.

ITALIA. PAESE DI GIOCATORI D’AZZARDO.

ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.

EDITORIA A PAGAMENTO.

ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.

LA SCUOLA AL FRONTE.

ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.

L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!

L’ITALIA DEI SACCENTI. TUTTI PARLANO. NESSUNO ASCOLTA.

L’ITALIA DEI GENI.

IL CALENDARIO CIVILE VISTO DALLA SINISTRA.

IL GIORNO DEL RICORDO…DIMENTICATO.

PADRI DELLA PATRIA: LA NOSTRA ROVINA.

FRATELLI D’ITALIA? MASSONI ITALIANI.

ABOLIAMO LA MASSONERIA?

DA DE GASPERI A RENZI. COME L'ITALIA SI E' VENDUTA AGLI AMERICANI.

MISTERI E DEPISTAGGI DI STATO.

LA MAFIA GLOBALIZZATA.

I DIECI COMANDAMENTI DELL’ANTIMAFIA.

L’ANTIMAFIA IMPLACABILE.

LE VITTIME DELL’ANTIMAFIA ED IL REATO CHE NON C’E’: IL CONCORSO ESTERNO.

PENTITI E PENTITISMO. LA LINGUA BIFORCUTA.

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.

IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.

ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

L'ANTIMAFIA SPA E PARTIGIANA.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.

IL PAESE DEGLI AMMINISTRATORI PUBBLICI MINACCIATI.

IL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO).

QUELLI…PRO SATANA.

UN BUSINESS CHIAMATO GESU'.

PEDOFILIA ECCLESIASTICA.

L'ISLAMIZZAZIONE DEL MONDO.

TERRORISMO ISLAMICO. IL 2017 INIZIA COL TERRORE.

2016. EUROPA, UN ANNO DI TERRORE.

PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.

ONESTA' E DISONESTA'.

DUE PESI E DUE MISURE.

LA SETTA DEI 5 STELLE.

LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

CERCANDO L’ITALEXIT.

MORIRE DI CRISI.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

UNA COSTITUZIONE CATTO-COMUNISTA.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.

CUORI ROSSI CONTRO CUORI NERI.

C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

E POI C’E’ ALDO BISCARDI.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.

L'ITALIA ANTIFASCISTA. 

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.

LA TRUFFA DELL'ANTIFASCISMO.

DEMOCRATICI: SOLO A PAROLE.

QUELLI CONTRO...IL SUFFRAGIO UNIVERSALE.

LA DEMOCRAZIA DEI TIRANNI INTELLETTUALI.

MAI DIRE BEST SELLER. LA CULTURA COMUNISTA E L’INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.

DIRITTO DI CRONACA E DIRITTO DI STORIA VITTIME DEL DIRITTO ALL'OBLIO.

DIRITTO ALL'OBLIO, MA NON PER TUTTI.

L'ITALIA DELL'ACCOGLIENZA.

LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.

LA SINDROME DI MEDEA.

L’ITALIA ANTICONFORMISTA.

NON SONO TUTTI ...SANREMO.

C'ERA UNA VOLTA...CAROSELLO.

L’ITALIA DELL’ACCOZZAGLIA RESTAURATRICE. TUTTI CONTRO UNO.

GLI ITALIANI...FANTOZZI!

QUELLI CHE...REGIONANDO E PROVINCIANDO, TRUCCANO.

MALEDETTA ALITALIA (E GLI ALTRI).

L’ITALIA DELLE CASTE.

L’ITALIA DELLE LOBBIES.

CHI MANGIA SULLE NOSTRE BOLLETTE.

L'ITALIA ALLO SBANDO.

SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.

LA FIDAL ED I VERI ATLETI.

L'ITALIA IN GUERRA.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.

QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.

QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.

QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.

 

INDICE TERZA PARTE

 

GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.

TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.

IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.

L'INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.

L'INSICUREZZA PUBBLICA ED IL PARTITO DEI CENTRI SOCIALI.

L'ITALIA E L'ILLEGALITA' DI MASSA.

L’ITALIA DEI CONDONI.

LEGGE ED ORDINE.

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

DEVASTATI DA MANI PULITE.

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.

IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.

LA VERITA' E' FALSA.

IL TURISMO DELL'ORRORE.

IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.

GIORNALI E PROCURE.

STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.

FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA. 

I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.

GIUSTIZIA CAROGNA.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

L'ITALIA DEGLI APPALTI TRUCCATI.

NOTIZIE FUGACI E TRUCCATE.

LE SPECULAZIONI ELITARIE.

PARENTELE TOGATE.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

IL 2016 ED I FLOP GIUDIZIARI.

L’ITALIA SPORCA AL CINEMA: SESSO, DROGA E CORRUZIONE.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

2016 FATTI E NOMI PIU’ IMPORTANTI.

I DESAPARECIDOS ED IL PIANO CONDOR.

LE PEGGIORI CAZZATE VIP DETTE NEL 2016.

EI FU: IL CORPO FORESTALE.

FIGLI DI TROJAN. HACKER E CYBERSPIONAGGIO.

A COSA SERVONO...

 

INDICE QUARTA PARTE

 

UN POPOLO DI NON IDENTIFICATI. I CORPI SENZA NOME.

FUNERALE LAICO. SENZA DIRITTI ANCHE DA MORTI!

LA GERMANIA: AL DI LA' DEI LUOGHI COMUNI.

REGENI, PUTIN, TRUMP E LE FAKE NEWS (BUFALE/FALSE VERITA').

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.

LA NORMALIZZAZIONE DI TRUMP SULL’ASSE PRO TERRORISTI.

I MURI NELL'ERA DI INTERNET.

IL RAZZISMO IMMAGINARIO.

RAZZISMO E STEREOTIPI.

TRADIZIONI E MENZOGNE.

QUELLI CHE...SON SOLIDALI.

PARLIAMO DI IMMIGRAZIONE SENZA PARTIGIANERIA.

QUELLI CHE...COME I SINDACATI.

QUELLI COME…I PARLAMENTARI.

QUELLI…PRO GAY.

QUELLE CHE…SON FEMMINISTE.

L'ITALIA DEGLI IMBOSCATI.

L'ITALIA DEI CORROTTI.

CORROTTI E CORRUTTORI. UN POPOLO DI COMPRATI E DI VENDUTI. L’ITALIA DEI BONUS E DEI PRIVILEGI.

LA SANITA’ MALATA.

REATO DI ANZIANITA'. ADOTTABILITA' DEI FIGLI: NEGATA AGLI ANZIANI, MA PERMESSA A GAYS E LESBICHE.

GENITORIALITA' MALATA.

FILIAZIONE MALATA.

PARENTICIDI: OMICIDI FAMILIARI.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

PARLIAMO DELLA BASILICATA.

PARLIAMO DELLA CALABRIA.

PARLIAMO DELLA CAMPANIA.

PARLIAMO DELL’EMILIA ROMAGNA.

PARLIAMO DEL LAZIO.

PARLIAMO DELLA LIGURIA.

PARLIAMO DELLA LOMBARDIA.

PARLIAMO DEL PIEMONTE E DELLA VALLE D’AOSTA.

PARLIAMO DELLA PUGLIA.

PARLIAMO DELLA SARDEGNA.

PARLIAMO DELLA SICILIA.

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

PARLIAMO DELL’UMBRIA.

PARLIAMO DEL VENETO.

 

 

 

 

TERZA PARTE

 

GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.

Ecco come è cambiato il mondo in 25 anni. Da Tangentopoli all’Euro passando per l’11 settembre e l’avvento dei cellulari. In 25 anni sono mutati costumi, governi, confini e mode. Ma Totti dal 1993 è sempre lo stesso. Ed lo abbiamo sempre al nostro fianco, scrive Francesco Balzani il 27/09/2016 su “Forza Roma”.

1993 – Il prologo del 1992 aveva portato le carneficine di Capaci e via D’Amelio, e il battesimo dell’inchiesta Mani pulite. Nel 1993 la Mafia purtroppo torna a colpire: prima il cronista Beppe Alfano poi Don Puglisi. Il 15 di gennaio viene arrestato a Palermo il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, latitante da ben 23 anni. Il giorno dopo a Firenze è il turno di Pietro Pacciani, che si presume sia il cosiddetto “Mostro di Firenze. In politica nasce la cosiddetta Seconda Repubblica: hanno ricevuto avvisi di garanzia tutti i leader della Dc, del Psi, del Pri, del Pli. Un intero sistema viene raso al suolo a colpi di codice penale: da Craxi ad Andreotti. Senza sconti. E il volto del magistrato Antonio Di Pietro diventa popolarissimo. Il Sindaco di Roma diventa Rutelli.

1994 – Tredici giorni dopo le dimissioni del governo Ciampi c’è un volto nuovo a scuotere la politica italiana. E’ quello di Silvio Berlusconi che il 24 gennaio annuncia di “voler scendere in campo”. E’ l’anno del processo ad Andreotti e delle dimissioni di Occhetto dal Pds. Da segnalare in cronaca nera l’evasione di Felice Maniero dal carcere di Padova, l’omicidio da parte della ‘ndrangheta’ dei carabinieri Garofalo e Fava sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla (Reggio Calabria). E quello a Mogadiscio della giornalista della Rai Ilaria Alpi e del cameraman Miran Hrovatin. La Alpi indagava su traffici internazionali di armi e di rifiuti tossici.

1995 – In politica è ancora caos e a governare è Lamberto Dini dopo lo scioglimento delle Camere e la fine di quello Berlusconi mentre nasce Alleanza Nazionale di Fini e l’Ulivo di Prodi e Veltroni. La cronaca registra l’omicidio del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo durante Milan-Genoa del 25 gennaio e l’estradizione dell’ex-capitano delle SS Erich Priebke in Italia. Si apre anche il processo di Andreotti per associazione mafiosa.

1996 – Il 13 gennaio Lamberto Dini rassegna le dimissioni da Primo Ministro e il 21 aprile a trionfare sarà Romano Prodi che diventa così Presidente del Consiglio superando Berlusconi e la Lega Nord di Bossi. A febbraio Pietro Pacciani viene assolto per non aver commesso il fatto, dalla Corte d’appello di Firenze, dopo essere stato condannato all’ergastolo per i delitti del Mostro di Firenze. Era in carcere da 1.100 giorni.

1997 – L’anno si apre con una tragedia. Il 12 gennaio a Piacenza infatti l’ETR 460 “Pendolino” deraglia all’entrata della stazione medesima provocando 8 morti e 29 feriti. Nel mezzo del convoglio si trova anche l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, per cui molti pensano si tratti di attentato. L’11 aprile un incendio provoca danni al Duomo di Torino mentre il 31 ottobre a Milano, presso l’Ospedale Galeazzi, 11 persone muoiono carbonizzate nell’incendio di una camera iperbarica. E’ anche l’anno dei Referendum abrogativi e dell’omicidio di Marta Russo all’Università La Sapienza di Roma.

1998 – Prodi si dimette il 9 ottobre e il suo posto sarà preso da Massimo D’Alema. Il 5 maggio le località di Sarno, Quindici, Bracigliano e Siano sono colpite da un gravissimo fenomeno franoso, composto da colate rapide di fango, l’evento provocò la distruzione di molte abitazioni e la morte di 137 persone nella sola Sarno. Il 13 novembre giunge in Italia il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) Abdullah Öcalan, ricercato dalla polizia turca. Un evento che porterà a una crisi tra i due paesi.

1999 – Il Presidente del Consiglio è ancora D’Alema col cosiddetto “Governo D’Alema 2”. E’ un maggio caldissimo: il 13 viene proclamato presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che succede a Scalfaro. Undici giorni prima Papa Giovanni Paolo II proclama beato Padre Pio da Pietrelcina. Il 20 a Roma, invece, le Brigate Rosse uccidono il consulente del ministero del lavoro Massimo D’Antona. Tragedia a Foggia l’11 novembre quando per il crollo di un palazzo in viale Giotto muoiono 67 persone.

2000 – L’inizio del nuovo millennio viene vissuto anche in Italia tra paura del Millenium Bag e l’apertura della Porta Santa per il Giubileo più importante della storia. E’ l’anno dello storico accordo tra Fiat e General Motors, della divulgazione del Terzo segreto di Fatima, della condanna alle agenzie assicurative e dell’addio alla Lira. E’ anche l’anno delle dimissioni di D’Alema e del grigio Governo Amato che riapre una stagione di dura lotta tra i partiti.

2001 – L’anno dello scudetto romanista si apre a gennaio con la scomparsa dalla sua villa di Portofino della contessa Francesca Vacca Agusta. Il cadavere sarà trovato sugli scogli francesi tra Marsiglia e Tolone. E anche con l’apertura dell’inchiesta sui decessi di alcuni soldati. Si sospetta che la morte sia causata dall’uso di armi all’uranio impoverito nei Balcani. Il 21 febbraio invece un delitto scuote il Paese: Erika e Omar, i due fidanzatini di Novi Ligure, uccidono barbaramente il fratellino e la mamma di Erika. L’otto ottobre all’aeroporto di Linate un Cessna sbaglia raccordo durante il rullaggio ed entra in pista scontrandosi con un altro aereo e causando 118 morti. Intanto il Governo i raggiunge accordi per cancellare il debito estero di 22 paesi poveri. Si conclude il processo per l’omicidio di Marta Russo, la sentenza di secondo grado condanna Scattone a 8 anni di carcere e Ferraro a 6 anni. E’ anche l’anno della condanna alla satira: dei licenziamenti di Luttazzi e Travaglio, delle polemiche tra Santoro e Berlusconi. Il 27 marzo il Ministero della sanità, firma l’ordinanza anti mucca pazza che bandisce la bistecca alla fiorentina dal primo aprile al 31 dicembre. A giugno nasce il secondo Governo Berlusconi e in seguito all’undici settembre vengono varate le prime norme anti-terrorismo. Qualche mese prima il G8 di Genova era stato teatro di fortissimi scontri, del massacro della scuola Diaz e dell’omicidio di Carlo Giuliani. Sindaco di Roma diventa Walter Veltroni.

2002 – Il 19 marzo fanno il loro ritorno le Brigate Rosse con l’omicidio a Bologna dell’economista e consulente del ministero del Lavoro Marco Biagi, ma a scuotere l’Italia è il delitto di Cogne: Anna Franzoni uccide il figlioletto Samuele di appena 3 anni con violenti colpi alla testa. Ci vorranno anni prima di arrivare a una sentenza definitiva. E’ l’anno delle grandi manifestazioni contro le modifiche del governo all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dell’approvazione della legge Bossi-Fini contro l’immigrazione e del ritorno dei Savoia. Il 31 ottobre un’altra tragedia: le scosse di un violento terremoto in Molise dell’8º grado della Scala Mercalli causano il crollo di una scuola a San Giuliano di Puglia (CB), uccidendo 27 scolari e un’insegnante. Altre due persone muoiono in paese. A novembre, infine, il senatore Giulio Andreotti viene condannato a 24 anni di carcere al processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli.

2003 – Dopo la Mucca Pazza arriva il pericolo Sars. Per la prima volta a marzo viene isolato a Milano il virus della la polmonite atipica che ha ucciso 376 persone e contagiato quasi altre 6 mila. Il 26 giugno, invece, è il giorno del grande black-out a sorpresa per sei milioni di italiani che si ripete in particolar modo a Roma il 28 settembre durante la Notte Bianca. La data, purtroppo, da cerchiare col rosso però è quella del 12 novembre quando un attentato suicida a Nassiriya contro il quartier generale dei Carabinieri, uccide 13 Carabinieri, 4 militari dell’Esercito Italiano e 2 civili iracheni.

2004 – Il 14 febbraio viene ritrovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini il ciclista Marco Pantani, accanto ad una confezione di ansiolitici. Nell’appartamento erano presenti anche altri farmaci. Qualche giorno prima il mondo del calcio e dell’imprenditoria aveva subito due brutti colpi coi crack di Cirio e Parmalat e l’arresto di Cragnotti e Tanzi. Nelle piazze italiane intanto sono sempre più popolati i girotondi in nome della Pace e contro la guerra in Iraq. Il 29 luglio dopo 143 anni di coscrizione, il parlamento approva l’abolizione del servizio militare obbligatorio (leva obbligatoria) mentre ad ottobre a Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, scompare la piccola Denise Pipitone, di soli 4 anni. La bambina non è stata ancora ritrovata. Al governo c’è ancora Berlusconi che viene assolto in numerosi processi a suo carico.

2005 – Il 2 aprile muore il Papa più amato della storia: Giovanni Paolo II. Tutto il mondo lo piange e a Roma arrivano a milioni per il suo funerale a San Pietro. Il 20 aprile invece Berlusconi annunciò in Senato la volontà di costituire un nuovo governo di e tre giorni dopo si presentò al Quirinale con la nuova lista dei ministri. Il giorno dopo in Piazza San Pietro si svolge la Messa di insediamento e di inaugurazione del Pontificato del neo-eletto Papa Benedetto XVI (Ratzinger). Il 29 dicembre Mario Draghi diventa il nuovo Governatore della Banca d’Italia. Tra i fatti di cronaca purtroppo spicca la storia della piccola Matilde morta per un calcio infertole mentre in casa con lei c’erano solo la madre e il suo convivente.

2006 – L’Italia è scossa dal rapimento del piccolo Tommaso Onofri alla porte di Parma. Dopo settimane col fiato sospeso il corpo del bambini viene ritrovato senza vita. Un altro terribile fatto di cronaca andrà in scena l’undici dicembre quando Olindo Romano e Rosa Bazzi ad Erba compiono una strage uccidendo a coltellate e sprangate i vicini di casa Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, Paola Galli (nonna del bambino) e Valeria Cherubini. Il 12 febbraio vengono scoperti dei cigni affetti da influenza aviaria in Sicilia e in altre regioni italiane. L’allarme pian piano contagia tutta Europa. L’undici aprile invece viene arrestato il boss siciliano Bernardo Provenzano, dopo 43 anni di latitanza. Il senatore a vita Giorgio Napolitano viene eletto 11º Presidente della Repubblica Italiana. Nei giorni precedenti era caduto di nuovo il governo Berlusconi e il 17 maggio sarà di nuovo Prodi a essere eletto.

2007 – E’ un anno terribile. Cinque delitti scuotono l’Italia: In occasione del derby calcistico Catania-Palermo, scoppia infatti una guerriglia tra le tifoserie che porta alla morte dell’ispettore di Polizia Filippo Raciti. Il 13 agosto la ventiseienne Chiara Poggi viene uccisa nella sua villetta di via Pascoli 8 a Garlasco e il suo cadavere viene scoperto dal fidanzato Alberto Stasi. Il primo novembre muore a Roma Giovanna Reggiani, quarantasettenne aggredita e uccisa due sere prima alla stazione di Tor di Quinto da un immigrato rumeno di etnia rom. Due giorni dopo viene uccisa a Perugia la studentessa inglese Meredith Kercher. Verranno accusati dell’omicidio Amanda Knox, studentessa statunitense coinquilina della vittima; Raffaele Sollecito, fidanzato di quest’ultima e Rudy Hermann Guede. L’undici novembre, infine, in un autogrill di Badia Al Pino il tifoso laziale Gabriele Sandri viene ucciso da un colpo di pistola sparato dal poliziotto Spaccarotella. In Politica è sempre mare mosso: dopo una bocciatura al Senato in materia di politica estera, il presidente del Consiglio italiano Romano Prodi rassegna le sue dimissioni al Quirinale che però vengono respinte da Napolitano.

2008 – Tra febbraio e marzo Prodi annuncia il suo addio alla politica italiana e nel frattempo Berlusconi e Fini fondano il partito Popolo della Libertà. Proprio il Cavaliere tornerà al potere per la terza volta e resterà a capo del Governo fino al 2011. E’ l’anno in cui esplode la polemica per le morti bianche sul lavoro. Il più grave a Molfetta dove cinque operai rimangono asfissiati da esalazioni di anidride solforosa in un’autocisterna. Veltroni lascia alla fine del secondo mandato da Sindaco. Il 29 aprile viene eletto Gianni Alemanno del Centro Destra.

2009 – Sarà ricordato come l’anno del violentissimo terremoto in Abruzzo. Il 6 aprile, infatti, una scossa di magnitudo 6,3 fa tremare la Provincia dell’Aquila alle 3:32 causando 309 vittime, 1500 feriti, 65000 sfollati e il crollo di molti edifici. A Viareggio il 29 giugno deraglia un treno merci con 14 cisterne di Gpl, una esplode causando crolli e incendi nelle case nel raggio di 200 metri, il bilancio è di 32 morti e 23 feriti. il 2 ottobre altra tragedia a Messina: una frana devasta due paesi e provoca 35 morti. Il 15 ottobre, infine, muore Stefano Cucchi durante la custodia cautelare.

2010 – Un altro delitto diventa oggetto dell’attenzione morboso dei media. Il 26 agosto, infatti, la 15 enne Sarah Scazzi scompare ad Avetrana. Il suo corpo sarà ritrovato in un pozzo. La vicenda ha avuto un grande rilievo mediatico in Italia, culminato nell’annuncio della confessione dello zio in diretta sul programma Rai Chi l’ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sara. Per il delitto sono stati condannati in primo grado e poi in appello all’ergastolo dalla Corte d’assise di Taranto, la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano con le accuse di concorso in omicidio volontario premeditato aggravato, mentre Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato alla pena di otto anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Nello stesso anno a Brembate di Sopra (BG) il 26 novembre scompare la 13 enne Yara Gambirasio. Il suo corpo senza vita sarà trovato tre mesi dopo in un campo aperto.

2011 – Ricorre il 150° anniversario dall’Unità d’Italia. Il 4 novembre a Genova muoiono 6 persone tra cui 2 bambini a causa dell’alluvione. Esondano Bisagno, Fereggiano, Sturla e Scrivia a causa delle intense precipitazioni. Il 12 novembre Berlusconi rassegna di nuovo le dimissioni. Dopo alcuni giorni di consultazioni, nasce ufficialmente (prestando giuramento) il Governo tecnico presieduto da Mario Monti tra crisi economiche, spread e proteste popolari.

2012 – Il 13 gennaio il naufragio della Costa Concordia nei pressi dell’Isola del Giglio provoca 33 morti e la condanna per il comandante Francesco Schettino. Un altro terremoto provoca danni e vittime. Stavolta a essere colpita è la provincia di Modena dove una scossa di magnitudo 6,0 causa 7 morti e diversi milioni di euro di danni. A Brindisi, invece, il 29 giugno davanti all’Istituto professionale “Francesca Laura Morvillo-Falcone” vengono fatti esplodere due ordigni: una ragazza sedicenne, Melissa Bassi, originaria di Mesagne, muore sul colpo. Altre sei studentesse rimangono ferite. Il responsabile, Giovanni Vantaggiato, verrà fermato pochi giorni dopo e condannato all’ergastolo. il 26 ottobre l’ex premier italiano Silvio Berlusconi è condannato in primo grado a 4 anni (di cui 3 condonati) nel processo per frode fiscale sull’acquisizione di diritti televisivi del gruppo Mediaset. Il 22 dicembre nuovo scioglimento delle Camere.

2013 – E’ un anno contraddistinto dalle dimissioni da pontefice di Papa Benedetto XVI. E’ l’undici febbraio e la notizia fa il giro del mondo in pochi minuti grazie ai social. Il 13 marzo, dopo lunghe consultazioni, sarà eletto Jorge Maria Bergoglio nuovo pontefice col nome di Papa Francesco. Il 20 aprile, invece, Giorgio Napolitano viene rieletto Presidente della Repubblica Italiana, divenendo il primo presidente nella storia della Repubblica ad ottenere un secondo mandato. Una settimana dopo Enrico Letta diventa Presidente del consiglio, anche se non ci sono state elezioni. il 29 dicembre l’ex pilota Schumacher entra in coma dopo un incidente sugli sci. Sindaco di Roma viene eletto Ignazio Marino del Pd.

2014 – Il 22 febbraio, di nuovo senza elezioni, Matteo Renzi assume l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana. Il 23 novembre la prima donna italiana astronauta, Samantha Cristoforetti, inizia il viaggio verso lo spazio. Alle elezioni per il Parlamento Europeo Matteo Renzi e il suo PD ottengono il 40% dei voti, seguiti dal sorprendente Movimento 5 Stelle con il 21% e Forza Italia con il 16,8%.

2015 – E’ un anno contraddistinto dalle tragedie dei migranti in mare. Il più grave avviene il 18 aprile nel Canale di Sicilia dove una imbarcazione carica di887 migranti al largo delle coste libiche, impattato incidentalmente con la nave King Jacob. Oltre 800 i morti, il numero più alto di vittime mai registrato. Il 31 gennaio Sergio Mattarella diventa Presidente della Repubblica mentre il 13 marzo Papa Francesco annuncia il Giubileo straordinario. Marino viene “esonerato” come sindaco di Roma dal governo Renzi in seguito a numerosi scandali tra cui Mafia Capitale che ha scoperchiato il rapporto tra mafia italiana e appalti pubblici.

2016 – Lo stiamo vivendo e purtroppo dobbiamo registrare un altro terremoto terribile che il 24 agosto scorso ha distrutto molti paesi del Centro Italia tra cui Amatrice. La scossa principale si è prodotta alle 3:36:32 e ha avuto una magnitudo momento 6 e provocato oltre 200 vittime. Viene eletto come Sindaco di Roma il candidato dei Cinque Stelle Virginia Raggi.

TROPPE LEGGI = ILLEGALITA’.

Troppe leggi, così affonda la legalità. Commi, codicilli, deroghe, incoerenze. E veri e propri deliri semantici dei legislatori. Così si corrompe il concetto stesso del vivere sociale, scrive Michele Ainis il 30 agosto 2017 su "L'Espresso". In Italia l’esame di maturità viene regolato da 59 atti normativi (leggi, decreti, circolari, protocolli). Per introdurre le unioni civili, viceversa, è bastato un solo articolo di legge, che però al suo interno si declina in 69 commi. Il nuovo codice degli appalti – celebrato dal governo Renzi come un monumento alla semplificazione – ospitava 181 errori nei suoi 220 articoli, e ha ricevuto 131 modifiche nel giro d’un anno. Dopo l’approvazione del Jobs Act, dopo la riforma del pubblico impiego entrata in vigore il 22 giugno scorso, ai licenziamenti s’applicano 8 regimi diversi, a seconda dei loro presupposti (giusta causa, giustificato motivo soggettivo, giustificato motivo oggettivo, procedura di licenziamento collettivo e via elencando), del tipo di licenziamento (disciplinare, economico individuale, economico collettivo, discriminatorio), delle caratteristiche del datore di lavoro (grandi imprese, imprese agricole, piccole imprese, settore pubblico). Risultato: le cause di lavoro crescono (18,7% in più dal 2014 al 2016), il lavoro cala. Ma calano altresì gli investimenti, i redditi, l’innovazione tecnologica, la competitività del nostro Paese. E affonda il senso stesso della legalità, insieme alla certezza del diritto. Per forza: quando le leggi sono troppe s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Dal pieno nasce il vuoto, l’eccesso di diritto determina un ordinamento lacunoso, senza regole precise per la nostra convivenza.

E se poi all’inflazione normativa si somma il pessimo linguaggio delle norme, ciascun interprete (il giudice, il burocrate, il commercialista, l’avvocato) diventa un legislatore in miniatura, nel senso che crea la regola, invece d’applicarla. Provateci un po’ voi, del resto, a interpretare leggi che suonano come altrettanti abracadabra, che si contraddicono l’una con l’altra senza mai abrogarsi espressamente, che dicono, disdicono, e alla fine maledicono. Da qui un campionario che avrebbe fatto gola a Ionesco, maestro del teatro dell’assurdo. La costituzione di pegno sui prosciutti (legge n. 401 del 1985). Gli «effetti letterecci», menzionati dal testo unico in materia sanitaria per indicare cuscini e lenzuola delle camere d’albergo. La norma con i logaritmi (art. 39 del decreto legislativo n. 277 del 1991). Le «nuove imprese innovative» di cui straparla la legge n. 388 del 2000 (art. 106). Le «modalità per la sosta dei cadaveri in transito», disciplinate dal regolamento di polizia mortuaria (decreto presidenziale n. 285 del 1990). Il divieto d’usare ruote quadrate, prescritto dal vecchio codice della strada (art. 66). O infine il delirio semantico che avrebbe inondato la Costituzione stessa, se la riforma Boschi fosse stata accettata al referendum: da 9 a 430 parole nel nuovo art. 70, e il Senato competente «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Questo virus non corrompe unicamente l’universo del diritto: no, corrompe anche la nostra vita democratica. Come diceva Hegel, non c’è democrazia se le leggi sono appese tanto in alto da non poter essere lette. Ma a quanto pare la questione non interessa più nessuno.

C’è forse un partito, un movimento, un leader che se ne faccia portavoce? Eppure qualche anno fa è successo, con un soprassalto di consapevolezza, con uno sforzo bipartisan che coinvolse governi di destra e di sinistra, attraversando tre legislature. Fu l’epoca della «Taglialeggi», ossia della ghigliottina automatica per tutti gli atti legislativi anteriori al 1970, con poche eccezioni circoscritte: un meccanismo inventato dalla legge n. 246 del 2005, perfezionato attraverso una serie d’interventi, dopo di che sfasciato, smontato, rovesciato. Così, la delega della Taglialeggi è stata emendata un paio di volte (dalle leggi 15 e 69 del 2009), mentre l’esecutivo con una mano ha tolto (mediante due decreti legge abrogativi, nonché per effetto del decreto legislativo 212 del 2010), con l’altra mano ha aggiunto (per mezzo del decreto «Salvaleggi»: n. 179 del 2009). E in conclusione ne siamo usciti con più dubbi di quanti ne avevamo indosso prima, mistero sulle leggi abrogate e su quelle salvate, i vivi e i morti assiepati in un unico carnaio, nello stesso girone dell’inferno. Sicché non resta che appellarsi a soluzioni drastiche, tranchant. Sia per svuotare il gran mare delle leggi (nel 2007 la commissione Pajno contò 21.691 atti legislativi dello Stato in vigore, cui però bisogna aggiungere almeno altrettante leggi regionali, nonché 70 mila regolamenti della più varia risma). Sia per depurarne il linguaggio dal burocratese che lo rende inaccessibile ai comuni mortali. Da qui due idee per la prossima legislatura, con la speranza che qualcuno le raccolga. Primo: ogni nuova legge ha l’obbligo d’abrogarne due. Secondo: nessuna legge può superare mille parole. Perché nella patria del diritto, a questo punto, la regola più urgente è il risparmio delle regole.

Così il lavoro affoga nella burocrazia. Quintali di carta, moduli da riempire, certificazioni, autodichiarazioni. Dal chirurgo al ristoratore la moltiplicazione delle scartoffie ruba tempo e tutela poco, scrive Francesca Sironi il 30 agosto 2017 su "L'Espresso". L'ipocrisia di una regola affermata, ma sistematicamente disattesa nella pratica, è un male peggiore dell’assenza di quella stessa norma. Perché «le regole nascono per dare soluzioni ai problemi concreti. Questa è la funzione che dovrebbero tornare a svolgere. Altrimenti ecco le disfunzioni che stiamo osservando in Italia». Riccardo Salomone è ordinario di Diritto del lavoro a Trento. Ed è convinto che «il diritto sia stato caricato di funzioni e significati diversi dai propri». Che soffra, soprattutto, di «una sistematica, perniciosa, ipocrisia», nel nostro paese. Ipocrisia che porta a scrivere un’abbondanza di protocolli, codici e cavilli in commi a contratti, per poi lasciare che la realtà continui a discostarsene con «deviazioni gigantesche». Generando così una doppia stortura: da una parte le norme si fanno più complesse; dall’altra i cittadini smettono di farvi affidamento. «I sistemi normativi sembrano servire oggi soprattutto per evitare questioni. Le regole vengono usate per proteggere se stessi piuttosto che per risolvere i bisogni degli altri», continua Salomone. Risultato? «Diventano burocrazie». Ovvero: l’esercizio del diritto si esaurisce in un modulo che ne prevede la tutela. Per iscritto. E poi non resta altro che un foglio, un’indicazione astratta, incapace di fermarne le eventuali violazioni, di dare soluzioni e spazi, di entrare nel merito. «È la frammentazione degli interessi e del potere», conclude il professore: «Ad aver fatto sì che tutti abbiano fretta oggi di usare le regole per autogarantirsi, per non essere messi in discussione da altri centri di influenza, piuttosto che per risolvere le difficoltà degli altri».

Roberto Orlandi è un ortopedico, non un giurista. Ma vede nella sua pratica gli stessi meccanismi indicati da Salomone. Due mesi fa ha scritto a un quotidiano locale, a Bergamo, lamentando come «la burocrazia valga ormai più del malato». «Da chirurgo penso che sia giusto, e fondamentale, che il medico, il primo responsabile di quanto accade in sala operatoria, scriva nel dettaglio e firmi il verbale dell’intervento eseguito», racconta: «Verbale che comprende la diagnosi, la descrizione, i codici operativi, le check list e tutto il resto. Ma non è normale che io debba ricopiare sulla scheda di dimissioni quanto è già contenuto in quel documento. E così per tutti i copia e ricopia che ci è chiesto di fare, anche dieci volte a operazione, carta che sottrae il nostro tempo a chi è in cura e all’aggiornamento professionale». Sono mansioni amministrative e burocratiche, insiste «che servono solo ad agevolare i controller, non i pazienti». Da due anni si cerca di estendere in Italia la cartella clinica elettronica, che dovrebbe rendere automatico il processo, «ma rischia di rimanere indiscusso il principio: quello di aumentare i moduli per scaricare le responsabilità lungo la catena. È come mettere un divieto da 40 chilometri sulla rampa d’uscita dell’autostrada: sai che tutti andranno più forte, ma così scarichi la responsabilità».

Anche se lavora in un settore e in una regione lontani da quelli dell’ortopedico o del professore, Raul Pennino conosce la stessa ombra. Un anno e mezzo fa, con un gruppo di amici, ha fondato in provincia di Caserta una startup che produce hamburger, fettine e ragù 100 per cento vegetali. Ha la certificazione biologica, quella vegana, i collaboratori formati per la sicurezza, e una frustrazione: «Il corso di formazione sanitaria? Paghi, e passa. Le certificazioni? Paghi, e passa. Gli enti che distribuiscono i loghi sono privati, e non hanno un grande interesse a eseguire ispezioni. Allora è perché io sono meticoloso, e ci tengo, che qui è uno specchio, altrimenti basterebbero quei quintali di carta. Cinque copie di ogni registro, e sei a posto. Loro, li ho visti solo due volte. E a me dispiace tanto, perché penso che i controlli migliorerebbero il settore».

Il problema delle certificazioni nell’alimentare e nel bio, mercati di punta per l’Italia che cerca di uscire dalla crisi, è nazionale: molte di queste non sono che auto-dichiarazioni, operazioni quasi di marketing per avere un bollino. Anche gli istituti più seri restano consorzi privati. «Servirebbe un ente statale. I Nas ad esempio da me sono venuti una volta, a sorpresa.

Hanno trovato ovviamente tutto a posto, perché per me è fondamentale rispettare le regole». Norme, dice, «che sarebbero tutte di buon senso, se non restassero teoriche. E soprattutto se fossero ben coordinate». Altra esperienza diretta che ha: per aprire l’azienda ha fatto la spola fra uffici e uffici che «non sapevano a che classe Ateco ricondurre i miei prodotti», e che «non mi hanno aiutato a districarmi nel sistema». «Alla fine mantieni questa sensazione che se ci riesci, è perché ti hanno fatto un favore», commenta: «Ma questa è proprio una sensazione che non sopporto».

L’ipertrofia e la complessità della normativa sono un altro degli aspetti che ciclicamente riemergono nell’osservare l’impasse burocratica del paese. «Basti pensare all’occupazione: ci sono 800 contratti nazionali di lavoro in Italia. Un paese normale ne ha 200. A cui vanno aggiunti il livello aziendale, le norme europee...», spiega Michele Tiraboschi, direttore del Centro studi Marco Biagi dell’università di Modena e Reggio Emilia: «Partiamo con una quantità enorme di regole. In parte sconosciute agli stessi imprenditori». L’obiettivo dovrebbe essere «avere regole flessibili ma che si applichino a tutti», non regole rigide che vengono sistematicamente aggirate. «Il dibattito di questi giorni sull’autocertificazione nei primi tre giorni di malattia ad esempio è fondamentale. Perché significa diminuire l’impatto di 23 milioni di lavoratori sui medici di base», in un momento, spiega: «in cui piuttosto che di mini verifiche dovrebbero occuparsi del prossimo futuro: ovvero i malati cronici al lavoro. Con l’invecchiamento della popolazione sarà uno dei più importanti temi mondiali secondo l’Oms. E noi non abbiamo nessuna legislazione chiara in merito». Ovvero: «Abbiamo poche regole per le cose più importanti e molte per quello che lo sono meno».

In cucina, come in sala, sarebbero tutti d’accordo, nel ristorante da tre stelle Michelin che la famiglia Cerea conduce da mezzo secolo. «Abbiamo 50 dipendenti. Cresciamo di anno in anno», racconta Chicco Cerea: «Certo, il carico fiscale ti fa passare la voglia d’ingrandirti. E la burocrazia fa il resto per togliere ogni entusiasmo... ma ci proviamo». L’ipertrofia, per Cerea, ha il timbro «dei 12 diversi enti che possono venirci a fare un controllo. Dodici! E poi fanno la legge per “l’home-restaurant”... Immagino i controlli agli abbattitori casalinghi». Si riferisce a una norma per regolamentare le startup delle cene a domicilio: per l’Antitrust il testo in discussione in parlamento è considerato troppo restrittivo. Per Cerea, invece, si tratta già di concorrenza sleale. Di creare due binari: quello di chi avrà meno o zero regole, e quello di chi continua a averne troppe. «Un esempio? La normativa sugli allergeni: giustissima. Ma per un ristorante come noi che cambia il menu praticamente ogni giorno, a seconda delle primizie, è possibile che io debba compilare fogli e fogli con tutti gli allergeni che sono dentro ogni ricetta ogni giorno? Chi li legge?». È teoria. Non pratica. E ogni piccolo sasso sulla strada, per chi cerca d’essere una Ferrari, e non un’utilitaria, è un muro.

La metafora è di Stefano Piccolo, professore di Biologia molecolare all’università di Padova, autore di studi d’avanguardia sulle cellule staminali. Riflettendo sulle “regole”, Piccolo richiama quelle che formano i criteri per la valutazione dei docenti, «in modi che spingono alla medietà. Che non premiano lo sforzo all’eccellenza, anzi abbassano la soglia della qualità». Regole «formali. La cui applicazione egemonica asfissia il merito anziché favorirlo. Queste regole infatti premiano chi si adegua. Non chi innova». Il perché riporta all’inizio della discussione: «perché si delega a una norma, a un algoritmo, la responsabilità di entrare nel merito» . Che dovrebbe invece essere delle persone. E non di moduli.

Lavoro e regole, ecco quelle da buttare secondo cinque professionisti, scrive il 30 agosto 2017 "L'Espresso".

1 - Il ricercatore. Stefano Piccolo, università di Padova il suo allarme è sulla «convergenza al medio del mondo universitario». «Siamo tutti d’accordo sul fatto che dobbiamo essere valutati. Ma i criteri oggi sono al ribasso: non premiano chi si sforza - infinitamente di più - per raggiungere i livelli più alti. E allo stesso tempo non risolvono il problema dei fannulloni». Bisogna entrare nel merito. Riportare le regole alle responsabilità dei pari. «E poi sì, c’è la burocrazia: stessa applicazione di una logica perversa, per cui io devo passare da Consip anche per comprare una penna con finanziamenti europei che ho trovato io. Mentre chi vuole trasgredire sul serio, è preoccupato dalla Consip?».

2 - Il ristoratore. Normativa sugli allergeni: giusta, ma può diventare una mole di carta da compilare ogni giorno ogni volta che cambiamo un piatto? Verifiche Hccp: giuste, ma possiamo avere controlli a sorpresa il sabato sera quando è da 50 anni che dimostriamo di far tutto più che in regola? Sicurezza alimentare: fondamentale; ma a volte sembra partire dal presupposto che siamo tutti frodatori. Penso al tappo antirabbocco obbligatorio per l’olio. Studi di settore: qualcosa sta cambiando, dicono, ma ancora se mandiamo a lavare 100 tovaglioli, non hanno l’elasticità di capire che potremmo averli sostituiti più volte a cliente. No. Considerano 100 coperti».

3 - Il medico. Date al chirurgo quello che è del chirurgo ovvero: «Bisognerebbe far sì che gli amministrativi possano occuparsi pienamente delle pratiche burocratiche. Il medico è necessario per i verbali di merito, ma per il resto? Devo essere io a ricopiare 10 volte una cartella e tutti i suoi codici?». Roberto Orlandi è un ortopedico contro una «burocrazia che toglie il nostro tempo ai malati e all’aggiornamento professionale» «Soprattutto se l’obiettivo non è snellire le procedure, o aumentare la trasparenza, ma solo garantire che i controlli - dall’alto - possano essere fatti solo sui moduli e più velocemente». Bisogna estendere le cartelle cliniche elettroniche quindi. Ma anche cambiare passo.

4 - Il giuslavorista. Primo: ridurre «La salute e la sicurezza sul lavoro sono temi importantissimi. Non possono essere delegati a un codice con 306 articoli con 50 legati tecnici. Una cascata di norme che un operatore a volte non riesce nemmeno a conoscere». Quello che è fondamentale è la concretezza dei metodi per proteggere l’integrità dei lavoratori. Secondo: cambiare priorità «Dobbiamo rendere le regole più flessibili. Ma anche far sì che si applichino a tutti» Terzo: guardare al futuro «Le fabbriche del domani saranno reti territoriali di soggetti. Dobbiamo iniziare a investire allora in contratti del territorio».

5 - Il piccolo imprenditore.

Certificazioni. Servirebbe un ente statale per le certificazioni biologiche e veg. Non solo consorzi privati. Che spesso riducono l’adesione a un pagamento, e a un controllo se mai solo di carte, raramente a una verifica reale.

Coordinamento. Le regole sono giuste, ma devono essere coordinate fra loro.

Formazione. «Quando vuoi lanciare un’impresa, in Italia non c’è una forma di avviato o formazione, o tutoring. Dagli uffici ricevevo solo risposte contraddittorie e quasi mai risolutive. L’impatto con la burocrazia è stato pesante, per noi».

Digitale. Raul Pennino ha lanciato la sua startup in Campania, ora si sta trasferendo nelle Marche. «La digitalizzazione dei servizi era zero», racconta.

IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.

Quelle 700 norme che in Italia sono legge solo in teoria: un'attesa che dura anche tre anni. Siamo un Paese di provvedimenti attuativi in attesa, che significa norme non attuate, diritti negati, politiche di governo lasciata incomplete. I dati sugli ultimi tre governo, da Monti in poi: due leggi su tre sono ancora da completare e almeno 74 provvedimenti sono ormai scaduti, scrive Alessia Sgherza il 27 febbraio 2017 su "La Repubblica". In Italia esiste un limbo delle leggi, un arco di tempo in cui le norme sono state approvate ma rimangono teoria. Norme che vivono in una bolla, un'epoché, una sospensione del giudizio, tra reale e irreale. Perché spesso le leggi demandano la propria effettiva attuazione a successivi provvedimenti attuativi che devono declinare dei princìpi nel mondo di tutti i giorni, imponendo limiti, procedure, precisazioni. Un limbo che sfiora in alcuni casi i tre anni e riguarda centinaia di norme (709 per la precisione): due leggi su tre tra quelle approvate nell'ultimo quinquennio sono ancora da completare. Quello dei provvedimenti attuativi è un altro aspetto critico per la certezza del diritto in Italia. Ci sono i ritardi della giustizia - penale, civile o amministrativa che sia - e i ritardi da parte di ministeri ed altri enti nel rendere efficaci le norme approvate. Con un corollario non irrilevante: a volte le leggi prevedono un termine ultimo entro cui i provvedimenti vanno approvati. E non è raro che quel termine passi. Come è successo a decine di norme (74 per la precisione) approvate tra il novembre 2011 e il febbraio 2014. Norme che restano inapplicate e che per rendere effettive potrebbe essere necessario reintrodurre con una nuova legge, che farebbe scattare una nuova corsa contro il tempo. Sono questi i risultati di un dossier sulle norme in attesa di attuazione prodotto da Openpolis per Repubblica.it e significativamente intitolato 'Il secondo tempo delle leggi'. Un titolo che sottolinea come l'approvazione delle Camere non sia altro che metà della partita, il cui risultato non è definitivo. Indicativo certo, ma non sempre decisivo. La base dei dati. Tutti i dati riportati in questa analisi sono tratti dai report periodici dell'Ufficio per il programma di governo della presidenza del Consiglio dei ministri. Istituito nel 2012 dal governo Monti, l'ufficio tiene traccia dei provvedimenti attuativi di norme di legge già adottati o ancora da adottare. I dati dei report, per quanto utili, sono ancora parziali: al cambiare del governo infatti cambia anche la struttura del dato che è diffuso, e quindi è difficile fare dei confronti. Tutti i dati sono aggiornati al 3 gennaio 2017 e dove non diversamente indicato coprono il periodo che va dal novembre 2011 a oggi, ovvero il periodo di durata in carica dei governi Monti, Letta e Renzi. L'iter delle leggi. Dire "abbiamo approvato la legge" non sempre basta affinché i cittadini possano godere di quei diritti. Come detto le leggi ordinarie, i decreti legislativi (dlgs) e le leggi di conversione dei decreti legge (un complesso che da ora in poi indicheremo per comodità solo come 'leggi') possono - in uno o più articoli - rimandare a un atto successivo che dia concretezza a quelle norme. Più precisamente: tre leggi su dieci hanno bisogno di uno o più provvedimenti attuativi. Può trattarsi di decreti ministeriali (dm); di decreti del presidente della repubblica o del presidente del consiglio (dpr o dpcm); ma anche provvedimenti direttoriali, deliberazioni Cipe, linee d'indirizzo e altro ancora. Con una moltiplicazione dei soggetti coinvolti che rende difficile monitorare il secondo tempo. E quanto manca ancora da fare. La maggior parte di queste leggi (184 su 227) richiedeva un massimo di 10 interventi successivi. Ma in tre casi i provvedimenti richiesti erano più di 80. Si tratta della legge di stabilità 2016 (136 provvedimenti richiesti), della legge di stabilità 2015 (94) e della seconda legge sulla spending review del governo Monti (84). Quasi sempre sono le leggi economiche quelle che richiedono più interventi, e quindi il maggior lavoro ricade proprio sul ministero di via XX settembre. La legge di bilancio 2017 ad esempio, approvata prima delle dimissioni del governo Renzi, richiederà 77 decreti attuativi. O ancora: il decreto sviluppo ne richiedeva 70, il Salva Italia 61, la Stabilità 2014 65. Vedremo poi come nessuna di queste leggi sia stata ancora completamente attuata. Una pesante eredità. C'è uno slittamento di responsabilità e carico di lavoro che è importante sottolineare. I governi e le strutture amministrative sono responsabili di emettere le norme attuative di tutte le leggi che vengono approvate mentre sono in carica, ma non sempre riescono a completare l'opera prima della fine della legislatura o prima di cadere. Ma quella parte di provvedimenti non adottata fa capo sempre a una legge in vigore, quindi il governo successivo deve farsi carico anche dei provvedimenti non adottati dai quelli precedenti. Il governo Gentiloni, in carica da metà dicembre, ha così ereditato tutto il 'non fatto' dei governi che l'hanno preceduto. Solo l'esecutivo Renzi ha lasciato in eredità 550 provvedimenti. Ma nel frattempo ha smaltito parte del carico ereditato da Monti e Letta, e così via. Cosa aspettiamo. Delle 227 leggi che rinviano a provvedimenti attuativi approvate dal 16 novembre 2011, solo 78 sono state completate e sono quindi pienamente efficaci. Ne restano fuori altre 149, che hanno gradi di completamento diversi. Alcune sono quasi complete, come la seconda Spending review (77 adottati su 84 previsti, il 91%) o il decreto Competitività (31 su 33, il 94%). Ma ci sono anche leggi che sono ancora a zero. Due di queste risalgono ai tempi di Monti: si tratta delle leggi sulla Corte penale internazionale e la Legge comunitario 2010. Entrambe prevedevano un solo decreto attuativo, ma in più di 4 anni quell'unico decreto non è stato approvato. Molte le leggi del governo Renzi che hanno un grado di attuazione pari a zero, ma essendo più recenti è meno grave. In ogni caso, da oltre tre mesi si attende un decreto attuativo della riforma del terzo settore, tre provvedimenti previsti della Legge Europea 2015/2016 e una norma della legge per la città di Taranto. L'incidenza dei decreti legge. Il dl è la tipologia di legge che viene completata maggiormente, questo per due motivi: il primo è che la decretazione d'urgenza viene usata appunto per affrontare situazioni emergenziali che hanno bisogno di interventi rapidi; il secondo che a volte gli esecutivi utilizzano questa forma per velocizzare gli atti caratterizzanti il programma di governo. Così abbiamo che i decreti legge hanno il 'tasso di conversione' maggiore rispetto alle altre leggi: l'81% dei provvedimenti attuativi richiesti dai dl sono stati approvati (809 su 990), contro un tasso del 52% per le leggi ordinarie (320 su 611) e del 49% per i decreti legislativi (232 su 469). La percentuale sale di molto per le leggi che risalgono alla fine della XVI legislatura (sotto Monti), con tassi di conversione dell'81% sia per le leggi che per i decreti legislativi e l'86% per i decreti legge. Per i decreti sotto governo Letta stesso 86%, che però scende rispettivamente a 73 e 78% per leggi e dlgs. Renzi - che essendo più recente ha tassi di approvazione più bassi - si ferma al 70%, 42% e 39%. Guardando al totale, questo significa che siamo ancora in attesa di 709 provvedimenti attuativi di norme che sono diventate legge negli ultimi 5 anni. Mille giorni. Se il governo Renzi ha celebrato i suoi mille giorni in carica poco prima di cadere e Claudio Baglioni ha dedicato a questa cifra tonda addirittura una canzone, ci sono altri mille giorni che invece sarebbe meglio dimenticare. È la giacenza media di attesa perché un decreto legge sia completato con tutti i decreti attuativi. Ci sono attualmente 40 dl approvati dai governi Monti, Letta e Renzi che sono ancora incompleti pur essendo stati approvati (in media) da 1032 giorni. E bisogna sottolineare il paradosso dell'inserire norme differibili nella decretazione di urgenza e poi far passare centinaia di giorni prima di renderle efficaci. Il dato di giacenza è un po' più basso per le leggi ordinarie: ci sono 20 leggi ancora incomplete da 815 giorni. Quattro volte il tempo che ci ha messo il parlamento ad approvarle. Alle lentezze del sistema bicamerale si sommano quelle del secondo tempo. Nel 2012 ci furono anche due casi limite. Il governo Monti adottò due norme che risalivano al primo governo Prodi. Ovvero a quindici anni prima, leggi approvate tra il 1996 e il 1998. Tempo scaduto. Corollario della lentezza dell'approvazione è il problema della scadenza. Altro che zona Cesarini: il secondo tempo delle leggi spesso termina senza che le norme si possano approvare. Perché a volte le leggi prevedono un termine entro il quale i decreti attuativi vanno approvati. E non sempre succede. I numeri sono impietosi: dei 154 decreti attuativi risalenti ai governi Monti e Letta, 74 sono ormai scaduti. Si tratta quasi della metà, il 48,05%. Poi ce ne sono due che ancora si è in tempo per adottare e altri 78 che per fortuna delle amministrazioni pubbliche non hanno scadenza. Ma i numeri freddi da soli non bastano a dare il senso, se non si calano nella realtà delle norme e della società. Su un tema caldo della politica come il finanziamento ai partiti, la legge approvata dal governo Letta richiedeva in totale 5 provvedimenti attuativi. Due non sono mai stati adottati, e ormai sono scaduti. Il primo è il decreto che doveva definire criteri e modalità del divieto per i gruppi di società, società controllate e collegate di effettuare 'erogazioni liberali', ovvero donazioni, ai partiti per un valore superiore ai 100.000 euro. L'altro decreto attuativo che non ha visto la luce doveva stabilire come tracciare i finanziamenti e i contributi effettuati con mezzi di pagamento diversi dal contante. Non proprio due problemi irrilevanti o marginali. Superlavoro per Padoan. La maggior parte del lavoro di attuazione delle leggi ricade sul ministero dell'Economia, una costante per tutti i governi considerati. E il ministero di via XX Settembre è anche uno dei dicasteri più efficienti, considerando la mole di lavoro. Prendiamo il periodo Monti. L'Economia ha attuato l'88% di norme con l'adozione di 141 norme. I ministeri della Difesa, degli Esteri e degli Affari regionali hanno un tasso di approvazione del 100%, ma avevano in carico solo 15, 6 e 1 provvedimento in carico (rispettivamente). I meno efficienti - sempre in riferimento al periodo Monti - sono i ministeri dell'Istruzione (35 approvati su 44, 79%), Cultura (7 su 9, 79%), Infrastrutture (31 su 40, 77%), Interno (28 su 37, il 75%) e Giustizia (18 su 24, sempre il 75%). Con Letta si confermano al 100% gli Esteri e gli Affari regionali (ma in valori assoluti sempre di pochi atti si tratta, rispettivamente 2 e 1), mentre Giustizia e Cultura si riscattano adottando tutti i provvedimenti necessari (11 e 16). La maglia nera va invece al ministero dei Rapporti con il parlamento: solo 1 su 2. A ruota il ministero della Salute (9 su 15, il 60%). Sotto Renzi tassi di approvazione più bassi, ma l'economia spicca sempre per il superlavoro: ne ha adottati 122 su 300. Nessun altro ministero ne ha così tanto in carico: solo il Lavoro supera i cento (102, di cui solo 55 adottati). Miglior performance per il ministero dell'Ambiente, con tre provvedimenti su 4 adottati. Zero per cento per il ministero delle Riforme e dei rapporti con il Parlamento, con tre atti ancora in attesa. Il governo Gentiloni all'opera. Al di fuori dei dati del dossier Openpolis, che come detto si ferma a inizio gennaio, possiamo andare a fare un primo bilancio dell'attività del governo Gentiloni, che ha pubblicato il suo primo report (pdf). Al 1° febbraio, i ministri del governo in carica avevano dato attuazione a 19 norme, di una risalente al governo Letta e le altre approvate sotto il governo Renzi. Il più vecchio è quindi il decreto ministeriale previsto dal comma 54, articolo 1, della legge di Stabilità 2014 che riguarda la "Definizione delle misure per favorire i processi di crescita dei consorzi di garanzia collettiva dei fidi (confidi) sottoposti alla vigilanza della Banca d'Italia". Tra le altre norme diventate realtà nelle ultime settimane troviamo un dpcm atteso da oltre un anno (era nella Stabilità 2016), ovvero l'aggiornamento dei Livelli minimi di assistenza che ha impatto sulla salute di decine di milioni di persone. Altra norma che riguarda molti dipendenti pubblici è la definizione delle amministrazioni statali "verso le quali è consentito il transito del personale del Corpo forestale dello Stato" che è stato accorpato ai Carabinieri e la "definizione dei criteri da applicare alle procedure di mobilità". La legge era stata approvata il 19 agosto scorso. E c'è ovviamente anche la norme del decreto terremoto, per i territori colpiti dal sisma di Amatrice, che riconosce "i Comuni colpiti dagli eventi sismici come aree di crisi industriale complessa". Ma la strada è ancora lunga. Almeno altri 700 gradini di una scala che continua ad alzarsi. 

L'INSICUREZZA PUBBLICA E LA VIDEO SORVEGLIANZA PRIVATA.

Vietato dire che i ricercati sono stranieri. Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale".  Neppure di fronte all'orrore di uno stupro di gruppo ai danni di una ragazza il politicamente corretto molla il colpo. Lo stupro è un reato infame, chiunque lo commetta. Ma il punto è: perché non dire chi, o meglio chi si sta cercando come presunti responsabili, come sta accadendo per il caso della ragazza violentata sulla spiaggia di Rimini? I lettori della maggior parte dei giornali quotidiani di ieri e dei telegiornali, che pure hanno riservato ampio spazio al fatto, non sanno o hanno al massimo intuìto, leggendo tra le righe, che la polizia sta dando la caccia a tre immigrati maghrebini. Saranno loro i colpevoli? Non lo sappiamo, ma la notizia è che gli inquirenti stanno cercando proprio loro. E allora perché non dirlo, non fornire all'opinione pubblica l'identikit del possibile assassino, come avviene in tutti i casi di cronaca nera fin dai tempi dei tempi? Siamo certi che se la ragazza stuprata e il suo compagno ferito avessero riferito di essere stati assaliti invece che da persone di carnagione scura da italiani, non ci sarebbero state tutte queste precauzioni e omertà. E i titoli sarebbero stati più o meno: «La banda dei biondini violenta giovane turista». Ripeto, oggi nessuno sa la verità, ma gli inquirenti sanno bene chi stanno cercando, i giornalisti sanno bene la pista battuta dagli inquirenti, i direttori dei giornali sanno bene cosa sanno i giornalisti. Tutti sanno, ma nessuno osa dire e scrivere con chiarezza. Siamo al punto che gli immigrati, rispetto a noi italiani, non solo sono tutelati dal sistema quando occupano una casa ma pure quando sono sospettati di avere stuprato una ragazza. È il maledetto virus con cui le Boldrini e i Saviano hanno infettato il paese, un razzismo all'incontrario, tutelato perfino dall'Ordine dei giornalisti che indaga e punisce i colleghi che osano vaccinarsi, cioè chiamare le cose con il proprio nome. Di recente sono finito sotto processo per un titolo: «Tentano di rapire un bimbo, la polizia setaccia campo rom», che riportava fedelmente i fatti. Rivendico la libertà di informarvi che la polizia, per i fatti di Rimini, sta cercando tre immigrati, il che non vuole dire nulla di più e nulla di meno di ciò che sta accadendo in queste ore. Non saremo politicamente corretti ma professionalmente sì. E questo ci basta.

Lo stupro innocente, scrive Antonella Grippo il 30 agosto 2017 su "Il Giornale". C’è stupro e stupro. C’è fallo e fallo. Quello immigrato, ad esempio, detiene un’intrinseca ragionevolezza sociologica, persino nella sua massima e ruvida erezione. Non è che puoi fare la femminista, se non c’è di mezzo un maschio di Ladispoli, di Muro Lucano o di Busto Arsizio! Come fai a prendertela con il piffero magrebino? A ben guardare, è poetico, intriso di lirismo ancestrale. Di fremiti di guerra e povertà. Si tratta di un fiotto di antropologia tribale. Va argomentato, discusso. Giammai decontestualizzato dalle braghe di riferimento. Vuoi mettere…Altro che la saccente protuberanza virile degli impiegati del catasto di Avellino, che, ancorché dimessa, si sollazza con lo stupro di suocere, colpevoli assertrici della secessione di Romagna. Per non parlare della fava dei benzinai di Matera, che quando s’ingrifa, non corrisposta, è capace di ispirare l’intera arte operaia del Femminicidio. Tutto il resto non fa dottrina. Del resto, non si può pretendere che le Damine di San Vincenzo disertino i summit settimanali sui prodigi terapeutici del ricamo ad uncinetto, per occuparsi di femmine sfigate, perdippiù polacche, incapaci di interloquire con la bestia che abita i calzoni africani, al fine di capirne i bisogni, interrogarne le aspettative, in un clima di Multimazza. Meglio falcidiare l’assioma partenopeo per eccellenza: Il cazzo non vuole pensieri. Contrordine, compagne: il pisello magrebino convoca tutta la storia del pensiero occidentale. Esige e reclama lo sguardo delle scienze umane. Chiede di essere indagato, decriptato. Accolto. In fondo, è un’innocenza analitica. Politically correct.

Stupri e immigrati, scrive Giampaolo Rossi il 31 agosto 2017 su "Il Giornale".

PREGIUDIZI E TABÙ. L’argomento è scottante e viola il rigido protocollo imposto dai talebani del politically correct. Certo, se decidete di affrontarlo, aspettatevi la solita accusa di essere i nipotini di Goebbels. Non vi preoccupate, fa parte del gioco; sopportate con santa pazienza e andate avanti perché il problema esiste e non va rimosso; e non solo sull’onda dell’emotività che la cronaca ci riserva: la giovane turista polacca stuprata a Rimini o l’anziana di Forlì violentata da un nigeriano o la 12enne di Trieste abusata da tre immigrati (solo per citare gli esempi più recenti). Quando un anno fa la piddina Debora Serracchiani, di fronte allo stupro di una studentessa italiana minorenne da parte di un richiedente asilo iracheno, dichiarò: “la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”, un fiume in piena di scandalizzata indignazione si riversò contro di lei: colleghi di partito e immancabili intellettuali del Pensiero Collettivo. Allora proviamo ad affrontare il tema senza tabù e senza pregiudizi.

I NUMERI IN ITALIA. Stefano Zurlo, su Il Giornale, ha riportato una notizia scioccante: un’indagine di Demoskopika, realizzata elaborando dati del Viminale, ha svelato che “nel quinquennio 2010-2014, il 39 per cento delle violenze sessuali in Italia è stato compiuto da stranieri”. Un numero impressionante – nota Zurlo – se si considera “che nel 2014, solo l’8,1% dei residenti in Italia veniva da fuori”. Ovviamente Zurlo è molto cauto e sottolinea che non bisogna fare “generalizzazioni”, né “distribuire patenti di primogenitura”. Anche perché a distribuirle ci pensa il Ministero dell’Interno il giorno dopo, inviando una nota all’AdnKronos in cui spiega che nel 2016 i reati contro le donne compiuti dagli italiani sono aumentati (1.534 contro i 1.474 del 2015), mentre quelli degli stranieri sono diminuiti (904 contro i 909 del 2015, 4 in meno). Ma la stessa AdnKronos ammette che se si guardano le percentuali in rapporto alla popolazione (che è esattamente ciò che si dovrebbe controllare) le violenze commesse dagli stranieri sono maggiori. Anche perché al conteggio sfuggono ovviamente i casi non denunciati che è plausibile siano maggiori nelle comunità di immigrati perché una donna straniera (magari profuga e richiedente asilo, inserita in contesti comunitari chiusi) ha più timore a denunciare una violenza subita rispetto ad una donna italiana. D’altronde è un dato di fatto che la possibile correlazione tra l’esodo migratorio di giovani maschi e l’aumento delle violenze sessuali non sembra riguardare solo l’Italia. In tutti i paesi che hanno adottato politiche di accoglienza massiccia i reati a sfondo sessuale sono tra quelli con maggiore aumento, insieme ai furti.

I NUMERI IN GERMANIA. Il Rapporto annuale sulla “Criminalità nell’ambito della migrazione” pubblicato il 27 Aprile scorso dalla Bundeskriminalamt (BKA), la Polizia Federale tedesca, rivela che nel 2016, il numero dei reati a sfondo sessuale compiuti da stranieri è aumentato del 102%, passando da 1.683 violenze del 2015 alle 3.404 del 2016. In altre parole, da quando la signora Merkel ha aperto le frontiere ad oltre un milione di immigrati, avvengono circa 5 reati sessuali al giorno compiuti dai nuovi arrivati. Negli ultimi quattro anni, l’aumento è stato del 500%. I reati comprendono molestie, stupri e abusi sessuali su bambini e minori; quest’ultimo reato (il più odioso) è quello che ha registrato il tasso di crescita più elevato, +120%. Il 71% degli immigrati autori di violenze sessuali ha meno di 30 anni (il 17% è in età adolescenziale). Soeren Kern analista del Gatestone Institute e studioso dei problemi connessi alla migrazione in Germania l’ha definita una “epidemia di stupri”.

IL CAPODANNO DI COLONIA. Il caso più eclatante avvenne la notte di Capodanno del 2015, quando circa 1200 donne subirono aggressioni e molestie sessuali in diverse città tedesche (600 solo a Colonia e 400 ad Amburgo). Un vero e proprio assalto di massa perpetrato, “nella stragrande maggioranza da persone che rientrano nella categoria generale dei rifugiati”, come dichiarò allora il Procuratore di Colonia Ulrich Bremer. Il Capo della Polizia Holger Münch dichiarò che era evidente “la relazione tra ciò che era accaduto e la forte immigrazione avvenuta nel 2015″. La polizia tedesca denunciò i fatti di Colonia come applicazione del Taharrush, una sorta di “molestia sessuale collettiva” (che a volte si conclude con stupri di gruppo) praticata in alcuni paesi islamici e venuta alla ribalta dei media occidentali durante le manifestazioni di piazza della Primavera Araba, quando si verificarono diversi casi di violenze ai danni di giovani donne musulmane. Da sottolineare che per mesi, i media tedeschi hanno nascosto la portata dell’accaduto secondo un comportamento coerente con la volontà di manipolare l’informazione sui temi dell’immigrazione; volontà denunciata da una clamorosa ricerca scientifica che inchioda la stampa tedesca alle proprie responsabilità. La situazione è divenuta di una tale emergenza sociale che il 7 luglio 2016 il Parlamento tedesco ha dovuto approvare modifiche al codice penale proprio sui reati sessuali, ampliando la definizione di stupro per consentire più facilmente l’espulsione degli immigrati colpevoli.

SVEZIA E FINLANDIA. Il tema dell’aumento dei reati sessuali in relazione all’immigrazione è stato analizzato anche in altri paesi come la Svezia e la Finlandia dove hanno fatto scalpore episodi cruenti di violenze operate da giovani immigrati. In particolar modo nel 2016, in Svezia venne a galla lo scandalo della copertura che la polizia operò sulle violenze durante un festival musicale a Stoccolma, quando diverse adolescenti svedesi furono aggredite da giovanissimi immigrati, per lo più afghani. Uno solo caso di stupro ma decine i casi di molestie sessuali e violenze. La legislazione svedese vieta di rendere note le identità etniche e religiose di chi commette reati; è quindi impossibile capire se l’aumento oggettivo di stupri negli ultimi 10 anni sia legato al massiccio aumento di immigrati dai paesi islamici o solo a modifiche dell’apparato legislativo svedese che ha allargato la definizione di violenza sessuale (come tendono ad affermare i difensori del modello multiculturale). In Finlandia il più recente rapporto della polizia denuncia un aumento dei reati sessuali del 23% nei primi 6 mesi del 2017 ed un calo del 5% di quelli commessi da stranieri. Ma la percentuale degli abusi sessuali commessi da immigrati continua ad essere altissima, quasi il 30%.

IL PROBLEMA C’È. Tutto questo cosa significa? Che esiste un’equazione immigrato = stupratore? Certo che no e se qualcuno lo pensa è un imbecille. Ma è un imbecille anche chi nasconde l’identità di uno stupratore quando è un immigrato, per non suscitare sentimenti razzisti. È evidente che l’immigrazione a cui l’Europa si è aperta, presenta enormi criticità che mettono a rischio la tenuta sociale ed economica delle nazioni e la loro identità culturale ed il loro sistema giuridico. Alcuni punti da sottolineare: Profughi e richiedenti asilo rappresentano una minoranza di coloro che entrano in Europa. Dalle guerre fuggono in genere donne e bambini, mentre l’Europa sta accogliendo prevalentemente maschi giovani di età compresa tra i 17 e i 30 anni in piena vitalità sessuale. Quando un processo immigratorio non è governato ma subìto, come avviene (grazie all’irresponsabilità dei governi europei e alla volontà criminale delle élite globaliste), è impossibile controllare chi accogli nei tuoi paesi. Gli immigrati provengono prevalentemente da paesi con culture che hanno una visione del “femminile” e dei diritti tra uomo e donna molto diversi dall’Occidente. In queste culture (soprattutto islamiche) la condizione di sottomissione della donna rende difficile stabilire i limiti legislativi all’interno dei quali definire cos’è un abuso sessuale o una violenza

Ovviamente il problema non è se gli europei stuprano più degli immigrati o se un immigrato che stupra è più colpevole di un europeo (anche se il principio dell’accoglienza e dell’ospitalità, implica l’obbligo della reciprocità e rende più odioso un reato commesso da un immigrato, su questo ha ragione la Serracchiani); il problema è sancire l’esistenza di un problema sociale e culturale senza rimuoverlo secondo quel meccanismo paranoico proprio dell’ideologia globalista, liquidando come razzista chi lo pone; problema che deriva da un’immigrazione non più sostenibile.

IL CASO GOREN. In Germania fece scalpore il caso di Selin Goren giovane portavoce di Solid, movimento di estrema sinistra; una ragazza impegnata in politica nei movimenti a favore dell’immigrazione. Una sera di Gennaio del 2016, in un parco di Mannheim, la ragazza venne violentata da tre uomini. Alla polizia dichiarò che i tre parlavano tedesco. Solo tempo dopo, convinta da una sua amica, ritrattò e affermò che i tre erano immigrati e parlavano arabo. In un’intervista a Der Spiegel spiegò che aveva mentito per non “aumentare l’odio verso i migranti”. Dopo essere stata violentata questa ragazza imbevuta di ideologia, si è auto-violentata in nome di un buonismo che rasenta la patologia sociale. Vittima due volte: di una violenza generata da altri e di una generata da se stessa. Ecco questa è l’immagine più chiara di come l’Europa rischia di finire: auto-violentandosi per non guardare in faccia la realtà.

Stupratori, il dato choc: stranieri quattro su dieci. I non italiani sono l'8% della popolazione. I nodi: espulsioni e controllo del territorio, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". I dati sembrano essere fatti apposta per rovinare il presepe del politicamente corretto, ma i numeri non possono essere ignorati. Le statistiche criminali, anche se incomplete e in ritardo, ci dicono che quasi 4 stupri su 10 sono commessi da stranieri. Tanti, tantissimi, ancora di più se si pensa che i non italiani rappresentano solo l'8 per cento della popolazione. Inutile voltarsi dall'altra parte e fingere di non vedere: la realtà è lì con tutto il suo peso a travolgere facili teorie buoniste, ingenue come le favole. Non si tratta di un atto d'accusa, ma di riflettere su un Paese che si sta slabbrando per tante ragioni, non ultima un'immigrazione senza griglie e controlli che sta regalando frutti avvelenati. L' indagine condotta da Demoskopika, elaborando le tabelle del Viminale, compone un quadro purtroppo inquietante: nel quinquennio 2010-2014 il 39 per cento delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61 per cento opera di italiani. Dal punto di vista delle proporzioni qualcosa non quadra, anzi stride: nel 2014 risiedevano nel nostro Paese 60,8 milioni di persone e di queste il 91,9 per cento era italiano e solo l'8,1, circa 4,9 milioni, veniva da fuori. Le quote non sono in linea. Anzi. Denunce e arresti si sono moltiplicati in quella direzione. Su 22.864 casi segnalati nel quinquennio (il numero vero delle violenze resta naturalmente sconosciuto) molto spesso gli investigatori hanno messo nel mirino individui con passaporto non tricolore: romeni, anzitutto, e poi albanesi e marocchini. Sia chiaro, non si tratta di assolvere frettolosamente i nostri connazionali: sappiamo benissimo che tante donne subiscono angherie, soprusi e molestie di ogni genere fra le mura domestiche: gli autori sono mariti, fidanzati, ex che non ne vogliono sapere di alzare bandiera bianca. E sappiamo altrettanto bene che la lista degli autori di questi crimini efferati, dallo stalking fino al femminicidio, comprende nomi che suonano e ci sembrano familiari. Dunque non pericolosi, secondo un'equazione che invece non torna. Ma questo è solo un capitolo del libro nero: poi c'è l'altro che ha a che fare, gira e rigira, con la qualità di chi arriva. L'Italia è diventata, anche se non è elegante sottolinearlo, una sorta di Bengodi per ceffi e delinquenti in fuga dai loro Paesi e convinti, come ha scritto un giudice, che qui sia possibile fare quel che si vuole. Nella più completa impunità. Poi c'è il nodo di un'immigrazione fuori controllo, regolata con superficialità o peggio, come per la Romania, sottovalutando sconsideratamente le obiezioni all'ingresso di Bucarest nella Ue. Ci sono pure paesi in cui la donna vale poco o niente e questo inevitabilmente non è un elemento neutrale. Tanti problemi che si sommano, quelle cifre sconfortanti da mettere in fila. I romeni sono solo l'1,8 per cento dei residenti, ma vengono loro addebitati l'8 per cento degli stupri. Numeri pesanti anche per albanesi, tunisini, marocchini. Nessuna generalizzazione, ci mancherebbe, e nemmeno distribuzione di patenti di primogenitura. È che il nostro Paese ha una politica criminale che fa acqua: si difende poco e male e cosi tutela ancora meno le donne, italiane e non. La terribile vicenda di Rimini, la caccia al branco che viene da fuori, riapre una ferita mai chiusa. E che tocca tanti nodi: il controllo impossibile del territorio, l'effettività della pena, gli ingressi senza semaforo e le mancate espulsioni, la lentezza e la farraginosità della nostra giustizia. Non e' con qualche formuletta multietnica che si affrontano questi temi, come non è con una legge a costo zero e con la solita retorica delle buone intenzioni che si può fermare la mattanza che insanguina le nostre case da troppo tempo.

Ogni anno mille stupri commessi da immigrati: 3 casi al giorno. Gli abusi sessuali non calano mai. Ogni anno mille casi da stranieri, che sono i violentatori nel 40% dei casi. E spesso gli stupri rimangono senza denuncia, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 1/09/2017, su "Il Giornale". Ogni anno mille stupri commessi da migranti, regolari o clandestini. Un dato che allarma le autorità e gli italiani, sempre più spaventati dal rischio di finire vittime di un branco di stupratori come accaduto nei giorni scorsi a diverse coppie a Rimini. Le stime diffuse dall'Istati parlano chiaro e sono sempre numeri al ribasso, visto che solitamente solo il 7% degli stupri viene denunciato. L'istituto di statistica, come riporta il Corriere, spiga che nei primi sei mesi del 2017 le violenze sessuali sono state 2.333, allo stesso livello di quelle commesse nell'anno precedente, quando gli stupri furono 2.345. Tanti, anche se sottostimati. A sorprendere però sono gli autori denunciati di tali orribili atti: nel 2017 sulle scrivanie delle forze dell'ordine sono finiti i profili di 1.534 italiani e ben 904 stranieri. Divisione rimasta anche questa pressocché invariata rispetto all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini 1.474. A conti fatti, dunque, ogni anno mille migranti si macchiano dell'orrendo reato dello stupro. Vi sembrano pochi rispetto agli italiani? Non è così. Perché il calcolo va fatto considerando che gli stranieri regolari in Italia sono appena 5 milioni (secondo l'ultimo dato ufficiale) oltre ad un altro milione di irregolari. Questo significa che il tasso di incidenza sulla percentuale di stupri è molto più alta rispetto a quella dei cittadini autoctoni. La "società di ricerche Demoskopica - scrive il Corriere - ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010- 2014, secondo cui 'il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali'". I numeri sulle violenze carnali non sono incoraggianti. Secondo le stime il 21% delle donne italiane, ovvero 4,5 milioni di individui, almeno una volta nella vita è stata costretta ad avere un rapporto sessuale e almeno 1,5 milioni sono state vittima di volenze carnali più gravi: "653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro", scrive il Corriere. E spesso le violenze avvengono in famiglia, dove quasi il 40% delle mogli, figlie o fidanzate è stata vittima almeno una volta di aggressioni che hanno portato a ferite o lesioni.

Il dossier del Viminale: 2.438 denunciati per stupro o abusi. Secondo i dati sui primi sei mesi di quest’anno, sono 1.534 italiani e 904 stranieri, scrive Fiorenza Sarzanini il 31 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". È certamente uno dei reati più odiosi. Ed è anche l’unico a restare sempre uguale nel numero di segnalazioni, a fronte di un generale calo dei delitti. Segnalazioni che, peraltro, sono una percentuale minima rispetto alla realtà. Perché le stime diffuse dall’Istat dicono che appena il 7 per cento degli stupri viene denunciato, vuol dire che migliaia di episodi rimangono impuniti. Le donne hanno paura, visto che molto spesso la violenza la subiscono in famiglia. Oppure si vergognano, comunque temono le conseguenze. La conferma è nei dati forniti dal Viminale: tra gennaio e giugno del 2017 sono state commesse 2.333 violenze carnali, nello stesso periodo del 2016 furono 2.345. Basso anche il numero delle persone denunciate o arrestate: 2.438 nei primi sette mesi di quest’anno. Tra loro, 1.534 italiani e 904 stranieri. Un dato che - come chiariscono investigatori e analisti - si deve però rapportare al numero degli abitanti e dunque all’incidenza percentuale rispetto alla popolazione. Nel 2016 sono stati 2.383 con una divisione che è rimasta pressoché invariata: 1.474 italiani, 909 stranieri.

6 milioni di vittime. È proprio l’Istat a fornire una fotografia drammatica. Secondo l’ultimo rapporto ben il 21 per cento delle donne italiane - pari a 4,5 milioni - è stata costretta a compiere atti sessuali e 1 milione e mezzo ha subito la violenza più grave: 653mila donne vittime di stupro, 746mila di tentato stupro. Un intero capitolo è dedicato della relazione è dedicato agli abusi in famiglia: il 37,6% tra mogli e fidanzate ha riportato ferite o lesioni, il 21,8% soffre di dolori ricorrenti. E in una catena di orrori senza fine si scopre che nel 7,5 % dei casi a scatenare l’ira del partner è la gravidanza indesiderata. Indicativo, secondo gli analisti, è lo stato di vessazione psicologica che riguarda ben 4 donne su 10. In questo caso viene sottolineata l’incidenza sui rapporti interpersonali di quello che gli esperti definiscono l’«asimmetria di potere» che «sempre più spesso sfocia in gravi forme di svalorizzazione, limitazione, controllo fisico, psicologico ed economico. Il 40,4% delle donne, oltre 8,3 milioni, «è stata abusata verbalmente fino a sopportare gravi danni allo sviluppo della propria personalità, una su 4 ha difficoltà a concentrarsi e soffre di perdita di memoria».

Delitti in calo. I numeri forniti dal ministero dell’Interno a Ferragosto segnalano un generale calo - in alcuni casi molto evidente - dei delitti. Negli ultimi due anni c’è stata una diminuzione pari al 12 %: si è infatti passati da 1.463.156 reati denunciati nei primi sette mesi del 2016 a 1.286.862 nello stesso periodo del 2017. Scendono del 15,1% gli omicidi passando da 245 a 208; giù del 11,3% le rapine da 19.163 a 16.991; si riducono del 10,3% i furti (anche se pure in questo caso gioca soprattutto la diminuzione delle denunce) da 783.692 a 702.989. A rimanere stabile è appunto soltanto il numero degli stupri: la statistica parla di una riduzione dello 0,5% quindi, di fatto, inesistente. E a far paura è anche l’analisi di un fenomeno che coinvolge spesso anche i minorenni. Nel 2015 il ministero della Giustizia aveva in carico 532 ragazzi condannati per stupro e 270 per stupro di gruppo.

Gli stranieri denunciati. Il numero di stranieri denunciati o arrestati è basso, ma diventa indicativo se si fa un raffronto con le presenze in Italia che - secondo le ultime stime - sono di circa 5 milioni di residenti e quasi un milione di irregolari. Nei giorni scorsi la società di ricerche Demoskopica ha reso noto un dossier relativo agli anni 2010-2014, secondo cui «il 39% delle violenze sessuali è stato compiuto da stranieri contro il 61% da connazionali». L’analisi per etnie delle denunce presentate dice che dopo gli italiani «ci sono i romeni, poi gli albanesi e i marocchini». Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, avverte: «Più che fare una differenza di cittadinanza, dobbiamo preoccuparci visto che sta passando un messaggio tremendo di impunità. Gli stupri in Italia sono all’ordine del giorno».

Igor e paradossi. La Questura sapeva solo leggendo i giornali, scrive mercoledì 1 Novembre 2017 "Estense". Anche la Provincia: “Non informati del concreto rischio della presenza di un latitante altamente pericoloso”. Alla riunione del Comitato provinciale su ordine e sicurezza pubblica tenutosi il 7 aprile “nulla era riferito dal comandante provinciale dei Carabinieri di Ferrara, colonnello Andrea Desideri, sulla problematica rappresentata dal rischio della latitanza del pluripregiudicato e ricercato Igor Vaclavic. L’omissione di siffatte informazioni impediva a Prefettura e Questura l’adozione di misure di sicurezza più idonee e mirate a tutelare l’incolumità degli operatori del settore e questo anche con particolare riferimento alle Guardie Ecologiche Volontarie”. Che fosse risaputo che Igor gravitasse in quella zona, tanto da essere ricercato dalle forze dell’ordine di tre provincie, lo si evince anche dal provvedimento di fermo di indiziato di delitto emesso il 10 aprile dal pm Savino per l’omicidio di Verri e il tentato omicidio di Ravaglia: “Sussiste fondato motivo di ritenere che autore dell’omicidio sia Vaclavic Igor. Il predetto, che gravita proprio nella zona ove è stato commesso l’omicidio, era ricercato dagli operanti di Ferrara, Ravenna e Bologna”. In questa catena di avvenimenti ve n’è infine uno che Anselmo giudica “paradossale”: “la Questura di Ferrara afferma nella comunicazione dell’8 giugno 2017 in più passaggi di avere appreso notizie dagli organi di informazione e dalla stampa, anziché dalle autorità all’uopo preposte a fornirle e precipuamente il Comando Provinciale dei Carabinieri”. Lo stesso vale per la Provincia, competente per le guardie provinciali. In una comunicazione dell’8 giugno il suo presidente afferma “di non essere stato informato da alcuno ed in alcuna forma del concreto rischio rappresentato dalla presenza, nel territorio ferrarese, di un latitante altamente pericoloso per la pubblica sicurezza e personale della polizia in servizio”. Anche Tagliani aveva appreso dalla lettura dei giornali della “zona rossa” ma senza alcuna comunicazione ufficiale. Sempre Tagliani aggiunge che “il Comandante della Polizia Provinciale avesse sospeso i servizi delle Guardie Ecologiche Volontarie dal 10 aprile con telefonate e messaggi via sms e whatsapp nella “zona rossa” per evitare intralci all’attività di ricerca dell’autore dell’omicidio”. Eppure la collaborazione della questura poteva risultare utile, visto che si era occupata indirettamente di Vaclavic in seguito alle rapine in villa dell’estate del 2015 con la banda Pajdek. La squadra mobile scrive infatti il 18 aprile alle procure di Bologna e Ferrara “per ogni sviluppo investigativo” che una testimone sentita nel processo per l’omicidio di Tartari abitava a pochi km dal bar Riccardina di Budrio e ancor meno dal luogo dove era stato abbandonato il Fiorino utilizzato da Igor per darsi alla fuga dopo l’omicidio Verri. “Se la Questura avesse avuto tempestiva conoscenza – sottolinea l’avvocato – del fatto che si sospettava fondatamente che Igor fosse autore dei delitti del 30 marzo e del 1º aprile, avrebbe potuto rendere nota siffatta circostanza nell’immediatezza e costituire così valida pista investigativa. Si sarebbe potuto controllare la presenza di Igor in quel posto, come è probabile che sia avvenuto considerato che Igor rimase ferito durante la rapina del 1º aprile e necessitasse di cure”. Tutti elementi che secondo il legale dei figli di Verri confermano “la sussistenza del nesso causale tra l’omessa tempestiva informazione da parte degli organi inquirenti dell’Arma dei Carabinieri alla Questura ed alla Prefettura e la morte di Valerio Verri”. La mancata comunicazione con urgenza del “reale ed effettivo esito delle indagini svolte ha impedito l’adozione di quelle misure da parte di Questura, Prefettura e Provincia, che solo successivamente all’omicidio dell’8 aprile sono state adottate, a tutela dell’incolumità pubblica e che sarebbero state concretamente e certamente idonee ad impedire la morte di Valerio Verri. Sarebbe stato, infatti, sufficiente sospendere i servizi delle Guardie Ecologiche Volontarie nelle zone che si conosceva essere luoghi di azione di Igor”. “Era, pertanto, pretendibile che il territorio di Argenta e Portomaggiore – conclude il documento – fosse interdetto dall’azione delle Guardie Ecologiche Volontarie proprio per la peculiarità del servizio da essi svolto, suscettibile di grave e contingente pericolo. Se ciò fosse stato fatto Valerio Verri non sarebbe morto”.

Igor e quella badante «dimenticata». Sulle tensioni tra chi investigava intervengono i carabinieri: tutto è stato condiviso. J’accuse della questura di Ferrara: potevamo fornire molti elementi in più su Feher. Spunta il legame del fuggitivo con una donna, testimone chiave per l’omicidio Tartari, il 73enne massacrato dopo una rapina nel Ferrarese nel 2015, scrive il 3 novembre 2017 “Il Corriere della Sera”. Se i carabinieri avessero fatto circolare meglio le informazioni in loro possesso, la Questura di Ferrara avrebbe potuto fornire ai militari molti elementi su Norbert Feher, alias Igor Vaclavic, anche prima dell’omicidio di Valerio Verri. Tra questi l’indicazione di una badante che frequentò la banda di Pajdek, con cui Igor aveva seminato il terrore nella Bassa Ferrarese fino al 2015, e che viveva proprio a Molinella, a una manciata di chilometri dal bar di Davide Fabbri.

Scambio di informazioni. La tesi che uno scambio di informazioni più trasparente tra le forze dell’ordine avrebbe potuto evitare il secondo omicidio, quello della guardia volontaria Valerio Verri, è alla base dell’opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura di Ferrara depositata dal legale della famiglia Verri, Fabio Anselmo. Ma il comando provinciale dei carabinieri di Ferrara rigetta le accuse e in una nota precisa che «le attività per la ricerca del latitante sono state costantemente condivise». Invece l’avvocato mette in fila una serie di documenti e comunicazioni riservate dei carabinieri che indicherebbero come i militari sospettassero già subito dopo l’omicidio di Fabbri del rapinatore seriale Igor Vaclavic. Circostanza che però il comando provinciale di Ferrara continua a smentire, aprendo di fatto un braccio di ferro e sostenendo che «si sono acquisiti elementi sulla possibile presenza di Norbert Feher alias Igor Vaclavic nelle Valli del Mezzano solo dopo i fatti delittuosi del tragico 8 aprile 2017», cioè dopo l’omicidio Verri. Ma allora perché la scheda segnaletica di Igor Vaclavic fu diffusa a tutti i comandi della regione e alle pattuglie alle 15 del 2 aprile?

La storia della badante. E poi ancora il 18 aprile 2017 la Squadra mobile di Ferrara scrive alle Procure di Bologna e Ferrara che una testimone chiave del processo per l’omicidio Tartari (il 73enne massacrato dopo una rapina nel Ferrarese nel 2015, ndr), la zia del rumeno Patrik Ruszo, è stata prelevata dagli agenti il 13 gennaio nell’abitazione in cui lavorava come badante di un anziano, padre di un’infermiera, proprio a Molinella. La stessa Questura scrive che quella casa dista 13 chilometri dal bar Gallo e 5 dal luogo dove Igor ha abbandonato il Fiorino per darsi alla fuga dopo l’omicidio Verri. «Se la Questura avesse avuto tempestiva conoscenza del fatto che si sospettava fondatamente che Igor fosse autore dei delitti del 30/03 (rapina a Consandolo, ndr) e del 1/04 — scrive il legale dei Verri — avrebbe potuto rendere nota di tale circostanza e costituire così valida pista investigativa. Si sarebbe potuto controllare la presenza di Igor in quel posto, considerato che era ferito e necessitava di cure».

I ritardi. Dopo l’omicidio Verri dell’8 aprile, infatti, molte persone che negli anni passati avevano gravitato nella cerchia di Vaclavic sono state interrogate e intercettate, ma senza successo. Ci sono poi gli oggetti ritrovati dai carabinieri di Argenta in un bivacco il 3 aprile, inviati ai Ris solo due settimane dopo. Nella serie di ritardi segnalati dai Verri, c’è anche la riunione del comitato provinciale per l’ordine pubblico del 7 aprile, 24 ore prima dell’omicidio di Portomaggiore, in cui «nulla era riferito dal comandante dei carabinieri di Ferrara Andrea Desideri sul rischio della latitanza del pregiudicato Vaclavic» in quelle zone.

I silenzi dei carabinieri: "Sapevano chi era Igor, nel fax non lo scrissero". Emergono omissioni che favorirono la fuga del ricercato. La Questura di Ferrara: "Non segnalate informazioni preziose", scrive Marco Mensurati e Fabio Tonucci il 3 novembre 2017 su “La Repubblica”. Una cortina di silenzi e omissioni ha coperto le azioni e la fuga di "Igor il Russo", il criminale che nella primavera scorsa ha terrorizzato la pianura Padana a cavallo tra Ferrara e Bologna. Da allora Igor è sparito nel nulla. Probabilmente perché, nella fase più calda della caccia all’uomo, pezzi dello Stato hanno volutamente tenuto all’oscuro altri pezzi dello Stato. Incartandosi da soli. In queste ore l’Arma dei carabinieri, che ha condotto le indagini, è precipitata in un profondo imbarazzo e il goffo comunicato stampa diffuso ieri dal Comando provinciale di Ferrara ne è l’ultima testimonianza.

LA CORTINA DI SEGRETI. Quando la fuga di Igor era appena agli inizi, e cioè subito dopo l’assassinio di Davide Fabbri, il tabaccaio di Budrio, i carabinieri di Bologna nascosero alle autorità di Ferrara (polizia e prefettura) l’identità del ricercato. Peccato che la polizia avesse appena concluso con successo un’inchiesta su Igor e la sua banda di rapinatori e, dunque, fosse in possesso di informazioni preziose e potenzialmente utili per individuarlo. E che il prefetto di Ferrara, organismo responsabile dell’incolumità pubblica nella provincia dove il killer ha vissuto negli ultimi anni e dove si è sempre rifugiato, se avvertito tempestivamente avrebbe potuto (e dovuto) dire a tutti gli “operativi” che battevano il territorio di stare attenti. Invece, sette giorni dopo l’omicidio di Budrio, Igor il Russo ha potuto uccidere ancora. Un agguato nel parco delle Valli del Mezzano, proprio in provincia di Ferrara. Dove, sotto i colpi della sua Smith&Wesson calibro 9 è caduto Valerio Verri, un volontario. Stava cercando addestratori abusivi di cani. Ha trovato Igor.

L'ASSASSINO SENZA NOME. Che poi, Igor non è russo. È serbo, di origini ungheresi. E non si chiama nemmeno Igor, ma Norbert. Norbert Feher. Di lui, i carabinieri hanno sempre saputo tutto. Solo che non lo hanno detto a chi dovevano, non hanno condiviso informazioni trincerandosi dietro il segreto investigativo. Ancora nella notte tra l’otto e il nove aprile, cioè una settimana dopo i fatti di Budrio e poche ore dopo l’omicidio del volontario, la compagnia di Porto Maggiore trasmise a svariati organismi istituzionali — tra cui la questura e la prefettura di Ferrara — un telex in cui negava di conoscerne l’identità. “Ignoto — così lo definiscono i militari nel documento che Repubblica ha visionato — esplodeva numero 5 colpi di arma da fuoco calibro 9 x 21 attingendo autovettura polizia provinciale Ferrara con a bordo l’agente scelto della Polizia provinciale Ravaglia Marco e Valerio Verri, volontario Legambiente”. Ignoto. Eppure è documentato che i carabinieri dei due comandi provinciali, Bologna e Ferrara, stavano indagando su Norbert Feher già dalla notte del 30 marzo quando questi rubò la pistola a una guardia giurata. Fin da subito, un maresciallo di Bologna riconobbe il modus operandi del ben noto Feher, tanto che il 3 aprile gli investigatori misero sotto controllo il suo telefono cellulare. Nelle cinque pagine della richiesta di intercettazioni, datata 2 aprile, l’identità del presunto assassino è certa. “Considerata la gravità dei reati e il concreto pericolo di reiterazione e l’esistenza di un quadro di gravità indiziaria nei confronti di Vaclavic, appare indispensabile attivare immediate intercettazioni telefoniche”. Avevano il loro uomo. Tutto stava a prenderlo.

TUTTI CONTRO TUTTI. In quei giorni convulsi di inizio aprile, tra il primo e il secondo omicidio, alla Questura di Ferrara niente fu detto. I giornali già pubblicavano le foto di Feher/Igor e nel frattempo i canali ufficiali rimanevano muti. “Nessuna segnalazione risulta pervenuta in relazione all’omicidio Fabbri”, scrive la prefettura di Ferrara in una nota alla procura. Lo stesso sostiene la Questura: “Nessun elemento investigativo o di rilievo per la sicurezza pubblica ci è stato comunicato”. E però ieri sera i carabinieri di Ferrara hanno fatto uscire un comunicato che ribalta, o vorrebbe ribaltare, tutto. “Nessun dato investigativo fino all’8 aprile faceva presagire la sua responsabilità penale (di Feher, ndr) per gli episodi delittuosi del 30 marzo e del 1° aprile, né la sua presenza nella zona”. Esattamente l’opposto di quanto sostengono gli stessi carabinieri (ma quelli di Bologna) e le carte agli atti dell’indagine.

L'ULTIMO COMUNICATO. Per difendersi dall’esposto dell’avvocato Fabio Anselmo il quale ritiene che l’uccisione di Verri potesse essere evitata, i carabinieri bolognesi hanno dimostrato alla procura che già il 2 aprile la loro centrale operativa aveva trasmesso “informalmente via mail” l’identità del ricercato. Nome, cognome e grado di pericolosità: “Ha un fucile da caccia e una semiautomatica”. Nel lungo elenco dei destinatari della segnalazione “informale” mancano però Questura e Prefettura di Ferrara. Incrociando il contenuto di questa mail con il comunicato stampa di ieri, il risultato.  è da bancarotta: nell’imminenza dei fatti i carabinieri non hanno informato chi doveva tutelare l’incolumità pubblica (ai sensi della legge 121 del 1981), probabilmente al fine di tagliare fuori la polizia da un’inchiesta che prometteva molta visibilità. Mesi dopo, di fronte alle critiche, si difendono contraddicendosi l’un l’altro. E dimostrando come, sul campo, il grande vantaggio di Igor fu la disorganizzazione di chi doveva braccarlo.

Bologna, i figli di Verri al colonnello dei Carabinieri: "Su Igor chieda scusa". Il padre, Valerio, venne ucciso da Norbert Feher l'8 aprile scorso. La famiglia critica il lavoro il comandante dell'Arma di Ferrara, scrive il 3 novembre 2017 su "La Repubblica". "Ma è sicuro di ciò che dice? Non crede sia meglio invece tacere e magari chiedere scusa? O chiedere scusa non è contemplato per un colonnello dei Carabinieri anche quando commette errori imperdonabili che sono costati la vita di una brava ed onesta persona che l'unico torto che ha avuto è stato quella di avere una grande passione per la sua terra e per l'ambiente?". Sono le domande al comandante dei Carabinieri di Ferrara, colonnello Andrea Desideri, di Francesca e Emanuele Verri, figli di Valerio, ucciso l'8 aprile da Norbert Feher. In una lettera, i Verri.  Replicano alla nota dell'Arma ferrarese, dopo le notizie sulle accuse sul scambio di informazioni sulle indagini: "Se lei non intende chiedere scusa lo facciamo noi per lei. Chiediamo scusa a tutti i bravissimi Carabinieri che lavorano sotto di lei ai quali va comunque la nostra riconoscenza, il nostro rispetto ed il nostro affetto. Chiediamo scusa per la situazione in cui ora si trovano e non certo per colpa nostra o di nostro padre. Non è d'accordo?".

Igor finì tre volte nel mirino: «Non sparate, aspettate rinforzi». Così riuscì a scappare la sera dell’8 aprile ai carabinieri: la verità dagli atti dell’inchiesta. Scese dall’auto e andò nel bosco, tornò indietro per riprendere lo zaino e scappò di nuovo, scrive Daniele Predieri il 9 agosto 2017 SU "La Nuova Ferrara". Quell'8 aprile 2017 i carabinieri si trovarono a 50 metri da Igor/Norbert, ma non spararono perchè era stato ordinato loro di attendere i rinforzi. Se lo trovarono davanti, quella sera, ben tre volte: quando Igor uscì dal Fiorino bianco per nascondersi nel bosco, quando tornò indietro per prendere lo zainetto dimenticato nel cassone e quando scappando lo videro ai limiti del boschetto. Per tre volte finì nel mirino ma nessuno sparò, dei tre carabinieri presenti, un vicebrigadiere e due carabinieri scelti. Se l’avessero fatto, se avessero fermato, bloccato e (anche) ucciso Igor, tutto ciò che è venuto dopo sarebbe stato evitato: una caccia all’uomo senza precedenti, indagini forsennate, una spesa di non si sa quanti zeri, beffe e burle a non finire, e tantissime bufale, notizie e fatti inventati, anche su quella sera.

Tutto è cominciato qui, una sera dell’aprile scorso, in una stradina di campagna, poco più larga di una macchina, via Spina, a cavallo tra Consandolo e Marmorta. Igor era in fuga, aveva appena ucciso Valerio Verri, nel Mezzano, 15 chilometri più su, attorno alle 19. Scappava a bordo di un Fiorino bianco, rubato pochi giorni prima e venne intercettato e fermato in via Spina. Di quel momento, di quel faccia a faccia tra Igor e i tre carabinieri- per la prima volta - la Nuova Ferrara, può raccontare la verità, sulla base delle dichiarazioni dei tre carabinieri- testimoni, affidate all’«annotazione di polizia giudiziaria», poi trasmessa a procura e ora agli atti delle inchieste.

Tutti cercavano quel Fiorino bianco, la caccia all’uomo dopo l’omicidio di Verri e il ferimento di Marco Ravaglia era appena cominciata, Igor in fuga viene intercettato la prima volta alle 19.45: nell’«auto di copertura» ( scrivono nel rapporto), i tre carabinieri, tutti e tre in auto e abiti civili, stanno correndo verso Argenta, da Molinella dove sono in servizio. Incrociano Igor in via Nazionale Nord, poco prima Consandolo: notano «in senso contrario un’auto di colore bianco corrispondente a quella descritta e ricercata». Poi vedono Igor svoltare in via Cavo Spina di Consandolo, fanno inversione e lo inseguono, il Fiorino li ha già distaccati di un paio di chilometri, ma danno l’allarme: «Veniva subito allertata la Centrale operativa dei carabinieri di Molinella, indicando posizione e direzione di marcia del Fiorino» dice il rapporto e si faccia attenzione a questa allerta, che dimostra il contatto con la Centrale (particolare che si spiegherà dopo).

I carabinieri corrono dietro Igor, lo raggiungono tenendosi «ad una distanza di sicurezza di circa 100/150 metri e percorrevano via Spina fino a giungere in prossimità di un piccolo bosco sulla sinistra rispetto la direzione di marcia»: via Spina è una stradina stretta, tra Consandolo e Marmorta, che due macchine affiancate difficilmente possono percorrere. I carabinieri si fermano, vedono da lontano Igor che fa inversione e va verso di loro: Igor - raccontano i militari - «veniva monitorato e mediante contatto via telefono la centrale operativa veniva informata: i militari (spiega il rapporto, ndr) venivano esortati a mantenere la calma, a limitarsi a osservare i movimenti del soggetto, in quanto erano stati inviati i rinforzi e da lì a poco sarebbero arrivati».

Anche questo è un passaggio fondamentale: i tre carabinieri, armati (M12, mitragliette e pistole, colpo in canna) vengono invitati solo a controllare. A non sparare, questa la ricostruzione ufficiale. La verità documentale, degli atti. Igor è a 100 metri da loro, a bordo del Fiorino. I tre militari «si ponevano nella parte posteriore dell’auto di servizio che al momento risultava essere l’unico riparo»: si proteggono, sanno che Igor ha appena ucciso, forse è ancora armato. Igor non li ha ancora riconosciuti come carabinieri: «a bordo del Fiorino bianco Igor si avvicina lentamente all’auto di servizio, e - descrivono i militari - risultava essere accovacciato nell’abitacolo e teneva le luci abbaglianti accese creando così disturbo nella visuale dei tre carabinieri da non permettere una efficace risoluzione mediante l’utilizzo delle proprie armi in dotazione». Il linguaggio in carabinier-burocratese raggiunge il parossismo: in poche parole, Igor punta gli abbaglianti, loro non possono vederlo bene e non sparano.

Igor viene avanti, arriva a 50 metri dai tre carabinieri. All’improvviso Igor ferma il Fiorino e «con un cenno della mano con la mano sinistra fuori dal finestrino chiedeva di poter passare», visto che non li ha ancora riconosciuti e l’auto occupa la carreggiata.

Qui il primo contatto: il vicebrigadiere, il capo pattuglia, «intimava al soggetto di scendere dall’auto e mostrare le mani». Igor però innesta la retromarcia, fa 150 metri all’indietro, si allontana per fermarsi a ridosso del boschetto vicino alla strada. Lascia l’auto accesa e scende «e si addentrava con molta calma nel bosco», mentre i tre militari si avvicinavano «rimanendo a distanza di sicurezza». Attenti, perchè la beffa non finisce qui.

«All’improvviso, lo stesso (Igor, ndr) usciva dal bosco, e si avvicinava nuovamente al veicolo e prelevava uno zaino militare nel cassone del Fiorino e poi si addentrava nel boschetto». Non una selva o una giungla per Rambo, nè zona impervia come descritta da tanti: anzi un bosco di arbusti triangolare di 200/300 metri per lato. «Igor lo percorreva - spiega il rapporto - per tutta la sua lunghezza, affacciandosi poi sul lato più lungo (l’ipotenusa del triangolo, ndr) dove veniva nuovamente avvisato dai tre militari»: terza volta nel mirino mentre nel frattempo i tre carabinieri controllavano, lungo i tre lati che non si allontanasse.

I rinforzi arriveranno alle 20.15, mezzora dopo il primo contatto. e «venivano impiegati immediatamente nella cinturazione dell’area». Secondo l’annotazione, Igor non poteva essersi allontanato dal boschetto. Lo descrivono vestito con cappello da pescatore verde militare, giaccone e pantaloni di stesso colore, maglione nero e occhiali con lenti scure a coprire il viso. Era armato? «L’uomo non mostrava alcuna arma». E allora, perchè non hanno sparato? la domanda che tanti si sono posti. «Non è stato possibile attingerlo con le armi in dotazione, i militari non erano in alcuna posizione favorevole da potere ottenere risultati senza conseguenze per la loro incolumità: per cui, stante alle disposizioni e alle circostanze, l’unica azione era quella di porre una attenta osservazione in sicurezza». Quattro mesi e mezzo dopo, l’osservazione continua.

Igor il Russo, i figli della guardia ecologica Valerio Ferri scrivono ai ministri Minniti e Orlando. Questa è la lettera, pubblicata da “Libero Quotidiano” l’11 Agosto 2017, che Francesca e Emanuele, figli di Valerio Verri (la guardia ecologica uccisa da Igor il russo), hanno scritto ai ministri della Giustizia Andrea Orlando e dell’Interno Marco Minniti dopo aver scoperto che i carabinieri hanno incrociato il killer tre volte. Senza mai prenderlo.

"Caro Ministro Orlando e caro Ministro Minniti, siamo Francesca e Emanuele Verri. Siamo i figli di Valerio, ucciso a sangue freddo quattro mesi fa nel Mezzano di Ferrara. Dopo gli articoli apparsi sulla nostra stampa locale dove si dava cronaca del fatto che per ben tre volte il famigerato Igor, assassino di nostro padre, per ben tre volte avrebbe incontrato pattuglie dei Carabinieri e per tutte e tre le volte sarebbe stato lasciato andare in attesa di rinforzi, noi adesso diciamo veramente basta. Questa sembra essere diventata una commedia che manca di rispetto alle vittime. Ci sono stati dei morti ammazzati. Uno di questi è nostro padre. Noi siamo cittadini e non numeri. Rivendichiamo rispetto. Non ce l'abbiamo con i giornalisti. Anzi. Siamo arrabbiati con le istituzioni. Cosa si sta facendo in concreto per catturare questa persona? Cosa si sta facendo in concreto per perseguire le gravi responsabilità di coloro che hanno gestito in modo così superficiale e dilettantistico il nostro territorio? Questa non è una fiction dove qualcuno deve dimostrare di essere più bravo degli altri mentre i cittadini ci rimettono la pelle. La giustizia esiste solo per coloro che non portano la divisa? Ma noi diciamo questo: chi sbaglia deve essere chiamato ad assumersi le proprie responsabilità. Punto e basta. Mentre Carabinieri armati ed addestrati non sono stati ritenuti in grado di affrontare insieme quel criminale, nostro padre, pensionato e volontario di Legambiente, è stato mandato allo sbaraglio, disarmato, proprio in quei luoghi dove il comando dei Carabinieri ben sapeva si trovasse il latitante e pluriomicida Igor. Questo è un delirio totale inaccettabile cui si adegua anche la giustizia? Lo vogliamo chiedere personalmente a Voi Ministri Orlando e Minniti, se vorrete risponderci e riceverci. Pretendiamo rispetto e responsabilità. Non vendetta o commiserazione. E rispetto vuol dire chiamare alle proprie evidenti responsabilità colui che, anche se "importante" ha sbagliato più e più volte in modo intollerabile. Ogni volta che vediamo conferenze stampa dove le forze dell'ordine vengono fotografate per aver arrestato spacciatori od ubriachi noi cambiamo canale. Non è certo colpa loro, ma qualcuno si pone il problema di come ci possiamo sentire noi cittadini del Mezzano? Qualcuno si pone il problema di come ci possiamo sentire noi figli di Valerio Verri??? Famiglia Valerio Ferri".

E che dire della lotta alla criminalità.

Spunta il "Serpico" all'italiana: gli strani casi di Ostia e Latina. Mobbing in polizia: agenti scelti costretti a lasciare la divisa. E il sindacato di categoria chiede: “Gabrielli apra un’indagine”, scrive Stefano Vladovich, Mercoledì 23/11/2016, su "Il Giornale". Mobbing in polizia: gli strani casi di Ostia e Latina. Agenti scelti costretti a lasciare la divisa. E il sindacato di categoria chiede: “Gabrielli apra un’indagine”. Lo conoscevano su tutto il litorale. Un superpoliziotto tosto, di quelli che da soli mandano avanti un intero ufficio. Soprattutto una “guardia” che non lascia tregua ai criminali, alle famiglie mafiose che contano, alle cosche in affari spesso con i “colletti bianchi”. In quattro anni, aiutato da un solo assistente, riesce a combattere la criminalità organizzata del sud pontino sul piano peggiore: il denaro. Con indagini serratissime, spesso al limite di ogni possibilità, trova le prove per confiscare, in 60 operazioni, ben 500 milioni di euro ai malavitosi. Giovanni, chiamiamolo così, colleziona encomi su encomi. Tanto che nel 2011 il dirigente della sezione anticrimine della squadra mobile di Latina lo segnala al questore per la sua attività. Indagini che trovano tutte conferma nelle aule giudiziarie, fino alla Corte di Cassazione. “Basta un cambio al vertice della stessa questura durante l’anno - spiega Filippo Bertolami, vicequestore di Roma e segretario nazionale con delega per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali del sindacato di polizia PNFD, polizia nuova forza democratica - per passare dalla fama di superpoliziotto a quella di superindisciplinato”. “Il sostituto commissario dimostra un contegno scorretto verso un superiore (il nuovo questore ndr) nonché abituale negligenza nell’apprendimento delle norme e delle nozioni che concorrono alla formazione professionale”. Una storia di sbirri fuori dalle righe, appunto, come in quella del Serpico newyorkese. “Insomma - continua Bertolami - se per la vecchia dirigenza Giovanni è un appartenente delle forze dell’ordine da prendere come esempio, per la nuova direzione, solo mesi dopo, è un poliziotto della peggior specie. Mi chiedo, com’è possibile che stiamo parlando della stessa persona?”. Giovanni, secondo il racconto dei poliziotti, viene isolato, “mobbizzato”. In breve per l’ispettore viene avviato un procedimento disciplinare che dovrebbe portare a pesanti sanzioni. Nonostante una sentenza del Tar che annulla tutto, il funzionario non può far altro che lasciare la polizia. Alla notizia sembra che le cosche abbiano festeggiato a base di champagne: uno a zero per i cattivi. Di fatto l’allontanamento di Giovanni non porta nulla di buono. Un caso anomalo per il vicequestore sindacalista che vuole andare in fondo alla vicenda una volta per tutte. Altro scenario, altri gruppi criminali. All’aeroporto di Fiumicino passano quintali di droga. La “roba” sbarca sul litorale romano in quantità impressionante. Intrisa nella carta di libri antichi, nei doppifondi di valigie e statuette d’importazione, sciolta nel rum destinato a catene di supermercati in forte odore di mafia. Persino nascosta all’interno di reattori di jet di linea. Se ne accorgono alcuni poliziotti attenti, in forza alla polizia di frontiera, che avviano indagini senza sosta. La squadra anticrimine scopre una serie di attività di copertura aperte e richiuse in gran fretta proprio all’interno dell’aeroporto. Queste farebbero capo a personaggi di spessore da tempo stanziati a Ostia. Soprattutto alle famiglie siciliane Cuntrera - Triassi - Caldarella, da anni attive sul litorale romano, nonché su camorristi d’eccezione, come la famiglia Senese, trasferita da Afragola alla Marranella o al clan Fasciani, da sempre padrone del Lido di Roma. La squadra speciale in più occasioni stana latitanti eccellenti, scoperti grazie a intercettazioni e inseguimenti da brivido. Ma un omicidio “eccellente” manda tutto a monte. È il 18 ottobre del 2002, Paolo Frau è uscito da poco dal carcere. Era stato processato e condannato nel maxi processo contro tutti i componenti della Banda della Magliana nel 1993. Dopo l’Operazione Colosseo e i suoi sviluppi Frau cerca di rifarsi una vita gestendo il parcheggio di una multisala di Ostia, Cineland. Qualcuno, però, gli piazza in testa tre pallottole calibro 38 e chiude per sempre i conti. “Il caso viene affidato alla squadra mobile romana guidata da D’Angelo - continua il vicequestore Bertolami - che inizia a lavorarci senza perdere un solo istante. I poliziotti di Fiumicino, che fino al giorno prima seguivano lo stesso Frau, vanno ad affiancare i colleghi romani. Tutto sembra filare liscio, nel buon nome del risultato finale che tutti si aspettano”. Non è così. Arriva l’estate 2003: l’informativa della Polaria, risultato del lavoro svolto fino ad allora, ovvero l’ipotesi investigativa sui gruppi criminali che inondano di droga la capitale ripulendo denaro in attività di copertura a Ostia, viene ridimensionata. “Stroncata” dicono lapidari gli ex poliziotti. Ridotta di decine di pagine, quando finisce sul tavolo del procuratore della Dda viene definitivamente messa da parte. Due richieste di missioni in Costa Rica per riportare nelle patrie galere dei narcos nostrani vengono cestinate, respinte in nome di una presunta “spending review”. Le conclusioni cui era arrivato il lavoro dei poliziotti aeroportuali verranno confermate 10 anni più tardi dall’operazione antimafia “Nuova Alba”, che porta a decine di arresti e a sequestri di beni per milioni di euro. Intanto i quattro poliziotti di Ostia e un ispettore di Roma, coordinatore del pool, vengono inviati ad altro incarico. Poi sospesi, congelati, in seguito a un esposto anonimo che insinua, addirittura, falsi rimborsi spese. “In sostanza veniamo spediti a investigare sui tassisti abusivi” ricorda uno di loro, oggi riformato per malattia. Tempo dopo tutte le accuse nei loro confronti cadono. Ma a quel punto il vantaggio per le cosche è notevole. Le indagini sull’omicidio Frau durano due anni e terminano definitivamente nel 2004 con l’operazione “Anco Marzio”, dal nome della piazza da cui partono le intercettazioni fra i narcos latitanti e gli imprenditori locali. Un flop colossale che porterà in galera, e solo per pochi mesi, alcuni spacciatori, semplici “cavalli”. Mandanti ed esecutori dell’assassinio di “Paoletto” non verranno mai trovati. Cosa c’entra questa storia con quella di Latina? “A capo della squadra mobile romana e della questura di Latina, in tempi ovviamente differenti, troviamo lo stesso dirigente, Alberto Intini, attuale questore di Firenze - conclude Bertolami -, che ha dato il cambio in entrambi i casi a Nicolò D’Angelo, attuale questore di Roma. Intini è oggi coinvolto, ma non indagato, nell’operazione Olimpia, l’indagine che avrebbe scoperchiato un calderone di connivenze fra il calcio, l’imprenditoria locale e l’ufficio urbanistico del Comune pontino. Non ci resta che chiedere al nuovo capo della polizia, Franco Gabrielli, di mettere a confronto i due vecchi dirigenti della questura di Latina, nonché della squadra mobile romana, Intini e D’Angelo, su fatti e situazioni visti in maniera diametralmente opposta e fare chiarezza definitivamente su episodi che possono mettere in grave pericolo le stesse istituzioni, oltre che neutralizzare agenti di alto valore investigativo”.

L’ex super-poliziotto: “Bloccato quando ho toccato livelli politico-istituzionali”, scrivono Lorenzo Galeazzi e Luca Teolato il 6 ottobre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". “Il mio ufficio è stato messo in condizione di non operare più dal momento in cui ho iniziato a toccare i livelli politici istituzionali”. A raccontare la vicenda, che sembra un vero e proprio caso di mobbing, è l’ex sostituto commissario della Questura di Latina (ora in congedo) che dal 2005 al 2011 si è occupato delle misure di prevenzione: sequestri e confische di capitali, beni mobili e immobili appartenenti a presunti esponenti delle organizzazioni criminali che infestano il basso Lazio, territorio ad alta densità mafiosa. Con circa 60 operazioni effettuate per un importo superiore ai 500 milioni di euro, il super-poliziotto è stato un vero e proprio incubo per la criminalità organizzata. Una carriera impreziosita da premi ed encomi che ad un certo punto viene inspiegabilmente bloccata. Come già denunciato dall‘Anip-Italia Sicura del Lazio, Federazione Uil Polizia, il sostituto commissario è stato prima isolato, poi colpito di una sanzione disciplinare (annullata dopo il ricorso e la vittoria al Tar) e infine si è trovato costretto a trasferirsi in un altro ufficio. “Mi si imponeva di non andare più a lavorare il pomeriggio – ricorda l’ex poliziotto – dicendo che i soldi per gli straordinari erano finiti, in alcune occasioni non avevo il necessario supporto delle volanti nelle attività di confisca, mi veniva negata la documentazione per dei lavori che stavo svolgendo. In pratica dal punto di vista operativo non era più possibile andare avanti”. Accuse che l’ex poliziotto ha messo nero su bianco in un esposto presentato alla Procura di Latina e consegnato al ministro dell’Interno e al Capo della Polizia. “Al procuratore – prosegue – ho dato anche due lavori importanti che avevo concluso e che dovevano essere firmati dal questore per poi essere depositati in tribunale ma tutto questo inspiegabilmente non avvenne. Fatalità, circa tre mesi dopo, che la Questura di Latina abbia depositato in Procura gli stessi lavori da me conclusi”.

Latina, l’agente antimafia punito dalla polizia. I sindacati: “Sembra mobbing”. Era il poliziotto che combatteva la criminalità organizzata nel litorale laziale. Aveva sequestrato un tesoro ai clan, guadagnando numerosi encomi. Poi è caduto in disgrazia, fino a ricevere una sanzione disciplinare poi annullata dal Tar. Ma ora l'investigatore ha abbandonato la divisa. La denuncia dell'Anip-Italia sicura Regionale per il Lazio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 10 marzo 2014. Alle forze dell’ordine, che combattono il crimine senza più mezzi né risorse, rimangono gli uomini, ma se poi neanche questi vengono messi in condizione di lavorare, allora tanto vale andare tutti a casa”. Parola di Filippo Bertolami, vice questore e segretario regionale per il Lazio del sindacato di polizia Anip-Italia Sicura, che denuncia “uno strano caso” avvenuto all’interno della Questura di Latina: “Una storia tutta da chiarire perché sembra un vero e proprio caso di mobbing”. La vittima è uno di quegli sbirri che da soli portano avanti il lavoro di un intero ufficio: il sostituto commissario per oltre quattro anni si è occupato, praticamente da solo, delle cosiddette misure di prevenzione, e cioè i sequestri e le confische di capitali, beni mobili e immobili di presunti esponenti delle organizzazioni criminali che infestano il basso Lazio, territorio ad alta densità mafiosa. A parlare sono i risultati: 800 milioni di euro sequestrati e una carriera impreziosita da premi ed encomi vari sul suo operato. Ma non è bastato. Prima l’isolamento, poi la sanzione disciplinare e infine il trasferimento in un altro ufficio. “Una tecnica che ha funzionato – prosegue il sindacalista – tant’è che Carlo (nome di fantasia, ndr) alla fine è stato costretto a lasciare la Polizia di Stato”. Secondo il sindacalista, “l’agente passa dalle stelle alle stalle con il cambio della guardia ai vertici della Questura di Latina”. Così, nonostante i sequestri disposti dal poliziotto trovino sempre conferma nei pronunciamenti della Corte di Cassazione, dal 2011 per lui le cose cominciano a mettersi male. Nonostante il suo stato di servizio, il nuovo questore non sembra stimare il suo collaboratore, come mette nero su bianco nella sanzione disciplinare che gli infligge nel 2012: “Il sostituto commissario dimostra un contegno scorretto verso un superiore (il questore) nonché abituale negligenza nell’apprendimento delle norme e delle nozioni che concorrono alla formazione professionale”. Ma Carlo non ci sta e decide di fare ricorso; il Tar, seppure per un vizio di forma, gli dà ragione. Sì, perché secondo il tribunale amministrativo, chi “irroga una sanzione disciplinare non può essere anche quello direttamente leso dal comportamento del soggetto”. Una situazione, secondo le toghe, che non fornisce le sufficienti garanzie sulla “terzietà e obiettività nel comportamento dell’amministrazione”. Una vittoria sul piano formale che però non basta a rasserenare un clima oramai avvelenato. Poco importa che solo qualche mese prima il dirigente della Divisione anticrimine abbia segnalato il poliziotto proprio al questore “per il suo lodevole comportamento nell’espletamento delle attività di istituto”. La nota è un encomio per il lavoro del 2011 portato avanti in solitaria o al massimo con l’aiuto di un assistente: “Ha incessantemente monitorato personaggi di interesse che gravitano nella criminalità presenti in questa provincia, analizzando le loro consistenze patrimoniali, i loro traffici, le movimentazioni finanziarie e quant’altro è stato necessario per dimostrare alle autorità competenti le illecite attività per ottenere l’applicazione di provvedimenti idonei ad infrenare la delinquenza e realizzare così una concreta ed incisiva azione di deterrenza alla criminalità nel Sud pontino”. Prima lodato e apprezzato, poi, solo cinque mesi dopo, protagonista di un comportamento così inadeguato da meritarsi una sanzione. “A leggere le carte si fa persino fatica a pensare che si stia parlando della stessa persona – chiosa Bertolami – tant’è che come sindacato vogliamo vederci chiaro e chiediamo quindi al Capo della Polizia di mettere a confronto i due alti dirigenti per comprendere come sia stata possibile una valutazione diametralmente opposta sullo stesso collega. Chiediamo altresì al Procuratore capo di Latina di indagare a fondo sui dettagliati esposti presentati dallo stesso”. Per il sindacalista, questa vicenda ricorda molto da vicino un’altra storia successa una decina d’anni fa sempre sul Litorale, ma qualche chilometro più a nord, ad Ostia, quando nel 2003 una squadra di poliziotti fa luce sulla cupola mafiosa dedita allo spaccio internazionale che reinvestiva i proventi nelle attività commerciali sul territorio. Per uno strano caso del destino l‘indagine viene insabbiata e i protagonisti, un pool composto dai membri scelti dalla Squadra mobile di Roma e dalla Polaria di Fiumicino, screditati. Peccato che nell’estate del 2013, la maxi operazione Nuova Alba abbia confermato molte delle piste d’indagine contenute nell’informativa vergata dai poliziotti dieci anni prima: nomi, cognomi, episodi e società di copertura. Storia che si è ripetuta solo pochi giorni fa, quando l’inchiesta Tramonto, condotta dai finanzieri del Gico, scoperchia il sistema imprenditoriale, in apparenza pulito, messo in piedi dalle cosche di Ostia. “Anche in quel caso i guai per gli investigatori iniziarono con il passaggio di testimone ai vertici della Squadra mobile della Questura di Roma”, racconta Bertolami ricordando che ai tempi i poliziotti sporsero denuncia, ma senza successo. L’auspicio dell’Anip – Italia Sicura è di non dover leggere anche oggi per le vicende di Latina delle conclusioni come quelle. “In ballo – conclude il dirigente sindacale – c’è la credibilità delle istituzioni, la sicurezza dei colleghi che lavorano sul territorio, ma soprattutto la fiducia di quei cittadini che credono ancora nella giustizia”.

Poliziotto encomiato finisce «mobbizzato», scrive Roberto Filibeck, Mercoledì 15/08/2007, su "Il Giornale". Quando lo vedi ti sembra di avere davanti Luca Zingaretti, il commissario Montalbano della tv. Ma non siamo sul set di una fiction. Il poliziotto che racconta al Giornale la sua storia è un poliziotto vero, un investigatore pluridecorato con 23 anni di servizio, sei dei quali trascorsi in missioni all’estero. In Italia ha lavorato due anni in prima linea, a combattere le infiltrazioni della mala. Tutto questo per portare a termine con successo, con tanto di encomio da parte dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, operazioni come «Black Rain» e «Anco Marzio». Indagini sui clan mafiosi che spadroneggiavano nel Lazio, riciclavano denaro, gestivano il narcotraffico, erano collegati con clan affiliati in paesi esteri. Indagini che portarono all’arresto di 20 malavitosi e al sequestro di 75 chili di cocaina. Eppure oggi P.F., 42 anni, assistente capo, è forse il primo investigatore «mobbizzato». Attualmente, oltre a essere stato ricoverato per due volte al Centro anti-mobbing del Policlinico Umberto I, è in cura al Dipartimento di igiene mentale della Asl Roma D. Soffre di disturbi psicosomatici, gastrite, stati d’ansia reattiva. Dopo una guerra giudiziaria che dura da due anni, al posto di encomi e medaglie gli sono stati chiesti indietro 27mila euro per le missioni svolte per le operazioni «Black Rain» e «Anco Marzio». Missioni che per una serie di incongruenze non sono state più considerate tali.

Partiamo dall'inizio...

«Dopo una lunga scia di sangue lasciata dai clan in lotta per il controllo del narcotraffico nel litorale laziale, culminata con l’uccisione, nel settembre 2002, del boss Paolo Frau, la squadra mobile di Roma di Francesco di Maio, decise che era giunta l’ora di un repulisti. Così misero in piedi un pool composto da alcuni di noi, esperti del territorio e degli insediamenti mafiosi nella zona. A condurre le indagini all’epoca era l’ex capo della mobile, Alberto Intini, a coordinarle il pm Adriano Iasillo. Si lavorava sull’omicidio Frau e sulla presenza di clan mafiosi sul territorio; su entrambi i filoni la Dda aprì fascicoli».

Poi cosa accadde?

«Nel febbraio 2003 scrivemmo un’informativa sugli insediamenti mafiosi sul litorale e i collegamenti con alcuni Paesi dell’America Latina. La Dda per due volte chiese di mandare due di noi in Costarica e Brasile. Tutte e due le volte la missione abortì. A settembre ci allontanarono dall’operazione senza motivo. Si cominciò a parlare di lettere anonime inviate al ministero per screditare la nostra immagine e credibilità. Stranamente nel febbraio 2004 ci richiamarono in servizio per chiudere, a novembre, l’operazione Anco Marzio».

Ma i problemi non sono finiti.

«A sei di noi, che lavoravamo con altri 15 colleghi della I sezione della mobile di Roma, nel marzo 2005 arrivò la richiesta da parte del Trattamento economico pensioni di risarcimento per le missioni effettuate nel corso dei due anni. Cifre tra i 10 e i 30mila euro che avremmo dovuto restituire con trattenute dalla busta paga. Dicevano che svolgevamo missioni nello stesso luogo di residenza, quando noi operavamo su tutto il Lazio. Presentammo ricorso a De Gennaro, un dirigente venne negli uffici di Fiumicino e acquisì, a mio avviso in modo fraudolento, i nostri turni di servizio. Alla fine fece una relazione di servizio che stabilì che la missione era pertinente, quindi avevamo diritto a quei rimborsi, ma in diverse occasioni non ci saremmo recati fisicamente a svolgere il nostro lavoro. Una pura menzogna nata dall’ennesima lettera anonima. La procura di Civitavecchia intanto aveva aperto un fascicolo». 

Le cose precipitano...

«Inizia la persecuzione per noi sei: trasferimenti, mansioni minori. E a inizio 2006 arriva per posta in forma anonima, a tutti noi che avevamo svolto le missioni, una lettera di encomio datata 15 marzo 2005 da parte del Capo della Polizia. Paradossale, no?». 

Inizia la guerra giudiziaria...

«Il ricorso al capo della Polizia fu rigettato dopo un anno. Chiedemmo invano l’accesso agli atti. Solo dopo essere passati alle minacce di denunce per omissioni, ci consegnarono i documenti e scoprimmo che il funzionario Tep aveva tenuto un anno fermi i risultati dell’ispezione senza pronunciarsi. Intanto da Fiumicino era scomparsa la documentazione acquisita dal funzionario del Tep. Per questo il 14 aprile abbiamo depositato il ricorso in auto-tutela al Capo della Polizia, ma tutto tace».

Questa storia che danni ha causato nella sua vita?

«Enormi. Sono stato costretto a rivolgermi a un pool d’avvocati, ma non avevo soldi. Il nostro ente previdenziale mi negò un prestito, ho venduto la casa. Da due anni sono in aspettativa per malattia al minimo di stipendio. Il Dipartimento di Salute mentale della Asl Roma D certifica un danno biologico del 10 per cento; soffro di disturbi psico-somatici dovuti a tutta questa faccenda. Mi riservo di denunciare i gravi fatti all’autorità giudiziaria ma confido nell’autorevole intervento del nuovo capo della Polizia, Antonio Manganelli, affinché sia fatta luce su una vicenda che mi ha rovinato la vita».

Latina, poliziotto anti mafia. Lotta al crimine, elogi e poi… “mobbing”.  E' la storia di Carlo (nome di fantasia), è la storia, come scrive il Fatto Quotidiano dell'agente antimafia punito dalla stessa polizia. Ma è anche la storia della criminalità organizzata nel litorale laziale, da Latina a Ostia, scrive il 10 marzo 2014 Gianluca Pace su "Blitz Quotidiano".  E’ lo strano caso di Carlo (nome di fantasia), un agente antimafia, non uno qualsiasi, ma uno sbirro, uno di quelli che combatte, uno di quelli che, come scrivono Lorenzo Galeazzi e Luca Teolato sul Fatto Quotidiano (clicca qui per leggere l’articolo completo) – “portano avanti il lavoro di un intero ufficio”. E che nonostante questo dice di essere vittima di mobbing, penalizzato dai suoi stessi colleghi. Uno dalla carriera invidiabile: 800 milioni sequestrati ai clan, premi ed encomi vari sulla scrivania. E tutto nel basso Lazio, a Latina, una delle zone “contaminate” dalla criminalità, la porta della camorra per Roma, per la capitale. Fondi, Latina, poi Aprila, Pomezia, Ostia. E’ questa l’autostrada della camorra verso Roma. Poi, finiti i premi, gli elogi, Carlo cade in disgrazia, o, come sospettano anche i sindacati, “viene fatto cadere” in disgrazia. “L’agente passa dalle stelle alle stalle con il cambio della guardia ai vertici della Questura di Latina” spiega al Fatto Quotidiano Filippo Bertolami, vice questore e segretario regionale per il Lazio del sindacato di polizia Anip-Italia Sicura. Prima Carlo viene isolato, poi sanzionato e infine trasferito. Nel 2011 gli elogi “per il suo lodevole comportamento nell’espletamento delle attività di istituto”. E nel 2012 arrivano le sanzioni disciplinari: “Il sostituto commissario dimostra un contegno scorretto verso un superiore (il questore) nonché abituale negligenza nell’apprendimento delle norme e delle nozioni che concorrono alla formazione professionale” si legge negli atti. “A leggere le carte si fa persino fatica a pensare che si stia parlando della stessa persona – dice Bertolami – tant’è che come sindacato vogliamo vederci chiaro e chiediamo quindi al Capo della Polizia di mettere a confronto i due alti dirigenti per comprendere come sia stata possibile una valutazione diametralmente opposta sullo stesso collega. Chiediamo altresì al Procuratore capo di Latina di indagare a fondo sui dettagliati esposti presentati dallo stesso”. E poi l’accusa: “Una storia tutta da chiarire perché sembra un vero e proprio caso di mobbing”. “Una tecnica che ha funzionato – conclude Bertolami – tant’è che Carlo alla fine è stato costretto a lasciare la Polizia di Stato”. Ma quella di Carlo è solo una delle tante strane storie del litorale romano. Come quella di Gaetano Pascale, ex squadra mobile di Roma, e Piero Fierro, Polaria, due dei protagonisti del pool che nel 2003 indagò sulla criminalità organizzata (di stampo mafioso) ad Ostia e sul litorale romano. Una strana storia, una strana indagine che finì dimenticata in qualche cassetto, in qualche fascicolo. Quella di Pascale, come scriveva il Giornale, “è la storia, surreale, dell’ispettore della Narcotici capitolina, prepensionato ufficialmente per inabilità dalla mattina alla sera dal ministero dell’Interno ma che l’Fbi americana ha ritenuto invece capace d’intendere e di volere al punto da affidargli la conduzione di alcuni corsi universitari sull’infiltrazione dei propri uomini nelle organizzazioni criminali”. Una strana storia poi riemersa nel 2013 (“un déjà vu” si leggeva su Repubblica), quando, forse con dieci anni di ritardo, con l’operazione “Alba Nuova” si smascherò la rete criminale di Ostia. Nomi, cognomi, prestanomi, aziende, società che già riempivano le carte presentate (e poi archiviate) nel 2003.

La storia del Serpico italiano Roma lo caccia, l'Fbi lo assume, scrive Gian Marco Chiocci, sabato 16/02/2008, su "Il Giornale".  Questa è la storia del Frank Serpico de 'noantri, fermato in circostanze oscure (sulle quali indagano due procure) insieme ad alcuni colleghi quandera a un passo dall’arresto di narcotrafficanti collegati ai cartelli sudamericani e alle cosche siculocalabresi che hanno piantato le tende sul litorale laziale. È la storia, surreale, dell’ispettore della Narcotici capitolina, Gaetano Pascale, prepensionato ufficialmente per «inabilità» dalla mattina alla sera dal ministero dell’Interno ma che l’Fbi americana ha ritenuto invece capace d’intendere e di volere al punto da affidargli la conduzione di alcuni corsi universitari sull’infiltrazione dei propri uomini nelle organizzazioni criminali, i cosiddetti agenti sotto copertura, undercovered alla Donnie Brasco per intendersi. Insomma, se in Italia lo hanno dichiarato «non abile» al lavoro e gli hanno tolto la pistola (per poi ridargliela un mese dopo, quand’era ormai fuori dalla polizia), oltreoceano gli hanno offerto una cattedra d’investigazione all’ateneo di Fresno, presso la Alliant International University, anche perché tra i suoi più accesi sostenitori c’è proprio il celebre poliziotto anticorruzione del dipartimento di New York, Frank Serpico. Questa di Pascale è una storia che comincia qualche anno fa, e che è ancora lontana dall’essere scritta del tutto poiché tra esposti violentissimi e indagini insabbiate, l’autorità giudiziaria ancora deve mettere la parola fine. Ma andiamo con ordine. Gaetano Pascale è da sempre un cagnaccio. Giorno e notte per strada, a caccia di chi smercia lo sballo, sempre al limite tra confidenti e legalità. Come tanti colleghi della Mobile accumula, negli anni, encomi e riconoscimenti da appendere sulla parete. Più degli altri, però, vanta due promozioni per meriti straordinari: un conflitto a fuoco in Brasile, culminato con l’arresto di sei latitanti mafiosi, e una sparatoria alla periferia della Capitale con quattro rapinatori, due dei quali rimasti sull’asfalto. A un certo punto Pascale si ritrova a lavorare su alcuni omicidi di «mala» legati al controllo del mercato degli stupefacenti. Insieme a lui sgobbano poliziotti di Fiumicino poiché più filoni d’indagine, vedi le operazioni «Black Rain» e «Anco Marzio», trovano interessanti punti di convergenza. Intercettazioni, pedinamenti, spiate. Due boss vengono localizzati in Sudamerica. La procura di Roma dà carta bianca per andarli a prendere ma inspiegabilmente qualcosa si inceppa. Le indagini su droga e omicidi passano ad altro ufficio, tempo sette mesi e vengono «declassificate» a sfruttamento della prostituzione minorile. Pascale e gli altri protestano. Elaborano relazioni su relazioni. L’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, è all’oscuro di tutto. Chiede spiegazioni per le vie gerarchiche anche perché, nel frattempo, proprio chi indaga finisce indagato. Pascale viene considerato mezzo pazzo e sospeso dal servizio per aver addirittura sparato a un autovelox (solo mesi dopo si appurerà che non era stato lui). Anche i colleghi della sezione investigativa di Fiumicino hanno i loro guai: alcune lettere anonime vengono prese sul serio dai superiori che li mandano sott’inchiesta sorvolando su altre vicende che coinvolgono altri poliziotti. Tra le accuse (risultate infondate) anche ammanchi di denaro. Ma il danno ormai è fatto. L’indagine langue, il Serpico romano allerta il pm che con lui svolge le indagini sul filone Ostia-Costa Rica-Brasile delle anomalie e subito dopo è convocato urgentemente per le visite mediche dal Viminale. Pascale esce a pezzi dal controllo: assolutamente inabile al servizio, con patologie varie, problemi irreversibili. Deve riconsegnare la pistola. Già che c’è rimanda indietro anche il distintivo accompagnando il tutto con una lettera in cui chiede il prepensionamento. Quand’è fuori dalla polizia, per sfizio, fa domanda per il rilascio del porto darmi. È passato appena un mese, nuova visita: stavolta, l’inabile diventa abile. Stesso ufficio, diversità di vedute, Pascale ora può utilizzare armi da fuoco. Nel dossier al capo della polizia l’ispettore fa capire che ormai i giochi sono fatti, che il destino è deciso. Per il ministero dell’Interno è pazzo a metà, per gli americani è un cervello raro. Detto, fatto. Grazie al vero Frank Serpico - suo grande sponsor - adesso Pascale fa il docente, tiene conferenze agli sbirri a stelle e strisce, insegna ai futuri detective dell'Fbi come ragiona, cosa pensa, in che modo si muove un criminale. Licenziato in Italia, assunto negli Usa.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-01402. Atto n. 3-01402. Pubblicato il 11 novembre 2014, nella seduta n. 348.

VACCIANO, SIMEONI, BULGARELLI, MOLINARI, GIROTTO, BERTOROTTA, BLUNDO, LEZZI, MANGILI, BUCCARELLA, MARTELLI, CAPPELLETTI, CASTALDI, MONTEVECCHI, MORONESE, 

CIOFFI, CRIMI, PETROCELLI, PUGLIA, DONNO, SANTANGELO, SCIBONA, SERRA, FUCKSIA, 

GAETTI, GIARRUSSO, CIAMPOLILLO, MARTON, AIROLA, FATTORI, BOTTICI, CATALFO, 

TAVERNA, NUGNES - Al Ministro dell'interno. - Premesso che:

da un articolo de "il Fatto Quotidiano" online del 10 marzo 2014, si è venuti a conoscenza della vicenda di presunto mobbing ai danni di un ex sostituto commissario della Questura di Latina. La notizia è stata nuovamente ripresa in un successivo articolo del 6 ottobre 2014 del quotidiano, questa volta con una video intervista del poliziotto oramai in congedo dal 2013, il quale ha parlato col volto oscurato perché è stato oggetto di minacce di morte, probabilmente a seguito di alcuni sequestri patrimoniali inflitti. Per le citate intimidazioni l'ex agente è parte offesa in un procedimento penale;

la sua azione investigativa avrebbe coinvolto anche un clan pontino, affiliato ai potenti cugini Casamonica di Roma, al quale sono stati sequestrati proprietà e conti correnti per un valore di circa 8 milioni di euro. In generale, l'operato dell'ex agente si è concentrato in un arco di tempo compreso tra il 2005 e il 2011, durante il quale ha portato a termine un totale di 60 operazioni conclusesi con confische e sequestri di beni mobili e immobili per circa 500 milioni, togliendo materialmente mezzi e strumenti alle attività criminali e, inoltre, il 70-80 per cento di questi provvedimenti sono stati già confermati in grado di Cassazione. La condotta eccellente del poliziotto pontino è stata premiata con encomi e avanzamenti di carriera, tuttavia dal 2011 la sua situazione è cambiata e gli sono stati imposti il fermo alle attività investigative, il cambiamento di mansione, il trasferimento di ufficio e un provvedimento disciplinare, che però venne annullato dal Tar del Lazio dopo un suo ricorso;

questi fatti sono stati delineati in un esposto presentato dall'ex agente alla Procura di Latina e al Ministro dell'interno e al capo della Polizia. Al procuratore capo di Latina nel marzo 2012 venivano consegnati gli ultimi 2 lavori che l'ex poliziotto aveva concluso, indagini depositate a gennaio dello stesso anno alla dirigente dell'ufficio a cui faceva capo l'ex sostituto commissario. Per far sì che potessero essere accettati dal Tribunale era indispensabile una firma del questore, che non arrivò in tale circostanza. Queste indagini, in seguito, furono consegnate nel giugno 2012 alla Procura della Repubblica di Latina dal questore, senza essere messe in relazione con il poliziotto che ne lamenta la paternità. A quanto risulta agli interroganti sono rimaste le uniche 2 operazioni depositate dalla Questura di Latina al Tribunale per tutto il 2012;

nella parte dell'intervista in cui il poliziotto parla dello stop ricevuto alle sue indagini nel 2011, viene fatta menzione di avvicendamenti e insediamenti, a cui viene, a giudizio degli interroganti, spontaneo associare il passaggio del testimone per la dirigenza della Questura di Latina del 3 ottobre 2011, ossia da Nicolò D'Angelo ad Alberto Intini;

considerato che:

un cambio di vertice al comando della squadra mobile della Questura di Roma, che ha casualmente comportato un cambiamento nella conduzione delle indagini, lo si ritrova, a parere degli interroganti, lungo l'orizzonte temporale degli eventi che accaddero tra Ostia e Fiumicino nel dietro le quinte di 2 importanti operazioni di polizia denominate "Black Rain" e "Anco Marzio". Altra circostanza in cui Alberto Intini succede a Nicolò D'Angelo, nel luglio 2003. In quest'altra vicenda, vita e carriera di 6 agenti della Polaria, polizia giudiziaria della frontiera aerea dell'aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino che collaboravano per queste 2 indagini dirette dalla mobile di Roma, sono state segnate da provvedimenti sanzionatori e disciplinari, poi riconosciuti immeritati, ai quali ad oggi non si è posto rimedio;

da un articolo de "il Giornale" del 15 agosto 2007, si apprende da un'intervista ad uno dei 6 agenti della Polaria: "Nel febbraio 2003 scrivemmo un'informativa sugli insediamenti mafiosi sul litorale e i collegamenti con alcuni paesi dell'America Latina. La DDA per due volte chiese di mandare due di noi in Costarica e Brasile. Tutte e due le volte la missione abortì. A settembre ci allontanarono dall'operazione senza motivo. Si cominciò a parlare di lettere anonime inviate al ministero per screditare la nostra immagine di credibilità. Stranamente nel febbraio del 2004 ci richiamarono in servizio per chiudere, a novembre, l'operazione Anco Marzio";

gli stessi agenti, come riferisce lo stesso quotidiano in un articolo del 7 agosto 2007 sarebbero stati "accusati da fonte anonima proveniente dallo stesso ufficio di polizia giudiziaria del Leonardo Da Vinci";

i 6 agenti della Polaria hanno collaborato con alcune unità della squadra mobile di Roma per l'operazione denominata Black Rain che "viene inspiegabilmente ridotta a troncone dell'inchiesta Anco Marzio che punta, invece, su estorsioni e videopoker", come riportato in una notizia del "Il Messaggero" del 24 aprile 2008. "Quando il cerchio si sta per stringere, proprio quando il magistrato delega i poliziotti alla missione in Sud America, questi vengono accusati di aver frodato l'amministrazione e messi da parte. E tutto il gruppo operativo definitivamente smantellato", esclama Filippo Bertolami, responsabile legale dell'Anip - Italia Sicura, nello stesso articolo de "Il Giornale" dell'agosto 2007;

nelle fonti menzionate si persevera sulla linea che l'operazione Anco Marzio, un successo per la lotta a videopoker ed estorsioni, non ha portato frutti per quanto concerne l'azzeramento dell'asse di traffico di droga che va dal sud America al litorale romano. "La Procura di Civitavecchia, che ha indagato su di loro per tre anni, archivia tutto: quattro agenti vengono reintegrati alla Polaria di Fiumicino, uno in malattia, l'ultimo «riformato» e nel frattempo emigrato negli Usa, dove insegna criminologia ai colleghi americani" ("Il Giornale" del 26 aprile 2008);

i suddetti poliziotti hanno anche depositato un ricorso in autotutela al capo della Polizia, che fino ad oggi non ha avuto alcuna risposta;

considerato infine che a parere degli interroganti dalle varie vicissitudini occorse nelle questure di cui si sono esposti i fatti, è indubbio che siano previsti dei meccanismi di valutazione interni al corpo di Polizia e che questi debbano essere utilizzati nella maniera più puntuale, chiara e rapida possibile, di modo che venga scalzata qualsiasi ombra su agenti, dirigenti o addirittura questori, gli stessi che sono chiamati a rappresentare il Ministero dell'interno e a garantire la legalità sul territorio nazionale. Quanto più le persone chiamate a svolgere questo compito saranno al di fuori anche del legittimo sospetto, tanto più le stesse istituzioni godranno della fiducia dei cittadini, si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo fosse a conoscenza dei fatti esposti, visto il documento inviato al Ministero nel 2012;

quali iniziative urgenti intenda assumere al fine di proteggere l'incolumità dell'ex poliziotto che prestava servizio presso la Questura di Latina, date le minacce di morte che avrebbe ricevuto a causa dei provvedimenti patrimoniali inflitti a seguito delle indagini da lui condotte, quando comunque era ancora alle dipendenze della Polizia di Stato e quindi del Ministero;

quali siano i motivi che hanno comportato l'interruzione di indagini condotte con successo dagli agenti investigativi a cui sono seguiti cambiamento di mansione, trasferimento di ufficio nonché provvedimenti sanzionatori e disciplinari, che nel caso dell'ex sostituto commissario della Questura di Latina il Tar del Lazio ha provveduto ad annullare;

quali iniziative di propria competenza intenda adottare per assicurare sistemi valutativi del personale delle forze di polizia, garantendo anche rapidità di riscontro sia nel caso di negligenze che di merito.

La nuova Legge sulla tortura: la maschera di un reato per un convitato di pietra. Tortura. Parola grossa. Ora in Italia esiste una legge che la prevede e la punisce come reato. O, almeno, così sembra, scrive Fabio Cammalleri su "La Voce di New York" l'8 Luglio 2017. La legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Forse, anche per la tortura, c’è un uomo nero che non si deve scoprire: il potere cautelare e i suoi titolari. La tortura, in linea generale ma chiara, è un abuso, commesso da chi detiene legalmente una persona, verso di essa. L’abuso è commesso con violenza, fisica o psichica: sia mettendola in atto, sia solo minacciandola. A vari fini. Ma il fine eminente è la confessione. La confessione è l’affermazione che la persona detenuta fa al torturatore, di un comportamento variamente ritenuto colpevole: proprio o, più frequentemente, anche altrui. A ciò indotto dalla promessa, esplicita o larvata, o dalla speranza, che la violenza cessi, o che la minaccia sia riposta. Il cerchio si chiude, dunque, dicendo che la tortura è l’esercizio di un dominio legalistico assoluto, di un’istituzione coercitiva, su un essere umano. Questo è: per esperienza e dottrina acquisite lungo i secoli, in Italia, e dovunque nel mondo; ma in Italia, essendo culla del diritto, siamo anche culla dei suoi profili, per così dire, meno esemplari. Facile, no? Nemmeno per sogno. Perché la legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Due parole, due: perché a fare “ermeneutica” si affaticano vanamente le meningi: e poi, non serve a granché. Andiamo alla grossa, che basta e avanza. In primo luogo, ci imbattiamo in un “Chiunque”. Ma che c’entra il “chiunque”, se siamo in un ufficio di una Forza di Pubblica Sicurezza (ma non solo, come vedremo)? Si vuole dire che è tortura anche l’atto del vicino matto, che ci chiude in garage, e ci incatena o peggio? Niente da fare: sarebbero lesioni, sequestro di persona e altro, più o meno aggravati; già previsto. Poi leggiamo che alla tortura metterebbero capo “più condotte”. Ah sì? E cos’è “condotta”, al singolare, allora? Un atto che si compie entro la sfera di dominio corporeo dell’autore? E di un atto formale, o legale, come un provvedimento apparentemente ineccepibile, che ne facciamo? E, comunque, se, nel primo caso, finisce che un bel pugno magari non basta, a configurare la tortura, proprio perché è uno; ecco che, il secondo, ci fa intravedere da cosa o da chi la nuova Legge realmente svicola, per chi cavilla. Un provvedimento, anche solo dal punto di vista corporeo, implica l’intervento di più soggetti, ciascuno dei quali è competente per una parte, ma non per le altre: sicché risulterebbe impossibile riferirgli le molteplici “condotte” che pure ci sarebbero. E peggio sarebbe se, al contrario, si volesse considerare il provvedimento in termini “funzionali”, come una unità “procedimentale”, indistinguibile dalle singole parti che la compongono: proprio perché allora sarebbe solo uno. E tanto, solo per considerare la faccenda dal punto di vista delle “più condotte”. Ma abbiamo solo intravisto l’uomo nero che non si deve scoprire. Proviamo a vedere meglio. E’ prevista l’ipotesi che “i fatti di cui al primo comma”, siano commessi da “pubblici ufficiali” (ma va’?), e ne verrebbe una circostanza aggravante; però, ecco la magia: questa “non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Eccoci.

Questo accorgimento liberatorio, che pare riferirsi solo ad un’ipotesi secondaria (una semplice circostanza aggravante), ci svela a chi si sta pensando. Perché, ponendo l’accento sulle “sofferenze” che, nell’impianto della fattispecie, costituiscono “l’evento” causato dalle “più condotte”, e presentandoci l’ipotesi che queste si diano in un certo “ambiente” (“legittime misure privative o limitative di diritti”), esso ci mostra in realtà che “tortura”, oggi, non è la fune di una carrucola, o i ferri roventi, ma l’arnese custodiale: siamo in Procura, non in un sotterraneo ammuffito. E’ parsa allora precipitosa l’affermazione del dott. Carlo Nordio, che pure è voce sempre acuta, e attenta a rilevare le miserie del nostro sistema giudiziario: “Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici.” Ma l’uso della custodia cautelare per estorcere confessioni non è una distopia normativa, come oggi dicono i colti: è una prassi rivendicata e ampiamente legittimata, dei cui alti e bassi sostenitori sono noti nomi, cognomi e soprannomi. Critiche dolenti da convegno, a parte. I sommari lineamenti “dell’istituto”, presentati all’inizio di queste righe, per ciascuno che volesse, infatti, si attagliano senza la minima forzatura proprio ai casi nostri. In questi termini, appare ancor più chiaro che la previsione principale, quella rivolta a “chiunque”, è una maschera; sotto, al primo posto, c’è chi ha realmente il potere di “cagionare” “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale”. Il quale, però, gode di quella che, di fatto, è una scriminante generale e automatica. Una volta posto al riparo dalle responsabilità per la “tortura da provvedimento”, il “pubblico ufficiale”, non avrà soverchie difficoltà a porsi al riparo anche dalla norma “principale”, per come è congegnata. Che poi, questa trama di previsioni e di sottintesi, possa riferirsi anche a soggetti appartenenti alle Forze dell’Ordine, è ovvio; dato che “le misure privative o limitative di diritti” implicano necessariamente il loro intervento materiale: ma costoro agiscono, anche quando sono Alti Ufficiali, alle dipendenze “funzionali” del Pubblico Ministero. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo. Ma sia chiaro: il grande demerito, per il consolidarsi del regresso istituzionale, culturale e civile in Italia, è di simili riformatori: con la loro sesquipedale, servile sciatteria. Un demerito che, ogni giorno di più, appare persino maggiore di quello acquisito dalla magistratura associata: in questi infelicissimi, ultimi venticinque anni.

Legge sul reato di tortura: che cos'è e perché è contestata. Dopo quattro anni potrebbe finalmente essere approvata. Ma le critiche fioccano: "Con questo testo non ci sarebbero state le condanne del G8 di Genova", scrive il 5 luglio 2017 Panorama.  Dopo l'ok del Senato il 17 maggio scorso, la legge che introduce nel codice penale il reato di tortura torna alla Camera dei Deputati, che probabilmente il 5 luglio l'approverà definitivamente. Un atto che finalmente risponde, secondo Amnesty International, a quanto richiesto dalla Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite, ratificata dall'Italia nel 1989. E soprattutto risponde alle nere vicende del G8 di Genova e alla violenta irruzione delle forze dell'ordine nella scuola Diaz, nella sera buissima del 12 luglio 2001. Ecco in cosa consiste la nuova legge sul reato di tortura, il suo percorso travagliato e i pareri a favore e i tanti contro (lo stesso ideatore e primo firmatario della legge, Luigi Manconi del Pd, ora se ne dissocia). 

Le tappe travagliate della legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi presentò il ddl nel 2013. È da oltre tre anni che il testo sul nuovo reato di tortura viene rimpallato da una Camera all'altra. Era il 5 marzo 2014 quando il Senato - dove ha avuto inizio l'iter legislativo - lo approvò la prima volta. La Camera dei Deputati l'ha quindi modificato rispedendolo a Palazzo Madama il 9 aprile 2015.  Dopo averlo tenuto nel cassetto per oltre due anni, il Senato l'ha di nuovo modificato e inviato a Montecitorio il 17 maggio 2017. 

Cosa dice il ddl sul reato di tortura. La tortura diventerebbe un nuovo reato del codice penale, numero progressivo 613 bis, delineato in sei articoli. Ciò che accende la polemica si concentra soprattutto nelle prime righe. L'articolo 1 prevede che "Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minore difesa, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Se il reato è commesso da "un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da 5 a 12 anni". L'articolo 2 stabilisce che le dichiarazioni ottenute attraverso il delitto di tortura non sono utilizzabili in un processo penale.

Quali sono i punti criticati. Sotto accusa soprattutto alcuni passaggi del primo articolo della nuova legge, passaggi di dubbia interpretazione o che rendono difficile dimostrare il reato.

"Verificabile trauma psichico": come si verificherebbe tale trauma?

"Mediante più condotte": se il reato è commesso tramite una sola condotta cosa succederebbe?

"Un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona": quali sono i parametri per valutarlo? 

"Abuso di poteri" e "violazione dei doveri": sarà necessario dimostrare anche che ci sono state queste condizioni, nel caso di pubblico ufficiale coinvolto.

Cosa dice chi contesta la legge. Il senatore del Pd Luigi Manconi, prima firma del ddl, non si riconosce più in questa nuova legge: "Il mio testo, che presentai nel 2013 il primo giorno della legislatura, è stato stravolto", tanto che si è rifiutato di votarlo. Gli fa eco sul Foglio Matteo Orfini, presidente del Pd, che definisce la legge così scritta "inutile": "Ce l'ha detto anche l'Europa, è fatta di compromessi al ribasso. In un paese che ha avuto i casi Cucchi, Aldrovandi, Genova, ci vorrebbe maggior coraggio". La legge in Italia è attesa da più di vent'anni, ma così stilata fallisce il proprio scopo perché si allontana molto dalla Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti approvata dalla Assemblea Generale dell'Onu nel 1948, è il parere di Area democratica per la giustizia, il cartello delle correnti di sinistra nella magistratura. Che sostiene: "Apre la strada a valutazioni incerte ed è destinata a rendere ancor più complesse ricostruzioni giudiziarie già per loro natura delicate e difficoltose", "consente di considerare tortura solo i comportamenti ripetuti (si parla di violenze, minacce e condotte, al plurale); richiede che le sofferenze inflitte alla vittima siano acute, senza dare rilievo al loro protrarsi nel tempo; consente la punibilità della tortura mentale solo se il trauma psichico conseguente è verificabile; non garantisce un'efficace repressione ai trattamenti inumani o degradanti che non assurgono a livello di gravità della tortura". La bocciatura arriva anche da giuristi come Vladimiro Zagrebelsky, addirittura dalle toghe protagoniste dei processi del G8 alla Diaz e a Bolzaneto che hanno presentato un appello al presidente della Camera, spiegando che questa legge sarebbe stata inutile per punire molti degli abusi del 2001. Nils Muiznieks, commissario per i diritti umani presso il Consiglio d'Europa, ha scritto ai presidenti della Camera e del Senato parlando di legge è "disallineata" rispetto alla giurisprudenza della Corte e alle raccomandazioni della Commissione europea. A Repubblica Manconi è lapidario: "Con il testo che sta per essere approvato gran parte delle violenze alla scuola Diaz non sarebbero considerate tortura". Le preoccupazioni del centrodestra sono invece opposte: il timore è che il ddl risulti "un atto ostile contro le Forze dell'ordine" e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia assicura che alla Camera "questa vergogna" verrà cancellata.

Chi difende la legge, nonostante tutto. A sorpresa, tra chi difende la nuova legge, c'è Amnesty International, l'organizzazione che difende i diritti dell'uomo. Antonio Marchesi il presidente di Amnesty International Italia, a Radio Radicale ha detto: "Il ddl non ci piace. Riteniamo che comunque rappresenti un piccolissimo passo avanti. Amnesty è un'organizzazione pragmatica, che si dà obiettivi concreti". Turandosi il naso, prende quel che viene: "Tra il niente e questa schifezza, Amnesty sceglie di avere qualcosa".

Tortura, via libera della Camera. Con 198 sì il reato è legge: fino a 12 anni di carcere. I contrari sono stati 35, gli astenuti 104. Hanno votato a favore Pd e Ap, mentre molte forze, tra cui M5S, Sinistra italiana e Mdp, non hanno votato. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge, scrive il 5 luglio 2017 "La Repubblica”. L'aula della Camera ha approvato in via definitiva il ddl che introduce il reato di tortura nell'ordinamento italiano. I sì sono stati 198 (Pd e Ap), i no 35 (Fi, Cor, Fdi e Lega), gli astenuti 104 (M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori). Le pene previste sono pesanti: la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, che salgono fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri. Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge. Quattro anni di stop, di divisioni tra le forze politiche e di tentativi di insabbiamento. L'iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato il 22 luglio del 2013, per poi essere licenziato un anno dopo, è approdato alla Camera nel 2015 per poi tornare nuovamente all'esame di palazzo Madama e, infine, essere licenziato da Montecitorio. Più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento, il testo non ha subito ulteriori modifiche durante l'ultimo esame. Si tratta di un provvedimento che ha diviso le forze politiche: voluto dal Pd e sostenuto dagli alleati di governo, gli alfaniani di Alternativa popolare, è invece stato osteggiato dalle forze di centrodestra, Lega e FdI in testa. I detrattori della legge sostengono che si tratta di un provvedimento punitivo nei confronti delle forze dell'ordine, limitandone il campo d'azione. Niente di tutto ciò, hanno sempre replicato Pd e governo, nessuna "norma vessatoria", al contrario si tratta di un provvedimento che "colma una lacuna" e fa sì che l'Italia "non sia più fanalino di coda", è stata sin dall'inizio la posizione dei sostenitori del testo.

• LE PENE. L'articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La pena sale da 5 a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

• ARTICOLO 2 . L'articolo 2 stabilisce che "le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili" in un processo penale.

• LESIONE GRAVE. Se c'è "una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà". Se invece "dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta".

• ISTIGAZIONE. Viene anche punito da 6 mesi a 3 anni "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura".

• STOP ESPULSIONI. Sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione - sostanzialmente aderente al contenuto dell'articolo 3 della Convenzione Onu - precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni "sistematiche e gravi" dei diritti umani.

• ESTRADIZIONE. Viene poi previsto l'obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

• IMMUNITA'. Il provvedimento esclude il riconoscimento di ogni "forma di immunità" per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L'immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l'Italia da parte di uno Stato estero. Seguono l'articolo 5 (invarianza degli oneri) e l'articolo 6 (entrata in vigore).

• REAZIONI. "In Italia da oggi c'è il reato di tortura nel codice penale. Una legge da noi profondamente criticata per almeno tre punti: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari". Così in una nota l'Associazione Antigone. La legge approvata che incrimina la tortura non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu - denuncia Antigone -. Per noi la tortura è e resta un delitto proprio, ossia un delitto che nella storia del diritto internazionale, è un delitto tipico dei pubblici ufficiali". "Quella approvata oggi dal Parlamento, che introduce con quasi 30 di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. È carente sotto il profilo della prescrizione" dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. "A 33 anni della Convenzione Onu, l'Italia ha una legge contro la tortura. Un risultato importante, il migliore possibile oggi in Parlamento", afferma la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro. "Il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Se avessimo cambiato di nuovo questa legge non sarebbe mai nata", ha sottolineato il capogruppo dem in commissione Giustizia, Walter Verini. "Questo governo e questa maggioranza stanno riempiendo il Codice penale di norme assurde, con un diritto penale del consenso, modaiolo. Un diritto penale di consegna del Paese alle Procure, scambiando la giustizia con le indagini. Un atteggiamento gravissimo del quale pagheremo tutti le conseguenze", attacca Francesco Paolo Sisto, secondo il quale il Pd sta "trasformando il nostro Paese in uno stato di polizia". Per FdI "passa l'infamia del ddl tortura voluto dal Pd: una legge che non punisce la tortura ma serve solo a criminalizzare le Forze dell'Ordine", dice Giorgia Meloni. "Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. È un giorno amaro", è la linea pentastellata. Critiche anche le forze di sinistra: sia Mdp che Sinistra italiana si sono astenute, bollando il testo come una legge "debole, inefficace e poco incisiva".

La tortura diventa reato (tra le polemiche): pene fino a 12 anni, scrive Alessandro Di Matteo il 6 luglio 2017 su "Il Secolo XIX". Per la sinistra fuori dal Pd è troppo poco, per Fi e il centrodestra è troppo, ma il reato di tortura adesso fa parte del codice penale e chi lo commette rischia fino a 10 anni di carcere, che possono diventare 12 se il colpevole è un pubblico ufficiale. Non è stato un percorso facile, ci sono voluti quattro anni per arrivare al via libera, ma ieri la Camera ha dato l’ok definitivo con il sì del Pd e di Ap, l’astensione di M5s, Sinistra italiana e Mdp e il no di Fi, Fdi e Lega. Il crinale è stretto, da un lato si cerca di tutelare chi si trova ad essere privato della libertà, dall’altra si è voluto evitare una norma troppo limitativa per chi deve garantire la sicurezza dei cittadini. Le aggravanti sono previste se a commettere il reato è un «pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio», ma non si applicano se le sofferenze derivano unicamente «dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Una formula di compromesso, inserita alla fine dell’iter per cercare di evitare che le forze dell’ordine si trovino a dover rispondere del reato di tortura anche per le normali azioni repressive che fanno parte del loro dovere. Ma saranno considerate aggravanti anche le «lesioni personali comuni» e le «lesioni gravi», che comporteranno un aumento fino a un terzo della pena, mentre per le lesioni «gravissime» la pena aumenta della metà. Infine, in caso di morte come conseguenza della tortura la condanna sarà a 30 anni, se l’evento non era «voluto» e all’ergastolo se invece l’obiettivo era proprio l’uccisione della persona. Anna Finocchiaro, a nome del governo, parla di un «risultato importante che colma una grave mancanza nel nostro ordinamento. Il testo è il migliore possibile, nelle condizioni date. L’applicazione concreta delle nuove norme ci dirà se sarà necessario successivamente introdurre eventuali correttivi». Quasi identiche le parole di Laura Boldrini, presidente della Camera, è «un passaggio decisivo, ma come sempre potrà essere il Parlamento, sulla base della concreta applicazione delle norme, ad apportare le modifiche che si dovessero rivelare necessarie». Anche Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Giustizia, invita al pragmatismo: «Certo, il testo sarebbe stato più incisivo se non fosse stato modificato quello che approvammo qui alla Camera ben due anni fa. Ma davvero si pensa che un altro passaggio parlamentare sarebbe stato possibile? Ovviamente no». Per Amnesty international, invece, «non è una buona legge, ma è un passo avanti». A sinistra non è d’accordo Nicola Fratoianni, Si, la legge è un «pasticcio, non consentirà di perseguire in modo efficace chi si rende autore di questi orrendi atti». Tesi simile a quella di M5s: «Non sono riusciti ad approvare una legge che punisca per davvero il reato di tortura. E’ un giorno amaro». Per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano Cucch i, «l’Italia ha paura di una vera legge sulla tortura». Al contrario, per Gregorio Fontana di Fi la legge è uno «schiaffo alle forze dell’ordine, un provvedimento intimidatorio che rischia di compromettere l’operatività delle forze di polizia». E anche per la Lega «si legano le mani alle forze di polizia».

Approvato il reato di tortura, il Sap reagisce: la paginata su "Il Tempo" contro il ddl, scrive il 6 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". La Camera ha approvato, in via definitiva, il ddl che ha introdotto il reato di tortura nell'ordinamento italiano: 198 i sì, 35 i contrari, 104 gli astenuti (tra questi, M5s, Sinistra Italiana e Mdp). Dopo oltre quattro anni, dunque, uno dei più controversi disegni di legge è stato approvato: ora, i poliziotti, rischiano fino a 12 anni di carcere. E a criticare l'approvazione del ddl, contro il quale da tempo si battono le forze dell'ordine, su Il Tempo è apparsa una paginata pubblicitaria del Sap, il sindacato autonomo di polizia, non nuovo a queste iniziative. La pubblicità è quella che potete vedere nella foto: "Tortura per brava gente". Esplicito il pensiero del Sap: "Una legge è come una bottiglia...potrebbe contenere del buon vino...in realtà poi vi è metanolo". Secondo il Sap, "la legge sul reato di tortura è un pessimo groviglio giuridico" poiché "così come strutturato non reprime i comportamenti di tortura ma punta solo a delegittimare le Forze dell'ordine". Secondo il sindacato, che chiede "che siano puniti severamente i comportamenti di tortura", quello appena approvato è "un manifesto ideologico contro le forze di Polizia".

“Omicidi e reati in calo”. Parola di Minniti…, scrive il Dubbio " il 16 agosto 2017. Nella conferenza di Ferragosto il ministro degli interni ha escluso un pericolo di “terrorismo imminente”. “La migrazione è un fenomeno epocale. L’obiettivo che ci siamo dati è di governare i flussi migratori” e in questo “il principio fondamentale è la sicurezza dei cittadini”. Inizia così la conferenza di Ferragosto del ministro degli interni Marco Minniti. Inizia sul tema del momento, quello dei migranti che sta innescando polemiche e reazioni a catena. A cominciare dalla decisione delle Ong di bloccare i soccorsi in mare proprio a causa delle nuove regole imposte dal ministro. Ma il ministro è ottimista: “siamo ancora sotto il tunnel – ha ammesso – Il tunnel è lungo ma io comincio a vedere la luce alla fine. Non so – ha aggiunto – se sono troppo ottimista. L’auspicio è che si possa continuare con l’impegno e la passione civile di un grande Paese che ha affrontato sfide difficilissime in questi anni”, ha concluso. “I dati – ha poi continuato Minniti – ci dicono oggi che abbiamo una lieve flessione, poco più del 4% rispetto allo scorso anno. E’ ancora presto per fare una valutazione di carattere strutturale”, ha aggiunto il ministro. Per quel che riguarda la sicurezza in senso stretto, Minniti ha spiegato che “Sono 67 gli stranieri espulsi quest’anno dall’Italia nel quadro della prevenzione antiterrorismo”. E sul terrorismo il titolare del Viminale ha spiegato che “il quadro della minaccia del terrorismo rimane alto, ma non c’è una minaccia imminente”. Per quel che riguarda la sicurezza interna Minniti ha confermato il calo dei reati, un trend in continua discesa negli ultimi decenni: “Nei primi sette mesi del 2017 gli omicidi in Italia sono calati del 15% e i delitti del 12%”. Po il ministro ha annunciato per il prossimo autunno un G7 dei ministri dell’Interno europei.

L'Italia è un Paese senza reati, ma il populismo vede reati ovunque. È il titolo dell’editoriale su “Il Dubbio tv" di Piero Sansonetti del 16/08/2017, in quale aggiunge che ci sono il 40% in meno di reati di mafia. 

Contro il mercato della paura. I micro casi di cronaca nera si sono impossessati dell’agenda mediatica e stanno alimentando un mostro a tre teste chiamato “insicurezza”. Problema: ma siamo davvero un paese insicuro? Indagine su una grande balla italiana, scrive Claudio Cerasa il 6 Aprile 2017 su “Il Foglio”. Il mercato della paura è il cugino del mercato del malumore e quando il sonno della politica (il congresso del Pd, zzzz) apre immense voragini sui giornali, crea sconvolgenti vuoti sui telegiornali e genera panico totale nei talk-show succede sempre quello che stiamo vedendo in questi giorni: i piccoli casi di cronaca nera si impadroniscono dell’agenda del nostro paese e improvvisamente il mondo dell’informazione entra in un cortocircuito letale all’interno del quale si alimenta un mostro chiamato insicurezza. Siamo davvero un paese corrotto, depresso, condannato alla paralisi eterna? Col cavolo. Appello (con molti dati e buonumore) per evitare che la politica del realismo accetti il terreno suicida imposto dai professionisti dello sfascio. A guardare con attenzione le notizie meglio valorizzate nelle ultime settimane dai giornali, dai telegiornali, dai talk-show e dalla classe politica, l’impressione è che l’Italia sia un paese integralmente dominato da giovani tossici pronti a uccidere il loro prossimo con una spranga, figli inevitabilmente destinati a essere rinchiusi in una valigia e gettati in mare, uomini pronti a uccidere le proprie compagne dopo averle likate su Facebook, padri tentati dall’uccidere i propri figli facendoli precipitare in un burrone, baristi o farmacisti destinati a essere preda di un qualche rapinatore senza scrupoli. Il sottotitolo di ogni notizia e di ogni articolo è più o meno sempre lo stesso: l’Italia è un paese sempre più insicuro che per colpa di una politica assente, che non sa rispondere come dovrebbe all’emergenza sicurezza, sta precipitando verso un baratro senza ritorno. Il ritorno poderoso della cronaca nera sulle prime pagine dei giornali e sulle copertine di molti talk-show è una scelta editoriale legittima ma che si fonda su un falso storico che nessuno ha il coraggio di denunciare, perché dicendo la verità su questo tema sarebbe più complicato per tutti trasformare episodi di cronaca locale in casi di scandali nazionali. La verità riguarda la risposta a una domanda precisa: ma l’Italia è o non è un paese insicuro? Qualche giorno fa abbiamo letto un bellissimo corsivo sulla Stampa di Mattia Feltri, che ha ricordato che gli omicidi in Italia calano ininterrottamente dal 1992, quando furono quasi tremila e cinquecento e che le rapine diminuiscono da tre anni. Dopo aver letto il corsivo di Feltri abbiamo preso tutti i dati messi a disposizione dall’Istat, dall’Eurostat e dal ministero dell’Interno, li abbiamo miscelati con un bellissimo rapporto sulla “Criminalità predatoria” realizzato nel novembre del 2016 dall’Associazione bancari italiani e abbiamo messo insieme un po’ di numeri per smontare una delle grandi fake news che tengono in ostaggio il nostro paese: l’insicurezza dell’Italia. La premessa ce la offre l’Istat, con un rapporto sulla sicurezza presentato il 7 dicembre 2016. Pronti? Via. “Il complesso degli indicatori soggettivi e oggettivi che misurano l’evoluzione della sicurezza nel nostro Paese mostra una generale tendenza al miglioramento. Continua la diminuzione degli omicidi, ma non nel caso delle donne vittime dei partner (o ex partner), e inizia a consolidarsi il calo dei reati predatori, con l’unica eccezione delle truffe informatiche. Nel contesto europeo, l’Italia si colloca tra i paesi con la più bassa incidenza di omicidi, mentre per quanto riguarda i furti e le rapine la situazione è ancora problematica. E’ sostanzialmente stabile la percezione della sicurezza, rispetto al 2009, mentre sono in miglioramento nel 2016 gli altri indicatori soggettivi. Diminuisce la preoccupazione per sé o per altri della propria famiglia di subire una violenza sessuale e si notano meno di frequente segni di degrado sociale nella zona in cui si vive. Inoltre, sono in calo alcune forme di violenze sessuali subite dalle donne”. Basterebbe questo ma l’Istat va oltre. “In Italia, gli omicidi segnano una continua diminuzione dagli anni ’90, quando il tasso raggiungeva il livello di 3,4 omicidi per 100 mila abitanti. Nel 2015, sono state uccise 469 persone (pari allo 0,8 per 100 mila abitanti), un numero che è diminuito di 4 volte in 25 anni. La diminuzione ha caratterizzato anche i tentati omicidi, 2 ogni 100 mila abitanti nel 2015, con un andamento analogo a quello degli omicidi (erano 3,9 ogni 100 mila abitanti nel 1991), sebbene più oscillante nei diversi anni”. Si dirà: ma se non c’è un problema di sicurezza, ci sarà allora un problema legato alla percezione della sicurezza, sennò che senso avrebbe parlare a ogni ora del giorno dell’omicidio di Sarah Scazzi o della necessità di allargare il perimetro della legittima difesa? Scrive ancora l’Istat: “Anche sul fronte delle percezioni della popolazione emerge una situazione complessivamente positiva, si segnala una minore preoccupazione di subire una violenza sessuale, un più basso livello di degrado e una sostanziale stabilità delle persone che si sentono sicure”. E per di più, ma guai a dirlo, “una netta diminuzione riguarda l’indicatore sulla preoccupazione di subire una violenza sessuale: nell’arco di sei anni la preoccupazione, per sé o per qualcuno della propria famiglia, è diminuita, passando dal 42,7 per cento del 2009 al 28,7 per cento del 2016”. L’Italia del Far West non esiste ma l’emergenza sicurezza è diventata una nuova leva da usare come un manganello contro la casta della politica e in nome di questo principio si è perfettamente legittimati a trasformare l’episodio di cronaca in quello che diventa giorno dopo giorno lo specchio o l’anima di un paese. E di conseguenza si può fare anche a meno di guardare in faccia la realtà. Cambiamo documento e andiamo a prendere la relazione sullo stato della sicurezza in Italia presentata il 15 agosto del 2016 dal ministero dell’Interno. Dal 2011 al 2015 è successo questo: il numero totale di reati commessi è sceso del sette per cento; il numero totale dei furti è sceso del 9,2 per cento; il numero di rapine commesse è sceso del 10 per cento; il numero di omicidi commessi è sceso dell’11 per cento passando dai 555 casi del 2011 ai 398 del 2015 (in tutta Italia ogni anno vengono uccise più o meno la metà delle persone uccise in un anno a Chicago, nel 2016 i morti sono stati 762); e confrontando i dati dei primi sei mesi del 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il totale dei delitti commessi è passato da un milione e 347mila, a un milione e 129 mila (-16,2 per cento). Passiamo al terzo documento, quello dell’Abi. Il dossier è stato strutturato sulla base dei dati operativi del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno. Riguarda la sicurezza di ambienti come le poste, le tabaccherie, le farmacie, gli esercizi commerciali, i distributori di carburante, il trasporto valori. Tenetevi forte. Punto primo: le rapine denunciate in Italia nel corso del 2015 sono state 34.957, pari ad un decremento del 10,9 per cento rispetto al 2014. In calo anche il tasso di rapine ogni 100 mila abitanti, passato da 64,6 rapine ogni 100 mila abitanti nel 2014 al 57,5 nel 2015. E non solo: “Il decremento registrato per il totale dei reati ha caratterizzato quasi tutte le categorie principali, tra le quali in particolare i furti di motocicli/ciclomotori (-9,9 per cento), i furti in abitazione (-8,6 per cento) e i furti con strappo (-7,2 per cento). L’unico incremento è stato registrato per i furti ai distributori di carburante (+2,4 per cento rispetto al 2014). Nel 2015 le rapine ai danni degli sportelli bancari sono state 772, pari a un calo del 2,4 per cento rispetto al 2014. Il trend degli ultimi anni mostra un continuo calo delle rapine in banca, rallentato solo da una stabilità dei casi che aveva contraddistinto il 2013. Le rapine consumate sono state invece 536, pari a un calo dell’8,7 per cento. Continua, inoltre, ad aumentare la percentuale di rapine fallite: si è passati, infatti, dal 17 per cento del 2010 al 30,6 per cento del 2015”. Sintesi a uso e consumo delle infografiche dei talk: tra il 2015 e il 2014 le rapine ai danni degli esercizi commerciali sono diminuite del 13,9 per cento e i furti ai danni degli esercizi commerciali del 4,4 per cento. Tutto questo elenco di numeri, che difficilmente avrete trovato su altri giornali, non vuole dimostrare che in Italia non esista un problema legato alla sicurezza: esiste, e naturalmente il rischio terrorismo mescolato all’aumento dell’immigrazione clandestina può contribuire a generare una sensazione di insicurezza. Quello che non esiste è invece un caso Italia, una qualche grave anomalia relativa alla protezione del nostro paese. L’emergenza sicurezza è entrata a far parte della nostra agenda quotidiana – come in tutti i paesi europei e occidentali – ma l’Italia non è un paese insicuro e far credere il contrario significa alimentare una grande fake news. E alimentare le fake news di solito aiuta non a fare i conti con la realtà ma a regalare voti ai populisti e agli irresponsabili specializzati nel capitalizzare il mercato della paura.

Quei piccoli reati che nessuno denuncia per mancanza di fiducia nella Polizia, scrive il 25 giugno 2016 “Il Caffe tv".  “Secondo informazioni in nostro possesso, sembra che nella provincia pontina si stia riducendo il numero dei cosiddetti reati predatori”, così ha esordito Elvio Vulcano, Segretario Provinciale di Latina del Movimento dei Poliziotti Democratici e Riformisti. “La notizia in sé sarebbe entusiasmante - spiega -se non temessimo che, al contrario, molti cittadini non denunciano più i cosiddetti piccoli reati per tante ragioni: per non perdere tempo per recarsi presso un Presidio delle Forze dell’Ordine, perché se rubano loro una bicicletta viene a scomparire una cifra contenuta di denaro, ormai abituati a questa tipologia di reato, per scarsa fiducia nel lavoro e nella capacità delle Istituzioni preposte alla Sicurezza” ha proseguito Vulcano. “Ma qualunque possa essere la motivazione che induca il cittadino a non segnalare un episodio che lo veda danneggiato o testimone, ciò comporta per il medesimo una ricaduta in termini di sicurezza. Infatti, la diminuzione del numero delle denunce autorizza a ritenere che le statistiche, in possesso delle Autorità preposte, dimostrino l’efficienza e l’efficacia del lavoro svolto dai poliziotti e ne esaltino l’operato. Ma meno reati uguale meno agenti! Per spiegare meglio, è difficile che un’area territoriale dove i reati sono in calo possa venire incrementata con appartenenti alle Forze dell’Ordine; si rischia di innescare un circolo vizioso all’interno del quale la popolazione continua ad abituarsi a subire e a non denunciare, quasi accettando il torto, la sopraffazione”, ha chiosato Vulcano. “Noi riteniamo che il cittadino debba pretendere un’adeguata tutela a tutto tondo, anche con una partecipazione attiva, per meglio aiutare nel loro compito le Forze dell’Ordine e impedire che qualcuno dica: va tutto bene”.

Meno delitti, più detenuti: il paradosso della sicurezza, scrive Damiano Aliprandi il 26 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Calano furti, rapine e omicidi, ma le carceri sono piene. Il 13esimo rapporto dell’Associazione Antigone sullo stato delle nostre prigioni è un grido d’allarme: dal sovraffollamento cronico all’abuso della custodia cautelare. Il carcere ritorna protagonista: aumenta il numero dei detenuti, nonostante la diminuzione dei reati. È quello che emerge dal tredicesimo rapporto dell’associazione Antigone intitolato “Torna il carcere”. I numeri sono chiari: negli ultimi 6 mesi si è passati da 54.912 presenze a 56.436. Il rapporto dell’associazione Antigone, presieduta da Patrizio Gonnella e dalla coordinatrice Susanna Marietti, sulle condizioni di detenzione è stato presentato ieri mattina a Roma con il Capo del Dap, Santi Consolo, e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, infatti, si registra il 10,6% in meno di rapine (cioè furti aggravati dalla violenza o dalla minaccia), quasi il 7% in meno dei furti, il 15% in meno di omicidi volontari e tentati omicidi, il 6% in meno di violenze sessuali il 7,4% in meno di usura). Ci si era illusi che, dopo la condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani, 2013), il carcere potesse tornare a perseguire gli obiettivi dettati dalla Costituzione. I provvedimenti che incentivavano l’utilizzo delle misure alternative, le proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà aveva reso fiducioso Antigone per un positivo cambio di clima politico. E invece numeri e politiche ben fotografate dal rapporto, curato da Alessio Scandurra, Gennaro Santoro e Daniela Ronco, evidenziano passi indietro: 56.436 è il numero di persone detenute duemila persone in più in soli quattro mesi -; sono stati 45 i suicidi in carcere nel corso del 2016 – spesso avvenuti dopo la detenzione in celle di isolamento – e con 19 suicidi dall’inizio del nuovo anno; la riforma dell’ordinamento penitenziario è ferma al palo; la legge sul reato di tortura resa “monca” per le varie modifiche. E il populismo penale rischia di essere l’unica risposta all’insicurezza dei cittadini.

SOVRAFFOLLAMENTO. Nel rapporto di Antigone viene spiegato che negli ultimi 6 mesi si è passati dalle 54.912 presenze del 31 ottobre del 2016 alle 56.436 del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Alessio Scandurra scrive nel rapporto che si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile: non solo conferma una tendenza all’aumento già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione. Nel semestre precedente, dal 30 aprile al 31 ottobre del 2016, la crescita era stata infatti di 1.187 detenuti. «Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi – spiega Scandurra -, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000».

CUSTODIA CAUTELARE. L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, scrive Gennaro Santoro nel rapporto, con una percentuale di detenuti non definitivi, al 31 dicembre 2016, pari al 34,6% rispetto ad una media europea pari al 22%. Tra le varie cause che provocano l’elevato numero di ristretti non definitivi viene identificata l’eccessiva durata del procedimento penale e la scarsa applicazione di misure meno afflittive, quale ad esempio gli arresti domiciliari (con o senza l’utilizzo del braccialetto elettronico). Tale dato, inevitabilmente comporta che la custodia cautelare rappresenti anche una anticipazione (o, spesso, una sostituzione) della pena finale. “Ciò comporta – si legge sempre nel rapporto – che la custodia cautelare svolga una funzione in parte contraria alla legge, perché si pone in contrasto con il principio di presunzione di innocenza sopra menzionato: la funzione della custodia cautelare dovrebbe infatti risiedere esclusivamente nel rispondere alle esigenze cautelari”. Antigone denuncia le conseguenze drammatiche di tale situazione che si riversano sui detenuti stessi che, in quanto non definitivi, sono destinatari di norme e prassi carcerarie deteriori rispetto a quelle dedicate ai definitivi (ad esempio, per l’accesso al lavoro), nonostante possano trascorrere in carcere numerosi anni.

STRANIERI IN CARCERE. Secondo Antigone ci crea un effetto “criminalizzazione dello straniero”, con un aumento dal 33,2% del 2015 al 34,1% di oggi. Sono, poi, 356 i detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione. 11 sono i minori detenuti con l’accusa di essere scafisti. Ma, secondo Antigone, vi è il “forte rischio” che tra loro ci siano ragazzi indicati come tali dai veri scafisti, solo perché dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo.

MISURE ALTERNATIVE. “Sarebbe importante monitorare scrive Daniela Ronco nel rapporto di Antigone – in maniera sistematica e accurata i dati sulla recidiva nel nostro paese: le ricerche condotte, a livello nazionale o locale, dimostrano l’idea della funzione di riduzione della recidiva in caso di condanna scontata in misura alternativa anziché in carcere”. L’Ordinamento Penitenziario individua tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi- libertà, la detenzione domiciliare. La misura più utilizzata resta l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia quella sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento.

Rapine e reati con troppi impuniti. Così muoiono uomini e sicurezza. In Italia un bar e un negozio vengono rapinati a mano armata ogni due ore. E solo nella metà dei casi il colpevole è arrestato. Ma in generale i furti e le rapine sono coperti da un velo di impunità. E la paura aumenta, scrive Antonio Galdo. L’urlo demagogico, ma anche il mettere la testa nella sabbia come gli struzzi, sono le peggiori reazioni che si possono avere di fronte alle tragedie come quella di un povero barista, Davide Fabbri, ucciso per rapina, sotto gli occhi della moglie, nella frazione Riccardina di Brudio, in provincia di Bologna, nel cuore di un’Italia dove la vita comunitaria è sempre stata un modello, e adesso è messa a rischio da autentici assassini. La demagogia tracima fino all’invocazione delle armi (come se così si risolvesse il problema) come autodifesa, chiedendo di trasformarci tutti in cittadini-pistoleri a fronte di uno Stato che non ci protegge. La testa nella sabbia, invece, mescola un pietismo di maniera con la rimozione di un problema con il quale dobbiamo fare i conti: la nostra sicurezza. Un bene assoluto, talvolta sprecato. Nel circolo vizioso di questa doppia ipocrisia, si perde di vista la realtà, l’unica che può aiutarci a restare con i piedi per terra ed a reagire nei modi giusti, o perlomeno utili e ragionevoli. La realtà parte da due numeri: in Italia bar e negozi subiscono 14 rapine a mano armata al giorno, una ogni due ore. Cifre impressionanti, che ci fanno capire come questi negozianti, spesso, come il barista di un piccolo centro emiliano, punti di riferimento sul territorio, sono sotto lo schiaffo della criminalità. Piccola, media o grande, è perfino secondario. Allo stesso tempo, c’è da dire l’Italia non è il Far West, e in ogni caso le rapine alle attività commerciali sono diminuite del 13,6 per cento (la fonte è l’Istat) negli ultimi anni. Le rapine sono diminuite come la sicurezza, e la percezione che i cittadini ne hanno: come si spiega questa apparente contraddizione? Dove sta il buco nero? Le risposte sono racchiuse in una parola: impunità. Di queste rapine al ritmo di una ogni due ore, solo nella metà dei casi si riesce ad arrestare il malvivente colpevole. Poco, troppo poco, nonostante lo sforzo coraggioso di tanti carabinieri e poliziotti che fanno il loro dovere di servitori dello Stato. E quanto tempo si riesce a tenere in carcere un colpevole di omicidio o di tentato omicidio? Poco, troppo poco, rispetto alla gravità del reato: su 10mila rapinatori (anche a mano armata) arrestati ogni anno grazie anche al lavoro (pagato poco e male) delle forze dell’ordine, meno della metà sono in carcere dopo un anno, e questo significa la cancellazione con un colpo di spugna del principio di civiltà della certezza della pena. Anche per i soliti buchi neri della macchina della giustizia penale, per il fatto che molti magistrati considerano questa un’attività minore nel loro lavoro (rispetto alla popolarità che si guadagna, per esempio, con un’indagine a cavallo tra politica e corruzione), e per un meccanismo bestiale della Giustizia che, tra mille sprechi di leggi, leggine e furbizie varie, riesce quasi sempre a garantire l’impunità ai colpevoli. Anche quelli di rapine a mano armata. Lo stesso film, se ci pensate e se andate a vedere da vicino, che vediamo a proposito della corruzione, dell’assenteismo di massa, dei furti in casa (senza colpevoli nel 99 per cento dei casi!). Qui si consuma la nostra paura e la nostra rabbia di cittadini. Qui frana il Paese legale e si afferma l’Italia dell’illegalità. Qui pescano i cultori della violenza, offensiva e difensiva. E da qui bisognerebbe partire per dire: Più sicurezza per tutti, meno delinquenti che la fanno franca sempre e comunque.

Furti in casa: ne subiamo uno ogni due minuti. E il 99 per cento sono impuniti, scrive Antonio Galdo. Il governo corre ai ripari alzando le pene minime e riducendo le attenuanti generiche. Ma il punto è che nessuno si impegna a reprimere questi reati, e soltanto 2mila colpevoli hanno fatto un giorno di carcere. Uno solo. Il governo prova a correre ai ripari rispetto al dilagante fenomeno di furti e scippi. Nel modo più semplice: alzando la pena minima da un anno a tre anni di reclusione (4 anni se ci sono le aggravanti) e restringendo il campo delle attenuanti. Bene. Un segnale ci voleva, su un tema che scuote l’intero paese, implica uno spreco di risorse e di mezzi a vario livello, e diffonde un’idea di completa insicurezza dei cittadini. Ma il vero problema delle rapine negli appartamenti, aumentate del 127 per cento negli ultimi dieci anni, non è tanto legato alle (eventuali) pene, ma alla totale impunità di questo grave reato. I numeri ci dicono che lo scorso anno sono state svaligiate oltre 250mila case, una ogni due minuti, ed a questa cifra bisogna aggiungere gli episodi non denunciati dalle vittime. A fronte di una valanga di furti, il 99 per cento restano impuniti. Non solo. Delle appena 15mila persone denunciate, solo 2mila hanno fatto un giorno di carcere. Uno solo. L’impunità, quindi, è generalizzata, ed è su questo versante che bisogna lavorare perché senza la certezza della pena il diritto non esiste. D’altra parte chiunque ha subìto un furto in casa, al momento della denuncia alla polizia o ai Carabinieri si è sentito dire qualcosa del genere: «Sì, faccia la denuncia, ma non si aspetti molto…». Le indagini, infatti, non si fanno più e questo tipo di reati vengono considerati endemici, quindi impuniti. Ancora peggio accade in sede giudiziaria: i magistrati non amano occuparsi di questi fascicoli, li considerano di serie B e non danno alcuna pubblicità sui giornali e in televisione. Poco meno di un lavoro di ordinaria amministrazione. E così, tra uno sconto di pena e un’attenuante accertata, ed a colpi di rinvii del processo, nessuno dei colpevoli individuati e inchiodati dalle prove, viene mai sanzionato come previsto dalla legge. E il furto in casa come lo scippo, di fatto, sono due reati cancellati.

Niente carcere per furti e truffe Così Renzi velocizza la Giustizia. Con un decreto legislativo il Guardasigilli Orlando archivia i piccoli reati: niente processo. E le vittime? Potranno fare ricorso. Ma l'ultima parola spetterà sempre a un giudice, scrive Andrea Indini, Domenica 16/11/2014 su "Il Giornale". Prendete Renato Vallanzasca. Nei giorni scorsi è stato connato a dieci mesi di carcere per aver rubato un paio di mutande e alcuni oggetti da giardinaggio. La sinistra si è subito affrettata a spiegare che il gesto è stato dettato dalla fame, dal disagio sociale, dalla crisi economica. Ebbene se il decreto legislativo che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha trasmesso al parlamento fosse già stato convertito legge, il bel René non si sarebbe fatto nemmeno quei mesi di carcere. Perché, per "snellire" le Aule dei tribunali, il governo Renzi sta pensando bene di non perseguire i "piccoli" reati. Niente processo, insomma, per truffe, furto o lievi forme di abuso d'ufficio o peculato. E la vittima? Rimarrà col cerino in mano. È il soliti brutto vizio della sinistra. Giustizialisti e manettari solo quando conviene. Perché c'è furto e furto. A seconda della convenienza. Li chiamano reati "bagatellari", ma pur sempre di reati si tratta. Tanto che ad oggi, in Italia, vengono comunque perseguiti in ossequio al sacrosanto principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Adesso il Guardasigilli ha scritto cinque articoletti, riuniti sotto un unico decreto legislativo, per depenalizzare i reati "bagatellari". Ladri e truffatori se la caveranno con un buffetto. Nemmeno la ramanzina. Perché, dovesse diventare legge, "nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale". Difficile districarsi nel "giuridichese" di Orlando. Ma quello che introduce la bozza del provvedimento è "l'improcedibilità per tenuità" del danno arrecato. Le truffe, i furtarelli, gli abusi d'ufficio di lieve entità e il peculato d'uso potranno essere chiusi subito, senza andare a processo. E, quindi, senza essere condannati. Ci sarà, insomma, l'archiviazione per il vecchietto che al supermercato ruba un formaggio e per il rom che ti trancia la catena e si porta via la tua bicicletta. Perché, nascondendosi dietro alla "esigenza di alleggerimento del carico giudiziario", Orlando punta a introdurre il "principio di proporzione" in modo da tutelare il ladro o il truffatore di turno per non essere "costretti a sopportare il peso psicologico del processo a suo carico". E le vittime? Rimarranno senza giustizia. Certo, chi ha subito il danno potrà far valere le proprie ragioni in sede civile. Entro dieci giorni potrà anche prendere visione degli atti in modo da opporsi, qualora lo volesse, alla richiesta di archiviazione del pm. Ma chi deciderà se archiviare il ricorso alla archiviazione del pm? Un altro giudice. Con un margine di discrezionalità che, all'occorrenza, non tutela mai le vittime.

Furti e rapine restano impuniti. "Pochi vanno in carcere se è il primo reato". Si riapre il dibattito dopo il caso delle sorelle bruciate: solo il 4,6 per cento dei ladri viene scoperto. "La condizionale è un diritto", scrive Fabio Tonacci il 3 giugno 2017 su "La Repubblica". Un orribile caso di cronaca nera, la morte delle tre sorelle rom bruciate vive in un camper di Centocelle, torna a interrogare il sistema giudiziario italiano. Perché uno dei presunti autori della strage, il bosniaco Serif Seferovic arrestato a Torino giovedì, non più tardi del febbraio scorso era stato condannato a due anni di carcere per lo scippo della studentessa cinese Yao Zhang, conclusosi nel peggiore dei modi: la ragazza investita da un treno mentre cercava di recuperare la borsetta. Serif Seferovic si è fatto ventuno giorni di carcere, poi è tornato in libertà. Perché? Sembra il fallimento di un intero sistema, che prima acciuffa il ladro e poi subito lo libera, ma in realtà lo prevede la legge per chi è incensurato. Quando strappa la borsa della studentessa cinese lungo la ferrovia romana, il 5 dicembre scorso, Seferovic ha la fedina penale linda. Non ha neanche precedenti di polizia. Dopo che si sparge la notizia della morte dì Yao Zhang, l'avvocato Gianluca Nicolini lo convince a consegnarsi ai magistrati di Roma. Cosa che avviene il 23 dicembre, nel pomeriggio. In quel momento Seferovic è ancora un uomo libero, ma dopo l'interrogatorio viene portato nel carcere di Regina Coeli. Dove rimarrà fino al 13 gennaio, giorno in cui viene liberato dal Tribunale del Riesame perché il suo legale e il pm si sono accordati sul patteggiamento. "Due anni di prigione - racconta Nicolini - una pena alta per uno scippo. Il giudice poi ci ha concesso la sospensione della pena perché non c'erano pericoli di fuga e Serif era incensurato". A febbraio, dunque, è tornato in libertà. La cella l'ha vista solo per ventuno giorni. Dire però che in Italia i ladri non pagano mai è una semplificazione grossolana, contraddetta dai fatti: attualmente 11.585 detenuti in carcere per furto (di cui 606 donne) e i 16.242 detenuti per rapina (tra cui 523 donne). È vero, invece, che se si è al primo borseggio è praticamente impossibile finire dietro le sbarre. La pena base per il furto aggravato va da uno a sei anni (fino a dieci anni se commesso in appartamento), ma qualsiasi avvocato col minimo sforzo riesce a evitare all'imputato la prigione. Al processo per direttissima, tra attenuanti generiche (ad esempio, la confessione e la riconsegna del bottino) e la scelta del rito abbreviato che riduce di un terzo la pena, il giudice raramente emette condanne superiori a un anno, si arriva a due nei casi particolari come quello di Seferovic. "Del resto la sospensione condizionale della pena per due anni è un diritto", ricorda Roberto Trinchero presidente delle Camere penali del Piemonte occidentale e Valle D'Aosta. "Quando invece si è recidivi, il discorso cambia". O meglio, dovrebbe cambiare. Perché poi si incontra la storia di "mamma borseggio", come è stata ribattezzata la 36enne nomade arrestata dai carabinieri nel centro di Roma a febbraio. L'avevano notata mentre sbirciava dentro gli zaini di alcuni turisti sulla linea Termini-Vaticano e l'hanno controllata. Quando hanno inserito le sue impronte digitali nel terminale, i militari sono rimasti senza parole: la donna di origini serbe aveva alle spalle 25 sentenze di condanna in Italia per furto e borseggio, una carriera criminale cominciata tra Milano e Firenze ancora minorenne e proseguita per vent'anni grazie ai suoi dieci figli. Ogni volta che veniva catturata, infatti, il tribunale era costretto a liberarla perché costantemente in stato di gravidanza. "Donne incinte e minorenni non finiscono in carcere neanche quando sono ladri conclamati - spiega a Repubblica un alto magistrato di Cassazione - anche nei casi di recidiva, non è così scontato che si vada in cella: perché a un imputato di furto si possa contestare la recidiva che aumenta la pena, infatti, bisogna che ci sia stata una sentenza definitiva per l'altro reato e spesso ci si mette anni". Ladri e borseggiatori, poi, spesso sfuggono alle maglie della polizia, in carenza di forze in campo: solo nel 4,6 per cento dei casi (dati Istat) vengono scoperti gli autori, addirittura solo due volte su cento per i furti in appartamento. Certo, se il sistema carcerario svolgesse il compito affidatogli dalla Costituzione, la riabilitazione del detenuto, ce ne sarebbero meno in giro. Uno studio commissionato dal ministero della Giustizia ha dimostrato che un percorso di riabilitazione corretto riduce del 10-15 per cento la possibilità della recidiva. Ma nonostante lo svuota carceri, sono ancora troppo affollate, motivo per cui i magistrati in sede di giudizio per furto tendono a non dare pene tali da finire dentro. C'è poi chi punta il dito sulla mancanza della certezza della pena, perché difficilmente i detenuti scontano l'intero periodo stabilito dalla condanna. "Ma la liberazione anticipata, i permessi, l'affidamento in prova ai servizi sociali sono istituti previsti dal codice - sostiene l'avvocato Troncheri - la certezza della pena talvolta è in contrasto con la rieducazione".

Furto in casa, il reato più impunito. Lo scorso anno 251 mila abitazioni sono state depredate. Ma in cella per questo reato ci sono solo 3600 persone. Perché le indagini non si fanno quasi mai. E così il senso di insicurezza dei cittadini continua a crescere, scrive Giovanni Tizian l'8 aprile 2015 su "L'Espresso". Ogni casa un furto, inesorabilmente. A Lesignana, una piccola frazione alle porte di Modena, si sentono prigionieri di un incubo, come se quell’angolo di pianura padana fosse Far West: rubano in ogni abitazione, in ogni negozio. Ma la stessa esasperazione riguarda la maggioranza degli italiani, nel centro di Roma, di Bologna o di Milano come nel più remoto dei paesini: le mura domestiche non sono più sinonimo di sicurezza, anzi. Le razzie negli appartamenti e nelle ville stanno diventando la regola. E quello che rende ancora più inaccettabile la situazione è la sfiducia nelle istituzioni: c’è la consapevolezza che la denuncia fa soltanto perdere tempo per riempire moduli. Perché nessuno si impegnerà per catturare i ladri e non ci saranno provvedimenti per sconfiggere l’assalto. Non è un sentimento irrazionale, non è una proiezione delle paure: oggi il 99 per cento dei furti in casa restano di fatto impuniti. È un dato choc, che “l’Espresso” ricava dal confronto tra i detenuti per questo tipo di reato e il totale di razzie domestiche messe a segno nel 2014: in carcere sono finite 3600 persone mentre i colpi sono stati 251.558. Due numeri che fotografano l’angoscia. E che trovano riscontro nell’ultima statistica ufficiale, elaborata dall’Istat sulla base delle informazioni del ministero dell’Interno: nel 2013 solo il 2,9 per cento dei responsabili dei furti in abitazione commessi nel corso dell’anno è stato individuato, anche se una fetta consistente di loro se l’è cavata con una denuncia a piede libero. Una pacchia per i delinquenti. Scassinare porte e finestre gli permette di fare rapidamente incetta di gioielli, orologi, computer, telefonini e contanti. Un bottino facile, praticamente senza rischi. Mentre per chi viene derubato c’è una ferita profonda. Li chiamano topi d’appartamento, li paragonano al galante Arsenio Lupin ma la realtà è sempre traumatica. Spesso all’irruzione si accompagna lo sfregio, la devastazione gratuita di mobili e oggetti. E in tutti i casi siamo di fronte a un reato traumatico, che lascia un danno psicologico pesante nelle vittime. Anche quando la perdita economica è limitata, si ferisce il senso più profondo della sicurezza. «Colpire l’abitazione assume un valore simbolico e culturale molto forte. Violare il luogo dell’intimità domestica può avere un forte impatto sul vissuto delle persone, generando anche traumi profondi», sottolinea a “l’Espresso” Marco Dugato, ricercatore di Transcrime e tra gli autori dello studio su questo fenomeno, realizzato in collaborazione con il Viminale, che verrà presentato a fine aprile. Svaligiare case è il crimine che sta dilagando. Anche a Pasqua, decine di colpi. A Pisa hanno derubato i genitori di un consigliere comunale del Pd; a Legnano sono penetrati nella canonica durante la veglia notturna, portando via telefonino e pc del parroco. E non si può definirla un’emergenza, perché da dieci anni l’assalto cresce senza sosta: dal 2003 le denunce sono raddoppiate. Il picco più alto è stato raggiunto nel 2014, arrivando a 251 mila assalti alle mura domestiche. A parte i danneggiamenti, che spesso sono funzionali all’irruzione negli appartamenti, si tratta del reato più numeroso in assoluto. Ogni giorno 689 incursioni, in pratica 29 ogni ora: ogni due minuti un ladro penetra in un’abitazione. Basta poco. Ci sono le “chiavi bulgare”, che riescono ad avere ragione di ogni serratura. E per i predoni meno raffinati si usano piedi di porco o cric, devastando porte blindate o serramenti antiscasso. Non esistono difese inespugnabili. La politica si è accorta dell’emergenza. Ma l’unica risposta all’angoscia dei cittadini è una proposta del ministero della Giustizia: aumentare le pene. Dovrebbero diventare da un minimo di due al massimo di otto anni di carcere, rispetto al tetto di sei previsti oggi. Misura che renderebbe più difficile evitare il carcere sfruttando la condizionale. E vanificherebbe la prescrizione. Ma il problema non è questo. I razziatori di case che ne beneficiano sono pochi: secondo il ministero, solo tra il 4 e il 5 per cento sfugge alle condanne grazie alla prescrizione. No, qui c’è un guasto più drammatico: i ladri non vengono individuati quasi mai, restano una moltitudine di soliti ignoti. A Firenze tra il 2013 e il 2015 la procura ha aperto più di 11 mila procedimenti per furti in casa, ma quelli con un presunto colpevole sono appena 206. A Milano le cose vanno meglio: i fascicoli contro ignoti sono più di 9 mila su un totale di 12 mila. Resta però un colossale buco nero, comune a tutte le città e tutte le procure. Una rassegnazione delle istituzioni che si scontra con il bollettino di guerra dei colpi, che nell’ultimo decennio sono aumentati a Milano del 229 per cento, a Firenze del 177 per cento, a Torino del 172 per cento, a Padova e Palermo del 128 per cento, a Roma e Venezia del 120 per cento, a Bologna e Verona quasi del 104. E le forze dell’ordine cosa fanno? L’ultimo bilancio completo riguarda il 2013, quando ci sono stati 251.422 furti in casa. In meno della metà dei casi è stato aperto un fascicolo. Poi, secondo il Viminale, le indagini hanno portato alla denuncia a piede libero di 15.263 persone, ma quasi un decimo sono minorenni. Gli arrestati invece sono meno della metà: 6.628, di cui 486 minori. Ma in cella restano pochissimo. Tanto che oggi i detenuti sono 3600, di cui 2075 italiani, mentre il numero dei reati è aumentato. Perché l’impunità arriva a livelli così alti? La prima risposta degli investigatori è chiara: le indagini non sono semplici. Spesso sono gang in trasferta che non lasciano traccia: prendono di mira una zona, poi cambiano territorio di caccia. E solo in pochi casi le impronte digitali lasciate sulla scena del crimine riconducono a un profilo già schedato. Anche se una lamentela delle vittime è che raramente agenti e militari cercano le impronte. La scienza in questo campo appare come un’eccezione, ci si abitua a vedere in tv le mirabolanti imprese di Ris e Csi, ma le tute bianche non intervengono quasi mai dopo i furti. A Napoli alcuni anni fa i carabinieri repertarono il dna di una banda che per spregio defecava negli alloggi svaligiati, riuscendo così a incastrarla. Una vera rarità. L’altra giustificazione invocata dagli operatori è la carenza di risorse, la stessa che affligge tutto il settore della sicurezza. Il sindacalista Daniele Tissone, che rappresenta il Silp, ossia la Cgil della polizia, spiega: «Le pattuglie sono diminuite, manca il personale e i mezzi scarseggiano. Un esempio? In molte occasioni gli agenti attendono in ufficio la macchina del turno precedente». C’è anche però un altro difetto, più tecnico: «Per indagini che puntano a bande organizzate l’attività di intelligence è quantomai complessa e ha senso solo nel caso si dimostri una associazione a delinquere, condizione che permette la richiesta di arresti», prosegue Tissone. Qualche operazione brillante viene messa a segno. La scorsa settimana dodici persone sono state arrestate dalla polizia di Firenze. Professionisti originari dell’Est, che sfruttavano due badanti per recuperare notizie preziose sugli appartamenti da ripulire. Le badanti-spie fornivano orari, abitudini e segnalavano la refurtiva “interessante”. Così invece di prendersi cura dell’anziano lo vendevano alla gang, composta da criminali di peso: uno di loro, hanno sottolineato gli inquirenti, è collegato alla mafia russofona. Paradossalmente però è più facile contrastare una banda di maghi del settore. In questi casi infatti le indagini vengono gestite dagli uffici specializzati. E basta un indizio perché l’istruttoria si arricchisca di particolari, di nomi e cognomi. La gang toscana per esempio è finita nel mirino per aver utilizzato un “compro oro” sospetto per ricettare la merce: una pista decisiva per smascherarli. È molto più complicato catturare i cani sciolti: colpiscono senza una logica, selezionano a caso gli obiettivi e possono aspettare molto tempo tra un colpo e un altro. Il compito ricade spesso su commissariati e stazioni di quartiere, ingolfati da una pletora di attività d’ogni genere, che non riescono a trovare tempo e uomini per intervenire.

Tutte motivazioni fondate, ma non bastano a soddisfare le vittime, alle prese da un decennio con l’inarrestabile escalation dei predoni. Tanto che in tutta Italia i residenti dei quartieri più bersagliati scelgono la difesa fai da te: presidiano il territorio, si uniscono in comitati e sfruttano le nuove tecnologie per controllare i quartieri. Si ingegnano perché spesso non percepiscono l’impegno delle forze dell’ordine su questo fronte. E lo stesso fanno diverse amministrazioni comunali che firmano accordi con società di vigilantes offrendo ai residenti servizi low cost di sorveglianza. Questa débâcle dell’ordine pubblico apre la strada a una giustizia privata che finisce anche per rivolgersi alle mafie. Offrendo una ricompensa per ottenere la restituzione del bottino. Si va dal “referente” di zona per cercare di recuperare gioielli, auto o scooter. Per ritrovare la collezione di orologi trafugata nella sua villa Gigi D’Alessio – come ha rivelato “l’Espresso” - ha chiesto persino l’intervento dei servizi segreti mentre le intercettazioni di “Mafia capitale” hanno documentato l’intervento degli uomini di Massimo Carminati per risolvere la questione. L’assalto alle case è un fenomeno trasversale. Ci sono i due anziani della provincia emiliana che hanno perso tutto nell’ora in cui si erano allontanati per andare alla via crucis del paese, la giovane coppia che trova l’appartamento svaligiato dopo una giornata di lavoro, l’attico ai Parioli dell’attrice Vittoria Belvedere violato nonostante l’allarme fino alla moglie di Antonio Catricalà, l’ex sottosegretario e viceministro, che rientrando in anticipo ha sorpreso in malviventi. I ladri non guardano in faccia nessuno. «La famiglia ha subito un cambiamento epocale. Le case sono sempre meno vissute, sempre più vuote per molte ore al giorno», spiega il sociologo Marzio Barbagli, tra i massimi esperti nei temi della sicurezza urbana. «E questo incide sulla scelta dell’obiettivo da parte dei malviventi, che prendono di mira le abitazioni dove il rischio di trovare qualcuno all’interno è basso».

Nell’Italia che ancora soffre la crisi, le case svaligiate non fanno che acuire insicurezza e rabbia. «È un fenomeno che influisce in maniera rilevante sulla percezione di sicurezza», riconosce Marco Dugato, ricercatore di Transcrime. Anche se il rischio poi cambia da territorio a territorio: «Noi sappiamo che la probabilità di subire un furto varia in maniera molto rilevante a seconda del luogo e del momento». Per prevenire è fondamentale studiare il profilo del bandito: «Si va dal ladro non specializzato che coglie l’occasione del momento, come una finestra lasciata aperta, a veri professionisti fino ad arrivare alle bande organizzate che pianificano i colpi con largo anticipo». Se per scoraggiare gli inesperti basta un semplice adesivo che segnala la presenza di telecamere, la videosorveglianza serve a ben poco quando in ballo ci sono i gran maestri scassinatori. «In generale si può dire che gli effetti della videosorveglianza sul numero di reati sono controversi, mentre sicuramente rassicura i residenti», conclude il ricercatore. C’è anche un altro elemento che rende gli occhi elettronici pressoché inutili: i sistemi collegati alle sale operative di polizia e carabinieri non garantiscono l’intervento, salvo che una pattuglia non si trovi a passare in zona. Molto più utili sono i software che inviano all’istante sul cellulare le immagini registrate nell’abitazione. Il proprietario ha così la possibilità di verificare in diretta eventuali ombre anomale e segnalarle immediatamente al 112 o al 113. Sperando che ci sia una volante in grado di intervenire. Ma la sensazione di insicurezza aumenta con il crescere degli assalti impuniti. E apre la strada ai peggiori scenari, con il rischio di giustizieri improvvisati. A Treviso negli ultimi mesi c’è stato il boom di iscrizioni al poligono di tiro. Con casalinghe e anziani in prima fila per esercitarsi a sparare. Tutti dicono di sentirsi soli e insicuri. E - spiegano - per proteggersi, in fondo, un arma costa meno di un impianto d’allarme.

Non esistono i ladri gentiluomini. Ci vuole un po’, dopo un furto in casa, per sentirsi di nuovo a casa. Intuisci che ciò che davvero t’inquieta in quei momenti non è la scoperta progressiva degli oggetti più o meno preziosi che mancano, ma il senso di una privazione più profonda, di una violazione dei tuoi spazi più intimi che, così com’è avvenuta, potrebbe anche ripetersi, scrive Diego De Silva l'8 aprile 2015 su "L'Espresso". La prima volta che ho subito un furto in casa ho pensato che il ladro gentiluomo non esiste. È stato un po’ come smettere di credere a Babbo Natale: in fondo l’avevi sempre saputo, ma quando te lo dicono un po’ ti dispiace. Mentre ti rotolano i sentimenti davanti allo scempio che i soliti ignoti ti hanno lasciato in bella (si fa per dire) mostra, ti scopri malinconicamente a pensare che un ladro gentiluomo, tanto per cominciare (e benché ti sembri un paradosso; il che poi non è così paradossale, se consideri che “ladro gentiluomo” è un ossimoro), non entrerebbe mai nelle case altrui. Lo scorso anno 251 mila abitazioni sono state depredate. Ma in cella per questo reato ci sono solo 3600 persone. Perché le indagini non si fanno quasi mai. E così il senso di insicurezza dei cittadini continua a crescere Se proprio dovesse abbassarsi a una simile marchetta delinquenziale cercherebbe di nobilitarla, studiando il modo di accedere direttamente alla stanza della cassaforte (perché un ladro gentiluomo sceglierebbe come minimo una casa dotata di cassaforte di dimensioni almeno medie), evitando con cura di attraversare (almeno) la zona notte, per non violare la privacy delle vittime. Perché un ladro gentiluomo (che non esiste) sa che ciò che più offende del furto in un’abitazione non è il furto in sé, ma la violazione di domicilio che implica; ed essendo orgoglioso della sua reputazione di ladro sensibile, limiterebbe al massimo lo spossessamento dell’intimità che questo specifico reato comporta e che – come potrà confermarvi chiunque abbia subito un furto in casa – è ben più grave della sottrazione materiale dei beni, anche quelli di un certo valore. Il fatto è che il ladro d’appartamento ha la vocazione al casino, e soprattutto allo sfregio. Non gli basta rubare: anzi, a giudicare dallo spettacolo che offre al proprietario che rientra, sembra che il vero gusto della sua razzia consista nel rovesciare i cassetti, mettere a soqquadro gli armadi, lacerare le federe dei divani, insudiciare in vario modo gli ambienti in cui passa, strappare i quadri dalle pareti nella speranza di trovarci dietro una cassetta di sicurezza; quasi che portar via degli oggetti di valore sia faccenda tutto sommato secondaria rispetto all’obiettivo principale di lasciare tracce evidenti di disprezzo e costruire (destrutturandola) una scenografia mortificante che ha il valore simbolico del messaggio e dice: «Sono stato qui, e posso tornare quando voglio». Ci vuole un po’, dopo un furto in casa, per sentirsi di nuovo a casa. Anche se il tuo primo istinto è quello di fare la conta delle cose rubate (a molte delle quali non sapevi di tenere, finché non ne realizzi la scomparsa), intuisci che ciò che davvero t’inquieta in quei momenti non è la scoperta progressiva degli oggetti più o meno preziosi che mancano, ma il senso di una privazione più profonda, di una violazione dei tuoi spazi più intimi che, così com’è avvenuta, potrebbe anche ripetersi. Come se quella storia non finisse lì. Come se avessi ricevuto un’intimidazione camuffata da furto. Come se casa tua lo fosse un po’ meno. Allora prendi a circolare fra le stanze e ti guardi intorno con un misto di pena e d’indignazione, lottando contro un senso d’insicurezza che ti ha già modificato la percezione degli ambienti, quasi temessi d’essere aggredito alle spalle, e dovessi far fronte a un’improvvisa necessità di difenderti, che fino ad allora non avevi considerato. Ecco cosa si porta via davvero il devastatore (nonché ladro) di appartamenti: la disponibilità di uno spazio in cui non devi difenderti da nessuno. In un certo senso, distrugge un’illusione. Di più: inscena una negazione della proprietà privata, che però non contiene (e dunque non trasmette) alcun pensiero critico, alcuna prospettiva, alcun antagonismo. È un atto qualunquista, che fa passare l’idea di doversi blindare per vivere, e imparare a diffidare del mondo. Non è un caso che le grate alle finestre che il fabbro viene a montarci la mattina dopo ci mettano tristezza, come se guardare fuori attraverso una griglia di ferro, anche se laccata di bianco e dalle forme gradevoli, ci portasse via un po’ di dignità.

L’impunità del reato scoraggia la denuncia, scrive un Consigliere Corte di appello di Roma il 14 dicembre 2015 su “Il Sole 24 ore". Un paio di mesi fa, a Roma. Un’universitaria torna di giorno nel miniappartamento che ha in locazione e lo trova svaligiato: fra quanto sottrattole c’è un ipad sul quale è installato un gps. Col proprio cellulare la ragazza scopre che l’ipad si trova a breve distanza, è segnalato a qualche centinaio di metri, in corrispondenza di un insediamento abusivo rom. Corre al più vicino presidio di polizia e parla con chi di dovere: si aspetta che qualcuno venga mandato sul posto, che si recuperi almeno una parte della refurtiva e che si identifichi chi ne sia in possesso, magari arrestandolo. Viene invece invitata a tornare il giorno successivo per formalizzare la denuncia. Inutile dire che il segnale gps scompare dopo poco, e con esso i pochi beni sottratti e la possibilità di scoprire chi è il ladro. Un paio di settimane fa, sempre a Roma. Mentre passeggia coi bambini, un professionista viene avvertito da un passante che un tale gli ha appena sfilato dalla tasca un telefono mobile: si gira, vede il ladro mentre si allontana ma non riesce a raggiungerlo. Si reca al primo comando di polizia - se il cellulare è acceso lo si può ancora localizzare -, ma gli viene consegnato un modulo di smarrimento dell’apparecchio, accompagnato dal consiglio di non perdere tempo con denunce di furto: far finta di averlo perso è più rapido - così si sente dire - per bloccare la scheda col gestore ed evitare problemi. Storie del genere sono frequenti, non solo nella capitale. Leggendo le pagine del Sole-24 Ore sui reati denunciati in Italia nel 2014, compresi i box di approfondimento su talune tipologie di illeciti, è legittimo domandarsi se e quali criteri esistono per fornire - insieme con i numeri ufficiali, basati sulle denunce - una stima della consistenza effettiva di alcuni delitti. Non vale solo per il furto: l’incremento di circa il 20% fra 2013 e 2014 delle estorsioni non è un dato in sé negativo; con molta probabilità indica una maggiore propensione alla denuncia, e quindi più fiducia nel sistema di contrasto, rispetto a un fenomeno che non è detto che sia cresciuto di 1/5 da un anno all’altro. Il caso del furto è però più emblematico: l’esperienza di ciascuno, limitata e soggettiva, attesta una quantità crescente di denunce non presentate o non fatte presentare. Capire perché questo accade, nonostante l’enorme mole di denunce comunque ricevute, è più importante che prendersela con presunte omissioni fra le forze di polizia: le incombenze scaricate su poliziotti e carabinieri sono sempre di più e sempre più impegnative, mentre il turn over è ridotto all’osso, i mezzi pure, e gli straordinari non si sa se e quando vengono pagati. Vi è poi una percezione delle priorità, che fra esse non fa individuare la repressione dei furti: se gli automezzi a disposizione sono destinati ad altre funzioni, è ovvio che il territorio non viene pattugliato per scoraggiare gli scippi o gli accessi indesiderati nelle abitazioni. Se - nonostante tutto - il ladro è scoperto, non sempre il magistrato di turno autorizza l’arresto; di frequente dispone che sia denunciato a piede libero. Se il ladro è scoperto e viene consentito l’arresto, in cella trascorre qualche ora, al massimo qualche giorno: il tempo di patteggiare al minimo (non più di 3 o 4 mesi di reclusione) e di tornare in libertà a riprendere il proprio “lavoro”, dal momento che quella limitata entità di pena non viene mai espiata. Se non si fa il patteggiamento, nella gran parte dei casi il processo si estingue per prescrizione già in primo grado, al più tardi in appello: ciò spiega perché alla fine - pur se denunciato - il furto resti impunito nel 98% dei casi. E poiché in altre nazioni europee per il furto i giudici irrogano anni di reclusione, ciò contribuisce a spiegare la migrazione in Italia, all’interno dell'area Schengen, di persone che per mestiere svaligiano il prossimo. Perché allora lo zelo dovrebbe manifestarsi al momento della denuncia, e dei successivi immediati accertamenti, quando gli operatori dei polizia hanno la piena consapevolezza che saranno fatica, uomini e mezzi sprecati? Non è questione di sanzioni, che sulla carta esistono e sarebbero pure elevate, o di modifiche legislative: discettare di questo non fa fare passi avanti. La decisione di abrogare un reato che altrove non viene ritenuto bagatellare, e che continua a turbare chi lo subisce, non può restare tacita, ma esige un dibattito, come accade per le scelte di politica della sicurezza. Meglio un confronto sincero che discutere, spesso demagogicamente, sui limiti della legittima difesa, dopo reazioni sproporzionate verso chi entra nella propria abitazione, dettate dal senso di impotenza e dalla mancanza di effettiva tutela. Più che appassionarsi sul se e del quando un privato può sparare, conviene capire quanto e come oggi lo Stato tutela la proprietà e le persone oneste.

Legittima difesa: come funziona all'estero. La riforma varata dal Pd alla Camera è già criticata da Matteo Renzi e Pietro Grasso. Basterebbe copiare i modelli di Francia, Germania, Spagna...scrive Maurizio Tortorella l'8 maggio 2017 su Panorama. La Camera l’aveva appena varata e dopo poche ore Matteo Renzi già cassava come "pasticcio incomprensibile" la riforma della legittima difesa votata dal Partito democratico e da una maggioranza allargata al centro di 225 deputati. Hanno votato contro 116 deputati di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Movimento 5 stelle e Sinistra ecologia e libertà. Il nuovo testo allarga l’ambito della legittima difesa individuandola come la giustificata reazione a un’aggressione che avviene in casa, in negozio o in ufficio, se l’accesso avviene "con la violenza, la minaccia o l’inganno" e soprattutto se "in ore notturne". È proprio il passaggio sulla notte a non convincere il segretario democratico. Ma non piace nemmeno a Piero Grasso, il presidente pd del Senato cui ora la norma passerà per la seconda lettura: "Per fortuna c’è il Senato", ha detto Grasso, implicitamente criticando la riforma costituzionale renziana poi bocciata dal referendum istituzionale lo scorso 4 dicembre. La riforma non tocca il codice penale là dove prevede la necessità che vi sia "proporzione tra la difesa e l’offesa" (cioè: non si può sparare a un rapinatore disarmato) e che ci sia "attualità del pericolo" (cioé: non si può sparare alle spalle di un rapinatore che fugge). Chi si difende, insomma, potrà ancora trovarsi indagato per una gamma d’ipotesi di reato: dall’eccesso di difesa fino all’omicidio colposo e volontario. La nuova norma, però, punta a escludere la colpa di chi spara se la reazione è stata conseguenza di un "grave turbamento psichico" causato dall’aggressore. Nel caso in cui sia dichiarata la non punibilità di chi ha reagito a una minaccia, infine, è previsto che spese processuali e parcelle legali siano a carico dello Stato. Il centrodestra, in particolare, voleva una legge che evitasse a chi si sia difeso da un’aggressione di subire un processo, così come avviene in Francia, Spagna, Germania e in altri Paesi europei. Perché i legislatori italiani non studiano mai le norme penali dei Paesi nostri vicini? Avrebbero molto da imparare.

In Francia: non risponde penalmente (cioè non merita un processo) la persona che, "a fronte di un attacco ingiustificato contro di sé o un’altra persona, compie, nello stesso momento, un atto imposto dalla necessità della legittima difesa per sé stesso o un’altra persona, salvo che vi sia sproporzione tra i mezzi impiegati per la difesa e la gravità dell’attacco". Si presume che abbia agito in stato di legittima difesa chi ha agito: "1) per respingere, di notte, l’ingresso con effrazione, violenza o inganno in un luogo abitato; 2) per difendersi dagli autori di furto o saccheggio eseguiti con violenza".

In Germania: non viene mai punito chi eccede i limiti della difesa per turbamento, paura o panico. Il codice tedesco richiede solo che l’aggressione sia "presente e attuale" (gegenwärtig); ciò significa che dev’essere imminente, oppure che avvenga precisamente nel momento dell’atto di difesa. La norma non fa alcuna menzione della necessità di proporzionalità fra difesa e offesa.

In Spagna: è sempre esente da responsabilità penale "chi agisce in difesa della persona o di diritti propri o altrui", sempre che ricorrano questi due requisiti: 1) "l’aggressione ingiusta", ovverosia un attacco illecito che espone la persona a un pericolo o i suoi beni "a un pericolo grave e imminente di perdita o distruzione". In caso di difesa della casa o delle sue dipendenze, basta però "l’indebita introduzione" a configurare l’aggressione ingiusta. 2) La ragionevole necessità del mezzo impiegato per impedire o respingere l’aggressione ingiusta.

Scarcerazioni facili? I dati smentiscono gli allarmisti, scrive Damiano Aliprandi il 6 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Si fa confusione tra scarcerazioni, arresti domiciliari e misure alternative e le cifre fornite dal Dap lo confermano chiaramente. Dai dati forniti dal Dap risulta che in carcere, al 31 dicembre 2016, ci sono 12191 detenuti per furto (7917 italiani e 4274 stranieri), dei quali 9589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16765 (12344 italiani e 4421 stranieri), con 11920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, rimane in carcere. Da qualche giorno su alcuni quotidiani sta prendendo piede una tesi secondo la quale ci sarebbe un boom di scarcerazioni dovuto dallo “svuotacarceri”. In particolar modo, in un articolo di Repubblica, si fa riferimento ai condannati per rapine e furti nelle abitazioni che non rimangono in carcere quanto dovrebbero. Ancora una volta si invoca mancata certezza della pena. In realtà i fatti sono diversi. In questi anni, grazie anche al lavoro di giuristi, associazioni come Antigone e movimenti e partiti politici, con i Radicali in testa, ha preso sempre più piede l’idea che il carcere non è sempre la soluzione per punire e riabilitare chi sbaglia nella vita. Per questo motivo i legislatori hanno studiato delle leggi che puntano alle misure alternative, esecuzioni penali esterne, lavoro di pubblica utilità e messa alla prova. Il decreto “svuotacarceri”, diventato legge nel febbraio 2014 è stato un provvedimento che puntava a sfoltire la presenza nelle carceri, in virtù di alcune misure che prevedono sconti di pena, incremento dell’uso del braccialetto elettronico e innovazioni relative all’affidamento in prova ai servizi sociali. Uno solo dei provvedimenti adottati ha avuto caratteristica eccezionale: si tratta del provvedimento di “liberazione anticipata speciale” che per cinque anni ha aumentato la riduzione discrezionale – secondo parametri normativamente definiti – della sentenza residua per ogni semestre di comportamento detentivo di positiva adesione al programma trattamentale, portandola da 45 a 75 giorni. Il provvedimento è stato previsto solo per il quinquennio 2010 – 2015, in funzione chiaramente deflattiva. L’introduzione più rilevante – che prima riguardava solamente i detenuti minorenni – è l’istituto giuridico della sospensione del procedimento penale con messa alla prova per gli adulti. La sua introduzione nell’ambito penale degli adulti ha effetti sull’espansione del sistema penale esterno e rafforza di contenuto rieducativo l’esecuzione delle misure non detentive e di comunità richiedendo, alla persona alla quale viene concesso, di aderire a un progetto, che può includere lavori di pubblica utilità e azioni di riparazione del danno commesso o a favore della vittima. Se negli ultimi tre anni in ambito minorile le cifre dei casi di sospensione del procedimento penale con messa alla prova non hanno subito grandi variazioni oscillando di poche centinaia tra un anno e l’altro (al 31 dicembre 2016 si contavano 3.581 casi contro i 3.340 dell’anno precedente), la portata della diffusione dell’utilizzo del recente istituto giuridico diventa palese nell’ambito degli adulti: l’incremento dei casi di sospensione del procedimento è particolarmente importante, dai dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia si passa da 511 nel 2014 a 9598 al 31 marzo di quest’anno. Al 31 dicembre 2016, sempre secondo via Arenula, sono 12811 i detenuti in affidamento in prova, 756 in semilibertà e 9857 ai domiciliari. Come ha illustrato recentemente il garante nazionale Mauro Palma nella sua relazione annuale, l’introduzione di istituti giuridici diversi dalla reclusione «permette di superare l’impraticabilità di fatto dell’osservazione scientifica della persona all’interno del carcere e il rischio di produrre un mero “alloggiamento” di persone delle quali non è possibile prevedere un trattamento individualizzato perché spesso sconosciute agli operatori penitenziari». Diverse ricerche hanno dimostrato che attraverso un percorso diverso, soprattutto con l’esecuzione penale esterna, si ha un’importante riduzione della recidiva. Tradotto vuol dire più sicurezza per i cittadini. Andando sullo specifico, ovvero sulla percezione che chi fa rapine non finisce in galera, prendiamo in esame i dati generali, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre 2016 dai quali risulta che in carcere ci sono 12191 detenuti per furto (7917 italiani e 4274 stranieri), dei quali 9589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16765 (12344 italiani e 4421 stranieri), con 11920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, degli arrestati rimane in carcere. Il vero allarme è che si utilizza ancora troppo poco l’affidamento in prova visto che viene concessa quando c’è una situazione familiare e lavorativa idonea a supportare questa ultima fase dell’esecuzione della pena. Sono misure necessarie anche per contenere l’evidente trend di crescita del sovraffollamento carcerario. Anche l’ultimo dato del Dap, aggiornato al 31 marzo conferma la crescita del tasso di detenzione: 56.289 reclusi su – senza considerare le celle inagibili che si stimano intorno alle 5000 – una capienza massima di 50.177 posti. La certezza della pena, costituzionalmente riconosciuta, si confonde molto spesso con la certezza del carcere. Dal 1975 il nostro Ordinamento penitenziario prevede che il magistrato di Sorveglianza possa modificare la pena stabilita dal giudice della cognizione, se questo serve alla rieducazione come impone la Costituzione, e ciò soprattutto nella parte finale dell’espiazione, attraverso le misure alternative. Molto spesso l’informazione, dove ci specula gran parte della politica, fornisce percezioni errate. Le misure alternative costituiscono una modalità diversa di espiare la pena, non è assolutamente libertà piena.

Prendiamo in esame la semilibertà. Significa esattamente che la persona detenuta sta in carcere di notte e di giorno esce a lavorare. Non una libertà totale quindi, ma una semi- libertà e una persona ha un lavoro, a un certo punto della pena può esserle concesso di esercitarlo fuori dal carcere, ma sotto controllo, con grosse e giuste limitazioni, e se viola le prescrizioni può essergli revocata la misura; quindi egli è ancora completamente all’interno della struttura penitenziaria, salvo la possibilità di uscire per alcune ore e solo per lavorare. Questo è di uno dei maggiori fattori di rieducazione: attraverso il lavoro una persona comincia a risocializzare con gli altri, a guadagnare lecitamente, ad apprendere un mestiere.

Prendiamo in esame una seconda misura alternativa come la detenzione domiciliare. Si tratta di un beneficio per alcune tipologie di condannati, perché è meglio espiare la pena a casa che in carcere, però comunque ha una forte natura contenitiva e restrittiva, perché il condannato non può uscire per lavorare, non può uscire per portare i bambini a scuola: ha delle restrizioni che comunque gli consentono per il momento di rientrare nella famiglia dove poi dovrà rimanere quando la pena sarà terminata. Quindi un po’ alla volta si abitua al rientro nella società, dove prima o poi dovrà tornare. Ciò non vuol dire non punire ed evitare la certezza della pena, ma riabilitare ed evitare la recidiva per il loro bene e del Paese intero. Ecco perché le misure alternative al carcere dovrebbero essere concesse, senza allarmismi, con più facilità.

Mano morbida con i rom. I veri razzisti? I giudici. A Brescia liberati gli aguzzini di una tredicenne Come a Lecco i due che rapirono un’altra bimba, scrive Luca Fazzo, Sabato 03/06/2017, su "Il Giornale". Forse i veri razzisti sono quelli che li giustificano in nome della loro cultura: come se la cultura rom obbligasse a delinquere, non lasciasse alternative. Invece ci sono un sacco di rom onesti. Ma con quelli che onesti non sono, spesso la giustizia si mostra comprensiva. Il caso di questi giorni a Roma è eclatante: Serif Seferovic scippa una cinese che per inseguirlo finisce sotto un treno. Chiunque altro sarebbe stato incriminato anche per omicidio, «morte come conseguenza di un altro reato». Invece il pm romano incrimina Seferovic solo per scippo, lo scarcera e lo lascia così libero di andare tre mesi dopo a bruciare vive tre giovani nomadi in un accampamento rivale. Non è un caso isolato. Le cronache di questi anni sono piene, purtroppo, di storie in cui la magistratura usa più la carota che il bastone nei confronti dei crimini dei rom. Il caso più eclatante è forse quello di Brescia, dove il tribunale del Riesame scarcerò due rom che avevano costretto una bambina di tredici anni a fidanzarsi e a andare a letto con un uomo scelto dalla famiglia: la cerimonia, scrissero i giudici, era avvenuta «secondo la tradizione propria del Paese d'origine», dunque perché indignarsi? A Verona dovette intervenire il ministro della Giustizia per indagare sul giudice preliminare che aveva annullato gli arresti di quattro rom che mandavano i propri figli a rubare: anche lì, in nome della diversità di culture. In precedenza, il ministero si era mosso anche sul giudice di Lecco che aveva condannato assai blandamente - otto mesi di carcere - due nomadi che avevano cercato di rapire una bambina. È cultura, no? Come nella storiaccia romana di questi giorni, può accadere che il rom frettolosamente liberato commetta delitti ancora più gravi, che si sarebbero evitati tenendolo in carcere: è il caso dell’uccisione di Emanuele Adani, commerciante teramano, massacrato da tre rom ubriachi. Uno dei tre, si scopre poco dopo, era stato arrestato un anno prima con l’accusa di avere venduto quaranta chili di droga, ma era già libero. A Torino due anni fa desta scandalo la notizia di una ragazzina rom picchiata brutalmente perché rifiutava di adeguarsi alla cultura del clan e voleva addirittura trovarsi un lavoro: ma nel giro di pochi giorni lo liberano, come se la ragazza si fosse inventata tutto. A Milano il 9 giugno 2011 il signor Pietro Mazzara viene ucciso da una Bmw con tre nomadi e un africano che scappano dalia polizia dopo una spaccata in una gioielleria. Li catturano, uno dei nomadi viene condannato a otto anni ma dopo meno di un anno è fuori per decorrenza termini, pronto a derubare una vecchietta col trucco dello specchietto. A Torino un giudice assolve dall’accusa di violenza privata una madre rom che per impietosire i passanti teneva in pieno inverno la figlia neonata a un incrocio, la condanna solo per «impiego di minori nell’accattonaggio» e le concede le attenuanti generiche «in relazione alla cultura dell'appartenenza etnica». Sullo stesso tema, a Bergamo un giudice va ancora più in là, e assolve un padre rom che lasciava la figlia di sette anni da sola agli incroci: «i bambini stessi sono abituati a queste situazioni e conoscono perfettamente lo stile di vita nel quale sono destinati a crescere». A Bologna un meccanico di 72 anni, Quinto Orsi, scopre un giovane rom che sta rubando un auto davanti alla sua officina, quello lo schiaccia contro il muro e lo ammazza: condannato a sedici anni in primo grado, in appello gli dimezzano la pena E si potrebbe andare avanti, in una ridda di decisioni dove si affollano sociologismi da bar e indulgenze senza capo nè coda: e di cui alla fine le vere vittime sono anche i rom onesti, che si vedono riapparire nei loro campi i criminali dopo una manciata di giorni dall’arresto, pronti a riprendere a spadroneggiare; e pronti a insegnare ai ragazzini che in Italia rispettare la legge è da scemi.

Un arrestato per rapina su due fuori dalla cella dopo un anno: "Manca la certezza della pena". Boom di scarcerazioni dovuto allo svuotacarceri, ma anche alle lungaggini che fanno scadere i termini per la custodia cautelare, scrive Fabio Tonacci il 4 aprile 2017 su “La Repubblica”. Alessia e Christian sono due rapinatori. Il 13 settembre scorso hanno drogato Valentino mescolando benzodiazepine alla sua bibita, gli hanno rubato il portafogli e il bancomat, lo hanno mandato all'ospedale. La polizia li ha beccati grazie alla telecamera della banca da cui hanno prelevato con la carta. Christian ha confessato subito, quindi i due hanno patteggiato la pena per il reato dell'articolo 628 del codice penale. La rapina, appunto. Quando non è aggravata, sono previsti da tre a dieci anni di prigione. Ma Alessia F. e Christian C. non hanno mai fatto un giorno di carcere. Questa storia, piccola ma simbolica, arriva da Pescara e traduce in fatti quel sentimento sempre più diffuso in una parte dell'opinione pubblica che ritiene che in Italia non vi sia certezza della pena. Che ladri e rapinatori, cioè, non vengano perseguiti come si dovrebbe o evitino quasi sempre di pagare per i loro crimini. Ancora due giorni fa è stato il sindaco di Budrio Giulio Perini a rilanciare il tema, dopo l'omicidio del barista Davide Fabbri: "L'unica giustizia è quella della legge, occorre la certezza della pena". L'argomento è assai complesso, e investe tutto il sistema della giustizia. A Pescara, per dire, i due rapinatori Alessia e Christian hanno potuto beneficiare degli effetti del decreto Svuotacarceri, che impedisce la custodia cautelare dietro le sbarre (salvo per reati più gravi) se si prevede che sarà inflitta una pena non superiore ai tre anni alla fine del processo. Per Alessia, che ha fatto da esca e ha drogato la sua vittima, è bastato l'obbligo di dimora a Pescara per un anno. Poi con il patteggiamento, le attenuanti generiche, il peso della fedina penale fino ad allora pulita, la sospensione condizionale della pena, i due rapinatori hanno chiuso la questione senza scontare neanche un giorno. Un caso limite, certo. Quasi sempre infatti, i responsabili di rapine e furti nelle abitazioni che vengono presi in flagranza o a seguito di un'indagine, in carcere ci finiscono. Il problema è che poi non ci rimangono quanto dovrebbero. Alcuni dati ufficiali, e inediti, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria dimostrano infatti che il richiamo dei sindaci alla certezza della pena non è poi così campato in aria. Nel 2015 nel nostro Paese sono state arrestate 10.203 persone con l'accusa di rapina: la metà di queste è già uscita. Ad oggi 3.573 sono state scarcerate per proscioglimento o decorrenza dei termini, che significa che gli indagati erano sottoposti a custodia cautelare per evitare che scappassero o ritornassero a rapinare, ma poiché il processo tardava ad arrivare, il magistrato li ha rimessi in libertà. Altri 1.741 detenuti, invece, non sono più in cella perché sono stati concessi loro i domiciliari o l'affidamento ai servizi sociali. Sommando le due cifre, fa il 50 per cento. Uno su due. La tendenza nel 2016 si conferma: su 10.139 arrestati per rapina, sono ancora in prigione in 6.120. Gli altri sono stati scarcerati (2.196) o sono fuori perché ai domiciliari oppure affidati ai servizi sociali (1.823). Un buon 40 per cento. "Tanto lavoro per nulla, viene da dire", commenta Enzo Letizia, segretario dell'Associazione nazionale dei funzionari di polizia. "Sono dati sconcertanti. Oltretutto invece di aumentare i posti nelle nostre carceri, si sono scelte normative come lo Svuotacarceri che pur partendo da un principio corretto finiscono per andare in direzione opposta alla certezza della pena". Alcuni sociologi, come Marzo Barbagli, identificano l'origine del problema più "nella individuazione degli autori dei reati" che nelle disfunzioni dell'apparato giudiziario. Nelle grandi città, le forze di polizia soffrono sistematicamente della riduzione di organici e risorse e quindi tendono a non dare priorità investigativa a piccoli furti e a rapine di poco conto, realizzate senza armi da fuoco: così si spiegano le impietose statistiche dell'Istat (le ultimi disponibili sono relative al 2015) che fissano al 4,6 per cento la percentuale media dei furti di cui si è scoperto il responsabile, e al 25,5 per cento quella delle rapine. La stessa valutazione la fanno anche i pm, quando sono sommersi dai fascicoli di indagine. "Si dà la precedenza alle denunce per violenza sessuale, stalking e minacce", racconta un magistrato che si occupa di reati predatori. "Questo perché in questi casi c'è una vita a rischio".

Accusati di aver assaltato 35 bancomat tornano (ancora) liberi i giostrai. Arrestati a fine settembre, poi liberati a inizio ottobre e riarrestati a gennaio, da venerdì in libertà per un pasticcio giudiziario. Tornano in libertà i giostrai accusati di aver messo a segno 35 assalti ai bancomat tra Veneto e Friuli. Quelli arrestati a fine settembre liberati a inizio ottobre e riarrestati a gennaio. Da venerdì mattina sono tutti nuovamente liberi. Il motivo? Dopo il secondo arresto non sono stati interrogati dal gip Umberto Donà, lo stesso che ha firmato le due ordinanze d’arresto. E per questo i loro avvocati hanno chiesto la revoca della misura cautelare. Il gip non ha potuto che accordarla, anche alla luce della sentenza del tribunale del Riesame al quale, per lo stesso motivo, si erano appellati i legali di uno degli indagati. Insomma un vero e proprio pasticcio giudiziario iniziato con l’annullamento della prima ordinanza da parte del Riesame che aveva rilevato «vizi procedurali». Era seguita una nuova ordinanza, questa volta confermata dal Riesame. Ma qualcosa è andato storto, nuovamente. Gli indagati non sono stati sottoposti a interrogatorio di garanzia come invece avrebbero dovuto per poter contestare le nuove esigenze cautelari espresse dal gip Donà nel nuovo provvedimento. Da venerdì mattina quindi, sono di nuovo liberi i presunti capi Davide Massaroni Gabrieli, Gionata Floriani, Rodolfo Cavazza, Jody Garbin e i relativi presunti complici Donal Major, Robin Cavazza, Angelo e Alberto Garbin, Matteo Cavazza, Lorenzo Cassol, Moreno Pietrobon, Andrea Rossetto, Fracasso Rienzi, Charli Gabrielli, Claudio Major, Renato Pietrobon e Davide Scitorri (difesi dagli avvocati Stefano Pietrobon, Fabio Crea, Giuseppe Muzzupappa, Giovanni Gentilini, Carlo Augenti, Pietro Sartori, Andrea Frank e Massimo Bissi). Milvana Citter il 01 aprile 2017 su Corriere del Veneto.

Furti in appartamento, in Italia la pena è di 46 ore, di Francesco Vecchi. 1 aprile 2017 “Libero Quotidiano”. Presumo - posso solo presumere perché non ne ho mai organizzato uno - ma presumo che per mettere a segno un colpo in appartamento occorra un po' di organizzazione: sicuramente, come sanno tutti quelli che vanno in vacanza e si ritrovano la casa svaligiata, bisogna trascorrere qualche ora in appostamento, osservare, prendere nota, imparare a memoria i movimenti del palazzo. Insomma, almeno 2 giorni per organizzarsi, ci vorranno, no? Se è così, si può dire che in media per ogni furto in Italia si trascorrono più ore a progettarlo di quante non se ne trascorrano in carcere. Dietro le sbarre si scontano infatti solamente 46 ore e 48 minuti per ogni casa o negozio svuotati: nemmeno 2 giorni. È incredibile. Se ci pensate, è tremendo. Chiunque abbia subito una violazione di domicilio lo sa: in meno di 48 ore la vittima non riesce neanche a raccapezzarsi, tra lo choc di ritrovarsi l'appartamento sottosopra, la sensazione di sentirsi violentati e le estenuanti trafile per ritornare alla normalità. Bisogna sporgere denuncia, chiamare il fabbro, fare la conta dei danni subiti e superare la perdita di oggetti che saremmo stati disposti a pagare anche il doppio di quello che valgono pur di tenerceli, tanto ne siamo affezionati. Invece chi ha compiuto la rapina sa che mediamente in questo stesso lasso di tempo sarà già fuori di galera, già pronto a compierne un'altra. Il dato viene fuori incrociando le statistiche dell'Istat con quelle dell'Amministrazione Penitenziaria. Secondo l'Istat infatti, su oltre 200 mila proprietà svaligiate in Italia in un anno (si parla di un colpo ogni 2 minuti), solo 6000 responsabili vengono fermati. Il 97% dei furti resta impunito, il che significa che nel 97% dei casi, il ladro la fa franca e sconta 0 giorni in carcere. Dei 6000 che vengono fermati, mica tutti vengono condannati, nessuno si fa davvero i giorni di carcere previsti dal codice penale. Per un furto con scasso (difficile che un furto in appartamento avvenga senza almeno l'aggravante dello scasso) la legge prevede che i ladri vengano puniti con una condanna dai 3 ai 10 anni, ma la realtà è completamente diversa. Qualcuno magari sì, subisce effettivamente una condanna, ma la maggior parte resta in cella solo in attesa di giudizio, poi viene rilasciato, oppure rimesso fuori con la condizionale oppure ancora finisce agli arresti domiciliari o con un braccialetto elettronico. Secondo l'indagine fatta sui dati dell'Amministrazione Penitenziaria dalla rivista dei carcerati Ristretti Orizzonti, quelli che restano in cella più di 12 mesi sono pochissimi, sono solo lo 0,71% degli imputati. Quasi tutti, il 73% degli imputati, restano meno di 1 mese. È naturale che non tutti gli imputati siano colpevoli, ma viene comunque da chiedersi a che cosa serva scrivere leggi lontane mille miglia dalla realtà. Ma quali condanne dai 3 ai 10 anni? Il dato medio ci dice che quando si viene fermati per un furto, si resta in carcere circa 65 giorni. Insomma, se state leggendo e siete dei ladri, fatevi pure i vostri conti: ogni 33 rapine verrete presi 1 volta e quella volta che verrete presi vi farete 65 giorni in carcere. Non preoccupatevi dunque per la borsa da preparare: oltre a trapano e piede di porco vi basterà giusto un pigiama e uno spazzolino.

Record di furti in via Mecenate, arrestate la mamme rom e il quartiere fa festa, scrive Salvatore Garzillo, il 31 marzo 2017 “Libero Quotidiano". Si è concluso con un applauso alla polizia l'incubo quotidiano degli abitanti attorno via Piazzetta e via Ravenna, diventate l'area di sosta di un gruppo di rom che in pochi mesi hanno portato un aumento dei furti. Il motore immobile era un camper, ufficialmente la casa di Kostana H., 21enne italiana con due bambini, e Sulemaj N., bosniaca di 25 con 4 figli e ora incinta. Vivevano tutti assieme nel mezzo dallo scorso gennaio, da quando il tribunale ha concesso a entrambe i domiciliari per una serie di furti commessi anche mentre erano in gravidanza. I residenti protestavano da mesi, ormai il parchetto del quartiere era terra di nessuno, trasformato nel giardino personale di amici e i parenti delle due nomadi. Gli agenti del commissariato Mecenate hanno «liberato» gli abitanti dimostrando alla procura che le due donne non rispettavano in alcun modo le disposizioni del tribunale, anzi erano solite evadere dai domiciliari per commettere furti nei negozi. Mercoledì le volanti si sono presentate in via Piazzetta e hanno notificato alle nomadi la custodia cautelare in carcere. «Abbiamo disposto pure la rimozione del camper e la pulizia dell'area. La gente ci ha accolto con un applauso», ha spiegato il commissario capo di Mecenate Pasquale Pagano. «Devono scontare ancora circa un anno di reclusione ma è possibile che nel frattempo arrivino altre condanne per altri reati. In questi mesi hanno vissuto nel camper assieme ai sei figli, il più grande ha 7 anni». Tre minori di 3 anni hanno accompagnato le madri a San Vittore e resteranno con loro per tutto il resto della pena, gli altri sono stati affidati a una parente. «Ci avevano contattati anche le scuole dei bambini», ha continuato Pagano. «Dicendoci che non frequentavano le lezioni. Ora abbiamo avvertito i servizi sociali. Erano arrivate il 17 gennaio scorso, il camper era di loro proprietà e regolarmente assicurato. I cittadini ci hanno segnalato un notevole aumento dei reati e la loro impossibilità di accedere al parchetto della zona a causa della presenza di altri camper di rom attirati dalle due nomadi. Erano felicissimi di potersi riappropriare di quel pezzo di verde». Le due madri avevano scelto quel punto innanzitutto la per fontanella pubblica che gli permetteva di potersi lavare e di bere. «Finalmente il quartiere ha ritrovato la sua serenità», ha commentato l'assessore Carmela Rozza. «L' impegno degli agenti è stato continuo: negli ultimi mesi le pattuglie dei vigili si recavano due volte al giorno a controllare l'area e sono stati fatti 30 allontanamenti di camper». «Sono grata agli agenti del Commissariato Mecenate», ha commentato Silvia Sardone (FI). «Un blitz che può liberare definitivamente questa area dal degrado e dall' insicurezza. Speriamo che questa situazione sia per sempre solo un ricordo».

Igor e il mistero della fuga in Brasile. "Ignorata la pista del telefonino". Un anno fa poteva essere fermato tracciando un cellulare. Ora spunta una soffiata in Brasile, ma la fonte è stata arrestata, scrive Gabriele Bertocchi, Venerdì 28/07/2017, su "Il Giornale".  Gli omicidi, la fuga, le ricerche della polizia e infine la cartolina in cui saluta l'Italia: tutto questo ha come denominatore comune Igor "il russo", o se preferite Ezechiele Feher. L'uomo che ha ucciso Davide Fabbri, proprietario del bar Gallo di Riccardina di Budrio, e Valerio Verri, guardiapesca volontario nel "Delta del Po". Ora sulla vicenda, che per mesi ha tenuto in scacco la zona tra il Bolognese e il Ferrarese e che ha coinvolto anche i corpi speciali ad una caccia all'uomo mai vista, si aggiunge un nuovo mistero. Circa due mesi fa, a giugno, arriva alla Procura di Bologna una nota riservata dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia. Nel documento si legge che "una fonte confidenziale attendibile" avrebbe notizie di rilievo sulla presenza "del noto latitante serbo Norbert Feher, alias Igor Vaclavic il Russo" in un Paese del Sudamerica. Il pubblico ministero Marco Forte, incaricato del caso, chiede venga redatta una relazione dettagliata attraverso la squadra mobile bolognese. Nessun problema: la relazione arriva scarna di dettagli. Ma si legge, come racconta il Corriere della Sera, che un agente è stato inviato in Brasile (il paese sudamericano citato nella nota per la Sco) per indagare sulla soffiata. Tutto regolare se non fosse che quando il poliziotto arriva in terra carioca scopre che la fonte è stata arrestata. Nulla da fare, senza contatti l'indagine subisce ancora un rinvio e dall Procura nessuna nuova richiesta di indagine ulteriore. Un caso che con l'ultimo capitolo, quello della soffiata in Brasile, fa sorgere molte domande: come ha fatto a fuggire mentre le sue foto tappezzavo i territori tra Bologna e Ferrara? E come ha potuto raggiungere il Brasile? Una dei quesiti che rimangono in sospeso però è quello sul numero di telefono. Piccolo passo indietro: Igor a d un certo punto della sua carriera criminale litiga col capo della banda di cui faceva parte, Pajdek. "Il russo si stacca", la brigata di fuorilegge arruola un nuovo complice. Quest'ultimo durante un rapina nel2015 uccide un pensionato. I 3 componenti della banda finiscono in cella e raccontano come è morte l'uomo. Fanno il nome di Igor, lo incastrano. Negli atti degli inquirenti viene scritto anche il numero di di cellulare di quel tizio che per tutti era Igor Vaclavich, nato in Russia il 21/10/76. Un'ordinanza per le rapine del 2016 viene emessa nei confronti di due ex complici e di Igor. Ma questo è irreperibile. Non può essere catturato e messo in carcere. Nessuno lo cerca. Nessun tentativo di ricerca. Dopo gli omicidi di Davide Fabbri e Valerio Verri però la vita di quel cittadino serbo di Subotica, ex soldato accusato di stupro che si iscrive a Facebook con il nome di Ezechiele Feher si scopre che quel numero di cellulare dato dai complici è rimasto attivo a lungo dopo l’emissione dell’ordinanza. E anche qui sorge una domanda: perchè la pista del telefono non è stata seguita. E pensare che sarebbe bastato localizzarlo e tracciarlo per catturare Igor.

Lo Stato non garantisce la sicurezza e inibisce chi ci pensa da solo con la burocrazia e con le reprimende e le speculazioni.

Inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

I media da sempre ce la menano sul fatto che contro gli atti criminali, specie quelli bagatellari e comuni, bisogna denunciare. Poco si sa, invece, che la gente rinuncia a denunciare proprio quei reati più odiosi, per il fatto sottaciuto che, in un modo o in un altro, le notizie di reato non vanno avanti per insabbiamenti (denunce non registrate; archiviazioni artefatte, non comunicando la richiesta di archiviazione, quando preteso per presentare opposizione; indagini mai svolte o svolte male), o per il disincentivo (perchè è solo una perdita di tempo).

Allorquando qualcuno si incaponisce a credere che ci sia uno Stato di Diritto e questi ha bisogno di prove per perseguire i responsabili del reato e lo fa con la ripresa delle immagini. Ecco che allora lo Stato lo inibisce in tutti i modi.

Certo è che lo Stato, prima ti sbeffeggia. La Stabilità 2016 ha stanziato fondi (15 milioni di euro) per il Bonus Sicurezza, ovvero un credito d'imposta per quei privati che decidono di installare sistemi di videosorveglianza. I cittadini che si doteranno di impianti si vedranno riconoscere il 50 per cento della spesa sostenuta.

I fondi son limitati. Ergo: Chi prima arriva, prima alloggia...

Dopo lo sberleffo arriva l'inghippo. Tutti i modi per impedire la sicurezza fai da te.

1. Il tema della Privacy. Ce lo spiega Alessio Sgherza il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". Il tema videocamere pone per i cittadini un problema di privacy: il problema di chi viene ripreso e deve mantenere il suo diritto alla riservatezza e ai suoi dati personali; e il problema di chi decide di installare i sistemi di videosorveglianza perché ha il diritto a difendere le proprie pertinenze. Due diritti che si contrastano sulla carta e tra i quali è necessario trovare un equilibrio. Ecco quindi che sul tema - già dal 2004 - è intervenuto il Garante della Privacy, che ha emesso un provvedimento sulla videosorveglianza datato 2010 e in corso di aggiornamento. Il testo è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il 29 aprile 2010 e elenca tutte le misure che soggetti pubblici e privati devono mettere in pratica per installare questi sistemi. Per quanto riguarda i privati, è esplicitamente prevista la possibilità di installare telecamere "contro possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, prevenzione incendi" e in questi casi "si possono installare telecamere senza il consenso dei soggetti ripresi, ma sempre sulla base delle prescrizioni indicate dal Garante". Ma quali sono le prescrizioni del Garante? Eccole, in quattro punti:

I cittadini che transitano nelle aree sorvegliate devono essere informati con cartelli della presenza delle telecamere.

I cartelli devono essere resi visibili anche quando il sistema di videosorveglianza è attivo in orario notturno.

Le immagini registrate possono essere conservate per periodo limitato e fino ad un massimo di 24 ore.

Nel caso in cui i sistemi di videosorveglianza installati da soggetti pubblici e privati (esercizi commerciali, banche, aziende etc.) siano collegati alle forze di polizia è necessario apporre uno specifico cartello, sulla base del modello elaborato dal Garante.

2. Il tema sindacale. L'autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro. Ce lo spiega "La Gazzetta di Reggio" il 26 ottobre 2016. Un ispettore del lavoro, dopo un sopralluogo, gli ha fatto togliere tre telecamere che aveva da poco messo nel locale, appioppandogli anche una multa di circa 500 euro. Ma appena spento l’occhio elettronico, un ladro è entrato nel negozio è ha portato via l’incasso, pari ad altri 500 euro. È l’odissea raccontata da Federico Ferretti, insieme a Fabrizio Salsi uno dei soci della gelateria Cupido in via Emilia San Pietro 71. Dopo un punto vendita a Carpi e Correggio, a maggio la gelateria ha aperto un locale anche in città. E alla fine di luglio, i due soci avevano deciso di installare nel locale tre telecamere di videosorveglianza, due nell’area vendita e una nel laboratorio. «Eravamo in attesa dell’autorizzazione, dal momento che in estate molti uffici erano chiusi – racconta Ferretti – quando il 12 agosto abbiamo ricevuto la visita di un ispettore del lavoro, che ci ha contestato il fatto che le telecamere riprendessero il bancone, dicendo che dovevano essere indirizzate solo all’ingresso. Sosteneva che usavamo le telecamere per controllare i nostri due dipendenti, che invece avevano firmato la liberatoria. Noi le avevamo collocate così solo per ragioni di sicurezza». Dal sopralluogo è scattato un verbale, recapitato ai soci a metà settembre, in cui si dava tempo trenta giorni per rimuovere la videosorveglianza. «Sabato – aggiunge Ferretti – abbiamo rimosso l’impianto. L’ispettore ci ha anche chiesto la certificazione dell’azienda che le ha tolte, con un eccesso di rigidezza». Ma, due giorni dopo la rimozione, nella gelateria è avvenuto un furto: «Lunedì sera, intorno alle 21, c’erano il mio socio e un dipendente. Il socio era nel laboratorio. E ha chiamato un secondo il dipendente per dargli del gelato pronto. Un secondo. Ma qualcuno è entrato nel negozio e velocissimo ha rubato incasso e fondo cassa, in totale quasi 500 euro. Abbiamo subito chiamato i carabinieri. La prima cosa che ci hanno chiesto: “Avete telecamere?”. Gli abbiamo dovuto spiegare che ce le avevano appena fatte togliere». Per i titolari, oltre al danno la beffa: «Abbiamo ripresentato domanda per una nuova installazione, ma dall’ispettorato ce l’hanno bocciata. Siamo reggiani, abbiamo deciso di investire qui, dove i furti sono all’ordine del giorno. Non è possibile trovarsi davanti a queste cose. Le telecamere sono presenti anche nelle grandi catene e nessuno dice niente». 

3. Il tema Amministrativo-burocratico. Per le telecamere occorre la Scia, scrive Maurizio Caprino su "Il Sole 24ore" del 9 marzo 2017. Le telecamere di videosorveglianza sono sostanzialmente fuorilegge, se sono anche del Comune. In questo caso, vanno trattate come impianti privati e quindi necessitano di un’autorizzazione, che in molti casi manca. Lo stesso vale per altri impianti di trasmissione, tra cui quelli per le radio di servizio dei vigili urbani. Lo afferma chiaramente la Prefettura di Pordenone, nella nota n. 6104, emanata il 6 marzo dopo una segnalazione del ministero dello Sviluppo economico. E quella della provincia friulana è una realtà...tutta italiana.

4. Il tema fiscale-speculativo. Lo Stato stanga la sicurezza "fai da te". Multati i Comuni che installano telecamere. Sanzioni dal prefetto per i sindaci che si dotano di sistemi di sorveglianza, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 10/03/2017, su "Il Giornale". Nell'Italia dei campanili, quella più alta è sempre la torre del paradosso. Solo da noi, infatti, possiamo assistere al poco comprensibile «spettacolo» di una prefettura che commina multe e sanzioni ai Comuni che per difendere la tranquillità dei propri cittadini decide di investire le scarse risorse a disposizione per installare sistemi di videosorveglianza. Con una nota del 16 febbraio scorso, infatti, il Ministero dello Sviluppo economico, tramite il suo Ispettorato territoriale di Pordenone, ha fatto sapere alla prefettura del capoluogo friulano «di aver rilevato presso le Amministrazioni comunali ripetute problematiche conseguenti la carenza dei necessari dati informativi relativi agli obblighi di legge previsti per l'installazione ed esercizio di reti e servizi di comunicazione elettronica». La citazione è presa da una circolare che gli uffici della prefettura di Pordenone hanno inviato il 6 marzo a tutte le amministrazioni comunali della provincia. Lo scopo è quello di chiarire che a disciplinare i sistemi di videosorveglianza ci pensa il Decreto legislativo 259 dell'agosto del 2003 (ovvero il cosiddetto Codice delle Comunicazioni elettroniche). Fatto questo che fa ricadere le stesse telecamere a circuito chiuso nei sistemi di informazione. E quindi chi li installa, che si tratti di un privato o di un'amministrazione locale poco importa, è tenuto a corrispondere un canone al Mise (il già citato Ministero per lo sviluppo economico). Da qui la facile deduzione che senza quel canone si rischia un'ammenda. D'altronde, spiega Stefano Manzelli direttore della rivista on line poliziamunicipale.it, «molti di quegli amministratori non immaginavano nemmeno che un sistema di telecamere a circuito chiuso fosse paragonato a un sistema aperto di trasmissioni radio». La violazione di queste norme, insomma, sarebbe avvenuta in buonafede. Resta però il fatto che senza quel canone scatta la sanzione e si rende più faticosa la gestione del territorio di competenza. E questo contraddice - fa notare lo stesso Manzelli - lo stesso spirito del decreto legge 14 del 2017 che aumenta lo spettro delle competenze in materia di sicurezza. «Ora i sindaci hanno ricevuto ulteriori poteri di ordinanza su questioni di ordine pubblico e sicurezza, per migliorare il controllo e la qualità della vita delle aree più a rischio. Eppure, se non pagano il canone di questi sistemi di videosorveglianza, rischiano le sanzioni». Un sistema per evitare il peggio sarebbe quello di affidare questi sistemi di videosorveglianza direttamente allo Stato, attraverso le forze dell'ordine. Gli unici soggetti, infatti, esentati dal pagare il canone. L'iter, però è lungo e farraginoso, spiega Manzelli, e non sempre le amministrazioni locali hanno la possibilità di ricorrere a questo escamotage. Resta il fatto che se un Comune si pone anche solo l'obiettivo di regolare l'accesso ad aree a traffico limitato per le auto, deve sottostare alle regole imposte dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche con tanto di canoni da sborsare.

L'INSICUREZZA PUBBLICA ED IL PARTITO DEI CENTRI SOCIALI.

Quei democratici che vogliono cancellare Salvini. Dai coniugi de Magistris a Emiliano, la sinistra arriva pure a giustificare i disordini contro la Lega, scrive Laura Cesaretti, Martedì 14/03/2017 su "Il Giornale". La sommossa che ha messo a ferro e fuoco Napoli? «È stata una manifestazione importante. Assolutamente pacifica. Gente tranquilla. Aria di festa». La libertà di espressione sancita dalla Costituzione? «Ok, ma con dei limiti». Ora, lungi da noi volere infierire su una signora che già deve avere i suoi bei problemi, essendo coniugata con Giggino 'a Manetta sindaco di Napoli. Ma le dichiarazioni della moglie di de Magistris, che sabato ha sfilato giuliva col corteo dei neo-lazzaroni che si son lasciati alle spalle le macerie di Fuorigrotta, sono esemplari del terrificante cortocircuito mentale di chi, per opporsi al comizio di un esponente politico che lancia proclami incendiari, dà direttamente fuoco alla città. Perché a decidere chi ha diritto di manifestare le proprie idee devono essere loro. Sennò, botte. La sommossa di piazza contro il leader della Lega sceso ad arringare le folle in quel di Napoli, ricorda il filosofo partenopeo Biagio De Giovanni, è stata aizzata dallo stesso sindaco: «Ignaro di ogni vincolo istituzionale e di ogni limite che il suo ruolo dovrebbe imporgli, non ha esitato a stimolare, con parola tonante, la lotta contro il leader di un partito che siede in Parlamento, venuto a Napoli a manifestare le sue idee». Ora che la manifestazione ha avuto il proprio esito catastrofico, che il suo promotore istituzionale ha fatto una figuraccia internazionale, ulteriormente umiliando la propria città, e che le forze dell'ordine chiedono al sindaco di «assumersi le sue responsabilità», visto che «ha fomentato la piazza», de Magistris e signora provano a costruirsi un alibi. Così inventano oscuri complotti di forze misteriose contro la loro «festosa» e «pacifica» manifestazione anti-Salvini. Arrivando ad insinuare che siano state proprio le forze dell'ordine a pilotare i violenti. Il sindaco (che nei centri sociali e negli ultras da curva ha il suo serbatoio di consensi, e se lo deve coccolare) accusa: «Qualcuno voleva gli scontri», ed evoca confusamente «poteri con le mani sporche di sangue». La degna consorte ci spiega che i cattivi «potevano essere fermati prima che si infiltrassero dall'esterno», e si chiede: «Perché non è stato fatto?». A dare manforte alla simpatica coppia non poteva mancare il collega ex pm Michele Emiliano che - spinto dall'urgente bisogno di farsi procurare da de Magistris un po' di voti per non sfigurare troppo alle primarie - liscia il pelo alla piazza di Fuorigrotta: «Napoli è una bellissima città che non va irrisa né provocata». Quel che è accaduto, spiega, era «assolutamente prevedibile», e la colpa è tutta di Salvini: «La sua tecnica è vergognosa», le bombe carta per farlo tacere invece no. Una cosa però è certa: se quella di Salvini (che sfida de Magistris a un confronto pubblico ovunque «meno che in un centro sociale») era una provocazione, Giggino e consorte ci sono caduti come due pere cotte. E la stessa signora de Magistris lo ammette candidamente: «In definitiva si è fatto il gioco di Salvini, gli scontri han giovato solo a lui». C'è arrivata persino lei.

Il partito dei centri sociali tra affari, trame e coperture. I sindaci Pd e M5S li coccolano, legittimando le violenze: cedono palazzi, pagano bollette e tollerano l'illegalità, scrive Luca Fazzo, Martedì 14/03/2017, su "Il Giornale". Non sono solo i giudici a essere comprensivi verso i «duri» dei centri sociali. Se nelle aule di tribunale gli antagonisti vengono quasi sempre condannati a pene abbastanza lievi da evitare il carcere, anche se hanno messo a soqquadro una città e aggredito le forze dell'ordine, altrettanta disponibilità incontrano spesso da parte delle amministrazioni locali che scendono a patti con loro. Affitti simbolici, bollette pagate, occupazioni tollerate, convenzioni, bandi su misura. È lungo l'elenco delle cortesie che sindaci di molte città riservano ai centri dell'ultrasinistra, anche quando sono documentati i loro rapporti con violenze e altre illegalità. Un rapporto in cui i sindaci impiegano risorse pubbliche per garantirsi due contropartite importanti: la pace sociale o l'appoggio elettorale. A volte tutti e due. A scendere a patti con gli estremisti sono quasi sempre sindaci di giunte di sinistra. Ma a Torino anche la giunta grillina di Chiara Appendino sta continuando e rafforzando la liaison avviata dai sindaci Pd che l'hanno preceduta: Radio Black Out, megafono dell'autonomia e dei No Tav, è ospitata a canone dimezzato in uno stabile comunale, 569 euro di affitto. E i grillini vanno oltre: hanno candidato nelle loro liste una esponente del centro sociale «Gabrio», Maura Paoli, che si è spesa di recente in difesa dei coltivatori di marijuana scoperti dalla polizia all'interno del centro.

Da nord a sud, i casi di feeling sono numerosi. C'è chi, come il sindaco napoletano Luigi de Magistris, ostenta e rivendica (già da prima della baraonda di sabato scorso) i suoi buoni rapporti con «okkupanti» e rivoluzionari, che si sono impadroniti di una sfilza di stabili comunali con il silenzio-assenso della giunta: compreso l'ex asilio Filangieri, per il quale il Comune ha speso sette milioni per ristrutturare. De Magistris ha fatto dichiarare «bene comune» gli stabili occupati: in cambio i caporioni dei centri sociali nel settembre 2016 scortarono il sindaco a Roma a protestare contro il risanamento di Bagnoli. Continua a tubare con gli ultras la «rossa» Bologna: i centri sociali Tpo, Xm24, Lazzaretto e Vag61 sono tutti legati da convenzioni al Comune; dopo l'ira di Dio scatenata nelle strade il 18 ottobre, il sindaco Virginio Merola ha annunciato lo sfratto di uno di loro, l'Xm24, che però ha già fatto sapere che non se ne andrà: e intanto domenica scorsa ha fatto impazzire gli abitanti del quartiere della Bolognina con un rave durato fino all'alba. La strada era stata segnata d'altronde dal filosofo Massimo Cacciari quando era sindaco di Venezia, e scese a patti con gli sfasciavetrine del centro sociale «Rivolta». Dove non ci sono convenzioni firmate, i Comuni soccorrono gli ultras pagando le loro bollette con i soldi dei cittadini o permettendo che non siano pagate. A Treviso il sindaco Pd paga le bollette del centro «Django», a Torino la Appendino paga acqua e luce al «Gabrio; a Roma la grillina Raggi non fa staccare la luce a case occupate e centri sociali che hanno accumulato - secondo un'inchiesta del Tempo - un arretrato di 12,6 milioni; a Caserta il sindaco renziano Carlo Marino ha fatto riattaccare la luce (non a spese sue) al centro sociale «Canapificio». E via di questo passo.

Si dirà: piccole agevolazioni. Ma che di fatto legittimano comportamenti fuorilegge, e non solo quando gli ultras scatenano violenze che devastano le città: ma tutti i giorni, nel commercio illegale di cibi, bevande, droghe leggere, che avviene all'interno di centri diventati aziende a tutti gli effetti (tranne a quelli fiscali). E qui il caso più vistoso è quello di Milano, dove di sgomberare il Leoncavallo non si parla più: il patto di scambio (a spese del pubblico demanio) offerto agli autonomi dal sindaco Pisapia è ufficialmente ancora sul tavolo, il sindaco Sala non dà segni di voler affrontare la faccenda; anzi permette che uno stabile di proprietà comunale, nell'ex mercato di viale Molise, venga occupato a costo zero dal centro sociale «Macao». E gli paga pure le utenze.

L'ITALIA E L'ILLEGALITA' DI MASSA.

Il mistero di Alatri, scrive Massimo Gramellini su “Il Corriere della Sera" Martedì 28 marzo 2017. Qualunque essere pensante - anche pensante in dosi morigerate come il sottoscritto - rimane sconvolto dalla manifesta gratuità del massacro di Alatri. La spiegazione ufficiale - il branco si accanisce a botte e sprangate su un ragazzo di vent’anni per punirlo di avere difeso la fidanzata dagli approcci sgangherati di un ubriaco - non soddisfa i nostri meccanismi cerebrali addestrati alla legge di causa ed effetto. Il male, persino quando è banale, non è mai gratuito. Dietro ogni atto immondo ci deve essere una motivazione, sia pure immonda. Un pregiudizio religioso, ideologico, razziale. Una questione di corna arretrate e mai smaltite. L’appartenenza a una tribù. Se ad Alatri un manipolo di ultrà avesse teso un agguato a un tifoso avversario, il nostro cuore sarebbe sì in subbuglio, ma almeno il cervello troverebbe una ragione. Sproporzionata e ingiustificabile, sbagliata, ma riconoscibile. Qui invece la ragione non si trova e bisogna accettare che in una società umana esistano sacche di male refrattarie a qualsiasi spiegazione. Persone che infieriscono sul prossimo senza altro movente che il proprio malessere. In attesa di trovare una chiave di accesso ai loro sentimenti, ammesso che ne abbiano, si può lavorare soltanto sull’unica emozione che conoscono. La paura. A renderle così orgogliose del loro niente è una spavalda certezza di impunità: in famiglia, a scuola, nei tribunali. La sicurezza, e dunque il timore, di una pena esemplare sembra essere al momento il solo linguaggio che sono in grado di capire.

Emanuele Morganti, il 20enne ucciso dal branco: i particolari horror della sua morte, scrive il 27 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "È stata la via Crucis di Emanuele...hanno anche sputato sul corpo a terra..."Prende fiato e tempo Pietro Morganti, lo zio di Emanuele, il 20enne massacrato di botte, anche con un corpo contundente (pare fosse un paletto in ferro e/o una grossa chiave inglese), all’esterno di una discoteca di Alatri nella notte tra venerdì e sabato e poi morto in ospedale a Roma. Misura le parole ma poi le tira fuori, e parla di esecuzione. "I testimoni ci hanno detto che lo picchiavano ovunque, lui ha provato ad andare via con la fidanzata, poi è caduto e l’hanno finito...". Pietro è finora l’unico della famiglia che parli, cerca di fare barriera e di far sì che il padre e la madre di Emanuele, come pure sorella e fratello della vittima, possano stare al riparo dall’assedio di tv, dalle domande. La casa di Emanuele è a qualche centinaia di metri, in via del Convento. L’accesso è interdetto, genitori, sorella e fratello sono chiusi dentro, avvolti in un incubo, in un dolore che neppure Pietro riesce a descrivere nella sua interezza. C’è un medico in quella casa: Lucia, la mamma di Emanuele, è malata, deve affrontare cicli di cure chemioterapiche. Il padre lavora al Pantheon, a Roma, e di recente aveva avuto in dono, di seconda o terza mano, un’auto. Quella con cui Emanuele venerdì aveva preso la fidanzata Ketty ed era andato nel centro storico di Alatri, destinazione la discoteca Mirò. Poi è finita in massacro, vittima del branco. Lo zio della vittima riferisce al cronista quello che chi c’era gli ha detto a sua volta, e cioè "l’hanno pestato a sangue, a morte. Gli hanno sputato, l’hanno calpestato. Una ragazza che era nel gruppo ha detto “questo è quello che ti meriti”. Ma perchè, per cosa? Non c’era mai stato nulla prima". Un giovane che ha provato a prendere le difese di Emanuele è stato a sua volta picchiato ed è finito in ospedale: i carabinieri hanno raccolto anche la sua testimonianza. Come quelle di altri e come quella di Ketty. "Chi arrivava, menava...è orribile quanto avvenuto", aggiunge Pietro Morganti. Che parla del ruolo svolto nella brutale vicenda in particolare da due giovani italiani e di un uomo che a sua volta impediva che qualcuno si lanciasse in soccorso di Emanuele. C’è anche la zia della vittima che dice qualcosa, ed è più netta del marito: "Devono pagare, devono soffrire come ha sofferto lui, devono sentire addosso che significa il dolore, minuto dopo minuto. Hanno avuto il coraggio di dire che era inciampato da solo in un sampietrino...". La certezza della pena è quello che viene invocata, "questa cosa ha straziato tutti - dice la donna - è inconcepibile». I genitori della vittima volevano donare gli organi di Emanuele, quello che si poteva ancora salvare per dare vita ad altri. Hanno subito detto sì quando i medici glielo hanno chiesto staccando i macchinari. Ma non è possibile farlo. Esigenze istruttorie lo impediscono. Resta comunque il forte significato di quel sì detto nonostante l’orrore per un figlio perso, ucciso così.

“Sto vivendo un incubo. Vorrei risvegliarmi e trovarlo al mio fianco”. La fidanzata del ragazzo ucciso fuori da un locale ad Alatri: «Me l’hanno strappato dalle mani e non ho potuto fare nulla». «È la foto che ti piaceva più di tutte amore mio», ha scritto ieri Ketty su Facebook postando questa immagine, scrive Grazia Longo il 28/03/2017 su “La Stampa”. Non mangia, non dorme, non vuole accettare la realtà. Ketty Lisi, vent’anni ad agosto, da quasi un anno era fidanzata con Emanuele Morganti. Da sabato mattina non esce di casa, una villetta a Fumone, a pochi chilometri da Tecchiena, la frazione di Alatri dove abitava «il mio unico e immenso amore». Protetta dalla presenza affettuosa del papà Giulio e della mamma Simonetta, ha perso quasi la voce per il troppo dolore.  

Che cosa ricordi di quei terribili momenti?  

«Tutto e niente. Tutto, perché ho ancora davanti agli occhi quei maledetti che lo picchiavano e gli davano addosso nonostante io e gli amici di Emanuele provassimo a difenderlo. Niente, perché è durato tutto pochissimi minuti. Ma è stato un inferno vero e proprio». 

In che modo hai provato ad intervenire?  

«Quando ci hanno sbattuto fuori dal Mirò club e quelli hanno incominciato a picchiare Emanuele, io ho cercato di tirarlo via, ma quelli erano troppo forti. Me l’hanno strappato dalle mani e mi hanno scansato via. Non riesco a credere che fossero così feroci, sembravano delle bestie». 

Ma perché tanta ferocia? Perché si sono accaniti con tanta brutalità contro Emanuele?  

«Non riesco ancora a capirlo. Una follia pura. Stavamo bevendo una cosa al bar, al primo piano del circolo. A un certo punto un ragazzo, credo un albanese che era ubriaco ha iniziato a spintonare Emanuele, a darci fastidio. Vicino a lui c’era anche un italiano, c’era la musica alta, molto alta, non si capiva neppure bene quello che dicevano. A un certo punto Emanuele ha replicato “E adesso basta” e lì è incominciato il litigio». 

A quel punto i buttafuori, invece di sedare la lite, vi hanno cacciato?  

«Ci hanno buttato fuori e sulla piazza sono arrivati in tantissimi. Sembravano più di venti delle furie. È stato terribile. M’hanno scavato un buco dentro, non ce la faccio, è un peso troppo grande da sopportare». 

Tu ed Emanuele vi siete conosciuti un anno fa, quando vi siete fidanzati?  

«No, ci conoscevamo già da molto tempo prima. Abbiamo frequentato la stessa scuola, l’Istituto chimico e biologico di Alatri. Ci siamo diplomati lì e ora lavoriamo, anzi devo dire lavoravamo, nella stessa fabbrica di materiale elettrico». 

Vi dipingono tutti come una coppia molto unita, oltre che molto bella.  

«Fatico a pensarlo al passato. Vorrei tanto che fosse solo un incubo, vorrei svegliarmi di colpo e scoprire che non è successo niente di così terribile e che Emanuele fosse ancora al mio fianco. Bello e sorridente come il sole. Gentile, generoso e affettuoso con tutti. Anche con la mia famiglia. Mia madre spesso ci prestava l’auto, altre volte lo faceva Melissa, sorella di Emanuele. Venerdì sera, invece, per la prima volta siamo usciti con la macchina di suo padre. Era così contento. E invece non è più tornato a casa. Sono disperata anche per loro, che stanno soffrendo terribilmente».

Emanuele Morganti, dietro all'omicidio di Alatri l'ipotesi di una faida locale, scrive Daniele Dell'Orco il 28 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Dietro alla morte di Emanuele Morganti, il ragazzo pestato a morte e martoriato nel Frusinate, potrebbe esserci una faida locale. È questo il sospetto degli inquirenti. Dietro all'ipotesi, il fatto che tra i giovani del centro storico e quelli della frazione di Emanuele c'è sempre stata una forte rivalità, che potrebbe aver spinto, venerdì notte, fino a un brutale omicidio. Nel corso della notte tra lunedì e martedì due persone sono state poste sotto fermo: i due sono stati fermati dai carabinieri che indagano sul caso. L'inchiesta, dunque, sarebbe a una svolta. Nell'articolo che segue, vi diamo conto delle fazioni che si contrappongono sul territorio dove è avvenuto l'orrore. Se l'Italia intera la si considera di norma variegata e piena di singole identità, allora la Ciociaria, intesa come microarea, rappresenta l'Olimpo di tutti i campanilismi. È nelle diverse anime locali che risiedono la ricchezza culturale della regione ma pure le parecchie divisioni: quella tra il Nord e il Sud, quella tra i singoli comuni e, nei casi più eclatanti, quella tra contrade. Spostandosi di appena tre o quattro chilometri è persino possibile ascoltare dialetti differenti. Il Comune di Alatri non fa eccezione. Cittadina di 30mila abitanti nel Nord della provincia, è formata da diverse contrade che si sviluppano intorno al centro storico. In una di queste frazioni, Tecchiena, la più popolosa in assoluto (4mila abitanti), risiedeva Emanuele Morganti. Dapprima considerato un mero dettaglio a corredo della ricostruzione dell'omicidio consumatosi venerdì notte, acquisisce via via più importanza man mano che il quadro va schiarendosi. L'ostracismo che intercorre tra quanti risiedono nel territorio comunale posto al di fuori delle mura ciclopiche, che delimitano i vicoli del centro storico, e quanti invece risiedono "in città", ha radici secolari e riguarda in qualche modo da vicino anche le persone coinvolte. Ad Alatri, un fatto ben noto alle forze dell'ordine locali da almeno due lustri, la microcriminalità albanese e quella locale compongono un legame parecchio stretto, da qui l'equivoco secondo cui a comporre il branco fossero per la maggior parte balcanici. Un mix abbastanza esplosivo che rende gli esponenti di quella che di fatto sarebbe una famiglia-gang anche "colpevole" di aver colpito un abitante di Tecchiena, frazione molto semplice e tranquilla ma allo stesso tempo agguerrita e solidale con gli altri concittadini. Il motivo per cui Emanuele si trovasse "fuori-zona" a trascorrere la serata al Mirò Music Club risiede nel fatto che i punti di ritrovo cittadini sono quasi tutti situati nel centro storico. Questo in particolare, è un circolo Arci che si trova nella seconda piazza più importante del Comune, Piazza Regina Margherita. Il locale è l'unico che resta aperto fino a tarda notte nel week-end, ed è quindi meta obbligata di quanti dopo l'una vogliono proseguire la serata. Prima dell'apertura dell'attuale circolo si sono susseguite nello stesso stabile altre attività simili, ma che non hanno riscosso molta fortuna anche a causa della clientela non sempre raccomandabile. Sarà dovuto anche alla conformazione geografica della piazza stessa, forse, da sempre ritrovo di bulli per via della sua posizione isolata e della scarsa illuminazione. Di fronte al portone d' ingresso del club, infatti, ci sono gli uffici del Giudice di Pace cittadino e una piccola sala mostre ma, soprattutto, l'ex ospedale di Alatri, diroccato da trent' anni e impossibile da riqualificare a causa dell'amianto. Nell' oscurità, spesso, è più facile girarsi dall' altra parte, ma i cittadini di Alatri sono tutt'altro che omertosi. Ieri mattina sono persino circolati sui social nomi e cognomi dei protagonisti del branco, frutto delle diverse testimonianze rilasciate alle forze dell'ordine da chi, fuori dal portone di quel club, c' è sempre. Grazie a quelle voci è stato possibile ricostruire in tempi brevi gran parte dell'accaduto. Perché nessuno, a parte un amico di Emanuele, sia intervenuto lo si può attribuire solo al terrore. Ma l'istinto alla fuga o alla lotta è inscritto nel codice genetico, e non c' entra con l'omertà. Daniele Dell'Orco

Campanilismi e razzismi. Illegalità senza fine. Salvini allarme rosso: le parole di Matteo che hanno fatto arrabbiare i leghisti, scrive il 27 marzo 2017 "Libero Quotidiano". E' un Matteo Salvini inedito, quasi aperto all'immigrato, all'accoglienza, quello che viene fuori da Il Giornale all'indomani della sua visita nel profondo Sud, isola di Lampedusa, dove ha abbracciato la sindaca Giusi Nicolini. "Permettiamo a chi ha diritto di partire da zone di guerra di farlo in modo sacrosanto e tranquillo. E agli altri garantiamo un futuro tranquillo nei loro Paesi - dice - Mai stato contrario a quest' idea", dice Salvini. Veramente noi ci ricordiamo il contrario ma tant'è. Quelli che non perdonano sono i leghisti duri e puri, quelli dell'orgoglio nordico e italico. Non gradiscono la visita del leader della Lega al Sud con tanto di foto coi cannoli siciliani. Salvini se ne deve essere accorto e poco dopo è corso su Facebook a pubblicare una foto di piatti rigorosamente settentrionali. Con uno scatto ha mostrato la foto del piatto per i suoi bimbi, fontina valdostana, grana padano, prosciutto cotto emiliano e, se proprio vogliono, carote siciliane. Però le critiche l'hanno travolto lo stesso. "Prossima tappa Africa alla conquista di consensi", "per prendere qualche voto al Sud il felpino ne ha persi molti al Nord avendo crisi di rigetto sulla Padania", ma se nel 2013 dicevi "Il governo aiuterà i giovani del Mezzogiorno. Bene, ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno. Che vadano affanculo". Insomma la svolta sudista, per ora è un boomerang. 

Poi c’è l’apologia delle manifestazioni non autorizzate. Russia, Salvini: bene polizia, manifestazione non autorizzata "Arresto Navalny ennesima montatura mediatica", scrive il 27 marzo 2017 "L'askanews". L’arresto di Alexei Navalny “è l’ennesima montatura mediatica”, “mi sembra esagerato creare novelli eroi”. Lo afferma il segretario della Lega, Matteo Salvini, in un’intervista alla Stampa a proposito delle proteste anti-Putin in Russia. “Ho fatto una ricerca, e mi sono informato sul personaggio in questione. Un blogger anti-Putin, venduto come leader dell’opposizione. Secondo le stime – spiega – avrebbe solo il 3%. Insomma, è uno dei tanti che si oppone a Putin. È come se in Italia Nicola Fratoianni fosse considerato l’anti Renzi”. “Io sono per la libertà di pensiero e sono sempre per le manifestazioni autorizzate – sottolinea Salvini -. Ma non mi sembra che questa sia stata autorizzata”.

Quando Obama arrestava manifestanti, scrive il 27 marzo 2017 Roberto Vivaldelli su "Gli occhi della guerra” Ha suscitato grande scalpore e un vero e proprio caso mediatico e diplomatico l’arresto dell’oppositore russo Aleksej Navalny durante una manifestazione non autorizzata svoltasi ieri a Mosca. Nella Capitale era in corso una manifestazione indetta dal blogger e da altri 500 sostenitori contro la corruzione che dilaga nel Paese. Proteste analoghe si sono svolte in molte altre città russe. Nel mirino delle proteste, in particolare, il primo ministro Dmitri Medvedev. Secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa Tass, “più di 500 persone” sono state fermate durante la manifestazione non autorizzata organizzata da Aleksej Navalny. “Molte persone si trovano sugli autobus che si stanno dirigendo verso le stazioni di polizia”, ha riferito ieri l’agenzia secondo cui la maggior parte “verrà liberata” dopo la contestazione “di violazione amministrativa”.

Usa e Ue contro la Russia. Sdegno da parte degli Usa e della comunità internazionale: gli Usa, secondo quanto riporta l’Ansa, “condannano fermamente gli arresti di centinaia di manifestanti pacifici in Russia”, tra cui il blogger anti Putin Aleksej Navalny, e “chiedono al governo russo di rimetterli subito in libertà”. Lo afferma in una nota Mark Toner, portavoce del dipartimento di stato Usa, sostenendo che “fermare dei manifestanti pacifici, degli osservatori dei diritti dell’uomo e dei giornalisti è un affronto ai valori democratici fondamentali”.

Due pesi e due misure. La vicenda è abbastanza curiosa, se pensiamo che in tutto il mondo occidentale e nelle moderne democrazie liberali, qualsiasi manifestazione non autorizzata viene bloccata di norma dalle forze dell’ordine. L’11 aprile 2016, negli Usa, 400 manifestanti pacifici che protestavano contro la corruzione vennero arrestati davanti alla Casa Bianca con la medesima accusa: “manifestazione illegale”. La protesta era organizzata da Democracy Spring, un’importante associazione che si batte contro i costi della politica e che chiedeva “al Congresso di agire subito per far cessare la corruzione del denaro nella nostra politica e per garantire elezioni libere e imparziali”. Il presidente era Barack Obama ma nessun esponente della comunità internazionale o delle ong per i diritti umani osò dire nulla. Nessuna reazione né condanna rilevante. A Mosca, invece, un fatto analogo diventa un caso diplomatico internazionale e mediatico al fine di screditare il presidente russo Vladimir Putin e il suo governo. Nel caso della manifestazione indetta ieri da Navalnj, pare che il comune di Mosca abbia concesso inizialmente l’autorizzazione, da svolgersi in altre aree della città dove avvengono spesso eventi pubblici. Il blogger ha radunato i suoi sostenitori in pieno centro, al fine di provocare le autorità e arrivare all’inevitabile arresto.

La legislazione in Italia in materia di manifestazioni non autorizzate. Interessante capire cosa dice la legge italiana in merito a manifestazioni non autorizzate. Secondo l’Art 18 R.D. 773/31 TULPS, “i promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al Questore. È considerata pubblica anche una riunione, che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta, o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata. I contravventori sono puniti con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da € 103,00 a 413,00. Con le stesse pene sono puniti coloro che nelle riunioni predette prendono la parola. Il Questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione. I contravventori al divieto o alle prescrizioni dell’autorità sono puniti con l’arresto fino a un anno e con l’ammenda da € 206,00 a € 413,00”.

Navalny, condannato per appropriazione indebita. Non va dimenticato che Aleksej Navalny è un condannato per appropriazione indebita, come stabilito dal tribunale Kirov nel febbraio scorso. Secondo la sentenza del primo processo con cui era stato condannato a cinque anni di carcere, Navalny avrebbe truffato l’azienda statale Kirovles, che si occupa di produzione di legname. Un fatto che getta molte ombre e dubbi sull’uomo simbolo della lotta alla corruzione in Russia.

“Manifestazioni non autorizzate, non problema sociale ma reati”, scrive il 17 aprile 2012 "Ravenna24ore". Ancisi (LpRa) risponde al Movimento studentesco. “Un non meglio conosciuto a Ravenna Movimento Autonomo Studentesco, lanciando l’“appello a tutti i ravennati: non perdiamo la testa”, rivolto, indistintamente da tutto e da tutti, a non “considerare l’arrivo dei giovani tunisini in emergenza umanitaria come un problema di ordine pubblico”, ha chiesto, tra l’altro, ai lettori di Ravenna 24 Ore “con quali grandi doti da statista Ancisi (LpRA) si ostini a invocare una repressione eccellente contro i cortei degli ultimi giorni”. In attesa di conoscere il nome, e non solo il nick name dell’intrepido autore di tale pronunciamento posso comunque anticipare che dalla scuola, oltre all’educazione con cui ci si rivolge alle persone che non si conosce, non ha appreso neppure la lettura. Se così non fosse, avrebbe letto come la “repressione” che ho chiesto sia di “ogni manifestazione di ribellione (come sono i cortei non autorizzati e regolati), identificandone gli organizzatori e i partecipanti e perseguendone ogni stato di illegalità”. I “cortei degli ultimi giorni”, che l’Intrepido derubrica a “problema sociale”, sono invece da me raccontati come segue: “la prima manifestazione non autorizzata, che può aver colto di sorpresa le forze dell’ordine domenica scorsa, e quella del giorno successivo, altrettanto non autorizzata, hanno potuto svolgersi per intero, nonostante che, oltre al reato di assembramento in luoghi pubblici non autorizzato, di cui all’art. 18 del testo unico di pubblica sicurezza, altri reati, con l’occasione, siano stati vistosamente commessi, tutti perseguibili d’ufficio: tra questi, quanto meno, il vilipendio delle forze armate (art. 290 del codice penale), il vilipendio della nazione italiana (art. 291) e l’ espressione di grida sediziose o lesive del prestigio dell'autorità durante un assembramento in luoghi pubblici (art. 20 del testo unico di pubblica sicurezza): sempre che l’odio razziale non valga anche se rivolto agli italiani (allora si incorrerebbe nei crimini d’odio perseguiti dalla legge  n. 205 del 1993)”.  

E poi: Cosa succede davvero durante i concorsi pubblici? Certo è la scoperta dell'acqua calda ma consigliamo di leggere quanto la nostra redazione ha trovato in rete. Un vero campionario di scorrettezze per truccare i concorsi pubblici. Non è certo una notizia che il sospetto sui concorsi truccati sia, in realtà, qualcosa di più di un sospetto. Pochi giorni fa abbiamo riportato il link di un post apparso sul blog di Beppe Grillo. Oggi, durante le nostre ricerche redazionali, abbiamo trovato un articolo pubblicato sulla testata online Oggi.it che tenta di spiegare cosa succede davvero durante i concorsi pubblici, o almeno durante molti di essi.

Come si “trucca un concorso”. Molte sono le fasi durante le quali non è poi così difficile che succeda qualcosa di poco chiaro. Addirittura durante la fase in cui viene indetto un concorso: succede spesso che esso venga appunto indetto quando si sa che chi vi partecipa (chi vi deve partecipare) è in grado di soddisfare tutti i requisiti richiesti. Insomma concorsi fatti ad personam, spesso fatti proprio per un solo candidato, come succede, talvolta, per concorsi presso alcuni atenei. Cose non proprio trasparenti avvengono anche all’interno delle commissioni d’esame in cui capita che a presiederle vi sia qualcuno non compatibile con il ruolo; o come commissioni in cui non vi sono le persone necessarie al fine di giudicare la parte tecnica di una specifica prova di concorso.

Concorsi inutili. L’articolo pubblicato su Oggi.it riporta addirittura il caso di un concorso che, più che inutile, era davvero una presa in giro. Si tratta di un concorso per 1940 posti all’INPS, fatto per “sistemare” alcuni lavoratori socialmente utili che già lavoravano presso la stessa INPS.

Prove d’esame segrete? Anche questo è un argomento delicato. È successo che alcune di queste prove siano state divulgate su internet anche giorni prima dell’esame (come avvenuto in occasione di alcuni esami per dirigenti scolastici. Ancora più paradossale il caso di concorsi che si svolgono in sedi diverse e in cui, per inspiegabili motivi, si hanno orari diversi di inizio concorso (misteriosi ritardi) che consentono la divulgazione delle prove stesse tramite tablet e cellulari.

E la segretezza degli elaborati? Sembra un’illusione anche questa. In teoria il materiale d’esame deve essere consegnato in una busta grande che, sigillata, deve contenere una busta più piccola con il nome del candidato. Tutto dovrebbe essere anonimo e irriconoscibile. Inutile dire che pare non sia così.

Consigliamo la lettura completa dell’articolo di Antonio Giangrande, consultabile in rete con il titolo “Ecco come si truccano i concorsi pubblici”.

L’illegalità di massa che deve far riflettere. Parlare di una nuova era di Tangentopoli rischia di portare fuori strada. In realtà la vera questione è l’enorme diffusione di comportamenti fuorilegge, scrive Giovanni Belardelli il 27 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Viviamo davvero in una perenne Tangentopoli, come i continui scandali, episodi di corruzione, inchieste della magistratura sembrerebbero indicare? Benché continuamente evocata (se si digita su Google «nuova Tangentopoli» si ottengono oltre 250 mila risultati) questa rappresentazione è ingannevole. Non tanto e non solo perché a volte dietro il molto fumo di un’indagine, alimentato dai media, si finisce con il trovare una limitata porzione di arrosto (potrebbe essere questo il caso dello scandalo Consip, almeno in relazione al ministro Lotti e a Tiziano Renzi); quanto perché l’idea di una Tangentopoli continua, che coinvolge il mondo della politica e degli affari, distoglie il nostro sguardo da un’altra questione: la diffusione ormai raggiunta nella società italiana da comportamenti illegali di massa. Pensiamo ad esempio a quanti beneficiano della legge 104, che tutela le gravi disabilità: mentre nel settore privato vi fa ricorso il 3,3 per cento dei dipendenti, la percentuale sale al 13,5 per cento nel settore pubblico, e in particolare nelle istituzioni scolastiche (proprio quelle a cui sempre ci si appella perché diffondano tra i giovani il senso della legalità). Il dato è così anomalo da suggerire la massiccia presenza di irregolarità. Del tutto chiara l’illegalità nei casi di assenteismo fraudolento da parte di quanti — medici nel Napoletano o impiegati in questo o quel comune — falsificano la presenza al lavoro. In questi casi colpisce il senso di impunità, cui forse va aggiunta la percezione che si tratti di piccole furbizie, di qualcosa di non veramente grave. Non si spiegherebbe altrimenti come comportamenti del genere continuino nonostante i tanti casi scoperti negli ultimi anni. Ma l’elenco di questi comportamenti di illegalità diffusa potrebbe essere molto lungo. Si va dalle false dichiarazioni Isee nelle iscrizioni all’università (un’indagine del 2013, riferita ai tre atenei statali della Capitale, rivelava che solo il 63 per cento erano regolari) alle ingiustificate esenzioni del ticket che riguarderebbero, secondo dati di un anno fa, un italiano su dieci. Poi ci sono naturalmente i dati sull’evasione fiscale, sull’abusivismo edilizio, sulle false pensioni di invalidità e così via. E le tante affittopoli italiane, cioè i casi in cui gli immobili pubblici sono stati assegnati a un affitto di favore o semplicemente ridicolo, quando non occupati e basta. O ancora, l’abnorme numero di incidenti stradali in certe zone del Paese; un numero che a Napoli, ad esempio, è 11 volte maggiore rispetto a Roma. In effetti, è forte la tentazione di collocare soprattutto nel Mezzogiorno la presenza di comportamenti di illegalità diffusa; sono davvero impressionanti, al riguardo, certi dati sulla Sicilia riportati di recente da Paolo Mieli (Corriere, 20 marzo). Si potrebbe spiegarlo con la presenza della malavita organizzata e di situazioni di particolare degrado sociale, ma anche con l’uso particolarmente dissennato delle risorse pubbliche a fini di consenso (elettorale). Certo è che la Capitale non pare voler restare troppo indietro quanto alla diffusione di comportamenti al limite, od oltre il limite, della legalità: migliaia di appartamenti occupati abusivamente o per i quali si pagano affitti di dieci o venti euro in pieno centro storico; indagini continue che hanno interessato il corpo dei vigili urbani, raramente o mai sanzionati; le municipalizzate Atac e Ama utilizzate per l’assunzione di parenti e amici; senza dimenticare i parcheggiatori abusivi ovunque e le auto in sosta nelle zone riservate ai pedoni. Interrogarsi su tutto ciò vorrebbe dire chiedersi perché l’arrivo del benessere, a partire dagli anni del «miracolo economico», abbia reso l’Italia più ricca ma non abbia portato a un maggior senso di legalità e a una maggiore coscienza civica. Molto più facile ricorrere al grande alibi di una Tangentopoli continua, a quella denuncia di una politica sempre corrotta che alimenta il successo dei Cinque Stelle. Una rappresentazione consolatoria che però poco corrisponde alla realtà di un Paese i cui abitanti, certo non tutti ma una cospicua minoranza sì, avrebbero bisogno di interrogarsi seriamente anche sui propri comportamenti.

ITALIA, PAESE DELL'ILLEGALITA' DI MASSA: IL 25% HA COMPRATO PRODOTTI ILLEGALI O CONTRAFFATTI NEL 2013 (MA ANCHE PRIMA), scrive lunedì 4 novembre 2013 “Il Nord”. ''Un consumatore su quattro (il 25,6%) ha acquistato almeno una volta nel 2013 un prodotto o un servizio illegale. Il fenomeno, in aumento negli ultimi anni, è più diffuso tra le donne e i giovani; il Mezzogiorno l'area più colpita. In crescita rispetto al passato l'acquisto di prodotti e l'utilizzo di servizi illegali (soprattutto i prodotti di pelletteria, seguiti da quelli dell'abbigliamento, parafarmaceutici, alimentari, dell'elettronica ed elettrodomestici), nonchè i fenomeni illegali nuovi, come l'acquisto, il più delle volte in rete, di biglietti per spettacoli di vario genere (cinema, concerti) o titoli di viaggio pirata; tra i prodotti illegali acquistati nel 2013 spiccano quelli dell'abbigliamento (41,2%), dell'alimentare (28,1%), della pelletteria (26,9%) e gli occhiali (27,6%)''.Questi, in sintesi, i principali risultati che emergono dall'indagine realizzata da Confcommercio-Imprese per l'Italia, in collaborazione con Format Ricerche, sul sentimento dei consumatori nei confronti dell'illegalità, della contraffazione e dell'abusivismo. ''Per oltre il 50% dei consumatori la ragione principale degli acquisti illegali è di natura economica. Acquistare prodotti o servizi illegali rischia di diventare la normalità: il 55,3% dei consumatori ritiene questi acquisti piuttosto normali e, inoltre, utili per chi ha difficoltà economiche. Solo il 36,2% dei consumatori è convinto che l'acquisto illegale sia effettuato inconsapevolmente'', sottolinea Confcommercio. ''Circa l'80% dei consumatori ritiene che l'acquisto di prodotti illegali/contraffatti o l'utilizzazione di servizi svolti da abusivi possa comportare rischi per la salute e la sicurezza, rivelandosi di scarsa qualità. Il 79% è consapevole del fatto che l'illegalità altera le regole del mercato e penalizza le imprese regolari'', prosegue la nota. 

''Il 35,6% dei consumatori italiani ha avuto occasione, almeno una volta nella vita, di acquistare prodotti illegali/contraffatti o servizi erogati da parte di soggetti non autorizzati. Con questi termini si intende l'acquisto di prodotti con false griffe, contraffatti, con un marchio non originale, imitazioni degli originali, lo scarico da Internet di musica, film, videogiochi, in qualche modo pirata (download gratis), o il noleggio/acquisto irregolare di film o videogiochi, l'utilizzo di servizi - anche di natura professionale - prestati da soggetti senza i regolari permessi (es. guida turistica abusiva, etc.)'', continua Confcommercio. ''Il fenomeno è leggermente più diffuso tra le donne e i giovani (specialmente con un titolo di studio medio-basso). A livello territoriale il Mezzogiorno è l'area più colpita. Tra i consumatori che almeno una volta nella vita hanno acquisto prodotti o servizi illegali, il 71,9% lo ha fatto anche nel 2013. Ciò significa che un consumatore su quattro (il 25,6%) dichiara di aver acquistato nell'anno in corso almeno una volta un prodotto o un servizio illegale'', continua la ricerca. ''Tra i prodotti acquistati in qualche modo 'fuori dalle regole' spiccano quelli dell'abbigliamento (41,2%), gli alimentari, bevande incluse (28,7%), gli occhiali (26,7%), la pelletteria (26,9%), le scarpe e calzature (21%), i profumi e i cosmetici (18,1%), i farmaci (15,6%) e i prodotti parafarmaceutici (14,9%), spesso acquistati su siti Internet non italiani'', continua Confcommercio.

''Rispetto al 2010 sono aumentati l'acquisto di prodotti e l'utilizzo di servizi illegali, così come i fenomeni illegali nuovi, come l'acquisto, il più delle volte in rete, di biglietti per assistere a manifestazioni di vario genere (cinema, concerti) o di titoli di viaggio pirata. Al primo posto di questa ''speciale'' classifica i prodotti di pelletteria, seguiti da quelli dell'abbigliamento, parafarmaceutici, alimentari, dell'elettronica ed elettrodomestici'', continua Confcommercio. ''Il 10,3% dei consumatori si è imbattuto, almeno una volta nella vita, nell'acquisto di un prodotto o di un servizio che successivamente ha scoperto essere illegale o erogato da parte di soggetti non autorizzati, mostrando in maggioranza un atteggiamento tollerante. In particolare: il 38,8% non ha ritenuto grave l'accaduto pensando che 'sono cose che succedono', il 43,7%, pur ritenendo grave l'accaduto, ha preferito non fare nulla, il 9,7% ha protestato e solo il 7,8% ha denunciato l'accaduto''. ''Per oltre il 50% dei consumatori la ragione principale dell'acquisto di prodotti o servizi illegali è sostanzialmente di natura economica (..è un affare, ..il costo è inferiore, ..si risparmia).In particolare, si acquista un prodotto contraffatto o si ricorre a servizi esercitati in modo palesemente abusivo, o si scaricano illegalmente dal web prodotti pirata perchè si pensa di fare un buon affare, risparmiando (62,7%); perchè non si hanno soldi per comprare prodotti legali o perchè un servizio abusivo costa meno (52,1%); perchè i prodotti illegali costano comunque meno rispetto a quelli non illegali (47,3%); perchè anche se pericoloso è più economico e si risparmia (35,4%); perchè è giusto sostenere forme di commercio alternative e battersi contro i prezzi elevati (17%); non c'è una ragione particolare, è un acquisto come un altro (16,7%); perchè acquistando da un ambulante abusivo si pensa di fare una buona azione (15,9%); per mancanza di sufficiente informazione sui pericoli che si corrono acquistando beni e servizi illegali (13,5%); perchè è divertente acquistare questo genere di prodotti, soprattutto quando si è in vacanza (6,9%); perchè sulla "rete" ci sono prodotti di difficile reperimento che si vuole acquistare anche se illegali (0,9%)'', continua Confcommercio.

''La maggior parte dei consumatori associa all'acquisto 'illegale' un qualche genere di rischio (circa l'80%). In particolare, il timore principale è legato ad eventuali conseguenze per la salute (per il 52,6% dei consumatori), seguito da quello per la sicurezza in senso generale (46,5%) e dalla scarsa fiducia nella qualità del prodotto/servizio offerto (41,1%). Meno preoccupante appare il rischio, pure reale, di essere multati (23,8%). Il 79% dei consumatori condivide l'idea che l'acquisto illegale alteri le regole del mercato e danneggi le imprese regolari'', continua la ricerca. ''Per tre consumatori su cinque le sanzioni verso chi produce, chi immette in commercio prodotti illegali o contraffatti e chi pratica abusivamente un'attività (60,6%) e verso coloro che li acquistano (64,1%) sono insufficienti, ovvero non costituiscono un deterrente efficace contro tali comportamenti. Il 75,2% dei consumatori ritiene necessaria una campagna di comunicazione, informazione e sensibilizzazione dei cittadini sull'illegalità, la contraffazione e l'abusivismo'', conclude Confcommercio. (Adnkronos)

Quando corruzione e illegalità sono di massa, scrive Lavoce.info il 20 novembre 2012, riportata su "Il Fatto Quotidiano". Una truffa all’Inps in Calabria è un valido esempio di come le leggi sulla corruzione possono diventare efficaci solo in contesti etici senza zone grigie. E nei quali si hanno controlli rapidi sull’erogazione di denaro pubblico. Di Mario Centorrino e Pietro David (lavoce.info).

La saggistica e le cronache sul tema della corruzione analizzano e raccontano generalmente casi con pochi attori. E si interessano più della notorietà di questi ultimi, per i ruoli istituzionali ricoperti o per la rete di influenza in cui risultano inseriti, che alle ricadute complessive di reati commessi in termini economici e di diseducazione alla legalità, al contrario di quanto avviene sul tema della criminalità organizzata: le stime del fatturato da corruzione, infatti, sono puramente convenzionali (il 3 per cento del Pil), quelle del fatturato mafioso più articolate e differenziate. Vale dunque la pena accennare a modelli di quella che potremmo definire macro-corruzione: reati cioè di corruzione dai quali si propagano effetti di arricchimento non limitati ai soggetti che li commettono, ma che si trasformano in produttori di convenienza per un universo di altri soggetti. Una illegalità con carattere di sistema che rende difficile prevenzione, intervento e sanzione. E una illegalità (distorsione nel mercato del lavoro, ad esempio) che deborda in altre aree: in primis, quella di una corretta applicazione delle regole di democrazia (distorsioni sul mercato politico, ad esempio).

Un caso esemplare. Esaminiamo, allora, un recente episodio di macro-corruzione: la scoperta di 4.100 falsi braccianti in una cittadina calabrese (Rossano), un episodio che coinvolge politici, dipendenti dell’Inps, sindacalisti e commercianti. A Rossano e in altri paesi limitrofi, vengono costituite cooperative agricole ad hoc, con centinaia di lavoratori che, in realtà, svolgevano la loro attività solo sulla “carta”, presso terreni di committenti ignari o addirittura inesistenti. I lavoratori fittizi, al fine di godere dei diritti derivanti dallo status di stagionali, dipendenti cioè a tempo determinato, erano disposti ad anticipare all’organizzazione somme di denaro necessarie per il versamento dei contributi previdenziali. Le somme, versate per il tramite delle cooperative agricole, costituivano il presupposto necessario per far ottenere agli stagionali fittiziamente assunti il riconoscimento delle indennità di disoccupazione agricola, di malattia, di maternità e degli assegni familiari. Di contro, l’organizzazione criminale lucrava sulle indennità maturate dai falsi braccianti trattenendo per sé una quota delle somme erogate dall’Inps. Quattro domande: quale è lo specifico atto di corruzione che è alla base della truffa? Quale è il valore economico di quest’ultima? Come vengono provocati effetti distorsivi sul mercato del lavoro e nel “mercato politico”? Il fatto di Rossano si regge sulla corruzione di funzionari dell’Inps locale (Istituto che peraltro con altri funzionari ha fornito dati e informazioni indispensabili per la scoperta dell’imbroglio) che accettavano le false certificazioni presentate da un patronato, da commercialisti e consulenti del lavoro. Senza questa corruzione non ci sarebbero state le condizioni opportune tali da far percepire a 4.100 falsi braccianti (in realtà praticanti presso studi legali, dipendenti del patronato, casalinghe, studenti), inquadrati in ventotto cooperative agricole senza terre, 11 milioni di euro nel periodo 2006-2009. Se qualcuno fosse andato a controllare chi in realtà svolgeva all’epoca lavori agricoli nel territorio sotto osservazione avrebbe trovato immigrati in condizioni di disagio sottopagati e senza permesso di soggiorno. Tra l’altro, i “falsi” braccianti dovevano garantire, con un sistema di condizionamento del consenso, sostegno e preferenze elettorali.

La “legittimazione” della corruzione. Quando la truffa è stata scoperta e i flussi di pagamento irregolari bloccati, si sono avute violente manifestazioni di protesta con blocchi stradali. Sembrerebbe dunque che leggi sulla corruzione acquistano efficacia in contesti etici senza zone grigie e nei quali si attivano controlli rapidi sull’erogazione di denaro pubblico. Ancor più quando il reato di corruzione è tale da poter innescare sistemi di illegalità di massa. Se andiamo a rileggere la letteratura sulle interpretazioni teoriche del fenomeno alla luce del “modello Rossano”, la più convincente sembra quella della razionalità strategica di Andivig e Moene. Quanto più grande è la frazione di corrotti tanto minore è la probabilità di essere scoperti da un collega disposto a sporgere denunzia o dalle vittime stesse (che nel caso raccontato rimangono indistinte). In sostanza, quanto più la corruzione è praticata, tanto minore l’imbarazzo per chi decide di intraprendere questa attività. Tanto più bassa la percezione di un rischio, dato il clima di connivenza, tanto più favorevoli le occasioni di socializzazione dell’illecito. Gli stessi costi morali possono indebolirsi in presenza di corruzione capillare. Esiste, spiegano i psicologi, un processo di auto giustificazione del tipo: “tutti lo fanno, perché non dovrei farlo anch’io”. Un avviso, dunque, ai naviganti.

Una definizione ufficiale di “corruzione” possiamo trarla dalla Convenzione di diritto civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa (Strasburgo 4.11.1999; European Treaty Services, n.174). Si parla di corruzione di fronte al “sollecitare, offrire, dare o accettare, direttamente o indirettamente, una somma di denaro o altro vantaggio indebito o la promessa di tale vantaggio indebito, che distorce il corretto adempimento di una funzione/compito o comportamento richiesto dal beneficiario dell’illecito pagamento, del vantaggio non dovuto o della promessa di tale vantaggio. In senso più ristretto si parla di corruzione di fronte a reati la cui connessione implica un danno anzitutto rivolto all’integrità del patrimonio della Pa, dei suoi beni e dei suoi mezzi aventi valore economico, a prescindere dalla circostanza che la commissione di questi reati determini costi sociali che si propagano ben al di là della sola dimensione economica. Si parla di corruzione anche in riferimento a una serie di altri reati (concussione, abuso d’ufficio, peculato, falso in atto pubblico, truffa ai danni dello Stato o alla Comunità europea, turbata libertà degli appalti). Per un approfondimento può essere utile la lettura del rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione della Pa, presentato il 22 ottobre 2012.

Le truffe all’Inps sono una delle voci più consistenti degli sprechi di denaro pubblico. Secondo un recente rapporto della Guardia di finanza, ad esempio, tra gennaio e settembre di quest’anno sono state controllate 9.643 famiglie e sono stati scoperti ben 2.324 illeciti – uno su quattro cioè – con un esborso non dovuto che supera i 65 milioni di euro. Sono gli ormai famosi “falsi poveri”, liberi professionisti e imprenditori che riescono a nascondere i propri guadagni e così finiscono ai primi posti delle graduatorie comunali quando si tratta di ottenere agevolazioni per le mense scolastiche, per l’acquisto di libri, per l’iscrizione dei più piccoli negli asili nido, ma anche sgravi su medicine e assistenza domiciliare. Quanto incide la corruzione sulla mancanza di controlli necessari a “scoraggiare” questa illegalità di massa?

Ma l’illegalità è uno sport di massa nel Belpaese, scrive Giuseppe De Tomaso il 18 Febbraio 2010 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non è necessario aspettare i rapporti annuali della Corte dei Conti per apprendere che in Italia l’illegalità è il vero sport di massa. Né è necessario attendere gli esiti di alcune inchieste giudiziarie, che offrono lo spaccato di un Paese profondamente corrotto, a monte e a valle (come si dice). Né è necessario attendere l’elenco degli eletti di molte consultazioni popolari, che spesso premiano la spregiudicatezza e puniscono l’integrità morale dei candidati. La prova del nove più eclatante sulla tendenza di larghi strati della popolazione a dribblare la legge e la legalità con la stessa disinvoltura di un Ronaldinho quando ridicolizza l’avversario con un tunnel, la fornisce, ogni anno, l’Italia del Fisco, le cui dichiarazioni, in buona parte, sono più insincere di una bugia di Pinocchio. Dispiace dirlo. In Italia la società civile spesso corrisponde alla società incivile. Non si spiegherebbe altrimenti il perdonismo che anima molti cittadini comuni di fronte alle infrazioni di legge e agli abusi commessi dalla Razza Potentona. Più che un sentimento di riprovazione e condanna, sovente scatta una reazione di invidia e comprensione. Si ragiona così: se lo fanno tutti, il reato è meno grave. Il Fisco, dicevamo, è la cartina di tornasole della moralità generale. Inutile ripetere che le tasse italiane, per chi le paga, sono le più alte del pianeta. Ma ben undici milioni di persone, nello Stivale, non sono toccate dall’Irpef (il 27% degli italiani). E poi. Il 91% dei contribuenti non supera i 35mila euro di reddito lordo annuo mentre solo l’1% supera i 100mila euro lordi (contribuendo però quest’ultimi ad assicurare quasi la metà del gettito complessivo dello Stato). Se le denunce dei redditi dicessero il vero l’Italia, si troverebbe in una condizione pre-insurrezionale: povertà diffusa, assalti ai forni, espropri proletari, rivolte di piazza. Invece, la rivoluzione, nella Penisola, resta possibile solo d’intesa con i carabinieri, secondo la battuta del grande Ennio Flaiano (1910-1972). Semmai l’Italia è terra di scioperi, non di rivoluzioni. Ecco. Se davvero la realtà del Belpaese fosse quella rappresentata dalle cifre del Fisco, i ristoranti resterebbero vuoti anche la notte di San Silvestro, gli alberghi romagnoli sarebbero meno affollati della Siberia polare e le Ferrari si ammirerebbero soltanto in televisione. Per fortuna non è così. Per fortuna il tenore di vita degli italiani è decisamente più alto di quanto lascerebbero pensare stipendi, guadagni e profitti dichiarati. Ma la profonda spaccatura fra i dati ufficiali e i dati reali dimostra una verità incontestabile: gli italiani (non tutti, meno male) sono più infedeli allo Stato e alla Legge che ai loro rispettivi coniugi. Anzi. Metabolizzano, addirittura, prima il senso del reato che il senso del peccato. Aggirare le norme, anche quelle più semplici e elementari che meno si prestano alla confusione e alla tentazione di irriderle, appare il loro vero allenamento quotidiano. Sembra una gara tra chi si comporta peggio. Se la «massa» fa di tutto per beffare il Fisco, chi governa fa il massimo per allontanare il Fisco dai cittadini. Ogni anno le statistiche sulle entrate delle famiglie testimoniano come i veri ricchi non siano certo quei «fortunati» (o sfessati) che oltrepassano la soglia dei 100mila euro lordi di reddito (il netto equivale a poco più della metà), visto che i veri paperoni riescono a nascondersi nelle fasce reddituali inferiori o addirittura a rientrare nell’area ignorata dal Fisco. Ma, puntualmente, ogni mese c’è chi invoca una nuova torchiatura contro quell’1% di popolazione che già garantisce il 50% del gettito nazionale, quasi che la risoluzione di tutti i problemi di bilancio dipendesse dalla repressione, dalla punizione esemplare di questa classe di «privilegiati», di questa inammissibile reincarnazione dei «nemici del popolo». In pochi, nei Palazzi (non soltanto della politica), sorge il dubbio che quell’1% va semmai affiancato all’idea di onestà, magari obbligata perché impossibilitati, i signori dell’1%, a evadere; ma di sicuro un’onestà accertata e ratificata. Invece. Invece l’Italia è più matta di Carnevale. Incoraggia i frodatori e scoraggia i galantuomini. E’ una miscela esplosiva: da un lato lo statalismo compulsivo (teso ad accaparrare ogni anno nuove fette di Pil) che - a leggere l’analisi della Corte dei Conti - sta alla corruzione come Ilona Staller sta alla pornografia; da un lato lo stimolo diretto e indiretto a eludere la legge, in particolare la legge del Fisco, a causa di politiche impositive vessatorie proprio contro chi dà il buon esempio. Logico che, di questo passo, il tasso di immoralità pubblica e privata, tra Merano e Lampedusa, raggiungerà livelli birmani o congolesi. Con buona pace di tutti gli appelli all’etica, al buongoverno e alle grandi riforme che, chissà come e perché, dovrebbero trasformare Barabba in Gesù Cristo.

L'ingiustizia di Stato è servita: le vittime pagano i ladri. Chi ferisce o uccide per legittima difesa deve risarcire i delinquenti. Ecco le storie, dal benzinaio al carabiniere, scrive Giuseppe Marino, Martedì 28/03/2017, su "Il Giornale".  Il carabiniere, le guardie giurate, il benzinaio, il tabaccaio. Tutti condannati a risarcire i delinquenti che avevano cercato di derubarli o addirittura di ucciderli. È l'albo nero dell'ingiustizia che premia chi vive di violenza. Un'ingiustizia con i bolli di Stato, perché imposta da altrettante sentenze di tribunali in tutta Italia. Il Giornale ha raccontato ieri la storia di Enrico Balducci, proprietario di una catena di distributori di benzina a Bari, cui un giudice ha posto sotto sequestro 170mila euro a fronte di una richiesta da un milione avanzata dai familiari del rapinatore che aveva fatto irruzione in uno dei suoi distributori. Ma non è un caso isolato. Il caso più clamoroso è quello di Ermes Mattielli, l'anziano robivecchi di Arsiero, in Veneto, che, spaventato dall'irruzione di due ladri di rame nel suo deposito, ha sparato nel buio, ferendoli. Il giudice l'ha condannato a pagare 135mila euro a favore dei due, entrambi rom con una lunga lista di precedenti. E così il furto sventato è riuscito in tribunale: Mattiello è morto due anni fa lasciando un paio di immobili destinati a finire in eredità a chi aveva cercato di derubarlo, per pagare il risarcimento. C'è poi il caso del tabaccaio del Padovano, Franco Birolo, anche lui condannato in primo grado a pagare 325mila euro ai parenti di un 23enne moldavo che aveva cercato di rapinare il suo negozio di tabacchi. Pochi giorni fa la sentenza è stata ribaltata in appello e Birolo è stato prosciolto, ma l'ultima parola non è ancora scritta. Perché sono possibili ricorsi e anche perché la legge prevede, oltre alla provvisionale stabilita in sede penale, la possibilità di un risarcimento per il «danno da perdita parentale» da stabilire con una causa civile, come nel caso di Balducci. Una legge con il buco, nel senso che la norma prevede i parametri per determinare il risarcimento pesando «l'intensità del vincolo familiare, della convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza idonea a comprovare l'intensità del legame», spiega l'avvocato Fabio Gaudino. La circostanza che la perdita sia strettamente collegata al fatto che il caro estinto se ne andasse in giro armato a fare rapine come occupazione abituale non conta: se la vittima della rapina viene condannata perché ha oltrepassato i limiti della legittima difesa la famiglia del rapinatore può chiedere il risarcimento. «Nell'attuale assetto normativo non c'è scampo a questo paradosso - spiega Gaudino al Giornale - il giudice ha il potere di agire secondo equità ma non contro la legge». Dunque se il giudice penale può almeno distinguere le responsabilità caso per caso, e può avere lo scopo di frenare la giustizia fai-da-te, qual è lo scopo di premiare i parenti di un rapinatore riconosciuto? E spesso a reclamare ricchi risarcimenti sono proprio i parenti di delinquenti abituali. «Se almeno fossimo condannati a risarcire lo Stato ci sarebbe una logica, ma così...», protesta Balducci, che ha fondato un'associazione di vittime di reati violenti, Nessuno tocchi Abele. A trovarsi nella condizione di dover pagare ladri e rapinatori o i loro parenti, ci sono perfino membri delle forze dell'ordine, come l'appuntato dei carabinieri Mirco Basconi, che sparò contro le ruote di un Suv rubato che cercava di investire i suoi colleghi ad Ancona. Un 24enne albanese, Korab Xheta, venne ucciso da un proiettile di rimbalzo e il militare si beccò un anno per eccesso di legittima difesa. Il suo caso è ancora aperto e il giudice ha rinviato alla causa civile il risarcimento. Che potrebbe ammontare a 2,5 milioni. Cifre minori di quelle che hanno dovuto pagare due guardie giurate, Mauro Pelella e Marco Dogvan in situazioni simili. O Antonio Monella, imprenditore che ha pagato duramente per aver sparato a un ladro. Il presidente Mattarella l'ha poi graziato. Ma è solo una toppa, l'ingiustizia resta intatta. E nessuno se ne cura.

L’ITALIA DEI CONDONI.

L'Italia dei condoni. Mansarde, villette e seminterrati. Regione che vai, sanatoria che trovi. La motivazione è sempre la stessa: "Contenere il consumo del suolo”. In realtà spesso è la formula usata dalla politica per aggirare le norme e aggiustare gli abusi edilizi, scrive Sergio Rizzo il 31 luglio 2017 su "La Repubblica". La foglia di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l'applauso: "Contenere il consumo del suolo". C'è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c'è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul "Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente"? Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l'Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai "vani e locali seminterrati " da destinare "a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ". Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all'articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d'uso dei seminterrati "per la trasformazione in luoghi di culto". Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea. Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli "oneri concessori". Se però l'intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di "aero-illuminazione" (testuale nella legge) e l'altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte... Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: "Ai fini del raggiungimento dell'altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l'abbassamento del pavimento o l'innalzamento del solaio sovrastante ". Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando "le norme antisismiche ", però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già... Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c'è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l'abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado. Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in Parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch'essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il Consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l'adozione di "linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi". Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare "il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione". Come pure tenere debitamente conto dei "criteri per la valutazione del non contrasto dell'opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico ". E che dire dei "criteri di determinazione del requisito soggettivo di 'occupante per necessità"? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra. I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell'Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D'Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell'isola con bungalow e casette di legno. Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di "soddisfare esigenze di carattere turistico". Le quali, precisa il disegno di legge, "non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi". Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all'inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo...

E' facile parlare di lotta all'abusivismo edilizio da parte di chi l'abitazione ce l'ha, per eredità, per censo o per occupazione/assegnazione di una casa di edilizia popolare a spese della collettività. Ma chi tutela chi la casa non ce l'ha per colpa di amministratori negligenti ed incompetenti, che mai predispongono i piani urbanistici generali o i servizi urbanistici primari?

Questa deriva comunista-giustizialista fa diventare reato anche un sacrosanto diritto di avere un tetto sulla testa.

E ora gli isolani si ribellano alle critiche: «Costretti agli illeciti dalla burocrazia». Gli abitanti accusano: imposti vincoli che impediscono pure di restaurare, scrive Massimo Malpica, Giovedì 24/08/2017, su "Il Giornale". La mano della natura contro la mano dell'uomo. E il braccio di ferro, comunque impari, si trasforma in una piccola rivolta quando gli abitanti di Casamicciola e Lacco Ameno se la prendono con i media che avrebbero sposato l'equazione che lega i danni provocati dal terremoto agli abusi edilizi che incontestabilmente sono una delle piaghe dell'isola, che «vanta» 33mila richieste di condono ancora in attesa di essere evase, più o meno due ogni tre abitanti. A incendiare gli animi nel centro di coordinamento dei soccorsi, nella marina di Casamicciola, ieri mattina, il confronto tra alcuni cronisti e i sindaci di Lacco Ameno e della stessa Casamicciola, Giacomo Pascale e Giovan Battista Castagna. I due primi cittadini criticavano l'associazione tra abusivismo edilizio e bilancio del sisma, quando un gruppetto di residenti presenti ha cominciato a inveire contro i giornalisti lamentando il danno per il turismo seguito al terremoto. Che, comunque, non ha molta attinenza con il tema del «peso» dell'edilizia selvaggia. Ma certo qui, vista la situazione dei condoni e la presenza di 600 abitazioni sotto la spada di Damocle di un ordine di demolizione, il partito del cemento raccoglie facili proseliti. Per strappare il condono ci sono percorsi ormai codificati, con soldi da pagare e avvocati specializzati per questo. Dopo lustri di inerzia della Regione Campania, nel 1995 il governo provvide a varare un piano urbanistico per l'Isola, sostanzialmente aggiungendo solo vincoli e divieti, col paradosso di incentivare gli abusi invece di contenerli, perché un territorio che vive di turismo non poteva e non voleva restare immobile sul fronte immobiliare. Il tema, però, torna attuale quasi solo dopo ogni disastro, che sia una frana, un allagamento o appunto un terremoto. E spacca subito il fronte tra chi vive qui e gli altri, che siano ambientalisti, giornalisti o politici. La crescita selvaggia ha certo generato mostri. E, va detto, anche i tentativi di arginarla hanno spesso provocato più danni che benefici. Come ricordavano ieri i sindaci e i residenti, per esempio, è complicato ristrutturare un edificio, quasi impossibile adeguarlo sismicamente, soprattutto se d'epoca. Colpa dei vincoli, che rendono il parere della soprintendenza una sorta di spiaggia dove invece di prendere il sole si fanno arenare le domande. E il risultato è un disastro, perché non potendo demolire e ricostruire - e spesso nemmeno ottenere il nulla osta per spostare una finestra - va di moda il fai da te con dribbling dei lacci burocratici. Così le case vengono «ristrutturate» a pezzetti, un pilastro alla volta, un ambiente dopo l'altro. Con evidenti limiti di qualità costruttiva e tenuta. Che magari non saranno collegati al tragico bilancio del sisma di lunedì, ma rendono questo gioiello del Mediterraneo una triste capitale dell'abusivismo.

Diritto all'abitazione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo (...) all'abitazione.» (Articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani).

Il diritto all'abitazione (conosciuto anche come "diritto alla casa" oppure "diritto all'alloggio") è il diritto economico, sociale e culturale ad un adeguato alloggio e riparo. È presente in molte costituzioni nazionali, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e nella Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali art. 31, uno dei primi documenti a farne menzione esplicita, nel Trattato di Lisbona art. 34.3.

Il diritto all'abitazione viene riconosciuto in una serie di trattati internazionali sui diritti umani:

L'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e l'articolo 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR) riconoscono il diritto alla casa come parte del diritto ad un adeguato standard di vita. Nel diritto internazionale dei diritti umani, il diritto all'abitazione è considerato un diritto indipendente; infatti il Commento Generale n.4/1991 sullo "adeguato alloggio" approvato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali fornisce un'interpretazione autorevole in termini legali e ai sensi del diritto internazionale.

I Principi di Yogyakarta sull'applicazione del diritto internazionale dei diritti umani in materia di orientamento sessuale ed identità di genere afferma che "ognuno ha il diritto ad un alloggio adeguato, compresa la protezione dallo sfratto, senza discriminazioni e che gli Stati membri devono prendere tutte le necessarie misure legislative, amministrative e di altro tipo per garantire la sicurezza del possesso e per l'accesso a prezzi convenienti per case abitabili, accessibili, culturalmente appropriate e sicure, comprese i ripari ed altri alloggi di emergenza, senza discriminazioni derivanti dall'orientamento sessuale, identità di genere o dallo status materiale o familiare;

adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e altre misure per vietare l'esecuzione di sfratti che non siano conformi agli obblighi internazionali sui diritti umani e garantire che i rimedi legali idonei siano adeguati, efficaci e disponibili per colui che ritenga che il diritto alla protezione contro gli sfratti forzati è stato violato o è sotto la minaccia di violazione, compreso il diritto di reinsediamento, che include il diritto ad una alternativa di migliore o uguale qualità e ad un alloggio adeguato, senza discriminazioni.

Il diritto alla casa è altresì sancito anche dall'articolo 28 della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, dall'articolo 16 della Carta sociale europea (articolo 31 della Carta sociale europea riveduta) e nella Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli. Secondo il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, gli aspetti del diritto alla casa includono: la sicurezza legale del possesso; la disponibilità di servizi, materiali, strutture e infrastrutture; l'accessibilità; l'abitabilità; l'adeguatezza della posizione e della culturale. Come obiettivo politico, il diritto alla casa è stato dichiarato nel celebre discorso del 1944 di Franklin Delano Roosevelt sul Second Bill of Rights, ed è sostenuto da varie associazioni di cittadini. La disciplina francese e tedesca della locazione abitativa costruiscono dagli anni '80 un modello di locazione a tempo indeterminato con recesso del locatore solo per giusta causa, in cui il diritto all'abitazione è trattato come un diritto soggettivo perfetto, essendo il locatario destinato a essere maggiormente tutelato quale parte contrattuale debole rispetto al locatore. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha considerato che la perdita dell'abitazione costituisce una violazione al diritto al rispetto del (la libertà di) domicilio (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea art. 7) e che qualsiasi persona che rischi di esserne vittima avrebbe diritto, in linea di principio, a poter far esaminare la proporzionalità di tale misura (v. sentenze Corte EDU, McCann c. Regno Unito, n. 19009/04, § 50, CEDU 2998, e Rousk c. Svezia, n. 27183/04, § 137).

Nella Costituzione italiana il diritto all'abitazione è richiamato all'art. 47 e in ripetute sentenze della Consulta:

<<è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione>> (n. 49/1987);

<<Il diritto all'abitazione rientra infatti, fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione>> (Corte cost., sent. n. 217 del 1988.);

<<il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti fondamentali della persona>> (Corte cost. sent. n. 119 del 24 marzo 1999);

<<Creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all'abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso>> (Corte cost. sent. n. 217 del 25 febbraio 1988);

<<indubbiamente l'abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell'individuo, un bene primario che deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge>> (sentenza n. 252 del 1983)

Con sentenze 310/03 e 155/04 il blocco degli sfratti è dichiarato giustificato solo in quanto di carattere transitorio e per <<esigenze di approntamento delle misure atte ad incrementare la disponibilità di edilizia abitativa per i meno abbienti in situazioni di particolari difficoltà>>, senza che esso possa tradursi in una eccessiva compressione dei diritti del proprietario, interamente onerato dei costi relativi alla soddisfazione di tale diritto.

DDL Falanga, fine dei giochi a settembre diventa legge! La gradualità che “salva” le case stabilmente abitate. Scrive Gaetano Di Meglio il 2 agosto 2017 su "Il Dispari Quotidiano”. Con la dichiarazione di irricevibilità degli emendamenti proposti in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, si è conclusa oggi l’ultima tappa dell’iter legislativo del Disegno di legge “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi”, prima del suo approdo nell’Aula di Montecitorio previsto per i primi di settembre. Lo annuncia l’onorevole Carlo Sarro (FI), componente dell’organismo parlamentare, che ha ricevuto dalla Commissione Giustizia il mandato di Relatore d’Aula unitamente all’onorevole Marco di Lello (Correlatore). “Con la calendarizzazione a settembre del provvedimento – spiega l’esponente di Forza Italia -, si chiude definitivamente l’iter di approvazione del disegno di legge e, quindi, si potrà finalmente fare riferimento a criteri oggettivi e preventivi per stabilire l’ordine di priorità nell’esecuzione delle demolizioni”. “Dunque – conclude l’onorevole Sarro -, non più arbìtri ma riferimenti oggettivi e certi”. Per quanti credono nella bontà della legge voluta dal senatore azzurro Ciro Falanga sì ad un passo dal traguardo. Ora che la Commissione Bilancio e la Commissione Giustizia della Camera hanno dato il via libera alla calendarizzazione in aula del testo la strada si fa tutta in discesa.

Insieme con il senatore Falanga e l’onorevole Carlo Sarro, da sempre, l’avvocato Bruno Molinaro è uno di quelli che ci hanno messo la faccia e si sono esposti, in maniera chiara, anche davanti alle posizioni della Procura, dei Verdi e di quanti, senza considerare l’aspetto umano legato alla tragedia dell’abusivismo edilizio, riescono solo a restare fermi, come cani legati, ad abbaiare, rabbiosi, contro ogni iniziativa che sappia contemperare anche l’aspetto umano di molte RESA. Non c’è solo la camorra, non c’è solo la speculazione. Ma tra tanta camorra e tanta speculazione c’è anche una fetta di umanità e di necessità che merita di essere tutelata. «Apprendo con soddisfazione – ci ha detto l’avvocato Molinaro – che anche la VII Commissione della Camera dei Deputati ha confermato la piena legittimità costituzionale del DDL FALANGA, soprattutto alla luce del fatto che il principio di obbligatorietà dell’azione penale non ne risulta minimamente intaccato, vieppiù se si considera che trattasi non già di sanare abusi edilizi ma di eseguire piuttosto, sia pure secondo modalità predefinite, sentenze di condanna passate in cosa giudicata e che, in ogni caso, allorquando il DDL elegge a criterio di priorità (“di regola”) quello della demolizione dei fabbricati in corso di costruzione, non fa altro che rafforzare la volontà del legislatore di evitare che gli illeciti accertati vengano portati a conseguenze ulteriori. Da notare che il parere appena licenziato si segnala anche per l’esplicita ammissione secondo cui la norma in questione “riduce l’insorgenza di eventuale contenzioso e di incidenti di esecuzione”. Molti ricorderanno – evidenzia Molinaro – che qualche tempo fa il Procuratore Generale di Napoli Luigi Riello, in una intervista al quotidiano La Stampa, aveva invece affermato che la “legge”, per oggettive difficoltà interpretative ed applicative, finisce per determinare un vertiginoso aumento del contenzioso, con gli avvocati chiamati a fare il loro mestiere, e nuovi carichi di lavoro per i magistrati. Personalmente sono sempre stato convinto del contrario perché un avvocato serio ed intellettualmente onesto non ha alcun interesse a consigliare al proprio cliente di proporre un incidente di esecuzione per opporsi alla demolizione di un fabbricato allo stato grezzo. E di fabbricati grezzi, scheletri ed ecomostri incompleti il territorio italiano, purtroppo, soprattutto nella fascia costiera, è pieno. Dunque, con il DDL Falanga, una volta approvato, si fa giustizia di queste brutture, si aiuta l’ambiente e si riduce il numero delle cause. Il DDL Falanga, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto da qualche parlamentare sprovveduto, non vanifica affatto, né ridimensiona in qualche modo gli effetti dell’ottima proposta di legge volta all’azzeramento del consumo del suolo entro il 2050, già approvata alla Camera. Quest’ultima, infatti, prevede, a grandi linee, incentivi alla rigenerazione urbana ed il riuso degli edifici sfitti e delle aree dismesse, occupandosi, altresì, della riqualificazione energetica e della demolizione e ricostruzione degli edifici energivori. Si tratta, quindi, di una “legge” che va ad incidere sul patrimonio edilizio esistente ma – beninteso – solo su quello legittimo, non anche su quello abusivo, oggetto, peraltro, di sentenze irrevocabili. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti, in quanto il patrimonio edilizio abusivo non può nemmeno formare oggetto di interventi di manutenzione, dovendo essere demolito. Rigenerazione, riuso e riqualificazione sono, per forza di cose, termini assolutamente incompatibili – conclude l’avvocato ischitano – con la gestione delle opere abusive la cui unica sorte è soltanto quella di essere eliminate prima o poi».

All’articolo 1 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 6, dopo la lettera c) è aggiunta la seguente: « c-bis) i criteri per l’esecuzione degli ordini di demolizione delle opere abusive disposti ai sensi dell’articolo 31, comma 9, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e degli ordini di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disposti ai sensi dell’articolo 181, comma 2, del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nell’ambito dei quali è data adeguata considerazione:

1) agli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su area demaniale o in zona soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico o a vincolo sismico o a vincolo idrogeologico o a vincolo archeologico o storico-artistico;

2) agli immobili che per qualunque motivo costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità, nell’ambito del necessario coordinamento con le autorità amministrative preposte;

3) agli immobili che sono nella disponibilità di soggetti condannati per i reati di cui all’articolo 416-bis del codice penale o per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, o di soggetti ai quali sono state applicate misure di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 »; b) dopo il comma 6 è inserito il seguente: « 6-bis. Nell’ambito di ciascuna tipologia di cui alla lettera c-bis) del comma 6, determinata con provvedimento del titolare dell’ufficio requirente, tenendo conto dei criteri di cui alla medesima lettera e delle specificità del territorio di competenza, la priorità è attribuita, di regola, agli immobili in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati».

De Luca: “Salvo l’abusivismo di necessità”, scrive il 6 giugno 2015 "Il Dispari Quotidiano". Ai microfoni di Radio24 dopo le anticipazioni al “Dispari”: «Una sanatoria per le case non a rischio». De Luca, come ci ha abituato da sempre, non le manda certo a dire. “Non vendo fumo e al di là delle chiacchiere da salotto noi siamo già qui a lavorare” ha commentato deciso, in queste ore, al giornalista di Radio24 che lo ha intervistato sui grandi temi della sua campagna elettorale. E così Vincenzo De Luca, che è in attesa della proclamazione ufficiale per insediarsi come governatore della Regione Campania, ha le idee ben chiare anche per quanto riguarda l’abusivismo, con una sanatoria che investirebbe tutti meno tre categorie di abuso ben precise. Pratico come sempre, dichiara – come aveva peraltro anticipato in un’intervista al Dispari – che è materialmente impossibile abbattere tutto ciò che è stato giudicato abusivo. “Se potessimo abbattere tutto lo avremmo già fatto – ha aggiunto ai microfoni di Radio24 – noi viviamo di ipocrisia, abbiamo in Campania credo la legislazione vincolistica più stringente del mondo, tremila leggi. Con il risultato che abbiamo il tasso più alto di abusivismo. 80.000 alloggi abusivi. Lei mi sa dire chi è in grado di demolire 80.000 alloggi? Faccio solo un esempio, avete le cave dove portare il materiale di risulta?”. Ed ecco la soluzione firmata De Luca: “Bisogna fare una cosa di grande buon senso. Nella mia ipotesi escludo la possibilità di sanatoria per tre categorie: primo abusivismo in luoghi di vincolo assoluto, se hai costruito sotto Ravello o Sorrento devi essere demolito; impossibilità di sanatoria per chi ha costruito in zone con pericolo per la pubblica incolumità, se costruisci sul greto del fiume devi essere demolito e non puoi essere sanato se avevi già un alloggio di proprietà e hai fatto l’abuso. Per il resto si approvano leggi per consentire, nell’ambito di piani di recupero, di mettere ordine e far pagare il dovuto a chi ha fatto abusivismo di necessità.” Un progetto lineare che non è da considerarsi come un condono. Ma come sanatoria “per quelli che non rientrano nelle tre categorie. Poi se c’è un povero cristo che in una zona interna della Campania senza danneggiare il paesaggio ha fatto un abuso siccome non abbiamo alternative, verrà applicata una legge – continua De Luca – a me non piace la sanatoria, ma mi confronto con la realtà: è materialmente impossibile demolire 80.000 alloggi. Se c’è qualcuno che ha una idea in proposito io sono il primo a mettermi avanti e non dietro per metterla in atto.”

"In Sicilia abusivismo di necessità". E Mannino attacca Cancelleri, scrive Salvo Cataldo Mercoledì 9 Agosto 2017 su "Live Sicilia". Giancarlo Cancelleri distingue tra "l'abusivismo che non è tollerabile" e "l'abusivismo di necessità", e la deputata alla Camera Claudia Mannino, grillina della prima ora ma autosospesa dal gruppo parlamentare M5s per via dell'inchiesta sulle presunte firme false di Palermo, va all'attacco del candidato governatore pentastellato: "Sono davvero sorpresa nel prendere atto che il M5S abbia cambiato posizione sull'abusivismo edilizio, allineandosi al pensiero di vari sostenitori di una categoria di comodo, talvolta inesistente, che essi definiscono 'abusivismo di necessità'", sono le parole che la deputata scrive sul suo profilo Facebook. Parole che arrivano all'indomani del collegamento televisivo della trasmissione 'In Onda', su La7, nel corso della quale Cancelleri aveva affrontato il tema dell'abusivismo edilizio. "Dobbiamo distinguere tra due canali: il primo è un abusivismo che non è tollerabile e che ha invaso le nostre coste, che è a meno di 150 metri dal mare e che insiste in zone di inedificabilità assoluta - afferma -. Poi c'è un abusivismo di necessità, perché in questa regione non sono mai stati fatti i piani casa, perchè L'Istituto autonomo case popolari non ha dato la casa a chi ne aveva bisogno e allora - aggiunge Cancelleri - chi non aveva soldi ma aveva un po' di arte la casa se l'è fatta". Secondo Cancelleri "i territori non sono tutti uguali. A Bagheria - prosegue - abbiamo fatto un regolamento comunale che non butta giù le case della povera gente che però non insistono nei 150 metri o nelle zone di vincolo e inedificabilità assoluta". E infine aggiunge: "Davanti a una ordinanza di demolizione della magistratura saremo i primi a portarla a termine". Parole che accendono la risposta di Mannino, componente della commissione sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. "Parlare di abusi di necessità significa non affrontare un cancro che devasta quotidianamente la Sicilia e tante altre regioni d'Italia. Non è solo una questione di legalità e rispetto dell'ambiente ma anche di sicurezza. Non lamentiamoci poi quando dopo qualche precipitazione le case vengono giù". Secondo Mannino "gli argomenti di Cancelleri sono gli stessi di chi tenta di far passare l'ipotesi dell'ennesima sanatoria e del governatore campano De Luca". La deputata palermitana poi chiede ironicamente: "Se dovesse essere eletto anche Cancelleri assisteremo ad un regno abusivo delle due Sicilie?". Critiche anche sulla frase delle ordinanze di demolizione: "La Regione non se ne occupa, le emettono magistratura e comuni, e non eseguirle costituisce reato. Il modello Bagheria? Non esiste, c'è una legge e va rispettata....sempre che non si pensi ad una nuova sanatoria regionale". E infine l'affondo contro Cancelleri: "Schierarsi improvvisamente dalla parte degli abusivi, dopo anni di lotte spesi per contrastare questo grave problema, è un voltafaccia inaspettato, che ha sapore di opportunismo elettorale.

Di Maio: "Se l’abusivismo è colpa della politica la casa resta un diritto". Il leader M5S. La linea dalla Sicilia: "Si abbatta quando lo ordina il giudice, ma non si voltino le spalle a chi paga l'assenza di pianificazione", scrive Annalisa Cuzzocrea il 13 agosto 2017 su "La Repubblica". "Se un giudice dice che un immobile va abbattuto, si fa. Ma non possiamo voltare le spalle a chi ha una casa abusiva perché la politica non ha fatto il suo dovere". Luigi Di Maio spiega così le parole del candidato governatore M5S in Sicilia Giancarlo Cancelleri sugli "abusivi di necessità ". "La prima casa è un diritto, con noi al governo non si potrà pignorare", dice il vicepresidente della Camera. Che è ancora sull'isola, nonostante il tour con Cancelleri e Alessandro Di Battista sia sospeso per qualche giorno. Il tempo di passare ferragosto in famiglia e ricaricare i pulmini elettrici.

Con l'abusivismo edilizio bisogna essere intransigenti o no?

"La polemica sulle parole di Cancelleri è incomprensibile. Ciò che la magistratura dice di abbattere, si butta giù. Ma Giancarlo ha anche detto che non puoi voltare le spalle a quei cittadini che oggi si ritrovano con una casa abusiva a causa di una politica che per anni non ha fatto il suo dovere, cioè piano casa e piani di zona. Sia chiaro, la casa è un diritto e se andremo al governo introdurremmo anche l'impignorabilità della prima casa, da parte dello Stato e delle banche. Uno Stato democratico deve garantire i diritti primari dei suoi cittadini".

Il banale giornalismo dell’ambientalismo. Riflessione di Giuseppe Mazzella su Teleischia il 7 agosto 2017. Roberto Della Seta è un giornalista, saggista e politico italiano di 58 anni che è nato e vive a Roma.E’ stato presidente di Legambiente, membro dell’assemblea costituente del PD, senatore del PD nel 2008 e non ricandidato nel 2013, ha fondato un movimento ecologista che si chiama Green Italia. Ha un blog dove dichiara che ha una laurea in storia contemporanea. Ha scritto un articolo su “ Repubblica” domenica 6 agosto 2017 dal titolo “ Il condono declassato” in cui esprime la sua contrarietà alla cosiddetta “ Legge Falanga”, già approvata al Senato ed ora al voto finale alla Camera.“ La norma è apparentemente banale, fissa una gerarchia di priorità per gli interventi di demolizione degli immobili abusivi: per primi vanno abbattuti quelli in costruzione, poi gli edifici realizzati in aree demaniali o in zone di pregio paesaggistico o a rischio idrogeologico dopo ancora quelli in uso a mafiosi e camorristi” spiega Della Seta che afferma anche che “ per la prima volta in una legge dello Stato verrebbe istituzionalizzato il principio dell’ abusivismo “ di necessità”.“ Ora, chiunque conosca un poco la storia dell’ abusivismo edilizio in Italia – continua il giornalista, saggista e politico –sa bene che proprio l’ abusivismo “ di necessità” è stato il pretesto con cui si sono giustificate le grandi sanatorie e con cui centinaia di amministratori hanno colpevolmente, spesso dolosamente chiuso gli occhi davanti al fenomeno”. De Seta ritiene che “abusivismo “di necessità e “abusivismo speculativo” sono il più delle volte indistinguibili” e per dimostrarlo cita il caso dell’isola d’ Ischia dove “le case abusive sono sorte come i funghi per poi affittarle a 1000 o 2000 euro a settimana”. De Seta esprime anche la sua contrarietà ai “condoni edilizi” ricordando che in Italia ce ne sono stati tre di cui gli ultimi nel 1994 e nel 2003 firmati da Berlusconi. Ancora. De Seta critica il PD che vuole votare la “Legge Falanga” e chiede un “ripensamento” poiché sostiene che “la logica delle grandi intese è nemica dell’interesse generale”. Francamente ritengo questo giornalismo “banale” dell’ambientalismo italiano capace solo di dire NO a tutto ed incapace di dire “SI MA…” e cioè di mettere in esecuzione una seria e realistica Pianificazione Territoriale. De Seta – da laureato in storica contemporanea – dovrebbe conoscere la storia della “ mancata “ pianificazione territoriale proprio nell’ isola d’ Ischia, esempio paradigmatico di un lunghissimo periodo – circa 70 anni – in cui le classi politiche di tutti i colori della prima e della seconda Repubblica sono state incapaci di mettere in esecuzione una REALISTICA Pianificazione Territoriale con una altrettanto REALISTICA Programmazione Economica perché l’ isola d’ Ischia non ha mai avuto un Piano Regolatore Generale in esecuzione ed ha avuto un Piano Paesistico solo nel 1942 “ inapplicato” per 28 anni e cioè fino al 1970 mentre ha avuto un Ente di Diritto Pubblico nel 1952 con durata ventennale preposto alla “ Valorizzazione” con una incentivazione finanziaria dello Stato attraverso la Cassa per il Mezzogiorno affinchè si costruissero alberghi, terme, case vacanze, attività commerciali per permettere lo sviluppo economico dell’ isola. De Seta troverà la storia di uno sviluppo edilizio ed economico senza programmazione dal 1949 al 2012 nel mio libretto “Ischia, la pianificazione mancata (OSIS-2012). La mancanza di una SERIA Pianificazione Territoriale quella che avrebbe dovuto dire “SI MA…” e cioè costruire per lo sviluppo ma difendere l’ambiente e conciliare le due cose apparentemente inconciliabili – ma è questo è il compito della Politica – ha favorito l’ “abusivismo” perché era la strada obbligata in assenza di norme per l’ edificazione sia per chi voleva “ speculare” sia per chi voleva costruire una casa per se stesso o per i propri figli. Per avere un nuovo Piano Paesistico Urbanistico Territoriale che è strumento di tutela “ passiva” del territorio e non “ attiva” come dicono gli urbanisti bisogna aspettare il 1995 quando un Ministro “ tecnico” di un Governo “ tecnico” ( il Ministro dei Beni Culturali Paolucci del Governo Dini) approva con decreto e su dati obsoleti un Piano che si limita a vietare ogni modifica del territorio “ ingessando” uno sviluppo economico che per definizione non può essere “ ingessato” in una “ economia aperta” come dicono gli economisti. Il Ministro Paolucci lo fece esercitando i poteri “surrogatori” del Governo nei confronti della Regione Campania “inadempiente” per 11 anni ai sensi della “Legge Galasso” del 1984. In un anno i sei Comuni dell’isola avrebbero dovuto approntare un piano di “dettaglio” per le due leggi di condono edilizio del 1984 e del 1994 che hanno prodotto oltre 20mila pratiche di condono che NON è mai stato né fatto né approvato. Se oggi la Soprintendenza ai Beni Ambientali “approva” una “domanda di sanatoria” per i due condoni edilizi lo fa in modo del tutto “discrezionale”. Il condono del 2003 – per decisione del consiglio regionale della Campania – non si applica all’isola d’ Ischia considerata nella sua interezza di 46Km2 area di particolare interesse ambientale. Al dottor De Seta consiglio di leggere e studiare con attenzione il capitolo decimo della monumentale monografia sul terremoto di Casamicciola nell’ isola d’ Ischia del 28 luglio 1883 ( 1999- Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) dal titolo “ la ricostruzione tra cronaca e storia” curato dall’arch. prof.ssa Ilia Delizia dove in dettaglio scrupoloso potrà conoscere la storia dei piani regolatori dei cinque Comuni colpiti dal 1884 al 1891, il ruolo dell’ ufficio distaccato del Genio Civile, il lavoro della commissione edilizia dell’ isola d’ Ischia soppressa il 26 aprile 1891. Bisogna vivere una realtà per poter capire un sistema economico e sociale, studiarne le contraddizioni e chiedere ma ottenere norme di civiltà praticabili in un quadro di un Diritto Certo e non sottoposto alla “discrezionalità” dei poteri pubblici. Da almeno 30 anni le popolazioni dell’isola – siamo circa 63 mila residenti – vivono in una “incertezza” del diritto che finisce per favorire la “speculazione edilizia” – fra l’altro praticamente estinta in questi ultimi 10 anni a causa di una visibile recessione economica – e punire proprio l’ “abusivismo di necessità” che invece si distingue, a mio parere, chiaramente dall’ “ abusivismo di rapina” praticato soprattutto negli anni ‘ 70 del ‘ 900. Se si spara nel mucchio si finisce di colpire l’innocente.

LEGGE ED ORDINE.

La lezione americana: la verità processuale non è la verità, scrive Lucrezia Ercoli il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". I due volti della giustizia: è andato in onda per ben 20 stagioni dal 1990 al 2010. Legge e ordine sì, ma alla fine trionfa il principio: meglio un colpevole libero, che un innocente in galera. «Nel sistema penale, lo Stato è rappresentato da due gruppi distinti, eppure di uguale importanza: la polizia, che indaga sul crimine, e i procuratori distrettuali, che perseguono i criminali. Queste sono le loro storie». Il tradizionale disclaimer che apre ogni puntata di Law and Order, i due volti della giustizia è andato in onda per ben 20 stagioni dal 1990 al 2010 (senza contare le infinite repliche in ordine sparso ancora in palinsesto). Si tratta di una delle fiction più longeve (e interessanti) della tv statunitense. Law and Order, Legge e Ordine, non è soltanto la classica formula repubblicana che descrive la politica conservatrice di un qualsiasi Donald Trump. Ma il titolo della serie creata da Dick Wolf: una pietra miliare del legal drama americano che ha generato ben cinque spin-off ancora in onda e che ha mantenuto un successo di critica fin nelle stagioni della maturità (è stata nominata agli Emmy Award come miglior serie tv per ben 11 stagioni consecutive). Riprendendo la serialità episodica classica, Law & Order rimane ancora oggi uno dei procedural più amati anche dal pubblico della televisione generalista nostrana. Alla struttura tradizionale che propone episodi rigidamente autoconclusivi e slegati, Law and Order aggiunge un'originale struttura bipartita che riesce a unire in un solo episodio due dei generi televisivi di maggior successo: il poliziesco e il giudiziario. Nella prima parte di ogni episodio, infatti, lo spettatore segue le indagini della squadra omicidi della polizia di New York che arresta un presunto colpevole di un violento reato. Nella seconda parte, invece, entrano in scena gli avvocati della Procura che, in cooperazione con le forze di polizia, si adoperano per farlo condannare in tribunale. Lo spettatore, insomma, all'inizio dell'episodio assiste alla brutalità del crimine, entra in contatto empatico con la vittima di cui gli investigatori ricostruiscono la vita e le relazioni, segue gli indizi e le prove, si convince della colpevolezza del soggetto arrestato dai poliziotti. Ma il caso non è affatto concluso e passa nelle mani della Procura. E gli avvocati dell'accusa (con la totale fiducia dello spettatore) si preparano per il processo e tentano di far condannare il colpevole per rendere giustizia alla vittima. Una netta dicotomia che passa dalle indagini della polizia nel caos di una città dipinta con tinte noir, al pacato distacco necessario per affrontare il processo; dagli esterni di una New York dove domina l'efferatezza dell'azione criminale agli interni serafici delle aule del tribunale; dalle turbolente strade di New York agli ambienti algidi del Tempio della Giustizia. In questo ritmo serrato, c'è pochissimo spazio per raccontare la psicologia dei poliziotti, la vita privata degli avvocati o l'eroismo iconico dei protagonisti. Non c'è l'avvocato che incastra il colpevole con magistrali arringhe alla Perry Mason. Non c'è il poliziotto bislacco e geniale che consegna alla giustizia l'assassino alla Tenente Colombo. Il vero e unico oggetto della narrazione di Law and Order è l'aspetto tecnico-procedurale, scandagliato con inedito realismo, che conduce dal reato al processo, dal mandato di cattura al verdetto della giuria. Il successo della serie è fondato sulla solidità di una sceneggiatura di grande qualità che ha la capacità di andare al di là del carisma degli interpreti e di affrontare, rivisitando spesso fatti reali di cronaca nera, questioni morali e risvolti sociali che animano il dibattito pubblico statunitense. Certo, il punto di vista della narrazione è sempre quello dell'accusa. L'avvocato della difesa è presentato come una figura detestabile che protegge il suo cliente a discapito della giustizia, che utilizza cavilli burocratici per nascondere verità. L'assistente procuratore distrettuale Jack McCoy (interpretato da Sam Waterston) e i suoi colleghi lottano per ottenere punizioni severe per i colpevoli, spinti dallo stesso desiderio di giustizia che muove l'animo dello spettatore che ha seguito i dettagli cruenti del crimine e le accurate indagini della polizia. Ma l'unico eroe celebrato puntata dopo puntata è il sistema giudiziario statunitense. Un sistema fallibile che spesso si inceppa nei suoi steccati procedurali, ma che resta equo proprio nel momento in cui rimane rigido, nel momento in cui non cede sulle questioni formali. Quando il detective Rivera dice al Procuratore: «Lo sa, McCoy, se uno vuole mettere i cattivi dietro le sbarre deve sporcarsi le mani». Lui risponde: «Il problema, detective, è che a volte non ci si ferma alle mani». La correttezza del procedimento - dalla lettura dei diritti nel momento dell'arresto all'ammissibilità delle prove presentate al processo - non può essere violata, neanche per compiacere la sete di giustizia retributiva dello spettatore che vuole vedere la punizione dopo il peccato, il castigo dopo il delitto. Aspettative che finiscono spesso frustrate da un inevitabile e cinico patteggiamento. L'astratto binomio conservatore "Legge e Ordine" si infrange nelle mille sfumature e particolarità dei singoli casi. La giustizia ideale deve scendere a compromessi con le sfaccettature della realtà, l'inquietudine della coscienza personale si deve scontrare con la cecità impersonale della macchina giudiziaria. Non c'è la luce chiara e abbagliante della Verità, ma la penombra della verità parziale e attraversata dal dubbio che esce dal processo. Law and Order diventa quindi un trattato diluito in centinaia di puntate su che cos'è la verità "processuale", un'approssimazione imperfetta e incompiuta che non coincide mai con la verità "reale". Invece che nelle aule universitarie, una complessa disquisizione giuridica e filosofica arriva in tutta la sua complessità alle masse televisive, comprese quelle del nostro paese abituate al balletto del giustizialismo del processo indiziario. E quando il colpevole è dichiarato innocente dall'insindacabile verdetto della giuria, lo spettatore, anche e soprattutto quello italiano, digerisce implicitamente una difficile e sacrosanta conclusione: in dubbio, pro reo. In altri termini, meglio un colpevole libero che un'innocente in prigione.

Dare agli avvocati il diritto di dire la propria sul lavoro dei magistrati? Giammai, scrive il 24 Ottobre 2016 Maurizio Tortorella su "Tempi". Alla sola ipotesi che sia concesso un voto agli avvocati nei consigli giudiziari, la corrente di Davigo è arrivata a ventilare la possibilità di «infiltrazioni criminali». Attenti ai “consigli giudiziari”, perché sono l’ultimo terreno di scontro tra magistratura associata e avvocati. Lo so, non ne avrete mai sentito parlare, e com’è sempre in questi casi non è un caso, perché i consigli giudiziari hanno un’importanza centrale nella vita della giustizia italiana: sono i 26 organismi distrettuali e collegiali (ce n’è uno per ogni corte d’appello) che hanno il delicato compito d’indagare su eventuali incompatibilità tra avvocati e toghe che operano nel medesimo distretto giudiziario, ma soprattutto stilano le “pagelle” dei magistrati che chiedono al Consiglio superiore della magistratura di essere nominati agli incarichi direttivi di procure e tribunali. Per semplificare, i consigli giudiziari sono dei Csm in miniatura. Al loro interno, però, i rapporti di forza sono molto sbilanciati a sfavore degli avvocati. Sul sito del Csm, per esempio, si legge che «nei distretti con più di 350 magistrati, ne fanno parte dieci magistrati (sette giudicanti e tre inquirenti) e quattro componenti laici: un docente universitario e tre avvocati». Non basta. Perché gli avvocati possono votare solo su materie secondarie. Sugli avanzamenti di carriera dei magistrati, invece, così come sui provvedimenti disciplinari e sui tanti incarichi extragiudiziari delle toghe, i legali né hanno accesso alle pratiche, né possono votare. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha messo mano a un provvedimento che vorrebbe dare più peso ai difensori. L’ipotesi nasce da un’idea di Giovanni Canzio, dallo scorso dicembre primo presidente della Corte di cassazione: Canzio vorrebbe dare diritto di voto almeno al presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, e attribuire loro maggiore interventismo nelle assemblee. L’8 ottobre Orlando si è detto favorevole alla proposta. Ma la magistratura associata ha subito alzato barricate, in particolare il gruppo che fa capo al presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo. Dalla sua corrente, Autonomia e indipendenza, è infatti partito un comunicato molto duro soltanto all’ipotesi che l’avvocatura contribuisca a produrre le valutazioni di professionalità dei giudici. La corrente di Davigo, addirittura, è arrivata a ventilare la possibilità di «infiltrazioni criminali» capaci di determinare «rapporti patologici» tali da rendere sconsigliabile, o meglio «impossibile», il diritto di voto degli stessi avvocati nei consigli giudiziari. In realtà, il voto degli avvocati (comunque minoritario) è un diritto sacrosanto. Ma il vero problema è un altro: il disegno di legge che riforma il processo penale, bloccato in Senato proprio per le contestazioni dei magistrati. Quel che Davigo & soci non riescono a digerire, in particolare, è l’articolo 18 della riforma, che prevede l’obbligo per i pm di «esercitare l’azione penale entro tre mesi dalla chiusura delle indagini preliminari», cioè la prima parte del procedimento, quella affidata alle sole mani del pm. Se non lo fanno, scatta il rischio di procedimenti disciplinari e dell’avocazione del fascicolo da parte della Procura generale. Questi nuovi procedimenti disciplinari, va da sé, partirebbero proprio dai consigli giudiziari. Ecco: mettete insieme questa innovazione con un incremento del potere degli avvocati nei consigli stessi, e otterrete qualcosa di simile alla nitroglicerina. Ricordate sempre, infatti, che negli ultimi dieci anni (tra 2005 e 2014) le prescrizioni sono intervenute in 1.454.926 procedimenti penali: ma in 1.028.685 casi, il 70,7 per cento del totale, la prescrizione è arrivata durante le indagini preliminari. Vogliamo mica metterci a lavorare, vero?

Il momento magico delle manette. Era un convegno sulla giustizia che si svolgeva, nella seconda metà degli anni 80, al tribunale di Roma con varie relazioni e tavole rotonde. Come sempre partecipavano magistrati e avvocati. Non me ne ricordo molto ma un episodio mi è rimasto impresso. In uno dei dibattiti a contorno di quelli più affollati e per così dire di cartello, si parlava dei consigli giudiziari, strutture di peso molto relativo, allora come oggi, nel nostro sistema giudiziario. Valse comunque la pena averlo seguito perché vi si verificò un incidente significativo quando, a proposito della possibilità di dotare di diritto di voto i pochi avvocati presenti in quei consigli che esprimono un parere, null’altro, sui magistrati, Marcello Maddalena, magistrato a Torino dove allora credo fosse giudice istruttore, si dichiarò assolutamente contrario con la seguente argomentazione: “Non scherziamo. Qua si sta proponendo di chiedere il parere su di noi ai rappresentanti dei delinquenti”. Naturalmente, e giustamente, gli avvocati insorsero e a me rimase impressa l’espressione del dottore Maddalena che si guardava in giro con l’aria di quello che si chiedeva: “E che avrò detto mai? Non è forse così?”. Il dottore Maddalena è ormai andato in pensione, da procuratore generale di Torino, ma sulla sua opera rimane un libro intervista, edito nel 1994, dove il magistrato evoca quello che chiama “il momento magico delle manette”. Chi lo intervistava era, naturalmente, Marco Travaglio. Fa riflettere che, a decenni di distanza, alle prese con la legge di riforma, il giudizio dell’Anm sui consigli giudiziari e non solo, non sia cambiato in nulla nella sostanza. Roma, 18 ottobre 2016 Massimo Bordin. Fonte "Il Foglio".

Grosso: «Cari magistrati il vostro dna non è superiore», scrive Errico Novi il 21 ottobre 2016 su “Il Dubbio”. «Bruno Tinti dice che gli avvocati sono per natura di parte e non possono valutare le toghe nei Consigli giudiziari? Ma allora dovrebbero starne fuori anche i pm, che pure sono una parte, nel processo... » Ci sono magistrati imperscrutabili e altri che conoscono il gusto dell'ironia. Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, appartiene alla seconda schiera, e ora che è in congedo dà l'impressione di essere molto a proprio agio con l'esercizio della provocazione intellettuale. «Conosco il dottor Tinti, posso dire che siamo amici», assicura Carlo Federico Grosso, figura di grande rilievo dell'avvocatura, a sua volta torinese e da anni editorialista della Stampa. Tinti invece ha invece una rubrica sul Fatto quotidiano e ieri ha spiegato perché secondo lui agli avvocati non può essere lasciato il diritto di votare, all'interno dei Consigli giudiziari, sulla professionalità dei magistrati: i primi, a suo giudizio, «hanno una struttura psicologica e professionale diversa» rispetto ai secondi. Il magistrato «è, per sua natura e professionalità, imparziale». Nel caso degli avvocati, «l'imparzialità non fa parte», addirittura, della loro «personalità».

Tinti scherza, vero professor Grosso?

«Ama le provocazioni, è fatto così».

E va bene, però un fondo di convinzione dev'esserci, e non solo in lui: sull'idea di dare maggior peso alla classe forense nei Consigli giudiziari, Davigo ha appena lanciato una crociata.

«Vorrei ricordare che nel Csm un terzo dei componenti è formato da professori universitari e avvocati: nessuno pensa che non siano in grado di valutare le situazioni. Io al Csm sono stato per 4 anni componente della sezione disciplinare, svolgevo cioè funzioni di giudice: non ho mai sentito dire che la mia formazione potesse impedirmi valutazioni imparziali. E non capisco cosa impedisca di estendere il principio costitutivo del Csm ai Consigli giudiziari».

Nell'opinione pubblica c'è un pregiudizio negativo sugli avvocati?

«Non credo. Magari non sarà la categoria che gode della maggiore popolarità, ma credo tutti riconoscano la peculiarità della funzione, che è nella tutela delle parti. Il carattere specifico dipende dal ruolo, non dal dna, come sembra pretendere Tinti. Non c'è un dna dell'imparzialità. Tinti mi perdonerà se rovescio il discorso».

In che senso?

«Se parliamo di imparzialità è il caso di distinguere tra magistrato e magistrato. E soprattutto, se davvero il ruolo creasse un'attitudine insuperabile, allora anche i pm dovrebbero essere considerati inattendibili: anche loro rappresentano una parte».

Massimo Bordin, conduttore della rassegna stampa di Radio Radicale, va oltre: anche il pm potrebbe 'ricattare' il collega giudicante, dirgli "mi esprimo a tuo favore in Consiglio se mi dai ragione in udienza".

«Ecco, credo il discorso si possa chiudere qui: mi pare chiaro che quella di Tinti fosse una provocazione, la tesi evidentemente non ha alcun fondamento. Tra l'altro si potrebbe ricordare che gli avvocati svolgono funzioni di giudice anche nei loro consigli di disciplina. Se valesse davvero il discorso dell'attitudine all'imparzialità, la giurisdizione domestica forense in materia disciplinare non dovrebbe esistere».

O bisognerebbe farla esercitare dai magistrati. La loro popolarità è in calo?

«Lo è rispetto a periodi, come quello di Mani pulite, in cui è stata straordinariamente elevata. C'è minore fiducia ma a causa del cattivo funzionamento della giustizia. Il cittadino si trova di fronte a un processo spezzettato, deve fare 5 ore di attesa per un rinvio, ovvio che abbia un risentimento esteso a tutte le componenti del sistema».

Perché i giudici scelgono come leader una figura dalle idee radicali, diciamo, come Davigo?

«Risposta facile: il successo della sua corrente deriva dal suo carisma. Ho grande stima di Davigo, persona di grande cultura e prodigiosa intelligenza».

Le correnti delle toghe dovrebbero essere fortemente ridimensionate?

«Originariamente rappresentavano diverse idee della giurisdizione. Magistratura democratica si distingueva perché orientata a forzature interpretative della legge ritenute utili ad accordarla con i cambiamenti della società. Oggi le correnti sono centri di potere, sarebbe importantissimo cambiare il sistema elettorale del Csm e rompere certi meccanismi di tipo clientelare».

E gli avvocati? Il loro numero elevato scalfisce il prestigio della professione?

«Può provocare un'esasperazione della concorrenza. Da cui viene, è inevitabile, anche un abbassamento della deontologia».

I puri siamo noi. Il comunicato di “Autonomia e Indipendenza”, corrente di riferimento del Dott. Davigo, Presidente di ANM, mostra, con le affermazioni in esso contenute, il suo volto autoritario e antidemocratico e una visione proprietaria della giustizia, dal quale ANM non ha preso le distanze e che, pertanto, dobbiamo ritenere condivida. Se il livello del confronto sulla politica giudiziaria deve affidarsi a enunciazioni ingiuriose e antistoriche secondo cui la “purezza” sarebbe un attributo esclusivo della magistratura, si comprende quanto questo sia basso e culturalmente inaccettabile. Se la politica non risponderà con fermezza e autorevolezza a questa provocazione, sarà l’Avvocatura a segnalare con un’azione decisa che il limite che separa la corretta dialettica sulle riforme dalla prevaricazione dei ruoli istituzionali è stato inammissibilmente valicato. Il comunicato di “Autonomia e Indipendenza”, corrente di riferimento del Dott. Davigo, Presidente di ANM, mostra, con le affermazioni in esso contenute, il suo volto autoritario e antidemocratico e una visione proprietaria della giustizia, dal quale ANM non ha preso le distanze e che, pertanto, dobbiamo ritenere condivida. Secondo ANM, dunque, ogni possibile riforma del processo penale deve avere la necessaria e ineludibile approvazione della Magistratura. Una posizione, questa, che, rivendicando in materia di prescrizione la necessità di riforme autoritarie e contrarie al Giusto Processo, già ritenute incongrue e dannose in sede di Commissione giustizia del Senato, tiene tuttora in scacco il Governo e l’intero Parlamento e mette in pericolo gli equilibri politici e istituzionali del Paese. La pietra dello scandalo e il motivo scatenante della rivolta alla approvazione del DDL governativo sta, tuttavia, in quella norma (l’art. 18) che impone ai magistrati il rispetto di termini precisi per il promuovimento dell’azione penale all’esito delle indagini preliminari. Una norma di civiltà e di buon senso, che va nella direzione di realizzare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, che viene vista dalla magistratura come una insopportabile ingerenza. Per ANM il processo è evidentemente il luogo ove la magistratura può esercitare un potere illimitato e dove un Pubblico Ministero insofferente a ogni regola decide in totale arbitrio, e come fosse affar suo, quali processi fare e quanto debbano durare. Insomma, il Pubblico Ministero diventa il dominus incontrastato delle scelte e della vita delle persone, che possono stare sotto processo per il tempo desiderato da chi accusa. Altrettanto gravi le prese di posizione sulle caute aperture alla ipotesi di una effettiva partecipazione degli avvocati all’interno dei Consigli Giudiziari; queste hanno innescato una reazione parossistica che denuncia ancora una volta come, per ANM, l’amministrazione della giustizia sia affare esclusivo dei magistrati, e che ogni valutazione di efficienza e di capacità degli stessi debba essere di esclusiva competenza interna. Una visione offensiva, paternalistica e obsoleta, della magistratura e dell’avvocatura, dipinge scenari di “scambio” che impedirebbero uno spazio valutativo disinteressato, ignorando del tutto che una Avvocatura moderna e matura esercita quotidianamente nelle aule dei tribunali giudizi di valore certamente indifferenti agli esiti dei processi. Una magistratura che formula simili obiezioni offende innanzitutto se stessa e propone in modo solare il proprio volto autoreferenziale, insofferente a ogni critica o contributo esterno. E offendono in maniera davvero intollerabile l’intera avvocatura penale quei giudizi gratuiti quanto insensati, con i quali si afferma l’esistenza di infiltrazioni criminali che determinerebbero “rapporti patologici” tali da rendere impossibile un diritto di voto degli stessi avvocati nei Consigli Giudiziari. Ricordiamo, in proposito, il tributo di sangue dei tanti avvocati vittime di quelle realtà criminali che nei territori più a rischio hanno pagato con la vita la difesa dei valori di legalità e di fedeltà propri della funzione difensiva. Ma tant’è. Se il livello del confronto sulla politica giudiziaria deve affidarsi a enunciazioni ingiuriose e antistoriche secondo cui la “purezza” sarebbe un attributo esclusivo della magistratura, si comprende quanto questo sia basso e culturalmente inaccettabile. Se la politica non risponderà con fermezza e autorevolezza a questa provocazione, sarà l’Avvocatura a segnalare con un’azione decisa che il limite che separa la corretta dialettica sulle riforme dalla prevaricazione dei ruoli istituzionali è stato inammissibilmente valicato. Roma, 13 ottobre 2016. La Giunta dell'Unione Camere Penali Italiane.

«Prendere a sberle i cittadini e impoverire gli avvocati», scrive Piero Sansonetti il 3 novembre 2016, su "Il Dubbio". La associazione dei magistrati è l'unico luogo dove non esiste il dissenso. O, comunque, non si manifesta. E così il suo presidente diventa sempre più estremista senza trovare oppositori. Nell'Anm, per ora, dilaga il silenzio. Non si è alzata ufficialmente neanche una voce contro il proclama del Presidente Davigo, il quale propone di educare gli italiani "a sberle" (citazione letterale dal suo discorso) e di dimezzare i redditi degli avvocati e anche il numero degli avvocati. Davigo evidentemente pensa che per mandare più gente possibile in prigione, la cosa migliore sia quella di fare in modo che gli imputati restino senza avvocati o comunque che debbano ricorrere ad avvocati malpagati, poco motivati, e possibilmente poco dotati, e dunque non in grado di dare fastidio ai Pm. Sono concetti non nuovissimi per il capo dell'associazione nazionale magistrati, e del resto non è nuova neppure la sua idea secondo la quale un paese come l'Italia è composto essenzialmente da mascalzoni e poi da un gruppetto esiguo di gente per bene la quale ha diritto ad essere protetta dai mascalzoni. Il problema - secondo la filosofia di Davigo - è che una selva di leggi complesse rende difficile la condanna di tutti i sospetti, e questi - che sicuramente sono colpevoli - quasi sempre la fanno franca. Se si riuscisse ad individuare un meccanismo per mandare in galera i sospetti, la società funzionerebbe molto meglio. L'ostacolo sono le leggi e la Costituzione, concepite a favore dei rei e non dei pochi Giusti. Forse ho schematizzato un po' troppo la posizione di Davigo, ma non credo di averla stravolta. Del resto lui stesso, nel libro scritto a quattro mani con il suo ex collega Gherardo Colombo, e in aperta polemica proprio col suo collega, si è dichiarato "giansenista", cioè seguace di quella setta religiosa che nel seicento - in contrasto con la Chiesa romana - proclamò la "colpevolezza" di tutti gli esseri umani, i quali nascono malvagi, e dei quali solo un ristretto gruppo si salva e si purifica attraverso la grazia regalata da Dio. La colpa, nell'ideologia giansenista e ora davighiana, è una caratteristica dell'essere umano. Un'impronta evidente e indelebile. Dunque non c'è nessun bisogno di dimostrarla. Casomai sta al sospettato dimostrare che lui invece ha ricevuto la grazia e fa parte della schiera piccolissima degli "innocenti". Sicuramente il giansenismo in salsa davighiana non ammette neppure l'ipotesi che tra "gli innocenti" possa esserci qualche politico (tranne, forse, Grillo...). In una breve nota, che pubblichiamo in prima pagina, Andrea Mascherin, che è il presidente degli avvocati italiani, ironizza sulle facoltà mentali di Davigo e sul suo equilibrio psichico. Difficile dargli torto. Probabilmente però il problema è ancora più grave. Non ci troviamo di fronte a una situazione eccezionale, dovuta al fatto che per "errore" i magistrati hanno eletto alla testa della propria associazione un estremista, o un reazionario d'altri tempi, o un professionista dall'equilibrio intellettuale assai incerto. Se fosse così, sarebbe ragionevole aspettarsi una rivolta almeno di una parte consistente dei magistrati italiani, indignata per le alzate d'ingegno del loro presidente. E invece, come si diceva all'inizio, per ora nell'Anm dilaga il silenzio. Ieri abbiamo ascoltato un collaboratore stretto di Davigo, e ci ha confessato di pensare anche lui che talvolta il suo presidente sbaglia i toni e le parole. E però ha confermato che i problemi che pone Davigo sono giusti e urgenti. L'impressione è che in una parte maggioritaria della magistratura italiana l'idea dominante sia esattamente quella che ci ha rivelato il collaboratore di Davigo. I toni son sbagliati ma la denuncia è giusta. E cioè, l'Italia soffre di un eccesso di diritti della difesa, gli avvocati sono l'espressione di questo eccesso, l'unica riforma giusta della giustizia è una riforma che riduca i diritti della difesa e lo faccia nel modo più semplice: ridimensionando in vari modi il mondo degli avvocati. Una società più giusta passa di qui: dal contenimento dei diritti, dal ridimensionamento della difesa e dunque dalla messa in mora dell'avvocatura. Non è una idea che vince solo in Italia. Oggi gli avvocati sono sotto tiro in molti paesi. In Turchia, per esempio, dove è in atto una svolta autoritaria. In Pakistan, dove - come abbiamo documentato nei giorni scorsi - sono stati uccisi 3500 avvocati, considerati un ostacolo alla vita ordinata di quella società. Davigo non è un frutto avvelenato: Davigo è l'espressione di una idea neo-autoritaria che è ben radicata nel mondo della magistratura e che sta conquistando posizioni vincenti in gran parte della politica, del giornalismo, dell'intellettualità, e in genere dell'opinione pubblica. Il pericolo di una involuzione non-democratica della società, e di una messa in discussione dello Stato di diritto, è squadernato di fronte a noi in modo assai chiaro. Per non vederlo bisogna essere ciechi, o fingersi ciechi. La battaglia non è tra Davigo e gli avvocati. E' tra l'ideologia delle sberle e l'ideologia dei diritti. Ed è una battaglia dalla quale dipende il futuro della nostra civiltà. Possibile che nella magistratura non esitano pensieri, idee, sentimenti, valori, che entrino in rotta di collisione col davighismo? E possibile che se esistono restino silenti? Non è così in nessun altro anfratto del potere. Matteo Renzi, che oggi è potentissimo, ha mezzo partito che gli grida contro. Silvio Berlusconi, che per 20 anni è stato il dominus della politica italiana, ha subito quattro o cinque scissioni. Persino Matteo Salvini ha nel suo partito ampie sacche di dissenso. Ed è così nelle scuole, nei giornali, nelle università, nei vertici delle imprese. Persino nella Chiesa, dove la fronda a Francesco è vasta e palese. Solo la magistratura fa eccezione? Chi dissente pensa che per ora sia opportuno tacere? Quando capirà che non è opportuno tacere, purtroppo, forse, sarà troppo tardi.

Sorpresa: la prescrizione la decide quasi sempre il pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato ieri sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento. Com'è noto, attualmente, nessuna sanzione è prevista per il Pm che ritarda la definizione di un suo fascicolo oltre il termine delle indagini preliminari. Anzi, la proposta di prevedere l'avocazione del procedimento da parte della Procura generale trascorsi 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, ha scatenato la rivolta dei pubblici ministeri. L'analisi riserva, poi, altre sorprese. Ad esempio una gestione degli affari penali a "macchia di leopardo". Se esistono uffici virtuosi, in cui la prescrizione è praticamente inesistente e tutti i procedimenti vengono definiti in tempo, di contro in molti tribunali tale istituto raggiunge percentuali veramente sorprendenti. Anche in questo caso, dunque, è molto difficile "scaricare" la responsabilità sull'indagato e sul suo difensore. Piuttosto è un problema di organizzazione dell'ufficio. E non di aree geografiche. Visto che si prescrivono, per fare un esempio, più reati a Parma che a Palmi. In conclusione, il danneggiato è sempre il cittadino che, purtroppo, paga sulla sua pelle le inefficienze del sistema.

La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. L’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula e il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile che grava sul cittadino, scrive Annalisa Chirico il 3 Novembre 2016 su “Il Foglio". Tribunale che vai, giustizia che trovi. L’incidenza della prescrizione nella fase predibattimentale, prima del processo, passa dal 40 percento di Torino allo 0,1 di Pordenone, dal 13,7 di Milano al 3,6 di Firenze, dall’8,5 di Bari al 9,9 di Barcellona Pozzo di Gotto (40 mila abitanti nel messinese…). Non va meglio a processo avviato: il divario di efficienza si contrae ed espande come una fisarmonica, dal 51 percento del tribunale di Tempio Pausania allo 0,2 di Aosta, dal 33,1 di Spoleto al 2 di Milano, con Salerno, Venezia e Palermo che oscillano tra i 13 e 14 punti percentuali. Sul territorio nazionale lo stato fornisce un servizio “a macchia di leopardo”, con differenze vistose e stridenti da ufficio a ufficio, a parità di norme e, in molti casi, di risorse. Sul sito web del movimento “Fino a prova contraria”, compare l’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula lo scorso maggio. Grafici e tabelle fotografano lo stato della prescrizione in Italia, un’autopsia fortemente voluta dal capogabinetto del ministero, il magistrato Giovanni Melillo. Notoriamente parco di esternazioni mediatiche, Melillo si lascia andare a un fugace commento: “Non contano le norme ma gli uomini”. E’ l’elemento umano, le “guarnigioni” di Karl Popper, a decretare lo iato di efficienza tra situazioni pure assimilabili per dotazione di organico e normativa vigente. Forse per questa franchezza assai poco corporativa dalle parti del Csm, che già una volta gli ha sbarrato la strada nella corsa a procuratore capo di Milano, il dottor Melillo non è amatissimo, additato piuttosto come archetipo della toga “collaborazionista”, sedotta dal potere politico. Dai dati ministeriali riaffiora l’eterno grattacapo: è giusto rimediare alla lentezza dei processi con l’allungamento ipertrofico della prescrizione? Il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile grava sul cittadino. E, come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la prescrizione è “un istituto di garanzia per il sistema. Ha senso condannare oggi per una corruzione commessa vent’anni fa?”. I tempi ragionevoli, questi sì che sarebbero una conquista di civiltà per innocenti e colpevoli. Secondo l’analisi ministeriale, negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40 percento, passando dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 a circa 132 mila nel 2014. Il 58 percento delle estinzioni per prescrizione avviene nella fase preliminare del giudizio, un ulteriore 4 percento delle sentenze dichiaranti l’avvenuta prescrizione sono emesse da gip e gup. Vi è poi un 19 percento di casi in primo grado, 18 percento in Corte d’appello mentre solo una volta su cento la prescrizione matura in Cassazione. En d’autres mots, nel 62 percento dei casi la prescrizione incombe prima del processo, nella fase delle indagini preliminari, quando il pm è dominus e l’avvocato è spettatore inerme. Il 62 percento è la riprova che l’obbligatorietà dell’azione penale resta una chimera: il pm decide discrezionalmente quali fascicoli far avanzare e quali abbandonare lungo il sentiero dell’estinzione per decorrenza dei termini. L’appello rappresenta la fase con l’incidenza più elevata, tra il 2014 e il 2015 si è registrato un consistente calo delle prescrizioni in Cassazione. Quanto alle categorie di reato, nel 2014 quelli legati alla circolazione stradale presentano il maggior tasso d’incidenza, lo scorso anno invece primeggiano i reati legati al traffico e consumo di stupefacenti, seguiti da quelli contro il patrimonio. L’incidenza della prescrizione sui definiti si attesta all’1,3 per i reati di violenza sessuale, al 5,6 per i reati ambientali, al 5,9 per lesioni e omicidi colposi, al 9,1 per i reati di truffa, al 12,5 per i reati contro la Pubblica amministrazione. Su base geografica l’incidenza della prescrizione sulle definizioni nelle corti d’appello spazia dal 48 percento di Venezia al 12 percento di Milano. Napoli, Reggio Calabria e Caserta si stagliano al di sopra della media nazionale. Sassari, Catanzaro, Potenza e Messina viaggiano al di sotto. Nel penale, su cento procedimenti 9,5 si prescrivono, tra questi 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Tribunale che vai, giustizia che trovi. Nella speranza che giustizia sia.

Stop alla devastazione giornalistica nei confronti degli imputati, scrive Ruben Razzante, docente diritto d’informazione, il 13 ottobre 2016. Nessuno fa rispettare il codice di autoregolamentazione AGCOM e nessuno si indigna di fronte alla devastazione mediatica della dignità dei soggetti indagati o imputati. L’assoluzione dei tribunali diventa una magra consolazione per quanti hanno visto distrutta, nel frattempo, la propria immagine pubblica a causa di una vera e propria barbarie mediatica. La giustizia può sbagliare, i giudici sono esseri umani ed è per questo che il sistema giudiziario prevede tre gradi di giudizio affinché possa esserci la dovuta ponderazione prima di una sentenza che rischia di mettere in gioco la libertà personale e la dignità di un imputato. Questo sacrosanto principio in Italia si depotenzia un po’, sia per i numerosi casi di giustizia politicizzata – peraltro ammessi nei giorni scorsi dallo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando – sia per la piaga dei cosiddetti “processi mediatici”. Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una successione di assoluzioni di personaggi politici accusati di vari reati e sottoposti a quella che comunemente viene definita gogna mediatica. Alemanno, Bertolaso, De Luca, Podestà e, da ultimo, Marino e Cota: tutti esponenti di primo piano, ai vertici di città-capoluogo o di province o di regioni, prima costretti a uscire di scena, ora scagionati da ogni addebito. Solo il governatore campano De Luca è ancora in sella, peraltro in un ruolo di maggiore responsabilità istituzionale (all’epoca dei fatti contestatigli 18 anni fa era sindaco di Salerno). Si tratta di vicende giudiziarie assai diverse l’una dall’altra, anche per colore politico, ma accomunate da un elemento tutt’altro che irrilevante: il cortocircuito tra le inchieste e la mediatizzazione dell’attesa di una sentenza, che si è trasformata negli anni in un calvario mediatico. In un momento in cui il governo Renzi sembra aver accantonato i buoni propositi di mettere mano alla riforma della giustizia perché teme di non avere il consenso necessario per condurla in porto, storie come quelle di Marino, De Luca, Bertolaso o Cota ci confermano quanto siano a rischio le nostre libertà democratiche, tra cui il diritto sacrosanto di non rimanere illimitatamente stritolati nel tritacarne mediatico per poi uscirne puliti ma devastati umanamente e sul piano reputazionale. I più importanti quotidiani italiani spesso si trasformano in plotoni d’esecuzione, gli studi televisivi in ring dove si combattono veri e propri incontri di “pugilato verbale” tra innocentisti e colpevolisti. Sono i cosiddetti “processi mediatici”, vietati da un codice di autoregolamentazione proposto dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e sottoscritto nel maggio 2009 da tutte le emittenti radiotelevisive, dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi e da tutti i soggetti coinvolti nella filiera informativa. Nessuno, però, lo fa rispettare e nessuno si indigna di fronte alla devastazione mediatica della dignità dei soggetti indagati o imputati. L’assoluzione dei tribunali diventa una magra consolazione per quanti hanno visto distrutta, nel frattempo, la propria immagine pubblica a causa di una vera e propria barbarie mediatica.

«Carrierismo e populismo, i mali della magistratura», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Edmondo Bruti Liberati attacca «il rivendicazionismo spicciolo e corporativo che prevale nell'Anm». Meritano di essere segnalati, da parte delle toghe di sinistra, due assist contro il "correntismo" e la "deriva corporativa" in magistratura. Segno evidente che l'attuale degenerazione del sistema non è una semplice invenzione ma un problema molto serio che necessita di interventi urgenti e tempestivi. Il primo attacco proviene direttamente da parte dell'ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, già esponente di spicco di Magistratura democratica, presidente dell'Anm e membro del Csm. Il secondo, invece, dal coordinamento nazionale di "Area", l'alleanza tra le toghe di Md e di Movimento per la giustizia. Bruti Liberati, l'altro giorno, in occasione della consegna di un premio alla Statale di Milano, ha affermato che nell'Anm "sembrano prevalere la chiusura corporativa, il rivendicazionismo spicciolo e l'atteggiamento spocchioso del porsi come unica istituzione sana del Paese". Rincarando la dose, "se il populismo della politica è il male, quello giudiziario è pessimo". Una dura critica contro l'idea, fatta propria anche da alcune toghe, che la magistratura "non svolga una funzione ma rappresenti uno dei poteri dello Stato". Sul punto, Area, lo scorso fine settimana, ha tenuto a Roma l'assemblea nazionale, votando all'unanimità una mozione impegnativa e dirimente. Che, di fatto, mette in evidenza quello che in molti pensano, in particolare per le nomine dei direttivi. E cioè che dietro certe scelte, al posto del merito, si nascondano "scambi" fra correnti. Infatti, come riportato nel documento finale, "il correntismo è una degenerazione che deriva dalla perdita da parte dei gruppi della magistratura associata della capacità di elaborazione politica e della capacità di assumere con coerenza la responsabilità delle proprie scelte". A tal riguardo, "Area pretende da tutti i propri associati - e dunque sia dai rappresentanti negli organi di governo autonomo che dai rappresentati - coerenza e responsabilità identiche ed esige che ciascun associato si astenga dal porre in essere condotte di tipo clientelare". Ed anzi, "chiede ai propri rappresentanti nel Csm l'assoluta trasparenza delle scelte e il massimo impegno nel comunicarne e spiegarne le ragioni". Nelle nomine dei direttivi, quindi, "Area afferma la centralità della questione morale e rifiuta categoricamente la logica della spartizione e dello scambio. Auspica che sia prevista nella normativa secondaria la massima pubblicità degli atti e dei documenti prodotti dai candidati". Altro argomento scottante, i "fuori ruolo". Gli incarichi svolti dai magistrati lontani dalla giurisdizione e da sempre considerati un approdo per le toghe "carrieriste". A tutela dell'immagine di indipendenza della magistratura, prosegue Area, "riteniamo non si debba poter attribuire prevalenza, in sede comparativa, all'esperienza che un magistrato abbia maturato ricoprendo un incarico fuori ruolo di scelta prettamente politica o che faccia apparire l'aspirante 'vicino' alla politica". Sia Bruti Liberati che Area, dopo l'affondo, propongono una possibile soluzione a queste storture. Basata, anche, sulla condivisione e sul sostegno dell'avvocatura. "L'attuale sistema delle valutazioni di professionalità - prosegue Area - si è risolto in una burocratica standardizzazione dei giudizi, che favorisce la gerarchizzazione degli uffici e fomenta il carrierismo. Considera perciò necessaria una rivisitazione del sistema, che valuti il magistrato tenendo conto della concreta situazione in cui è chiamato ad operare: dunque non solo come singolo, ma come parte di un ufficio". E, dunque, "l'ampliamento delle fonti di conoscenza, anche valutando la possibilità di contributi degli Uffici giudiziari in grado di fornire informazioni utili". Pertanto, come auspicato anche dal ministro Andrea Orlando e su cui Area, a differenza di altri gruppi associativi, non era contraria in maniera preconcetta. Potrebbe essere d'aiuto ad evitare questa autoreferenzialità correntizia la partecipazione di esponenti dell'avvocatura all'interno dei Consigli giudiziari. Una apertura di credito su cui, però, la base della magistratura non intende cedere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

PARLIAMO DELLE CELLE ZERO.

«Chiudete le celle “lisce”». Il Dap interviene su Ivrea, scrive Damiano Aliprandi l'1 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". Il caso sollevato dopo gli episodi di violenza, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, denunciati da un detenuto. «Si prega di inibire l’uso della stanza detentiva denominata “cella liscia” posta al reparto isolamento». Così il capo del Dap Santi Consolo scrive nella lettera indirizzata alla direttrice del carcere di Ivrea. Ma non solo. Ordina anche la chiusura della sala d’attesa per le visite mediche che veniva utilizzata come una seconda “cella liscia”. Infatti ha disposto di «interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche fino al ripristino delle necessarie dotazioni, e di assicurare, terminati gli interventi di adeguamento, che il suo uso sia realmente limitato a brevissimi archi temporali e per le sole esigenze per le quali è stata prevista». Il provvedimento del Dap dà atto dell’esattezza del rapporto sul carcere di Ivrea del Garante nazionale dei detenuti, dopo le denunce, anticipate da Il Dubbio, degli episodi di violenza. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Questi episodi sono stati riscontrati non solo dalla delegazione del Garante nazionale, ma anche dalla visita ispettiva da parte del provveditorato regionale effettuata il 16 dicembre scorso. Sempre Santi Consolo, con riferimento del rapporto del provveditorato, scrive che «ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria, la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni detenuti coin- volti nei disordini – alcuni dei quali erano visibilmente atroci – possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria volto a contenere le resistenze durante il tragitto di accompagnamento degli stessi dalla sezione del quarto piano, ove erano collocati, al piano terra». Intanto, per ordine del Dap, le due stanze utilizzate come celle di isolamento vengono chiuse. Nel frattempo la direzione del carcere, nel caso della cella liscia chiamata dai detenuti “l’acquario”, ha assicurato di provvedere al rifacimento del bagno, eliminando la cosiddetta turca, al risanamento della finestra volta ad areare il locale, nonché alla tinteggiatura della stanza liscia e all’inserimento dei suppellettili. Quanto alla sala d’attesa dell’infermeria utilizzata come seconda “celle liscia”, la direzione del carcere ha promesso che farà riaprire il finestrotto per far circolare l’aria e ripristinerà il termosifone. Tale stanza – come ha stabilito il Dap -, una volta ristrutturata, verrà utilizzata per tempi assolutamente brevi e strettamente funzionali alle esigenze per le quali è stata prevista. Santi Consolo evidenza nella lettera indirizzata al ministero della Giustizia che «sarà cura del provveditorato regionale – che già nel mese di luglio 2016 aveva sensibilizzato le direzioni del suo distretto di competenza ad assicurare che la sanzione dell’isolamento avvenga in luoghi idonei, decorosi e non, come talvolta accade, privati di ogni minima suppellettile, fatto che pone o rischia di aggravare uno stato di reattività o peggio depressivo – programmare, con i fondi del 2017, la ristrutturazione dei locali segnalati».

Poggioreale, prime crepe nel muro della «cella zero». Giustizia. La procura di Napoli invia l’avviso di conclusione delle indagini a 22 poliziotti penitenziari e a un medico. Le violenze subite dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Tra venti giorni si deciderà l’eventuale rinvio a giudizio. E c’è il rischio di prescrizione dei reati, scrive Eleonora Martini su “Il Manifesto” il 13.08.2016. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: è ampio il ventaglio di reati ipotizzati dalla procura di Napoli nell’inchiesta sui maltrattamenti subiti da alcuni detenuti nel carcere di Poggioreale, anche nella cosiddetta «cella zero». Non tutti saranno eventualmente oggetto di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, ma per intanto i magistrati hanno recapitato l’avviso di chiusura delle indagini a 22 agenti di polizia penitenziaria e a un medico. Tra venti giorni, preso atto delle controdeduzioni presentate nel frattempo dalla difesa, che conta di poter dimostrare l’«infondatezza» delle accuse, il pm Alfonso D’Avino, che coordina le indagini condotte dai procuratori aggiunti Valentina Rametta e Giuseppina Loreto, deciderà se e per quali reati chiedere il rinvio a giudizio di alcuni o di tutti gli indagati. I fatti risalgono ad un arco di tempo che va dal 2012 al 2014. Fu Adriana Tocco, garante dei detenuti della Campania, a raccogliere le prime due denunce di maltrattamenti subiti nel carcere che diedero l’avvio all’attuale inchiesta giudiziaria. La prima vittima attese la fine della pena, prima di decidersi a parlare, nel gennaio 2014. «Era un uomo molto mite, sebbene avesse commesso un reato di frode finanziaria – racconta al manifesto Adriana Tocco -, mi raccontò per filo e per segno ciò che gli fece un poliziotto, senza alcun motivo». Da allora sono diventate 150 le denunce di sevizie, maltrattamenti, a volte vere e proprie torture, perpetrate negli anni. Fu così che si scoprì la presenza, a Poggioreale, – in realtà antica di oltre un ventennio, come denunciò per primo, nel 2012, Pietro Ioia, attivista per i diritti dei reclusi e presidente dell’associazione degli ex detenuti napoletani – della cosiddetta «cella zero», una stanza vuota posta al piano terra, senza videosorveglianza, sporca di sangue sulle pareti, dove si sarebbero consumati i pestaggi. Il 28 marzo 2014, poi, una delegazione della Commissione libertà civili del parlamento europeo, dopo aver audito formalmente l’associazione Antigone, ispezionò il penitenziario napoletano. In seguito alla visita, l’allora direttrice Teresa Abate venne trasferita ad altro incarico, sostituita con l’attuale dirigente, Antonio Fullone, così come il comandante della polizia penitenziaria. «Da allora – racconta ancora Adriana Tocco – non ho più ricevuto denunce di maltrattamenti. Poche settimane fa, a fine luglio, sono stata in visita di nuovo a Poggioreale per accertarmi della veridicità di alcune lettere ricevute dal garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Ho parlato a lungo con i carcerati e ho potuto verificare che quel tipo di violenze sono terminate». «Ci auguriamo – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – che si arrivi presto ad appurare eventuali responsabilità senza che, nel caso di colpevolezza degli indagati, intervenga la prescrizione come già avvenuto in altri casi simili». Un rischio concreto, innanzitutto perché dai primi casi di violenza sono già passati quattro anni, ma soprattutto perché, come spiega ancora Gonnella, «in mancanza del reato di tortura, al di là del fatto che possa essere effettivamente stato commesso o meno, vengono ipotizzati reati per i quali sussiste il rischio della prescrizione e quindi dell’impunità». Motivo per il quale l’associazione Antigone chiede «che non si perda ulteriormente tempo e che a settembre il Parlamento ricalendarizzi la discussione e approvi la migliore legge possibile per introdurre nell’ordinamento italiano il reato di tortura». Ma al di là dei reati eventualmente commessi da alcuni poliziotti penitenziari, rimane la questione aperta dell’isolamento, regime disciplinare dove, fa notare Antigone, «più facilmente, possono avvenire violenze» e che «rappresenta una soluzione particolarmente afflittiva che spesso induce i detenuti ad atti di autolesionismo e a suicidi». Per questo Antigone ha presentato recentemente una proposta di legge per riformare l’applicazione del regime di isolamento, «invitando i parlamentari della Commissione Giustizia di Camera e Senato a farla loro». Rimane comunque il fatto che la cosiddetta «cella zero» non è contemplata da alcun regolamento penitenziario, e che la sua presenza, all’interno delle mura di molti penitenziari, non solo quello partenopeo, è stata negata per decine di anni.

Così si muore nelle “celle zero” italiane. Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino il 15 febbraio 2014 su "Il Corriere della Sera". Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Le celle zero sono in ogni carcere, scrive il 19 febbraio 2015 Davide Rosci su "Popoffquotidiano". Si vive in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano. Bisogna raccontare tutto perché il silenzio è il loro miglior alleato. La rivista Internazionale racconta la cella zero di Poggioreale. Purtroppo non si tratta di una realtà circoscritta a quel carcere. Io sono stato messo in isolamento al famigerato Mammagialla di Viterbo dove la cella era di 6 mq scarsi sotto uno scantinato buio stile film Saw (per intenderci la finestra era all’altezza della strada), l’ambiente era sudicio al massimo, lo sporco ovunque, il materasso in spugna puzzava di piscio ed era tutto rotto, il cuscino sempre in spugna mi è stato dato a metà perchè bruciato, la porta del bagno non c’era, l’acqua non era potabile e in 5 giorni non me l’hanno detto, i termosifoni non funzionavano e dalle finestre entravano gli spifferi d’aria gelata. Si stava ad una temperatura di 2 gradi. La notte ho dormito all’addiaccio con indosso tutti i vestiti che mi avevano lasciato, compreso il giubbotto, perchè le mie cose erano in un altro stanzino. Ho sofferto il freddo come non mai. Il cibo che mi veniva passato era scondito e la carne puzzava di morto. Per un mese ci hanno fornito due rotoli di carta igienica della peggiore qualità. L’acqua c’era solo in determinate ore della giornata e come detto non era potabile perchè contenente l’arsenico. Il passeggio ci veniva negato e comunque era da soli in un tugurio/corridoio di 10 mq. Le docce non avevano la luce e ci era consentito farla per poco tempo, tutto era allagato e pieno di muffa. Ricordo sui muri il sangue ovunque e le frasi di misericordia, rabbia e preghiere dei poveri cristi che come me avevano avuto la sventura di entrare lì sotto. Nella cella vicino alla mia c’erano due ragazzi che stavano scontando il 14 bis e per loro il mio cuore ancora piange. Praticamente dovevano passare 6 mesi lì sotto nelle condizioni che vi ho descritto perdipiù senza tv e possibilità di uscire e avere colloqui regolari con i propri cari. Vivevamo in una tomba. Questo è il sistema carcerario italiano…bisogna raccontare tutto perchè il silenzio è il loro miglior alleato.

TANGENTOPOLI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

Quando Di Pietro faceva gli interrogatori “di massa”, scrive Francesco Damato l'1 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Mi sono sempre chiesto se Antonio Di Pietro sia stato più bravo come commissario di polizia che come magistrato, pur avendogli dato più celebrità la toga, dismessa il 6 dicembre 1994. Durante Mani Pulite, dato il grande numero di indagati, Di Pietro aveva allestito una specie di catena di montaggio per interrogarli. Quando Di Pietro faceva gli interrogatori “di massa”. Mi sono sempre chiesto se Antonio Di Pietro pre-politico sia stato più bravo come commissario di polizia che come magistrato, pur avendogli dato sicuramente più celebrità e soddisfazione la toga, dismessa improvvisamente il 6 dicembre 1994 per ragioni sulle quali si sono dette e scritte le cose più diverse, senza che si sia mai venuti a capire gran che. Per cui, anche per evitare querele alle quali egli è facile ricorrere, conviene attenersi alla spiegazione dell’interessato: di essersi stancato ad un certo punto di venire “strattonato” da tutte le parti e di avere voluto liberare i colleghi della Procura milanese guidata da Francesco Saverio Borrelli dal rischio di procedere nelle loro indagini sul finanziamento illegale della politica in un clima disturbato dalle polemiche sulla sua persona. La voglia di capire se “Tonino”, come Di Pietro viene chiamato dagli amici, sia stato più bravo come commissario o come magistrato inquirente mi è tornata irresistibile leggendo l’altro ieri sul Dubbio il resoconto fatto da Giovanni M. Jacobazzi di una celebrazione a Merate, vicino Lecco, dei 25 anni trascorsi dall’esplosione delle indagini Mani pulite. Così si chiamò ed è rimasta famosa nella storia giudiziaria l’inchiesta arrivata sulle prime pagine dei giornali il 18 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano sorpreso a riscuotere la sera prima una tangente da una ditta delle pulizie. Fu la scoperta di Tangentopoli. Affiancato dagli ex colleghi della Procura milanese Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, ora presidente uscente dell’associazione nazionale dei magistrati, Di Pietro ha confermato e illustrato una scena del film di Sky su Mani pulite che molti telespettatori hanno forse attribuito alla immaginazione, appunto, dello sceneggiatore. Dato il grande numero di indagati, Di Pietro aveva allestito una specie di catena di montaggio. Ne raccoglieva in una stessa stanza undici alla volta, collocati in altrettante postazioni fra le quali lui si spostava per completare o avviare, secondo i casi, l’attività della polizia giudiziaria. Ma più ancora delle undici postazioni per altrettanti interrogatori contemporaneamente, mi ha colpito il trucco, l’espediente, chiamatelo come volete, cui lo stesso Di Pietro ha confessato di avere fatto ricorso per vincere le prevedibili resistenze degli indagati ad ammettere le loro responsabilità e a svelarne magari altre, consentendo l’apertura di nuovi percorsi agli inquirenti. Quel diavolo di “Tonino” all’occorrenza aumentava artificialmente la consistenza dei fascicoli, o faldoni che li raccoglievano, imbottendoli di giornali o di carta straccia. Come si fa con le borse quando vengono esposte sugli scaffali di vendita perché rimangano ben gonfie e capaci. A vedere quella montagna pur farlocca di carte, scambiandola per un enorme materiale probatorio raccolto dagli inquirenti, ci poteva essere – e probabilmente ci fu qualche inquisito crollato di suo, prima ancora che Tonino o altri lo incalzassero con le loro domande, dopo essersi magari limitati a dire: «Ormai sappiamo tutto». E così l’interrogatorio poteva trasformarsi persino in una lunga, incontenibile, fluviale confessione, superiore ad ogni attesa. Non dimentichiamo che in quei mesi e in quegli anni gli avvocati spiegavano ai loro clienti più ansiosi, peraltro basandosi su dichiarazioni pubbliche degli stessi magistrati, l’alto rischio di finire in manette già durante le indagini preliminari se non riuscivano a convincere gli inquirenti o di essere davvero estranei alla pratica diffusissima delle tangenti, in uscita o in entrata, o di avervi disgraziatamente partecipato decidendo però di tirarsene fuori davvero. Che significava dimostrare con opportune rivelazioni di non volere più coprire o proteggere nessuno con comportamenti omertosi. Sono rimasti purtroppo celebri, a questo proposito, i passaggi più drammatici della lettera scritta dal carcere alla moglie dall’ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari prima di uccidersi infilando la testa in una busta di plastica. Il povero Cagliari, deluso da una mancata scarcerazione che riteneva gli fosse stata invece promessa dopo l’ennesimo interrogatorio, si era drammaticamente convinto che inquirenti e giudici lo volessero lasciare in carcere, magari muovendogli altre imputazioni, fino a quando non fossero riusciti a sentirsi dire da lui ciò che si aspettavano. Quel suicidio sorprese e addolorò per primo – va riconosciuto – proprio Di Pietro, colpito anche dalla decisione dell’indagato Raul Gardini di uccidersi in quegli stessi giorni dell’estate del 1993 a casa sua, a Milano, nella convinzione che non potesse uscire libero da un interrogatorio che lo attendeva di lì a poco. Scoppiarono polemiche giustamente furibonde. Anche alcuni giornalisti entusiasti della “rivoluzione” di Mani pulite, e dei cortei che sfilavano per le strade di Milano con uomini e donne in maglietta bianca che chiedevano ai magistrati di farli ancora e sempre più “sognare”, ebbero momenti di dubbio e di sconcerto. Ma durò poco. Gli umori tornarono subito giustizialisti, cioè favorevoli più all’accusa che alla difesa degli imputati. Di questo ritorno al giustizialismo, se mai qualcuno se ne fosse ritirato davvero, si ebbe la prova nell’estate successiva, quando il primo governo di Silvio Berlusconi, arrivato inaspettatamente a Palazzo Chigi all’esordio della sua avventura politica, adottò un decreto legge per limitare il ricorso alle manette nella fase delle indagini preliminari. Per quanto prontamente firmato dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, non certamente sospettabile di scarse simpatie per i suoi ex colleghi magistrati o di scarso interesse alle loro esigenze di lavoro, quel decreto provocò il finimondo nella Procura di Milano. Di Pietro e gli altri inquirenti chiesero, per protesta contro le nuove misure, di essere destinati ad altri compiti. I leghisti si dissociarono dal provvedimento, per quanto firmato anche dal loro Bobo Maroni, ministro dell’Interno, sostenendo di non averlo ben compreso, o di averlo trovato sulla Gazzetta Ufficiale diverso dal previsto. E a Berlusconi non restò che piegarsi rinunciando alla conversione per accontentarsi delle scarcerazioni nel frattempo eseguite. Egli non volle anticipare all’estate la crisi che i leghisti gli avrebbero però procurato ugualmente alla fine dell’anno su altri versanti. Ma torniamo alla storia della catena di montaggio, per quanto metaforica, degli interrogatori in Procura raccontata con baldanza e divertimento da Di Pietro celebrando a Merate le nozze d’argento di Mani pulite con gli italiani. Non credo proprio che “Tonino”, convinto della sua buona fede nella ricerca della verità come inquirente, possa o debba offendersi se gli dico che quelle undici postazioni per gli interrogatori e soprattutto quei fascicoli gonfiati ad arte, con giornali e carta straccia, mi sono apparsi più da commissario di polizia che da magistrato. Ma quella storia, che ad occhio e croce doveva comportare anche verbali d’interrogatorio di più persone redatti e firmati dallo stesso o dagli stessi magistrati alla stessa ora dello stesso giorno, o quasi, mi riporta alla mente pure ciò che in quegli anni mi raccontò l’allora vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il mio amico Giovanni Galloni. Che era assediato, diciamo così, da altri amici e colleghi di partito che si lamentavano con lui del trattamento ricevuto persino da familiari incorsi a Milano sotto le lenti giudiziarie. Galloni mi parlò, fra l’altro, proprio di più verbali milanesi redatti alla stessa ora, ma a volte persino svoltisi in luoghi diversi, su cui era prevedibile l’interessamento del Csm. Ma poi non se ne fece o non se ne seppe più niente. Mentre fece invece un rumore enorme il 6 dicembre 1994 il già ricordato annuncio delle dimissioni di Antonio Di Pietro dalla magistratura.

 “Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds” di Ferdinando Cionti. Ferdinando Cionti, avvocato, incaricato dall’allora Presidente Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool Mani pulite, ricostruisce gli avvenimenti di quegli anni e giunge alla conclusione che venne effettuato un vero e proprio colpo di Stato, con il quale si modificarono i rapporti costituzionali tra magistratura e politica, instaurando una egemonia della magistratura, tuttora vigente. L’intelligenza dell’analisi e la sincera passione civile che animano queste pagine siano per i lettori un’occasione per conoscere più approfonditamente i fatti e valutarli sotto il profilo giuridico – oltre che politico, com’è avvenuto prevalentemente finora – anche per inquadrare correttamente le vicende dei nostri giorni.

Ferdinando Cionti è avvocato a Milano ed è stato professore a contratto di Diritto Industriale per il Management presso l’Università di Stato di Milano Bicocca, facoltà di Economia, dipartimento di Diritto per l’economia. La sua concezione del diritto è sintetizzata nel saggio "Per un ritorno alla certezza del diritto", pubblicato su Libertates. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui "La funzione del marchio" e "Sì Logo" (Giuffrè). Per LibertatesLibri è uscito "Il colpo di Stato", presente nello Store di Libertates. Quale collaboratore dell’ “Avanti”, ha seguito quotidianamente le vicende di Mani Pulite.

Le critiche sollevate dalla Magistratura alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta su Tangentopoli, sono compendiate in questa dichiarazione del giudice milanese Claudio Castelli, vicepresidente dell'Associazione nazionale magistrati, scrive Ferdinando Cionti. "Come associazione nazionale magistrati, ci preoccupano invece alcuni passaggi della legge istitutiva, che rendono concreto il rischio di uno sconfinamento istituzionale: la commissione su Tangentopoli non può diventare una sorta di quarto grado di giudizio. Il problema proprio questo: un'indagine politica strumentalizzata per delegittimare la magistratura. Si tratta di critiche generate da veri e propri equivoci, che vanno chiariti. Innanzitutto le conclusioni della Commissione Parlamentare d'Inchiesta non potranno mai concretarsi in "una sorta di quarto grado di giudizio", posto che in ogni caso le sentenze restano quelle che sono. Non che la Commissione possa riformare o annullare questa o quella sentenza. Potrebbe, per esempio, rilevare che le due sentenze definitive di condanna di Craxi sono state emesse in applicazione di norme processuali riconosciute poi ingiuste, tant' che si approvata la riforma costituzionale del giusto processo..."

Così nacque il patto segreto che legò i giudici e la sinistra. Il saggio di Ferdinando Cionti spiega perché "Mani pulite" non toccò i leader del Pds e quali furono le conseguenze, scrive Dario Fertilio, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale". Colpo di Stato fu, e non solo giudiziario: la matrice di Tangentopoli fu anche politica. Si basò, secondo Ferdinando Cionti, sul patto d''acciaio fra il Pool di Mani Pulite e un partito dai molti nomi: Pci/Pds/Ds/Pd. In un saggio precedente, Il colpo di Stato (edito da LibertatesLibri, come quello che ora ne è il proseguimento, Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds, pagg. 230, euro 12), il giurista aveva smontato l'ingranaggio dell'inchiesta condotta fra il '92 e l'anno successivo. Secondo la sua analisi Borrelli, Di Pietro & C. erano responsabili di una serie di illegalità, tra le quali ripetute violazioni dell'articolo 289 del codice penale (attentato contro gli organi costituzionali). In particolare avevano fatto cadere la nomina di Bettino Craxi a presidente del Consiglio: al vertice dello Stato, Scalfaro, informato dai giudici di Mani Pulite, aveva preso atto delle indagini segrete in corso e aveva ripiegato su Giuliano Amato. Ne conseguiva che un pubblico ministero aveva condotto indagini illegittime contro Craxi, interferendo nella nomina del Presidente del Consiglio, scavalcando l'esito delle elezioni, il Parlamento, e limitando lo stesso potere del Presidente. Ma in che senso le indagini del Pool erano state illegittime? Per molti motivi. La scintilla dell'inchiesta, cioè l'arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, era scoccata in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro aveva «inventato» l'esistenza di un reato per il quale è consentita l'intercettazione telefonica. Anche il conferimento dell'inchiesta a Di Pietro era stata irregolare: lui stesso per l'«operazione Chiesa» aveva concordato con la polizia giudiziaria una data in cui era di turno, in modo da farsi assegnare il processo. Ancora, nei confronti di Mario Chiesa, Di Pietro aveva dimenticato deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Il che gli aveva consentito di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le confessioni erano il risultato di una procedura illegale basata sullo choc indotto da carcere e manette. Non basta: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di condurre intercettazioni illegali, aveva ideato un altro trucco, applicando alla sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o armi. Così aveva scavalcato il ministro della Giustizia, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando i rapporti fra magistratura ed esecutivo.

Non basta? Si consideri allora che il Pool aveva inventato la «dazione ambientale», un reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati è sempre possibile. Effetto: veniva fatto capire all'indagato che la sua permanenza in carcere poteva durare all'infinito. Un metodo infallibile per farlo passare dalla confessione dei propri reati alla delazione di quelli altrui. Nel caso di Chiesa, aveva anche uno scopo politico: far sì che alla fine venisse chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del partito dei giudici dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si era schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ma soprattutto le indagini sull'odiato cinghialone erano avvenute in violazione dell'articolo 335 del codice di procedura penale, segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono al massimo sei mesi di indagini, in modo da non chiedere l'autorizzazione a procedere nei confronti del parlamentare Craxi. Di qui gli attacchi del Pool all'articolo 68 della Costituzione appunto sulla autorizzazione a procedere (che aveva lo scopo di mantenere indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo dal giudiziario).

Ecco le conclusioni di Cionti: il Pool guidato dal procuratore Borrelli aveva bisogno di un alleato per ottenere l'abolizione dell'immunità parlamentare e sanare a posteriori i più gravi reati commessi. Questo alleato fu l'allora Pds, mortalmente minacciato dal crollo dell'Urss, e disposto ad accordarsi con Craxi pur di entrare nell'Internazionale socialista. Temendo che il suo disegno egemonico ne venisse bloccato, il Pool offrì al partito di Occhetto la distruzione di Craxi e del Psi, in modo che il Pds potesse prenderne il posto. Ecco il motivo dell'annullamento all'ultimo momento, da parte dei post-comunisti, del documento che avrebbe dovuto sancire nel 1992 «l'intesa fra tutte le forze di progresso», cioè l'alleanza col Psi. Ecco perché l'inchiesta riguardò solo esponenti marginali o miglioristi del Pds. E perché le migliaia di manifestanti spontanei in favore di Mani Pulite e contro Craxi furono quasi tutti militanti di quel partito. E come mai, in seguito ai segnali intermittenti e inquietanti che aveva ricevuto dai giudici su quel che stava accadendo, ci furono le improvvise dimissioni di Cossiga dal Quirinale. Su questo sfondo si legge lo svuotamento della autorizzazione a procedere e la nascita del patto d'acciaio fra sinistra e partito dei giudici, ormai inossidabile. Svuotamento di fatto che diventava di diritto, con la riforma dell'articolo 68 della Costituzione, resa possibile dall'incalzante iniziativa del Pds che pagava in tal modo la sua salvezza; e, parallelamente, dalla pressione esercitata dal Pool con le sue azioni giudiziarie nei confronti dei parlamentari della maggioranza, in violazione proprio dell'articolo 68. Così cambiavano i rapporti tra i poteri dello Stato, poiché parlamento e governo risultavano subordinati al potere coercitivo della magistratura. E poiché il potere coercitivo è l'essenza della sovranità, veniva attuato un vero e proprio colpo di Stato - conclude l'autore del saggio - secondo l'articolo 287 del codice penale. Ferdinando Cionti a suo tempo era stato incaricato da Craxi di verificare se la Procura di Milano, nei giorni convulsi di Tangentopoli, avesse commesso illegalità. Oggi può dire d'aver portato a termine quel compito.

Mani golpiste. Rileggere Tangentopoli con il codice penale alla mano per scoprire che il colpo di stato ci fu. Un libro sul Pool di Milano, scrive Dario Fertilio il 25 Gennaio 2015 su “Il Foglio”. Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione. Mettiamo che tra il 17 febbraio del 1992 e il 29 ottobre dell’anno successivo si sia consumato in Italia un colpo di stato, senza che nessuno (o quasi) se ne sia reso conto. Dietro le quinte, nessuno zampino di servizi segreti né complotto di generali; al contrario, alla luce del sole, un rumoroso tintinnare di manette agitate dai giudici di Mani pulite. Mettiamo che Ferdinando Cionti, avvocato di cultura liberale, incaricato dall’allora segretario socialista Bettino Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool di Milano, sia riuscito, firmando “Il colpo di Stato” (LibertatesLibri, pp, 158, euro 10) a smontare meticolosamente, articolo per articolo, l’ingranaggio giudiziario (con contorno politico e mediatico) su cui si è retta l’inchiesta di Tangentopoli. Concediamo pure che l’autore non abbia saputo né voluto spogliarsi di una antica passione garantista nel redigere il suo atto d’accusa contro i giudici della procura di Milano che determinarono il crollo della Prima Repubblica. Restano comunque i fatti elencati da Cionti, che vengono prima delle interpretazioni e delle tesi politiche: ed è a essi che occorre anzitutto dare udienza.

Con una premessa, che vale anche da conclusione: se colpo di stato a opera dei giudici ci fu, come sostiene Cionti, deve essere possibile inquadrare penalmente l’accaduto. Ed ecco: basta riferirsi agli articoli 287 e 289 del codice penale, là dove stabiliscono rispettivamente: “Chiunque usurpa un potere politico ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”; e ancora, “è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presidente della Repubblica o al governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; alle assemblee legislative, alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.

Ma prima di passare alle radicali conclusioni cui giunge Cionti, basandole sui due articoli appena citati, ecco i passi salienti della sua indagine, in cui viene “smontata” pezzo per pezzo, e articolo per articolo, la macchina giudiziaria messa in moto a suo tempo dai giudici di Mani pulite. La scintilla dell’inchiesta, cioè l’arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, scocca in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro, giostrando fra gli articoli 266 del codice di procedura penale, e il 317 e 318 del codice penale, invece di iscrivere nel registro la sola notizia di un reato di diffamazione, vi aggiunge in base a un sospetto non provato quello di corruzione e addirittura di concussione. In pratica “inventa” l’esistenza di un reato per il quale è consentita l’intercettazione telefonica. Inoltre il conferimento dell’inchiesta a Di Pietro avviene in modo illegittimo: in certo modo è come se il suo autore, per poterne essere titolare, l’avesse assegnata a se stesso. Egli infatti concorda con la polizia giudiziaria una data per l’“operazione Chiesa” in cui lui sia di turno, in modo che il processo gli venga assegnato, evitando il rischio che finisca a un altro sostituto. Ma questo è ancora il meno – benché sia già una violazione del regolamento – perché Di Pietro determina l’assegnazione dello stesso processo a un gip gradito, contro il disposto dell’articolo 25 della Costituzione, che pone il divieto di sottrarre l’imputato al suo giudice naturale. La tecnica messa in atto, in questo caso come nei successivi di Mani pulite, consiste nell’intasare con fascicoli di scarso rilievo l’ufficio del gip competente per turno, ma considerato meno malleabile, facendo in modo che il fascicolo passi in eredità a quello favorevolmente disposto (in quel caso Italo Ghitti). Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente (come ammetterà lui stesso successivamente in un’intervista) di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le sue confessioni, per quanto rilevanti ai fini dell’inchiesta, sono il risultato di una procedura illegale che si basa sullo choc indotto dal carcere e dalle manette, con la prospettiva di una macchia indelebile sull’immagine pubblica dell’inquisito.

Ancora: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di effettuare le intercettazioni illegali, inventa un altro trucco o “giochino”: applica ai fini della sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o di armi. In questo modo, tra l’altro, scavalca le prerogative del ministro della Difesa, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando di fatto i rapporti fra magistratura e potere esecutivo.

Viene poi creato dal Pool, attraverso l’invenzione della “dazione ambientale”, un tipo di reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati, dell’inquinamento delle prove e della fuga, è sempre possibile. Come dire che, essendo l’Italia in generale un paese di corrotti, ognuno deve essere comunque trattato come tale. Effetto: viene fatto capire all’indagato che la sua permanenza in carcere può durare all’infinito. Man mano che si avvicinano i termini di scadenza, gli si fanno piovere addosso a intervalli regolari nuovi ordini di custodia cautelare per reati simili a quello originario, con nuove ondate di pubblico discredito e un impatto umano devastante. E’ un metodo quasi infallibile che serve per far abbassare le difese all’inquisito, inducendolo a passare dalla confessione dei propri reati alla delazione riguardo a quelli altrui.

Nel caso di Chiesa, inoltre, il prolungarsi della detenzione assume anche uno scopo politico: far sì che alla fine venga chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del “partito dei giudici” dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si è schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ed è così, racconta l’autore, che si incomincia a indagare sul conto del leader socialista, il cosiddetto “cinghialone”. Ma, in violazione dell’articolo 335 del codice di procedura penale, lo si fa segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono un termine di sei mesi per le indagini. Si ricorre invece astutamente al modello 44, riservato ai casi in cui l’identità dell’indagato è ignota: il termine dei sei mesi in questo caso non c’è più e dunque è possibile procedere a tutto campo contro l’odiato Craxi.

Se non che Craxi era un parlamentare. E qui sale il livello politico della sfida: iniziano cioè gli attacchi del Pool all’articolo 68 della Costituzione, quello che allora stabiliva come: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento possa essere sottoposto a procedimento penale”. Non si parlava di condanna, cioè, ma di “procedimento”: perché era chiaro al legislatore, preoccupato di mantenere separati e indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo da quello giudiziario, come perseguire un politico ne pregiudicasse irreparabilmente la carriera. Quindi, in attuazione del disposto costituzionale, entro trenta giorni dalla iscrizione nel registro degli indagati il pubblico ministero avrebbe dovuto chiamare il parlamentare Craxi, chiedergli spiegazioni e, se queste non fossero riuscite convincenti, rivolgersi al Parlamento per l’autorizzazione a procedere. Questo non viene fatto, e i pm del Pool continueranno a non farlo in futuro, di fatto violando l’articolo 68 della Costituzione e mettendo la classe politica di fronte al fatto compiuto. Così il Pool creerà i presupposti per la modifica, finché si incaricherà Borrelli di chiederla pubblicamente.

Siamo al nocciolo della questione, e ormai apertamente su un terreno tutto politico: la presa di posizione del “partito dei giudici”, combinata con l’azione dei fiancheggiatori e lo stillicidio delle pubblicazioni su varie riviste e giornali dei verbali riservati, ostacola e infine fa cadere la nomina – proprio in quei momenti all’ordine del giorno – di Bettino Craxi a presidente del Consiglio. Al vertice dello stato, Scalfaro, informato dal Pool, prendeva atto delle indagini in corso su Craxi e ripiegava sul conferimento dell’incarico a Giuliano Amato. Ed è qui dunque, con logica stringente, che Ferdinando Cionti fa discendere la conclusione dalle premesse: un pubblico ministero – afferma – ha effettuato indagini illegittime contro Craxi e se ne è avvalso per intromettersi direttamente nella nomina del presidente del Consiglio. Dunque, l’ha condizionata, esercitando un potere di fatto che scavalca l’esito delle elezioni, il Parlamento, e limita lo stesso potere del presidente della Repubblica nella sua maggiore espressione. Da qui l’attentato contro gli organi costituzionali, secondo l’articolo 289 del codice penale. Un punto di non ritorno, dal momento che si sarebbe dovuto modificare la Carta, e sanare a posteriori il reato commesso, oppure andare incontro a una messa in stato di accusa del Pool. Insomma, da un lato si continuava a disapplicare l’articolo 68, dall’altro si chiedeva pubblicamente, per bocca di Borrelli, la riforma di questa norma.

Il resto è storia nota. L’inchiesta su Tangentopoli procederà trionfalmente senza più ostacoli: si arriverà a indagare 131 parlamentari soltanto a Milano, mentre in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, di cui 205 deputati (un terzo del totale). In un clima simile di caccia giustizialista alle streghe, che l’autore definisce “rivoluzionario”, diventerà impossibile riconoscere l’evidenza: come cioè tutti i partiti fossero coinvolti in una associazione a delinquere basata su tangenti implicite e pressoché automatiche. Sicché non si poteva parlare legittimamente di corruzione né di concussione, rendendo inevitabile la famosa “soluzione politica” auspicata da Craxi, in modo da evitare il crollo dell’intero sistema democratico. Ma il tentativo messo in atto a questo fine dal ministro Giovanni Conso, che si proponeva di depenalizzare il reato di finanziamento ai partiti, sarà immediatamente bloccato dalla durissima reazione di Borrelli e dei suoi collaboratori, addirittura con una minaccia di dimissioni collettive, fino a indurre il presidente Scalfaro a non firmare il decreto. Si procederà invece in un’altra, opposta direzione, giungendo nell’ottobre del 1993 ad abolire l’immunità parlamentare. Sotto la mannaia cadrà intanto gran parte della Dc (non la sinistra, che confluirà poi nel Pds), l’ala migliorista e garantista del Pci, e naturalmente l’intera leadership socialista. Tutti i gruppi dirigenti, insomma, considerati “nemici” dal partito dei giudici. In questo clima, mentre si indagano i 131 parlamentari soltanto a Milano – ripetiamo: in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, ma i deputati appartenevano quasi tutti alla maggioranza – si inquadra il voto quasi unanime per l’abolizione dell’immunità parlamentare. Il Parlamento è in pratica sotto ricatto, anche in considerazione del fatto che l’opposizione, pur di essere risparmiata, è indotta ad allinearsi.

Fu presa del potere prima di fatto e poi ufficiale, insomma, riassume l’autore de “Il colpo di Stato”. E venne realizzata mediante l’esercizio di una decisiva facoltà di intimidazione e di veto; l’impresa di lì a poco sarebbe culminata nel blocco della riforma con la quale avrebbe potuto essere finalmente avviata la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Finché, più tardi da Hammamet, Craxi avrebbe parlato di “una certa mappa con dei confini interni: c’è chi dev’essere protetto, chi deve essere tenuto a bagnomaria, e chi dev’essere distrutto”.

Operazione chirurgica, conclude Ferdinando Cionti, finalizzata al “cambiamento” dello stato. Un putsch, precisa, di tipo “bonapartista”, cioè basato sulla legalizzazione a posteriori dell’evento rivoluzionario. Come Napoleone nel famoso 18 brumaio del 1799 bloccò il Parlamento, e poi convocando i parlamentari a lui fedeli ottenne la ratifica dei nuovi poteri a lui attribuiti, così la magistratura nel ’93 indusse i parlamentari consenzienti a spingere per la riforma, intimidendo e paralizzando gli altri. Che poi ne sia risultato un potere “oligarchico” della magistratura, tuttora in vigore e contrario al primo articolo della Costituzione fondata sulla sovranità popolare, può essere materia di riflessione per chi si propone di cambiare le cose oggi o domani. Sempre tenendo presente come il terribile potere del giudice, che dispone della vita degli uomini, abbia posto da sempre il problema della sua delimitazione, ovviamente senza lederne l’indipendenza. La soluzione adottata (soprattutto nei paesi regolati dalla civil law anglosassone) è stata quella di distinguere nettamente la titolarità dell’azione penale, esercitata dal potere esecutivo mediante il suo “procuratore”, dal ruolo affidato al giudice e predeterminato dalla legge, in modo che l’uno bilanci l’altro. Sicché, in quasi tutti i paesi, vige la separazione del pubblico ministero – che esegue la legge promuovendo l’azione penale – dal giudice, che interpreta la legge nel caso concreto, pronunciando la sentenza. (Tranne che in Francia e in Bulgaria, dove però il pubblico ministero è alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia).

Come si sa, invece, in Italia giudice e pm fanno parte della medesima corporazione, indipendente dal ministro della Giustizia e da qualsiasi altra autorità di qualsiasi natura. Con la conseguenza che questa corporazione gestisce l’intero monopolio della “violenza legittima” dello stato, l’essenza stessa della sovranità. Forse non è ancora tempo, se mai lo sarà, di un’elezione popolare e diretta di giudici e pm, come avviene in America. Ma questo potere sovrano di una corporazione, priva di legittimazione popolare, dovrebbe trovare un limite nella impossibilità di invadere il potere legislativo – democratico perché eletto – grazie all’immunità parlamentare stabilita dall’art. 68 della Costituzione nel testo originario. Una volta travolto quell’argine sotto i colpi di Mani pulite, il potere giurisdizionale è diventato aristocratico, illimitato e irresponsabile. Insomma, né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio possono sfiorarlo con un dito, mentre esso, alla fine, può intervenire su entrambi.

La morale di questa vicenda? E’ sempre valida, anche al di là di Tangentopoli e della stretta politica giudiziaria: è una fatale illusione credere di poter combattere un crimine commettendone un altro.

La Tangentopoli secondo Davigo: «Troppe scarcerazioni…», scrive Errico Novi il 9 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Per il presidente dell’Associazione nazionale magistrati il pool di Mani Pulite fu troppo morbido: dovevano stare tutti dentro. Davigo parla chiaro. E afferma: «Non ho mai riconosciuto alcun eccesso nell’uso della misura cautelare in Tangentopoli. Se abbiamo esagerato, è stato con le scarcerazioni». Del presidente dell’Anm tutto si può dire tranne che vada propinando melliflue perifrasi. Precisa e chiarisce: «Non ce ne doveva essere uno a piede libero perché questi erano vent’anni che facevano così». Parole che dal punto di vista dell’ex pm del Pool rappresentano la giusta commemorazione del venticinquennale di Mani pulite. Le pronuncia con la sua solita serena spietatezza ad Agorà, la trasmissione mattutina di Rai 3. Non è solo questione di indignarsi, come fa Fabrizio Cicchitto, strenuo alfiere dell’altra campana sulla storia di Tangentopoli, che definisce «arrogante» il numero uno dell’Associazione magistrati. Certo è che considerazioni come quelle di Davigo spiegano come mai il rapporto tra giustizia e politica resti una ferita aperta anche un quarto di secolo dopo l’arresto di Mario Chiesa. Che certe verità, per il presidente Anm, siano valide ieri come oggi lo si coglie in un’altra sua dichiarazione: se un politico deve dimettersi o no in seguito a un avviso di garanzia «dipende da quali sono i fatti non controversi». Le indagini sono già in grado di accertare la verità. Il processo non serve. E quindi a dimettersi può anche essere tenuto quel politico che non sia neppure stato rinviato a giudizio. Meno assertivo Davigo si mostra rispetto al tema del momento, la fuga di notizie nel corso di un’indagine: «Il segreto istruttorio fa ormai parte della mitologia, con la riforma del codice penale». Fa una distinzione sottile: «Esiste semmai il segreto delle indagini» che però «termina nel momento in cui un atto è conosciuto da un indagato». Non si sofferma su un dettaglio: la maggior parte delle notizie trapelate in questi giorni su Tiziano Renzi e Alfredo Romeo si trovava in atti d’indagine di cui gli avvocati non erano ancora potuti entrare in possesso. Davigo fa inevitabilmente incavolare Cicchitto, che ribatte: «Davigo ha la memoria corta: durante Tangentopoli il Pool certamente esagerò, ma con le carcerazioni per ottenere confessioni. E comunque quanto a esagerazioni tuttora egli si distingue per arroganza». La sera prima, l’ex pm di Mani pulite si era divertito a esibire un sarcasmo ancora più irridente. Alla domanda «segue il dibattito sul Pd?» aveva risposto: «Non mi sono mai interessato di politica, solo di alcuni politici quando li ho dovuti processare».

Manette Pulite, scrive Filippo Facci l’1 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Il trio manetta (Barbacetto-Gomez-Travaglio) ha riciucciato il tomo “Mani Pulite”, indipendente come può esserlo un libro scritto grazie al dischetto che contiene i dati dell'inchiesta: gliel’ha fornito un pm di Mani pulite. Divertente è che gli autori, ancor oggi, cerchino di dissimulare una verità elementare che hanno capito anche i bambini deficienti: Mani pulite abusò del carcere preventivo. Sentite qua: «Fin dai primi interrogatori, per una fortunata e forse irripetibile somma di abilità investigative, situazioni psicologiche e condizioni politiche, economiche e ambientali, i magistrati si trovano davanti persone che presto o tardi finiscono per confessare». Ah sì? A dire il vero confessavano perché erano in galera e volevano uscirne, o perché non volevano finirci: sono queste le «situazioni psicologiche». Le altre condizioni, «politiche, economiche e ambientali», facevano parte del contesto «irripetibile» che permise un uso spropositato delle manette, dispensate anche per reati amministrativi o che non prevedevano il carcere. Perché non ammetterlo, 25 anni dopo? Disse il procuratore Francesco Greco: «La situazione si modificò nel ’94, quando le collaborazioni diminuirono fino a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino». Ecco: l'acqua arrivava al mulino direttamente dal carcere, e, quando non poterono più usarlo a loro piacimento, Mani Pulite finì.

Davanti al carcere di San Vittore, il 15 febbraio 2017, dove venticinque anni fa veniva portato Mario Chiesa, la firma di Repubblica Piero Colaprico racconta gli inizi dell'inchiesta di Mani Pulite e la nascita del termine Tangentopoli. "Sono stato il primo a usarlo, ancora prima del 1992. Mi ero ispirato alle storie di Paperino, poi diventò il marchio di un'epoca".

Mani Pulite: 25 anni fa l'inizio delle indagini. Con l'arresto di Mario Chiesa, manager del Pio Albergo Trivulzio colto ad intascare una tangente, iniziava la fine della Prima Repubblica, scrive Edoardo Frittoli il 17 febbraio 2017 su Panorama. Esattamente 25 anni fa l'ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano lasciava in manette l'ospedale dopo essere stato colto in flagranza di reato mentre incassava una tangente da un dipendente dell'impresa di pulizie di Luca Magni, che si era deciso a denunciarlo per le sempre più esigenti richieste economiche in cambio dell'appalto per le pulizie nell'ospedale geriatrico. Da una tangente di appena 7 milioni di lire ebbe origine l'inchiesta Mani Pulite, gestita dal pool di magistrati milanesi che spazzerà via la Prima Repubblica. Ad aggravare la posizione di Chiesa, portato nel carcere di San Vittore, sarà l'ex moglie Laura Sala. Fu la donna infatti a denunciare ai magistrati Antonio di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo l'esistenza di una somma ingente di denaro frutto dell'attività di corruzione dell'ex marito nascosta in conti svizzeri intestati ad una segretaria. A nulla valse il tentativo di Bettino Craxi di isolare il PSI dai reati commessi dal proprio rappresentante che era nato politicamente dai "vecchi" socialisti di De Martino e finito con Pillitteri e Tognoli negli anni ruggenti della "Milano da bere". Poco dopo che il leader socialista ebbe definito Mario Chiesa un "mariuolo", dal carcere il presidente del Pio Albergo Trivulzio iniziò a parlare. Aveva innescato la miccia di una bomba giudiziaria che avrebbe fatto deflagrare 40 anni di assetto politico-amministrativo nato nell'Italia del dopoguerra, disintegrando i due partiti chiave della Repubblica: la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista.

La stagione di Tangentopoli: 25 anni dopo, la lezione di Mani pulite. Il 17 febbraio del 1992 l'arresto di Mario Chiesa diede il via alla stagione che travolse la Prima Repubblica e cambiò la storia d'Italia. Ma a distanza di un quarto di secolo bisogna riconoscere che il Paese non ha saputo farne tesoro e il problema della corruzione è anche più forte, scrive Gianluca De Feo il 16 febbraio 2017 su "La Repubblica". Accadde il 17 febbraio di 25 anni fa: l'arresto di Mario Chiesa diede inizio alla slavina che ha travolto la Prima Repubblica. In due anni la storia d'Italia è cambiata: sono scomparsi partiti antichi, leader politici e capitani d'industria hanno lasciato la scena per sempre. Un'intera classe dirigente è finita sotto accusa: ben 4520 persone sono state indagate nel solo filone milanese di Mani Pulite. Il processo a Sergio Cusani trasmesso in diretta televisiva ha visto passare sul banco degli imputati ex premier ed ex ministri: nella stessa giornata Bettino Craxi e Arnaldo Forlani risposero alle domande di Antonio Di Pietro. E' una stagione che si può comprendere solo con una lettura globale della corsa degli eventi. Perché le inchieste milanesi si sono intrecciate con le stragi di mafia e con una crisi economica profonda, che ha provocato la scomparsa di aziende celebri e la svalutazione della lira, che ha spinto il governo Amato a prelevare il 6 per mille dai conti correnti di tutti gli italiani. E' stata anche una stagione di speranza, con la fiducia in un rinnovamento generazionale ed etico della vita pubblica. Si sono imposti nuovi movimenti, da Forza Italia alla Lega, e altri sono sorti dalle ceneri della tradizione democristiana e comunista. Ma non sono state create leggi e strutture per impedire che le tangenti tornassero a dilagare. Anzi, sono stati introdotti provvedimenti che invece di rendere più giusti i processi hanno ingolfato la macchina della Giustizia, provocando la dissoluzione di migliaia di inchieste per effetto della prescrizione. Venticinque anni dopo, bisogna riconoscere che il Paese non ha saputo fare tesoro di quella lezione e oggi il problema della corruzione è addirittura più forte. Gli snodi sono gli stessi del 1992: il finanziamento della politica non è trasparente, i partiti continuano a lottizzare società ed enti pubblici. Certo, non esiste più quel sistema verticistico che applicava il manuale Cencelli anche alla spartizione delle tangenti, definendo quote precise a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale. Un sistema in cui - a livello locale e nazionale - le indagini dimostrarono anche un ruolo del Pci. Nel 2017 le segreterie dei partiti non sono più il cardine della gestione dei finanziamenti illeciti. Adesso il mercato della corruzione è dominato da consorterie trasversali, bande che legano gli interessi di politici e imprenditori. E sempre più spesso le mafie si inseriscono in queste dinamiche, offrendo bustarelle e mettendo a disposizione i loro capitali. E' il copione di Mafia Capitale, è il modello criminale che minaccia il nostro futuro. 

Cronaca di quel drammatico lunedì 17 febbraio 1992, quando Di Pietro diede vita a “Mani pulite”. 17 febbraio 1992: «Mi disse Pillitteri: Tonino? È un amico…», scrive Francesco Damato il 19 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Sono le ore 18 di lunedì 17 febbraio 1992, esattamente 25 anni fa rispetto al momento in cui scrivo. Non posso nemmeno immaginare che nulla sarà più come oggi dopo la riunione abituale che presiedo nella stanza della segreteria di redazione del “Giorno”, a Milano, per la selezione dei fatti e argomenti da sistemare nella prima pagina del numero di domani. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha già fatto la sua sparata quotidiana, proponendo l’uscita dell’Arma dei Carabinieri dall’Esercito per consentire un migliore trattamento economico dei militari della Benemerita. E ciò mentre i poliziotti in agitazione, sempre per motivi economici, assediano il Viminale e minacciano di andare a dimostrare anche davanti al Quirinale. L’apertura della prima pagina è assicurata. Difficilmente – penso- lo stesso Cossiga, magari telefonandomi dopo qualche ora per anticiparmi un’altra picconata, me la farà cambiare. Francesco è ormai diventato l’incubo dei giornali per l’abitudine di terremotarli all’ultimo momento, magari quando sono già in tipografia. Anche la spalla della prima pagina è coperta, con i giochi olimpici di Albertville, dove le azzurre hanno conquistato il bronzo della staffetta e domani è attesa la prestazione, addirittura, di Tomba nel gigante di scii. Destiniamo al taglio centrale gli otto delitti di mafia compiuti in un giorno in varie parti d’Italia, dal sud al nord. Dedichiamo una foto a colori a Pippo Baudo che punta per la conduzione del festival di Sanremo, dal 26 febbraio, su un tris di maggiorate composto da Milly Carlucci, Brigitte Nilsen e Alba Parietti. Sistemo invece nel taglio basso una sgradevole polemica alla quale mi hanno costretto ‘ le bretelle rosse’ di Giuliano Ferrara. Che sul Corriere della Sera non mi ha perdonato un’arrabbiatura con lo storico Franco Andreucci, della casa editrice Ponte alle Grazie, evidentemente suo amico, che mi ha combinato il guaio di trascrivermi con qualche errore, assistito dal mio corrispondente a Mosca Francesco Bigazzi, una lettera di Palmiro Togliatti, peraltro fotocopiata malamente nei giorni in cui a pagamento si riusciva ad accedere a quelli che erano stati gli archivi sovietici più inaccessibili. Ma soprattutto Giulianone non mi ha perdonato l’importanza data a quella lettera, scritta dal leader comunista contro i militari italiani prigionieri in Russia e trattati come bestie, lasciati morire spesso di fame. Togliatti è morto da un bel po’, ma Giuliano, figlio della sua segretaria, ne conserva un buon ricordo per essergli ‘ cresciuto sulle ginocchia’, come mi ha detto per telefono Bettino Craxi come scusante di quel suo sconclusionato attacco sul Corriere della Sera. E io di questa storia delle ginocchia mi sono avvalso nella risposta. La riunione sta per finire quando arriva trafelato il capocronista per darci la notizia, appena pervenutagli, dell’arresto di Mario Chiesa in flagranza di mazzette. Presidente del Pio Albergo Trivulzio dal 1986 e già capogruppo socialista alla provincia e poi due volte assessore al Comune di Milano, ho conosciuto Chiesa di persona l’anno prima nella casa milanese del geniale e simpatico fotografo Bob Krieger. L’ho reincontrato dopo qualche mese in una cerimonia d’inaugurazione di un nuovo reparto dell’ospedale, sempre, del Pio Albergo Trivulzio. Vi sono andato soprattutto perché informato della presenza di Craxi e della sua intenzione di profittare dell’occasione per esprimere un giudizio sulla situazione politica, avviata ormai verso le elezioni. Di quella cerimonia esiste, fra le altre, una foto in cui sono ripreso con Bettino e con Mario Chiesa. La vedrò poi pubblicata insistentemente per ragioni non certamente occasionali, specie quando la caccia ai craxiani si farà grossa. L’arresto del presidente del Trivulzio naturalmente mi sorprende. E ne immagino subito le ricadute politiche, a Camere sciolte da poco per esaurimento della legislatura e per le elezioni già fissate in aprile. Il capocronista mi garantisce la clamorosa flagranza di reato e mi ricorda che le indagini giudiziarie contro Chiesa sono in qualche modo collegate ad un vecchio scoop proprio della cronaca del Giorno sui rapporti fra gli ospedali e le agenzie delle pompe funebri. La notizia è sicuramente da prima pagina. E lì decido personalmente di sistemarla con un grosso richiamo del servizio di cronaca a quattro colonne, sotto il titolo centrale. Il titolo dice: Flagranza di reato nell’ente per gli anziani - Arrestato per concussione a Milano il presidente dell’Istituto Trivulzio. L’indomani mattina vedo che gli altri giornali di Milano non hanno dato all’arresto di Mario Chiesa il rilievo che mi aspettavo. E manca da alcune cronache la circostanza della flagranza, per cui mi viene il dubbio di essere incorso in un eccesso di zelo giudiziario. Ne parlo perciò nella prima riunione redazionale col capocronista, che mi rassicura garantendomi di nuovo l’esattezza delle nostre notizie. Dopo molti giorni vedrò questo particolare della riunione redazionale in qualche cronaca della ‘ concorrenza’ come una protesta, una mia ramanzina al collega, che invece stimo molto. Ma sarà solo la prima di una serie di distorsioni tendenti a rappresentare la mia direzione del Giorno come reticente, e a spingere il comitato di redazione ad una vigilanza per niente sindacale, tutta politica. Ogni sera dovrò fare i conti con chi a sua volta avrà contato il numero delle pagine e dei titoli, la collocazione dei pezzi e quant’altro sulla escalation delle notizie provenienti dalla Procura. Il clima diventa sempre più pesante, dentro e fuori dal giornale. Ai funerali del padre di Craxi, che muore in tempo per risparmiarsi il dolore di vedere dispiegarsi del tutto contro il figlio lo spettacolo di Mani pulite, mi si avvicina Silvio Berlusconi e mi dice, preoccupato, che non può andare in giro senza sentirsi rimproverare l’amicizia di o con Bettino. Rimango turbato, in verità, più dalla preoccupazione di Berlusconi che dal suo racconto. Ma torniamo al giorno dopo l’arresto di Chiesa. Ho un vecchio appuntamento a casa, per il pranzo, con Paolo Pillitteri. Che da un mese e mezzo non è più sindaco di Milano e si è candidato a tornare alla Camera. Gli chiedo naturalmente di Chiesa e lo trovo sorprendentemente tranquillo, direi sarcastico con l’arrestato per le circostanze nelle quali si è fatto sorprendere a intascare una parte della tangente versatagli da una ditta delle pulizie del Trivulzio. Intuisco da questa reazione di Paolo, a torto o a ragione, che Chiesa, per quanto comunemente considerato craxiano, non faccia parte davvero del giro del segretario socialista, di cui Paolo è cognato. Poi verrò a sapere personalmente dallo stesso Bettino che il figlio Bobo, da lui autorizzato a candidarsi a consigliere comunale nelle ultime votazioni milanesi e umanamente desideroso di fare una bella figura agli occhi del padre, aveva accettato l’offerta del presidente del Trivulzio di aiutarlo nella organizzazione della campagna elettorale, vista l’esperienza che l’amico aveva alle spalle.

Mani pulite, tappa per tappa. Il 17 febbraio del 1992 l'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa dà il via a una serie di indagini, arresti e processi che nel giro di due anni rivoluzionerà lo scenario politico ed economico del Paese. La scomparsa del Pentapartito, l'esilio di Bettino Craxi, l'ascesa di Silvio Berlusconi e molto altro, scrive il 15 febbraio 2017 “L’Espresso.

17 FEBBRAIO 1992. Arrestato il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano Mario Chiesa (Psi).

6 APRILE 1992. Partono le indagini sugli appalti di Malpensa 2000 e della sanità milanese.

2 MAGGIO 1992. Avvisi di garanzia agli ex sindaci Psi di Milano Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri.

24 MAGGIO 1992. Il procuratore Borrelli affianca a Di Pietro e Colombo Piercamillo Davigo.

18 GIUGNO 1992. Suicida a Lodi il segretario locale del Psi Renato Amorese.

28 GIUGNO 1992. Manifestazione a Milano a favore dei giudici impegnati in Mani pulite.

3 LUGLIO 1992. Bettino Craxi parla alla Camera: «Bisogna dire, e tutti lo sanno, che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale (...). Se gran parte di questa materia dev’essere considerata puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale».

3 LUGLIO 1992. Il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli invia una circolare contro le «manette in tv».

1 SETTEMBRE 1992. Indagato per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti il presidente della Montedison Giuseppe Garofano.

2 SETTEMBRE 1992. Si suicida a Brescia Sergio Moroni, deputato socialista.

17 SETTEMBRE 1992. Martelli annuncia che è pronto un decreto riguardante «i rei di corruzione, concussione e peculato».

15 DICEMBRE 1992. «Avviso di garanzia a Craxi per corruzione, ricettazione e illecito finanziamento.

11 MAGGIO 1993. Arrestato l’ex tesoriere del Pci Renato Pollini.

10 LUGLIO 1993. Il ministro della Giustizia Giovanni Conso annuncia un disegno di legge per correggere l’avviso di garanzia e la custodia cautelare.

20 LUGLIO 1993. Suicidio in cella nel carcere di San Vittore di Gabriele Cagliari dopo 103 giorni di detenzione preventiva.

22 LUGLIO 1993. Inviati presso il pool di Milano gli ispettori ministeriali.

23 LUGLIO 1993. Raul Gardini si uccide con un colpo di pistola; arrestati Carlo Sama, amministratore delegato di Montedison, e Sergio Cusani, consulente di fiducia di Gardini.

24 AGOSTO 1993. L’inchiesta su Tangentopoli investe il tesoriere Pds Marcello Stefanini.

4 SETTEMBRE 1993. Arrestato per corruzione il giudice Curtò per la vicenda Enimont.

14 OTTOBRE 1993. Il tribunale della libertà scarcera Primo Greganti e critica il pool.

28 OTTOBRE 1993. Comincia il processo a Cusani per il caso Enimont.

17 DICEMBRE 1993. Dichiarazioni di Craxi al processo Cusani-Enimont: «Tutti sapevano nessuno parlava».

16 GENNAIO 1994. Il presidente Scalfaro scioglie le Camere.

22 GENNAIO 1994. Mino Martinazzoli chiude la Dc e dà vita al Partito popolare italiano. Sulle ceneri del vecchio Msi nasce Alleanza nazionale.

26 GENNAIO 1994. Berlusconi annuncia la «discesa in campo».

6 FEBBRAIO 1994. Al Palafiera di Roma si tiene la prima convention di Forza Italia dove l’ex pm Tiziana Parenti viene presentata come «il nostro futuro ministro della Giustizia».

11 FEBBRAIO 1994. Italo Ghitti emette un’ordinanza di custodia per Paolo Berlusconi per tangenti.

16 FEBBRAIO 1994. I tre esponenti Pds Occhetto, D’Alema e Stefanini vengono iscritti nel registro degli indagati a seguito di una denuncia presentata da Craxi.

9 MARZO 1994. La procura milanese chiede al gip, che non l’accoglie, la custodia cautelare per Marcello Dell’Utri.

28 MARZO 1994. Il Polo delle libertà vince le elezioni. Forza Italia diventa il primo partito italiano.

15 APRILE 1994. Cancellate le immunità dei vecchi deputati.

28 APRILE 1994. Sergio Cusani viene condannato a 8 anni.

5 MAGGIO 1994. Craxi si trasferisce ad Hammamet in Tunisia da dove non farà più ritorno.

12 MAGGIO 1994. Arrestato l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (Pli).

16 GIUGNO 1994. Craxi viene dichiarato “contumace”.

9 LUGLIO 1994. Arrestato il generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello.

13 LUGLIO 1994. Il governo Berlusconi vara il decreto Biondi, che limita la custodia cautelare in carcere e prevede un condono per le aziende.

14 LUGLIO 1994. Il pool legge in tv un comunicato contro il decreto Biondi minacciando di abbandonare le indagini. Circa 340 detenuti lasciano il carcere per effetto del decreto.

22 LUGLIO 1994. Dopo le proteste e le critiche della Lega, il governo ritira il decreto e lo sostituisce con un disegno di legge.

25 LUGLIO 1994. Si costituisce Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali della Fininvest, confessando tre tangenti alla Gdf.

26 LUGLIO 1994. Il gip Andrea Padalino firma un ordine di cattura per Paolo Berlusconi.

29 LUGLIO 1994. Condannati per il conto Protezione Bettino Craxi, Claudio Martelli, Licio Gelli e Silvano Larini.

22 NOVEMBRE 1994. Viene notificato a Silvio Berlusconi un invito a comparire per concorso in corruzione di appartenenti alla Gdf durante il vertice Onu di Napoli.

6 DICEMBRE 1994. Di Pietro, terminata la requisitoria del processo Enimont annuncia le sue dimissioni togliendosi la toga.

7 DICEMBRE 1994. Bossi, Buttiglione e D’Alema annunciano due mozioni di sfiducia al governo.

22 DICEMBRE 1994. Bossi toglie l’appoggio a Berlusconi che sale al Quirinale per dare le dimissioni.

20 MAGGIO 1995. Il pool chiede il rinvio a giudizio di Silvio e Paolo Berlusconi e del generale Cerciello per tangenti alla Gdf.

27 SETTEMBRE 1995. Tutti i 23 imputati del processo Enimont vengono condannati in primo grado.

23 OTTOBRE 1995. Stefania Ariosto, compagna del deputato di Fi Vittorio Dotti accusa Silvio Berlusconi e Cesare Previti di corruzione dei giudici.

7 LUGLIO 1998. Condanna in primo grado per Silvio Berlusconi nel processo per tangenti alla Gdf (assolto in Appello e in Cassazione nel 2001).

25 anni di Mani pulite, i 10 verbali che hanno cambiato l’Italia. Da Mario Chiesa alla maxi tangente Enimont. Dalle mazzette rosse a Berlusconi. Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica. Le confessioni che hanno rivelato i segreti del potere in versione integrale, scrive Paolo Biondani il 16 febbraio 2017 su "L'Espresso". Dieci verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Sono interrogatori che hanno scoperchiato il sistema della corruzione nella Prima Repubblica. Le confessioni a valanga del primo arrestato. Le tangenti di Bettino Craxi tra piazza Duomo e i conti svizzeri. Le corruzioni con la targa del colosso Fiat. I fondi neri versati dall’Eni ai partiti di governo. La maxi-tangente Enimont. Le mazzette rosse del “compagno G” e la bustarella della Lega. Il brigadiere-eroe che denuncia la Guardia di Finanza. Lo scontro finale tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Mani Pulite. Sono passati 25 anni dall’inizio dell’inchiesta giudiziaria che ha fatto crollare il muro della cosiddetta Tangentopoli. Una corruzione enorme, sistematica, radicata a tutti i livelli, che ha fatto esplodere il nostro debito pubblico e intossicato la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, le autorità di controllo. Un sistema che inizia a crollare il 17 febbraio 1992, quando i carabinieri ammanettano Mario Chiesa, presidente socialista di un grande ospizio milanese, il Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato una bustarella di 7 milioni di lire (3.500 euro), portati nel suo ufficio da un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni, che lo ha denunciato all’allora semi-sconosciuto pm Antonio Di Pietro. In meno di tre anni, fino al dicembre 1994, i magistrati di Mani Pulite raccolgono montagne di prove che portano a 1.233 condanne definitive per corruzione, concussione, finanziamento illecito dei partiti e fondi neri aziendali (falso in bilancio). I processi di Mani Pulite continuano ancora oggi a dividere l’Italia in due partiti trasversali: sostenitori e detrattori, cosiddetti giustizialisti e sedicenti garantisti. Ma un fatto è innegabile: in nessun altro periodo si sono accumulate tante rivelazioni sui segreti del potere. Anzi, vere e proprie confessioni.

La prima è datata 23 marzo 1992. Dopo 35 giorni di cella, Mario Chiesa rompe il silenzio: «Intendo dire la verità». Il pm Di Pietro e il gip Italo Ghitti gli lasciano spiegare tutta la sua carriera politica, il dramma familiare provocato dall’arresto. Quel mattino, a San Vittore, Chiesa non si limita a confessare l’accusa per cui è stato ammanettato, ma vuota il sacco. Ammette di aver intascato la sua prima tangente «nel 1974 circa» e la penultima «due o tre ore prima dell’arresto» per la bustarella di Magni. A verbale finiscono quasi vent’anni di corruzioni. Chiesa elenca 16 aziende che gli hanno versato denaro per gli appalti. E fa i nomi dei politici con cui ha diviso i soldi, tra cui spiccano gli ultimi due sindaci socialisti di Milano, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Pochi giorni dopo, le confessioni di Chiesa provocano la prima retata di otto imprenditori, che confessano e chiamano in causa altri. È l’inizio di un effetto-domino che fa crollare il sistema. Da un arresto all’altro, da una confessione all’altra, l’inchiesta si allarga a tutte le centrali degli appalti a Milano e in Lombardia: Comune, Provincia, Regione, società controllate dai partiti come Mm (metropolitana), Atm (tram e bus), Sea (aeroporti), Aem (centrali elettriche), e poi sanità, discariche, edilizia. Ovunque gli amministratori di nomina politica manovrano gli appalti a favore di aziende privilegiate, che in cambio versano mazzette ai tesorieri occulti dei partiti, chiamati “collettori”. In breve dai cassieri lombardi si arriva ai tesorieri nazionali. Severino Citaristi, per la Dc, confessa un decennio di finanziamenti illeciti dopo aver ricevuto oltre 70 avvisi di garanzia. Il leader socialista Bettino Craxi, indagato dal 15 dicembre 1992, nega tutto e attacca i magistrati.

Il 7 febbraio 1993 un suo grande amico, Silvano Larini, si costituisce dopo una latitanza all’estero. E confessa. Larini spiega di aver avuto da Craxi (e dal suo padrino politico Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana». E precisa: «Dal 1987 fino alla primavera del 1991 ho ricevuto circa 7-8 miliardi di lire, che ho portato negli uffici di Craxi in piazza Duomo 19». Quindi l’ex capo del governo non solo sapeva delle tangenti al Psi, ma ha intascato per anni, personalmente, buste piene di soldi. E a dirlo è un «intimo amico di Craxi», come Larini si autodefinisce. Confessa di aver prestato già allora un suo conto svizzero, chiamato Protezione, allo stesso Craxi e al suo vice, Claudio Martelli, che lo usarono per incassare 7 milioni di dollari: mazzette al Psi pagate dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il banchiere poi ucciso dalla mafia a Londra (simulando un suicidio). Un segreto negato per oltre un decennio, che era annotato in un dossier ricattatorio sequestrato a Licio Gelli quando fu scoperta la lista degli iscritti alla loggia P2. Già dal 1992 le corruzioni negli appalti travolgono tutti i partiti di governo (Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli) e, a Milano, anche la corrente migliorista del Pci-Pds, alleata dei socialisti.

Tra il 2 e il 25 febbraio 1993, un manager del gruppo Ferruzzi-Montedison, Lorenzo Panzavolta, parla per la prima volta di tangenti (per circa 620 mila euro) destinate anche al Pci nazionale, per gli appalti dell’Enel. Soldi intascati su un conto svizzero dal “compagno G”, Primo Greganti, che subisce la più lunga carcerazione preventiva di tutta Mani Pulite e viene condannato senza mai confessare. Il suo silenzio impedisce di smascherare i beneficiari della corruzione ai vertici del primo partito della sinistra italiana. Dai bonifici delle tangenti, nel 1993 i magistrati risalgono ai fondi neri delle grandi aziende e arrivano alle maxi-corruzioni. Pierfrancesco Pacini Battaglia è il banchiere che dalla Svizzera ha gestito per anni i conti segreti dell’Eni: almeno 500 miliardi di lire (oltre 250 milioni di euro). Il giudice Italo Ghitti, con una battuta, lo definisce «l’uomo che sta un gradino sotto Dio». Pacini si costituisce il 10 marzo 1993, svela le mediazioni milionarie per il gas algerino e il petrolio libico e confessa di aver fatto arrivare in Italia almeno 50 miliardi di lire: fondi neri dell’Eni, consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore alla Dc. Quella primavera decine di imprenditori e politici fanno la coda in procura per confessare, in un clima mai più visto di collaborazione con la giustizia per “fine sistema”.

Eugenio Cefis, l’ex potentissimo re della chimica, viene convocato il 22 aprile 1993 come semplice testimone sul conto Protezione, di cui giura di non sapere nulla. Riservato ed enigmatico come pochi, accetta però di verbalizzare i segreti dei «finanziamenti dell’Eni ai partiti e a singoli politici», che sostiene di aver «ereditato dal fondatore Enrico Mattei». «I partiti di governo», spiega Cefis, venivano pagati «in automatico con fondi distribuiti dal banchiere Arcaini dell’Italcasse: il grosso spettava alla Dc, poi al Psi, il residuo a Pri, Psdi e Pli». L’Eni versava altri soldi «a singoli politici e a giornali di partito». Anticomunista di ferro, Cefis parla pure di un versamento estero al Pci per sbloccare un affare in Unione Sovietica. Ma pur descrivendo vent’anni di tangenti, non fa neppure un nome dei politici corrotti, sostenendo che non voleva conoscerli perché li «usava nell’interesse dell’Eni», disprezzandoli, «come Mattei».

Due giorni dopo, il 24 aprile 1993, Cesare Romiti consegna ai pm di Mani Pulite un memoriale indirizzato al procuratore capo, Saverio Borrelli: è l’atto di resa della Fiat. Dopo gli arresti di vari dirigenti, l’amministratore delegato della prima industria italiana dichiara che i controlli interni hanno confermato che almeno sei società del gruppo «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato»: il memoriale si chiude con i nomi dei manager Fiat pronti a confessare, con l’elenco degli appalti per cui hanno pagato tangenti. Al memoriale è allegato un verbale dei vertici, con Gianni e Umberto Agnelli, che il 13 aprile hanno approvato «la collaborazione con la magistratura». Personalmente Romiti si difende, giurando di aver saputo solo allora delle corruzioni («Sinceramente non immaginavo»), mentre era il direttore finanziario Francesco Paolo Mattioli a gestire i fondi neri. Nel processo, celebrato a Torino, i magistrati salgono un gradino più in alto e condannano anche Romiti per falso in bilancio.

Il consenso di massa per la lotta alla corruzione si spezza per la prima volta a fine luglio, con i suicidi di Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e Raoul Gardini, numero uno del gruppo Ferruzzi-Montedison. Il 27 luglio, nel carcere di Opera, il manager Giuseppe Garofano spiega perché Gardini decise di «piegarsi al ricatto del sistema politico» e confessa nei dettagli tutta la maxi-tangente Enimont: oltre 150 miliardi di lire (75 milioni di euro) versati tra il 1990 e le elezioni del 1992 ai cinque partiti di governo e a decine di parlamentari e capicorrente. In cambio, la Montedison è uscita da Enimont incassando dall’Eni 1,4 miliardi di euro. Di Pietro esce dal carcere sfinito. La stessa sera, Cosa nostra fa esplodere tre autobombe, due a Roma e una a Milano, dove la strage di mafia uccide cinque innocenti.

In dicembre, mentre infuriano le polemiche sulle tangenti rosse e l’ex pm Tiziana Parenti si prepara a candidarsi in Forza Italia, viene arrestato il tesoriere della Lega, che dal giugno 1993 governa Milano. Si chiama Alessandro Patelli, confessa di aver intascato 200 milioni di lire (100 mila euro) dalla Montedison, ma giura di non aver detto niente a Umberto Bossi e sostiene che la tangente sarebbe stata rubata da ignoti ladri. Anche il leader della Lega nega di aver saputo, ma conferma di aver chiesto finanziamenti (leciti) ai manager della Montedison e risarcisce alla procura i 200 milioni, raccolti tra gli elettori leghisti. Come Patelli, anche Bossi viene poi condannato per finanziamento illecito.

Dopo aver svelato nel 1992 la corruzione negli appalti e nel 1993 i fondi neri e le maxi-tangenti, come spiega l’attuale procuratore di Milano Francesco Greco, «il 1994 è l’anno in cui scopriamo che anche i controllori sono corrotti». I magistrati hanno già inquisito un giudice civile pagato dall’Eni, Diego Curtò e gli ex vertici della Consob. Il 26 aprile 1994, alle nove di sera, un vicebrigadiere della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, si presenta in procura, sconvolto: il suo capopattuglia, Francesco Nanocchio, gli ha dato una busta con due milioni e mezzo di lire: il doppio dello stipendio del vicebrigadiere. Che invece di tacere, intascare, entrare nel giro e arricchirsi con altre mazzette, denuncia il reato. Scoperchiando un sistema di corruzione nelle verifiche fiscali che coinvolge decine di graduati, fino al comandante di Milano, il generale Giuseppe Cerciello. Il 7 luglio, in carcere, Nanocchio confessa le sue mazzette e svela, tra l’altro, che la bustarella data al collega arrivava da Telepiù, un’azienda televisiva controllata da Silvio Berlusconi, diventato capo del governo. Nelle stesse ore altri ufficiali confessano di essersi divisi quattro tangenti Fininvest. La sera del 13 luglio 1994 il governo Berlusconi vara un decreto, intitolato al ministro Alfredo Biondi, che vieta gli arresti e scarcera i corrotti. La legge, contestata dai pm, è ritirata a furor di popolo. Quindi il manager Fininvest Salvatore Sciascia, arrestato, confessa di aver pagato le tangenti alla Finanza, ma con fondi neri forniti da Paolo Berlusconi all’insaputa di Silvio. I pm non ci credono e scoprono che in giugno un ex finanziere diventato avvocato del Biscione, Massimo Maria Berruti, ha incontrato Silvio a Palazzo Chigi. E subito dopo ha chiamato un suo ex collega corrotto, per farlo tacere, promettendogli «la riconoscenza del gruppo Fininvest». In ottobre parte un’ispezione ministeriale segreta su cento milioni di lire prestati da un assicuratore a Di Pietro, che si dimette. Storditi dall’addio, Borrelli e gli altri pm interrogano Berlusconi il 13 dicembre. Nel passaggio cruciale Piercamillo Davigo gli contesta il depistaggio di Berruti. Il leader di Forza Italia risponde attaccando i pm: «E per una cosa del genere avete indagato il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Condannato in primo grado, Berlusconi ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che condanna Sciascia, Berruti e tutti gli altri. Solo lui poteva non sapere. A Tangentopoli, alla fine, ha stravinto Berlusconi.

Tangentopoli, i dieci verbali integrali. Il 17 febbraio del 1992 viene arrestato Mario Chiesa. Un mese dopo iniziano le ammissioni. Alla fine dell'inchiesta ci saranno 1.233 condanne definitive. Ecco le carte originali delle confessioni, scrive Paolo Biondani il 15 febbraio 2017 su "L'Espresso". Dieci verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Sono interrogatori che hanno scoperchiato il sistema della corruzione nella Prima Repubblica. Dalle confessioni a valanga del primo arrestato allo scontro finale tra Silvio Berlusconi e i magistrati di Mani Pulite. Ecco la storia raccontata dai documenti della magistratura.

Mario Chiesa è stato il primo dei circa mille arrestati di Mani Pulite, l’inchiesta della Procura di Milano che tra il 1992 e il 1994 ha travolto il vecchio sistema dei partiti. Presidente socialista di un ospizio milanese, Chiesa viene ammanettato il 17 febbraio 1992 quando ha appena incassato una bustarella di 7 milioni di lire (3.500 euro) versata da un imprenditore delle pulizie. Il 23 marzo 1992, davanti al pm Antonio Di Pietro, confessa vent’anni di corruzioni sugli appalti. Le sue rivelazioni chiamano in causa decine di indagati: imprenditori che pagavano e politici socialisti a cui consegnava personalmente buste di denaro. Le sue accuse provocano altri arresti nuove confessioni: l’inchiesta continua ad allargarsi e svela il sistema di Tangentopoli.

Dagli appalti milanesi l’inchiesta risale ai tesorieri nazionali dei partiti. Il 7 febbraio 1993 si costituisce Silvano Larini, ricercato per corruzione sugli appalti del metrò e grande amico di Bettino Craxi. Larini confessa di aver ricevuto per anni tangenti milionarie, che consegnava personalmente al leader socialista nel suo ufficio in piazza Duomo. Larini ammette anche di aver prestato un suo deposito svizzero a Craxi e al suo vice, Claudio Martelli: su quel conto, chiamato Protezione, sono arrivati 7 milioni di dollari versati nel 1980 dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la mediazione di Licio Gelli.

Pierfrancesco Pacini Battaglia è il banchiere italo-svizzero che ha gestito una massa di fondi neri dell’Eni: oltre 500 miliardi di lire (250 milioni di euro). Il 10 marzo 1993 si costituisce davanti al giudice Italo Ghitti e al pm Antonio Di Pietro. Pacini Battaglia svela le mediazioni segrete sui grandi affari per il gas e il petrolio. E confessa di aver fatto arrivare in Italia oltre 50 miliardi di lire, consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e della Dc, i partiti che controllavano il colosso energetico di Stato, allora in grave crisi. Le rivelazioni del banchiere aprono le indagini sui fondi neri delle grandi aziende e sulle maxi-corruzioni.

Tra il 2 e il 25 febbraio 1993 si apre il fronte delle tangenti rosse. Lorenzo Panzavolta, manager della Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi, confessa di aver versato mazzette (in totale circa 620 mila euro) al Pci-Pds nazionale. A incassarle, su un conto svizzero svelato nell’interrogatorio del 25 febbraio, era Primo Greganti, ex funzionario comunista senza incarichi ufficiali nel partito. Prima dei verbali di Panzavolta, ie indagini per corruzione avevano coinvolto solo la corrente migliorista, al potere a Milano con i socialisti ma avversata dal vertice nazionale del partito. Detenuto per mesi, Greganti non confessarà mai a chi dava i soldi.

Eugenio Cefis, il riservatissimo ed enigmatico ex re della chimica, viene convococato come semplice testimone, il 22 aprile 1993, dai magistrati che indagano sul crac Ambrosiano e sul conto Protezione. Spiega di non sapere nulla di quelle vicende, ma di poter dire molto sui finanziamenti illeciti deil’Eni ai partiti. Cefis mette a verbale i meccanismi di un sistema automatico di creazione di fondi neri, distribuiti ai cinque partiti di governo dal banchiere Arcaini dell’Italcasse. Un sistema che dice di aver ereditato da Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni. Cefis parla anche di un versamento estero al vecchio Pci per sbloccare affari in Unione sovietica.

Il 24 aprile 1993 Cesare Romiti, amministratore delegato del gruppo FIat, consegna ai magistrati un memoriale indirizzato al procuratore capo Francesco Saverio Borrelli. Dopo vari arresti di manager Fiat, i vertici del gruppo ammettono che sei società di costruzioni e forniture per i trasporti hanno dovuto pagare tangenti per vincere appalti. Romiti sostiene di averlo saputo solo dopo Tangentopoli, con un’inchiesta interna. Il memoriale, autorizzato da Gianni e Umberto Agnelli, fa i nomi dei manager Fiat pronti a collaborare con la giustizia. Una svolta per il mondo delle imprese.

Nell’autunno del 1993 i magistrati scoprono che anche la Lega Nord ha incassato tangenti dalla Montedison. Il tesoriere del partito padano, Alessandro Patelli, viene arrestato e il 15 dicembre 1993 confessa di aver incassato 200 milioni di lire (100 mila euro), versatigli in contanti, in nero, dai manager del gruppo chimico. Il leader della Lega, Umberto Bossi, nega di aver saputo della tangente e sostiene che Patelli gliene parlò solo a cose fatte. Dopo l’interrogatorio, Bossi restituisce alla Procura un assegno di 200 milioni raccolti con una colletta tra i militanti leghisti e al processo Enimont viene condannato per il reato di finanziamento illecito insieme a Patelli.

Dopo il suicidio di Raoul Gardini, il manager Giuseppe Garofano, cervello finanziario del gruppo Ferruzzi- Montedison, detenuto nel carcere di Opera, confessa tutti i dettagli della maxi-tangente Enimont: fondi neri per oltre 150 miliardi di lire (più di 75 milioni di euro) versati ai cinque partiti di governo, tra il 1990 e il 1992, e a decine di parlamentari e capicorrente.  Il processo Enimont, ripreso in diretta dalle principali reti televisive, porterà alle condanne definitive per finanziamenti illeciti di tutti i segretari e tesorieri della Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli, segnando la fine del vecchio sistema dei partiti.

Il 26 aprile 1994 un vicebrigadiere della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, denuncia una tentata corruzione: il suo capopattuglia gli ha offerto due milioni e mezzo di lire. Il caso fa esplodere lo scandalo della corruzione nelle verifiche fiscali, che porta alla condanna di decine di graduati, fino al generale Giuseppe Cerciello. A partire dal 7 luglio alcuni ufficiali confessano di aver intascato quattro tangenti dalla Fininvest. Il 13 luglio il governo Berlusconi vara un decreto, intitolato al ministro Alfredo Biondi, che impone di scarcerare i corrotti. Il decreto viene ritirato dopo una protesta dei pm.

Il 21 novembre 1994 Silvio Berlusconi, allora capo del governo, viene indagato come imprenditore con l’accusa di aver autorizzato i suoi manager a pagare tangenti alla Guardia di Finanza. Alla vigilia della data fissata per l’Interrogatorio, Di Pietro si dimette improvvisamente. La deposizione viene rinviata al 13 dicembre 1994. Nell’interrogatorio il pm Piercamillo Davigo contesta a Berlusconi un depistaggio cruciale per far tacere un finanziere corrotto. Il leader di Forza Italia nega tutto e attacca i magistrati. Condannato in primo grado, Berlusconi ottiene l’assoluzione in Cassazione, che condanna tutti gli altri manager Fininvest che hanno corrotto la Finanza.

Mani Pulite, Antonio Di Pietro: "Non ho rimorsi per i suicidi in carcere", scrive il 16 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Oggi Mani Pulite "compie" 25 anni. L'inchiesta che sconvolse l'Italia e fece crollare la prima Repubblica fa un quarto di secolo. E così, su Il Giorno, per "celebrarla" intervistano uno dei grandi protagonisti di quell'epoca, Antonio Di Pietro. Che azzanna, subito: "Il virus della corruzione? Invece di cercare una cura, il sistema ha reso il ceppo resistente ai vaccini". Insomma, per Tonino non è cambiato nulla. Ma ciò che più impressiona dell'intervista sono altri passaggi. Per esempio, spiega di non essersi pentito di nulla: "Errori? È inevitabile che ci siano. Se ne ho commessi, l'ho fatto sempre in buona fede, mentre compivo il mio dovere". E ancora, aggiunge: "Se mi posso rimproverare qualcosa, è di non essere riuscito a finire le inchieste, a causa dei dossieraggi e delle calunnie che mi hanno spinto a smettere la toga. Mi sono affidato all'autorità giudiziaria e sono uscito pulito". Dunque gli si chiedono se non si abusò della carcerazione preventiva per favorire le confessioni. Di Pietro risponde: "È una falsa giustificazione di chi non vuole ammettere i fatti. Chi commetteva reati non era un ladro di polli, c'era concreto pericolo di inquinamento delle prove. La carcerazione preventiva era un atto necessario, li avevamo presi con la marmellata". Si prova dunque ad indagare sul possibile pentimento per i suicidi ai quali spinse proprio la carcerazione preventiva. Pentimento che non c'è. Si chiede a Di Pietro se ha dei rimorsi, per esempio, per la morte del presidente Eni, Gabriele Cagliari, e Di Pietro afferma: "Come faccio ad avere dei rimorsi? Intendiamoci: tutto avrei voluto, tranne che qualcuno si togliesse la vita. Però la vita è uguale per tutti, non capisco perché non ci sono polemiche quando a morire è un tossicodipendente o un poveraccio. Se mi si dice: 'non bisogna più arrestare nessuno', poi non lamentatevi se viene meno lo Stato di diritto".

25 anni dopo la stagione di Tangentopoli: quell’inutile inchiesta di Mani pulite. L’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio del 1992 diede il via alla stagione che travolse la Prima Repubblica e pensava di cambiare la storia d’Italia. Ma a distanza di un quarto di secolo bisogna riconoscere che il problema della corruzione nel Paese è anche più forte, scrive Antonello de Gennaro il 17 febbraio 2017 su "Il Corriere del Giorno". Il 17 febbraio di 25 anni fa l’arresto di Mario Chiesa presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, diede inizio alla “rivoluzione giudiziaria” che ribalta la Prima Repubblica. In appena due anni, in cui passarono sul banco degli imputati ex premier ed ex ministri: Bettino Craxi e Arnaldo Forlani risposero nella stessa giornata alle domande dell’(oggi ex) pubblico ministero  Antonio Di Pietro.  Il terremoto si scatenò soltanto un mese dopo quando, alle 10 del mattino del 23 marzo, Chiesa cominciò a rispondere alle domande del pubblico ministero e del gip Italo Ghitti nel carcere di San Vittore. Quella mattina Mario Chiesa confessò le tangenti, riempì 17 pagine di verbale, e si vendicò di Bettino Craxi. Che soltanto venti giorni prima i aveva commesso un errore grossolano definendo Chiesa “un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione”. Qualcuno, in carcere, aveva raccontato quella definizione al presidente del Pio Albergo Trivulzio, che si sentì isolato ed abbandonato al suo destino giudiziario dietro le sbarre. E Chiesa decise di iniziare a parlare. Fu così che Tangentopoli ebbe inizio. Di giorno in giorno mentre si susseguivano gli arresti i pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo diventavano il simbolo della speranza di cambiamento a Milano ed in Italia. Davanti al portone del Palazzo di giustizia milanese di via Freguglia, si trasmettevano in diretta gli effetti di quella speranza che veniva dal quarto piano dagli uffici della procura milanese. I giornalisti bivaccavano nei corridoi per raccontare “Tangentopoli”, anche se in quei giorni a nessuno di noi era ben chiara dove e come sarebbe finita quella inchiesta. Si vedeva però il terrore sui volti e negli occhi di chi attendeva di varcare la porta dei magistrati per confessare le proprie responsabilità. Si vedevano, per la prima volta i potenti ridotti in vittime. Ma anche persone sconosciute si presentavano davanti alle porte dei magistrati del pool “Mani pulite”. I giornalisti li vedevano e chiedevano loro chi fossero. Molto spesso non rispondevano, guardavano pallidi, nervosi, sudati nel vuoto. Cosa accadeva dietro le porte dei magistrati, noi giornalisti non potevamo vederlo. Si riusciva a saperlo soltanto dopo, dalla voce di qualche avvocato o da qualche carta che sfuggiva ai rigorosi controlli del pool. In un libro del 1996, Il vizio della memoria, l’ex- pm Gherardo Colombo scriveva che “Queste nuove fonti erano di solito persone sconosciute che si presentavano, accompagnate dal difensore, in uno dei nostri uffici, generalmente quello di Antonio, e senza che noi sapessimo nulla di loro raccontavano, raccontavano fatti, reati, persone coinvolte, circostanze, date, passaggi di contanti, aperture di conti in Svizzera e così via”. “Ogni tanto si apriva una nuova ramificazione – aggiungeva Colombo – ogni tanto sulla superficie del cono, appariva il vertice di una nuova figura, destinato a essere autonoma origine di un nuovo filone, che si sarebbe sviluppato come quelli già avviati. Fin dall’inizio l’indagine aveva preso la forma di una spirale che, seguendo i contorni di un immaginario cono rovesciato, partendo dal vertice, si estendeva e saliva. Da un episodio quasi banale, come ne succedono tanti – l’arresto in flagranza di un funzionario pubblico che aveva chiesto denaro a un imprenditore recalcitrante per “consentirgli” di continuare a lavorare presso l’istituto che presiedeva – Antonio (Di Pietro, nda), all’inizio da solo, era riuscito ad avviare il meccanismo, fondato su una serie di rimandi”. L’inchiesta che travolse la politica della Prima Repubblica sì consumò ed esaurì dal febbraio 1992 al dicembre 1994 in meno di tre anni. Nei corridoio del quarto piano le espressioni dei volti dei singoli magistrati erano diventati il termometro degli alti e bassi dell’indagine. Ad  Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo erano stati affiancati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, da altri pm fra cui l’attuale procuratore capo di Milano  Francesco Greco, Fabio De Pasquale, Paolo Ielo, Elio Ramondini, Raffaele Tito, Margherita Taddei e Tiziana Parenti, a causa della moltitudine dei i filoni d’inchiesta che si erano aperti da seguire, interminabili le confessioni da far verbalizzare, per non parlare poi delle richieste di autorizzazione a procedere da inviare in Parlamento a carico dei politici coinvolti. Man mano che le pressioni politiche sul pool aumentarono d’intensità, si cominciavano a scorgere sui volti dei magistrati non più la stanchezza per quelle interminabili confessioni raccolte, ma bensì la preoccupazione che l’inchiesta potesse essere bloccata. Quando ormai l’indagine era decollata da un anno e mezzo, un venerdì pomeriggio 23 luglio 1993, Antonio Di Pietro stravolto fu visto picchiava i pugni contro il muro. Tutto il pool “Mani pulite” era sotto choc. Quella mattina fra le 8,30 e le 8,45 poco prima di essere arrestato Raul Gardini si era sparato un colpo di pistola alla tempia. Una a morte che seguì di soli tre giorni il suicidio del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari nel nel carcere di San Vittore.  Nel settembre 1992 cera già stato un precedente momento di crisi: il primo suicidio di Mani pulite, quello del parlamentare socialista Sergio Moroni. Il segretario del PSI Bettino Craxi, commentò quella morte assurda con una frase concisa che diceva tutto contro i magistrati del pool: “Hanno creato un clima infame”. E’ stata una stagione politica che si può capire solo con una lettura completa del corso degli eventi, in quanto le inchieste milanesi si sono incrociate con le stragi di mafia e con una disastrosa crisi economica profonda, che ha provocato la scomparsa di aziende storiche e la svalutazione della lira, che spinse il Governo Amato a prelevare dai conti correnti di tutti gli italiani il 6 per mille. Ma è stata anche una stagione di speranza, con la speranza di un rinnovamento generazionale ed etico della vita pubblica che si è rivelato disastroso. Sono nati nuovi movimenti politici, da Forza Italia di Silvio Berlusconi e Giuliano Urbani, alla Lega di Bossi e Maroni, e altri sono nati dalle polveri della tradizione democristiana e comunista. Ma nello stesso tempo i nuovi “politicanti” si sono ben guardati dall’instaurare di nuove   leggi e strutture create per impedire che le tangenti tornassero a circolare in tutto il Paese. E più di prima. Al contrario sono stati introdotti dei provvedimenti che invece di rendere più giusti i processi hanno ottenuto l’effetto contrario ostacolando la “macchina” della Giustizia, e provocando per effetto della prescrizione la scomparsa di migliaia di inchieste. Venticinque anni dopo, Francesco Greco che Gherardo Colombo definiva nel suo libro “dai tempi lunghi, il più assiduo a lavorar sulle carte, a esaminare i bilanci, a incunearsi nelle contabilità sociali per scoprirne mancanze, falsità, duplicazioni” siede ora nell’ufficio che fu di Francesco Saverio Borrelli. Antonio Di Pietro si è ritirato nella sua Montenero di Bisaccia dopo aver fondato un partito l’Italia dei Valori, ormai pressochè scomparso, ed essere stato ministro. Piercamillo Davigo è presidente di sezione in Cassazione e presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Gherardo Colombo è stato componente pressochè ininfluente del consiglio di amministrazione della RAI, è attualmente coordinatore del Comitato per la legalità e la trasparenza del Comune di Milano ed è presidente degli Organismi di vigilanza della Banca Popolare di Milano e del gruppo Sole 24 Ore le cui recenti vicende societarie confermano che non sia più molto vigile ed attento a quanto accade in giro. Dopo i venticinque anni trascorsi, è doveroso tristemente ammettere che il Paese non è stato in grado di fare tesoro di quel ciclone giudiziario. Risultato che oggi il problema della corruzione è incredibilmente più forte di prima. Le ragioni e cause sono le stessi del 1992: il finanziamento della politica non è trasparente, i partiti continuano a “lottizzare” indisturbati società ed enti pubblici. Certo, non esiste più quel sistema verticistico che applicava il manuale Cencelli anche alla spartizione delle tangenti, definendo quote precise a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale. Un sistema in cui – a livello locale e nazionale – le indagini dimostrarono anche un ruolo del Partito Comunista Italiano, da sempre molto vicino agli ambienti e correnti della magistratura. L’inchiesta “Mani pulite” ha fatto cadere la Prima Repubblica ma non ha sconfitto la corruzione. L’illusione dei magistrati è durata lo spazio di pochi anni. Gli echi di quella stagione si sono spenti. Ed al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano sono esplosi i veleni fra gli stessi magistrati. Le inchieste chiaramente non si sono fermate ma non viene più assegnato loro quella speranza che si respirava ascoltato il pensiero e le opinioni degli italiani nella stagione di “Tangentopoli”. Adesso i magistrati hanno solo il compito che dovrebbero sempre avere: semplicemente trovare i reati, impedirli e punirli.  Senza avere la pretesa che debbano essere i magistrati i delegati a correggere le storture della democrazia nel nostro Paese. Nel 2017 le segreterie dei partiti non sono più il fulcro della gestione dei finanziamenti illeciti. Adesso il mercato della corruzione è dominato da consorterie trasversali, bande che legano gli interessi di politici e imprenditori. E sempre più spesso le mafie si inseriscono in queste dinamiche, offrendo bustarelle e mettendo a disposizione i loro capitali. E’ il copione di Mafia Capitale, è il modello criminale che minaccia il nostro futuro. E Roma sotto la guida del procuratore capo Pignatone non è più il porto delle nebbie, mentre non sono pochi i magistrati che in Italia vengono denunciati per gli abusi commessi nell’esercizio del loro potere, a volte vengono arrestati, si lanciamo in politica e spesso  finiscono sotto inchiesta del Consiglio Superiore della Magistratura come il novello autocandidato “salvatore del Paese ” Michele Emiliano che ha dimenticato e rimosso….frettolosamente certe frequentazioni e rapporti personali  con la famiglia di imprenditori baresi De Gennaro coinvolti nell’inchiesta su alcuni appalti realizzati a Bari negli ultimi anni. E’ l’Italia….bellezza? O ha ragione chi sostiene che il nostro Paese viveva meglio nella Prima Repubblica, e la politica nonostante tutto era una cosa seria?

Un inedito di Bettino Craxi: «Ecco cosa fu Tangentopoli». A partire da martedì prossimo, fino a sabato, il Dubbio pubblicherà il memoriale di Craxi, scrive Piero Sansonetti il 12 febbraio 2017 su "Il Dubbio". Nel febbraio di venticinque anni fa (esattamente il 17 febbraio) nasceva Tangentopoli. Cioè iniziava quell’inchiesta giudiziaria, chiamata “Mani pulite”, condotta da un pool di magistrati i cui nomi sono ancora oggi molto noti (Di Pietro, Davigo, Colombo, D’Ambrosio, Ielo, coordinati dal Procuratore Borrelli) che in pochi mesi avrebbe raso al suolo la Prima Repubblica, cancellato partiti democratici radicatissimi, come la Dc e il Psi (oltre a vari partiti più piccoli), eliminato leader di grande statura, riformato profondamente e ridimensionato tutta la politica italiana. I numeri di quella inchiesta sono impressionanti. Più di 20 mila avvisi di reato, più di quattromila arresti, una decina di suicidi. Tutti tra esponenti alti e medio- alti del mondo politico e imprenditoriale. Alla fine ci furono un migliaio di condanne. Che indubbiamente sono tante, ma sono anche poche se si considera la quantità di persone travolte dall’inchiesta e poi risultate innocenti. Più o meno 19 mila. Tra i condannati, molti hanno continuato a reclamare la propria innocenza. E tra questi il più famoso di tutti, e anche il più combattivo, è stato Bettino Craxi. Sapete che Craxi nel 1994 si rifugiò in esilio in Tunisia. E lì trascorse gli ultimi sei anni della sua vita. Pochi mesi pima di morire, nella speranza che il parlamento si decidesse a varare una commissione di inchiesta su Tangentopoli, Craxi scrisse un memoriale di 24 pagine che poi non fu consegnato a nessuno, perché la commissione di inchiesta non fu mai formata, forse per pigrizia, più probabilmente per non sfidare la magistratura, che non gradiva. Così il memoriale di Craxi, che doveva essere una relazione da consegnare alla commissione parlamentare, è rimasto in questi anni alla fondazione Craxi. La quale gentilmente, in occasione di questo anniversario, ci ha concesso di pubblicarlo. Lo faremo, sul Dubbio, a partire da martedì prossimo, suddividendolo in cinque puntate: una puntata al giorno, fino a sabato. Si tratta di un documento inedito, molto interessante, e di valore storico assoluto. Perché ricostruisce la vera struttura di Tangentopoli. E cioè racconta di come la Repubblica italiana, dall’inizio della sua vita, nel 1945, ha visto la propria struttura politica principale – costituita dai partiti – finanziata permanentemente in modo illegale o irregolare. E di come questa metodologia fosse da tutti ben conosciuta e da tutti accettata. Nel mondo politico, nel mondo dell’economia, nella magistratura. Perché allora il problema fu sempre ignorato? Perché nessuno aveva mai voluto mettere le mani sulla questione, molto complicata, del finanziamento dei partiti. Per superare il finanziamento illegale c’erano solo due strade: realizzare un robusto e adeguato finanziamento pubblico, che rendesse inutile il finanziamento illegale, oppure abolire i partiti. Fu scelta la seconda via. Craxi descrive in modo dettagliato i costi della politica democratica, e poi racconta la natura dei finanziamenti (che erano e non potevano essere che ingenti) dagli anni 40 in poi: potenze straniere, enti pubblici, impresa privata. E ragiona anche su come, almeno in parte, questi finanziamenti condizionassero le scelte dei partiti, sia sul terreno delle politiche economiche sia della politica estera. La lettura del memoriale- Craxi pone, quasi 20 anni dopo la sua morte, alcune domande molto serie e anche difficili. Provo a riassumerle in modo schematico:

1) Se è vero – e non mi pare che nessuno mai abbia nemmeno provato a smentire questo dato – che tutta la politica, per quasi cinquant’anni, è stata finanziata illegalmente, perché solo nel 1992 la magistratura ha deciso di intervenire?

2) Se è vero che tutta la politica era finanziata illegalmente, perché furono colpiti solo i partiti di governo, e in particolare il Psi?

3) Se è vero, come oggi dice il dottor Davigo, che i finanziamenti illegali sono continuati per anni, e ancora continuano, come mai nel 1994, e cioè dopo che Bettino Craxi era stato abbattuto, “Mani pulite” si fermò? Craxi era un obiettivo speciale per il pool milanese? La sua sconfitta fu considerata un risultato sufficiente per il successo dell’inchiesta?

4) La scelta di affrontare il finanziamento illecito dei partiti coi “bulldozer”, che provocò di fatto la fine del partito politico – di massa, democratico e popolare – che avevamo conosciuto fino ad allora, fu sostenuta in qualche modo da forze estranee alla magistratura ( forse economiche, editoria, giornali) che erano interessate a nuove forme, leaderistiche e personalistiche, di politica, che riducessero al minimo il tasso democratico, e semplificassero il processo decisionale e il rapporto tra politica e altri poteri?

Per ora ci fermiamo a queste domande. Nei prossimi giorni, pubblicando il memoriale di Bettino Craxi, cercheremo di aprire la discussione su questi argomenti. Forse il fatto che sia passato un quarto di secolo può consentire, oggi, una discussione vera, senza tabù, per capire davvero cos’è successo, perché è successo, se tutto quello che è successo è stata una grande opera di giustizia o di ingiustizia.

A 25 anni dall’inchiesta “Mani pulite” è pubblicato su "Il Dubbio" del 14 Febbraio 2017 il Memoriale scritto dall’ex premier e segretario socialista prima di morire. Un testo in cui descrive i meccanismi del finanziamento illegale della politica e la differenza tra finanziamento illegale e corruzione. «Vi spiego come funzionava Tangentopoli», scriveva Bettino Craxi.

«In Italia, il finanziamento illegale della politica non è di certo un fenomeno nato e vissuto solo negli anni ’ 80 e seguenti. Eppure c’è chi, a digiuno di storia e navigando nella mistificazione, ne parla come se di questo si sia trattato. Tutto al contrario questo fenomeno accompagna addirittura la storia nazionale, almeno dall’unità d’Italia in poi. I mezzi finanziari per sostenere le attività politiche, le loro strutture permanenti di sostegno, le campagne di propaganda e le campagne elettorali sono sempre stati ricercati e trovati seguendo sentieri che molto spesso sono andati ben al di là delle regole e dei confini della normalità, della trasparenza e della legalità. Senza scavare in mezzo agli innumerevoli episodi di tempi ormai molto lontani, attraverso il corso della storia italiana prima dello Stato unitario, monarchico, liberale e poi fascista ma limitandoci solo a considerare la vita della Repubblica democratica si può senz’altro dire che sin dalle sue origini e cioè sin dal decorrere del dopoguerra, il finanziamento della politica, tanto nei suoi aspetti interni che in quelli internazionali, ha presentato molti lati oscuri, a tutt’oggi peraltro non tutti chiariti o chiariti solo in parte. All’interno di un fenomeno così diffuso non sono poi naturalmente mancati, nelle varie epoche, episodi molteplici di corruzione, di degenerazione e di malcostume. Era una materia per la quale il concetto di controllo era sempre molto discutibile, la segretezza delle operazioni aveva un suo ruolo così come lo aveva la delicatezza delle implicazioni politiche. I Partiti, le correnti organizzate dei partiti, i clan politici, i singoli esponenti della classe politica, nello scorrere della vita democratica, delle sue contrapposizioni, delle sue alleanze e dei suoi contrasti, si sono comunque sempre alimentati finanziariamente nelle forme più diverse, unendo insieme entrate dichiarate e rese pubbliche ad entrate invece molto più spesso non dichiarate e quindi rimaste sostanzialmente nell’ombra, ignorate persino dai membri stessi delle singole organizzazioni. La storia della democrazia repubblicana potrebbe così essere letta anche attraverso la complessa storia del finanziamento dei soggetti politici che hanno esercitato in essa un ruolo preminente e significativo, partecipando e determinando lo svolgimento e la dialettica propria della vita democratica. Intendiamo riferirci in questo modo soprattutto a sistemi e fonti di finanziamento attorno alle quali si sono mosse le influenze di potere, l’azione dei gruppi economici pubblici e privati e delle organizzazioni sociali, le relazioni, le influenze, le solidarietà e i commerci, con connessioni o meno, a seconda dei casi, con attività di carattere spionistico, eversivo, illegale, internazionali. Anche la corruzione nella Pubblica Amministrazione e la corruzione aziendale non sono di certo caratteristiche specifiche e nuove nate negli anni ’ 80. Si tratta di fenomeni, tanto il primo che il secondo, che hanno come è noto radici antiche anzi antichissime. Esse giungono attraverso vie secolari sino alla moderna società industriale dove hanno avuto una loro diffusione con tratti particolari ma comunque sempre assai ben individuabili. Esse hanno trovato e trovano i loro collegamenti con il finanziamento illegale della politica, senza tuttavia necessariamente identificarsi con esso, trattandosi di fenomeni di portata ben più generale, con responsabilità ed interessi propri e diretti di classi burocratiche, manageriali, imprenditoriali, professionali oltreché naturalmente di soggetti individuali della politica e dell’amministrazione. Di finanziamenti non dichiarati e quindi, dopo l’entrata in vigore di apposite leggi, che regolavano la materia, di finanziamenti illegali, hanno certamente beneficiato sistematicamente tutti i partiti democratici nessuno escluso. Se vi sono delle eccezioni, come da qualche parte si afferma, si tratta di formazioni minori di cui tuttavia non risulta che nessuno mai abbia effettuato controlli sui bilanci, le entrate, le spese. Di finanziamenti non dichiarati ha certamente beneficiato gran parte della classe politica, ivi compresi quindi buona parte di coloro che, in questi anni, si sono messi le maschere e i panni del moralizzatore. Ce ne è in circolazione un numero notevole a rendere ancor più falsa e paradossale l’attuale situazione. Vi sono alcuni tra questi che lo hanno fatto sino a quando non sono stati smascherati. Altri lo continuano a fare, sino a quando, nonostante tutte le protezioni, non finiranno con il subire la stessa sorte di altri, come è possibile e naturalmente auspicabile che avvenga, anche se ormai tanto materiale è finito in cavalleria e per riesumarlo occorrerebbero ricerche molte impegnate. Gli uni e gli altri, Partiti e classe politica, fronteggiavano un bagaglio di spese, che, a parte possibili ma abbastanza poche eccezioni di soggetti ad alto reddito personale, che meriterebbero di essere elencati, non potevano essere affrontate se non con il ricorso ad entrate di tipo straordinario. Questa linea di condotta era propria di tutti i maggiori Partiti del Paese, sia che si trattasse di Partiti di governo che di Partiti di opposizione. Tutti si avvalevano, naturalmente in misura diversa, di strutture burocratiche diversificate, di reti associative, di scopo che esercitavano un’azione permanente di sostegno, di reti di informazione fondata su quotidiani e periodici, di canali radiofonici e televisivi, di attività editoriali, di centri-studi, di scuole di formazione politica. Altre iniziative di rilievo finanziario riguardavano acquisizioni immobiliari per sedi e luoghi di incontro, circoli e quant’altro si proponeva come utile e necessario per favorire ed incrementare la vita associativa e per moltiplicare le iniziative di incontro, i dibattiti, le manifestazioni. I Partiti minori, in forma minore, con esigenze minori, partecipavano tuttavia anch’essi alla ricerca possibile dei mezzi finanziari di cui avevano bisogno. Operavano naturalmente con strutture ridotte, apparati più piccoli, esigenze finanziarie di spesa non paragonabili quindi a quelle dei grandi partiti. E tuttavia, anche quasi tutti i Partiti minori, come appare documentato, contavano su quotidiani, periodici, case editrici, sedi in gran parte dei comuni del paese, e, nell’insieme, affrontavano le campagne elettorali gareggiando spesso per l’ampiezza delle risorse impegnate con la propaganda dei Partiti maggiori e campagne elettorali personali assolutamente competitive per i mezzi di propaganda impegnati. Non sarebbe difficile per questo fare qualche esempio perfettamente documentabile. Piccolo partito, grande candidato, grande campagna elettorale. Per tutti, l’asprezza della lotta politica, l’urto frontale che contrapponeva le forze tra loro, la concorrenza e la contrapposizione sovente esasperata, la lotta tra i candidati per conquistare la elezione, l’organizzazione della raccolta delle preferenze per i singoli, per i clan, le correnti, e le cordate, finivano con il giustificare agli occhi dei responsabili politici, nell’ottica dello scontro e della rivalità, e nella prospettiva del successo o della sconfitta, la ricerca talvolta anche la più spregiudicata dei mezzi finanziari. E, talvolta, così come era spregiudicata la raccolta egualmente ne era spregiudicato l’utilizzo. I Partiti in ogni caso non hanno mai vissuto dei soli mezzi derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni così come essi venivano dichiarando ufficialmente. Il sistema era ben più complesso, articolato e spesso incontrollato e talvolta anche assai contorto e tutti i dirigenti ne erano perfettamente consapevoli. Alla entrate ordinarie e dichiarate si aggiungeva così una parte cospicua costituita da forme di finanziamento non dichiarato proveniente dalle fonti più varie e disparate, ed anche quindi con caratteristiche di provenienza illegittima e comunque in violazioni di leggi dello Stato ed in primo luogo della legge sul finanziamento dei partiti. L’industria di Stato, l’industria privata, i gruppi economici e finanziari, il movimento cooperativo, le associazioni che univano grandi categorie della produzione, della distribuzione e dei servizi, singoli, gruppi e società hanno tutti nell’insieme concorso al finanziamento della politica, e del personale politico, ed a seconda dei casi, in forma stabile, in forma periodica, in occasioni di campagne elettorali in modo diretto ed in modo indiretto. Le loro decisioni si diversificavano per l’entità delle contribuzioni e per la loro destinazione a seconda delle loro differenti opzioni politiche, delle loro convenienze, delle loro preferenze personali. È così capitato che il movimento cooperativo rosso per esempio sia diventato uno dei principali agenti organizzatori e trasmettitori di finanziamenti in forma regolare e costante al Pci. Ciò avveniva soprattutto in certe regioni ma anche su scala nazionale, tanto al Nord che al Centro che al Sud. Il Psi partecipava a questa forma di finanziamento ricevendone vantaggi ma con caratteri e con un ruolo tuttavia assolutamente minore. Tutto questo sistema può naturalmente essere rivisitato e ricostruito, perlomeno nelle sue grandi linee, percorrendo le epoche diverse che sono state attraversate, e analizzando tutti gli aspetti vari, particolari e specifici su cui esso si era venuto strutturando.

Tutta l’esperienza che si è accumulata nella vita democratica repubblicana conduce a concludere, con assoluta evidenza, che il complesso del sistema economico, a partire della sue entità maggiori e più significative, partecipava con l’erogazione diretta di mezzi finanziari e attraverso altre forme indirette di appoggio, ed anche nel campo della informazione, della pubblicità e dei servizi, al sostegno ed anche allo sviluppo del sistema politico democratico e delle sue attività politiche, associative, culturali, formative, propagandistiche, elettorali. Parimenti il sistema economico esercitava sul sistema politico e sulle sue decisioni un’azione di condizionamento che era maggiore o minore in relazione alla capacità ed alla forza di autorità e di autonomia delle differenti formazioni politiche e dei diversi soggetti politici. Questo processo di condizionamento si esercitava sui Partiti, sul loro espressioni parlamentari, governative ed amministrative ed anche naturalmente sui singoli esponenti politici soprattutto quando questi ultimi divenivano personalmente tributari in modo decisivo per le loro attività, per il sostegno della propria organizzazione ed immagine, e per il successo elettorale proprio e dei propri grandi elettori. In questo modo ricevevano contributi sia i Partiti che le correnti dei Partiti, spesso organizzate come sotto-partiti, che i singoli esponenti politici che necessitavano anch’essi di reti di supporto burocratiche, associative o più semplicemente clientelari. Agendo in questo modo i gruppi economici finanziatori erano a loro volta mossi da obiettivi molteplici. Perseguivano obiettivi di carattere generale volti a difendere un sistema di valori da cui si sentivano garantiti e a sostenere determinati equilibri politici e le forze che li costituivano e li alimentavano e che quindi ricercavano, mantenevano, o si sforzavano di mantenere, un quadro di stabilità politica nel governo generale della Repubblica, sostenendo posizioni anche tra loro divergenti. Erano mossi ancora da motivi di carattere generale in funzione di politiche economiche finanziarie, industriali, scientifiche, ed anche di politiche comunitarie ed internazionali che consideravano adeguate e necessarie per il proprio sviluppo e corrispondenti alle esigenze produttive ed economiche generali del Paese. Ancora erano mossi da interessi più particolari con riferimento a specifiche decisioni legislative, normative, amministrative e di orientamento e definizione della spesa pubblica. Ancora vi erano interessi più delimitati che riguardavano i programmi, la loro attuazione, e le decisioni relative delle Pubbliche Amministrazioni e degli Enti Pubblici nazionali, regionali e locali. In quest’ambito aveva una valenza l’influenza dei Partiti e dei gruppi politici, ma nell’insieme le maggiori forze economiche avevano anche e soprattutto proprie strutture e capacità di influenza diretta sulla Pubblica Amministrazione e sugli Enti pubblici con un complesso di relazioni spesso dirette e personali e con un grado quindi di penetrazione notevole ed efficace, volto a predisporre ed ad indirizzare nelle direzioni volute le decisioni pubbliche e la stessa condotta del ceto politico. Tuttavia anche in questi casi, quando l’influenza veniva esercitata in una forma lineare, il grado di garanzia e di tutela del pubblico e generale interesse poteva essere salvaguardato. Quando invece questa influenza veniva esercitata in forma spregiudicata e distorta, con l’impiego di mezzi e secondo metodi di corruzione personale, cui spesso non erano estranei gli interessi degli stessi soggetti erogatori, sull’interesse pubblico reale veniva sovente steso un velo interessato e pietoso. Nel mondo politico gli interlocutori privilegiati erano le istituzioni governative, parlamentari e le formazioni che componevano le maggioranze. Ma non venivano affatto trascurate quelle di opposizione, naturalmente in modo diverso a seconda dei casi, ed in rapporto alla loro influenza nel Parlamento, nelle istituzioni, nei grandi Enti Pubblici, nelle Amministrazioni regionali e locali e in generale nella vita del Paese e negli orientamenti della pubblica opinione. Nelle Amministrazioni regionali e locali, del resto le maggioranze politiche e di governo si diversificavano a secondo delle Regioni, dei Comuni e delle Province e, in molti casi, formazioni all’opposizione sul piano nazionale, costituivano invece il perno politico centrale o sussidiario del governo regionale e locale. Quando si trattava di decisioni che potevano avere effetto sull’attività produttiva o riguardavano programmi di Enti sociali, veniva ricercata e spesso ottenuta anche l’influenza e l’accordo di interlocutori del mondo sindacale e sociale anche con contributi finanziari volti ed effettuati in questa direzione. In taluni casi, rappresentanze sindacali anche di livello nazionale ricevevano perciò, in forma diretta o indiretta, contribuzioni in forma periodica ed anche continuativa. In particolare, in relazione all’attività di Enti amministrati da rappresentanze sindacali il dialogo e le eventuali contribuzioni finanziarie connesse veniva stabilito direttamente con interlocutori sindacali oppure attraverso la mediazione di fiduciari dei Partiti cui le rappresentanze sindacali in questione erano collegate. Il finanziamento irregolare ed illegale rivolto ai partiti ed alle attività politiche, ed anche a gruppi e singoli esponenti del mondo politico, oltreché di carattere interno era anche di carattere e provenienza internazionale. Si tratta in questo caso di un capitolo molto complesso. Esso non è mai stato esplorato sino in fondo, anche se, per molte parti, a distanza di decenni, taluni dei suoi aspetti sono venuti alla luce in modo abbastanza evidente e documentato. Il finanziamento internazionale a forze politiche italiane nel periodo repubblicano ha sempre presentato una natura composita. Esso comprendeva voci e fonti molto diversificate, era di natura finanziaria diretta e di natura indiretta, si poteva presentare anche in forma di servizi e spesso in connessione con attività commerciali. I Paesi che, nelle varie forme, hanno concorso a questo tipo di finanziamento sono stati molti. Tuttavia, sostanzialmente, si trattava di strutture dipendenti dagli Usa e dall’URSS e di attività e strutture proprie dei Paesi appartenenti alle loro aree di influenza politico- militare. Le due maggiori potenze, guidando le loro alleanze politico- militari, avevano ingaggiato tra loro un braccio di ferro durato poi decenni. Si trattava di una contrapposizione e di una contesa che si proponeva di difendere, consolidare ad estendere le rispettive aree di influenza e quindi, in particolare, punti geopolitici di importanza strategica. A questo scopo venivano effettuati interventi soprattutto nei Paesi considerati anelli deboli e, a causa della loro fragilità ed instabilità politica, esposti al rischio ed alla possibilità di una frattura interna e di un rovesciamento delle posizioni, e in aree che, per le loro caratteristiche, potevano essere considerate utili. In Europa, tra i grandi Paesi, l’Italia era certamente considerato uno di questi. In questo contesto, diversi Partiti italiani e diversi leader politici, in epoche diverse hanno sollecitato, accettato, beneficiato di finanziamenti di questa natura, anche se ci riferiamo soprattutto agli anni del dopoguerra. Tutti i maggiori leader del dopoguerra italiano hanno fatto i conti con questa realtà ed hanno rafforzato la propria azione anche ricorrendo all’aiuto di finanziamenti internazionali. Dei finanziamenti provenienti dagli Usa hanno così beneficiato, per tutto un certo periodo, formazioni politiche dei governi postbellici. Dei finanziamenti provenienti dall’URSS e dal blocco sovietico ha beneficiato soprattutto il Partito Comunista. Quest’ultimo ne ha del resto sempre beneficiato sin dalla sua origine e via via attraverso le fasi travagliate della sua storia, sino agli anni più recenti e cioè sino alla caduta dell’impero sovietico ed alla fine del potere comunista nell’URSS. Dalla sua nascita, e prima ancora come corrente del PSI, sino alla sua scomparsa, visse di finanziamenti sovietici il PSIUP e, per aggiunta, ricevettero finanziamenti sovietici singole personalità o frazioni politiche tanto del PSIUP che del PCI. Anche il partito Socialista aveva ricevuto nel passato finanziamenti dall’estero, sotto varie forme, dirette ed indirette Sino al 1956, e cioè l’anno della rivolta ungherese, della solidarietà espressa dai socialisti italiani ai patrioti insorti a Budapest, con la conseguente aspra polemica con l’invasore sovietico e la rottura che poi ne seguì con i comunisti italiani, il PSI aveva ricevuto aiuti finanziari e materiali dall’URSS e da altri Paesi del Patto di Varsavia. Nel periodo immediatamente successivo ricevette invece un aiuto finanziario direttamente dagli Usa. Sotto le direzioni politiche che seguirono il PSI non mi risulta abbia mai ricevuto alcun finanziamento proveniente da Partiti o da Stati stranieri, mentre non si deve escludere che singoli esponenti del PSI ne abbiano potuto beneficiare sulla base di loro relazioni personali e particolari e in quest’ambito anche gli stessi Amministratori del PSI.

In materia di finanziamento estero il Pci, divenuto poi Pds, a differenza degli altri Partiti, aveva organizzato una vera e propria struttura permanente che nel corso dei decenni, si è venuta costantemente ampliando e perfezionando sì da garantire dei flussi di finanziamento costanti che rappresentavano una parte certamente rilevante delle sue entrate. Il potere sovietico, anche nei momenti di incomprensione e di difficoltà nei suoi rapporti con il Pci e le sue elaborazioni politiche, sia pure diffidandone, ha sempre continuato a considerare il Partito Comunista italiano come il suo principale alleato occidentale. In nessun altro Paese dell’Occidente un partito comunista era mai del resto riuscito a realizzare un così forte radicamento popolare e ad esercitare una così grande influenza come il Pci in Italia. La sua posizione era considerata di essenziale importanza anche perché si trattava di un Paese di frontiera dell’Alleanza Atlantica. Tra l’Urss e il Pci si mantenne vivo un legame storico profondo che tale rimase anche quando si erano allargate le maglie dell’autonomia del movimento comunista italiano e si era venuto modificando il rapporto di stretta obbedienza ideologica e politica rispetto al potere sovietico, e la stessa Urss aveva preso a finanziare frazioni interne del Pci. Restava comunque la sistematica continuità e l’ampiezza degli aiuti finanziari che non sono mai venuti a mancare. Questi contributi provenivano direttamente dal Pcus e, a partire dal ’ 74, da una apposita organizzazione alimentata con fondi dell’Urss e dagli altri Paesi del Patto di Varsavia. Provenivano da interventi specifici del Kgb e da Servizi Segreti collegati. Provenivano da altre entità ed istituzioni sovietiche compresa la “Croce Rossa”. Si trattava di aiuti finanziari e di altre forme di solidarietà attraverso la erogazione gratuita di servizi sanitari, di ospitalità politica e turistica, di servizi culturali, di formazione accademica e professionale ed anche di specializzazione in vari campi, ivi compresi attività di natura spionistica e clandestina. Ma la parte di gran lunga più rilevante proveniva dalle attività di import- export, dirette, indirette, partecipate e dalle commissioni sui grandi lavori effettuati da imprese italiane in Urss e nei Paesi del Comecon. Era anche in ragione di questo sostegno straordinario che proveniva, con un flusso costante, dal blocco politico- militare avverso al blocco politico- militare di cui faceva parte il nostro Paese, che il maggior Partito di opposizione poteva contare su strutture burocratiche partitiche permanenti che non avevano l’eguale in nessun altro Paese del mondo non comunista, e poteva parimenti contare su risorse certamente all’altezza se non superiori a quelle di qualsiasi altro Partito Italiano di governo e non. Nello scontro politico non mancava un fattore anomalo. Risulterà infatti anche storicamente accertato il comportamento di totale cinismo di gruppi economici ed industriali di primo piano del nostro Paese che, perseguendo il loro particolare interesse e, in taluni casi, anche in violazione delle norme concordate in sede di Alleanza Atlantica, alimentarono la possibilità di finanziamento dei comunisti italiani, contribuendo ad accrescere in tal modo la distorsione dei rapporti nella vita democratica nazionale. Non c’è dubbio, del resto che il finanziamento estero assicurato ai comunisti italiani era di natura tale da provocare, in questo campo, il moltiplicarsi delle reazioni, in un certo senso convenzionali, delle formazioni politiche di Governo. Le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti che si proponevano di riportare ordine nella materia, di regolarla, di assicurare un sostegno pubblico sostitutivo dei sistemi di finanziamento irregolare che si erano venuti sempre più diffondendo, in realtà non riuscirono affatto a modificare di molto la situazione. Mentre da un lato infatti i Partiti potevano contare su di un contributo annuale certo anche se delimitato, dall’altro si trovavano sempre di fronte ad un aumento crescente dei fabbisogni e delle spese. I contributi dello Stato erogati sulla base della legge erano d’altra parte già in partenza del tutto inadeguati e per di più non indicizzati. Con il passare del tempo l’incidenza ed il valore del contributo pubblico si venne così progressivamente ridimensionando. In rapporto ai contributi erogati dallo Stato ai Partiti politici in altre democrazie europee, per esempio la Repubblica Federale tedesca, il contributo italiano appariva di gran lunga inferiore e largamente insufficiente. Dal canto loro invece le spese continuavano ad aumentare. Era il portato stesso dello sviluppo della società burocratica, dall’estendersi delle reti di informazione e dei servizi mentre si moltiplicavano le varie articolazioni e strutture necessarie per l’efficacia della propaganda e mentre contemporaneamente crescevano anche gli stimoli verso la spettacolarizzazione della politica, e la connessa competitività per la conquista del consenso. La ricerca di mezzi finanziari per sostenere ed alimentare le attività politiche in tutte le loro diverse espressioni, invece di ridursi, era sollecitata ad allargarsi, sia ripercorrendo le vie consuete che individuandone di nuove. In questo modo finivano con l’ampliarsi anche aree contigue ed oscure entro le quali questa ricerca di mezzi finanziari, fatta in nome e per contro dei partiti, spesso si trovava ad agire in modo incontrollato e difficilmente controllabile. E, all’interno di aree oscure, diventava molto difficile impedire il diffondersi, in livelli diversi, di degenerazioni e di corruttele di molteplice natura. Bisogna considerare inoltre che all’aumento continuo delle spese corrispondeva da un altro lato una progressiva riduzione delle entrate tradizionali ordinarie e cioè quelle derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni volontarie. Talune spese erano peraltro di natura tale da non poter essere fatte oggetto di riduzioni. Per esempio le spese per il personale. Queste non potevano essere quasi mai ridotte. Di fronte a misure di riduzione, intervenivano pretori sempre pronti ad imporre le riassunzioni del personale. I sindacati per parte loro avevano ottenuto la introduzione nei partiti del contratto del commercio, e data la sua improprietà, in aggiunta anche di un contratto integrativo aziendale. A ciò si aggiunga che, almeno per quanto riguarda il Psi, l’Amministrazione centrale venne chiamata a rispondere, subendo ripetute condanne, anche del personale liberamente assunto da organizzazioni periferiche e da loro retribuito. La riduzione delle entrate d’altro canto si poneva in parallelo con una società del benessere che, facendosi strada con gli stili propri di un consumismo sempre più diffuso, con le sue più ampie libertà, e con gli spazi vitali occupati dal video e dallo spettacolo, riducevano il valore e la portata associativa dell’entità tradizionale e tipica del Partito. Un tempo la vita associativa del Partito, per i suoi aderenti, se non era tutto rappresentava certo moltissimo. Il Partito non era solo uno strumento di lotta politica e di lotta elettorale ma rispondeva a bisogni associativi, sociali, culturali, umani. Entrando in una nuova fase l’associazionismo partitico, seguendo la sorte che deriva da una più generale evoluzione, perde di peso, si riduce, si isterilisce. Dalla nuova società che avanza vengono offerte altre opportunità ed altre possibilità di incontri, di attività, di iniziativa personale e di gruppo. La struttura Partito, soprattutto nelle grandi città, tende generalmente a trasformarsi. Succede così che il suo ruolo cambia, mentre la vita interna si rianima e rinasce solo e soprattutto in funzione delle fasi elettorali e pre-elettorali. Nell’area partitica prende contemporaneamente corpo un nuovo fenomeno negativo. Paradossalmente infatti mentre da un lato si riduce e si isterilisce il ruolo associativo dei partiti, e quindi l’attività dei suoi membri, dall’altro tende ad aumentare il numero degli iscritti. E’ il segno inequivocabile di una degenerazione che penetra nella vita dei Partiti, o almeno in una parte importante del sistema partitico e in particolare di quello di governo.

Nella vita partitica si affaccia il mercato delle tessere i cui pacchetti, corrispondenti ad iscritti inesistenti o forzati o semplicemente favoriti, servono solo a mantenere ed a consolidare l’influenza interna delle nomenklature e dei gruppi organizzati ed a regolare i rapporti tra di loro. Si tratta il più delle volte di configurazioni oligarchiche che si sono via via formate attraverso processi di selezione interna, ma che sovente si sono trasformate in incrostazioni praticamente quasi inamovibili. Il loro prevalere impedisce il ricambio naturale e dialettico o lo realizza solo per la via obbligata della cooptazione. La democrazia in questi Partiti è già entrata in una fase di involuzione e di decadenza. Naturalmente questa degenerazione si riflette anche sull’insieme del sistema di finanziamento partitico e dell’attività politica. Già le correnti politiche si erano venute sempre più radicando come correnti anche elettorali e quindi con esigenze di spesa che le spingevano verso una ricerca propria ed autonoma di finanziamento. Lo stadio negativo ulteriore si veniva poi configurando nella definizione di aree di influenza tanto sulle gestioni amministrative che nella rappresentanza di influenze lobbistiche. Attorno ad esse si raggruppavano ramificazioni clientelari che fornivano ad un tempo un valido supporto per la rappresentanza elettorale interna ed esterna. Era una mobilitazione di gruppi che si avvaleva, nella sua presentazione pubblica, di formule e proposizioni ideologiche e politiche, ma che in realtà era sempre meno intessuta dei valori propri della ideologia e della politica. Dal canto suo il fenomeno del tesseramento artificioso costituiva anche un ulteriore fattore di spesa nel contesto delle spese già dilatate per il complesso delle esigenze politiche normali e straordinarie. Vi furono diversi responsabili di Partiti, che resisi consapevoli di questi fenomeni degenerativi, tentarono di organizzarsi per contrastarli. La loro azione non poteva essere disciplinare e di controllo, giacché in concreto una azione di questa natura si presentava praticamente impossibile. Essa si proponeva e ricercava la via di riforme statutarie con lo scopo di porre argini ad una degradazione che veniva assumendo proporzioni ed espressioni sempre più evidenti. Videro così la luce, in taluni Partiti, riforme statutarie che miravano a ridurre l’influenza dei clan, a limitare l’incidenza del tesseramento irregolare ad accrescere il volume delle entrate ordinarie, ufficiali, legittime e dichiarate attraverso un sensibile aumento delle quote di iscrizione e l’organizzazione di specifiche sottoscrizioni. Per anni, i Partiti hanno dato mostra di aver regolato la materia del proprio finanziamento attraverso le leggi sul finanziamento pubblico dei Partiti. Ma la realtà delle cose era ben diversa. Il finanziamento dei partiti ha sempre continuato a mantenere caratteri di irregolarità e di illegalità. Il finanziamento pubblico si riassumeva in una cifra complessiva che non aveva nessun rapporto con le dimensioni reali del problema che si proponeva di risolvere. Ci voleva una grande dose di disinvolta ipocrisia per credere o far credere che i fondi stanziati dalla legge erano quanto bastava per sorreggere la complessa macchina burocratica e la varietà di strutture e di attività su cui poggiava la democrazia dei Partiti. La legge veniva violata sistematicamente da tutti o da quasi tutti. Forse qualche gruppuscolo minore aveva le carte in regola e forse, anche in qualche caso tra questi, a ben guardare le cose, la regolarità e la legalità non veniva sempre rigorosamente rispettata. Diversi gruppi minori venivano poi finanziariamente aiutati dai gruppi maggiori, per ragioni di affinità, di solidarietà, o di mera tattica. Queste violazioni di legge, su cui in buona parte si è fondato poi il processo di criminalizzazione della democrazia repubblicana, definita come Prima Repubblica, avvenivano sulla base di una complicità e di un consenso pressoché unanimi. Quale fosse la realtà vera delle cose, almeno nelle sue caratteristiche più tipiche, erano ben consapevoli tutti i dirigenti dei Partiti, i parlamentari, gli amministratori. Ne erano consapevoli certamente le maggiori cariche istituzionali dello Stato nelle quali si alternavano del resto personalità che a loro volta avevano ricoperto impegnative responsabilità politiche e partitiche. Faccio solo l’esempio dell’ultimo Presidente della camera Napolitano, divenuto poi anche Ministro degli Interni, che, avendo ricoperto per anni l’incarico di ministro degli Esteri del PCI non poteva di certo non essere a conoscenza del fatto che le entrate del suo Partito si componevano anche di flussi finanziari, provenienti dall’URSS e dai Paesi dell’impero comunista e che questi non figuravano certo nei bilanci di Partito presentati al Parlamento. Faccio l’esempio del Presidente del Senato, il defunto Spadolini, che avendo per anni diretto il Partito Repubblicano, non poteva non sapere che il suo Partito non viveva solo delle quote degli iscritti e delle sottoscrizioni, e che ciò che si aggiungeva di straordinario non figurava puntualmente nei bilanci presentati al Parlamento. Faccio l’esempio dell’attuale Presidente del Senato Nicola Mancino, tempo addietro Presidente alla Camera e al Senato dei gruppi parlamentari della DC, che in materia di conoscenza del sistema di finanziamento alla DC, dei suoi gruppi e dei suoi parlamentari non era certo a digiuno. Sarebbe far torto alla sua intelligenza ed alla sua onestà. Faccio l’esempio dell’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, eletto per tredici volte deputato della Democrazia Cristiana. Tredici campagne elettorali bastano e avanzano per capire come funzionavano le cose. I precedenti Capi dello Stato a loro volta, pur vivendo lontani dalla politica pratica e dalla gestione diretta dei Partiti vivevano pur sempre al Quirinale che è sempre stato un osservatorio della vita nazionale di non poco conto. Di certo nessuno di loro se ne stava sulla luna. Nessuno, salvo forse, in qualche caso, qualche voce isolata in Parlamento e nel dibattito politico pubblico, ha per anni, anzi per decenni, aperto porte e finestre su di una questione tanto delicata. La questione era d’altra parte anche scottante e nessuno si è mai voluto scottare. Non è stata così denunciata con la forza necessaria l’anomalia, la irregolarità, la illegalità complessiva della situazione. Per trovare in uno scritto, una descrizione del fenomeno con relative denunce, a mia memoria, bisogna risalire a molti decenni addietro. Nessuno, che io ricordi, nel mondo politico ha levato la voce e spezzato una lancia per proporre opportuni rimedi al corso delle cose o per aprire una pubblica riflessione sul sistema di finanziamento dei Partiti e delle attività politiche in generale. C’è anche chi lo ha fatto ma mentre lo faceva non diceva la verità perché allo stesso tempo si assicurava contributi, sostegni, finanziamenti. C’è chi propose come rimedio un aumento del contributo pubblico ma mal gliene incolse e dovette subito zittirsi, travolto da ondate contrarie di demagogico rifiuto. Sta di fatto che i Partiti, pur presentando in Parlamento, per decenni, bilanci che non corrispondevano al vero, e cioè bilanci falsi, non sono mai stati fatti oggetto da parte di nessuno di denunce per le loro gravi irregolarità. I Partiti di opposizione di regola non denunciavano i Partiti di governo e i partiti di governo non denunciavano i partiti d’opposizione. La complicità in questo senso, era totale o quasi. Nessuno ricorda clamorose polemiche al proposito. Forse qualche questione di forma, qualche denuncia di irregolarità, ma mai una vera e propria questione, mai una battaglia in piena regola, un vero e proprio scandalo sollevato con clamore attorno ad un bilancio ritenuto manifestamente falso. Certo mai una Commissione di inchiesta. Con la sistematica approvazione dei bilanci dei Partiti in Parlamento si veniva approvando in realtà tutta la natura distorta almeno del sistema di finanziamento ai Partiti ed alle attività politiche, e quindi tutti nel contempo, salvo i distratti e i pochissimi eventualmente esclusi, sapevano benissimo di che cosa si trattava. La democrazia repubblicana approvava il proprio modo di vivere, almeno in questo campo, si assolveva per le violazioni della legge sul finanziamento, e pur essendo consapevole delle irregolarità del sistema preferiva andare avanti per quella strada piuttosto che per mano ad una legislazione più consona tanto eventualmente nel senso di contributi pubblici più adeguati, che nel senso di una maggiore libertà nella raccolta di fondi volontari, che in direzione di un più efficace ed effettivo sistema di controlli.

Il sistema di finanziamento della politica si presentava nel suo insieme come un sistema complesso per il quale bisognava tenere conto di livelli, responsabilità e causali diverse. Vanno tenuti in conto infatti i livelli amministrativi e gestionali delle strutture nazionali delle organizzazioni periferiche regionali, provinciali e cittadine, delle associazioni e strutture collaterali, associative, di carattere culturale, sociale, sindacale, giovanile ed altro. A questo si debbono aggiungere le attività editoriali, gli organi di informazione politica, lo spettacolo politico, gli strumenti di formazione e di orientamento, le attività internazionali, ideali, politiche, di solidarietà concreta verso soggetti singoli e verso organizzazioni. L’attività politica dei partiti comprende convegni tematici, di settore, di categoria, convegni giovanili, femminili, Congressi locali, regionali, nazionali, internazionali. Un livello fondamentale è fissato dalle scadenze elettorali. Elezioni politiche nazionali, regionali e locali, elezioni europee, elezioni amministrative parziali che risultavano sovente particolarmente impegnative perché normalmente assumevano il valore di test e di sfide di carattere nazionale. Bisognava tener conto dei candidati e dell’alto grado di competitività che si stabiliva tra loro, dalle spese che si gonfiavano insieme alle ambizioni ed alle illusioni, o alla ricerca di successi personali da raggiungersi in termini particolarmente clamorosi in modo da poterli far valere poi sul mercato politico delle cariche maggiori. Allo stesso modo bisognava tener conto degli eletti che sono per vocazione e per giusta natura sempre tendenzialmente rieleggibili e che quindi sono portati a costruirsi strutture di sostegno permanenti specie quando la loro rielezione non poteva dipendere da una vincolante designazione dipendente dagli organi e dalla burocrazia del Partito. Anche nella struttura democratica così come essa si è venuta definendo nella democrazia repubblicana si è venuto formando un vero e proprio ceto politico ed amministrativo professionale, o semiprofessionale. Il suo lavoro politico sostituisce in tutto o in parte il suo lavoro professionale, sovente creando dei vuoti nelle disponibilità complessive di reddito. Questi vuoti vengono coperti o da vantaggi indiretti ricavati da una influenza politica o anche da contributi e finanziamenti di carattere politico personale, sempre per rimanere al di qua della frontiera che separa un finanziamento di natura e scopo politico dai veri e propri reati contro la Pubblica Amministrazione. Come già ho sottolineato, nella realtà politica e partitica si era diffusa e radicata la esistenza di clan e di correnti, entro le quali si erano venute stabilendo solidarietà ed interessi che molto spesso andavano al di là dei legami con l’entità Partito anche se si mantenevano e si muovevano all’interno ed entro le istituzioni, i simboli e le formule proprie dell’entità Partito. I rapporti tra tutte queste articolazioni si sono naturalmente presentate in forma diversa nei diversi partiti. Ciò che appariva in generale sempre più evidente era la tendenza verso un indebolimento progressivo delle capacità e delle possibilità di un controllo centrale sugli altri livelli. Le realtà periferiche, i gruppi, le posizioni consolidate di influenza gestionale e clientelare, potevano sempre di più sfuggire alla direzione ed al controllo del livello centrale e ciò non solo sotto il profilo dei mezzi e metodi di finanziamento ma spesso, in molti casi, anche sotto il profilo della stessa direzione politica. Più di altri sfugge invece a questa tendenza il PCI e poi il PCI- PDS, almeno negli anni iniziali della sua prima strutturazione. Il Partito Comunista ed il Partito ex-Comunista si sono, per ideologia e natura, formati su schemi centralizzati che, pur modificando nel tempo la loro rigidità originaria, avevano mantenuto una loro validità ed efficacia che naturalmente, anch’essa, si veniva indebolendo e sgretolando. Sotto questo profilo mentre da un lato risulta più evidente, anche in materia di finanziamenti, il controllo centrale e quindi la consapevolezza e la responsabilità dei maggiori dirigenti politici, dall’altro prendono avvio e maggiore consistenza fenomeni propri di una più vivace dialettica politica interna, con un seguito di iniziative di gruppo e di corrente. Diversamente, in altri partiti, molti candidati, in occasione delle campagne elettorali, ricevono contributi diretti dal Partito in ragione del loro ruolo, altri si avvalgono di solidarietà di gruppo, altri ancora organizzano in proprio il reperimento di fondi, ed altri infine fanno tutte e due o tutte e tre le cose contemporaneamente. La struttura centralizzata consentiva invece una certa disciplina e comunque un maggiore controllo anche su questo tipo di spese. Va detto, infine, che, sempre in materia di raccolta di fondi per le spese elettorali, non di rado il nome del Partito e dei suoi vertici più conosciuti e più autorevoli veniva utilizzato senza tanti scrupoli e complimenti anche da chi non era minimamente autorizzato a farlo. Del millantato credito, di cui erano spesso vittime i dirigenti più conosciuti, in moltissime occasioni era vittima lo stesso Partito, in nome del quale venivano abusivamente avanzate richieste, ricevute offerte, raccolti contributi di genere e provenienza varie, e di cui le organizzazioni amministrative responsabili di Partito non avevano in realtà il benché minimo riscontro o ne avevano un riscontro del tutto parziale, il più delle volte indiretto o casuale. Le entrate del Partito erano costituite da tutte le voci presenti e dichiarate nei bilanci e da contributi che non venivano dichiarati. Per esempio la raccolta dei fondi indirizzati al Partito Socialista a vario titolo veniva fatta direttamente dall’amministrazione, dall’Amministratore o suoi collaboratori diretti, a questo consegnate da altri dirigenti del Partito o da persone che venivano considerate alla stregua di collaboratori di fiducia. La modalità di questi versamenti venivano decise dall’Amministrazione. Ciò avveniva nella gran parte dei casi, in relazione alle situazioni concrete che si presentavano. I contributi che venivano versati al Partito erano di varia natura. Di natura politica e cioè a dire erogazioni di sostegno fatte esclusivamente o prevalentemente per ragioni di adesione o di convinzione e valutazione politica. Contributi che potevano essere invece definiti come prova e ricerca di “buone relazioni” e cioè dati senza un concreto e specifico riferimento ma assicurati solo allo scopo di stabilire o mantenere con l’entità Partito un rapporto che potesse essere considerato amichevole e quindi suscettibile di una attenzione da parte degli esponenti del Partito presenti in varie sedi istituzionali. Contributi raccolti e versati da singoli esponenti del Partito nell’ambito della loro responsabilità. Contributi versati in funzione di ottenere specifiche sollecitazioni ed interventi favorevoli ai finanziatori. A questi contributi di natura vana si aggiungevano entrate di carattere pubblicitario ed entrate derivanti da sponsorizzazioni in cambio delle quali veniva comunque fornito un servizio commerciale generalmente adeguato specie in occasione di Congressi e di grandi iniziative e manifestazioni pubbliche che costituivano un veicolo di indubbia importanza ed interesse di carattere locale, nazionale ed internazionale. Su questo stato di cose è stato avviato, organizzato, sviluppato ed esteso a tutto il Paese un processo di criminalizzazione strumentale che ha manipolato e mistificato la realtà dei fatti, le circostanze storiche in cui i fatti si sono verificati, il contesto generale delle responsabilità democratiche che erano state assolte da forze politiche che avevano garantito il quadro delle libertà democratiche, la stabilità politica, lo sviluppo dell’economia, la crescita dei valori e delle opportunità sociali, la presenza ed il dinamismo della vita e della dialettica democratica, l’alto ruolo internazionale raggiunto dalla nazione tanto nel contesto europeo che in quello mondiale. La classe politica dei Partiti ed in generale tutta la classe politica era quindi, come non è difficile dimostrare, mentre sarebbe difficilissimo dimostrare il contrario, ben consapevole della natura del finanziamento politico, dei metodi seguiti, delle pratiche che erano diffuse, costanti e sistematiche. C’è semmai da chiedersi se, essendo queste le condizioni, come sia possibile credere o far credere che la magistratura ed altri apparati dello Stato ignorassero ciò che avveniva anche sotto i loro occhi, non nel caso di una particolare stagione, ma addirittura nel corso di decenni. C’è semmai da chiedersi perché questo sia avvenuto. C’è da chiedersi, se si ricorda a memoria, come sia stato possibile che nell’arco di quasi un ventennio raramente è stato aperto un caso. In ogni caso non risulta che si siano mai svolti processi e non si siano mai pronunciate sentenze di condanna per lo specifico reato di finanziamento illegale. C’è da chiedersi come sia stato possibile che mentre per bocca della stessa magistratura questa pratica veniva definita “notoria e costante”, contemporaneamente non veniva promossa l’azione penale per le violazioni della legge sul finanziamento dei partiti. Nessuno lo impediva, nessuno poteva impedirlo, nessuno ha denunciato un caso nel quale ad un magistrato è stato impedito di compiere il dovere che la legge gli avrebbe imposto di compiere. Probabilmente anche questo è avvenuto, e magari anche in più casi, ma nessuno protestò e picchiò i pugni sul tavolo sino a farsi sentire. Ciò che è singolare invece è che improvvisamente, in forme violente ed anche e soprattutto discriminatorie, si siano scoperchiate parti significative del sistema di finanziamento illegale dei Partiti e delle attività politiche, e si sia dato vita ad un processo di criminalizzazione con ritmi crescenti, seguendo sovente cadenze proprie di una orologeria politica, con un particolare accanimento diretto soprattutto e in primo luogo verso alcune direzioni, mentre ad altre veniva riservato un trattamento ben diverso e molte cose venivano sottaciute, ignorate, o addirittura sfacciatamente oscurate e protette. Il trionfo della regola dell’ingiustizia consistente nell’uso di “due pesi e due misure”. Ciò che è singolare è che nel 1989, quando cadevano i muri e non si sapeva che cosa si sarebbe potuto ritrovare tra le macerie, in fretta e furia il Parlamento italiano varò una amnistia, nella quale fu fatto comprendere il finanziamento illegale alla politica. L’amnistia non incontrò di certo forti ostacoli. Passò diritta filata, alla chetichella e sembra neppure con un voto di Aula ma addirittura con un voto in Commissione. Una amnistia lampo. Parliamo di qualcosa che è diventata invece, dopo d’allora, solo a nominarla, una specie di peccato mortale, di offesa alla civiltà del diritto, di scandalosa distorsione della giustizia. Non ci furono allora alti lai di eguale natura. La piazza non si scompose, i Palazzi non si scomposero, i grandi moralizzatori di professione non entrarono in campagna. Il colpo di spugna invece ci fu. Fu rapido, efficace, risolutivo. Il grande crimine riguarda invece allora gli anni ’89 - ’92. Incredibile ma vero. Spesso è dalla categoria degli amnistiati dell’89 che vengono poi i censori più spietati e i demagoghi più sfacciati. La campagna contro i finanziamenti illegali della politica, trasformata nella maggior parte dei casi in un fenomeno di corruzione e di reati ancora più gravi, ha assunto così toni e metodi di tale violenza demagogica e finalità strumentali ad una lotta di potere che è dilagata nel Paese. Talvolta vi abbiamo riconosciuto trampolini di lancio per esibizionistiche ambizioni ma, nel quadro più generale, si è fatta avanti una corsa pseudo - rivoluzionaria in veste di nuovo potere egemone della società e dello Stato.»

Memoriale scritto nel 1999 da Bettino Craxi su Tangentopoli. Craxi voleva consegnare questo scritto a una commissione di inchiesta parlamentare, che però non fu mai costituita. Il documento è rimasto inedito.

Forche, balle e toghe rosse: il catalogo anti-Mani Pulite. Revisionismi. Lettera aperta ad Alessandro Sallusti: “Macché sciagurata stagione. Hai scritto tante menzogne, dagli indagati a vanvera a Di Pietro”, scrive Massimo Fini, Martedì 14 Febbraio 2017, su "Il Fatto Quotidiano". «Caro Alessandro, quando Cairo voleva entrare in Libero–direttore Feltri - mi chiese se volevo seguirlo. Risposi di no. Mi pregò allora di fargli il nome di qualche giornalista valido. Indicai te e Paolo Martini. Ti conoscevo da quando dirigevi La Provincia di Como per la quale mi chiedesti anche di collaborare. Avevo di te un’ottima opinione sia professionale che umana. Per questo mi è particolarmente spiacevole commentare il vergognoso pezzo che hai scritto per Il Giornale (8/2), godendo come un riccio perché alla celebrazione dei 25 anni dalle inchieste di Mani Pulite non c’era praticamente nessuno. Il tuo articolo dovrebbe essere pubblicato in toto perché sia reso evidente alla cittadinanza il cumulo di menzogne, di omissioni, di dimenticanze che metti in campo. Ma qui devo limitarmi ad alcuni excerpta.

1. Tu definisci quella di Mani Pulite una “sciagurata stagione” e Mani Pulite “la più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica”.

2. Parli dei suicidi in carcere e “del dolore di 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati”.

3. Affermi che in Italia fu introdotta “la carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto”.

4. Prendi particolarmente di mira Antonio Di Pietro e sostieni che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona” e che non a caso entrò poi nel Pci-Pds per poi creare il “partitino, Italia dei Valori”.5. Definisci i magistrati di Mani Pulite “toghe rosse”.

Cerchiamo di mettere un po’ di ordine in questa accozzaglia di argomenti o, meglio, di pseudoargomenti. L’azione di un magistrato non può essere violenta. Il magistrato risponde alla legge: o la rispetta o la viola. E non risulta che in tutta l’inchiesta di Mani Pulite ci siano state violazioni di legge. Il magistrato non può essere né forcaiolo né garantista, categorie che vi siete inventate voi. Comunque il forcaiolismo fu casomai della stampa. In particolare dell’Indipendente di Vittorio Feltri che chiamava Bettino Craxi “il cinghialone”, trasformando un’inchiesta giudiziaria del tutto legittima in una caccia sadica e prendeva di mira anche i figli di Bettino. Lavoravo anch’io a quell’Indipendente e toccò a me difendere i Craxi dagli eccessi del mio direttore, in particolare con due articoli “Vi racconto il lato buono di Bettino” scritto in piena bufera quando tutti, anche i suoi amici, fiocinavano la balena sanguinante, L’Indipendente, 17/12/92, e “Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi”, L’Indipendente, 11/5/92. In quel periodo prevaleva al contrario uno strusciarsi indecoroso ad Antonio Di Pietro considerato il vincitore di giornata. Mi ricordo in particolare un vergognoso editoriale del direttore del Corriere, Paolo Mieli, titolato “Dieci domande a Tonino”. A Tonino, come se ci fosse andato a pranzo e cena da sempre. Con Tonino, ridiventato Antonio Di Pietro, che dell’inchiesta di Mani Pulite fu il simbolo, tu ti accanisci. Affermi che entrò in politica per “sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona”. Dimentichi che per quei sospetti Di Pietro è stato processato sette volte ed è uscito regolarmente assolto e uno di quei processi era stato innescato da due testimoni prezzolati dall’onorevole Berlusconi. Del Di Pietro politico non dovremmo qui occuparci perché quello che interessa è la sua azione di magistrato, ma quando tu definisci l’Italia dei Valori un partitino dimentichi che è stato defalcato di alcuni suoi componenti, a cominciare dall’onorevole De Gregorio cui Berlusconi diede tre milioni perché passasse al centrodestra. In ogni caso se Di Pietro fosse entrato in politica il giorno dopo essersi tolto la toga avrebbe avuto il 90 per cento dei consensi. Invece, correttamente, a differenza di altri magistrati (Ingroia, De Magistris) aspettò un anno. La carcerazione preventiva in Italia esiste da sempre. Pietro Valpreda fece quattro anni di carcerazione preventiva senza processo e Giuliano Naria nove per citare solo alcuni esempi famosi fra le centinaia che si potrebbero fare. Non mi risulta che tu o la parte politica che oggi rappresenti abbiate mai levato un dito contro queste aberrazioni che non erano dei magistrati ma della legge (le leggi le fa il parlamento, cioè i politici). Vi accorgeste della carcerazione preventiva solo quando toccò, non per anni ma per qualche settimana, a lorsignori. Tu affermi però che in questo caso la carcerazione preventiva sarebbe stata usata “come arma di minaccia e ricatto”. E a queste sciocchezze Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo del pool di Mani Pulite, replicò: “Non è così. Noi li arrestiamo e loro confessano”. Che è cosa ben diversa. Tu parli dei suicidi in carcere. Se un magistrato dovesse caricarsi delle possibili conseguenze dei suoi legittimi provvedimenti non si potrebbe più amministrare giustizia. I suicidi riabilitano moralmente coloro che ne sono stati protagonisti, perché evidentemente, a differenza di altri, si vergognavano di ciò che avevano fatto, ma non li assolvono. In quanto al dolore delle 4.250 famiglie degli indagati “il più delle volte a vanvera” fai finta di dimenticare che moltissime di queste assoluzioni avvennero per patteggiamento o prescrizione. Ma questi calcoli lasciamoli a Marco Travaglio. Dimentichi invece, con molta disinvoltura, le ‘morti bianche’, cioè i suicidi di quegli imprenditori onesti che non vollero piegarsi al ricatto delle tangenti e videro perciò andare in fumo le loro aziende. Sorvoli su uno degli atti più contestati quando Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco si presentarono in televisione per affermare che avrebbero chiesto a Borrelli di lasciare l’inchiesta. Come mai non ne parli? Perché quella singolare apparizione dei magistrati in tv seguiva uno dei primi provvedimenti del governo Berlusconi, un decreto chiamato ‘salvaladri’ che depenalizzava i reati di corruzione e similari e quindi salvava, oltre a Berlusconi e ai suoi cari, la falange dei corrotti e dei corruttori coinvolti in Tangentopoli. Definire i magistrati di Mani Pulite toghe rosse è risibile. Casomai se si vuole a tutti i costi dar loro una connotazione politica erano dei conservatori, il più ‘a sinistra’ era un cattolico, Gherardo Colombo, un magistrato impeccabile rispettato anche dai suoi indagati. In due anni, con tutti i testimoni del tempo ancora in vita, i ladri, con una campagna stampa che ti vide protagonista, divennero le vittime e i magistrati i colpevoli. La classe dirigente del Paese non tollerava di dover rispondere, per la prima volta o quasi nella storia italiana, a quelle leggi che noi tutti comuni cittadini siamo tenuti a rispettare. Ecco perchè tu, divenuto nel frattempo portavoce di una parte di quella classe dirigente, definisci “sciagurata” la stagione di Mani Pulite. In realtà Mani Pulite fu l’ultima occasione per la nostra classe politica per emendarsi dai crimini che andava perpetrando da anni. Non la colse, anzi l’avversò ferocemente e così siamo arrivati alla situazione attuale dove la corruzione è discesa giù per li rami a tutto il Paese. Proprio per questo il Palazzo di Giustizia di Milano era deserto nel 25° anniversario di Mani Pulite. Tutti hanno capito che l’azione dei magistrati è stata inutile, continua a essere inutile e probabilmente lo sarà anche in futuro, e quindi i cittadini hanno perso anche la voglia di ribellarsi e accettano supinamente la parte di pecore tosate senza emettere neanche un belato. In Romania, per un decreto molto simile a quello emesso a suo tempo dal governo Berlusconi, la popolazione si è ribellata e glielo ha ricacciato in gola. Dal punto di vista dell’etica pubblica siamo quindi al di sotto anche dei disprezzati rumeni. Recentemente, davanti ad altre persone, hai detto “Massimo Fini mi attacca un giorno sì e un giorno no, ma devo ammettere che è l’ultimo giornalista libero in Italia”. Non è così, fortunatamente ce ne sono altri. Ma non posso negare che questa tua affermazione mi ha fatto piacere. Ma la libertà si paga. Il rendersi servi invece ripaga. Ad abundantiam».

Lettera aperta a chi esalta quelli dalle Mani pulite, Massimo Fini sul "Fatto" difende il pool di Milano e accusa il "Giornale" che lo critica. Ma è la storia a dargli torto, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale". «Caro Massimo Fini, ieri mi hai dedicato un lungo articolo sul Fatto Quotidiano per confutare quello breve che ho recentemente scritto per segnalare il flop delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell'inchiesta Tangentopoli. Difendi a spada tratta i magistrati di quella stagione, tratti con cinismo i morti e i feriti di quella stagione, neghi che i pm di quel pool soprattutto citi Di Pietro - avessero mire e ambizioni politiche, mi accusi di servilismo e racconti un aneddoto vero: «Davanti a testimoni scrivi Sallusti mi criticò, ma disse che mi riteneva l'ultimo giornalista libero». Quest'ultima cosa la confermo, e nella libertà che ti riconosco c'è anche quella di sbagliare. Potrei raccontarti di ragazzini di allora che ancora oggi, a distanza di anni, sono in cura per lo shock subito vedendo i loro padri portati via in piena notte da uomini entrati in casa con il mitra spianato (non parliamo di trafficanti di droga o rapinatori, ma di amministratori poi risultati innocenti). Potrei ricordati la curiosa coincidenza che tre dei cinque pm di quel pool (Di Pietro, D' Ambrosio e Colombo) hanno poi fatto politica nelle liste del Pd o avuto incarichi per conto del Pd. Potrei ribattere tante altre cose sulla limpidezza e sulle vere mire di Di Pietro in particolare. Ma non mi crederesti, mi ritieni fazioso. E allora ti propongo una lettura interessante. È l'articolo a firma Luigi Corvi uscito sul Corriere della Sera il 12 marzo 1997, giorno in cui vennero depositate le motivazioni con cui Di Pietro fu assolto dal tribunale di Brescia dall'accusa di concussione (e con lui Paolo Berlusconi, Previti e altri da quella di aver complottato contro il Pm). Chiedo scusa al bravo collega per lo scippo non autorizzato e riproduco alla lettera:

"Antonio Di Pietro lasciò la toga perché voleva entrare in politica. Dietro quel gesto non ci furono complotti, anche se i fatti raccontati da Giancarlo Gorrini erano veri: «Alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato, altri erano decisamente idonei ad un'iniziativa sul piano disciplinare». Tuttavia l'apertura e la rapida archiviazione dell'inchiesta ministeriale nata dalle accuse dell'ex presidente della Maa non fu la causa delle dimissioni di Di Pietro e i quattro imputati (Paolo Berlusconi, Cesare Previti, Ugo Dinacci e Domenico De Biase) non misero in atto alcun complotto per il semplice motivo che non avevano interesse a far dimettere il pm di Mani Pulite. Queste in sostanza le motivazioni, depositate ieri, con cui il 29 gennaio la seconda sezione del tribunale di Brescia ha assolto tutti gli imputati dall'accusa di concussione. In quasi duecento pagine i giudici analizzano nel dettaglio i fatti (...). Sui rapporti poco corretti intercorsi tra Di Pietro e Gorrini si era già soffermato il gip nell'ordinanza di rinvio a giudizio. Ma il tribunale, sviluppando gli stessi concetti, va oltre. «È indubbio - scrivono i giudici - che i fatti raccontati da Gorrini si erano realmente verificati (la prestazione di attività lavorativa di Cristiano Di Pietro in favore della Maa, l'assegnazione di alcune cause a Susanna Mazzoleni da parte della Maa, l'erogazione di un prestito da parte di Gorrini, la cessione a Di Pietro, sempre da parte di Gorrini, di un'autovettura recuperata dalla Maa e trasformata da Di Pietro stesso in prestito, l'intervento di Di Pietro per ottenere che D'Adamo e Gorrini erogassero prestiti a Rea onde favorire l'estinzione di debiti consistenti)». Secondo il tribunale, Tonino - che della deposizione di Gorrini aveva appreso in tempo reale da un giornalista - aveva di che preoccuparsi. «Era in gioco il suo prestigio come magistrato, come magistrato onesto, come persona dai comportamenti cristallini, e proprio questo prestigio era minacciato a causa di leggerezze commesse e per le quali egli era pronto a fare ammenda. Era in gioco, in definitiva, un ruolo e un'immagine». (...) I fatti denunciati dall'ex presidente della Maa «rappresentavano per Di Pietro una minaccia, per giunta avente il requisito della verosimile serietà» (...). Tonino in effetti si preoccupò molto e preparò subito una memoria difensiva «in previsione di essere chiamato per chiarire la vicenda», telefonò all'allora ministro della Difesa Previti (...) «chiedendo addirittura un intervento in suo favore del ministro Biondi». (...) Le ragioni delle dimissioni esposte da Di Pietro (in primo luogo i molteplici tentativi di delegittimazione) «sono - secondo il tribunale - talmente troppe e troppo eterogenee da sembrare una congerie alquanto scontata....». È vero che il pm di Mani Pulite aveva accumulato stanchezza fisica e psicologica, ma la molla decisiva che lo spinse a lasciare la toga fu l'intenzione - maturata già nella primavera del '94 - «di intraprendere l'attività politica, ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo». E quando a Silvio Berlusconi disse di non essere stato d'accordo sull'invio dell'avviso di garanzia, mentì perché era «alla ricerca iniziale di probabili alleanze» politiche. Infine Tonino - secondo i giudici - sino all'ultimo non rivelò i suoi progetti ai colleghi perché temeva di «inquinare quella sua indiscussa leadership all'interno e all'esterno del pool con consequenziali ripercussioni nell'immagine esterna» e c'era il rischio che gli altri pm lo rendessero «meno partecipe dell'attività giudiziaria»."

Caro Massimo, questo dicono le carte. Se questi sono gli eroi che ammiri, libero di farlo. Ma riconosci a me la libertà di pensarla diversamente, senza per questo dover essere servo di qualcuno.»

La festa oscena dei manettari. I 25 anni di Tangentopoli, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Doveva essere la celebrazione dell'epopea di Mani pulite, nel venticinquesimo anniversario dell'avvio di quell'inchiesta. Ma nel salone d'onore del Palazzo di Giustizia di Milano si sono presentati una decina tra fotografi e giornalisti e altrettanti attivisti grillini. Non un magistrato, non un avvocato, non un cittadino comune. Sul palco due reduci di quella sciagurata stagione, Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro ad autocelebrarsi nel deserto. Il primo ora è capo dell'Associazione nazionale magistrati, il secondo è un ricco pensionato che aveva tentato, anche per sfilarsi dal clima di sospetti sulla sua persona, l'avventura politica guarda caso con il Pci-Pds prima e poi con il suo partitino «Italia dei valori», soprannominato «Italia dei valori immobiliari» per via di strani investimenti in case fatti coi soldi del partito che alla fine gli costarono la faccia e il posto. Perché si debba celebrare il compleanno della più violenta inchiesta giudiziaria nella storia della Repubblica lo sanno solo loro. Da ricordare c'è semmai l'introduzione in Italia della carcerazione preventiva come arma di minaccia e ricatto, i non pochi suicidi di persone dimenticate in carcere o portate all'impazzimento, il dolore delle 4.250 famiglie di indagati il più delle volte a vanvera come dimostra il bilancio a istruttorie chiuse e processi celebrati. Ma soprattutto resta la resa della politica al potere giudiziario a sua volta preso ostaggio dalle toghe comuniste di Magistratura democratica. Se proprio devo, preferisco ricordare quella stagione con le parole che Carlo Nordio, storico pm di Venezia che visse in prima linea quei mesi e che oggi si ritira senza clamore a vita privata, ha consegnato al Foglio: «Quando le indagini si concentrarono su democristiani e socialisti non ci furono polemiche e fummo dipinti come eroi. Quando iniziai a indagare sulle cooperative rosse e su D'Alema, sono scoppiate molte polemiche anche con i colleghi di Milano. Ma per me fu un onore avere le riserve da parte dei colleghi di Magistratura democratica». Due vecchi signori un po' patetici che parlano in un'aula vuota pensando di avere davanti folle osannanti. Questo resta venticinque anni dopo. Fantasmi, ma purtroppo ancora in grado di fare tanti danni, perché continuano a seminare odio e rancore.

Mani Pulite, 25 anni dopo parla Di Pietro ma la sala è vuota: "E' la desolazione". Video di Antonio Nasso su "Repubblica tv" il 7 febbraio 2017. "Cosa è cambiato nel corso di questi anni? Lo vediamo oggi, in questa sala vuota. C'è la desolazione da parte dell'opinione pubblica, che non crede più che si possa cambiare il Paese". Così l'ex magistrato simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, durante il suo intervento in aula magna a Palazzo di Giustizia di Milano per una conferenza a 25 anni dalla scoperta di Tangentopoli. Conferenza alla quale però hanno partecipato solo poche decine di persone.

In un'aula deserta la patetica rimpatriata dei duri di Mani pulite. Nell'anniversario dell'inizio dell'indagine solo 31 persone ad ascoltare Di Pietro e Davigo. Di Pietro confessa: "Se non mi fossi dimesso dalla magistratura mi avrebbero arrestato", scrive Luca Fazzo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". Eh sì: sono passati venticinque anni, non gliene importa (fortunatamente) più niente a nessuno, e l'aula magna del tribunale, poche ore prima gremita per un convegno sul cyberbullismo, si svuota dolorosamente quando si comincia a parlare di Mani Pulite. A popolare le rade sedie occupate una platea di trentuno persone, giornalisti esclusi. Ma in fondo va bene così, perché questo permette a Piercamillo Davigo di ripetere l'aforisma sulle prede e i predatori («abbiamo catturato le zebre lente, abbiamo affinato le specie») senza che nessuno si alzi a protestare per averlo sentito già centodue volte; e, cosa forse più grave, che lo stesso Davigo possa dire impunemente che «ho visto assoluzioni che gridano vendetta, il codice è scritto per farla fare franca ai farabutti», e amen se il codice l'ha scritto uno che si chiamava Gian Domenico Pisapia. Va in scena così, come una piece un po' fuori moda, l'anniversario di Mani Pulite, in quella stessa aula magna in cui Francesco Saverio Borrelli lanciò il suo proclama, «resistere-resistere-resistere» tra le ovazioni dei suoi pm. Poche facce, qualche sopravvissuto: «Siamo l'associazione combattenti e reduci», scherza Di Pietro. Combattenti e reduci però tutti della stessa parte, magistrati e cronisti un tempo risolutamente schierati al loro fianco; la voce degli sconfitti, gli arrestati, i pochi avvocati con la schiena dritta, nessuno ha pensato che valesse la pena sentirla; ma d'altronde a organizzare il tutto è una associazione di marcate simpatie grilline, e grillino è l'unico politico seduto sul palco: e anche questo va bene, perché così si possono inanellare allegramente strafalcioni storici e giuridici, dicendo che il decreto Biondi del luglio 1994 venne fatto per liberare Paolo Berlusconi, che all'epoca era già libero da un pezzo, o persino che la legge Severino è stata fatta per salvare Silvio Berlusconi e Filippo Penati. Della sala deserta, gli organizzatori danno la colpa a un fantomatico complotto ordito ai loro danni. Vabbè. Di Pietro invece si consola spiegando che l'altro giorno a Borgomanero la sala era piena, e comunque «c'è la desolazione dell'opinione pubblica che non crede più che possa cambiare qualcosa»; ma non spiega cosa la famosa opinione pubblica sarebbe dovuta venire a capire, visto che non c'è l'ombra di una autocritica e nemmeno di una analisi, «noi eravamo le guardie e loro i ladri», punto e fine. Di Pietro ritira fuori la storia di quando il Sisde lo spiava e dossierava per fermarlo, spiega che Mani Pulite venne bloccata quando iniziò ad occuparsi di mafia e politica, insomma niente di nuovo sotto il sole. «La tangente Enimont - dice - era di centocinquanta miliardi, ne abbiamo trovati settanta, gli altri che fine hanno fatto?», e fa la faccia di chi conosce benissimo la risposta. «Abbiamo esagerato con le scarcerazioni», dice serio Davigo. Erano anni che Di Pietro non metteva piede a Palazzo di giustizia. A sentirlo non è venuto neanche uno dei suoi ex colleghi. (Mezz'ora prima del convegno, al bar sotto il tribunale. Di Pietro, che in fondo era il meno cinico del pool, mangia un boccone con un vecchio amico. Antonio, vista come è finita, rifaresti tutto? «Il magistrato sicuramente sì. Sul fatto che dopo mi sono messo a fare politica ci penserei due volte la prossima volta». Beh, potevi continuare a fare il magistrato... «Se non mi dimettevo andava a finire che mi arrestavano»).

"Democrazia a rischio". Quella lezione di Craxi ancora attuale oggi. Mentre scoppiava Mani pulite, l'ex premier Bettino Craxi in Aula gettava le basi per ricostruire il Paese. Pubblichiamo stralci del discorso che l’allora segretario del Psi Bettino Craxi tenne alla Camera il 3 luglio del 1992, in pieno scandalo Tangentopoli, durante la fiducia al nascente governo Amato. All’ombra della politica, l’ammissione, "fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione", scrive "Il Giornale" l'8/02/2017. Bettino Craxi. «Onorevole presidente, onorevole presidente del Consiglio, onorevoli deputati, nella vita democratica di una nazione non c'è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno ed amico, che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. E in questo senso ho sempre pensato e penso che un minuto prima che una situazione degeneri bisogna saper prendere una decisione, assumere una responsabilità, correre un rischio. Il sistema dei partiti, che hanno costituito l'impianto e l'architrave della nostra struttura democratica e che ora mostrano tutti i loro limiti, le loro contraddizioni e degenerazioni, al punto tale che vengono ormai sistematicamente screditati e indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati, salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica. È vero che nel tempo si sono accumulati molti ritardi per tanti fattori negativi; per miopia, velleitarismo, conservatorismo. E tutto ciò è avvenuto in modo tale che il logoramento del sistema ha finito con il progredire inesorabilmente, come non era difficile prevedere. Ora non c'è più molto tempo a disposizione, onorevoli colleghi. Vi sono dei processi di necrosi che sono giunti ormai ad uno stadio avanzato. Il Parlamento deve reagire, deve guardare alto e lontano, dando innanzitutto l'avvio ad una fase costituente per decidere rapidamente riforme essenziali di ammodernamento, di decentramento e di razionalizzazione. Serviranno a ridare efficienza e prestigio alle Camere, a rompere un centralismo dello Stato, per parte sua duro a morire, rafforzando i poteri e l'autonomia delle Regioni come suggeriamo nel nostro programma sino ai limiti del federalismo, a garantire autorevolezza e stabilità all'esecutivo. Bisognerebbe porre mano subito alla riforma delle leggi elettorali con uno sguardo rivolto ai modelli e alle esperienze delle democrazie europee ed un altro rivolto alle tradizioni della democrazia italiana. C'è un problema di moralizzazione della vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e «grida» spagnolesche. È tornato alla ribalta in modo devastante il problema del finanziamento dei partiti, o meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, anzi da tempo immemorabile. In quest'aula e di fronte alla nazione penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili ed altisonanti parole di circostanza che molto spesso e in certi casi hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole, che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l'urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per l'impossibilità oggettiva di un controllo adeguato sia, talvolta, per l'esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all'ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e ripeto, meglio, al sistema politico fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d'altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto benissimo, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali ed associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all'uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Ma non credo che ci sia nessuno in quest'aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perché presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall'estero, sarebbe solo il caso di ripetere l'arcinoto «tutti sapevano e nessuno parlava». Un finanziamento irregolare o illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un'opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l'avventura. Del resto, onorevoli colleghi, nel campo delle illegalità non ci sono solo quelle che possono riguardare i finanziamenti politici. Il campo è vasto e vi si sono avventurati in molti, come i fatti spero si incaricheranno di dimostrare, aiutando tanto la verità che la giustizia. Ebbene, a questa situazione ora va posto un rimedio, anzi più di un rimedio. È innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell'esperienza estremamente negativa di quella che l'ha preceduta. Penso che se la legislatura imbocca la sua strada maestra, allora non avrà tempo per fermarsi. Ne trarranno giovamento i partiti che vogliono percorrere una stagione di rinnovamento interno, di revisione degli statuti, di riforma delle regole, di ricambio degli uomini, di promozione di nuove associazioni tra loro e di più strette alleanze. Anche il governo sarà aiutato ad avanzare lungo i binari del buon programma che si è dato, dovendo affrontare le emergenze che lo stringono d'assedio, in primo luogo, quella economica e quella criminale. Se così non sarà e certo non me lo auguro la sorte della legislatura scivolerà su un piano inclinato e sarà allora rapidamente segnata. Non me lo auguro innanzitutto per il paese, onorevole presidente. Per la sua economia, che ha bisogno di un clima di operosità, di fiducia e di collaborazione sociale: una economia che deve essere stimolata ed aiutata a ritrovare iniziativa e competitività. Per i livelli occupazionali, a cominciare dall'occupazione nell'industria, che ha già ricevuto duri colpi ed altri purtroppo può riceverne ancora. Per il riequilibrio della finanza pubblica, che è urgente, necessario e non rinviabile: un record mondiale negativo, che in questi prossimi anni dobbiamo riuscire a toglierci di dosso nell'interesse di tutti, levando dal nostro futuro una grande incognita ed una tagliente spada di Damocle. Ridefinire e riselezionare la spesa sociale e le protezioni dello Stato sociale, senza smantellarlo secondo le invocazioni dei peggiori conservatori: anche questo è necessario, urgente e non più rinviabile. Sono questi gli anni del passaggio verso un'Europa più unita, più integrata ed auguralmente più coesa. Tuttavia, quando si sentono magnificare i nuovi traguardi europei come se si trattasse di una sorta di paradiso terrestre che ci attende, c'è solo da rimanere sconcertati. È naturalmente fondamentale che l'Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partner europei. Diversamente, si produrrebbe una frattura di portata storica nelle linee di fondo del nostro progresso. Tuttavia dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo: non un'Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici; non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali. Un'Europa, dunque fondata su un mercato unico, aperto e libero, ma il cui sviluppo non contraddica il principio che gli anglosassoni definiscono come «il mercato più la democrazia». Non un'Europa in cui la modernizzazione diventi brutalmente sinonimo di disoccupazione, ma un'Europa dove le rappresentanze sindacali abbiano un loro spazio, una loro dignità ed una loro influenza; un'Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all'altra Europa, che si è liberata dal comunismo, ma che rischia di restare ancora separata e divisa dal muro del denaro. Un'Europa capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che ha assolutamente bisogno di un acceleratore che gli consenta di uscire dalla depressione, dalla stagnazione e dal sottosviluppo, senza di che le ondate migratorie diventeranno sempre più incontrollabili. Sono gli interrogativi che ci poniamo, partendo dalla nostra fede nelle democrazie europee, dalle nostre convinzioni europeiste, dal contributo che abbiamo direttamente dato per aprire la strada ad un nuovo capitolo della costruzione europea. Nella vita delle nazioni e nella storia gli eroi e i martiri sono sempre stati un grande esempio ed una formidabile leva morale; e nel loro nome si sono potute realizzare grandi imprese.

Tangentopoli: «E invece Mario Chiesa parlò». Craxi, Di Pietro e quei due anni che non salvarono l’Italia. Venticinque anni fa — il 17 febbraio 1992 — l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano venne arrestato. Fu l’inizio di un percorso che, in 27 mesi, portò all’esilio di Craxi — e a uno strappo mai ricucito nel tessuto della nostra convivenza democratica, scrive Goffredo Buccini il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Figuriamoci se quello parla!», dicevamo. Invece Mario Chiesa parlò. E in fondo può stare tutto qui, in un paio di righe che il 17 febbraio del 1992 apparivano ancora un improbabile accidente della storia, il senso di Mani pulite e dei successivi due anni e rotti: i ventisette mesi che portarono, nel maggio ‘94, alla fuga di Bettino Craxi in Tunisia e, in definitiva, a uno strappo nel tessuto della nostra convivenza democratica mai ricucito davvero. Intendiamoci: è stupido oltre che assai ingiusto ridurre la dimensione d’un uomo di Stato, il primo a intuire (con forte anticipo) la necessità d’una grande riforma delle istituzioni repubblicane, a quella del «latitante di Hammamet» disegnata da certa pubblicistica. I figli di Craxi hanno sacrosante ragioni per dolersene e magari per considerare il loro padre vittima di un infernale marchingegno mediatico e giudiziario, a diciassette anni dalla morte. Se tuttavia quell’uomo di Stato, gravato da condanne e procedimenti penali, decide di abbandonare l’Italia, non è necessario essere discepoli di Socrate per vedere come, proprio in virtù del suo ruolo, stia negando alla radice legittimità ai processi, alle sentenze e, in definitiva, allo Stato che lui stesso ha rappresentato ai massimi livelli. Mai come nell’ultimo ventennio della storia repubblicana s’è andata allargando la distanza tra cittadini e istituzioni, assieme all’idea che ciò che vediamo sia mera mistificazione di ciò che accade davvero in stanze più o meno segrete. Quest’idea storta che, per dirla col sociologo Gérald Bronner, genera dalla crisi della reciproca fiducia, sta ormai ponendo in questione la sopravvivenza stessa della democrazia e ha, ovviamente, una dimensione planetaria: ma, per ciò che riguarda gli affari di casa nostra, nasce forse proprio allora. Da una frattura dentro lo Stato.

Le origini di un duello. I due anni che prendono le mosse dall’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, fedelissimo craxiano (sopra, foto Ansa), colto in flagranza da Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani con la famosa mazzetta da sette milioni (di lire) pagata dall’imprenditore Luca Magni, si possono riassumere in realtà come una sfida quasi personale tra i magistrati di Milano e il segretario nazionale del Psi. Ha scritto Sergio Romano che «la notizia dell’arresto di Mario Chiesa non rivelò niente che gli italiani non sapessero». Vero. Le bustarelle erano oggetto di barzellette al bar. Quanti in Italia erano al corrente del sistema? Tra quelli che intascavano almeno una frazione di tangente e i loro familiari «non meno di qualche milione» di persone, osserva Romano. Un bel segreto di Pulcinella, insomma. Molto s’è congetturato, dunque, sul perché si sia rotto il meccanismo proprio allora.

I teorici della cospirazione. Immancabili sono le ricostruzioni complottistiche, a partire da quella secondo cui gli americani abbiano lavorato sottotraccia coi nostri (immancabili) servizi per far pagare a Craxi «lo schiaffo di Sigonella»: quando, da presidente del Consiglio, rivendicò la sovranità nazionale fino a far circondare dai carabinieri i marines che stavano catturando in territorio italiano i terroristi responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro. Tra Garofano e Procure le relazioni erano in verità difficili già dagli anni Ottanta, almeno dal caso Tortora in poi. Il nuovo codice di procedura penale firmato da Giuliano Vassalli nell’89, introducendo il rito accusatorio (all’americana, diremmo, banalizzando) avrebbe inoltre potuto avere prima o poi come logica conseguenza la separazione delle carriere tra pubblica accusa e funzione giudicante (pm e gip) e può darsi che anche questo inasprisse negli anni successivi l’animo di taluni pubblici ministeri. Teorie, concause, suggestioni, zero prove. La spiegazione forse più semplice (e dunque più plausibile) è che i soldi erano finiti: il ‘92, ricordiamolo, anno in cui tutti gli equilibri italiani si infransero (persino con la svolta stragista della mafia), fu anche l’anno della finanziaria «lacrime e sangue» varata da Giuliano Amato e dell’uscita della lira dallo Sme; il sistema dei partiti aveva perso presa dalla caduta del Muro di Berlino che tutto stava rimodellando. Gli imprenditori (che avevano avuto dal sistema il loro bel tornaconto in termini di protezione dalla libera concorrenza) si sentirono infine strangolati e scaricarono i politici: Luca Magni, con la sua piccola impresa di pulizie, fu insomma un apripista. Come lo fu Milano rispetto al resto d’Italia.

Il rito ambrosiano. La notizia vera non fu però l’arresto di Chiesa. Anche Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese e imbuto di tangenti per maggioranza e opposizione, era finito in galera sette anni prima: non aveva aperto bocca. Craxi, che lo considerava una sorta di papà politico, s’era mosso personalmente per fargli una visitina d’incoraggiamento a San Vittore, poi l’aveva fatto eleggere senatore: quando Saverio Borrelli aveva chiesto l’autorizzazione a procedere, il Senato gliel’aveva negata tra gli applausi della destra, del centro e della sinistra dell’emiciclo. Chiesa parlò, invece: eccola, la notizia. Aveva resistito quando Di Pietro, forte delle micidiali carte bancarie raccolte dalla moglie per la causa di separazione, gli aveva contestato i conti svizzeri Levissima e Fiuggi, sibilando al suo avvocato: «L’acqua minerale è finita... lo dica al suo cliente». Aveva retto giorni in cella con tenacia. Poi però, aveva sentito alla tv il suo leader, Bettino, che, sotto la pressione popolare, lo scaricava, marchiandolo con una parola terribile perché beffarda: mariuolo. Parlò per sette giorni l’ex enfant prodige del Psi milanese, detto il Kennedy di Quarto Oggiaro per via del ciuffo giovanilistico, e fu il primo dei grandi collettori di tangenti a vuotare il sacco. Non avesse parlato, la faccenda sarebbe finita come le altre volte, forse. In quell’epiteto, mariuolo, c’è la hybris di Bettino e il ghigno del fato che si diverte a cambiare l’esito delle battaglie. È questo l’elemento più forte contro tutte le teorie del complotto prodotte ex post: che tutto nacque da un evento francamente imprevedibile, Chiesa parlò. E probabilmente parlò perché Craxi lo insultò in tv per difendere il Psi e se stesso. Quando smise di parlare, ci fu un attimo di sospensione, giusto il tempo di digerire il risultato elettorale: il 5 aprile segnò il tracollo dei partiti della Prima Repubblica. Poi, il 22 aprile, arrestarono otto imprenditori: avevano lavorato per il Pio Albergo Trivulzio, pagato il solito obolo a Chiesa. Entrarono a San Vittore, confessarono, uscirono. Pochi mesi prima tutti i partiti milanesi avevano fatto una riunione per gestire il sistema degli appalti: ora tutto emergeva. Gli avvocati venivano fuori dai primi interrogatori annunciando «centinaia di arresti in arrivo!».

Il sistema di Tonino e il pool. Il grande balzo in avanti di Mani pulite avvenne in effetti perché gli otto imprenditori denunciarono i cassieri segreti dei partiti, i cosiddetti «elemosinieri», e mandarono in galera personaggi come Maurizio Prada della Dc o Sergio Radaelli del Psi: l’omertà si ruppe. Un boiardo del calibro di Prada, allora presidente dell’azienda municipale dei trasporti, dovette infatti vivere la faccenda come un tradimento e iniziò a raccontare le tangenti che le aziende a loro volta offrivano per primeggiare. Fu una reazione a catena, tipica del sistema messo a punto da Di Pietro: vai dentro, denunci i complici, diventi per loro inaffidabile, esci. Confessioni estorte? Indubbiamente sì, da un certo punto di vista: la carcerazione ne fu elemento essenziale. E tuttavia anche confessioni perfettamente legali. Si potrà discutere fino a perdere la voce sull’accettabilità di una procedura del genere (si badi: sempre avallata da un gip, ma sempre dallo stesso gip, Italo Ghitti). Ormai però tutto questo è storia. Sei giorni dopo la confessione degli otto, ventitré giorni dopo le elezioni politiche, Borrelli affiancò a Di Pietro due pm di cui aveva grande fiducia, Gherardo Colombo, che aveva scoperto gli elenchi della P2 e s’era scornato sui fondi neri dell’Iri, e Piercamillo Davigo, detto dai nemici Vichinsky, il procuratore delle purghe staliniane. Ancora giovani ma molto esperti, e con una forte cultura della giurisdizione, come usava dire, sottintendendo che Tonino il tribuno ne era alquanto sprovvisto.

Libera nos a malo. Messo a punto un sistema, molto controverso, nato il primo nucleo del pool, l’Italia cominciò a tifare come a un campionato del mondo. «Liberaci dal male che ci perseguita», scrivevano a Tonino da ogni parte. Nacquero comitati, si fecero fiaccolate, manifestazioni sotto Palazzo di Giustizia al grido di «Tonino non mollare!», si mescolarono le facce di Sabina Guzzanti e Paolo Rossi a quelle degli ancora missini di Gianfranco Fini. In libreria apparvero le prime agiografie in cui Di Pietro era descritto come un mix tra Superman e Padre Pio. Il poster degli «Intoccabili» con le facce del pool in fotomontaggio diventò un gadget irrinunciabile in quella Milano, quando Borrelli e i suoi si concessero due passi in Galleria e l’evento diventò un bagno di folla. E naturalmente si può dire molto male di tanti voltagabbana che, dopo avere votato e blandito potenti e corrotti per decenni, si misero ad applaudire coloro che ne stavano mozzandone la testa. Tuttavia, per un breve momento, in quella babele di voci, desideri, rivendicazioni, rivalse e aspettative ci fu anche dell’altro: una voglia di cambiare genuina, poi andata persa, come sempre, nei momenti chiave del nostro Paese.

Quando Bettino diventò «il Cinghialone». Il soprannome gli fu affibbiato un po’ al bar e un po’ nella sala stampa di Palazzo di giustizia e rivelava l’immutabile tendenza italica a maramaldeggiare su chi sta perdendo, soprattutto se è stato un potente. Quella fu l’estate di Craxi, ancora a giugno candidato alla presidenza del Consiglio: una prima ondata di indiscrezioni sui verbali di Chiesa (di cui certo dovremmo discutere provenienza e legittimità) arrivò nelle redazioni e ne stroncò le ambizioni. Sentendo che il suo tempo stava per finire, Bettino pronunciò un memorabile discorso alla Camera sul sistema di finanziamento della politica che sapeva di chiamata in correità per tutti gli altri leader (tranne un giovane Massimo D’Alema, nessuno fiatò). Poi, nel segno di quella duplicità tra uomo di Stato e nemico dei magistrati che lo stava perdendo, lasciò circolare voci insistenti sul suo «poker contro Di Pietro», un miscuglio di veleni e mezze notizie che riscaldarono molto il clima di quei mesi già roventi: apripista di un lungo elenco di rivelazioni vere o presunte, tutte volte a dimostrare che l’eroe nazionale era un mezzo eroe o, addirittura, un poco di buono.

La processione degli avvocati accompagnatori. Ciascuno può oggi rileggere la storia come vuole, dalla citatissima Mercedes facile fino alla «sbiancatura» del finanziere Chicchi Pacini Battaglia: ma va rammentato che Di Pietro conosceva, sì, qualcuno tra quelli che arrestò e tuttavia l’arrestò ugualmente, e che è uscito pulito da una lunga serie di processi subiti da imputato e vincitore da molti altri in qualità di querelante. Più grave del «poker», probabilmente, perché avveniva sotto gli occhi dei giornalisti, fu la processione degli avvocati accompagnatori, quei legali che in barba alla loro deontologia salivano in Procura non per difendere il cliente ma soltanto per fargli confessare in fretta ciò che i pm volevano: nessuno vi diede gran peso, sembrando quella specie di liturgia parte integrante di un rito catartico nazionale. Gravi, e grave segno dell’eccessiva vicinanza dei cronisti all’inchiesta, furono le grida di esultanza che il 15 dicembre del ’92 si levarono dalla sala stampa del Palazzo di giustizia quando arrivò la notizia che a Craxi era stato consegnato il primo avviso di garanzia. Imperdonabile fu non rammentare che dietro ogni provvedimento c’erano famiglie, figli, mogli, reputazioni: vite.

Il «clima infame». Il primo a suicidarsi fu Renato Amorese, segretario socialista di Lodi: «Mi hanno sputtanato», disse, e uscì di scena con dignità, in punta di piedi. Sergio Moroni, deputato socialista, s’ammazzò il 2 settembre, dopo avere mandato a Napolitano, allora presidente della Camera, una lettera terribile in cui s’interrogava su una politica da cambiare ma parlava anche di processo «sommario e violento» e di «decimazioni». Sua figlia Chiara, che ne ha ereditato la passione civile, ha raccontato a Federico Ferrero che era insopportabile per lui «essere scaraventato nel calderone dei ladri». «Hanno creato un clima infame», disse Craxi, commosso, uscendo dalla visita di condoglianze a casa Moroni. Poi si uccisero Gabriele Cagliari e Raul Gardini. Il saggio di Ferrero cita uno studio di Nando Dalla Chiesa e colloca a 43 il numero delle vittime «per cui è accertata una morte cagionata dall’onta del coinvolgimento nel giro della corruzione e del finanziamento illecito». Molti anni dopo è doveroso riflettere su questo dato. Accanto a un’Italia che festeggiava ogni arresto e ogni avviso di garanzia come una liberazione dal nemico, c’era un’altra Italia frastornata, confusa, abbandonata in un angolo con le proprie paure e talvolta i propri rimorsi, incapace di resistere in un mondo che di colpo si era rovesciato.

Poster azzurri e tangenti rosse. In vista delle elezioni di marzo ’94, mentre gli altri partiti affogavano, Achille Occhetto pensava di avere tra le mani una «gioiosa macchina da guerra». Ma già sui muri delle grandi città erano apparsi manifesti misteriosi con bambini su sfondo azzurro che balbettavano teneramente uno slogan: «Fozza Itaia». Il Paese stava cambiando in fretta, perché nulla cambiasse davvero. Nell’inchiesta erano entrati la Fininvest di Berlusconi e il Pci-Pds, e i fascicoli avevano portato uno strascico ideologico inquinante. Il filone delle tangenti rosse venne affidato a Tiziana «Titti» Parenti, che subito puntò sul tesoriere Pds Marcello Stefanini per le mazzette che sarebbero state versate dal gruppo Ferruzzi a Primo Greganti. In galera, il «compagno G» ruppe lo schema confessione-scarcerazione e non disse una parola sul suo partito, accreditando ulteriormente l’idea di una certa diversità comunista. L’inesperta Titti, spaesata nella macchina ormai rodata del pool, accusò i colleghi più anziani di «isolarla». L’avviso di garanzia a Stefanini fu il punto di non ritorno nella crisi dei suoi rapporti con il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, incaricato di sovrintendere a questo filone e da sempre sospettato di essere troppo tenero con Botteghe Oscure. Le accuse reciproche di avere voluto affossare o salvare gli ex comunisti accompagneranno entrambi. Titti ottenne un seggio con Forza Italia e poi mollò la politica, D’Ambrosio divenne più tardi senatore del Partito democratico.

Il tempo dei latitanti. È la stagione dei fuggiaschi, e dei ritorni. Il 7 febbraio del ’93 si consegnerà a Di Pietro, appena varcato il valico di Ventimiglia dopo mesi trascorsi in Polinesia, il più famoso, pirotecnico ed enigmatico di loro: Silvano Larini. Architetto amico di Craxi, Larini è l’incarnazione stessa dei luoghi comuni sulla «Milano da bere» degli anni Ottanta, grande protagonista delle notti al Giamaica di Brera. Ma soprattutto è il detentore di uno dei segreti più resistenti della storia repubblicana: il mistero del conto Protezione, numero 633369 sull’Ubs di Lugano, spuntato per la prima volta oltre dieci anni addietro dalle carte della P2 di Licio Gelli. Il conto è sempre stato suo, spiega, ma Craxi, accompagnato da Claudio Martelli, durante una passeggiata tra corso di Porta Romana e piazza Missori, nell’autunno dell’80, gli chiese di prestarglielo per operazioni di finanziamento all’estero: i primi tre milioni e mezzo di dollari arrivarono il mese stesso, altrettanti furono accreditati a febbraio dell’anno successivo.

Eutanasia di un sistema in diretta tv. In un gioco di specchi senza precedenti per una democrazia occidentale, quell’autunno gli italiani guardarono in diretta tv il disfacimento dell’Italia che sino ad allora avevano conosciuto e alla quale appartenevano. Il 28 ottobre Di Pietro portò in aula, per la tangente Enimont, Sergio Cusani: tutte le udienze furono trasmesse dalla Rai in una infinita soap opera dagli ascolti clamorosi. Si trattò in termini mediatici della frattura totale tra elettori ed eletti, rappresentanti e rappresentati: l’altra parte dello strappo nel tessuto della democrazia italiana nata nel 1946. Bocconiano, ex leader del Movimento studentesco, amico personale di Gardini, Cusani era accusato di avere mediato tra il patron della Ferruzzi e i politici. Non volendo tradire il rapporto con Gardini, morto nel frattempo suicida, rifiutò di collaborare coi pm e mantenne un atteggiamento di grande dignità, scegliendo il difensore più lontano per storia e attitudine dagli «avvocati accompagnatori»: Giuliano Spazzali, ex Soccorso Rosso, vero antagonista della cultura del pentimento catartico sottesa a Mani pulite (sopra, i due davanti a Palazzo di giustizia a Milano, Fotogramma). Decidendo di processarlo da solo, Di Pietro volle di fatto concludere con un espediente mediatico il processo all’intera Prima Repubblica, trascinando alla sbarra in qualità di testimoni, e dunque con l’obbligo di rispondere e dire il vero, i principali leader dei partiti che finora erano sempre sfuggiti a un confronto diretto con lui grazie alle guarentigie parlamentari. Processualmente, zero. Politicamente, un cataclisma.

La neolingua «dipietrese». Le udienze, memorabili e piene di pathos, vennero recitate dal pm di Montenero di Bisaccia in una neolingua fatta di dialetto, smorfie e motti popolari, il «dipietrese», che anticipava di due decenni la svolta pop dei grillini. I milanesi facevano la fila per trovare posto in aula. Tutti o quasi, uscirono con le ossa rotte. Il penoso farfugliamento di Arnaldo Forlani, incapace di controllare la propria salivazione davanti alle telecamere, resta forse l’immagine più imbarazzante di quel cambio di stagione. Se la cavò solo Craxi, orgoglioso fino all’arroganza: a lui Di Pietro, con gli altri irridente, concesse una specie di onore delle armi che molto fece almanaccare le tricoteuse incollate alla tv. In capo a qualche mese, Bettino sarebbe partito per la Francia e poi per la Tunisia, proprio mentre stavano per bloccargli il passaporto. La sua vicenda politica s’era del resto già conclusa da un pezzo, la sera che una folla indignata lo aveva aspettato sotto il suo albergo romano, il Raphael, per tirargli monetine e coprirlo di insulti. A Palazzo Chigi nella primavera del ‘94 si stava insediando Berlusconi: la reciproca delegittimazione tra potere politico e potere giudiziario avrebbe segnato nei vent’anni successivi la vita dell’Italia.

Fiandaca: «Il populismo giudiziario non è diritto e i magistrati non sono tribuni», scrive Giulia Merlo il 4 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". “La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito”. «Sentenza populista» è solo l’ultima esternazione – pronunciata da un difensore per definire l’esito di un procedimento penale – che associa il populismo alla giustizia. Un legame complesso, che affonda le radici nella storia del nostro Paese e nell’indissolubile connubio tra politica e diritto. «Una tendenza – quella del populismo penale – che porta, sul versante politico, alla strumentalizzazione del diritto penale, con l’impiego della punizione come medicina per ogni malattia sociale; su quello giudiziario alla pretesa del magistrato di assumere il ruolo di autentico interprete delle aspettative di giustizia del popolo» è la tesi di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo e autore del saggio Populismo politico e populismo giudiziario.

Cominciamo dalla locuzione “populismo penale”. Lei lo considera un concetto improprio?

«Il concetto di populismo si presta, nella sua potenziale estensione, a ricomprendere fenomeni molto diversi e può, perciò, essere piegato anche ad usi impropri. In un mio saggio del 2013 ho provato a mettere insieme alcuni spunti di riflessione sul populismo penale, distinguendone due possibili forme che peraltro non sono necessariamente destinate a manifestarsi in forma congiunta, nel senso che l’una può mantenere una certa autonomia rispetto all’altra: alludo da un lato al populismo penale “politico- legislativo” e, dall’altro, al populismo penale “giudiziario”. Il primo sottintende l’idea di un diritto penale utilizzato come risorsa politico- simbolica per lucrare facile consenso elettorale in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e ansie prodotte dal rischio- criminalità, specie quando la fonte di tale rischio viene identificata nel “diverso”, nello straniero, in quell’ immigrato extracomunitario che finisce con l’assumere il ruolo di nuovo nemico della società da controllare, punire e bandire: insomma, inasprire la risposta punitiva nei confronti del presunto nemico significa farsi populisticamente carico del bisogno di sicurezza del popolo sano, a difesa di una sorta di “ideologia del guscio” e di una supposta identità culturale ( e perfino razziale!) che rischierebbe di essere inquinata dai nuovi barbari».

In questo che lei chiama «farsi carico populisticamente del bisogno di sicurezza» rientra anche la creazione di nuove fattispecie di reato?

«Sì, in generale può parlarsi di populismo penale in tutti i casi, in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affiggono la società. Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate. Questa ricorrente tendenza alla strumentalizzazione politica del diritto penale, e all’impiego della punizione come medicina quasi per ogni malattia sociale è stata, non a caso, esplicitamente criticata anche da Papa Francesco».

E veniamo ora alla seconda forma di populismo penale, il populismo giudiziario…

«Il “populismo giudiziario”, quale specifica forma di manifestazione del populismo penale sul versante della giurisdizione, è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), e ciò in una logica di concorrenza- supplenza, e in alcuni casi di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistratotribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini, finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato, piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal consenso e dall’appoggio popolare».

Viene automatico chiederle: possiamo fare qualche esempio, più o meno recente?

«Esemplificazioni concrete d’un tale populismo giudiziario non è difficile rinvenirne, ieri come oggi. E’ fin troppo facile individuarne un modello prototipico nell’Antonio Di Pietro protagonista di “Mani pulite”. Anzi, direi che proprio Di Pietro ha acceso la miccia di un populismo destinato, successivamente, a proliferare in forme anche più direttamente politiche. Aggiungo, incidentalmente, che sarebbe anche maturato il tempo per effettuare un autentico bilancio critico degli effetti politici ad ampio raggio – alcuni dei quali, a mio giudizio, del tutto negativi – prodotti dalla cosiddetta rivoluzione giudiziaria milanese. Personalmente, temo che una giustizia penale che si autoinveste di missioni palingenetiche, alla fine, causi più danni che vantaggi».

“Mani pulite” come modello di populismo giudiziario, dunque. Di quale missione palingenetica si sarebbero investiti i magistrati milanesi?

«La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. Altra cosa è che un obiettivo “sistemico” così ambizioso fosse veramente alla portata dell’azione giudiziaria di contrasto della corruzione. A riconsiderare quell’esperienza a venticinque anni di distanza, sembra più che lecito dubitarne».

Ecco il punto: è possibile associare il termine populismo alla giustizia, quindi?

«Si può associare se utilizziamo il termine “giustizia” per indicare i bisogni, le aspettative di tutela e le aspirazioni di giustizia della popolazione secondo la chiave interpretativa che pretendono di fornirne le forze politiche o i magistrati di vocazione populista. Se guardiamo al concetto di giustizia sotto un’angolazione diversa e più generale, invece, tra populismo e giustizia può esservi conflitto».

Proviamo ora a ricercare le origini del fenomeno. Secondo lei dove affondano?

«Il discorso è complesso. Direi una miscela di fattori oggettivi o di contesto, e soggettivi come il protagonismo di una parte della magistratura. Tra i fattori di contesto, annovererei – in sintesi – la crisi della politica ufficiale e la sfiducia verso i politici, l’emergere di tendenze antipolitiche (o, meglio, antipartitiche), la tentazione politica di delegare alla magistratura il compito di affrontare e risolvere grosse questioni sociali, criminali e non. Tra i fattori soggettivi, porrei l’accento sulla vocazione lato sensu politica di una parte della magistratura, sul diffondersi di una cultura giudiziaria di tipo attivistico- combattente e sulla tendenza – appunto – di alcuni magistrati a impersonare il ruolo di giustizieri, angeli del bene o tribuni del popolo. Questi fattori oggettivi e soggettivi interagiscono secondo dinamiche complesse e non univoche».

Provando a spostare l’analisi sull’attuale sistema politico, si può dire che il diritto penale è stato strumentalizzato in chiave populista?

«Questo fenomeno di strumentalizzazione è esistita e continua ad esistere, peraltro sia a destra che a sinistra».

Concretamente, possiamo citare qualche caso?

«Faccio due esempi, entrambi emblematici: la circostanza aggravante della clandestinità introdotta in epoca berlusconiana, e poi bocciata dalla Corte costituzionale; il nuovo reato di omicidio stradale fortemente voluto da Matteo Renzi, in una prospettiva sinergica populista- vittimaria: nel senso che la motivazione politica di fondo sottostante all’omicidio stradale ( come reato autonomo) è stata non solo quella di dare un segnale anche simbolico di grande rigore nel contrastare la criminalità stradale con pene draconiane, ma anche di indirizzare un messaggio di attenzione e vicinanza nei confronti dei familiari delle vittime della strada e delle loro associazioni. Al di là di questo discutibilissimo populismo vittimario, quel che rimane da dimostrare con criteri empirici è – beninteso – che l’omicidio stradale serva davvero a prevenire più efficacemente gli incidenti mortali».

Secondo lei la politica sta tendendo ad avvicinarsi al lessico tipicamente “accusatorio” della magistratura requirente?

«Ritengo che vi siano esempi di questo avvicinamento anche in Italia. Alludo, com’ è intuibile, al fenomeno di esponenti politici a vari livelli che pongono al centro della loro azione politica o del loro programma di governo la lotta alla criminalità o la difesa della legalità: una sorta di professionismo politico specificamente anticriminale o antimafioso. Con una tendenziale differenza, peraltro, a seconda che questo tipo di politico militi sul fronte conservatore o progressista: nel primo caso, egli muoverà guerra soprattutto alla criminalità comune e alla criminalità da strada; nel secondo caso, alle mafie e alla criminalità dei “colletti bianchi”. In entrambi i casi, comunque, il politico di turno tenderà a vestire i panni del pubblico ministero più che del giudice: porrà infatti l’accento, con parecchia enfasi, sulla necessità di denunciare, indagare, accertare, impiegare tutti i mezzi di contrasto possibili e immaginabili per sradicare la mala pianta del crimine e fare terra bruciata intorno ad esso, applicare pene draconiane, controllare e neutralizzare gli individui pericolosi o sospettabili tali».

Tornando al populismo penale, il termine viene utilizzato in accezione negativa. Eppure lei ha scritto che il diritto penale è, in qualche modo o misura, populistico. E’ una provocazione?

«Sì è una provocazione intellettuale, nel senso che tento di chiarire. Tradizionalmente, ogni codice penale è stato considerato una specie di marcatore simbolico dell’identità culturale e valoriale di un determinato popolo: in questo senso, ogni codice nazionale rifletterebbe la storia, i valori, gli usi sociali, i sentimenti collettivi della nazione in questione. Con formula efficace, si è anche detto che un codice penale rispecchia il “minimo etico” della popolazione. Ciò premesso, io avanzerei in realtà riserve rispetto alla tendenza a caricare il dritto penale di valenze fortemente identitarie, a maggior ragione nelle società in cui viviamo caratterizzate da un accentuato pluralismo: incombe, infatti, il rischio di voler autoritariamente attribuire alla punizione il compito illusorio di riaffermare o rinsaldare identità “comunitarie” ormai inesistenti o indebolite contro criminali percepiti come nemici estranei e inquinanti. Un simile atteggiamento sarebbe non solo incostituzionale, ma sostanzialmente fascistico- razzistico».

Nel suo saggio sul populismo penale, lei cita il criminologo Jonathan Simon, che attribuisce un ruolo politico decisivo alla paura per la criminalità. Che funzione esercita, secondo lei, la paura nell’affermarsi del populismo?

«Un ruolo certo non piccolo, non solo in Italia. Come ha appunto messo in evidenza Simon riguardo ad esempio agli Stati uniti, si può verosimilmente diagnosticare uno specifico paradigma di governance politica incentrato sulle strategie di repressione e prevenzione della criminalità quali essenziali elementi costitutivi dell’azione di governo. Ma il fenomeno è da tempo registrabile in molti paesi».

Per concludere, le richiamo una citazione di Leonardo Sciascia che lei usa come incipit del suo saggio: “Quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”. Lei condivide? Ma come può chi giudica tenere conto dell’opinione pubblica?

«Condivido il senso profondo del paradosso sciasciano, che lascia trasparire la difficoltà oggettiva ma, al tempo stesso, la necessità di conciliare in qualche misura due esigenze opposte. Cioè il giudice dovrebbe in teoria, per un verso, essere sempre capace di prendere criticamente le distanze dal clima ambientale, dalle pressioni esterne e dalle aspettative di punizione delle stesse vittime del reato e, aggiungerei, anche dai propri pregiudizi e dai sentimenti personali, e di emettere decisioni basate soprattutto sulle norme, sul ragionamento rigoroso e sul senso di equilibrio, in modo da contemperare tutti i valori in campo: il che, passando dalla teoria alla realtà, può peraltro avverarsi soltanto fino a un certo punto. Anche i giudici sono esseri umani!»

E però rimane il fardello dell’opinione pubblica…

«Infatti. Per altro verso, chi giudica neppure dovrebbe pronunciare sentenze così difformi dalle aspettative della società esterna e delle vittime da risultare poco comprensibili e, perciò, inaccettabili. Ma la grande difficoltà, il dramma stanno proprio in questo: non di rado, le aspettative popolari di giustizia sono molto emotive, poco filtrate razionalmente e perciò, come tali, irricevibili da una giustizia che aspiri a condannare e punire sulla base di motivazioni razionali e in misura proporzionata alla gravità dei reati e delle colpe accertate».

Viene da chiederle, se mai esiste una risposta: è possibile trovare la “misura” nel giudicare?

«Che cosa sia davvero “proporzionato” in campo penale, è una questione a sua volta intrinsecamente controvertibile: in proposito, non c’è verità scientifica, né si può esigere la precisione del farmacista. Si ripropone, dunque, il paradosso “doloroso” di Sciascia: un paradosso che non consente facili vie di uscita, né tollera risposte capaci di tranquillizzare – appunto – la coscienza di chi ha scelto la professione di giudicare».

Di Pietro continua a infangare Craxi: "Non si intitolano vie a chi ha commesso reati". L'ex pm Antonio Di Pietro critica chi vuole riabilitare Bettino Craxi: "Ritengo che le vie vadano intitolate a persone che sono un punto di riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Non a chi è stato condannato", scrive Raffaello Binelli, Sabato 21/01/2017 su "Il Giornale". Non c'è nulla da fare. Di Pietro ce l'ha sempre avuta e continua ad avercela con Bettino Craxi, nonostante l'ex leader socialista sia morto ormai da diciassette anni. All'ex pm di Mani Pulite non va giù che si cominci, molto lentamente, a rivedere sotto una luce diversa i fatti di Tangentopoli. E così mette tutti sull'attenti (o almeno ci prova), ricordando a tutti che Craxi, in fondo, era colpevole di tante malefatte. E che quindi oggi non merita l'intitolazione di alcuna via. Vediamo cosa ha detto Antonio Di Pietro, in un'intervista al quotidiano La Stampa, in merito al dibattito aperto dal sindaco di Milano Giuseppe Sala per intitolare una strada all'ex presidente del Consiglio. "Ritengo che le vie vadano intitolate a persone che sono un punto di riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Che siano un esempio da imitare. Una persona che è stata condannata più volte non penso che si possa indicare come esempio. Mi sembra una furbata questo dibattito, vogliono buttarla in politica per nascondere le responsabilità giudiziarie". E Di Pietro spiega cosa vuol dire col termine furbata: "Si è fatto credere all' opinione pubblica che in questo Paese c'è stata una guerra tra magistrati e politica. Ma non è colpa dei magistrati se qualcuno ha commesso dei reati. I magistrati hanno fatto le indagini per accertare chi aveva commesso reati giudiziari". Ora, se questo è vero (ed è vero, i reati sono stati commessi), è altrettanto vero (perché lo dice la storia) che i partiti politici italiani dal dopoguerra al 1992, si sono quasi tutti finanziati in modo illecito. Ed è altresì vero che il più grande partito dell'opposizione, il Pci, riceveva (in modo illegale) i fondi dall'ex Unione Sovietica oltre a quelli con cui si foraggiavano anche le altre forze politiche. Eppure la tanto sbandierata rivoluzione di Tangentopoli non ha fatto luce fino in fondo su questi reati (coperti dall'amnistia del 1990). La magistratura dell'epoca, dunque, ha svolto il proprio lavoro in modo strabico, col risultato di indurre i cittadini a credere che una parte politica, quella dei partiti che per oltre 40 anni avevano governato il Paese, fosse solo un manipolo di "ladroni", mentre l'altra parte c'erano dei veri e propri gentiluomini, puri e immacolati. Mai possibile credere, ancora oggi, ad una simile barzelletta? Di Pietro riconosce che il sindaco di Milano Sala "sul piano personale può avere o non avere un giudizio su di lui (Craxi, ndr). Ma come sindaco non può volere questa cosa. Milano non può dimenticare di essere stata Tangentopoli, la città degli affari illeciti che con questi ha contribuito all'impoverimento del Paese". E rincara la dose: "Sembra che si voglia a tutti i costi dimenticare che Bettino Craxi è stato condannato anche in vita a più di 10 anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Condanne arrivate perché ci sono persone che ci hanno riferito di appalti con tangenti e di conti correnti anche all' estero intestati a lui e al suo gruppo. Altro che "è stato condannato perché non poteva non sapere". Altro che "non c' erano finanziamenti illeciti".

Odiate, odiate, e il consenso verrà, scrive Piero Sansonetti il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Il Fatto di Travaglio definisce Alfano “Ministro della malavita” perché è andato sulla tomba di Bettino Craxi. Il problema dell’odio, dell’eccesso di odio nella lotta politica, non è solo una questione culturale. E’ un problema molto concreto, perché l’odio sta scalzando la stessa lotta politica. Sostituendola, assumendone la funzione. E sta prendendo il posto dei programmi, delle idee. L’odio – che una volta era un accessorio del conflitto, una aggiunta – è diventato l’essenziale, e soprattutto è diventato lo strumento principale della conquista del consenso. Odia, odia, vedrai che diventi popolare. Vorrei sottoporvi questo titolo pubblicato ieri con grande evidenza sulla prima pagina del “Fatto”. Dice così, testualmente: «Alfano, ministro della malavita, sulla tomba del latitante Craxi». Cos’è che colpisce? Certo, colpisce l’ingiuria, usata con incredibile arroganza e leggerezza. Alfano viene qualificato come un gangster. Il capo dei gangster. Il riferimento è probabilmente a una polemica del primo novecento tra Gaetano Salvemini e Giovanni Giolitti, per via dei brogli elettorali dei giolittiani in Puglia. Salvemini usò quell’epiteto. Ma nell’articolo del “Fatto” non c’è nessun accenno a Salvemini, del resto il povero articolista neanche si sogna di definire Alfano un bandito. La polemica è tutta del titoli- sta. Il quale, probabilmente, già sa che la magistratura difficilmente condannerà il “Fatto” che è il suo giornale di riferimento, e quindi non fa caso agli insulti e li usa con larghezza. (Se penso che un Pm di Palermo mi ha chiesto più di centomila euro di risarcimento per aver scritto che era stato maleducato nell’interrogatorio di De Mita, mi chiedo quanto potrebbe chiedere Alfano apostrofato come il capo della delinquenza: 1 milione, 10 milioni? E però son sicuro che il Pm di Palermo con me vincerà, e Alfano non vedrà mai una lira…). Ma quel che più colpisce nel titolo non è nemmeno l’improperio sfrontato per il ministro. E’ l’odio, l’odio incontenibile e viscerale e imperituro, per un signore che ha contribuito a fare la storia della repubblica, che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia della sinistra, e che è morto quasi vent’anni fa. Il gusto di parlare di una persona morta apostrofandola come latitante, ha pochi precedenti nelle tradizioni della polemica politica italiana. L’odio, l’odio come carburante per l’intelletto. L’odio come certezza dell’esistere. Come assicurazione sulla propria probità. Voi dite che ormai è una tendenza inarrestabile? Speriamo di no.

Martelli: «Alla fine i moralisti finiscono alla gogna», scrive Giulia Merlo il 17 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «Chiunque faccia dell’onestà il principale, se non l’unico motivo della propria iniziativa politica, nasconde un’assenza di programmi più approfonditi”. «Nessun ritorno a Mani Pulite». Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia nel difficile biennio tra il 1991 e il 1993, analizza le inchieste che hanno gettato nel caos le amministrazioni di Milano e Roma, a partire dal rapporto sempre teso tra politica e magistratura.

Onorevole, traballano sia Milano che Roma: con Beppe Sala autosospeso e il braccio destro della sindaca Virginia Raggi arrestato. Ci sono somiglianze con il 1992 di Mani Pulite?

«Somiglianze non direi. Non vedo un’ondata di arresti scatenati da metodi di indagine alla Di Pietro, in cui il motto era «o parli o butto la chiave», con una catena di delazioni a comando provocate dalla carcerazione preventiva. Vedo però uno stillicidio continuo di indagini e accuse e una particolare devozione della nostra magistratura alle indagini sulla pubblica amministrazione. Per un verso bisogna rallegrarsene, per altro verso suscita qualche interrogativo, a fronte della mole di reati, anche più gravi, non perseguiti».

Partiamo dal caso–Roma. L’amministrazione grillina rischia di crollare sotto il peso delle dimissioni di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra. Che fine ha fatto lo slogan “onestà–onestà”?

«Come le volpi finiscono in pellicceria, così i moralisti finiscono alla gogna. S’è già visto in passato: quelli che sbandieravano il partito degli onesti poi finirono nel tritacarne giudiziario e questo è vero anche oggi.

Chiunque faccia dell’onestà il principale se non l’unico motivo della propria discesa politica in campo nasconde un’assenza di programmi più approfonditi. L’onestà è una precondizione e la politica è un mestiere talmente difficile e insidioso che pensare di cavarsela semplicemente restando onesti è una pia illusione».

Poi anche Milano, la sua città: Expo è stato uno dei più sbandierati successi del governo Renzi e ora rischia di essere la pietra tombale del Comune, faticosamente mantenuto dal Pd. Quali equilibri si stanno muovendo?

«La procura aveva archiviato il caso Sala, in cui non si era trovata traccia di tangenti. Per dirla con Ilda Boccassini, non c’era odor di «piccioli», ma solo una gran fretta, che ha fatto compiere anomalie. Sembra infatti che sia stato retrodatato un documento di indizione di una gara d’appalto, per poter rientrare nei termini di legge. Nei giorni di Expo, infatti, ricordo grande frenesia per arrivare con le opere compiute all’inaugurazione, smentendo i gufi del «non ce la farete mai»».

Invece la procura generale ha ritenuto di riaprire l’inchiesta…

«Che la procura generale abbia ritenuto di riaprire un caso archiviato dalla procura della Repubblica e come questo si inserisca nella lotta devastante della magistratura milanese, purtroppo è nelle carte. Del resto, è stato lo stesso Csm a tentare di sedare le lotte, legittimando Edmondo Bruti Liberati e trasferendo Alfredo Robledo. Io temo che l’iscrizione di Sala ne registro degli indagati possa essere un danno collaterale provocato da quel conflitto. Del resto, i conflitti tra magistrati sono i più accaniti e avvelenati, perché tutte le parti brandiscono il diritto, indossano la toga e sono ammantati di intransigenza assoluta, impuntata su dettagli e cavilli».

Una magistratura milanese, dunque, molto diversa da quella di Mani Pulite?

«Decisamente. Allora c’era una compattezza incredibile nel pool di Mani Pulite: anche quando – come poi si scoprirà – i giudici non erano d’accordo uno con l’altro, erano però tutti saldi nel far fronte comune contro l’opinione pubblica rispetto ai politici».

Ma anche oggi si ripete, però, un dualismo guerriero tra magistratura e politica?

«Questa è la visione manichea di Piercamillo Davigo, che parla di lotta del bene contro il male, in cui i magistrati sono tutti buoni e politici tutti corrotti».

Lei, invece, come la pensa?

«Io credo ci sia la somma di due mali. E’ vero che la corruzione in Italia alligna più che altrove che questo merita indagini e sanzioni. Se però nelle indagini si cede a eccessi giustizialisti, ecco che si somma male ad altro male: la corruzione diffusa e la repressione arbitraria».

Torna, dunque, al centro il rapporto difficile tra politica a tutti i livelli e magistratura.

«Io credo che, di questo, il caso di Beppe Sala sia emblematico. Ancora non si sa con certezza se abbia ricevuto un avviso di garanzia e tutto è nato da indiscrezioni sui giornali. Quando dalle procure trapelano notizie riservate, storcendo il principio della tutela dell’indagato e del suo diritto alla riservatezza, ecco che si è già compiuto un abuso grave. Ma la violazione del segreto istruttorio è diventata un passatempo, ed anzi è strano quando ciò non avviene. Se si distrugge la reputazione dell’imputato nella fase precedente l’indagine formale, però, si altera il corso della giustizia e questo è il punto cruciale e che più interessa i rapporti tra politica e magistratura. La sentenza, infatti, può anche essere di assoluzione, ma intanto la carriera politica è già bella che finita».

L’autosospensione di Sala è una scelta politica che deriva da questa distorsione del sistema?

«Io credo che lui abbia fatto una scelta opportuna. La sua decisione fungerà da sollecito alla procura generale, perché si decida in fretta a formalizzare le accuse o archiviarle».

Il caso Roma, invece, ha delle implicazioni diverse. Raggi è sotto scacco?

«L’elemento politico di questa vicenda lo ha colto bene Giorgia Meloni, che si è chiesta se ci troviamo di fronte a incompetenza assoluta oppure a stupida malizia della sindaca Raggi. Perché ha insistito a scegliere personaggi che hanno fatto il loro curriculum amministrativo nelle passate gestioni, che in pubblico lei è stata la prima a condannare? Questo a me pare incomprensibile. Noi siamo osservatori estranei, ma anche dal suo stesso movimento in tanti l’hanno messa in guardia. La sua è stata ostinazione, ma del resto questo è un periodo in cui va di moda per sindaci ed ex sindaci non ascoltare i consigli».

Un riferimento a Matteo Renzi?

«Non ho fatto che leggere elogi per la cosiddetta «determinazione» di Matteo Renzi. Eppure io credo che ostinarsi sia un errore, non certo una qualità. E di qualità Renzi ne avrebbe molte altre».

Così nacquero Tangentopoli e poi il giustizialismo, scrive Fabrizio Cicchitto il 27 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". L’intervento del ministro Orlando alla direzione del Pd e la lunga intervista al Dubbio del filosofo Biagio De Giovanni hanno costituito la prima radicale rimessa in questione di quel giustizialismo che nel Pds– Ds e poi nel Pd ha costituito una fondamentale scelta ideologica di larga parte dei post– comunisti (con l’eccezione dei miglioristi come Chiaromonte, Napolitano, Umberto Ranieri) e una altrettanto marcata scelta politica determinata da un misto di strategia e di tattica di cui poi vedremo le ragioni di fondo. Orlando ha denunciato il fatto che per anni il giustizialismo esercitato contro Berlusconi ha sostituito le scelte culturali e politiche di stampo realmente riformista che invece non sono state fatte. Biagio De Giovanni ha denunciato il fatto che sul giustizialismo della sinistra si sono innestati due fenomeni devastanti: “la politica distrutta dall’invadenza della magistratura” e un’antipolitica che si innesta su questo ruolo prevaricante di un potere dello stato e che attraverso di esso sta distruggendo il confronto politico e culturale. De Giovanni ha anche rilevato, a proposito dell’attività più propriamente politica del ministro Orlando, che egli ha realizzato positivi interventi sulle carceri ma non è riuscito neanche a sfiorare i due temi centrali della riforma della giustizia, la separazione delle carriere e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per completare questa rassegna preliminare citiamo anche l’intervista di Giorgio Napolitano sul Messaggero a proposito del confronto sul referendum: Napolitano ha rilevato che la forza dell’antipolitica è diventata tale che nell’ultima fase della campagna referendaria il Presidente Renzi ha pensato bene di riuscire a smontare il vantaggio del No dando al Sì il valore della lotta alla casta: fatto dal presidente del Consiglio in carica questo appello è risultato controproducente e anche un po’ grottesco. Ciò detto, però, dobbiamo per forza fare un passo indietro. Il finanziamento organicamente irregolare dei partiti parte dagli anni 40 e ha per nome e cognome una serie di padri della patria (da Alcide de Gasperi, a Palmiro Togliatti a Pietro Nenni). Negli anni ’ 40–’ 50 la Dc era finanziata dalla Confindustria, dalla Cia, da una rete di imprenditori privati. Poi, con l’avvento di Fanfani, il finanziamento della Dc fu sostenuto anche dalle aziende a partecipazione statale. A sua volta il Pci era finanziato dal Pcus, dalle cooperative rosse, da una rete di imprenditori amici, specie nelle regioni rosse. Prima di Craxi, il Psi dipendeva per il suo finanziamento dal principale alleato: nella fase frontista esso si basò sul finanziamento sovietico e sulle cooperative rosse, nella fase del centro– sinistra sulle partecipazioni statali. Tutto ciò si aggregò in un sistema organico, quello di Tangentopoli. A fondare quel sistema dal lato imprenditoriale furono altri due padri della patria, cioè Vittorio Valletta ed Enrico Mattei. Mattei considerava i partiti e le loro correnti dei “taxi” (tant’è che finanziava abbondantemente anche l’Msi, un partito che poi anch’esso, come del resto il Pci– Pds, si è rifatto la verginità), e poi fondò in modo esplicito con Albertino Marcora quella sinistra di base (corrente democristiana) che ha esercitato una grande influenza nella Dc e nell’intero sistema politico. Che il Pci affondasse le sue risorse in un finanziamento irregolare dalle molteplici fonti (altro che feste dell’Unità) è messo in evidenza dal verbale di alcune riunioni svoltesi in Via delle Botteghe Oscure citato a pagina 495– 498 nel libro di Guido Crainz “Il paese mancato”. Giorgio Amendola nella direzione del 1 febbraio 1973 disse: “quando me ne sono occupato io “le entrate straordinarie” (eufemismo ndr) erano del 30% ora siamo al 60%”. A sua volta Elio Quercioli disse: “molte entrate straordinarie derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito”. E nella riunione dell’1 e del 2 marzo 1974 il Pci diede il sostegno alla legge sul finanziamento pubblico con l’esplicita motivazione di ridurre il finanziamento sovietico e le “entrate straordinarie derivanti da attività malsane”. Armando Cossutta disse: “negli ultimi anni si è creato in molte federazioni un sistema per introitare fondi che ci deve preoccupare. C’è un inquinamento nel rapporto con le nostre amministrazioni pubbliche nel quale c’è di mezzo l’organizzazione del partito e poi ci stanno dei singoli che fanno anche il loro interesse personale”. Quando, poi, decollò la politica di unità nazionale, il Pci entrò anche nel “sistema degli appalti pubblici” che aveva come sede di compensazione l’Italstat: in quella sede c’era un meccanismo che assicurava la rotazione nell’assegnazione degli appalti che riguardava tutte le grandi imprese di costruzione pubbliche e private: alle cooperative rosse era garantita una quota che oscillava dal 20 al 30%. A sua volta Bettino Craxi per rendere reale fino in fondo l’autonomia del Psi dalla Dc e dal Pci, prese direttamente e tramite Vincenzo Balzamo rapporti con il mondo imprenditoriale: una mossa i cui rischi furono evidenti poi. Avendo però alle spalle quella realtà del suo partito, Berlinguer fece la famosa intervista sulla questione morale nella quale presentava il Pci come il partito delle “Mani Pulite”: la mistificazione è evidente. In sostanza Tangentopoli era un sistema che si fondava su un organico rapporto collusivo fra tutte le grandi imprese pubbliche e private senza eccezione alcuna (quindi compresa la Cir di De Benedetti, come risultava dalle sue stesse ammissioni processuali) e da tutti i partiti dell’arco costituzionale senza eccezione alcuna (quindi compreso il Pci; l’Msi, a sua volta, o aveva diretti rapporti con le imprese, vedi l’Eni, o, a livello locale era “tacitato” dagli altri partiti). Questo sistema era fondato sulle grandi imprese, sui partiti, sulle correnti dei partiti. In esso, dalla seconda metà degli anni ’ 80 in poi, emersero degenerazioni personali. Comunque, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht che costrinse “a calci” il capitalismo italiano a fare i conti con il mercato e la libera concorrenza (cosa che fino ad allora non aveva fatto) il sistema di Tangentopoli diventò chiaramente antieconomico (lo era anche prima ma esistevano meccanismi di compensazione quali il debito pubblico e specialmente le svalutazioni competitive, in genere decise di comune intesa fra la Fiat e Banca d’Italia) e doveva essere superato. Ora la via maestra di quel superamento–eliminazione avrebbe dovuto essere un’operazione consociativa, con un’intesa generale fra le forze politiche, quelle imprenditoriali, quelle giudiziarie, e magari concluso con un’amnistia. Le cose non andarono affatto così. L’ultima amnistia fu quella del 1989 che servì a salvare il Pci dalle conseguenze penali del finanziamento irregolare di derivazione sovietica. Negli anni ’ 90 i partiti, specie la Dc, il Psi, i partiti laici, ma per altro verso anche il Pci (che con il cambio del nome in Pds e il “superamento” del comunismo perse circa metà del suo elettorato) avevano perso vivacità culturale e consenso. A quel punto, invece, si affermò nella magistratura la corrente più aggressiva e più ideologica, cioè Md, che teorizzava il ruolo sostanzialmente rivoluzionario del magistrato che, superando un’asettica e burocratica terzietà, avrebbe dovuto rimettere in questione gli equilibri economici e quelli politici. Questa teorizzazione trovò nel pool di Milano di Mani Pulite chi la cavalcò sul piano dell’esercizio della giurisdizione mettendo in essere un’operazione del tutto unilaterale, fondata su due pesi e due misure: nel caso della Dc, Mani Pulite arrivò addirittura a distinguere fra le correnti di centro–destra di quel partito che furono sostanzialmente distrutte ( chi non ricorda Forlani al processo Enimont, e poi, fuori da Milano, Andreotti alla sbarra per l’assassinio di Pecorelli e per il concorso con la mafia e Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino in carcere?) e invece la sinistra Dc, e sull’altro versante, il Pci–Pds, furono interamente salvati. A loro volta il Psi, il Psdi, il Pli, il Pri furono rasi al suolo. Quando l’unilateralità dell’operazione non era ancora chiara e sembrava che avrebbe colpito tutto e tutti, Achille Occhetto si precipitò alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani” perché conosceva bene il retroterra finanziario del Pci– Pds. Quella di Mani Pulite fu comunque un’operazione rivoluzionario– eversiva unica in Europa: fu l’unico caso nel quale ben 5 partiti di governo furono distrutti prima dai magistrati che dagli elettori. Lo strumento principale di questa operazione era la cosiddetta “sentenza anticipata”: se un dirigente politico viene raggiunto da un avviso di garanzia, enfatizzato da giornali e da televisioni, a quel punto egli perde totalmente il suo consenso elettorale. Se la stessa sentenza colpisce altri mille dirigenti di quel partito, è il partito nel suo complesso ad essere azzerato. Se poi, magari dopo cinque o sette anni, interviene la vera sentenza processuale ed è di assoluzione, i suoi effetti politici sono nulli. In seguito a Mani Pulite, dal ’ 92–’ 94 in poi, i rapporti fra politica e magistratura sono stati totalmente rovesciati. A “comandare” è chiaramente la seconda. A sancire quel cambio di equilibrio fu anche nel 1993 l’eliminazione di quell’immunità parlamentare che fu ideata dai costituenti proprio per bilanciare la totale autonomia di cui gode la magistratura italiana diversamente da altri ordinamenti. In un primo tempo il Pds fu l’utilizzatore passivo di quella unilateralità dell’azione della magistratura. Poi ne diventò il fruitore attivo. La storia, però, è paradossale. Il Pds di Occhetto, D’Alema, Veltroni credeva che grazie a Mani Pulite sarebbe arrivato sicuramente al potere. Di conseguenza la discesa in campo di Berlusconi fu un’amara sorpresa per il gruppo dirigente del Pds. Berlusconi da parte sua fece leva anche sul “nuovismo”, sul populismo e sull’antipolitica che Mani Pulite aveva suscitato. A quel punto, però, il giustizialismo fu esercitato dal Pds (e da tutto il circolo mediatico costituito da Repubblica, il Tg3, Samarcanda, poi Travaglio e Il Fatto) contro Berlusconi provocando una “guerra civile fredda” durata 20 anni. Anche in questo secondo caso, però, c’è stata un’altra amara sorpresa: quando Berlusconi è stato messo fuori gioco attraverso un’interpretazione retroattiva di una legge già di per sé assolutamente iniqua, qual è la Severino, il Pd di Bersani si è trovato di fronte ad un altro scherzo della storia: Forza Italia era stata messa fuori gioco, il centro– destra era in crisi ma a quel punto, a cavalcare fino in fondo la tigre e l’onda del giustizialismo e dell’antipolitica, è nata una forza integralmente protestataria, ultra– giustizialista e gestita con meccanismi di stampo autoritario da un comico– demagogo e dalla società di comunicazione della Casaleggio associati. Bisogna guardare anche all’altra faccia della medaglia: mentre a suo tempo Tangentopoli era un sistema fondato su grandi imprese e sui partiti in quanto tali, da dopo il ’ 92–’ 94 è avvenuta la parcellizzazione della corruzione, che si è fondata su una miriade di mini– catene o reti composte da singoli imprenditori, singoli alti burocrati, singoli politici, in qualche caso anche con singoli magistrati. Questa corruzione capillare è ciò che è avvenuto dopo il ’ 92–‘94 enfatizzando a dismisura il ruolo della magistratura con effetti sconvolgenti. Oggi anche gli apprendisti stregoni sono vittime di sé stessi e cioè anche i grillini sono ormai dominati dall’incubo dell’avviso di garanzia che per loro, è ancor più distruttivo perché finora, quando esso riguardava gli “altri” equivaleva ad una sentenza di terzo grado. Per concludere: le riflessioni del ministro Orlando e di Biagio De Giovanni costituiscono certamente un fatto positivo: non vorrei, però, che essi arrivino troppo tardi, quando già Davigo, non a caso eletto “a furor di popolo” presidente dell’Anm, si comporta come una sorta di super– commissario ad acta nei confronti del fallimento delle istituzioni della Repubblica, del Parlamento e dei parlamentari in primis, soggetti, questi ultimi, considerati dei delinquenti potenziali, da trattare nei dovuti modi.

Non sono i giudici a poter rendere l’Italia un Paese migliore. Assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra Costituzione, scrive Giovanni Belardelli il 27 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Le notizie degli ultimi giorni e settimane (le indagini sul ministro Lotti, quelle milanesi sul sindaco Sala, quelle romane su Marra e Muraro e presto — potrebbe essere — sulla stessa Virginia Raggi) confermano che ci troviamo di fronte a un’alterazione stabile, per certi aspetti definitiva, nei rapporti tra politica e giustizia. Dunque questa alterazione non era collegata se non in piccola parte alla discesa in campo di Berlusconi — come invece molti avevano a lungo ritenuto — visto che, anche adesso che il leader di Forza Italia ha un ruolo certamente secondario, continua a segnare la nostra vita collettiva. Caratterizza con ogni evidenza la vita politica, dove assistiamo a un rapporto tra i poteri ormai molto diverso da quello stabilito dalla nostra carta fondamentale. Nella costituzione materiale del Paese — cioè nell’assetto effettivo dei rapporti tra istituzioni e poteri dello Stato — è da tempo evidente infatti che il potere legislativo e quello esecutivo sono condizionati in modo consistente dalla magistratura nelle sue varie giurisdizioni. Questioni che ritenevamo di stretta competenza del governo e del Parlamento — dalla legge elettorale al sistema pensionistico, dalla chiusura di una fabbrica alle norme della «buona scuola» — sono spesso decise da una sentenza della Corte costituzionale o di un tribunale civile, penale, amministrativo. Non è solo la politica ma tutta la vita sociale a risentire di questa accresciuta presenza dell’ordine giudiziario. Negli ultimi anni gran parte del nostro diritto di famiglia — dalle norme sulla fecondazione assistita all’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali — è stata modificata attraverso decisioni dei tribunali. La liceità di una cura medica, la possibilità di iscriversi all’università, i risultati di un concorso o l’effettività di una promozione: questo e molto altro dipende ormai, come è esperienza comune di tanti italiani, dalla sentenza di un tribunale. Non a caso qualche tempo fa Romano Prodi ha provocatoriamente proposto l’abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato per favorire lo sviluppo economico, visto quanto il continuo ricorso alla giustizia amministrativa influisce negativamente sugli investimenti. Naturalmente occorre non dimenticare che un fenomeno del genere caratterizza gran parte delle democrazie contemporanee. Ma forse nel nostro Paese si presenta in modo accentuato. Anzitutto, è lo stesso apparente permanere di una diffusa corruzione politica a sollecitare il continuo intervento delle procure. Abbiamo poi troppe leggi, e troppo mal scritte, così da richiedere spesso l’intervento di un magistrato per chiarire come vadano interpretate e applicate. Ancora, abbiamo una classe politica poco capace o poco incline ad assumersi le proprie responsabilità e ad esercitare i propri poteri: sintomatica la vicenda delle leggi elettorali, in cui la politica chiede alla Corte costituzionale cosa deve e può fare. Ma il progressivo assorbimento della politica nel diritto, il condizionamento che le decisioni della magistratura esercitano sulla vita sociale, dipendono anche da altro, in particolare da una nuova concezione dei compiti della magistratura, soprattutto della magistratura penale, affermatasi nel corso degli ultimi decenni. Tale concezione le assegna come compito fondamentale non solo l’accertamento di, e la pronuncia su, singole ipotesi di reato, bensì un generale controllo di legalità. Il magistrato, dunque, non è tenuto a intervenire soltanto dopo aver ricevuto una notizia di reato, ma — ha scritto Luciano Violante riassumendo (e criticando) questa concezione — ha il compito di verificare «che la legalità non sia stata per caso violata». In questo modo l’ordine giudiziario viene potenzialmente investito — anche grazie al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che nei fatti estende la discrezionalità della magistratura inquirente — di una funzione di supervisione sul complesso della vita politica e amministrativa. Bisogna dire che in questo la magistratura è stata fortemente sollecitata da una domanda proveniente dall’opinione pubblica, sempre più disgustata dalle cattive prove offerte dalla classe politica. È nata così, da questo doppio movimento, l’idea secondo cui la magistratura stessa sarebbe la grande tutrice della vita collettiva del Paese, il soggetto che dovrebbe renderlo migliore sotto il profilo dell’onestà e della moralità. Ma, a un quarto di secolo da Mani Pulite, i continui casi di corruzione politica, le continue testimonianze di scarso rispetto delle leggi in una parte significativa della società italiana, ci dicono che non possono essere i giudici a rendere un Paese migliore.

De Giovanni: «La politica distrutta dall’invadenza delle magistrature», scrive Errico Novi il 22 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’analisi del filosofo sul vuoto della democrazia e il predominio del potere giudiziario. Si può comprendere il mondo e ammettere di non riuscirci. Può farlo solo un grande filosofo. Biagio De Giovanni ha dalla sua non solo il pregio di entrare nella definizione, ma anche la luce di ottantacinque anni, compiuti ieri e segnati in gran parte dalla riflessione rigorosa e appassionata nello stesso tempo. Ne regala una sulla giustizia, e più precisamente sulla perdita di ogni equilibrio tra i poteri, la politica da una parte, «le Corti, le Alte Corti innanzitutto» dall’altra. Un intervento sul Mattino di sabato scorso mette in fila in un sol colpo l’urgenza di superare l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ineludibilità della separazione delle carriere, l’impossibilità di contrastare il «populismo giustizialista». Il caso vuole che siano anche le battaglie in cui s’impegna con tutte le forze da anni l’avvocatura. Il professore di Dottrine politiche, ex europarlamentare del Pci e oggi appunto editorialista di Mattino e Corriere della Sera, individua nella «invadenza della giurisdizione» un fenomeno caratteristico della crisi e una concausa della perdita di autorevolezza delle élites. Nel giorno in cui compie ottantacinque anni, è facile chiedere a un filosofo come De Giovanni di fingere la resa di fronte al caos, per trovare molte risposte.

Anche la magistratura può temere una perdita di consenso? E dietro il ritorno a una invadenza della giurisdizione nei confronti della politica si nasconde anche un timore, tra i magistrati, di perdere popolarità?

«In prima battuta mi sentirei di respingere l’ipotesi. C’è sfiducia, scetticismo, disincanto e rifiuto in una forma così violenta nei confronti delle élites politiche che non si riesce a scorgere qualcosa di analogo che riguardi la magistratura. E anzi l’impressione è che mai come adesso l’azione dei magistrati si dispieghi a tutto campo, dalla frittura di pesce a fatti più consistenti. È un’invadenza che non ha precedenti, e che certo si inserisce in un processo iniziato con Mani pulite, passaggio che ha alterato la fisionomia stessa del rapporto tra poteri».

Capita però che alcune sentenze non soddisfino appieno l’attesa alimentata dal “populismo giustizialista”: a Roma una condanna a 20 anni anziché all’ergastolo, per un omicidio, ha scatenato un putiferio in aula, solo qualche giorno fa.

«I casi estremi si verificano. Resta fermo un punto: sono le cosiddette élites politiche dominanti ad essere travolte da quella tendenza del senso comune che faticosamente continuiamo a individuare come populismo giustizialista. Renzi era leader da appena 3 anni eppure, come ho detto dopo l’esito del referendum, è stato interpretato come nuova casta. La vecchia, per converso, è diventata vergine, da De Mita a D’Alema. Ma c’è qualcosa di vero anche nel dissolversi della fiducia nei magistrati: oggi persino il giudizio penale si muove nell’incertezza della decisione. Prima si condanna, poi si assolve, sembra divenuta impalpabile persino la certezza del diritto. Anche questo canone delle vecchie società è crollato».

Non esiste insomma un potere che regga, in questa destrutturazione.

«È possibile che la sfiducia nella magistratura ci sia in una forma più indiretta. Il dispregio verso l’élite politica resta però l’aspetto decisivo del nuovo ordine mondiale, chiamiamolo così, che si va delineando. Una tenuta si registra forse in Germania dove il sistema ha una forza formidabile, ma persino negli Stati Uniti capita che Hillary, ritenuta espressione dell’establishment, ceda a Trump, che non è nessuno, un uomo d’affari, eppure 60 milioni di persone nel Paese più potente al mondo l’hanno votato».

Si delegittima la politica: ma così il potere scivola nelle mani di altri soggetti, le élites finanziarie per esempio.

«Non c’è dubbio. Nel 2008 abbiamo assistito a una prima grande crisi della globalizzazione, di natura finanziaria, ora siamo nel pieno di nuova crisi, politica. E una fenomenologia di questa fase è l’invadenza delle giurisdizioni».

Qual è il meccanismo preciso che spalanca le porte a questa invadenza?

«Nessuno è in grado di governare la complessità del mondo ed emergono poteri indiretti, non legittimati. Nell’intervento apparso la settimana scorsa sul Mattino segnalo anche il predominio delle Alte Corti sui Parlamenti. Che può sembrare un grande fatto di civiltà, e in parte lo è: ma se una Corte costituzionale prevarica il potere legislativo, si arriva alla distruzione dell’autonomia della politica».

Lei sostiene che si tratta di un pericolo sottovalutato.

«Siamo su un crinale che visto nel suo insieme deve necessariamente preoccupare, e molto. Nello specifico si tratta di un tema delicatissimo, di cui si parla con frequenza nel resto d’Europa ma non in Italia, per timore che il solo accenno possa fraintendersi come volontà di intaccare le prerogative della Corte costituzionale».

La causa decisiva di questo squilibrio è nella perdita di autorevolezza della politica?

«Sicuramente, e temo si tratti di uno squilibrio non rimediabile a breve».

Perché?

«La delegittimazione della politica innesca un circolo vizioso che peggiora la qualità della classe dirigente e induce ulteriore delegittimazione. È veramente difficile che ora come ora una persona di spessore si impegni in un ruolo politico o amministrativo, sapendo che al primo stormir di foglie l’obbligatorietà dell’azione penale entra in campo, e arrivano i pm, e arriva la Guardia di finanza… Non è che voglio sottovalutare il grado di degenerazione corruttiva che c’è in Italia, non è questo il punto, ma se i pm oltrepassano ogni confine, mi domando chi ancora possa decidere di mettersi in politica, se non un disperato in cerca di lavoro, per non dire di peggio. Chi è che si va a impegnare in un’attività amministrativa, in condizioni simili? È un pasticcio gigantesco, siamo di fronte a un caos difficile da descrivere, figurarsi a volerlo dominare».

Non è che i cosiddetti privilegi della casta, dai vitalizi alle immunità, sono in fondo garanzie a tutela di chi nel dedicarsi alla politica mette a rischio il proprio ruolo sociale?

«Non c’è dubbio che sia così. E aggiungo: nel Parlamento di oggi c’è ben poco che corrisponda alla condizione di un’assemblea elettiva nazionale, i deputati sono cani sciolti, non sopravvive più alcuna struttura mediana che garantisca l’effettiva espressione della sovranità popolare. E a proposito di garanzie, fino ai primi anni Novanta era necessario ricorressero condizioni davvero molto particolari perché un’assemblea parlamentare potesse perdere un proprio componente. Il che non aveva a che vedere con un privilegio abusivamente autoassegnato da una casta di impostori, ma con il fatto appunto che il Parlamento è espressione del popolo sovrano, e in quanto tale la sua collocazione è sacra, va tutelata, fino a un certo limite che sia in armonia con lo Stato di diritto. Ma sfido a dire che le norme sull’immunità non lo fossero».

Lei ha scritto: “La politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori”. Oltre all’invadenza della giurisdizione, c’entra anche la retorica anti- casta?

«È un’ulteriore elemento che mette in discussione la qualità della classe dirigente. Intendiamoci: il fenomeno di cui parliamo non esiste solo in Italia, segna l’intero Occidente, come ricordato a proposito di Trump, anche se da noi assume un carattere di gravità eccezionale. Il tratto generale della crisi delle élites politiche, che si vede non solo in Italia, è nell’impossibilità di cogliere un punto di mediazione tra globalismo sovranazionale, cosmopolita, da una parte, e le appartenenze, le identità, dall’altra».

In che modo questo spaesamento ci porta alla crisi della rappresentanza?

«Innanzitutto è in questo vuoto che si accresce il peso di poteri diversi, da quello finanziario al potere giudiziario. Ma la risposta in sintesi è nel caso a noi più vicino: l’Europa si è dimostrata incapace di governare la complessità della crisi finanziaria e politica che si è affacciata nel 2008. Noi non possiamo limitarci a descrivere con tono disgustato i critici delle élites, dobbiamo anche criticare le élites stesse. Non possiamo ignorare cioè le ragioni del cosiddetto populismo, lo scollamento complessivo tra governanti e governati. Non è che tutto sia riducibile alla cattiveria o alla superficialità di chi alimenta la propaganda antisistema: è impossibile negare il fatto che non ci sia una cultura politica in grado di governare la complessità di questa crisi».

Il che non è un giudizio opinabile: è un fatto.

«Be’, abbiamo davanti un’intera generazione distrutta. E appunto non è che si può risolvere tutto con il dito puntato contro i populisti brutti, sporchi, cattivi e urlanti. Dentro quel buio ci sono delle ragioni, non è che nasce dal nulla. Nasce dal fatto che nessuno, tantomeno le élites, riesce a trovare le passerelle di passaggio dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale».

Lei sul Mattino individua l’urgenza di una riforma della giustizia, e precisamente due passaggi: superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. La prima delle due questioni non sarebbe perfetta, come terreno di incontro tra politica e magistratura per una riforma, diciamo, concordata dell’ordinamento giudiziario?

«E sì che lo sarebbe, naturalmente, ma abbia pazienza: davvero possiamo pensare che ci sia una politica così autorevole da poter sollevare il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prendiamo ad esempio il governo appena sconfitto dal referendum, che pure qualcosa provava a farlo, ma che proprio sulla giustizia non è riuscito a muovere alcuna delle questioni decisive di cui parliamo. Penso al ministro, Andrea Orlando, a questo giovane pure così dinamico, che è riuscito a fare dei passi significativi su un tema difficile come il carcere: ecco, come mai anche lui su punti come obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere non ha detto niente per tre anni?»

Ha detto, per essere precisi, che non c’erano assolutamente le condizioni minime perché si potesse anche solo discutere di temi del genere.

«Appunto: alludeva evidentemente al fatto che se ci avesse provato avrebbero subito detto ‘ecco gli amici dei corrotti stanno provando a derubricare l’obbligatorietà dell’azione penale’. Non è che si sarebbe riconosciuta la necessità di razionalizzare l’arbitrio».

Non c’è margine di discussione, nel senso comune si è diffuso un riflesso condizionato che stronca in radice ogni tentativo su questo fronte.

«Nessuno vuol negare il rischio che superare l’obbligatorietà schiuda il rischio di un controllo della giurisdizione da parte dell’esecutivo, come avviene in Francia: eppure deve esserci una diga al potere assoluto dei pubblici ministeri. Qui a Napoli è girata la notizia di una misura chiesta dalla Procura, e negata dal gip, in cui l’accusa di corruzione si basava sul fatto che l’indagato offrisse spesso alla controparte caffè e cappuccini».

Considerare corruttivo il pagamento di un caffè a Napoli è oggettivamente una bestemmia, senza dover scomodare Luciano De Crescenzo.

«Nel ridicolo farsa e tragedia si mescolano sempre».

Figurarsi se esiste un margine per discutere di separazione delle carriere.

«Non c’è possibilità. Dovremmo trovarci con una classe dirigente politica talmente autorevole, dotata di una tale legittimazione da essere in grado di sfidare anche l’ordalia che verrebbe inevitabilmente scatenata dall’Associazione nazionale magistrati. La quale arriverebbe a forme di contestazione estrema, allo sciopero, iniziative gravi che un ordine giudiziario non si dovrebbe consentire. Ecco, possiamo dire che quando ci troveremo con una classe politica in grado di inoltrarsi su un terreno così accidentato allora potremo dire di essere usciti dalla crisi».

Sangermano: «Noi giudici non siamo maestri di morale», scrive Errico Novi il 24 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «No alla supplenza della magistratura: comprometterebbe la legittimazione del sistema”. Un magistrato sa di non avere strumenti per rimediare alla «debolezza della politica», come la definisce il dottor Antonio Sangermano. Sa di non potersi neppure sostituire al legislatore. Eppure il componente del direttivo Anm e sostituto procuratore a Prato – casa sua e destinazione gradita dopo gli anni a Milano in cui tra l’altro è stato pm al processo Ruby – prova a «proporre una riflessione anche su quello che è inevitabilmente il tema del giorno, l’immigrazione, e su una misura dolorosa, innanzitutto da punto di vista morale e religioso: arrivare a espulsioni immediatamente efficaci per gli immigrati che hanno commesso reati sul territorio nazionale. Lungi dal pretendere di indicare un dispositivo di legge: è una riflessione, punto». Certo un’analisi, per Sangermano, è doverosa anche a proposito della perdita di consenso sofferta dalla politica, che non si risolve con una supplenza da parte dell’ordine giudiziario. E anzi, «se la magistratura si sostituisse alla politica farebbe un danno innanzitutto a se stessa».

Partiamo da qui allora: mai come adesso la politica è al fondo dell’indice di gradimento, e voi magistrati vi rendete conto ancora meglio, forse, che non potete sostituirla: è così?

«Credo che la magistratura non debba fare da supplente, vorrei chiarirlo subito. Il magistrato ha interesse a che la politica sia forte e autorevole e nello stesso tempo rispetti l’autonomia e indipendenza dei giudici. Se assumiamo un ruolo di supplenti, indeboliamo lo stesso ordine giudiziario».

Perché, esattamente?

«Una supplenza dei magistrati certifica il fallimento dello Stato, attribuisce loro un funzione in assenza di legittimazione democratica. Anche se processi del genere non si attivano per volontà espansiva, rappresentano comunque una delegittimazione del sistema: la magistratura è un potere dello Stato, si fortifica quanto più solida è la legittimazione del sistema nel suo complesso».

D’accordo, ma allora Mani pulite come si colloca in questa sua condivisibilissima analisi? 

«Premessa: considero Mani pulite un momento di riscatto nazionale al pari del Risorgimento e della Resistenza, in ufficio ho la foto del Pool. Il punto è che se un potere viene meno ai suoi compiti, se nello specifico è un’intera classe politica a venir meno, la magistratura deve fare il proprio dovere. In un caso come quello di Mani pulite può verificarsi che la notevole quantità degli illeciti faccia apparire l’azione giudiziaria come il processo a un fenomeno. Ma è solo la diffusività del fenomeno a creare la percezione. D’altronde gli effetti che ne derivano tornano a un certo punto nel do- minio della politica, come avvenne dopo il ’ 92-’ 93, quando il vuoto creatosi favorì l’affermarsi di nuovi soggetti come il partito di Berlusconi».

Senza volerla indurre a sostituirsi al legislatore, il tema dell’immigrazione va affrontato semplicemente con una rigorosa distinzione tra chi ha diritto all’asilo e i migranti economici?

«No, temo di no. Che l’accoglienza sia la soluzione più consentanea ai principi di moralità ed etica non c’è dubbio. Sono contrario ai respingimenti in mare: ma l’aspirazione etica va coniugata con i dati di realtà, il che vuol dire riconoscere che un’accoglienza indiscriminata crea un’effettiva insicurezza sociale».

E qual è il punto di equilibrio?

«L’integrazione deve coniugarsi a dei doveri, il primo dei quali è il rispetto della legalità. Ora, se prendiamo i curricula di chi in questi mesi si è reso responsabile di stragi in Paesi europei, sarà difficile trovarne uno che non abbia precedenti per reati commessi in quegli stessi Paesi o in altri del Vecchio Continente. Ecco perché dovremmo riflettere sull’opportunità di rendere obbligatoria e non più facoltativa l’espulsione di chi commette reati sul territorio nazionale».

Si dovrebbe attendere la condanna definitiva?

«No, d’altronde la norma vigente già prevede la possibilità di espellere all’esito di un primo accertamento del reato. Va fatta attenzione a possibili profili di incostituzionalità o di incompatibilità con il diritto europeo. E so che l’obbligatorietà e l’effettività manu militari delle espulsioni va ad impattare con aspetti delicatissimi come i ricongiungimenti familiari. Ma credo si debba riservare una particolare attenzione al profilo della sicurezza. Non v’è dubbio che il legislatore dovrebbe trovare una forma normativa il più possibile umanizzata. Così come si dovrebbe tener conto del fatto che non c’è solo il terrorismo, ma anche il caso di chi reitera sul territorio nazionale reati di altra natura».

Le espulsioni pongono il problema dei Paesi d’origine, spesso poco collaborativi, in materia.

«Però ad esempio il Paese d’origine di Anis Amri, la Tunisia, se li riprende».

Da componente del direttivo Anm, condivide le critiche aspre rivolte dal vostro presidente Davigo ai partiti, responsabili a suo giudizio di non allontanare subito chi è accusato di corruzione?

«Ho un grande rispetto per il presidente Davigo. È una persona di rara cultura e di garbo esemplare, ma non concordo con lui su tutto. La politica ha il dovere di vigilare al proprio interno e ha senso ricordarlo, ma senza che questo appaia come una sorta di monito morale. A noi spetta accertare i reati. Possiamo suggerire soluzioni ma senza che sembrino la scure di Danton».

Certo Davigo ha grande visibilità: potrebbe convenire all’Anm prorogare la sua presidenza?

«Credo che Davigo sia un ottimo presidente. E che la sua visibilità mediatica giovi all’intera magistratura, perché consente di far affiorare giuste rivendicazioni. Nel corso di quest’anno abbiamo ottenuto risultati, e mi lasci dire che questo credo dipenda anche dall’impegno della mia componente, Unicost, servito a smussare posizioni talvolta non condivisibili. Davigo ha avuto grande intelligenza politica nell’incontro con Renzi di fine ottobre: credo che nella misura in cui saprà portare a sintesi le diverse anime dell’Anm sarà un ottimo presidente, non lo sarà se prevalesse un’inclinazione al protagonismo».

Ma potrà restare presidente anche oltre aprile?

«L’accordo fissa quella scadenza e non penso che lui abbia intenzione di andare oltre, ha già pubblicamente dichiarato di non vedere l’ora di concludere il mandato».

È vero che molti giudici si lamentano dei criteri seguiti dal Csm nell’assegnare gli incarichi, e che sarebbe necessario chiarirli?

«Guardi, in questa consiliatura l’organo di autogoverno ha predisposto un testo unico che definisce le regole per l’attribuzione di direttivi e semidirettivi: la trovo una conquista storica. In precedenza la progressione di carriera avveniva per mera assenza di demerito, si è stabilito che invece deve basarsi sul merito. È il Csm che ha titolo a fare le valutazioni: poi certo, il testo unico deve completare una fase di rodaggio, ma al Consiglio superiore si deve dare atto della scelta innovativa. E personalmente credo che non si dovrebbe mai delegittimare il Csm: in questi anni ha assicurato davvero l’autonomia e l’indipendenza di noi magistrati».

Piercamillo Davigo: «A 25 anni da Mani Pulite, l’Italia è ancora più corrotta». Il leader dell’Anm: il codice penale è uno spaventapasseri, in cella vanno solo gli sciocchi. «Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge», scrive Giuseppe Guastella il 12 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo (foto sopra), ha partecipato ad un forum al Corriere della Sera con il vice direttore Giampaolo Tucci e con i giornalisti Marco Ascione, Giovanni Bianconi, Luigi Ferrarella, Mario Gerevini, Giuseppe Guastella e Fiorenza Sarzanini. Argomento del dibattito, che si è svolto nella redazione di via Solferino a Milano, il pianeta giustizia a 25 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani pulite e in occasione dell’uscita del libro «Il sistema della corruzione» (Editori Laterza) scritto dall’ex pm del pool Mani pulite, ora presidente di sezione in Cassazione. 

A 25 anni da Mani pulite, in Italia è cambiato poco o nulla?

«È drammatico quanto poco sia cambiata la situazione e quanto sulla corruzione peggiori la deriva dell’Italia nel panorama internazionale».

Un Paese corrotto?

«A livelli diversi, finalità e modalità diverse. È un Paese che sta morendo. C’è sfiducia, la gente non va più a votare, espatria».

Ci vuole una rivoluzione culturale?

«Bisogna cominciare dalla scuola».

Migliore l’Italia degli anni di Mani pulite?

«L’effetto domino non fu innescato da un sussulto di coscienza civile, ma dal fatto che erano finiti i soldi».

Lei sostiene che per la corruzione ci vorrebbe un doppio binario, come per la mafia.

«Bisognerebbe introdurre alcune delle norme che valgono per i mafiosi».

Ad esempio?

«Un sistema premiale forte e serio e le operazioni sotto copertura».

La corruzione spesso è alimentata da fondi neri esteri, sempre più difficili da aggredire. 

«È un problema internazionale. L’assistenza giudiziaria internazionale è un relitto ottocentesco che richiede tempi talmente lunghi, incompatibili con la durata di un processo».

Corruzione «Simonia secolarizzata». Cioè?

«Nella Chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica».

Il pool Mani pulite ha fatto errori? 

«Secondo me, no. Ha fatto quello che poteva. Se non ci avessero cambiato le leggi a partita in corso, saremmo andati avanti. Molte leggi possono avere su il nome dell’imputato».

Forse fino a un’epoca determinata. 

«Sì, poi è cambiata la maggioranza e da allora le fanno più sofisticate. Ad esempio, la legge Severino non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta».

Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti.

«Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

I vostri rappresentanti dissero che era una buona legge, come nel caso di quella sull’autoriciclaggio. C’è anche un problema vostro? 

«Certo che c’è anche un problema della magistratura, ma cerchiamo di capirci, gioca anche molto il modo di fare leggi dovuto all’incompetenza della pubblica amministrazione che, purtroppo, non è più quella di cento fa, fatta di funzionari competenti e con il senso dello Stato. Quando ho incontrato la prima volta il ministro Orlando, gli ho fatto presente che la depenalizzazione che avevano fatto non serviva a niente perché toglieva solo le briciole ma alcuni reati depenalizzati avevano l’effetto non di ridurre il carico di lavoro, ma di aumentarlo. Mi rispose che l’Anm aveva dato parere favorevole, io gli dissi che non sarebbe accaduto più perché avevamo costituito delle commissioni interne».

Ha un giudizio molto negativo sui politici.

«Ce ne sono anche perbene, ma i meccanismi talvolta favoriscono il malaffare».

Cosa ne pensa di chi, come i 5 Stelle, ha introdotto codici interni legati alle inchieste? 

«La politica non deve agganciarsi ad atti formali nel giudizio, ma a una valutazione autonoma dei fatti. Si può cacciare uno che è innocente o tenerlo se è colpevole. Sono due valutazione diverse, una è politica, l’altra di giustizia».

Non si introduce così un’inversione del principio di non colpevolezza?

«Non è così. Molte volte non c’è bisogno di aspettare la sentenza per far scattare la responsabilità politica, ma in questo Paese non avviene mai, neanche di fronte ai casi evidenti».

Prendiamo il caso di Roma e della sindaca Raggi, è un caso controverso.

«Premesso che non parlo dei procedimenti in corso, in qualche caso la politica può dire “aspetto di vedere come va finire” o “mi sono fatto un’idea”, ma non può dire sempre “aspettiamo le sentenze”. Significa caricare sulla decisione del giudice la selezione della classe politica».

I politici dovrebbero darsi codici di comportamento?

«Secondo me sì. Basta anche il buonsenso».

Non c’è il rischio di finire nel moralismo? 

«Se mi mandano in udienza con un collega che si è saputo che ruba, io non vado perché chi ci vede pensa che siamo uguali. Io non rubo».

L’Anm accoglie pm e giudici. Non le sembra forte dire che il codice di procedura penale è fatto per farla fare franca ai farabutti?

«Il nostro giudice è vincolato da un sistema di inutilizzabilità sconfortante perché una prova acquisita, valida nei confronti di un imputato, diventa inutilizzabile per un altro se è stata acquisita a termini delle indagini preliminari scaduti. Il giudice è messo nella condizione di dover scegliere tra rispettare la legge rinunciando a fare giustizia o tentare di fare giustizia forzando la legge. È inaccettabile. E allora è normale che uno venga arrestato e poi assolto. Se non volevano questo non dovevano scrive il codice così, oppure dovevano dirci di non arrestare più».

Riporta una frase del generale Dalla Chiesa che diceva: che c’è chi parla di manette facili e chi di ingiustizia che assolve. Ingiustizia?

«L’ingiustizia può essere nella legge oltre che negli uomini, se la legge è contraria al senso comune di giustizia, e molte delle norme che applichiamo lo sono. Ora la minaccia del carcere non è credibile perché il codice penale è uno spaventapasseri, da lontano fa paura, quando ci si avvicina appare innocuo. In galera ci va chi è così sciocco da farsi arrestare in flagranza e gli appartenenti alla criminalità organizzata. Gli altri in media ci vanno di meno».

Lei è un giudice, un suo imputato potrebbe avere difficoltà leggendo: «Ne prendiamo pochi e quando li prendiamo vengono condannati a pene esigue che non vengono fatte scontare».

«Nel nostro sistema il rispetto delle regole formali, che il più delle volte non hanno nessuna utilità, vanifica la ricostruzione storica dei fatti. A un certo punto ho lasciato la Procura per fare il giudice in appello, volevo capire come mai le sentenze venissero quasi sempre riformate. Ho visto che era vero quello che mi aveva insegnato un anziano magistrato che diceva che i giudici del tribunale sono come i padri, severi quando è necessario, quelli della Corte d’appello come i nonni, di regola rovinano i nipoti. Dato che su cento ricorsi in appello, 98 sono degli imputati condannati, si cominciano a vedere i problemi solo con una certa ottica e spesso è impossibile resistere alla tentazione di ridurre le pene. Bisognerebbe cambiare anche l’appello».

Solo carcere? E l’esecuzione esterna? 

«Dipende dai reati e dal tipo degli imputati».

E stato mai tentato di forzare le regole?

«No. Le ho sempre rispettate, e anche quando ero convinto che l’imputato fosse colpevole l’ho assolto se la prova era inutilizzabile, pensando che era un mascalzone che l’aveva fatta franca».

Un sistema che protegge l’impunità? 

«In un sistema ben ordinato, un innocente non deve essere assolto, non deve neppure andare a giudizio perché per lui il processo è una tragedia. I filtri dovrebbero essere all’inizio».

Qual è la priorità? 

«La depenalizzazione. Il problema della giustizia è il numero dei processi. O abbiamo il coraggio di dire che va drasticamente ridotto o non se ne uscirà mai. Nel penale basta intervenire con una massiccia depenalizzazione e introdurre meccanismi di deterrenza delle impugnazioni, quelli che ci sono, sono risibili».

La politica invece va su una strada diversa e introduce nuovi reati come l’omicidio stradale. 

«Cose prive di senso. Per l’omicidio stradale la pena è talmente alta che tra un po’ a qualcuno converrà dire che voleva ammazzare per rispondere di omicidio volontario».

Che ne dice dei suoi colleghi dell’Anm dell’Emilia Romagna dopo il comunicato sulla decisione del Tribunale del riesame?

«Non lo conosco, non posso sapere tutto».

È stata trovata la decisione di un collegio prima dell’udienza. L’Anm locale ha detto che poi altri giudici hanno confermato la decisione dei primi che si erano astenuti...

«Bisogna distinguere l’ipocrisia dal malcostume. Un giudice diligente non potendo ricordare a memoria decine di processi al giorno, si appunta lo studio che fa. L’ho sempre fatto, ma non firmo gli appunti e non li metto nel fascicolo».

E allora, a cosa serve la discussione?

«Si può cambiare la decisione».

Lei lo fa?

«Quando un avvocato dice cose che non avevo notato, raro, o che mi convincono, cambio opinione perché solo gli imbecilli non lo fanno».

Trump, il giudice e Davigo a piede libero, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 05/02/2017, su "Il Giornale". Un giudice americano, James Robart, ha annullato il decreto di Donald Trump che blocca l'ingresso negli Stati Uniti di cittadini provenienti da sette Paesi sospettati di complicità con il terrorismo islamico. È il primo braccio di ferro tra il potere giudiziario e il neopresidente che non demorde e parla di «decisione ridicola di un cosiddetto giudice che sarà presto ribaltata». Come andrà a finire lo vedremo, ma è comunque bello vedere che il detentore del potere esecutivo non si faccia intimorire e alzi la voce di fronte allo sconfinamento del potere giudiziario, che le leggi le deve applicare e non contestare, quest'ultimo compito - nei sistemi democratici - spetta al Parlamento e alla Corte costituzionale. La sindrome di onnipotenza dei magistrati è purtroppo cosa a noi nota. La differenza con quello che sta succedendo in America è che dalle nostre parti nessuno osa contrastarla a dovere. La politica si è arresa ed è di fatto commissariata dalle toghe. Non dico un Trump, ma mi sarei aspettato, per esempio, un sussulto di fronte alle parole pronunciate l'altra sera a Porta a Porta da Piercamillo Davigo, noto manettaro di Mani pulite e oggi presidente dell'Associazione nazionale magistrati. Di fronte a un allibito Bruno Vespa, ha sostenuto che un imputato assolto non è un innocente ma solo un colpevole che l'ha fatta franca e che gli errori giudiziari non sono colpa dei giudici ma degli inquirenti, cioè polizia e carabinieri, che non sanno fare il loro lavoro e che «estorcono false confessioni con la forza e a volte la tortura». Detto alla Marchese del Grillo: «Noi siamo noi e tutti voi non siete un cazzo». C'è chi si chiede: chi ci difenderà da Trump? Io sono molto più preoccupato perché non vedo nessuno che difenda noi e la democrazia da Piercamillo Davigo. Pensavo che finita la trasmissione fosse caricato su una ambulanza e sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio. Mi dicono invece che l'uomo è a piede libero e che continua a fare il capo dei magistrati, senza che nessuno abbia da eccepire. Forse è proprio vero che i colpevoli a volte la fanno franca, Davigo ne è la prova. E siccome nessuno ha il coraggio di dirglielo, ci provo io: si vergogni, signor presidente, e comunque si ricordi che «noi siamo noi» e il «nessuno» è lei.

Gli avvocati in rivolta contro Davigo (Anm): "Democrazia in pericolo". Appello dell'Associazione Italiana Giovani Avvocati alle istituzioni: stop alla deriva giustizialista, scrive Orlando Sacchelli, Giovedì 09/02/2017, su "Il Giornale". Nel corso degli anni Piercamillo Davigo ha rilasciato alcune dichiarazioni che denotano il suo modo di concepire la giustizia. Vediamone alcune: «Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti»; «Se la giustizia perde di severità ed efficienza è a causa dell'elevato numero di avvocati»; «L'errore giudiziario non esiste: sono i testimoni che, mentendo, traggono in inganno il giudice. Il giudice non sbaglia»; «Non esistono nemmeno le ingiuste detenzioni: la colpa è del nostro ordinamento che non consente l'utilizzabilità nel dibattimento delle dichiarazioni assunte nella fase delle indagini preliminari». Ovviamente ciascuna frase va contestualizzata, perché estrapolata dal discorso in cui è stata pronunciata può avere un significato diverso da quello voluto. Però, si sa, le parole pesano. Specie se a pronunciarle è un magistrato. E il crescente attivismo mediatico di Davigo, in qualità di presidente dell'Associazione nazionale magistrati, non poteva di certo passare inosservato. E infatti provoca le proteste dei legali, controparti naturali dei pubblici ministeri. «Il crescendo delle esternazioni del dottor Davigo - dichiara l'avvocato Michele Vaira, presidente dell'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) - inizialmente derubricate dalla maggior parte degli osservatori a mere provocazioni retoriche di un singolo, sebbene autorevole, esponente della magistratura, comincia a preoccupare». Cerchiamo di capirne di più. «Rese in rappresentanza del 90% dei magistrati italiani osserva Vaira - mettono in discussione non solo i principali punti fermi segnati in secoli di progresso giuridico, ma le stesse fondamenta della nostra architettura costituzionale e delle più importanti convenzioni internazionali». In altre parole sono a rischio «la presunzione di innocenza, il diritto di (e alla) difesa e il contraddittorio nella formazione della prova». Preoccupa inoltre un altro aspetto. «Da quando Davigo ha assunto la presidenza dell'Anm denuncia Vaira - non una voce di dissenso si è levata da parte di alcuna componente dell'ordinamento giudiziario». Vuol dire che le tesi di Davigo coincidono con la visione che la magistratura italiana ha del processo e dei diritti fondamentali della persona? «Se così fosse - puntualizza il presidente dell'Aiga - saremmo in presenza di una vera e propria emergenza democratica». Una cosa è certa: le affermazioni di Davigo suscitano quasi sempre un notevole clamore mediatico, alimentato dalla forte esposizione del presidente di Anm sugli organi di stampa. Ciò per Vaira comporta un rischio enorme: «Che le stesse contribuiscano a formare un'opinione pubblica insensibile al rispetto dei fondamentali diritti della persona umana». E visto che Davigo ricopre anche la carica di presidente di sezione della Corte di cassazione, osserva Vaira, ciò «contribuisce ad aumentare lo sconcerto e la preoccupazione per le sue argomentazioni». Il quadro è indubbiamente allarmante. I giovani avvocati sollecitano le massime istituzioni politiche (nella persona del ministro della Giustizia), giudiziarie (il vice presidente del Csm) e forensi (presidente del Consiglio nazionale forense) ad una «immediata ed inequivoca presa di posizione, con l'obiettivo di porre un argine (prima di tutto culturale) alla deriva giustizialista insita nella teorizzazione da parte del presidente dell'Anm di principi in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e con la Costituzione della Repubblica italiana». Le istituzioni chiamate in causa dai giovani avvocati interverranno, in qualche modo, per rispondere a questa grave denuncia?

Quando Beppe Grillo creò la politica del vaffa: l'intervista del 1992 è il suo vero manifesto. I partiti? Nuovi o vecchi, fanno schifo. La gente? Stordita dalla tv. La satira? Non serve a nulla. In questo colloquio con l'Espresso allo scoppio di Tangentopoli, il comico enunciava la sua teoria sull'efficacia del fanculare politici e gente comune. Una testimonianza che letta oggi assume un sapore tutto diverso, scrive Roberto Gatti il 16 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Lo spettacolo è appena terminato, e Beppe Grillo, madido di sudore, elegantissimo nel suo doppiopetto Armani «identico a quello di Michele Santoro, ma io sono di famiglia ricca» - se ne sta in piedi nel suo camerino piccolissimo e affollatissimo, a bere acqua minerale e a esternare in totale libertà. È un Grillo furioso, quello che ci si para davanti. Ha appena finito di "fanculare" mezzo mondo, da Vittorio Sgarbi al ministro Francesco De Lorenzo, da Licio GeIIi a Maurizio Costanzo: e ora, non contento, se la prende con un paio di malcapitati ambientalisti, che non gli hanno perdonato le battutine ironiche lanciate all'indirizzo di Fulco Pratesi, l'ex presidente del Wwf Italia. Reo di aver fatto da testimoniai all'American Express, e di aver quindi contribuito a incrementare il tasso di inquinamento atmosferico: «Perché per ogni spesa fatta con la carta di credito ti danno in dotazione tre foglietti di carta, che poi vengono bruciati e creano pulviscolo atmosferico, che poi ricade in mare e viene mangiato dai pesci, che vengono poi mangiati da noi, nei ristoranti alla moda. Come siamo intelligenti: ci mangiamo le nostre carte di credito a 50 mila lire il chilo...». Questo Grillo furioso, lontano le mille miglia dal comico giovialone del "Te la do io l'America", ma anche dal Grillo rabbioso che spara dalla tv contro Bettino Craxi e Pietro Longo, ha appena finito di fare il pieno allo Smeraldo di Milano e si appresta a rifarlo al teatro Olimpico di Roma, dal 9 al 18 marzo prossimi. Sempre da solo, con l'unico sostegno di un telefono amplificato e di una linea verde, con i quali entra in contatto con mezza Italia: un po' per dialogare amabilmente con il suo interlocutore di turno, più spesso per "fancularli" di brutto. In questo aiutato, con enorme entusiasmo, dal pubblico presente in sala: che non vede l'ora di urlare tutta la sua rabbia in faccia al nemico di turno. Quasi si fosse accorto che ormai dopo la protesta urlata, dopo i graffi sanguinosi della satira politica non resti altro che l'insulto. Grazie all'efficacia di un usatissimo trisillabo.

La pagina dell'intervista a Grillo, sull'Espresso del 1992.

Signor Grillo, partiamo dai "fanculo" che ogni sera spara a raffica: non le sembrano un mezzo un po' volgare per scatenare l'ilarità della gente?

«Ma quale volgare... Volgare non sono io, che dico "figa, cazzo, culo" quando il senso della frase lo richiede. Volgare è la Sampò, che chiama "cappuccetto" il preservativo, e pensa così di essersi salvata la faccia: e allora io la mando affanculo. Ancora. C'è gente che mi chiama al telefono in teatro, e ha il cervello talmente spappolato dalla televisione che mica mi chiede come sto; mi chiede: "sono in diretta?". E io, questa gente qua, non dovrei fancularla? Ma mi faccia il piacere...».

Non è un po' troppo facile, però, prendersela con gli Sgarbi e con i Ferrara, e lasciare in ombra i nemici veri, i politici corrotti, i mafiosi, i disonesti?

«Guardi, in tanti prima sparano l'apprezzamento, dicono che sei geniale e che hai trovato il modo giusto di comunicare con la gente; poi incominciano a correggere il tiro, dicono che questo è troppo facile e quest'altro troppo scontato, insomma che da te s'aspettava di più. In tanti trinciano giudizi senza neanche venirti a vedere. Ma Io vorrei ricordare a tutti questi che non è colpa mia se Licio Gelli o Paolo Cirino Pomicino non si fanno trovare al telefono. Così come non è colpa mia se quella merda del mago Othelma ha deciso di presentarsI alle elezioni con un programma che prevede l'abolizione delle cinture di sicurezza e il ripristino della pena di morte; oppure se Maurizio Costanzo prima dIchiara che si è iscritto alla P2 per caso, e poi fa il testimoniai per un settimanale contro gli sprechi e contro la corruzione; oppure se la Raffai, oltre a fare la spiona di professione, ha scritto pure un libro da 29 mila lire su quelli che scappano dalla famiglia proprio perché c'hanno quella famiglia lì. E io tutta questa gente non dovrei fancularla? Ma la fanculo a raffica!».

Mi tolga una curiosità: il suo fanculo odierno ricorda da vicino il "fangala" urlato da MaIik Maluk, alias Giorgio Bracardi, nell'"Alto gradimento" di Arbore e Boncompagni. È da lì che le è nata l'idea?

«No, perché quello era un divertentissimo motto di spirito, e invece il mio è un autentico urlo di rabbIa. In quanto tale, sono certo che il suo antecedente sia il "coglione" con cui, anni fa, ho apostrofato il giornalista Sandro Mayer: perché, a "Domenica in", aveva intervistato un bambino appena liberato da un lunghissimo rapimento. Giuro che non volevo offendere Mayer: volevo soltanto urlare la mia rabbia, il mio disgusto, per un uso così cinico dell'intervista giornalistica. E quando, nei giorni successivi, ho ricevuto i messaggi di tantissima gente incazzata come me, che mi diceva che avevo fatto bene a urlare "coglione", ho capito che quella era la strada giusta. E il fanculo di oggi ne è la logica conseguenza».

Ma non trova un po' strano che questo urlo di rabbia sia sempre più spesso indirizzato contro la gente comune, invece che contro i potenti?

«Lei lo trova strano? lo no. Sono stanco delle battute, sono stanco della satira politica: non serve a nulla. Tant'è vero che Cossiga ormai non è più un uomo: è uno spot. E dell'ex sindaco ho semplicemente detto che deve avere due palle così, per aver sposato la sorella: di quello la. E dei socialisti non voglio più parlare, perché quando li ho accusati di rubare hanno guadagnato il cinque per cento dei voti: e dunque è meglio che me ne stia zitto, così magari si eliminano da soli. E di Mario Chiesa, presidente della Baggina, ho parlato solo all'inizio, quando sembrava che avesse rubato sette o otto milioni e il suo mi pareva proprio un caso di disperazione esistenziale. Ed è vero che ho ripetutamente fanculato il ministro De Lorenzo: ma non perché sia incompetente, ma per il semplice fatto che ha accettato un ministero senza speranza come quello della Sanità. Diciamolo chiaro: io di questa gente non voglio più saperne. E se ogni tanto mi capita di fancularli, è solo perché voglio parlare alla suocera perché nuora intenda».

Sarebbe a dire?

«È semplice. Il fanculamento dei politici, dei potenti, è un mero pretesto per fanculare la gente, lei, me stesso. Perche è colpa nostra se siamo ancora comandati da individui di questo tipo. È colpa nostra se continuiamo a farci truffare dai pubblicitari, quelli che hanno inventato la famiglia di dementi del Mulino Bianco: quando nei paesi più civili, per esempio in Danimarca, hanno già fatto leggi che tutelano splendidamente i consumatori. È colpa nostra se l'ambiente è ridotto allo schifo che sappiamo, al buco nell'ozono, alle targhe alterne che non risolvono niente. E guardi che queste cose mica gliele dice un ambientalista. Anzi, gli ambientalisti proprio non li reggo, perché sono gli unici che non hanno ancora capito che il vero problema dell'umanità non è la tutela della foca monaca: ma la riduzione del tempo di lavoro. Lavorare meno per poter lavorare tutti. E godere di più».

E quindi secondo lei, signor Grillo, anche le prossime elezioni serviranno a poco... 

«A poco? Dica pure a nulla. Perché i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi. E perché, soprattutto, in Italia la situazione è talmente disgregata, deteriorata, compromessa, da lasciar presagire un futuro nero. Nero come la pece».

Pubblicata sull'Espresso dell'8 marzo 1992

Tangentopoli si fermò davanti al Pci. D'Ambrosio disse: "Mani pulite è finita". Il pm del Pool nel '93 mi confessò: il marcio è già emerso. Ecco perché le mazzette "rosse" non travolsero il partito, scrive Stefano Zurlo, Sabato 18/02/2017, su "Il Giornale". A volte modesti dettagli aiutano a capire. A volta la concatenazione precisa degli avvenimenti può sfuggire nel frastuono generale. A maggior ragione se l'epopea di cui parliamo è quella di Mani pulite, oggi sotto i riflettori per il venticinquesimo compleanno. L'opinione pubblica si è divisa, anzi accapigliata, perché il Pool non riuscì a espugnare Botteghe oscure, così come aveva travolto il ponte di comando della Dc e del Psi. E ciascuno dei protagonisti a distanza di tanto tempo racconta i passaggi di quella storia controversa e cerca di spiegare perché lo squadrone di Mani pulite si arenò davanti alle mura della cittadella rossa. Dunque, un piccolo episodio può fornire gocce di informazione a chi vuol capire, senza teoremi e tabù. Era la primavera del 1993 e lavoravo per l'Europeo, il settimanale di casa Rizzoli. Il direttore Myriam De Cesco mi aveva chiesto di seguire proprio l'indagine milanese che stava squassando i palazzi del potere. Un pomeriggio arrivai dunque a Palazzo di giustizia. Era la prima volta o una delle primissime occasioni che avevo di entrare nel tempio della giustizia italiana. Com'è sempre stato da quelle parti, a dispetto di mille annunci di cambiamento e razionalizzazione delle abitudini e dei comportamenti, a quell'ora non c'era nessuno o quasi e io mi aggiravo, perplesso, per quei lunghissimi corridoi che mi ricordavano i quadri di De Chirico. Conoscevo a grandi linee l'intricata geografia del Palazzaccio, se non altro perché figlio di avvocati, ma vagavo con un certo disagio in quegli ambienti, sonnacchiosi a quell'ora, in cui si stava riscrivendo la storia d'Italia. Mi ritrovai nell'interminabile corridoio della Procura, al quarto piano, il punto nevralgico della rivoluzione di rito ambrosiano. Camminavo e qualcuno mi veniva incontro: era Gerardo d'Ambrosio, il procuratore aggiunto, il coordinatore del Pool, in quel momento con Di Pietro, Borrelli, Davigo e Colombo uno degli uomini più famosi d'Italia. Mi squadrò, io mi presentai. Due minuti, qualche battuta con il suo inconfondibile timbro napoletano denso di ironie e umorismo, poi il procuratore mi rifilò la notizia che quasi non entrava nella mia testa: «Mani pulite è finita». Lui parlava, io ascoltavo sgranando gli occhi, incredulo per lo scoop che stavo arpionando senza nemmeno aver buttato l'amo. La sostanza del ragionamento era che il più era stato fatto. Tangentopoli era stata svelata e il marcio attaccato. Formulai qualche domanda, tornai in redazione pronto a ricevere i complimenti della direzione che puntualmente arrivarono. Capivo e non capivo il perché di quella clamorosa confessione. Come mai un magistrato così navigato si era spinto fino a quel punto? Preparai il pezzo che fu pubblicato nei giorni successivi con grande enfasi e fu ripreso dai telegiornali. Lui, visto l'inevitabile clamore, accennò un mezzo dietrofront, qualcosa smentì e qualcosa smussò ma il messaggio era chiaro. E quella «lettera» aveva un destinatario: Tiziana Parenti, il pm del Pool che indagava sulle presunte mazzette versate proprio al Pci-Pds e cercava di avanzare su quello che allora i quotidiani chiamavano pomposamente il fronte orientale di tangentopoli. In quelle settimane cruciali l'inchiesta era arrivata davvero a un passo da Botteghe oscure. Molti osservatori ritenevano che la svolta fosse vicina. Ancora un po' e pure il vecchio, glorioso Partito comunista sarebbe franato sotto il piccone del Pool. C'erano grandi aspettative, ma anche enormi difficoltà. Per la struttura del partito e dei suoi quadri, gente all'antica che non era certo disposta a piegarsi davanti al vento di Mani pulite. I personaggi alla Greganti, per capirci, rimanevano in cella senza fiatare, alimentando leggende e voci di ogni tipo. Certo, non correvano come centometristi per raccontare a Di Pietro quel che sapevano e inguaiare qualcun altro come facevano i loro colleghi del pentapartito. C'erano poi i rapporti complicati della Parenti con il resto del Pool: la pm, già alle prese con un contesto ostico, non godeva di grande simpatia e stima presso gli altri magistrati. Fuori le claque si dividevano: la Parenti veniva beatificata dai moderati, D'Ambrosio, da sempre icona della sinistra e in una futura seconda vita, anni dopo, parlamentare dei Ds, scaldava le platee dei compagni. E poco importava che a proposito di piazza Fontana e della morte di Pinelli non avesse sposato la vulgata più facile che voleva l'anarchico vittima della violenza di Stato. Quell'intervista arrivò in testa alla pm come un missile. O almeno così la prese lei: qualche settimana dopo, incrociandola nel solito corridoio, fu lei a dirmi poche parole colme di sconforto: «Quell'articolo mi ha delegittimato». Chissà cosa replicherebbe D'Ambrosio che oggi purtroppo non c'è più e non può ribattere. Probabilmente la partita sarebbe finita allo stesso modo. Chissà. Alla fine gli assediati si salvarono e il partito pagò un prezzo tutto sommato accettabile alla grande tempesta: gli arresti decimarono la corrente dei miglioristi, scaricati come succursale dei corrotti del Psi. Il fronte orientale, che era stato fatale a Napoleone, lo fu anche a Mani pulite. E quella sconfitta, inattesa, raffreddò gli entusiasmi di una parte del Paese. Cominciava, fra divisioni e spaccature, un'altra storia che va avanti ancora oggi.

Gherardo Colombo: «Lasciai la toga perché mi sentivo un idraulico». In un’intervista a Tv2000, l’ex magistrato racconta perché disse addio alle aule di giustizia e perché da tempo ha cambiato il suo modo di vedere la funzione del carcere, scrive Franco Stefanoni il 17 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Mi sono dimesso dalla magistratura perché mi sono sentito come un idraulico». Lo ha detto Gherardo Colombo, in un’intervista al telegiornale di Tv2000, rilasciata nel 25esimo anniversario dell’inizio di Tangentopoli. «Spiego questa mia frase - ha aggiunto Gherardo Colombo - con una metafora: un signore va in cucina per farsi il caffè ma dal rubinetto non esce acqua. Così decide di chiamare l’idraulico che prova a smontare il rubinetto e i tubi ma l’acqua continua a non arrivare. Allora l’idraulico va in cantina e lavora al rubinetto centrale, quello che porta l’acqua al condominio. Così torna in cucina e finalmente l’acqua esce dal rubinetto. È come se per 33 anni in magistratura mi fossi occupato solo del rubinetto della cucina. Per quanto impegno ci si mettesse non c’era niente da fare: la giustizia funzionava malissimo. Così ho pensato di guardare a qualcosa che venisse prima dei tribunali, le corti d’appello, le sentenze, gli avvocati. Alla fine ho trovato il `rubinetto centrale´ cioè la relazione che esiste tra le persone e le regole. Se non capiamo questo la giustizia non funziona». Colombo ha anche ribadito il suo cambio di rotta sulla funzione del carcere: «Sulla custodia cautelare ho cambiato il mio modo di vedere. Per quanto pensassi che il carcere dovesse essere l’extrema ratio, cioè l’ultima misura possibile e immaginabile, tuttavia pensavo che fosse educativo. Oggi non la penso più così: il carcere non solo non serve ma danneggia anche la cittadinanza. Il 70% delle persone che sono state in carcere, ci ritornano perché hanno ricommesso di nuovo il reato. Il carcere è più una scuola di criminalità che un rimedio. Per questo penso che non si possano tenere le persone in carcere per tutta la vita».

Mani Pulite, l'eredità disastrosa di Tangentopoli. Le scuse di Borrelli: non valeva la pena buttar via il mondo precedente, scrive Claudio Martelli il 17 febbraio 2017 su “Il Quotidiano.net”. Per alcuni "Mani Pulite" fu la giusta – divina forse? – punizione per l’indebita l’euforia degli anni ottanta che indebitò lo Stato. Ma è una leggenda. Nell’83 quando Craxi diventa presidente del Consiglio il debito pubblico ammontava già al 70 per cento del Pil. La dilatazione della spesa era cominciata nei Settanta col consociativismo spendaccione tra Dc e Pci e con l’inflazione a due cifre che moltiplicava gli interessi sul debito. È vero che con il governo Craxi e i successivi il debito continua a salire ma, almeno, nel quadriennio di Craxi l’inflazione venne abbattuta e l’economia crebbe sino al 4,5 per cento. Un miraggio negli anni successivi. Ora il debito pubblico – in euro – in metà del tempo è cresciuto del doppio nonostante i bassissimi interessi e i massicci acquisti della Bce. Quanto a industrie e infrastrutture quelle non vendute ristagnano, la produttività e il tenore di vita sono calati rispettivamente del 20 e del 14 per cento e abbiamo meno diplomati e laureati di tre lustri fa. Solo la corruzione è aumentata eppure i partiti sono morti. Vive la partitocrazia in simulacri al servizio di capi e capetti che nominano senatori e deputati i loro servitori. Nulla più della parabola di Di Pietro dà il senso del disastro. Il grande inquisitore processato perché prendeva soldi in prestito da chi inquisiva dovette lasciare la toga. Poi, svergognato da un’inchiesta tv per aver fatto man bassa dei finanziamenti pubblici al suo partito, ha dovuto lasciare anche la politica. Non diversa la storia dei segretari amministrativi della Lega e della Margherita arrestati per analoghi motivi. O vogliamo parlare di Fini? O degli scandali Parmalat, Cirio, Monte dei Paschi? Ciascuno eccede dieci, venti volte il finanziamento Enimont che ruinò la Prima repubblica. Quella che Di Pietro marchiò come «la madre di tutte le tangenti» al confronto appare quasi una parente povera. L’epitaffio l’ha scritto Francesco Saverio Borrelli, l’inflessibile guida del pool «Mani pulite»: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena di buttare il mondo precedente per cadere in quello attuale». Nei codici questa condotta si chiama «delitto colposo» e la colpa ammessa è quella, avendo «buttato» la Prima repubblica di aver propiziato la Seconda. La Prima era quella dei partiti che l’avevano creata trasformando il regime fascista in un regime di partiti. Partiti veri, formazioni storiche, comunità organizzate, divise da ideologie, legami internazionali, conflitti di classe. Migliaia di sedi, giornali, funzionari, congressi, associazioni fiancheggiatrici, campagne elettorali non si finanziano con parole. Il sistema di finanziamento era vasto, ramificato e spesso illegale. Casi di corruzione individuale e scandali clamorosi furono neutralizzati o dal regime delle immunità politiche o dall’indulgenza giudiziaria. La repubblica doveva essere riformata in radice, soprattutto da quando, con il crollo del comunismo e il varo del mercato unico europeo, il contesto internazionale da protettivo si era fatto ostile. Ma i leader democratici o non capirono o non agirono e furono travolti dalla rivolta antipartitica scatenata da un establishment impaurito e dai media, dalle nuove e vecchie forze anti sistema. Mentre il paese precipitava nella crisi economica, la lira veniva svalutata e il governo nottetempo metteva le mani sui conti correnti degli italiani si aprì la caccia al capro espiatorio. Arma letale fu l’uso violento della giustizia, gli arresti e il carcere preventivo per estorcere confessioni, delazioni, chiamate di correità a catena. «Mani pulite» è stata la più colossale operazione di polizia giudiziaria della nostra storia: trentamila indagati, tremila arrestati, tra cui cinquecento parlamentari, decine tra ministri e primi ministri, grandi e piccoli imprenditori, dirigenti, funzionari. Decapitati in piazza e in effigie i leader e i partiti di governo la repubblica si schiantò e cominciò una crisi che non ci ha più lasciato.

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 18 febbraio 2017: Mani pulite, coscienze sporche. Così i magistrati sono diventati una casta di intoccabili. Domani ricorrono i 25 anni di Mani Pulite. Manette d’argento potrebbe andare come titolo della celebrazione del quarto di secolo, e invece della marcia nuziale con l’organo, per la colonna sonora suggerirei il tintinnare degli schiavettoni a cura dei comunisti col Rolex, J-Ax e Fedez, possibilmente ospiti di Fabio Fazio. Ma che tristezza. Di solito si dice: sembrava ieri. A tutti noi, parlo a naso ma ci azzecco, paiono invece cento anni. Le decrepite rievocazioni raccolgono quattro gatti acciaccati. Le tricoteuses, che affollavano furenti e festanti corridoi e aule di Palazzo di Giustizia di Milano, preferiscono da tempo Sanremo. Tutto il resto è noia, per restare in tema di canzoni. Una barba. Un coro universale di lamenti, da destra e sinistra, inquirenti e inquisiti d’accordo nel giudizio: il rimedio non è servito o addirittura è stato peggiore del male. I componenti del famoso pool, che hanno fatto tutti carriera, si lagnano che quella stagione della loro gloria non è servita a niente, eccettuata la loro popolarità, e ogni cosa è come prima, quanto a corruzione e latrocini. I parenti dei 45 suicidi, tra i 5.000 arrestati di quella epopea carceraria, eccepiscono che non è proprio come prima: mancano i loro cari, annientati dal terrore e dal discredito preventivo della carcerazione un tanto al chilo, usata a mo’ di tortura. Venticinque anni per nulla? Un bilancio è roba da storici più che da gazzettieri. Mi affido perciò al professor Paolo Mieli. Da direttore della Stampa e del Corriere della Sera egli fu protagonista di quella macchina da guerra che assemblava in magica alchimia pool di toghe e di cronisti. Ci diede dentro da par suo, occupandosi anche di consegnare lui, tramite edicola, un mandato di comparizione per corruzione a Berlusconi durante il raduno dell’Onu contro la criminalità che il Cavaliere presiedeva da premier a Napoli (22 novembre 1994), dopo di che precipitò. Tutto bello, tutto giusto? Mica tanto. Mieli ammise lealmente nel 1998, a frittata fatta a proposito di Mani pulite: «Ci ho creduto e l’ho sostenuta. Ma adesso capisco che Mani Pulite non è il nuovo, è la vecchia storia dei buoni contro i cattivi. Perché ci sono voluti tanti anni per comprendere che anche il Pci-Pds non era estraneo al sistema di Tangentopoli? Con Berlusconi abbiamo esagerato, mentre con l’Ulivo siamo stati troppo cortigiani». Parole sante, ma tardive come è giusto sia per gli storici. Da modesto scriba di note quotidiane me ne accorsi un bel po’ di anni prima. Non c’era bisogno di aquile per denunciare la parzialità dell’ambaradan messo su alla procura di Milano e che il procuratore generale del tempo, Giulio Catelani, buon’anima, definì «Rivoluzione italiana», che è cosa un po’ fuori dai binari dell’amministrazione della giustizia e diventa politica della peggior specie, quella che non si nutre di voti ma di fax. Con il risultato di travolgere il sistema democratico e di nuocere alla reputazione dei Tribunali. In effetti Mani Pulite divenne ben presto un modo per stringersi intorno al collo di qualcuno lasciando intatti altri. La macchina da guerra delle toghe infatti preparò la strada - una volta demoliti leader e quadri dirigenti del pentapartito (per i giovani: democristiani e socialisti non filocomunisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali) - all’altra macchina da guerra, quella gioiosa, quella di Occhetto. Che fu preservata per un incantesimo da decimazioni e inchieste, salvo a livello basso, dove i tangentari furono trattati persino da eroi che non parlano. Con L’Indipendente sostenni dagli inizi e fino al 1993, il lavoro di lavanderia specialmente di Antonio Di Pietro: avevo creduto alla promessa che la sua scopa avrebbe spazzato il letame anche dagli angoli di sinistra della piazza politica. Non accadde, e ne tirai presto le conseguenze proponendo l’alleanza trinitaria tra Berlusconi, Bossi e Fini, con ciò mandando all’aria il disegno neanche tanto sotterraneo sopra rivelato da Mieli, il quale, non dimentichiamolo, aveva per editore la Fiat. Sono certo che uno come Piercamillo Davigo se avesse avuto modo di rovesciare i calzini dei compagni avrebbe sistemato da par suo anche capi e capetti comunisti ed ex comunisti. Questo magistrato, oggi capo del sindacato delle toghe, non ha mai avuto venerazione per le Botteghe Oscure, semmai per le gattabuie. Il suo ideale politico sono sempre state le galere, purché piene. Ma i risultati sono quelli che sono. Noia e persino nostalgia (ingiusta) degli Anni 80, quando la magistratura aveva buttato le ancore nel porto delle nebbie. Il risultato di quell’attivismo unilaterale è una stanchezza generale. E l’impressione non immune da verità è che la magistratura abbia abusato di quella popolarità guadagnata a suon di arresti e processi di alti papaveri per erigersi a casta di intoccabili. Infatti la politica, che per tanti aspetti fa schifo, così come ripugnano i mestieranti della medesima, subisce di tanto in tanto la scrematura delle elezioni popolari e le scrollate spesso politicamente orientate dei colleghi di Davigo. Mentre le toghe si sono elevate da se stesse sopra i cieli dove pretendono di essere come la Madonna. Che non a caso è l’appellativo con cui colleghi, cronisti e simpatizzanti avevano battezzato Di Pietro. Il quale sarà pure una brava persona ma è la cosa più lontana dall’Immacolata Concezione che io riesca ad immaginare. Di Vittorio Feltri

Venticinque anni fa i Pm demolirono la prima Repubblica, scrive Piero Sansonetti il 17 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". “Mani pulite” fu una grandiosa operazione politica, l’obiettivo era “purificare”: 25mila indagati, 4mila arresti, meno di 2mila condanne e il sistema dei partiti venne raso al suolo. Vinse l’alleanza tra magistratura e media. L’operazione “mani pulite” iniziò esattamente 25 anni fa, il 17 febbraio del 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, funzionario socialista milanese piuttosto ignoto, beccato con sette milioni di tangente in tasca. Anche se dall’arresto di Chiesa all’esplodere dello scandalo politico che travolse la prima repubblica passarono poi diversi mesi. In mezzo ci fu una campagna elettorale, la vittoria della Lega Nord, l’uccisione del big democristiano (andreottiano) siciliano Salvo Lima, il terrificante attentato mortale a Giovanni Falcone, e infine l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Poi arrivò l’estate e in una caldissima giornata di fine giugno ci si preparava a dare notizia della nomina di Bettino Craxi a presidente del consiglio incaricato, e invece successe il finimondo. Nelle redazioni dei giornali arrivarono delle carte nelle quali si parlava del coinvolgimento diretto di Bettino Craxi in una storia di tangenti milanesi. Le carte – presumibilmente: molto presumibilmente – erano state inviate dalla stessa procura di Milano, dove – agli ordini del Procuratore Saverio Borrelli – si era costituito un pool di magistrati, incaricato esplicitamente di muovere l’assalto al quartier generale della politica, e in particolare all’asse Dc-Psi, e ancor più in particolare alla persona di Bettino Craxi. I nomi dei magistrati del pool sono i nomi più noti tra tutti i nomi dei magistrati del mondo: Di Pietro, D’Ambrosio, Colombo, Davigo. La prima mossa fu quel dossier fatto giungere anonimamente alla redazioni. La notizia rimbalzò a Montecitorio e al Quirinale, e Scalfaro da un mese presidente della repubblica, decise di soprassedere alla nomina di Craxi. Fece qualcosa di più: avvertì Craxi che il suo nome era fuorigioco e che toccava a lui scegliere tra i suoi due delfini: Claudio Martelli o Giuliano Amato. Craxi scelse Amato, facendo infuriare Martelli (che mai gliela perdonò) e il 28 giugno Amato fu incaricato. È da quel momento che “mani pulite”, eliminato il nemico numero 1, inizia in grande stile. Il Psi viene travolto in pochi mesi. La destra Dc altrettanto. La sinistra Dc e il Pci vengono colpiti di striscio, ma escono quasi incolumi dal bombardamento. I numeri dell’inchiesta “mani pulite” sono incerti. Ieri Repubblica par- lava di 4520 indagati e di 661 tra condannati e persone che accettarono di patteggiare (i condannati veri e propri furono 316, cioè circa il 7 per cento degli indagati). In realtà questi numeri si riferiscono solo alla Procura di Milano, che fu il motore di “mani pulite”, ma le inchieste, e gli avvisi di garanzia, e gli arresti, si estesero a tutt’Italia. I numeri finali sono incerti: più o meno gli indagati furono 25 mila, gli arrestati circa 4000, il numero delle condanne non si conosce ma comunque la media nazionale è simile a quella milanese: circa il 7 per cento. Capite bene che 25 mila indagati è un numero enorme. Un pezzo gigantesco del ceto politico fu messo alla sbarra. E nel clima che si era creato, soprattutto per la partecipazione attiva della stampa e della televisione alle indagini, si era realizzata una situazione nella quale chiunque ricevesse un avviso di garanzia era costretto a dimettersi e a lasciare la politica. Di quelle circa 20 mila persone che furono costrette a lasciare la politica e poi risultarono innocenti (o comunque non furono condannate) si e no una decina riuscì a rientrare nel giro. Gli altri furono messi fuori dal campo e basta. Gli avvisi di garanzia arrivavano quasi sempre al momento giusto. A Craxi arrivò l’avviso nel dicembre del ‘ 92, dieci giorni prima di Natale, e fu un siluro che lo costrinse a lasciare la segretaria del partito. Claudio Martelli si mise in corsa per prendere il posto di Craxi, disse che voleva “salvare l’onore politico del Psi”, ma il 19 febbraio del 1993, mentre era in corso una riunione dell’assemblea nazionale del Psi all’hotel Ergife di Roma, e mentre Martelli si stava per candidare alla segretaria, arrivò l’avviso anche a lui. Lui era il ministro della Giustizia, era il leader politico che aveva promosso e protetto Falcone: non piaceva alla Procura di Milano, che se ne disfò in quattro e quattr’otto. Martelli, che era uno dei dieci uomini più potenti d’Italia, scomparve dalla scena in quell’esatto momento. Naturalmente questo meccanismo da Santa Inquisizione non poteva funzionare se la magistratura fosse stata sola a guidare l’operazione. Ma la magistratura non era sola: con lei si era schierata praticamente tutta la stampa italiana. Quella di destra, quella di sinistra, quella di centro, quella politica e quella scandalistica. Guidata dai giornali della Fiat, dal Corriere della Sera, ma anche dai giornali più vicini al Pci come la Repubblica e naturalmente anche l’Unità. La magistratura in un primo tempo aveva spaventato anche gli editori dei giornali, perché aveva colpito duro i vertici della Fiat e aveva persino, per qualche ora, messo in arresto De Benedetti. Ma l’imprenditoria si arrese quasi subito e accettò di collaborare con la magistratura e di mettere a disposizione i propri giornali, in cambio dell’impunità. Così fu. E’ ancora così. Dicevamo dei 25.000 procedimenti avviati e conclusi con un po’ più di mille condanne. Possiamo dire che dal punto di vista giudiziario “mani pulite” fu un fallimento. Fu però un successo senza precedenti dal punto di vista politico. Il pool di Milano riuscì a portare a termine la più clamorosa riforma istituzionale mai realizzata nell’Italia repubblicana. Il sistema democratico fondato sui partiti – sulle loro strutture, sulle loro idee, sui loro meccanismi popolari – fu raso al suolo in poco più di un anno. I leader di quel sistema politico scacciati e messi in fuga o alla berlina. I rapporti tra politica e magistratura rovesciati. Diciamo che la prima repubblica fu cancellata. Quando si dice prima repubblica spesso si intende un sistema politico partitocratico e corrotto, che stava rovinando il paese. Non è esatto. La prima repubblica era quella costruita sui valori della lotta partigiana e sulle idee di grandi tradizioni politiche come quelle del cristianesimo sociale, del comunismo, del socialismo e del liberalismo. Immaginata e costruita da personaggi come De Gasperi, Einaudi, Croce, Togliatti, Nenni, Calamandrei, La Malfa. Sarebbe quella compagine che ricostruì l’Italia distrutta dal fascismo, la portò pienamente dentro un regime democratico, ne promosse lo sviluppo economico e sociale, la modernizzò attraverso grandiose riforme di tipo socialista o di tipo liberale. Non proprio una schifezza. Se uno prova a fare un bilancio storico politico e sociale della prima repubblica e lo mette a confronto con un bilancio della seconda repubblica (quella nata sulla spinta dell’inchiesta “mani pulite”) si mette a ridere. La fine della prima repubblica pone fine al primato della politica. E dunque ridimensiona fortemente la portata della democrazia. Il potere si trasferisce. In particolare nelle mani dei potentati economici, che dettano le scelte di fondo. In parte nelle mani della magistratura, che da quel momento diventa largamente in grado di controllare il ceto politico e di determinarne la selezione e anche le scelte. “Mani pulite fu un complotto”? No, io non lo credo. Però “mani pulite” riuscì perché perseguì un disegno politico. Che era duplice: “purificare” la società italiana e abolire i partiti. Il pool di Milano credeva sinceramente e con passione che le due cose coincidessero. La seconda parte di questo disegno è perfettamente riuscita. La prima no. E da quel momento la magistratura si convinse che il proprio compito non fosse quello di giudicare i colpevoli e gli innocenti, come dice la Costituzione, ma quello di assumere un ruolo di Guida Etica della società e dello Stato. E di garante della moralità.

DEVASTATI DA MANI PULITE.

Quelle trame Davigo-Grillo per estromettere Berlusconi. Tre incontri con l'ex pm per ideare l'emendamento che vieterebbe al Cavaliere di rimanere capo politico, scrive Giampiero Timossi, Domenica 1/10/2017, su "Il Giornale". Piercamillo Davigo è un uomo d'ingegno e infatti non perde occasione per ricordare: «I magistrati non possono far politica, non la sanno fare». Solo che poi dimentica quello che dice a verbale e ascolta la voce del suo Io interiore. È un quarto di secolo che uno degli eroi del pool di Mani Pulite continua a far politica. Lasciata la guida dell'Associazione Nazionale Magistrati e tornato in Cassazione, Davigo corre da un convegno all'altro, passa dalla festa del Fatto Quotidiano (dove ovviamente ribadisce il concetto che i magistrati non sanno fare politica), quindi incontra il leader del movimento che gli piace di più, i Cinque Stelle di Beppe Grillo. «Tre incontri nelle ultime tre settimane», trapela dall'entourage grillino. Tre incontri per mettere definitivamente a punto la regola «ammazza-Berlusconi». Un emendamento al rispolverato Rosatellum che dice: «Chi è incandidabile non potrà essere il capo politico di una coalizione». Così l'insidia Berlusconi sembra neutralizzata con un emendamento ad personam, alla faccia della decisione della Grande Chambre della Corte dei diritti dell'uomo, che si dovrebbe pronunciare entro il 22 novembre sul ricorso presentato dai legali dell'ex premier. L'ultima variante in commercio dell'«ammazza-Berlusconi» arriva da un'idea nata qualche settimana fa e ha iniziato a prendere forma quando sono uscite le regole, tutte nuove, per trovare il candidato premier. C'era il palese tentativo, ovviamente riuscito, di «blindare» l'elezione dell'indagato Di Maio. Ma c'era anche dell'altro, perché il nuovo testo sentenziava: chi vincerà la consultazione on-line diventerà subito nuovo capo del partito. Una definizione in apparenza quasi anacronistica, per alcuni vuota di un vero significato e capace solo di irritare la fronda grillina contraria all'ascesa di Di Maio. Storie, ora quella precisazione rende ancor più chiaro il progetto nato dalla coppia Davigo-Grillo: «sostituire» il capo politico del M5s. Perché, in base all'emendamento presentato due giorni fa, anche il comico genovese non potrebbe guidare il Movimento. Impossibile per chi, come lui, è stato condannato in via definitiva. Lo ha già fatto? Vero, ma ora non più, così come in passato Grillo non era stato candidato, per non violare apertamente i paletti della legge Severino. Adesso, con il solito tempismo, il leader comico ha lanciato la «rivoluzione d'ottobre», vuol far sapere che tutto il potere è nella mani di «Giggino», mentre lui farà ancora una volta un passo di lato, per poi sostenere commosso «che non lascerà mai», ma cercando in verità di smarcarsi. Ed è tutto uno smarcarsi, giusto per restare sempre in campo, ma nelle posizioni ogni volta più congeniali alle proprie aspirazioni politiche. Vale per Grillo, certo. Ma potrebbe anche valere per Davigo. Lui, o chi per lui, aveva cullato il sogno che qualcuno lo investisse dell'ingrato compito di diventare il candidato premier a Cinque Stelle. Il gioco sarebbe valso la candela: anche se un magistrato non sa fare politica potrebbe sempre imparare, soprattutto se in palio c'è la possibilità di governare l'Italia. Solo che nessuno ha chiesto alla toga di diventare premier, perché era già tutto apparecchiato per servire Di Maio. Pazienza, resterebbe viva l'ipotesi di una futura nomina a ministro di Giustizia, magari dirottando il collega Nino Di Matteo all'Interno. Ipotesi, per ora. Perché tra tanti concorrenti, alla fine Davigo potrebbe spiccare il volo. Diventando per i Cinque Stelle il candidato ideale per la presidenza della Repubblica. Passando da Tangentopoli al Quirinale, grazie a una marcia lunga 25 anni. E un percorso alternativo davvero ingegnoso.

POLITICA DELLA PAURA, scrive il 3-10-2017 “L’Avanti". “Un consenso che si fonda sulla paura delle manette”: parte da qui la proposta socialista per l’istituzione urgente di una commissione di inchiesta parlamentare attorno agli effetti dell’inchiesta giudiziaria “Mani Pulite” sulle elezioni politiche del 1994 e sul sistema politico italiano degli anni successivi. L’iniziativa è nata in seguito alle dichiarazioni dall’ex magistrato Antonio Di Pietro, rilasciate ad alcuni organi di informazione. “Ho fatto una politica sulla paura” – ha detto Di Pietro, già leader del movimento politico Italia dei Valori. “La paura delle manette, l’idea che “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, mi sono accorto che bisogna rispettare anche le idee degli altri”. E ancora: “Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite, e con l’inchiesta Mani Pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali”. La proposta di legge è stata presentata dal Psi in entrambi i rami del Parlamento e porta la prima firma del deputato Oreste Pastorelli alla Camera e del senatore Enrico Buemi a Palazzo Madama. “Vogliamo fare chiarezza sul comportamento di un magistrato – afferma Nencini nella conferenza di presentazione della proposta – che dichiara vent’anni dopo: “Abbiamo raggiunto il consenso grazie alla paura delle manette’. Siccome questo non è uno stato inquisitorio, ma uno stato di diritto, vogliamo capire cosa si nasconde dietro a ciò che dichiara un ex magistrato”. Il segretario del Psi precisa che “non si tratta di legare la commissione d’inchiesta a questo o quel partito. Non chiediamo di indagare su tangentopoli, di cui non ci interessa nulla, chiediamo che la commissione lavori per capire cosa c’è dietro” alle parole di Di Pietro: “È stato applicato il diritto o la paura delle manette? Vogliamo chiarezza su questo punto”. “Di Pietro – dice ancora Nencini – ha parlato di ‘politica della paura e delle manette: parole da Stato inquisitorio, non da Stato di diritto, termini lontani da una giustizia giusta. Con una commissione d’inchiesta vogliamo sapere se i metodi utilizzati siano stati generalmente quelli ricordati da Di Pietro e se i diritti della difesa siano stati lesi o garantiti. Di Pietro renda ancora più esplicita la sua dichiarazione di cui riconosciamo il coraggio: con politica della paura e delle manette a chi si riferisce? Al clima generale del tempo o dietro la frase ci sono nomi e persone precise che sono state arrestate ed escluse dalla politica? Serve un secondo atto di coraggio, Di Pietro riempia di contenuti queste parole”. Per Nencini ormai esiste la “giusta distanza storica per cercare la verità oggettiva. Vogliamo ripristinare la verità storica e crediamo che la strada maestra per far luce sia quella parlamentare”. Si tratterebbe di una commissione d’inchiesta bicamerale, composta da 20 deputati e 20 senatori, con un rappresentante per ciascun gruppo presente in Parlamento. La durata della commissione è prevista di sei mesi. “Vogliamo – aggiunge Enrico Buemi- che sia ristabilita una verità storica a prescindere dalle sentenze. Quello insomma di verificare lo stato di diritto in un Paese democratico é un dovere. Occorre capire se si è agito in nome della legge o se si sono usati altri percorsi”. “Non é nostro obiettivo quello di individuare responsabilità personali, non è questo il punto. L’obiettivo è la ricerca delle verità. Una verità storica prescindendo dalle sentenze che ormai sono passate in giudicato”. La commissione dovrà occuparsi anche di un altro punto. “Quello della pressione mediatica che è scesa in campo con tutto il peso di cui disponevano i mass media”. Pia Locatelli, vicepresidente dell’Internazionale socialista e capogruppo Psi alla Camera, ricorda Moroni “che perse la vita oppure i danni arrecati a Del Turco e Mastella. Di Pietro fa un revisionismo di comodo. È lapalissiano che voglia candidarsi. D’Alema ha riabilitato Bettino Craxi con parole degnissime, ma in ritardo di qualche lustro”. Per Oreste Pastorelli “il tema interesserà l’intera politica. Non deve essere un argomento dei socialisti, ma della politica in generale. E dopo le parole di uno degli attori principali di quel periodo ci siamo sentiti in dovere di chiedere l’istituzione di una commissione per far emergere la verità”.

Nencini: «Paura e manette, ora la politica indaghi su Tangentopoli», scrive Giulia Merlo il 4 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Dopo le “confessioni” di Antonio Di Pietro, i socialisti chiedono una commissione d’inchiesta: «Mani pulite ha distrutto i partiti del ‘900». Una commissione d’inchiesta parlamentare sul Tangentopoli, per chiarire gli effetti dell’inchiesta sulle elezioni del 1994. La proposta, presentata alla Camera dal Partito socialista, «nasce dalle dichiarazioni del leader del pool, Antonio Di Pietro, il quale alcuni giorni fa ha dichiarato: “Abbiamo costruito il consenso sulla paura delle manette”», ha spiegato Riccardo Nencini, segretario socialista e viceministro dei Trasporti.

I socialisti chiedono una commissione d’inchiesta su Tangentopoli. La vendetta è un piatto che va servito freddo?

«Non c’entra nulla. Guardi, avrei trovato gravi le parole di Di Pietro anche se militassi in un partito diverso. Si tratta di dichiarazioni che suscitano reazioni al di là dell’appartenenza politica: quando un ex magistrato, riferendosi alla sua attività negli anni in cui vestiva la toga, mette insieme «consenso» e «paura delle manette», crea un connubio proprio degli stati inquisitori e totalitari. A lei non sembra pericoloso, in uno Stato di diritto? A questo bisogna pensare, indipendentemente dall’appartenenza politica dei singoli».

E quale mandato dovrebbe avere la commissione d’inchiesta?

«La commissione dovrà fare anzitutto chiarezza. Già ne 1992 e negli anni successivi si mise in dubbio la tecnica con cui venne portata avanti l’inchiesta di Mani Pulite, e ora quei dubbi trovano conferma nelle parole del massimo protagonista di quel periodo. Di più, le sue ammissione aprono il campo a ulteriori domande».

Per esempio?

«Per esempio bisogna chiarire se il sistema utilizzato nelle indagini e nell’inchiesta sia stato corretto e se i diritti della difesa siano stati lesi o meno. Se, come ha detto Di Pietro, è la paura delle manette che crea il consenso per proseguire l’indagine, in cosa si sostanzia questa paura delle manette? Di Pietro dovrebbe essere più chiaro: c’è un riferimento specifico, dietro le sue parole? La mia non è una illazione politica ma una riflessione a partire da ciò che ha dichiarato un magistrato importante, nell’interesse dello Stato».

Lei immagina che si sia trattato di una linea di condotta generalizzata nella magistratura dell’epoca?

«Io mi chiedo e vorrei chiedere a Di Pietro se quello che ha descritto era una fenomeno che riguardava soltanto lui. Dopo questa prima ammissione di verità, anche coraggiosa da parte sua, ne dovrebbe seguire una più specifica: lui sostiene che si costituì il consenso sulla paura delle manette, e allora dovrebbe fare nomi, cognomi, episodi…»

Il giudizio è pesante e rischia di cadere sull’intera categoria della magistratura.

«Senta, conosco ottimi magistrati e so benissimo che non tutti la pensano come Di Pietro. Si tratta, però, di dichiarazioni pubbliche mai smentite e in un paese civile si ha il dovere di chiedere di più, soprattutto vista la rilevanza avuta da Tangentopoli nella storia del Paese».

Che effetti ha provocato Tangentopoli per la politica italiana?

«Intanto ha consentito l’anticipazione di alcuni fatti: l’Italia è stato il primo Paese a sperimentare la politica dell’uomo solo al comando, dopo la distruzione dei partiti. Il fenomeno è apparso anche altrove, negli anni successivi, ma lì i partiti sono rimasti, anche se hanno cambiato caratteristiche e organizzazione. Da noi, invece, Mani Pulite ha imposto un’accelerazione al fenomeno della distruzione dei partiti di stampo novecentesco, dovuta non a un cambiamento sociale ma all’intervento della magistratura».

Eppure, riprendendo le parole di Di Pietro, di quale «consenso» aveva mai bisogno la magistratura, per condurre quell’inchiesta?

«E’ esattamente questo il punto da chiarire: proprio perché la magistratura non ha bisogno di consenso il fatto è grave. Un’indagine non si parametra sul consenso che esternamente si riceve, eppure nel 1992-‘ 93 Di Pietro ha ritenuto che il consenso fosse necessario per procedere a tappe forzate in un’indagine di cui ben conosciamo gli esiti. Non solo, rimane aberrante il binomio manette consenso, che poco ha a che vedere con l’esercizio della giustizia ma adombra l’inquietante sensazione di un potere giudiziario che punta a volersi sostituire al potere politico».

A 25 anni da Tangentopoli, in questi mesi si sta allungando la lista di politici assolti dopo inchieste molto enfatizzate sulla stampa. La politica ha ora buone ragioni per rifarsi sulla magistratura?

«No, io non credo che la politica viva un senso di rivalsa. Rilevo però, citando solo due casi, che l’inchiesta su Mastella provocò la caduta del governo Prodi, mentre il caso Orsoni ha azzerato il comune della città di Venezia. Tutto questo mi fortifica nelle mie convinzioni: la necessità della separazione delle carriere tra giudice e pm e della responsabilità civile dei magistrati».

Tornando alla commissione d’inchiesta, lei crede che troverà consenso tra i suoi colleghi in Parlamento?

«Ma certo, io spero che i colleghi mi diano il sostegno. Immagino che siano preoccupati quanto me se un ex magistrato, riferendosi alla sua precedente attività in toga, si esprime nei termini usati da Di Pietro. Oggi presenteremo la proposta di legge alla Camera, poi lo faremo al Senato e speriamo sia calendarizzata. Se così non fosse, ci rivolgeremo al ministro della Giustizia, Andrea Orlando».

Di Pietro confessa: "Ho fatto politica sulla paura delle manette". Il mea culpa dell'ex magistrato, che ammette di aver considerato "un criminale" chiunque non la pensasse come lui. La feroce (tardiva) autocritica del paladino di Mani Pulite, scrive Valerio Valentini l'8 Settembre 2017 su "Il Foglio".  A dire certe cose di Antonio Di Pietro – tipo che l'ex pm ha costruito il consenso politico sulla paura delle manette, demonizzando qualsiasi avversario politico e dipingendo un'intera classe dirigente come una masnada di criminali – si rischiava di passare subito per biechi antidipietristi difensori di tangentisti e corrotti. Almeno fino ad oggi. Perché ora, a dire certe cose di Antonio Di Pietro, è proprio l'ex magistrato. La confessione, o se preferite il mea culpa, arriva durante un collegamento video con lo studio di “L'Aria che tira estate”, trasmissione condotta da David Parenzo su La7. Mancano pochi minuti a mezzogiorno, e il dibattito in studio si trascina, un po' stancamente, sulla propaganda di alcuni partiti che speculano sull'infondato timore della diffusione di malattie letali legate all'arrivo dei migranti, quando Di Pietro coglie l'occasione per ammettere le proprie “colpe”. “Se si cerca il consenso con la paura, lo si può ottenere a 3 giorni, a un'elezione, ma poi si va a casa. Io ne sono testimone, ché ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagate le conseguenze”. Sgomento e incredulità tra gli ospiti, ma solo per un attimo. Poi subito scatta l'applauso, con Parenzo che chiede all'ex leader dell'Italia dei Valori di chiarire meglio il significato delle sue dichiarazioni: “In che senso, paura?”. Risponde Di Pietro: “La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me è un delinquente e quant'altro. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, mi rendo conto che bisogna rispettare anche le idee degli altri”. Lo stupore per questa inattesa, feroce autocritica, è enorme. Tanto che sia l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, sia la deputata berlusconiana Laura Ravetto insieme alla collega renziana Simona Malpezzi, restano indecisi su come reagire. Il primo a parlare è Luigi Crespi, ex sondaggista di fiducia del Cav, che soddisfatto afferma: “Questo è un pezzo di storia”. Cui si aggiunge, subito dopo, anche un passaggio su Tangentopoli: “Io porto con me una conseguenza. Ho fatto l'inchiesta Mani Pulite, con cui si è distrutta l'intera Prima Repubblica: il male, e ce n'era tanto con la corruzione, ma anche le idee. Ed è così che sono nati i cosiddetti partiti personali: Di Pietro, Bossi, Berlusconi e quant'altro. Ovvero partiti che hanno al massimo il tempo della persona”. A qualcuno, certo, potrà forse apparire tardivo, questo radicale ripensamento. A qualcuno perfino sospetto, arrivando a pochi giorni di distanza dall'annuncio semiserio dello stesso Di Pietro su un suo eventuale ritorno in politica – magari tra le schiere dei bersaniani di Mdp. Intanto, comunque, la deposizione può essere messa agli atti. Poi si vedrà.

A 25 anni dalla morte di Moroni non c'è bisogno di Di Pietro per capire i danni di Mani Pulite. L'ex pm avrebbe fatto autocritica sull'inchiesta. Ma se proprio vuole, promuova la separazione delle carriere o magari spieghi come certo uso dell’odio sia divenuto moneta corrente per le giovani generazioni, scrive Fabio Cammaleri il 27 Settembre 2017 su "Il Foglio". La notizia sembra questa: che Antonio Di Pietro avrebbe svolto un’autocritica su Mani Pulite. Più in particolare, ha affermato di aver capito, a 67 anni, che “...ho fatto una politica sulla paura...la paura delle manette...la paura del, diciamo così, ‘sono tutti criminali’, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente”. E poi aggiungendo: “...con l’inchiesta Mani Pulite, si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali”. Mani Pulite, e la sua critica storico-sistemica accompagnano alcuni, pochi, convinti dubbiosi, da molti anni: perciò, per costoro, nessuno stupore. Critica ai suoi presupposti: la deliberata indistinzione fra piano individuale, il delitto; e piano generale, il finanziamento dei partiti di massa in un contesto internazionale parabellico. Critica, soprattutto, al suo svolgimento, che è diventato la sua più durevole conseguenza: la strumentale soppressione, per deformazione, del processo penale. E senza processo penale, non ci può essere democrazia, ovviamente. E’ ovvio che la “Rivoluzione Italiana” sia stato questo. E nemmeno stupisce l’allocuzione del Nostro: che di uscite apparentemente sorprendenti, e irrelate le une alle altre, ha costellato il suo profilo pubblico. Le parole su una qualsivoglia causa (qui, Mani Pulite) svaniscono nell’irrisorio, quando non ricevano nerbo e autorità da un’azione sulle conseguenze (qui, lo svuotamento democratico della Repubblica Italiana). Caso vuole che in questi giorni sia venuto il XXV anniversario di un certo fatto. Così ci capiamo. Fu invece un fatto esplicativo, quello: non solo per lo specifico modo in cui cadde sulla vita civile della comunità nazionale. Ma perché svelò un Catone Uticense del nostro tempo: che seppe fissare, lucidamente, la portata di Mani Pulite sulla democrazia italiana. In corso d’opera. Con orgoglio tragico levò la sua voce contro quegli infausti fasti, intessendo la sua parola di umana verità, di suprema verità. A capo chino, volgiamoci alla sua memoria: “...quando la parola è flessibile, non resta che il gesto. Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri, nelle mie stesse condizioni, abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione), che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna. Con stima. Sergio Moroni”. Era il 2 Settembre di venticinque anni fa. Scriveva al Presidente della Camera, Giorgio Napolitano. Il “gesto”, come si ricorderà, prese la forma di un colpo di carabina con cui il deputato socialista si uccise: “l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita”, nelle sue parole. Fu trovato la sera, riverso nella cantina della sua casa di Brescia. Aveva 45 anni. Venne affermato che poteva averlo fatto per la vergogna. Oppure perché aveva un tumore. Il tumore fu smentito il giorno dopo dal fratello, con mesta nettezza. Sulla vergogna, su chi e perché, se ne potrebbe ancora discutere. Giustappunto. Era Segretario regionale lombardo del Partito, e membro della Direzione Nazionale. Poco prima aveva ricevuto due avvisi di garanzia, per “tangenti”, come recava il “gergo originario” di Mani Pulite. Ancora nessun atto d’indagine nei suoi confronti: allora occorreva l’autorizzazione a procedere. A quel modo, la concesse lui: poiché aveva esordito scrivendo, in un empito di tragico sarcasmo, che “l’atto conclusivo” serviva, in primo luogo, a “lasciare il mio seggio in Parlamento”. Nell’Ottobre dell’anno dopo, anche la democrazia parlamentare compiva il suo “atto conclusivo”: firmando una resa senza condizioni. Con la Legge costituzionale n. 3 del 29 Ottobre 1993, fu abrogata l’autorizzazione a procedere. Tuttavia, la tragedia fu più sfumata: perché quei Deputati e Senatori non disposero di un bene proprio, ma delle libertà costituzionali della Repubblica e, in relazione diretta, di ogni suo cittadino; da quel giorno in poi, e in un crescendo tuttora in atto, divenuto suddito di un Apparato burocratico sovraordinato ad ogni altra istituzione. Da quel Settembre 1992, molto diritto è passato al macero; molte vite si sono spente. E Sergio Moroni l’aveva previsto. “E’ indubbio che stiamo vivendo un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono espressione.” Era leale, Sergio Moroni: “Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito, e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere...”. Per deliberata scelta di taluni, è noto, non si volle distinguere. Si scelsero le monetine contundenti, autentica effigie fondativa di quella svolta autoritaria: “Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che merita coltivando un clima da ‘pogrom’ nei confronti della classe politica...”. No. Infatti. Nel crescente disprezzo verso quanti coltivarono e coltivano la necessità di distinguere, il Paese, nelle turbe, come dalle cattedre dell’Apparato, da allora, si è dato a ricostruire il suo passato più buio: per la convivenza civile, per la conoscenza, per la libertà personale. E non c’era davvero bisogno di Antonio Di Pietro per scoprirlo. Se proprio vuole, promuova la separazione delle carriere, fra magistrati che accusano e magistrati che giudicano; o spieghi come, secondo lui (ricordando fatti, persone, luoghi, atti, però), certe centrali di propaganda sono sorte, come e perché si sono alimentate; come certo uso dell’odio sia divenuto moneta corrente per le giovani generazioni; come il Parlamento sia divenuta un’istituzione non più libera; e altro ancora, che più o meno ogni coscienza libera sa essere materia per il “Libro Proibito” della Seconda Repubblica. Oppure, confidi nell’oblìo.

Devastati da Mani Pulite. Non ha sconfitto la corruzione, ha alimentato il populismo e ha legittimato la moralizzazione pubblica per via giudiziaria. Eccola l’eredità di Tangentopoli, scrive Giovanni Fiandaca il 30 Marzo 2017 su "Il Foglio”. Che vi sia, a un quarto di secolo ormai di distanza, l’esigenza di una approfondita rivisitazione storico-critica della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite, presumo che non siamo in pochi a pensarlo. E’ vero che il venticinquesimo “anniversario” ha già sollecitato qualche rievocazione giornalistica, ma siamo ancora lontani dall’avere aperto quella discussione pubblica vera, finalmente emancipata da ipocrisie moralistiche e pudori politicamente corretti, che sarebbe necessario una buona volta avviare. Non soltanto per comprendere meglio quel che avvenne allora, ma anche per verificare se alcune persistenti patologie possano ancora essere fatte risalire a quel recente passato. Tra queste patologie, alludo in particolare a quella perdurante nevrosi politico-istituzionale che continua a provocare conflitti tra politica e magistratura: e fa sì che la stessa politica odierna subisca forti condizionamenti da un’azione giudiziaria che tende a tutt’oggi a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti e, nello stesso tempo, a esercitare un controllo di legalità di fatto esorbitante da quegli spazi fisiologici che dovrebbero in teoria spettare al potere giudiziario. Un bilancio per comprendere quel che avvenne allora e verificare quali patologie possano essere fatte risalire a quel recente passato. Non intendo procedere a una revisione critica della contabilità giudiziaria (rapporti numerici tra indagati, incarcerati, scarcerati, prosciolti, condannati o assolti ecc.) riportata di recente in più di un intervento rievocativo. Rinviando ad una verifica già effettuata su queste colonne (cfr. l’articolo di Maurizio Crippa del 17 febbraio scorso), escluderei infatti che a orientare la rivisitazione di Mani pulite possa essere soltanto un approccio di tipo quantitativo circoscritto al concreto esito delle indagini e dei processi celebrati in quel periodo. Il discorso è più ampio e complesso, dal momento che ben trascende la conta ragionieristica delle condanne e riguarda piuttosto, com’è facile intuire, due questioni di fondo assai spinose: l’una concernente i rapporti sistemici tra giustizia e politica; l’altra relativa ai limiti di compatibilità tra una guerra a tutto campo alla corruzione e un pur equilibrato rispetto dei principi del garantismo penale. L’affossamento per via giudiziaria del precedente sistema basato sui partiti nati dalla Resistenza, non è stato soltanto un terremoto politico: è stato anche un trauma costituzionale, e ciò per il motivo evidente che la criminalizzazione di quasi un intero asseto politico-governativo esula dalle funzioni tipiche della giurisdizione penale. Ora, questa traumatica rottura dell’equilibrio tra i poteri avrebbe potuto trovare una ragione giustificatrice, beninteso secondo una unilaterale logica utilitaristica di risultato (altro è il discorso guardando da una prospettive più ampia, comprensiva di tutti i valori, principi ed equilibri anche costituzionali in giuoco), ad una condizione: a condizione cioè che la macchina da guerra repressiva riuscisse davvero a sortire come effetto una durevole sconfitta della corruzione pubblica. Cosa che però, come tutti sappiamo, non è invece avvenuta. E lo riconoscono apertamente persino magistrati protagonisti di allora, come Piercamillo Davigo il quale, invero, non si stanca di denunciare che la corruzione è andata estendendosi in maniera più capillare ed è andata via via assumendo forme nuove. Viene spontaneo, allora, chiedersi: valeva la pena che la repressione penale spazzasse via un ceto politico che, riguardato col “senno di poi” – e tanto più se messo a confronto con le poco felici performances almeno di alcuni dei protagonisti delle stagioni politiche successive – , ci appare forse meno incapace e indegno di quanto in quel momento non sembrasse? E valeva altresì la pena che la repressione, per di più, assumesse maniere così drastiche da perdere di vista che la lotta alla corruzione non avrebbe potuto in ogni caso giustificare un utilizzo più che disinvolto di carcerazioni preventive finalizzate alla collaborazione giudiziaria né, a maggior ragione, logiche inquisitorie suscettibili di accrescere il rischio (forse non sempre astratto) di reazioni suicidiarie? Secondo una stima recente relativa al periodo 1992-1994, i suicidi di persone coinvolte dalle indagini ammonterebbero al numero tutt’altro che irrilevante di 32! Il frutto di quell'epoca, oggi, è un'azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti. Gli ostinati difensori di Mani Pulite potrebbero, nonostante tutto, obiettare che la rivoluzione giudiziaria fu oggettivamente necessitata tanto nel suo ambito di estensione, quanto nelle sue risolute modalità di attuazione. Ma solo una ingenuità puerile o un pregiudizio favorevole contiguo al fanatismo possono indurre a crederlo davvero: in realtà, quanto e come intervenire la macchina giudiziaria non può mai deciderlo da se stessa, in modo automatico e impersonale; lo decidono, con ampia discrezionalità di fatto se non di diritto, i magistrati in carne ed ossa competenti a farla funzionare. Ciò è tanto più vero di fronte ad una impresa giudiziaria priva di precedenti come quella milanese: questa inusitata impresa non avrebbe, in effetti, potuto vedere la luce se il pool di pubblici ministeri non si fosse intenzionalmente accollata la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica al fine di promuovere un ricambio della classe dirigente, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. E, infatti, i giudici ricevettero un esplicito ed entusiastico sostegno da parte di una opinione pubblica politicamente trasversale e di quasi tutto il sistema mediatico: per cui essi finirono col sentirsi legittimati a portare avanti questa vasta azione repressiva, più che in forza di un astratto obbligo legale, dalla diffusa richiesta popolare di fare piazza pulita della partitocrazia corrotta. Che all’origine di Mani Pulite vi fu (e non poteva non esserci) un complesso intreccio di fattori oggettivi di contesto e di protagonismo soggettivo sul versante magistratuale è del resto un assunto che trova conferma anche in alcune significative testimonianze di quella fase storica, così come riportate in qualche saggio ricostruttivo apparso in questo venticinquennio. Leggendo ad esempio la storia di Tangentopoli scritta da Marco Damilano (Laterza 2012), ci si imbatte in questo emblematico giudizio di un osservatore privilegiato come il noto imprenditore Carlo De Benedetti: “Una combinazione di protagonismo dei giudici e di un vaso ormai troppo pieno” (dove è chiaro che per vaso troppo pieno è da intendere una grave situazioni di crisi a più livelli). Orbene, proprio questo forte attivismo giudiziario, in funzione miratamente antagonistica rispetto al sistema partitico di allora, ha determinato non soltanto una esposizione politica della procura milanese eccedente i contraccolpi oggettivamente destabilizzanti che le indagini sulle vicende corruttive avrebbero comunque prodotto sulla tenuta dei partiti di governo: si è invero assistito a una sovraesposizione politica che ha finito con l’assumere la caratteristica aggiuntiva di un paradigmatico populismo giudiziario. Intendendo per tale, appunto, la forma di manifestazione del populismo penale sul piano specifico della giurisdizione: fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende, anche grazie a una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale. Non è un caso, allora, che questa figura di magistrato-tribuno, oltre ad impersonare di fatto un ruolo ibrido di attore giudiziario-politico-mediatico, finisca col cedere alla tentazione di entrare in politica e talvolta col dare persino vita a movimenti anti-sistema di impronta personale: le esemplificazioni sono così note che possiamo qui fare a meno di esplicitarle. Il frutto di quell’epoca, oggi, è un’azione giudiziaria che tende a realizzare invasioni di campo in ambiti politicamente rilevanti. Sembra, dunque, abbastanza plausibile sostenere che Mani Pulite abbia avuto ricadute politiche ad amplissimo raggio che vanno al di là del colpo di grazia inferto al tradizionale sistema partitocratico: una magistratura consapevolmente operante come strumento di rivincita della società civile contro i partiti corrotti e i metodi utilizzati, in particolare, da un accusatore-tribuno del popolo come Antonio Di Pietro diedero infatti – come ha ad esempio apertamente riconosciuto Romano Prodi nel contesto di un libro-intervista su politica e democrazia (Laterza 2015) – un fortissimo impulso alla “stagione di un populismo senza freni”. Se ciò è vero, e se si condivide la convinzione che il populismo politico (comunque declinato: di destra, di sinistra o anche di destra-sinistra miste) non rappresenti una risposta intelligente ed efficace alla crisi della democrazia, prima di auspicare nuove rivoluzioni giudiziarie modello Mani Pulite bisognerebbe riflettere in maniera ponderata sul rischio che una giustizia penale caricata di missioni palingenetiche produca, alla fine, più danni che vantaggi. Segnalare questo rischio equivale a dare un giudizio negativo su un’impresa giudiziaria che è stata invece tante volte elogiata? Un consuntivo a venticinque anni di distanza, per quanto più distaccato e meno emotivo, non può non risentire (oltre che di pudori politicamente corretti) dell’orientamento politico-culturale e della sensibilità personale di chi giudica. Ma non è privo di significato che abbiano avuto ripensamenti anche alcuni di quelli che furono allora aperti sostenitori della rivoluzione giudiziaria, come ad esempio Piero Ottone: “In realtà, un po’ mi ricredo. Penso adesso, a tanti anni di distanza, che la pulizia improvvisa, la moralità imposta da un giorno all’altro, creava altri problemi (…). La lunga stagione di procedimenti giudiziari ha prodotto altri guai: se si eliminavano certi malanni se ne producevano altri. Infatti: molti magistrati ne hanno tratto una sensazione di onnipotenza, sono sbandati per altri versi” (citazione tratta dal libro di memorie Novanta, Longanesi 2014). Comunque la si pensi, certo è che Mani Pulite, oltre a non avere sconfitto la corruzione, ha contribuito anche per successiva emulazione ad alimentare tendenze ad un esercizio politicamente mirato dell’azione giudiziaria che da un lato hanno più volte continuato a produrre perniciose sovrapposizioni tra giustizia e politica e, dall’altro, hanno finito col determinare nei cittadini una progressiva caduta di fiducia rispetto all’imparzialità del potere giudiziario: secondo recenti sondaggi, infatti, la stragrande maggioranza (il 69 per cento) ritiene che alcuni settori della magistratura perseguano obiettivi politici, mentre all’epoca del pool milanese a confidare nei giudici era l’83 per cento delle persone (cfr. i dati riportati da Goffredo Buccini nel Corriere della sera del 22 marzo scorso). Se queste percentuali sono attendibili, risulta in realtà avvalorata la preoccupazione che l’uso politico della giustizia rappresenti – non meno del populismo nelle sue variegate forme – un pericolo mortale per la democrazia: perché ingenera l’illusione (che può risultare, a sua vota, deresponsabilizzante per la classe politica) che il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica possano essere perseguiti per via giudiziaria; e perché, per altro verso, assoggetta anche l’azione giudiziaria alla logica e ai metodi della contesa politica, così rinnegando l’imparzialità della magistratura quale principio-cardine di una democrazia degna di questo nome.

La contabilità di Mani pulite non dimostra la corruzione, ma il fallimento della rivoluzione per via giudiziaria-populista. L'operazione fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta, scrive Maurizio Crippa il 20 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Armarsi di pallottoliere è probabilmente il modo più congruo per affrontare il venticinquesimo “anniversario” di Mani pulite, schivando un certo schifo per le cose che si leggono oggi e senza dover ripercorrere tutta quanta la storia di questo giornale (rileggete Novantatré di Mattia Feltri, la ricostruzione giorno per giorno di quell’anno scritta nel 2003 per il Foglio, basta). Aiuta nella contabilità Repubblica, che ieri faceva “lezione” coi numeri: “Ben 4.520 persone vennero indagate nel solo filone milanese di Mani pulite”. Bisogna prendere sul serio queste cifre, quelle del “pool”. Su 4.520 iscritti nel registro degli indagati, derivarono 3.200 richieste di rinvio a giudizio (1.320 atti trasmessi ad altre autorità giudiziarie). Delle 3.200 persone giudicate a Milano: 620 condanne e patteggiamenti del gip, 635 proscioglimenti del gip (+15). Delle 1.322 persone rinviate a giudizio: 661 condanne, 476 assoluzioni. (Nel 2003 c’erano ancora 117 casi pendenti: la rapidità dell’indagine-lampo). Dunque in totale, su 4.520 persone finite nelle onnipotenti mani del pool, e su 3.200 rinviati a giudizio, le condanne sono 1.281 (965 per patteggiamento) e 1.111 le assoluzioni e proscioglimenti. Meno della metà dei processati è stata condannata, quasi altrettanto assolta. Significa che più del 50 per cento di quei processi e di quegli arresti (“noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato”, proclamò Francesco Saverio Borrelli), potevano non essere fatti, o non andavano fatti. Se valutasse il tasso di produttività del pool, e di efficienza negli esiti processuali, l’amministrazione dello stato avrebbe di che lagnarsi. Questo permette di dire due cose, fuori dalle polemiche e dalle retoriche. Quando oggi un ex magistrato del pool come Piercamillo Davigo – e alcuni altri con lui, tra cui certi bonapartisti ex cronisti di procura – sostiene che il fallimento di Mani pulite consiste nel fatto che la corruzione non è stata debellata, anzi è aumentata (“non si vergognano più”, è l’estremizzazione di Davigo), dice una cosa oggettivamente falsa. Non si poteva debellare la corruzione di un “sistema” con quei mezzi, cioè forzando le procedure e impedendo manu militari al sistema di riformarsi. Il fallimento dell’operazione – e dell’ideologia giudiziaria – di Mani pulite risiede nel fatto che fu condotta come una gigantesca retata della buoncostume, impostata su reati e fattispecie di reati spesso ambigui, forzati, creati di sana pianta (la “dazione ambientale” sembrò assumere la concretezza di una mela rubata dal cesto). E questo, oltre alle ingiuste accuse e detenzioni, e alle conseguenze politiche prodotte (“il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”, Italo Ghitti), ha impedito di individuare i veri reati (c’erano). La seconda cosa è che il fallimento di Mani pulite è soprattutto il fallimento delle false aspettative messianiche suscitate nell’opinione pubblica da forzature mediatiche e politiche miopi o di marca populista. I danni li vediamo ancora oggi. A questa contabilità andrebbero aggiunti i troppi suicidi, 32 tra il 1992 e il 1994 (“si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”, Gerardo D’Ambrosio su Sergio Moroni). Ma il pallottoliere lo teniamo nel cassetto, per la prossima occasione.

Tangentopoli, così i pm salvarono il Pci, scrive Fabrizio Cicchitto l'1 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Tutti i partiti prendevano finanziamenti “aggiuntivi”, ma, a differenza del Psi, Botteghe Oscure fu salvata. Si distrusse una intera classe politica. Prima vinse Berlusconi, poi fu fatto fuori anche lui. E oggi trionfa il populismo. L’Italia, nel ’ 92-’ 94, fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica.  Qualora il pool di Mani Pulite avesse agito con la stessa determinazione e violenza negli anni 40 e 50 di quella messa in evidenza nel ’ 92-’ 94, allora De Gasperi, Nenni, Togliatti sarebbero stati incriminati e Valletta e Enrico Mattei sarebbero stati arrestati. Il finanziamento irregolare dei partiti e la collusione fra questi, i grandi gruppi pubblici e privati e relative associazioni (in primis Fiat, Iri, Eni, Montecatini, Edison, Assolombarda, Cooperative rosse, ecc.) data da allora. In più c’era un fortissimo finanziamento internazionale: la Dc era finanziata anche dalla Cia, e il Pci in modo così massiccio dal Kgb che le risorse ad esso destinate erano più di tutte quelle messe in bilancio per gli altri partiti e movimenti. In una prima fase, la Fiat finanziava tutti i partiti “anticomunisti” poi coinvolse in qualche modo anche il Pci quando realizzò i suoi impianti in Urss. Per Enrico Mattei i partiti erano come dei taxi, per cui finanziava tutti, dall’Msi, alla Dc, al Pci, e perfino la scissione del Psiup dal Psi, e fondò anche una corrente di riferimento nella Dc con Albertino Marcora, partigiano cattolico e grande leader politico: quella corrente fu la sinistra di Base che ha avuto un ruolo assai importante nella Dc e nella storia della Repubblica. Fino agli anni 80 questi sistemi di finanziamento irregolare procedettero “separati” vista la divisione del mondo in due blocchi, poi ebbero dei punti in comune: nell’Enel ( attraverso il consigliere d’amministrazione Giovanni Battista Zorzoli prima titolare di Elettro General), nell’Eni ( la rendita petrolifera di matrice sovietica) e specialmente in Italstat ( dove veniva realizzata la ripartizione degli appalti pubblici con la rotazione “pilotata” fra le grandi imprese edili, pubbliche e private, con una quota fra il 20% e il 30% assegnata alle cooperative rosse). Per molti aspetti quello del Pci era il finanziamento irregolare a più ampio spettro, perché andava dal massiccio finanziamento sovietico al commercio estero con i Paesi dell’est, alle cooperative rosse, al rapporto con gli imprenditori privati realizzato a livello locale. Emblematici di tutto ciò sono le citazioni da tre testi: un brano tratto dal libro di Gianni Cervetti L’oro di Mosca ( pp. 126- 134), un altro tratto dal libro di Guido Crainz Il paese reale ( Donzelli, p. 33), il terzo estratto è da una sentenza della magistratura di Milano sulla vicenda della metropolitana. Così ha scritto Gianni Cervetti: «Nacque, credo allora, l’espressione “amministrazione straordinaria”, anzi “politica dell’amministrazione straordinaria”, che stava appunto a indicare un’attività concreta (nomina sunt substantia rerum) anche se piuttosto confusa e differenziata. A ben vedere, poteva essere suddivisa in due parti. Una consisteva nel reperire qualche mezzo finanziario per il centro e le organizzazioni periferiche facendo leva su relazioni con ambienti facoltosi nella maniera sostanzialmente occulta cui prima ho accennato. In genere non si compivano atti specifici contro le leggi o che violavano norme amministrative precise, ma si accettavano o ricercavano finanziamenti provenienti da imprenditori non più soltanto vagamente facoltosi, ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica. Tuttavia, in sistemi democratici, o pluripartitici, o a dialettiche reali – siano essi sistemi moderni o antichi, riguardanti tutto il popolo o una sola classe – pare incontestabile che in ogni partito coesistano i due tipi di finanziamento ed esista, dunque, quello aggiuntivo. Naturalmente – lo ripetiamo – di quest’ultimo, come del resto del primo, mutano i caratteri, le forme ed i contenuti a seconda dei partiti e dei periodi: anzi mutano i rapporti quantitativi dell’uno con l’altro, ma appunto quello aggiuntivo esiste in maniera costante. Comunque sia non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fondi per i finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua, o viceversa, insincera e ipocrita. Il problema, ripetiamo, lo abbiamo preso alla larga, e si potrebbe allora obiettare che aggiuntivo non corrisponda esattamente, e ancora, a illecito. Intanto, però, abbiamo dimostrato che il finanziamento aggiuntivo è storicamente dato e oggettivamente ineluttabile». Il fatto che anche il Pci, sviluppando la «politica dell’amministrazione straordinaria», accettava o ricercava finanziamenti provenienti da imprenditori «non più soltanto vagamente facoltosi ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica» mette in evidenza che anche «nel caso del Pci il reato di finanziamento irregolare poteva sfociare in quello di abuso in atti d’ufficio o in corruzione o in concussione». Così ha scritto lo storico Guido Crainz: «È uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974, quando è all’esame del parlamento la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La discussione prende l’avvio dalla “esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo” ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico affiorare di “imbarazzi o compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche”. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi “una duplice autonomia…: autonomia internazionale ma anche da condizionamenti di carattere interno…. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economico e, per giunta, per qualcosa di estremamente meschino” (intervento di Giorgio Napolitano alla riunione della direzione del 3 giugno 1974)». «Nel dibattito non mancano ammissioni di rilievo. “Molte entrate straordinarie”, dice ad esempio il segretario regionale della Lombardia Quercioli, “derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione poi finisce per toccare anche il nostro partito” (intervento di Elio Quercioli nella riunione della direzione del 1° febbraio 1973). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno: di qui la decisione di utilizzare la legge per porre fine a ogni coinvolgimento del partito. Si deve sapere, dice armando Cossutta, “che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente. Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà ma far intendere agli altri che certe operazioni noi non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose assai più di prima” (intervento di Armando Cossutta alla direzione del 3 giugno 1974). È illuminante, questa sofferta discussione del 1974. Rivela rovelli veri e al tempo stesso processi cui il partito non è più interamente estraneo». La sentenza del tribunale di Milano del 1996 sulle tangenti della Metropolitana è molto precisa: «Va subito fissato un primo punto fermo: a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non soltanto alcune sue componenti interne, venne direttamente coinvolto nel sistema degli appalti Mm, quanto meno da circa il 1987». Per il tribunale «risulta dunque pacifico che il Pci- Pds dal 1987 sino al febbraio 1992 ricevette quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti Mm una somma non inferiore ai 3 miliardi» raccolti da Carnevale e da Soave, non solo per la corrente migliorista ma anche per il partito. Carnevale coinvolse anche il segretario della federazione milanese, Cappellini, berlingueriano di stretta osservanza: «Fu Cappellini, segretario cittadino dell’epoca, ad affidarmi per conto del partito l’incarico che in precedenza aveva svolto Soave». La regola interna era quella che «dei tre terzi delle tangenti raccolte (2 miliardi e 100 milioni in quel periodo solo per il sistema Mm), due terzi dovevano andare agli “occhettiani”, cioè a Cappellini, un terzo ai miglioristi di Cervetti».

Alla luce di tutto ciò è del tutto evidente che Berlinguer quando aprì la questione morale e parlò del Pci come di un “partito diverso” o non sapeva nulla del finanziamento del Pci oppure, per dirla in modo eufemistico, si espresse in modo mistificato e propagandistico. Orbene questo sistema dal quale ricevevano reciproco vantaggio sia i partiti, sia le imprese, e che coinvolgeva tutto e tutti, risultò antieconomico da quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht e quindi tutti i gruppi imprenditoriali furono costretti a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Esistevano tutti i termini per una grande operazione consociativa, magari accompagnata da un’amnistia che superasse il sistema di Tangentopoli. L’amnistia ci fu nel 1989, ma servì solo a “salvare” il Pci dalle conseguenze giudiziarie del finanziamento sovietico, il più irregolare di tutti, perché proveniva addirittura da un paese contrapposto alle alleanze internazionali dell’Italia. Per altro verso, Achille Occhetto, quando ancora non era chiaro l’orientamento unilaterale della procura di Milano, nel maggio del ’ 92, si recò nuovamente alla Bolognina per “chiedere scusa” agli italiani. Occhetto invece non doveva preoccuparsi eccessivamente. Il circo mediatico- giudiziario composto da due pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali (Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità) mirava contro il Caf, cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro- destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche i quadri intermedi del Pci- Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc. La prova di ciò sta nel modo con cui fu trattato il caso Gardini: è accertato che Gardini portò circa 1 miliardo, d’intesa con Sama e Cusani, alla sede del Pci avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema. Suicidatosi Gardini, Cusani e Sama sono stati condannati per corruzione: il corrotto era dentro la sede di via delle Botteghe Oscure, ma non è mai stato identificato. Ha osservato a questo proposito Di Pietro: «Ecco, questo è l’unico caso in cui io arrivo alla porta di Botteghe oscure. Anzi, arrivo fino all’ascensore che porta ai piani alti… abbiamo provato di certo che Gardini effettivamente un miliardo lo ha dato; abbiamo provato di certo che l’ha portato alla sede di Botteghe oscure; abbiamo provato di certo che in quel periodo aveva motivo di pagare tangenti a tutti i partiti, perché c’era in ballo un decreto sulla defiscalizzazione della compravendita Enimont a cui teneva moltissimo». Di Pietro aggiunse: «Non è che potevo incriminare il signor nome: partito, cognome: comunista». Giustamente l’erede di quel partito, il Pds, lo elesse nel Mugello.

Al processo Enimont il presidente del tribunale neanche accettò di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni. Analoga linea fu seguita nei confronti del gruppo dirigente della sinistra Dc: Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra democristiana, e di un circolo che ad essa faceva riferimento, fu condannato, avendo ricevuto soldi Enimont in quanto agiva, recita testualmente, la sentenza «per conto dell’onorevole Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra Dc» ma essi potevano non sapere. Quella fu la grande discriminante attraverso la quale il circo mediatico- giudiziario spezzò il sistema politico, ne distrusse una parte e ne salvò un’altra: Craxi, il centrodestra della Dc (Forlani, Gava, Pomicino e altri), Altissimo, Giorgio la Malfa, Pietro Longo, non potevano non sapere, il gruppo dirigente del Pci- Pds e quello della sinistra Dc potevano non sapere.

È evidente che dietro tutto ciò c’era un progetto politico, quello di far sì che, venendo meno la divisione in due blocchi, il gruppo dirigente del Pds, magari con l’aiuto della sinistra Dc, finalmente conquistasse il potere. Il pool di Milano non poteva prevedere che, avendo distrutto tutta l’area di centro e di centro- sinistra del sistema politico, quel vuoto sarebbe stato riempito da quel Silvio Berlusconi che, pur essendo un imprenditore amico di Craxi, era stato risparmiato dal pool di Mani Pulite perché durante gli anni ’ 92-’ 94 aveva messo a disposizione della procura le sue televisioni. Non appena (fino al 1993) il pool di Milano si rese conto che Berlusconi stava “scendendo in politica”, ecco che subito cominciò contro di lui il bombardamento giudiziario che si concluse con la sentenza del 2013. Ma anche il modo con cui fu trattato il rapporto del pool con i grandi gruppi finanziari editoriali Fiat e Cir, fu del tutto atipico e al di fuori di una normale prassi giudiziaria. Per tutta una fase ci fu uno scontro durissimo tra la Fiat e la magistratura, accentuato dal fatto che a Torino il procuratore Maddalena agiva di testa sua. Poi si arrivò alla “pax” realizzata attraverso due “confessioni” circostanziate, attraverso le quali la Fiat e la Cir appunto “confessarono” di aver pagato tangenti perché concussi da quei “malvagi” dei politici. Così il 29 settembre del 1992 Cesare Romiti andò a recitare un mea culpa dal cardinale Martino: «Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato personalmente scosso da questi avvenimenti. No, non ho paura di dirlo. E di fronte al cardinal Martini, la più alta carica religiosa e morale di Milano, non potevo non parlarne». Qui interveniva l’autoassoluzione. Infatti, secondo Romiti, la responsabilità era della classe politica che «ha preteso da cittadini e imprese i pagamenti di “compensi” per atti molto spesso dovuti».

Possiamo quindi dire che l’Italia, unico paese dell’Occidente, nel ’ 92-’ 94 fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico- giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica, con una conseguente perdita di consensi. Il fatto che, a 10 anni di distanza, una parte di quei dirigenti fu assolta non servì certo a recuperare i consensi politicoelettorali perduti. La conseguenza di tutto ciò sono state due: una perdita crescente di prestigio di tutti i partiti, anche di quelli che furono “salvati” dal pool, una parcellizzazione della corruzione tramutatasi da sistemica a reticolare ( una miriade di reti composte da singoli imprenditori, singoli burocrati, singoli uomini politici), l’esistenza di un unico sistema di potere sopravvissuto, quello del Pci- Pds, che a sua volta ha prodotto altre vicende, dal tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl, alla crisi del Mps. Di qui la conseguente affermazione di movimenti populisti e di un partito protestatario la cui guida è concentrata nelle mani di due persone, il crescente discredito del parlamento sottoposto a un bombardamento giudiziario realizzato anche da chi (vedi Renzi) pensa in questo modo di poter intercettare a suo vantaggio la deriva dell’antipolitica. Ma è una operazione del tutto velleitaria, perché le persone preferiscono la versione originale del populismo e non le imitazioni. Perdipiù i grillini, cavalcando la guerra alla “casta” – inventata da due giornalisti del Corriere della Sera e sostenuta da un grande battage pubblicitario – cavalcano di fatto la manovra diversiva posta in essere da banchieri e manager, proprietari dei grandi giornali, per deviare l’attenzione dalle loro spropositate retribuzioni e liquidazioni: i circa 100 mila euro annui dei parlamentari servono a far dimenticare i 2- 3 milioni di euro che il più straccione dei banchieri guadagna comunque, anche se porta alla rovina i correntisti della sua banca. Di tutto ciò traiamo la conseguenza che il peggio deve ancora arrivare.

Bobo Craxi e Di Pietro si trovano insieme nel medesimo partito. Il figlio dell'ex segretario socialista e l'ex pm simbolo di Mani Pulite si ritrovano entrambi ad aderire ad Mdp. Ma Craxi avverte: "Se è così, vado a casa", scrive Luca Romano, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". Craxi contro Di Pietro: sembra un remake del 1992 ma siamo nel 2017 e il primo non è Bettino ma suo figlio Bobo, secondogenito dell'ex presidente del Consiglio. Eppure il figlio dell'ex segretario socialista non ha mai smesso di scontrarsi con l'ex pm simbolo di Mani Pulite e poi leader dell'Italia dei Valori, per motivi anche troppo evidenti. Tuttavia questa volta il motivo dello scontro è particolarmente singolare: Craxi e Di Pietro rischiano infatti di trovarsi nel medesimo partito. Per buffo che possa sembrare, infatti, entrambi hanno manifestato l'intenzione di aderire ad Mdp, la formazione di sinistra nata da una scissione dal Pd che comprende Roberto Speranza, Arturo Scotto ed Enrico Rossi. Si tratta naturalmente di una pura coincidenza, giacché nessuno dei due avrebbe mai avuto l'intenzione di andare a "coabitare" con l'altro sotto il medesimo tetto politico. Secondo il Corriere entrambi vi sono stati attirati da un antico rapporto di simpatia con Massimo D'Alema, a cui tutti e due sono legati, per motivi differenti, da vincoli di riconoscenza. Il figlio di Bettino si è presentato alla festa di Mdp a Napoli, mentre Di Pietro annuncia soddisfatto di sentire nella formazione di Speranza e Bersani "la stessa aria che si respirava nell'Ulivo". Al momento di scoprire la coincidenza, però, l'imbarazzo è stato palpabile. Per Craxi piuttosto di convivere "sarebbe meglio rimanere a casa", mentre Di Pietro è più serafico: pur non avendo mai avuto parole tenere verso il figlio del suo storico avversario ora liquida il tutto con calma olimpica. "Problemi suoi": Tonino non cede di un passo.

Lo strano caso di Di Pietro e Bobo Craxi: si ritrovano nello stesso partito. Entrambi aderiscono a Mdp, non senza qualche imbarazzo. Il figlio di Bettino: «Se è così, allora dovrò stare a casa». L’ex magistrato: «Problemi suoi. E mi dispiace per lui, non ho intenzione di candidarmi alla carica di governatore in Molise», scrive Maria Teresa Meli il 3 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Finora c’erano stati i partiti a separarli, anche quando avevano militato nella stessa coalizione. E così avevano potuto continuare a parlare male l’uno dell’altro. Ma adesso le cose sono cambiate. Bobo Craxi, figlio di Bettino, classe 1964, e Antonio Di Pietro, grande accusatore dello scomparso leader socialista, dividono lo stesso tetto politico: entrambi hanno deciso di aderire a Mdp, il movimento nato dalla scissione del Pd. Hanno passato gli anni, anzi, i decenni, a darsi addosso. Bobo diceva dell’ex magistrato: «Si vede che è un uomo meschino». E Di Pietro ricambiava la cortesia senza pensarci troppo: «Tale padre tale figlio», affermava con aria sprezzante. Da allora è passato un po’ di tempo. Craxi si è ingrigito, l’ex pm ha perso più di un capello, entrambi hanno acquistato qualche chilo in più, ma le tensioni restano inalterate. I due non si piacciono e non si amano. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Bobo ancora si commuove se vede scorrere le immagini del processo Enimont, con il padre alla sbarra e Di Pietro in toga che lo interroga. Eppure la sorte ha voluto che, girovagando di partito in partito nell’arcipelago frastagliato che sta a sinistra del Pd, si ritrovassero insieme. Galeotto è stato D’Alema. Craxi è suo grande estimatore: gli è riconoscente perché, quando era al governo, cercò di far rientrare il padre in patria. Anche Di Pietro ha un debito di gratitudine: deve a D’Alema il seggio nel Mugello. Perciò prima l’uno (l’ex magistrato) e poi l’altro hanno annunciato la loro volontà di aderire a Mdp. Lo hanno fatto con tanto di dichiarazione formale. Di più: Craxi è andato anche alla festa degli scissionisti a Napoli per incontrare una delegazione composta da Arturo Scotto, Roberto Speranza ed Enrico Rossi. Ovviamente Di Pietro non sapeva delle intenzioni di Bobo e viceversa. Situazione imbarazzante per entrambi, non c’è che dire. Soprattutto per Craxi, perché gli ex socialisti non è che abbiano peso bene questa comune militanza politica. E adesso Bobo spera che Di Pietro non stia facendo sul serio: «Forse vuole solo un posto di governatore in Molise...». Ma quando gli si fa presente che così non è, che l’ex magistrato non è interessato a guidare la sua regione e che, piuttosto, intende fare politica attivamente dentro Mdp ha un sussulto. Seguito da un mesto mormorìo: «Se Di Pietro aderisce veramente, allora per me è meglio stare a casa». Di Pietro, invece, non fa una piega. Assiso su un divanetto di Montecitorio l’ex pm, ex ministro, ex deputato ed ex leader dell’Italia dei Valori sta conversando fitto fitto con Antonello Falomi, un passato da occhettiano, un presente da sindacalista di tutti i parlamentari che non vogliono veder dileguarsi i loro vitalizi. «Stiamo difendendo la casta», ridacchia Di Pietro. Poi, al nome Craxi sfodera un cipiglio di quelli che incutono timore. Ma appurato che si tratta del figlio e non del padre si rilassa: «Problemi suoi. Io ho aderito a Mdp perché qui respiro la stessa aria che respiravo nell’Ulivo. E mi dispiace per lui, non ho intenzione di candidarmi in Molise». Per il 19 novembre è prevista la grande costituente degli scissionisti del Pd. Per allora Bobo dovrà prendere una decisione: stare a casa o convivere con il “nemico”.

Bobo Craxi, Di Pietro tecnicamente pentito. Ha detto cose clamorose su Mani Pulite, scrive l'Ansa il 4 ottobre 2017. "Non faccio parte di Mdp e credo che neanche Di Pietro ne faccia parte. La vicenda di Di Pietro, un magistrato prestato alla politica, è molto diversa dalla mia. Ultimamente è stato consulente della Lega; si è riavvicinato al M5S, respinto credo, ora si dice interessato a questa vicenda. Non so cosa c'entri lui con la storia della sinistra. Negli ultimi tempi ha detto cose clamorose sul ruolo di Mani pulite mentre io e i miei compagni non cambiamo il nostro giudizio su Mani Pulite: tecnicamente Di Pietro è un pentito". Sono le parole di Bobo Craxi ai microfoni di Fuori Gioco - Rai Radio1. Intervenuto in collegamento da Barcellona ha aggiunto poi sulla vicenda catalana: "Si finirà per andare ad elezioni e così si misureranno le forze in campo".

L’unico errore giudiziario è l’innocente. Davigo spiega con chiarezza perché siamo tutti potenziali colpevoli, scrive il 28 Gennaio 2017 "Il Foglio". Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha tenuto una lezione di diritto da incorniciare: gli errori giudiziari non esistono. Non nel senso che non ce ne sono stati l’anno passato – solo nel 2016 lo stato ha speso 42 milioni per risarcirli – ma nel senso che non esistono proprio. Quelli per cui lo stato paga non sono errori giudiziari: sono accidenti. Davigo spiega che si confondono due cose, gli errori giudiziari e l’ingiusta detenzione. Gli errori giudiziari sono quando viene condannato un colpevole, ma “il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere”. L’ingiusta detenzione avviene quando si arresta una persona sulla base di alcune dichiarazioni e indizi “ma se poi nel processo un testimone cambia versione perché viene minacciato, l’arrestato viene liberato e pure risarcito”. Per il Consiglio d’Europa in Italia c’è bisogno di mettere limiti alla politicizzazione nella magistratura. Seguendo il ragionamento, gli errori giudiziari non sarebbero errori e le ingiuste detenzioni non sarebbero tali. Anzi, sarebbero la prova che il sistema funziona benone. Questo non vuol dire, però, che non ci siano errori in assoluto, c’è una fattispecie sottovalutata: “Quando viene assolto un colpevole”. E qui Davigo, con formidabile guizzo d’ingegno, demolisce l’intera struttura della giustizia: ogni innocente assolto, in realtà, è un potenziale colpevole, un errore giudiziario. Azzardiamo una soluzione: far pagare un risarcimento a ogni persona che esce da un processo senza condanne. E col ricavato, creare un fondo per le vittime della malagiustizia: i magistrati che sbagliano perché tratti in errore da testimoni falsi.

Anche gli innocenti sono colpevoli. Davigo e il rovescio dello stato di diritto. Anche a "Porta a Porta" il presidente dell’Anm insiste nel dire che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni, e la vittima in questi casi è solo il magistrato, scrive Luciano Capone il 2 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Ascoltare Piercamillo Davigo è sempre istruttivo, soprattutto per la sua spiccata inclinazione alla chiarezza: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, ama dire citando il Vangelo. L’avevamo lasciato, nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che teorizzava l’inesistenza dell’errore giudiziario. Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) spiegava in televisione, da Corrado Formigli a “Piazza pulita”, che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. Ieri sera Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” per parlare dei 42 milioni di euro per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), ha allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). Gli errori della giustizia ci costano 42 milioni di euro. Ma per Davigo i magistrati sbagliano poco (per fortuna). Nel 2016 lo Stato ha dovuto sborsare oltre 40 milioni di euro. La maggior parte a causa di "ingiuste detenzioni". Spiega Davigo che tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente la seconda, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. Esiste quindi, per il presidente dell’Anm una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. A questo punto, più che fare processi per sanzionare i colpevoli di qualche reato, sarebbe più logico processare tutti per rilasciare alla fine patenti d’innocenza (magari temporanee, da rinnovare ogni tot anni). Quando però Vespa racconta casi di malagiustizia come quello di Giuseppe Gulotta, per 36 anni in carcere da innocente con l’accusa di essere un assassino, il presidente dell’Anm dice che non si tratta di un errore dei magistrati perché “quel caso clamoroso è stato frutto di tortura da parte delle forze di polizia. Il giudice non sa che sono stati torturati”. È stato ingannato. La giustificazione di Davigo però in teoria cozzerebbe con la sua intenzione di far valere nel processo le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti (in quel caso sarebbero proprio quelle estorte attraverso la tortura, come dice lo stesso Davigo), che è uno strumento per non ingannare il giudice. In sintesi se una persona viene assolta non è innocente e se viene condannata ingiustamente il giudice non è colpevole. Le interviste di Davigo sono molto interessanti perché ci ricordano sempre che esiste il rovescio della medaglia, in questo caso il rovescio dello stato di diritto.

Davigo non fa politica, ma il teletribuno. Il numero uno dell'Anm moltiplica le sue apparizioni in tv e si fa intervistare anche dal blog di Beppe Grillo. Obiettivo: spiegare che i politici sono corrotti, scrive il 9 Marzo 2017 "Il Foglio". I magistrati? Tutti cattivi politici. Parola di Piercamillo Davigo. Il presidente dell'Anm lo va ripetendo da settimane. E c'è da credergli visto che lui, a differenza di molti dei colleghi del fantasmagorico pool di Mani Pulite, si è sempre tenuto ben lontano da candidature e partiti. E così, oltre a diventare il numero uno dei magistrati italiani, è anche diventato il perfetto ospite televisivo. Sempre pronto a spiegare a tutti, soprattutto ai politici, quello che dovrebbero fare e come dovrebbero farlo. Nelle ultime due settimane Davigo ha partecipato a Otto e mezzo (22 febbraio), Quante storie (23 febbraio), Un giorno da pecora (24 febbraio), DiMartedì (28 febbraio), #Cartabianca (7 marzo), Agorà (8 marzo), La Gabbia (8 marzo). Non solo, giusto oggi ha concesso un'intervista al portavoce-senatore del M5S Nicola Morra che è stata pubblicata sul Sacro Blog. Si dirà ma in occasione del venticinquesimo anniversario di Tangentopoli chi volete che invitino? Chi meglio di lui può spiegare, parole testuali affidare alla penna di Morra, che "negli ultimi 25 anni la classe politica, per quanto riguarda in particolare le indagini e i processi in tema di corruzione si è data molto da fare, non per stroncare la corruzione ma per stroncare le indagini e i processi, facendo leggi che impedivano le indagini e azzeravano le prove acquisite e creavano enormi difficoltà". Insomma nonostante il ruolino di marcia da politico navigato che passa con disinvoltura da un programma all'altro, dalla radio alla tv, dalla Rai a La7, Davigo politica non fa (anche se c'è chi lo vedrebbe bene come candidato M5s). E proprio per questo può permettersi di dare lezioni. Perché i magistrati sono tutti cattivi politici, ma ottimi ospiti televisivi.

Chi guarda il dito, chi la Luna e chi Woodcock, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". La richiesta di non luogo a procedere nei confronti del pm John Henry Woodcock e della sua compagna Federica Sciarelli per la fuga di notizie sul caso Consip ha fatto scattare gli squilli di tromba dei fedelissimi della procura napoletana. Ecco la prova scrive Marco Travaglio a nome dei soci che il complotto contro Renzi (padre e figlio) era una bufala: «Ora chiedete scusa e andate tutti a nascondervi», chiosa nel suo articolo il direttore de Il Fatto Quotidiano. In carriera ho visto tanti tentativi di manipolare i fatti a proprio piacimento, ma questo raggiunge vette fino ad ora mai raggiunte. Che non ci sarebbero state prove evidenti sul fatto che fosse stata la manina di Woodcock a fare uscire dagli uffici carte riservate lo davo da subito per scontato. Parliamo di un reato praticamente indimostrabile, tendendo ad escludere che un magistrato pur fesso che sia - veicoli documenti per posta elettronica od ordinaria. Che il fatto sia avvenuto è certo, manca solo il nome del colpevole. Se parlassimo del direttore di un giornale, la condanna del pm sarebbe automatica, perché noi come in tutte le professioni - a differenza dei magistrati, purtroppo rispondiamo in solido di omesso controllo sull'operato dei nostri collaboratori. Ma la manipolazione principale della ditta Travaglio sta nel voler far credere che il «complotto» sia la fuga di notizie e non il loro contenuto. Si dice che quando il saggio indica la Luna, lo stolto guarda il dito. In questo caso il dito è la divulgazione illegale, la Luna sono i falsi accertati dell'inchiesta condotta da Woodcock, falsi che riguardando il padre dell'allora presidente del Consiglio e che se non fossero stati smascherati in tempo avrebbero potuto innescare una crisi politica e istituzionale. Nessuna scusa, quindi. Semmai è imbarazzante che la magistratura non sia stata capace di dare un nome a un servitore dello Stato infedele. Del resto, come noto, cane non mangia cane, e il risultato è che un pm sotto la cui regia è stata avviata un'inchiesta con false intercettazioni e false ricostruzioni sulla famiglia del presidente del Consiglio continuerà a fare il suo lavoro. Se qualcuno deve «andare a nascondersi» e «vergognarsi», quel qualcuno non siamo di certo noi che teniamo ben fisso lo sguardo sulla Luna.

Giustizia, Lavia vs Davigo: “Chi risarcisce Penati?”. “C’è onore nel prendere la prescrizione?”, scrive Gisella Ruccia il 4 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Scontro rovente a Dimartedì (La7) tra il magistrato Piercamillo Davigo e Mario Lavia, vicedirettore di Democratica, il quotidiano digitale del Pd renziano. Il dibattito è incentrato sulla politica e sulla magistratura, della quale Lavia rileva “un’anomalia” perdurante da 25 anni: “Nell’era del berlusconismo il dottor Davigo e il pool di Mani Pulite sono state un soggetto politico, tanto è vero che alcuni di loro sono scesi direttamente in politica. E questa è un’anomalia che va corretta: bisogna ritornare a una situazione in cui la politica fa la politica e la magistratura fa liberamente la magistratura senza interferire nei processi politici, cosa che purtroppo è successa spesso”. Davigo replica: “I magistrati si candidano perché c’è qualcuno che li candida. Questo fatto che i magistrati fanno politica è una vergogna, ma c’è qualcuno che concorre con loro nella vergogna”. “Non è una vergogna, è un’anomalia”, minimizza il giornalista. “E’ una vergogna invece – ribadisce Davigo – perché i magistrati non devono fare politica secondo me. In secondo luogo, se i politici dicono di voler aspettare le sentenze, vuol dire che le decisioni politiche su chi deve fare il ministro o il parlamentare le prende il giudice. E questo è sbagliato. Decidano prima per conto loro. Il più delle volte non lo fanno perché non ne hanno la forza e hanno bisogno di un pretesto”. “Non è che siamo in Venezuela. Cioè non è che tutti i politici e i ministri si affidano a un giudice”, obietta Lavia. E il magistrato non ci sta: “Non ho mai detto niente del genere e non mi faccia dire cose che non ho detto. So distinguere i ladri dai non ladri. Faccio questo di mestiere”. Lavia ribatte: “Ci sono alcuni casi in cui degli innocenti sono stati messi alla gogna dalla magistratura, sono caduti dei governi, e mi riferisco al caso Mastella, ma anche al proscioglimento di Ottaviano Del Turco per associazione a delinquere, al caso Tempa Rossa, a Errani, a Penati”. “Non ho capito perché Penati. Ha preso la prescrizione. Di che cosa stiamo parlando?”, controbatte il magistrato. “E’ stato assolto l’altro giorno, la prescrizione era per un’altra cosa – puntualizza Lavia – Come lo risarcisce?”. “Risarcire che cosa? – replica Davigo – Uno che ha preso la prescrizione definitiva? Sarà pure un’altra cosa, ma siccome l’articolo 54 della Costituzione dice che i cittadini a cui sono affidate le pubbliche funzioni devono adempiere a esse con disciplina e onore, allora le chiedo: c’è onore nel prendere la prescrizione?”

A Davigo bisogna dire una cosa. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, specialmente se i magistrati diventano tali in virtù di un concorso truccato.

Poi bisogna dire che essere prosciolto per prescrizione non è un sentenza di assoluzione, né di condanna. E' un giudizio interrotto per tempo scaduto. E la colpa della mancata pronuncia è tutta della magistratura che porta oltre i tempi ragionevoli la durata dei processi.

Essere indagati non è la fine del mondo. Lezioni dai casi Woodcock e Albamonte, scrive Giuseppe De Filippi il 23 Settembre 2017 su “Il Foglio". Al direttore - Associazione nazionale magistrati e indagati. Al direttore - Leggo che il pm Albamonte, capo dell’Anm, è accusato di falso e abuso d’ufficio. Non mi pare ci sia nessun magistrato che ha chiesto le sue dimissioni. Che sorpresa, eh?

Luca Martini: Eugenio Albamonte è un magistrato distante anni luce da Henry John Woodcock ma sia Albamonte sia Woodcock in questa fase sono portatori di un messaggio involontariamente rivoluzionario per la magistratura. Entrambi indagano nell’ambito di un’inchiesta in cui sono a loro volta indagati. Woodcock nell’ambito del caso Consip. Albamonte nell’ambito del caso Occhionero. Involontariamente – e magnificamente – le storie di Albamonte e Woodcock potrebbero diventare un manifesto del garantismo. Se per un magistrato non va applicato il teorema Davigo – “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti” – non si capisce come possa quel teorema essere applicato da ora in poi ad altre categorie di cittadini. Sarà certamente d’accordo con noi Luigi Di Maio, candidato premier del movimento 5 clic nonostante un’iscrizione nel registro degli indagati. Pop corn per tutti.

Scontro D'Amico-Davigo: "Meglio un corrotto ​che lo Stato rotto". Scontro a Di Martedì tra Ilaria D'Amico e Piercamillo Davigo. Il pm: "Onestà precondizione per la carica pubblica". La D'Amico: "Meglio un corrotto che lo Stato rotto", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 4/10/2017, su "Il Giornale". Scontro tra Ilaria D'Amico e Piercamillo Davigo a Di Martedì condotto da Giovanni Floris su La7 del 3 ottobre 2017. La conduttrice di Sky e il magistrato hanno avuto un acceso dibattito sull'onestà di chi si candida ad una carica pubblica. "Io credo che l'onestà debba essere una precondizione per qualsiasi carica pubblica, poi uno deve essere anche bravo", dice Davigo strappando l'applauso del pubblico. La moglie di Buffon non ci sta e decide di rispondere per le righe. Con una frase che però sui social viene già considerata una mezza gaffe. "Il dato dell'onestà dovrebbe essere un dato acquisito nel momento in cui si accede alla cosa pubblica. Se si dimostra disonestà dovrebbero esserci degli strumenti dati alla magistratura per non avvicinarsi più alla cosa pubblica". Poi nel mezzo dell'applauso del pubblico aggiunge, scusandosi per "essere realista": "Io non sono più purista come un tempo, meglio sopportare qualche corrotto che avere uno Stato rotto".

Ilaria D'Amico vs Piercamillo Davigo: video, la giornalista Sky a Di Martedì replica “meglio politico corrotto che uno stato rotto”, al magistrato che aveva detto, "onestà prima di tutto", scrive il 4 ottobre 2017 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Il dilemma è da almeno Tangentopoli che agita la politica italiana: meglio un politico onesto o uno capace? E proprio dall’epoca di Mani Pulite spunta il magistrato Piercamillo Davigo - protagonista insieme al Pool di Milano durante Tangentopoli - che ieri sera durante Di Martedì su La7 ha litigato in maniera forte con Ilaria D’Amico, la bella giornalista Sky e moglie di Gigi Buffon, non la prima volta in veste “politica” invitata sul canale di Urbano Cairo. Il punto del contendere è proprio il rapporto tra capacità e onestà, dalle rivendicazioni di Movimento 5 Stelle ai populisti fino ai casi eclatanti di Consip e altri scandali interni alla politica. «L’essere onesto è la condizione prioritaria per ricoprire qualsiasi carica pubblica. Se un politico è bravo e disonesto è addirittura ancora più pericoloso. Dunque meglio l’onestà, prima di tutto». A quel punto, mentre in studio stavano per prendere parola Massimo Cacciari e Massimo Giannini, la giornalista Sky interviene e replica “piccata” a Davigo, premettendo di voler essere per una volta più realista di “purista”: «Mi dispiace essere realista: sopportare qualche corrotto è meglio che avere lo Stato rotto. Io non sono più purista come un tempo». Apriti cielo, immediatamente lo studio si ribella contro la D’Amico per aver subodorato, tra le righe, una miglior convenienza nell’aver qualche politico corrotto che però fa funzionare meglio lo Stato, piuttosto che avere una Amministrazione Pubblica magari onestissima ma incapace di far funzionare per davvero le cose. L’indignazione di Davigo - giustizialista come da sempre - viene accompagnata dal commento di Cacciari, che in maniera più approfondita (e cogliendo forse il vero nodo della disputa, ndr) prova a rispondere alla D’Amico, per nulla concorde con lei. «Non è che sia meglio o peggio. Dal punto di vista politico, il problema essenziale è la corruzione dello Stato, che, come una macchina rotta, è incapace di muoversi velocemente. La magistratura non può nulla, ma può solo perseguire reati. E se i politici commettono reati, la magistratura li persegue. Qualche volta sbaglia, qualche volta ha ragione, ma il problema non è la magistratura. E’ evidente che è del tutto impotente coi suoi mezzi a impedire alcunché di ciò che avviene in questo Paese, tanto è vero che dopo 25 anni c’è ancora Berlusconi come leader indiscusso e come potenziale padre nobile del futuro primo ministro». Il punto infatti non risiede nel meglio o peggio della politica onesta incapace o corrotta ma capace: in un Paese “ideale” la speranza è avere il meglio di tutto, ma per essere realisti forse non servirebbe “puntare” sui corrotti, ma su quelle buone realtà che ci sono e funzionano senza violare la legge. La giornalista di Sky ha poi spiegato meglio il suo concerto, affermando come «quello che veramente paralizza il Paese è la totale incapacità di fare il politico. Siamo in un periodo in cui gli scandali politici ci sono ancora ma in maniera minore, e secondo me il vero punto “nuovo” risiede nella incapacità di gestire le emergenze di cui soffre l’Italia». E poi ancora, una D’Amico scatenata: «ma vi sembra normale che la Sicilia e la Sardegna non siano valorizzate quanto, senza togliere nulla, alle Canarie? Bisogna imparare a valorizzare meglio il bene che abbiamo», chiosa la giornalista di Sky Sport.

Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.

Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.

La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?

«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.

La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.

Giustizia divina. Dalla legge 40 alle adozioni gay, così i giudici creano una nuova etica, scrive il 9 Marzo 2017 "Il Foglio". Il Tribunale dei minori di Firenze ha disposto la trascrizione in Italia dei provvedimenti emessi da una Corte britannica riconoscendo l’adozione di due bambini da parte di una coppia gay. È la prima volta che accade in Italia. I fratellini sono stati adottati dai due uomini, cittadini italiani, nel Regno Unito, dove risiedono da anni: “Per la prima volta viene riconosciuta in Italia l’adozione di minori all’estero da parte di una coppia di uomini”, fa sapere Rete Lenford, l’Avvocatura per i diritti Lgbt a cui si sono rivolti i due uomini. La magistratura ha assunto un nuovo ruolo chiave: laddove la natura non riconosce un diritto, che da naturale deve diventare positivo, e laddove neppure la politica vuole intervenire, ci pensano i magistrati. Lo abbiamo visto in tante sentenze che hanno letteralmente smantellato la legge 40, una buona legge sulla fecondazione artificiale, facendo entrare per la porta del diritto anche ciò che la legislazione vietava espressamente (maternità surrogata, eterologa, diagnosi eugenetica). Lo stesso vale per le “nuove famiglie”, famiglie omo si intende. È l’etica per via giudiziaria. Già la Consulta e la Cassazione avevano riconosciuto l’unione omosessuale come “formazione sociale”. Lo scorso gennaio, il primo presidente di Cassazione, Giovanni Canzio, aveva parlato delle adozioni da parte delle coppie gay: “La Corte non può e non intende sottrarsi al dovere di apprestare tutela ai diritti fondamentali della persona”. Ormai sono loro, le toghe, i grandi ultimi moralizzatori che fanno e disfanno i principi non negoziabili. Visto che il Parlamento della “casta corrotta” perde tempo, spetta ai magistrati sanare anche questa “emergenza democratica”, riconoscendo le famiglie gay. Li abbiamo visti, i magistrati, impartire lezioni di etica dopo Tangentopoli, chiamati nelle università, nei talk-show, nei convegni. Dentro le aule giudiziarie impartiscono pure lezioni di bioetica. Rete Lenford, decisiva in questa sentenza, ha organizzato convegni con Magistratura Democratica dal titolo “La Costituzione e la discriminazione matrimoniale delle persone gay e lesbiche e delle loro famiglie”. Chiamatela giustizia divina.

L'incubo del governo Davigo, scrive Claudio Cerasa il 5 ottobre 2017 su "Il Foglio". Dimenticate l’incredibile faccia di bronzo di Luigi Di Maio. Dimenticate la ridicola prova di governo di Virginia Raggi. Dimenticate la maschera fintamente rassicurante di Chiara Appendino. Dimenticate i dolci vaffanculo di Beppe Grillo. Dimenticate quello che vedete ogni giorno quando provate a immaginare anche solo per un istante cosa vorrebbe dire essere governati dal cialtronismo grillino e fissate per un attimo nei vostri occhi il vero volto da prendere in considerazione per capire in modo chiaro e diretto l’essenza pura dell’Italia populista. Il volto giusto da cui partire per capire qual è il punto di intersezione perfetto tra tutte le forze anti sistema che si agitano e sbraitano nella pancia del nostro paese è quello a cui più o meno ogni settimana La7 di Urbano Cairo (Giovanni Floris, ma non solo) concede un importante diritto di tribuna: Piercamillo Davigo. Martedì sera, l’ex presidente dell’Anm era ancora una volta ospite da Giovanni Floris a “DiMartedì” (da Floris il martedì sera non c’è più Maurizio Crozza ma in compenso più o meno ogni martedì c’è Piercamillo Davigo) e nel corso della sua sobria e come sempre misurata intervista il conduttore unico delle coscienze populiste italiane (Davigo, non Floris) ha lanciato una bomba accolta in studio con un sorriso dal conduttore de La7 (Floris, non Davigo) e con un ululato di soddisfazione dal pubblico in studio: “L’imputato che non rifiuta la prescrizione è un imputato che deve vergognarsi”. Piercamillo Davigo, come si sa, è un teorico puro e sincero........

Csm, il consigliere Galloppi contro Davigo: "Va in tv e incontra M5s. Smentisca o conseguenze". Ma nessuna norma lo vieta. Il presidente della settima commissione del Consiglio superiore della magistratura attacca l'ex numero uno dell'Anm. Il motivo? La partecipazione al programma DiMartedì su La7. Possibilità che gli è concessa dalla Costituzione, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 ottobre 2017. Promette conseguenze, dà giudizi di merito, evoca addirittura un’azione disciplinare. È un attacco diretto a Piercamillo Davigo quello contenuto nell’intervista rilasciata al Foglioda magistrato Claudio Galoppi, presidente della settima commissione del Consiglio superiore della magistratura. Il motivo? La partecipazione al programma DiMartedì su La7 di Davigo, ex presidente dell’Anm, leader di Autonomia e Indipendenza, corrente trasversale della magistrati, e oggi giudice in Cassazione. “Un giudice in servizio non partecipa a talk show politici lanciando giudizi morali e lasciandosi andare a commenti di natura politica. Così si getta discredito sull’intero ordine giudiziario”, sostiene il membro togato di Palazzo dei Marescialli, esponente di Magistratura indipendente, lasciata proprio da Davigo alla vigilia dell’elezioni ai vertici dell’Anm. Due i motivi che portano Galloppi ad attaccare Davigo. Secondo Il Foglio, infatti, il magistrato a Dimartedì avrebbe detto: “Chi prende la prescrizione deve vergognarsi”. Secondo Galoppi invece “la prescrizione è un istituto legale con una precisa ratio: decorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, viene meno l’interesse dello Stato a esercitare la pretesa punitiva. Non esiste alcuna equiparazione tra prescrizione e colpevolezza perchè nel primo caso non c’è giudizio di merito”. Per la verità, però, diverso era il concetto espresso da Davigo in tv. L’ex pm, infatti, si riferiva al caso di Filippo Penati, l’ex presidente della provincia di Milano, che ha prima annunciato di voler rinunciare alla prescrizione in fase d’indagini preliminari, salvo poi incassare proprio la prescrizione. “Come lo risarcisce?”, si era chiesto Mario Lavia. “Risarcire che cosa? Uno che ha preso la prescrizione definitiva? Sarà pure un’altra cosa, ma siccome l’articolo 54 della Costituzione dice che i cittadini a cui sono affidate le pubbliche funzioni devono adempiere a esse con disciplina e onore, allora le chiedo: c’è onore nel prendere la prescrizione?”, era stata la risposta dell’ex componente del pool di Mani Pulite. Ma non solo. Il consigliere di Palazzo dei Marescialli ha attaccato Davigo anche per un altro motivo. “Mi ha colpito una notizia di alcuni giorni fa secondo la quale si sarebbero tenuti tre incontri tra Davigo e i vertici del Movimento 5 Stelle per mettere a punto un emendamento volto a impedire la candidatura di un noto esponente politico (cioè la cosiddetta norma norma ammazza-Berlusconi, ndr). Mi auguro che arrivi presto una smentita. Se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze. Si tratterebbe di una condotta gravissima”. Ora, a parte che l’incontro tra M5s e Davigo viene smentito da altri appartenenti di Autonomia e indipendente, nessuna regola vieta ad un leader di corrente della magistratura di discutere con un politico di eventuali riforme penali, anzi tutt’altro. In passato sono molteplici i casi di esponenti politici che incontrano magistrati: è successo a Matteo Renzi (che ha incontrato lo stesso Davigo quando era al vertice dell’Anm), ma è successo anche in casi più delicati. Nel 2010, per esempio, l’allora procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, incontrò l’allora presidente del Senato, Renato Schifani: erano i mesi in cui lo stesso ufficio giudiziario siciliano indagava sui contratti tra il politico di Forza Italia e la mafia. Nessuno, all’epoca, chiese procedimento disciplinari per Messineo. Senza considerare che le conseguenze evocate da Galloppi oggi per Davigo non sono certo di competenza del Csm, ma invece del procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare sui magistrati.

La vocazione manettara del Fatto consacrata dal libro di Davigo e Ardita. "Giustizialisti": i due pm contro prescrizione, presunzione d'innocenza, giusto processo e altre ossessioni, scrive Rocco Todero su “Il Foglio” il 12 Aprile 2017. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano da tempo oramai concentrano i loro sforzi nell’attività di divulgazione dei principi fondamentali del giustizialismo manettaro in salsa populista. A dar man forte alla buona riuscita dell’impresa anche la casa editrice diretta emanazione del quotidiano dello “strillone con megafono”, PaperFirst, la quale da qualche giorno può vantare l’uscita in libreria dell’ultima fatica dei magistrati Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, dal titolo provocatorio “Giustizialisti”. Il libro percorre il solco rude e grossolano di una cultura giuridica ostile alle garanzie giurisdizionali pensate per riequilibrare a favore del cittadino un rapporto di forza che sarebbe, diversamente, a tutto vantaggio dell’autorità statale, e tutto questo nonostante le analisi e le riflessioni di cui il volume si compone appartengano a due prestigiosi magistrati impegnati sui fronti caldi della corruzione e della criminalità organizzata, o forse, proprio in ragione degli insegnamenti che essi ritengono di poter trarre da anni di esperienza di magistratura inquirente. La prefazione di Marco Travaglio non lascia presagire, sin da subito, nulla di buono: in Italia il garantismo, la presunzione di innocenza, la separazione dei poteri, sono tutte imposture divenute il rifugio dei peggiori mascalzoni in guanti gialli. Il teorema degli autori si palesa quindi semplice, chiaro e allo stesso tempo disarmante: il sistema giudiziario italiano è al collasso perché troppi e troppo efficaci sono gli istituti processuali che il furfante di turno (l’imputato del processo penale o il debitore in quello civile) può utilizzare per vanificare l’opera di bonifica morale dell’intera società, affidata, e come potrebbe essere diversamente, alla magistratura nazionale. La prescrizione (vera ossessione della coppia Ardita/Davigo), l’accesso all’appello senza alcun limite, i benefici penitenziari, le limitazioni d’uso di alcuni strumenti investigativi (intercettazioni e agenti provocatori su tutti), l’eccessiva ritrosia nell’applicazione delle misure cautelari personali, la motivazione delle sentenze civili e anche la presunzione d’innocenza e il giusto processo, rappresentano ostacoli insormontabili dolosamente disseminanti lungo il percorso della giustizia da un legislatore il cui unico obiettivo sembra quello di sabotare tutti gli sforzi compiuti dai rappresentanti dell’ordine giudiziario. Meglio allora un paese dalla tradizione giuridica invidiabile come la Romania dove le leggi sono molto severe, le carceri parecchio dure e non si è soliti concedere sconti di pena ai criminali. Le soluzioni per l’Italia, tuttavia, sono a portata di mano ed è solo questione di convincere il Parlamento (magari il prossimo a maggioranza a Cinque stelle, chissà) ad agire rapidamente, perché se non bastano allo Stato, ad esempio, 15 anni per processarvi definitivamente per concussione o 10 per corruzione o 7 e mezzo per abuso d’ufficio o 17 anni e mezzo per associazione a delinquere, occorrerà concedere ancora altro tempo, o meglio, tutto il tempo che servirà. Per fare ancora più in fretta, poi, sarebbe meglio eliminare la possibilità di impugnare le sentenze di primo grado o subordinare l’appello a un aggravio di costi e a un aumento di pena direttamente conseguente al semplice rigetto del ricorso, perché, diciamocela tutta, chi è già stato condannato in primo grado non è più imputato in attesa di giudizio ma colpevole in attesa di appello, con buona pace della retorica sull’articolo 27 della Costituzione Repubblicana. L’esperienza avrebbe dimostrato, ancora, che non vi è alcuna necessità di raccogliere la prova in dibattimento a seguito dell’esame e del contro esame di testi e ufficiali di polizia giudiziaria, perché basterebbe per questi ultimi consentire la mera lettura degli atti che sono stati redatti nel chiuso delle loro stanze senza contraddittorio e senza necessità di alcun confronto con le tesi della difesa. Perché mai continuare a insistere, infine, nella rinnovazione del dibattimento penale tutte le volte che nel corso del giudizio cambia la composizione del collegio giudicante, considerato che la credibilità di un teste, di un pentito, la condotta tenuta in giudizio, le esitazioni e tutto il resto possono ben rimanere documentate indelebilmente nei verbali d’udienza? L’adozione di queste misure potrebbe davvero cambiare il volto alla giustizia, secondo i nostri autori, unitamente al potenziamento degli strumenti di indagine e all’inasprimento delle sanzioni detentive da non annacquare con gli sconti di pena annuale concessi per buona condotta (meglio la Romania, come detto). Nella lotta alla corruzione dovrebbe trovare ingresso l’utilizzo dell’agente provocatore, un infiltrato che dovrebbe non già essere testimone di un fatto illecito autonomo, ma che dovrebbe indurre a commettere quel fatto, al fine di saggiare la predisposizione morale e psicologica di politici, imprenditori e funzionari, al compimento di attività criminali da stroncare poi esclusivamente con pene detentive esemplari perché “il governo può snellire la burocrazia, stabilire conflitti d’interesse e incompatibilità… Ma la politica dovrebbe innanzitutto facilitare le indagini sui reati spia della corruzione, perché il più importante deterrente è e sarà sempre la predisposizione di strumenti repressivi”. Manette, manette, manette.

Davigo: non ho mai incontrato Grillo né tramato contro Berlusconi. Il magistrato: la prescrizione? Per i politici ha un peso diverso rispetto agli altri, scrive Giovanni Bianconi il 5 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. «Già domenica mattina ho mandato una e-mail al mio avvocato per dirgli di predisporre una querela contro Il Giornale». Quel giorno campeggiava un titolo in prima pagina: «Trame a 5 stelle - Ecco chi è il mandante dell’agguato a Berlusconi - Vertici segreti tra Grillo e Davigo dietro la legge per fare fuori il cavaliere dalla vita politica».

Che cosa c’era di sbagliato, dottor Davigo?

«Tutto. Non ho mai incontrato Grillo in vita mia, se non quarant’anni fa, lui sul palco e io spettatore di un suo spettacolo. Né ho mai partecipato all’ideazione o alla stesura di qualsivoglia emendamento alla legge elettorale che punti a estromettere Berlusconi dalla vita politica».

E dopo domenica che cosa è successo?

«Lunedì ho telefonato allo stesso avvocato per raccomandargli di sbrigarsi a presentare la denuncia, senza aspettare come suo solito la scadenza dei novanta giorni di tempo, perché tra tante diffamazioni questa mi dà molto fastidio».

Risultato?

«Domani (oggi per chi legge, ndr) andrò nel suo studio a firmare la querela. E mi pare che questa cronologia contenga in sé la smentita attesa dal collega Galoppi».

Claudio Galoppi è il componente del Consiglio superiore della magistratura che ieri, in un’intervista a Il Foglio intitolata «Bordata dal Csm contro Davigo», ha detto, a proposito delle notizie riportate da Il Giornale: «Mi auguro che arrivi presto una smentita; se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze». Galoppi è un rappresentante di Magistratura indipendente, la corrente considerata più a destra nella classificazione politico-culturale delle toghe, da cui Piercamillo Davigo è uscito due anni fa insieme a un consistente numero di colleghi, fondando il gruppo chiamato Autonomia e indipendenza. Tra i motivi della scissione da Mi c’era anche il dissenso con la posizione del leader Cosimo Ferri, che da quattro anni e mezzo occupa la poltrona di sottosegretario al ministero della Giustizia, inizialmente come tecnico in quota Forza Italia e poi, dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza del governo Letta, come tecnico e basta.

Nella sua intervista Galoppi s’è detto allibito se davvero lei avesse affermato che chi non rifiuta la prescrizione dovrebbe vergognarsi, perché “non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali”.

Che cosa replica?

«Che io non stavo parlando della prescrizioni in generale né delle scelte processuali di un cittadino comune, ma del caso specifico dell’ex presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, cioè di una persona che ha svolto ruoli amministrativi. E non ho fatto valutazioni morali, bensì ho citato e interpretato l’articolo 54 della Costituzione, secondo il quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Non mi pare che chi evita una condanna grazie alla prescrizione possa rivendicare di aver svolto il suo compito con onore».

Dunque secondo lei un uomo politico deve sempre rinunciare alla prescrizione?

«Può fare quello che vuole, ma la Costituzione pone una netta distinzione tra i cittadini che esercitano funzioni pubbliche e tutti gli altri. Non sono uguali, perché chi amministra ha doveri e obblighi in più, tra cui quello di adempiere al proprio ruolo con onore. Mi sembra strano che debba ricordare queste cose a un magistrato che siede al Csm».

L’altra sera in tv le hanno chiesto chi risarcisce le persone che escono innocenti dai processi, e lei s’è alterato. Perché?

«Perché nell’elenco avevano inserito Penati, che per un reato ha usufruito della prescrizione pur avendo dichiarato in passato che vi avrebbe rinunciato, e dunque non mi pare che ci sia nulla da risarcire. Io come magistrato svolgo funzioni pubbliche, e se in un procedimento penale vengo accusato di reati poi dichiarati prescritti, per quei fatti scatta l’azione disciplinare. Altro che risarcimento».

Dietro il dibattito che a intermittenza si riaccende sulle sue dichiarazioni c’è sempre il retropensiero che un giorno lei possa scendere in politica, e assumere una carica di governo.

«Sono 25 anni che rispondo che non mi interessa, e che non farò mai politica. E lo ribadisco, di più non posso fare».

Il prossimo anno si voterà per il Parlamento ma anche per il rinnovo del Csm. Lei si candiderà al Csm?

«A questa domanda non rispondo».

Questo significa che potrebbe farlo.

«Significa che non rispondo».

"Frasi gravi e imbarazzanti". Ora il Csm striglia Davigo. Galoppi bacchetta il collega: "Mi auguro smentisca gli incontri con il M5S per suggerire la norma anti Cav", scrive Anna Maria Greco, Venerdì 6/10/2017, su "Il Giornale". Se parlate con magistrati di destra, sinistra, centro, corrente A o corrente B, è un coro di proteste contro le uscite di Piercamillo Davigo. L'ex presidente dell'Anm, già star del pool Mani pulite, con i suoi comizi politici di taglio giustizialista in programmi tv, feste pubbliche e convegni di partito, mette in imbarazzo per primi i suoi colleghi in toga. C'è grande malumore all'Anm e a Palazzo de' Marescialli. Alla prima commissione del Csm e al Procuratore generale della Cassazione (titolare dell'azione disciplinare e membro di diritto del consiglio), arriverà l'esposto del Movimento Fino a Prova Contraria di Annalisa Chirico, che chiede di «fare chiarezza sul rapporto talvolta patologico tra magistrati e mass media», sulla sovraesposizione di toghe come Davigo che, con interventi «apertamente politici», danneggiano l'immagine della categoria. L'ultima che ha sparato martedì dal salotto di Floris su La7 è che «l'imputato che non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi», perde «l'onore». E intanto non ha smentito la notizia pubblicata 5 giorni fa dal Giornale di 3 incontri con esponenti del M5S per scrivere l'emendamento anti-Berlusconi al Rosatellum 2.0, sotto esame alla Camera. In sua vece è intervenuto il paladino Marco Travaglio su Il Fatto, appoggiando la posizione sulla prescrizione, scagliandosi contro Il Giornale e il direttore Alessandro Sallusti, assicurando che «Davigo e Grillo non si sono mai incontrati». Ma chi ha parlato di Grillo, in persona? Semmai, di deputati Cinque Stelle. Quasi un'ammissione, insomma. Anche su questo punto il movimento fondato dalla giornalista Annalisa Chirico chiede a Pg e Csm di intervenire. In sostanza, si sollecita un procedimento disciplinare su Davigo o, almeno, una pratica in prima commissione sull'incompatibilità con il suo ruolo di magistrato di Cassazione. «Non spetta a un magistrato - sostiene su Il Foglio Claudio Galoppi, togato al Csm di Magistratura Indipendente e presidente della VII commissione - esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino, non un salvacondotto per disonesti. Non esiste alcuna equiparazione tra prescrizione e colpevolezza». Per Galoppi, Davigo dovrebbe anche smentire la notizia degli incontri con i grillini sull'emendamento alla legge elettorale. Altrimenti, «non potranno non esserci conseguenze». Perché «si tratterebbe di una condotta gravissima», dice. Gli amici più vicini a Davigo ora fanno pressione sul leader della corrente Autonomia & Indipendenza (nata da una scissione di MI) perché neghi la collaborazione col M5S. Per mesi si è parlato di un rapporto stretto del magistrato con il movimento, anche di una sua candidatura se non a premier almeno a ministro di un possibile governo. Lui ha ripetuto che i magistrati non devono fare politica (perché «non sanno farla») e ha continuato a passare da un convegno del M5S alla Festa del Fatto, dai talk show de La 7 a quelli della Rai. Anche ieri, da Agorà su Rai3, diceva che «la Corte dei conti che si occupa di uscite dello Stato, dovrebbe occuparsi anche delle entrate». Quanto all'eventuale azione disciplinare Galoppi spiega che a promuoverla possono essere solo Pg o ministro della Giustizia, mentre il Csm potrebbe muoversi dopo un esposto, per valutare una «condotta incolpevole ed è arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio tv agisca in assenza di colpa». Pochi giorni fa il Guardasigilli Andrea Orlando commentava: «Mi pare che Davigo faccia anche un po' di politica e sia portatore di idee distanti da questo governo. Ma è anche fisiologico». Fisiologico?

Legnini: "Solo in Italia le toghe passano dai talk show alle aule". Il vicepresidente del Csm: "Non ci sono norme che arginino il fenomeno che porta dalle prime pagine dei giornali a ruoli di rilievo". Sulle carriere di giudici e pm: "Sempre più distinte", scrive il 6 ottobre 2017 "Il Foglio". "In nessun Paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk show o dalle prime pagine dei giornali a funzioni requirenti e giudicanti, fino alla presidenza di collegi di merito o della Cassazione", ha detto il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, al congresso dei penalisti. Legnini non ha fatto riferimenti diretti a Piercamillo Davigo, sottolineando che "non ci sono norme per arginare questo fenomeno". "Risolvere questo problema - ha spiegato - è un dovere che spetta a tutti i protagonisti che tengono al rispetto, sacrosanto, dell'indipendenza della magistratura che anche i cittadini devono percepire. Non è in discussione la libertà d'espressione, ma - ha chiarito il vicepresidente del Csm - c'è bisogno di recuperare senso di responsabilità e un esercizio equilibrato delle funzioni". Legnini si è poi espresso sul Codice Antimafia, augurandosi che "possa essere interpretato e applicato in modo che le misure di prevenzione siano adottate nel rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali di ciascuno". In merito alla divisione delle carriere di giudici e pm il vicepresidente del Csm ha ribadito di rispettare l'iniziativa dell'Unione delle Camere penali, che sta raccogliendo le firme per chiedere la separazione delle carriere dei magistrati. Una mossa, secondo Legnini, non necessaria: "Nei dieci anni di attuazione della riforma nell'ordinamento giudiziario il principio della distinzione delle funzioni è andato via via consolidandosi e i percorsi professionali di giudici e pm stanno andando sempre più distinguendosi. La vostra associazione - ha poi sottolineato - sta conducendo una battaglia molto forte, sforzandosi di rifuggire da un'impostazione ideologica. Non so come andrà a finire, ma so che si tratta di un tema divisivo".

I giudizi morali del pm e i danni di immagine per l’ordine giudiziario. Parla Galoppi. Intervista di Annalisa Chirico del 5 Ottobre 2017 su "Il Foglio".

Dottor Galoppi, su La7 il presidente Davigo ha detto che chi non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi.

“Sta scherzando, vero?”.

Sulle prime Claudio Galoppi stenta a crederci. In magistratura dal 1997, Galoppi è stato sostituto procuratore a Como, poi giudice a Milano. Oggi presiede la settima commissione del Csm.

“Se il presidente Davigo ha detto così, resto allibito. Non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino dall’ordinamento. Un uomo di legge non può far passare l’idea che si tratti di un salvacondotto per disonesti. Il nostro dovere è applicare la legge vigente. La legge la detta il legislatore”.

A sentire Davigo, “non c’è onore nel prendere la prescrizione”.

“E’ un istituto legale con una precisa ratio: decorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, viene meno l’interesse dello stato a esercitare la pretesa punitiva. L’imputato che non rinuncia alla prescrizione agisce nel rispetto della legge”.

L’imputato prescritto non merita le stimmate del colpevole?

“Non esiste alcuna equazione tra prescrizione e colpevolezza. La seconda attiene a un giudizio di merito. Nel caso di estinzione per intervenuta prescrizione, tale giudizio non c’è”.

“So distinguere i ladri dai non ladri”, ha tuonato l’ex presidente dell’Anm. Pure lei, dottore, si ritiene dotato di questa capacità discernitiva?

“Senta, io diffido dei magistrati moralizzatori. Le generalizzazioni sono nemiche della verità. Il nostro compito è accertare responsabilità individuali in casi specifici attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti. Certe espressioni ultimative e assolutizzanti sono fuorvianti”. “Capisco che le pronunci un politico, non un magistrato”, continua Galoppi, giudice e membro del Csm. “Mi auguro che lei stia scherzando…”.

Io sono serissima.

“Da magistrato provo un sincero imbarazzo nel dover commentare simili sortite. In primo luogo, un giudice in servizio non partecipa a talk-show politici lanciando giudizi morali e lasciandosi andare a commenti di natura politica. Forse io vivo su Marte…”.

Davigo è tornato in Cassazione, ribadisce in ogni occasione che i magistrati non sanno fare politica, eppure corre da un convegno all’altro, partecipa alla festa del Fatto quotidiano, non sembra disdegnare il corteggiamento pentastellato.

“Osservo con enorme circospezione i casi di vera o presunta contiguità con la politica”.

Siamo tornati alla stagione degli Ingroia?

“Il danno d’immagine per l’ordine giudiziario è il medesimo. Mi ha colpito una notizia di alcuni giorni fa secondo la quale si sarebbero tenuti tre incontri tra Davigo e i vertici del M5s per mettere a punto un emendamento volto a impedire la candidatura di un noto esponente politico”.

Si riferisce alla norma ammazza-Berlusconi? Non ci sono conferme di quegli incontri.

“Io mi auguro che arrivi presto una smentita. Se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze”.

Il modello del magistrato che parla attraverso le sentenze è passato di moda?

“Un giudice, anche in virtù delle competenze tecniche di cui è depositario, può essere interpellato riguardo a procedimenti normativi che incidono, per esempio, sul sistema processuale. Esistono tuttavia severe limitazioni volte a tutelare l’immagine di terzietà, indipendenza e imparzialità che dobbiamo preservare per essere credibili di fronte ai cittadini”.

A compulsare le cause di illecito disciplinare, si scopre che sui magistrati grava non solo l’obbligo di riserbo sui procedimenti in corso ma anche il dovere di astenersi dal “rilasciare dichiarazioni e interviste in violazione dei criteri di equilibrio e misura”. Il Csm ha le armi spuntate?

“Non abbiamo poteri diretti di censura, possiamo valutare le ipotesi di incompatibilità soltanto in relazione a condotte incolpevoli. E’ arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio televisivo agisca in assenza di colpa…”.

Il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione sono titolari dell’azione disciplinare.

“Le ripeto: la notizia di un incontro politico per perfezionare un emendamento alla legge elettorale richiede una smentita. Si tratterebbe di una condotta gravissima”.

Esiste un primato morale del magistrato?

“Siamo uomini e donne in carne e ossa, tra noi ci sono professionisti e cialtroni, onesti e corrotti, come in ogni categoria. Anche noi commettiamo errori, per questo esistono le impugnazioni. Mi dispiace che certe uscite pubbliche gettino discredito sull’intera magistratura. Prestiamo un giuramento di fedeltà alla Repubblica. Forse io sono un romantico idealista ma la toga, mi lasci dire, va indossata con lealtà e rispetto”.

Il ciclone Davigo si abbatte sul Csm, scrive Piero Sansonetti il 6 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Non è meglio se scende ufficialmente in politica e lascia la magistratura? Il Csm è di nuovo nella bufera. Stavolta per colpa di Pier Camillo Davigo, ex presidente dell’Anm, (l’associazione magistrati).  Davigo l’altro giorno ha parlato di nuovo in Tv (sulla 7, con Giovanni Floris) e ha pronunciato un po’ troppe frasi in contrasto aperto con lo Stato di diritto. Per esempio ha detto, tra gli applausi: «Chi non rinuncia alla prescrizione deve vergognarsi». Claudio Galoppi, presidente della settima commissione del Csm, quando gli è stata riferita questa dichiarazione ha fatto un salto sulla sedia e ha reagito con una intervista durissima al Foglio. Nella quale, oltretutto, ha detto ad Annalisa Chirico che se Davigo non smentisce anche la notizia circolata su tutti i giornali – secondo la quale avrebbe partecipato a degli incontri con i vertici dei 5 Stelle per mettere a punto una norma “anti- Berlusconi” – diventerebbe impossibile evitare conseguenze. E ha aggiunto: «Io diffido dei magistrati moralizzatori». Che tipo di conseguenze? Disciplinari? Galoppi dice che su questo piano il Csm ha pochi poteri, e chiede l’intervento del ministro della Giustizia e del Procuratore della Cassazione.

Il dottor Pier Camillo Davigo è una persona in possesso di fortissime convinzioni politiche e morali. E questo non è una colpa. Forse, addirittura è un onore. Il fatto che queste convinzioni, in gran parte, siano in contrasto aperto con le idee fondamentali della democrazia repubblicana, e talvolta anche in contrasto con lo Stato di diritto, non riduce in nessun modo la sua piena libertà di esprimerle. Non è proibendo la manifestazione delle idee – a chiunque – che si aumenta il livello della democrazia. Il problema è un altro. È che il dottor Davigo è un giudice. Ma Davigo può essere un giudice imparziale? Più precisamente un giudice di Cassazione, cioè della Corte a cui spetta il giudizio definitivo su ogni processo. E ancor più precisamente è un presidente di Sezione della Corte di Cassazione. Cioè è al vertice della piramide giudiziaria. E dispone di un enorme potere sulla vita delle persone. Allora la domanda – che non mette in nessun modo in discussione il suo diritto ad esprimere qualunque tipo di idea gli passi per la testa – è questa: può un magistrato che non crede alle leggi che deve amministrare, che non ritiene ragionevole la presunzione di innocenza, che considera la prescrizione una condanna, etc etc etc, può essere considerato un giudice terzo? E abbastanza ragionevole porsi questa stessa domanda anche nel caso di un Pm, sebbene il Pm abbia una funzione diversa da quella del giudice: deve sostenere l’accusa, e, certo, sarebbe meglio se fosse un democratico convinto e non un Torquemada, ma insomma, almeno uno pensa di avere la garanzia che poi verrà un giudice a frenare gli eventuali eccessi del Pm. Ma se invece chi si dichiara aprioristicamente infastidito dallo Stato di diritto è lui stesso il giudice, e anzi è il supremo giudice, allora le cose si complicano. Perché non solo si mettono in discussione alcuni grandi principi della giurisdizione, ad opera di un artefice e tutore della giurisdizione, ma si mettono fortemente in discussione i diritti assoluti dei cittadini. Come deve sentirsi un cittadino che sa che toccherà al dottor Davigo presiedere la sezione di Cassazione che deve decidere se mandarlo assolto o invece mandarlo in cella? Capite bene che non sarà molto tranquillo, e difficilmente potrà pronunciare la frase di prammatica: «Ho fiducia nella giustizia!». Ecco, il problema è esattamente questo: con i suoi comportamenti, le sue grandi agitazioni in Tv, le sue requisitorie fuori dal tribunale, Pier Camillo Davigo sta mettendo in discussione la credibilità della magistratura. Ma la credibilità della magistratura è uno dei beni più preziosi in democrazia. Non tanto per i magistrati, ma per la stabilità e l’autorevolezza del sistema. Non ha torto il dottor Galoppi, del Csm, a porre la questione. Qualcuno dovrà ascoltare le proteste del dottor Galoppi. Naturalmente nessuno chiede a Davigo di sospendere il suo impegno politico, a tutto campo, che – a occhio e croce sembra teso a favorire il movimento 5 Stelle. Lui, mi pare di capire, crede nel Movimento 5 Stelle e fa benissimo a contribuire al suo successo. Il problema è che deve smetterla di fare il giudice, non perché non ne abbia le qualità – questo nessuno lo mette in dubbio – ma perché evidentemente non è più in grado di offrire l’immagine di giudice terzo. E la Costituzione dice che il giudice deve essere “terzo”. Cioè assolutamente imparziale e equidistante tra accusa e difesa. Sono quasi certo del fatto che il dottor Davigo, che ha una forte tempra morale, sia in grado di distinguere le sue opinioni politiche e la sua funzione professionale, e che dunque, quando poi emette una sentenza, rispetti tutti i principi garantisti dei codici e della Costituzione, anche se non li condivide. E riesce ad esprimere perfettamente la terzietà che gli viene chiesta dallo Stato, anche se lui probabilmente pensa che l’accusa ha sempre ragione e la difesa serve solo a far perdere tempo… Però non basta essere giudice terzo, occorre anche apparire giudice terzo. Perché altrimenti l’imputato ha il diritto pieno di dubitare. E Davigo, ormai, mai più potrà apparire “terzo” e imparziale. Non vi pare? Non sarebbe una cosa molto buona se Davigo entrasse in modo aperto e completo in politica, lasciando alle spalle la magistratura e facendo scomparire in questo modo dubbi e ambiguità?

Legnini contro Davigo «In aula o al talk show?», scrive Errico Novi l'8 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Durissimo attacco del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ai giudici-spettacolo al congresso dell’Unione Camera Penali Italiane. Dal palco del congresso Ucpi Giovanni Legnini ha già da poco regalato un giudizio sul Codice antimafia che ha del clamoroso: «Spero che a riguardo si esprimano presto la giurisprudenza di merito e di legittimità», ossia la Cassazione, «ed eventualmente la Corte costituzionale», che suona come una richiesta di rimediare a un vulnus gravissimo. Poi ai cronisti che subito gli piombano addosso consegna un messaggio ancora più pesante. Stavolta il destinatario non è il Parlamento. Il vicepresidente del Csm si rivolge pur senza citarlo a Piercamillo Davigo e lo infilza così: «In nessun altro Paese europeo è così agevole passare da talk show o prime pagine dei giornali all’esercizio di funzioni requirenti e giudicanti fino alla presidenza di collegi anche della Cassazione». È una scudisciata. L’ex pm di Mani pulite è finito appunto prima in un talk show, in cui ha detto che l’imputato per un reato prescritto deve vergognarsi se si avvale della prescrizione, poi sul Corriere della Sera per un’intervista in cui assicura di non aver tramato contro Berlusconi. Il bersaglio di Legnini è lui, anche perché Davigo presiede appunto una sezione della Suprema corte, la seconda. E il dardo è letale se si pensa che ieri Repubblica aveva svelato la vera ambizione coltivata dall’ex leader dell’Anm: la presidenza della Cassazione stessa, o la carica di procuratore generale. A decidere, in proposito, sarà proprio il Csm. Di cui Giovanni Legnini rappresenta il vertice. È una rottura, quella che si consuma al Parco dei principi. Sulle ultime esternazioni di Davigo si era espresso, il giorno prima, un togato del Consiglio superiore, Claudio Galoppi, che in un’intervista al Foglio aveva giudicato grave l’uscita sulla prescrizione. Non solo, perché il consigliere di “Mi” aveva anche prefigurato «conseguenze», evidentemente disciplinari, qualora avessero trovato conferma le voci di un apporto dell’ex presidente Anm al piano anti– Cav dei grillini. Vero che nell’intervista al Corriere Davigo aveva smentito l’incontro con Grillo. Ma intanto la tensione tra lui e il Csm si era già fatta altissima. Adesso Legnini fa capire che la distanza è incolmabile, ed è difficile credere che si sia espresso senza aver colto in gran parte dei consiglieri di Palazzo dei marescialli uno sconcerto analogo al suo. A proposito dell’esternazione di Davigo, Legnini ha aggiunto: «Fermo restando il diritto sacrosanto alla libertà d’espressione, costituzionalmente garantita, spetta a ciascuno dei protagonisti arginare il fenomeno. Soprattutto a chi tiene al rispetto dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura, che deve essere percepita come tale anche da tutti i cittadini». Non proprio un viatico a una marcia trionfale dell’ex leader dell’Anm verso la presidenza della Suprema corte.

"Il Csm mi inquisisce sulla legittima difesa. Solo Davigo può parlare". Lo sfogo del giudice Mascolo: "Sono un figlio di nessuno senza correnti che mi proteggono in Consiglio", scrive Nino Materi, Domenica 8/10/2017, su "Il Giornale". Il giudice Piercamillo Davigo, in tv, è sempre andato giù duro: dal celebre «non esistono innocenti, ma solo colpevoli che la fanno franca» (lui ha poi precisato che la frase si riferiva a un «caso particolare»), all'ancor più mitico: «Rivoltiamo l'Italia come un calzino» di tangentopoliana memoria. E poi: la politica e i reati? «Non invito a casa mia chi ruba l'argenteria»; i tempi della giustizia? «In Italia c'è una lobby di 200mila avvocati». Per Davigo, leader di corrente interna al Consiglio superiore della magistratura, l'altroieri è arrivato solo un buffetto da parte del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: «In nessun paese europeo sarebbe consentito passare con tanta facilità dai talk show all'esercizio delle funzioni requirenti o giudicanti». Ma in Italia c'è un altro magistrato che, per aver detto cose assai meno pesanti di quelle sostenute da Davigo, è da tempo nel mirino sia del Csm sia dell'Anm (Associazione nazionale magistrati). Si tratta del giudice Angelo Mascolo, gip a Treviso, che sul caso Davigo sottolinea: «Certe cose andrebbero dette da un politico e non da un giudice. Davigo dovrebbe astenersi da esternazioni destinate ad essere male interpretate come ha fatto, ad esempio, in tema di prescrizione, sul caso che ha riguardato Filippo Penati». E poi: «È la dimostrazione di quanto vado sostenendo da sempre. E cioè che le correnti interne alla magistratura sono un grave virus per l'ordine giudiziario. Sono del parere che il Csm dovrebbe essere composto da magistrati scelti esclusivamente per sorteggio tra quelli non iscritti a correnti». Sul conto del dottor Mascolo se ne dicono delle belle. E anche delle brutte. Il suo mito letterario è Giovanni Guareschi, che non a caso amava ripetere: «Per essere liberi bisogna anche essere pronti ad andare in prigione». Risultato: oggi Mascolo si ritrova con un procedimento disciplinare ed uno per trasferimento pendenti davanti al Csm. Se non è un record, poco ci manca.

Dottor Mascolo, ha fiducia nel Consiglio superiore della magistratura?

«Come uomo delle istituzioni non posso non averne. Mi piacerebbe però che il Csm non fosse composto da magistrati iscritti a correnti».

Perché?

«A mio parere far parte di una corrente, per un giudice, è manifestare pubblicamente il proprio pensiero politico e questo è letale per la sua credibilità».

E per un giudice credibilità e indipendenza sono tutto.

«Proprio per questo è difficile spiegare alla gente che chi dice di pensarla in un certo modo non possa esser influenzato dalle sue idee nel momento di emettere una sentenza».

Indro Montanelli diceva: «Il giudice deve non solo essere imparziale, ma anche sembrare tale».

«Pienamente d'accordo. Se no...».

Se no?

«Se no, dovremmo avere il coraggio di metterci in gioco e fare come negli Usa, dove i giudici sono eletti dal popolo e rischiano il posto se non soddisfano le aspettative dei loro elettori».

Lei, da giudice non «sindacalizzato», come si sente?

«Un figlio di nessuno».

E quali conseguenze patisce un «figlio di nessuno»?

«Di sicuro non può contare su una corrente che lo protegga e sui voti dei magistrati di una medesima cordata in tutti quegli eventi che fanno parte della carriera di un magistrato: promozioni, procedimenti disciplinari, ecc».

Mi faccia un esempio.

«Io, appunto figlio di nessuno, sono soggetto ad un procedimento per il trasferimento di ufficio per aver manifestato in un articolo la necessità di adeguare le norme sulla legittima difesa al grave aumento della criminalità in Italia e per essermi dichiarato ammiratore di Golda Meir, non di Adolf Hitler».

Per quell'articolo è stato deferito pure al collegio dei probiviri dell'Associazione nazionale magistrati (Anm).

«Associazione dalla quale mi sono dimesso dopo aver querelato alcuni esponenti della stessa Anm».

«Perché è sotto doppio procedimento disciplinare?

«Il primo caso è quelle dell'articolo cui facevo riferimento prima. Nel secondo caso mi viene contestata la scarcerazione di due finanzieri accusati di corruzione».

E da quando scarcerare qualcuno configura una violazione disciplinare?

«Nella vicenda della scarcerazione dei due finanzieri, a giudizio del Csm, avrei negato che sussistessero le condizioni per l'emissione della custodia cautelare in carcere adottata da un mio collega, con ciò gravemente offendendolo».

Si presenterà davanti al Csm?

«Certo. Sono convinto della bontà del mio lavoro. Francamente non capisco in cosa avrei sbagliato».

Esiste il politically correct in magistratura?

«Detesto il politically correct: è la lingua dei farisei».

Si sente un perseguitato?

«No. Sono solo un magistrato-salmone»

In che senso?

«Vado sempre controcorrente».

In Italia ci vogliono 1.600 giorni per una sentenza definitiva. Processi che non finiscono mai, contraddizioni, assurdità che gridano vendetta: il nostro sistema legale resta lontanissimo dagli standard dei paesi più avanzati. Come dimostrano queste storie di ordinaria malagiustizia, scrive Paolo Biondani il 28 settembre 2017 su “L’Espresso”. Processi lentissimi, tribunali in perenne arretrato, sentenze senza effetti. Sono malattie croniche del nostro sistema legale, che una serie di recenti riforme, dopo decenni di leggi e leggine con risultati nulli o negativi, ora promettono di guarire. La realtà della giustizia italiana resta però lontanissima dagli standard dei paesi più avanzati. Lo confermano magistrati e avvocati di grande esperienza. E lo documentano troppe vicende che a Londra, Berlino o Parigi suonerebbero inverosimili. Prima di interrogare giuristi e addetti ai lavori, per capire quale diritto possano aspettarsi i cittadini dopo le ultime riforme, conviene partire da qualche caso concreto. Storie di ordinaria malagiustizia. Che fanno comprendere perché, nonostante i primi segnali di miglioramento, tra i professionisti della legge regna ancora il pessimismo.

Il primo caso evidenzia una verità da non dimenticare mai: di ritardata giustizia si può morire. In Sicilia, nel 1993, un piccolo imprenditore edile denuncia per concussione (estorsione di tangenti) il dipendente comunale che gli blocca tutti i cantieri. Dopo lunghe indagini e un processo approfondito, il funzionario viene condannato in primo grado, nel 2001, a cinque anni di reclusione. La condanna è confermata in appello, nel 2006. Quindi l’imprenditore si prepara a incassare il risarcimento: manca solo il timbro della Cassazione. Ma nel 2010 la Corte Suprema annulla tutto, per queste ragioni: «La sentenza d’appello era scritta a penna e in diversi passaggi risultava illeggibile, per cui la Cassazione ha riscontrato difetti di motivazione», chiarisce l’avvocato Rosario Pennisi. Tornato in appello, il nuovo processo (il quarto) si chiude nel 2016 con un verdetto capovolto: l’ex condannato viene assolto. A quel punto il denunciante si sente dire che non avrà nessun rimborso, anzi sarà lui a dover pagare le spese legali. Poche ore dopo, l’imprenditore si uccide. «Aveva affidato la sua vita a questo processo, dopo il blocco dei cantieri era stato aggredito anche dalle banche, si è sentito tradito e rovinato», ricorda il suo avvocato catanese: «Si è sparato nella sua casa, a Linguaglossa. Io resto convinto che avesse ragione. Invece ho dovuto spiegare alla vedova, ai tre figli, che la giustizia ci ha punito dopo averci dato ragione due volte. Un processo non può durare 23 anni e portare a sentenze così contraddittorie».

Dal profondo Sud al ricco Nord, è allo sfascio la legalità quotidiana. In Veneto ogni avvocato può fornire elenchi di orrori giudiziari. Caso più comune: l’omicidio colposo. Nel 2012 un poliziotto che lavora per i tribunali muore in un assurdo incidente stradale. Lascia la moglie, casalinga, e due bimbi di sei mesi e due anni. La procura di Verona chiude l’indagine nel 2014 e nel 2015 l’accusato viene rinviato a giudizio. Ma poi si ferma tutto: il tribunale è intasato di processi. Ora la vedova è bloccata dalla legge, come migliaia di vittime di incidenti o infortuni sul lavoro: il processo penale è destinato alla prescrizione e la successiva causa civile ha una durata prevista, in Veneto, di oltre dieci anni. «La giustizia in Italia ha toccato il fondo», è l’amaro commento dell’avvocato della vedova, Davide Adami: «Il processo funziona solo nella fase cautelare, con gli arresti, ma i dibattimenti sono un disastro. A Venezia la corte d’appello, che ha croniche carenze di organico, fissa i processi con anni di ritardo. Così i reati ordinari vengono cancellati dalla prescrizione. E la lentezza favorisce anche gli errori giudiziari: a distanza di anni, i testimoni non ricordano e i giudici non hanno più il tempo di approfondire».

La Sardegna è una delle regioni più colpite dal mal di giustizia, con casi di ritardo da primato mondiale. Qui, nel 1960, muore il proprietario di 721 ettari di terreni sulla splendida costa fra Chia e Teulada. Il ricco possidente ne lascia gran parte (508 ettari) ai due figli maschi, scontentando le quattro femmine, che impugnano il testamento per lesione della “legittima”, la quota minima obbligatoria. La procedura avanza lentissima e col passare degli anni muoiono giudici, periti, avvocati e gli stessi eredi, per cui la causa si ferma più volte e poi prosegue tra i discendenti. La sentenza di primo grado viene emessa nel 2009: dall’avvio della causa sono passati 49 anni. Ma la legge prevede anche il giudizio d’appello e la Cassazione, che in teoria potrebbe annullare e far ripetere l’intero processo.

Nel giustizialismo reale c’è solo un problema che preoccupa i cittadini e le imprese più della lentezza dei processi: l’incertezza del diritto. Le leggi dovrebbero essere chiare e condurre a sentenze prevedibili, invece spesso i verdetti sono dubbi e contrastanti. Anche su questioni essenziali per lo Stato come le entrate fiscali. Il più grave caso di evasione degli ultimi anni è documentato dalla lista Falciani: oltre centomila soggetti, tra cui 7.499 italiani, che avevano decine di miliardi in una banca svizzera, quasi mai dichiarati. In Germania, Francia e altri paesi sono piovute condanne e risarcimenti. In Italia i giudici tributari (che spesso non sono magistrati) hanno deciso in ordine sparso: con le stesse prove, alcuni accusati sono stati condannati, altri assolti; molti hanno avuto sentenze contrastanti in primo e secondo grado; qualcuno è riuscito addirittura a far distruggere il suo nome dalla lista per ordine del giudice. In questo caos, si attendeva il faro della prima sentenza della Cassazione, che nell’aprile 2015 ha convalidato la lista Falciani e stangato gli evasori. Pochi giorni dopo, però, un collegio tributario di Milano ha riaperto la via contraria: la lista non vale più, tutti assolti, almeno fino alla nuova Cassazione.

La giustizia che porta al suicidio un imprenditore, ignora la morte di un poliziotto e migliaia di altre vittime di omicidi colposi, fa durare una lite familiare più di mezzo secolo, lascia impuniti gli evasori anche quando la Cassazione sigilla le prove: sembrano casi limite, ma in Italia sono la normalità. L’effetto di una stratificazione storica di leggi sbagliate, che porta un giudice come Piercamillo Davigo, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, a bocciare l’impostazione anche delle ultime riforme: «Si continua a intervenire sull’offerta di giustizia, sulle regole dei procedimenti e sulla magistratura, mentre il problema è un eccesso patologico di domanda: si fanno troppi processi solo per perdere tempo e sperare di farla franca. Negli Stati Uniti il 90 per cento degli imputati chiede il patteggiamento prima dell’unico grado di giudizio, perché teme condanne molto più pesanti. Anche in Germania, Francia o Inghilterra la prescrizione è rarissima. In Italia siamo gli unici ad avere tre gradi di giudizio, la prescrizione più favorevole del mondo e il patteggiamento anche in appello. Il risultato è che non patteggia quasi nessuno, i giudici sono oberati di processi e troppi delinquenti restano impuniti».

Nel ventennio berlusconiano i governi di centrodestra hanno varato leggi punitive per i magistrati: dalla prescrizione più facile, al taglio delle risorse. Dal 2012 i ministri della giustizia hanno studiato riforme diverse, per migliorare soprattutto la giustizia civile: dal processo telematico al tribunale specializzato per le imprese. Ma le novità funzionano solo in alcuni distretti, come Torino, Bolzano o Milano. E la durata delle cause continua a restare sub-europea: in media, più di otto anni.

Anche nel civile, sostiene Davigo, servirebbero «riforme coraggiose»: «I giudici italiani decidono molti più processi dei colleghi stranieri, ma sono affogati da quattro milioni e mezzo di cause pendenti: un’enormità. Il problema è che in Italia chi sa di avere torto resiste comunque. Nei paesi dove i processi civili funzionano, c’è un automatismo: chi fa perdere tempo ai tribunali, rischia una stangata. La giustizia può avere tempi decenti se si ha il coraggio di disincentivare l’abuso dei processi». Il procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, vede «luci ed ombre» nelle riforme varate dal ministro Orlando: «Certamente utile, soprattutto nel civile, è lo sforzo di limitare il sovraccarico della Cassazione, per concentrare la nostra Corte Suprema sui casi veramente dubbi. Se la sentenza definitiva arriva prima, oltre ai tempi si riduce l’incertezza del diritto: la Cassazione può recuperare il suo ruolo-guida ed evitare che i singoli tribunali, nell’attesa, adottino pronunce contrastanti, che creano sconcerto tra i cittadini». «Nella direzione della legalità vanno anche le misure per sospendere la prescrizione, che però avranno effetto solo tra molti anni», aggiunge Salvi. La prescrizione è una specialità italiana: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma non può più essere condannato, perché sono scaduti i termini. Il centrodestra nel 2005 ha facilitato questo tipo di impunità. La riforma Orlando è corsa ai ripari riallungando i termini, ma si applica solo ai reati futuri, per decisione della Corte Costituzionale. Per almeno 7-8 anni, dunque, la prescrizione continuerà ad incenerire oltre 130 mila processi all’anno. Con punte di oltre il 40 per cento nelle corti d’appello di Venezia e Napoli. Di fronte a una giustizia che gira a vuoto, Salvi considera sprecata l’occasione di una riforma strutturale: «In generale è mancata la necessaria consequenzialità logica. Resta, ad esempio, l’annoso problema delle notifiche degli atti, una delle principali cause di ritardo. Non sono state fatte scelte nette di semplificazione, ma con le mezze misure i processi continueranno a saltare. Liberare la Cassazione rischia di servire a poco, se insieme si aggravano i carichi delle corti d’appello. Anche il dovere per i pm di chiudere le indagini in tre mesi rischia di restare inapplicato, se non si aumentano i giudici e il personale: la procura di Roma ha oltre 50 mila indagini già concluse che restano ferme perché è il tribunale a non avere forze sufficienti». Consapevole che la crisi dei processi sta demolendo la credibilità dei magistrati, il pg Salvi chiede anche ai colleghi una svolta autocritica: «Per troppi anni abbiamo dovuto concentrarci sulle grandi emergenze: terrorismo, mafia, corruzione. Questo impegno ci ha portato a sottovalutare la giustizia quotidiana. Come magistrati dobbiamo porci il problema di garantire a tutti i cittadini una giustizia realmente efficace».

Dall’altra parte della barricata, Mario Zanchetti, avvocato e professore di diritto penale, rimprovera al ministro Orlando di non aver consultato i legali, ma gli riconosce «i primi passi nella giusta direzione: sono positive, in particolare, tutte le norme che riducono il sovraccarico di processi evitabili, come l’estinzione del reato per chi ripara il danno. Trovo invece pessime certe ricadute nel vizio delle grida manzoniane: aumentare le pene minacciate per i reati che non si riesce a punire. Ai miei studenti amo ricordare che il codice Rocco, in vigore dal 1930, prevede fino a dieci anni di carcere per un furto di bicicletta, ma non ha abolito i ladri. Oggi la classe politica tende a scaricare tutto sui giudici: ambiente, salute, immigrazione, crisi... E se i processi civili non funzionano, si minaccia il carcere. Più della lentezza delle cause, che non riguarda tutte le regioni italiane, è proprio l’abuso dei processi a tenere lontani molti investitori stranieri». Per fermare il cortocircuito tra giustizia ed economia in crisi, il governo ha varato un disegno di legge che punta a rivoluzionare le procedure di fallimento, oggi disastrose. Roberto Fontana è uno dei magistrati convocati dal parlamento per illustrare le «misure d’allerta alla francese». «Il discorso è semplice», spiega: «In Italia i fallimenti emergono in ritardo, dopo tre o quattro anni, quando dell’azienda restano solo le macerie. Il danno è enorme. I tribunali fallimentari si trovano a gestire oltre 30 miliardi di passivi all’anno: tasse e contributi non pagati, dipendenti senza stipendio, fornitori indebitati che mandano in dissesto altre imprese. La nostra proposta è di imitare il modello francese: il fisco, l’Inps, i collegi sindacali segnalano le crisi nei primi sei mesi a un organismo camerale, che convoca l’imprenditore prima che sia troppo tardi, con incentivi per chiedere il concordato e limitare le perdite». Per una volta, la riforma sembra piacere a magistrati, avvocati e politici di ogni tendenza: già votata dalla Camera, attende l’approvazione del Senato. Ma con la finanziaria e le elezioni alle porte, il tempo stringe. E la giustizia rischia un altro fallimento.

I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.

Così i giornalisti fecero i killer della prima Repubblica, scrive Piero Sansonetti il 29 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". La grande alleanza tra media e pm affondò un intero sistema politico. La Prima Repubblica era una cosa buona? Chi l’ha uccisa? Pierluigi Battista ha scritto un articolo sulla “Lettura” (il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”) nel quale rimpiange quel periodo della storia recente del nostro paese, che fu il periodo del grande sviluppo economico e della affermazione della democrazia. E ne esalta molti aspetti positivi. Ieri Emanuele Macaluso, in uno scritto che abbiamo pubblicato sul Dubbio, ha fatto osservare che negli anni nei quali la prima Repubblica fu liquidata dall’inchiesta “Mani Pulite” i giornali certamente non la difesero. Vorrei andare un pochino oltre la giusta affermazione di Macaluso (che è stato tra i dirigenti più importanti di quella fase della vita repubblicana). Credo che i giornali e i giornalisti svolsero il ruolo di killer del sistema dei partiti e quindi della prima Repubblica. Assumendosi l’incarico di demolire una parte della Costituzione repubblicana, e cioè quella che delineava un sistema democratico forte e fondato sulla struttura dei partiti e dei sindacati. (Curioso notare che oggi quelli che ritengono intoccabile la Costituzione repubblicana sono o gli stessi o gli eredi di coloro che la demolirono 25 anni fa). I giornali e i giornalisti presero su di se, consapevolmente e baldanzosamente, una responsabilità diretta e macroscopica. Guidando la cacciata dei partiti dal potere politico, spianando la strada alla magistratura, e costruendo le basi materiali e teoriche per il giustizialismo, e cioè per quella ideologia robusta che – dall’inizio degli anni novanta – diventò (ed è ancora) l’ideologia nazionale, sostituendo l’ideologia dell’antifascismo, che nel primo mezzo secolo del dopoguerra aveva costituito l’elemento unificante dello spirito pubblico nazionale. Cosa fecero i giornali e i giornalisti? Usarono le inchieste della magistratura come artiglieria per sparare sul quartier generale. Decisero, con uso largo di grandi mezzi, di descrivere il Palazzo della politica come un luogo ignobile di ruberie e sotterfugi, abitato esclusivamente da malfattori e lestofanti. E subito dopo assunsero il ruolo di guida del paese, che era stato abbandonato dalla politica in fuga e che non poteva essere raccolto direttamente dai magistrati, modificando completamente la propria funzione intellettuale e civile, e preparandosi a partecipare al nuovo potere politico. Il disegno non riuscì del tutto perché quando la prima Repubblica sprofondò definitivamente, prima con un plebiscito che abolì la legge elettorale e quindici giorni dopo con il linciaggio in piazza di Bettino Craxi ( 18 e 30 aprile 1993), cioè con due strumenti tipici dell’insurrezione, ci fu la reazione ( imprevista) di un pezzo minoritario ma assai rampante della borghesia, guidato da Silvio Berlusconi, che deviò la rotta che giornali, magistrati e poteri economici ( soprattutto quelli che si radunavano attorno alla famiglia Agnelli) avevano previsto. E’ nata così, un po’ sbilenca, la seconda repubblica. In quella alleanza coi magistrati e la grande finanza, il compito dei giornalisti fu decisivo, e il modo nel quale si organizzarono molto ben studiato e definito. E’ vero che alla fine gli altri due membri dell’alleanza portarono a casa gran parte del bottino, e i giornalisti restarono a mani vuote, ma questo non ridimensiona il ruolo che ebbero di “punta di lancia” dell’operazione. Altre volte ho parlato come testimone diretto di quella vicenda. Ora, visto che il tema è tornato alla ribalta – e credo che sia un nodo decisivo della storia, non spettacolare, della crisi del giornalismo italiano e dello stato di subalternità e di inferiorità nel quale vive – voglio essere ancora più preciso. I principali giornali italiani avevano costituito un “pool”, rinunciando a quell’elemento decisivo, storicamente, nella vita dei giornali e del giornalismo, che è la competizione e la concorrenza. Quattro giornali firmarono un patto di ferro: “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Unità” e “La “Repubblica”. Tranne Eugenio Scalfari, tutti gli altri direttori furono direttamente coinvolti in questo patto. Erano personaggi di primissimo piano, e contavano moltissimo nell’establishment, e furono tra i pochissimi che non furono travolti dall’” insurrezione”, anzi la guidarono. Paolo Mieli, Ezio Mauro, Walter Veltroni, che erano i direttori dei primi tre giornali, e un certo numero di capiredattori di Repubblica, il nome più noto è quello di Antonio Polito. Non ho mai potuto accertare se Scalfari sapesse e se approvasse. Ho solo un sospetto. Io all’epoca ero condirettore dell’Unità, e dunque – lo confesso – partecipai direttamente a molti colloqui e assistetti a tutto ciò che avvenne. Ogni sera, verso le sette, i direttori o i vicedirettori o i capiredattori, si sentivano per telefono e decidevano come fare le prime pagine, come dare le notizie, con quale forza, con quale gerarchia. Tutte le notizie, ovviamente, ma soprattutto le notizie che riguardavano il palazzo e l’inchiesta sulle Tangenti, che ogni giorno mieteva nuove vittime. Le “macchine”, come si dice in gergo, dei giornali furono rivoluzionate. I giornalisti non erano più titolari delle notizie, rispondevano a questa specie di “spectre” che era il supervertice dei quattro giornali. Il pool di direttori si interfacciava con in pool di giornalisti giudiziari, che aveva coinvolto anche giornalisti delle Tv, ed era alle dirette dipendenze delle Procure, e in particolare della Procura di Milano. Nessun giornalista giudiziario che non facesse parte del pool poteva più accedere a nessun tipo di notizia di giudiziaria, e rapidamente, per questa ragione, veniva eliminato dalla piazza. Il pool dei direttori – nel quale spiccava una specie di diarchia: Mieli che era il giornalista più autorevole, e Veltroni, che guidava un giornale ma era l’unico esponente della politica ammesso a questo consesso – aveva assunto anche vere e proprie funzioni legislative. L’esempio più clamoroso è quello del decreto– Conso. E’ un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 5 marzo del 1993 ( come vedete, se fate attenzione alle date, di poche settimane precedente al referendum– plebiscito e al linciaggio di Craxi, cioè agli atti finali dell’insurrezione) nel quale il ministro della giustizia, Giovanni Conso ( giurista celebre e stimatissimo, ex presidente della Corte Costituzionale) disponeva la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti ( non degli arricchimenti personali) per porre un argine all’ondata giustizialista. Il decreto non fu bocciato dal Parlamento ma dal pool dei giornali. Ricordo che quel giorno all’ Unità era arrivato un articolo di un dirigente del partito, favorevole al decreto. Poi alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli latri direttori e si decise di affossare il decreto. L’editoriale fu corretto. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono (la potenza di fuoco di quei quattro giornali era grandissima e costringeva le altre testate ad adeguarsi). Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde. E quello fu lo squillo di tromba che diede il via all’ultima e definitiva offensiva che travolse gli argini e annientò la prima Repubblica e un’intera, e valorosissima, classe dirigente che aveva portato l’Italia ai grandi successi economici e alla conquista della democrazia piena e dello Stato di diritto. Le cose andarono così, e tanti miei colleghi possono confermare. Quali furono le conseguenze per la solidità della nostra democrazia è ancora oggetto di discussione. Personalmente credo che la democrazia fu fortemente indebolita. Da due elementi. Il primo è il dilagare dell’ideologia giustizialista, che ha travolto lo Stato di diritto. Il giustizialismo è una ideologia che non credo sia compatibile con la democrazia liberale. Il secondo elemento è lo strapotere che è stato assunto dalla magistratura e dall’economia, che ha messo in discussione lo Stato liberale. Non si è mai invece nemmeno discusso di quali furono le conseguenze per il giornalismo italiano. Io credo che in quei giorni il giornalismo italiano morì. Sepolto dal suo tradimento. Il giornalismo nel suo Dna ha l’obbligo di informare, ha la ricerca dell’oggettività, la terzietà rispetto agli scontri di potere. Il giornalismo ha l’obbligo di criticare il potere, di contrapporvisi. In quelle giornate tra il 1992 e il 1993 abiurò. Decise di farsi travolgere nelle lotte del potere e di diventarne parte attiva e anzi parte dirigente. Di accettare la subalternità ai magistrati e ai potenti dell’economia, nella convinzione di poter poi svolgere una funzione di guida nella nuova alleanza. Non gli fu affidata la guida, invece, ma solo una funzione servile. Non si è mai ripreso – credo – da quel crollo. Forse per questo oggi il giornalismo italiano è lontano mille miglia dal grande giornalismo europeo e americano. Loro hanno “Le Monde”, il “New York Times”, fanno informazione e cultura. Noi abbiamo “Il Fatto” (e molti altri simili), facciamo propaganda e ufficio stampa alle Procure.

Quella giornata particolare del 1992 in cui incontrai Di Pietro…scrive Francesco Damato il 30 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Il pm mi rassicurò che in nessuna delle carte spedite dalla procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi. All’onesto e autocritico racconto di Piero Sansonetti, ieri sul Dubbio, vorrei aggiungere una testimonianza sul ruolo a dir poco improprio svolto dai giornali negli anni terribili delle indagini giudiziarie sul finanziamento troppo a lungo illegale della politica. Terribili, come li ha giustamente definiti in un libro di meritato successo Mattia Feltri, rimbrottato dal padre, Vittorio, che diede in quei tempi il suo contributo all’imbarbarimento dell’informazione, scambiando spesso lucciole per lanterne, comunque trasformandosi in un megafono delle Procure, a cominciare naturalmente da quella di Milano. È proprio a Milano che scorre, nella primavera del 1992, quella giornata particolare, diciamo così, della mia esperienza più diretta di Mani pulite, che è rimasto il nome della vicenda giudiziaria costata la vita a un po’ di imputati, suicidi o no, e soprattutto alla cosiddetta prima Repubblica. Che pure non aveva certamente demeritato nella costruzione della democrazia in Italia dopo le tragedie del fascismo e della guerra. Quella giornata particolare del 1992 quando incontrai a Milano Tonino Di Pietro…Le agenzie trasmettono dalla prima mattina indiscrezioni provenienti dalla Camera, dove la giunta delle autorizzazioni a procedere è alle prese con le carte giunte dalla Procura ambrosiana sugli ex sindaci socialisti di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, sospettati di ricettazione delle tangenti gestite dal collega di partito Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio in flagranza di reato con un’operazione diretta da Antonio Di Pietro. Le indiscrezioni romane, in gran parte diffuse o attribuite poi, a torto o a ragione, al deputato ambientalista Mauro Paissan, ex direttore del Manifesto, considerano il leader del Psi Bettino Craxi, peraltro cognato di Pillitteri, già coinvolto nelle indagini. E quindi fortemente a rischio nella crisi che sta gestendo il nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 18 aprile. Si sa che esiste un accordo addirittura pre-elettorale fra democristiani e socialisti per un ritorno di Craxi a Palazzo Chigi, da dove egli era stato sfrattato in malo modo nel 1987, dopo quasi quattro anni di governo, dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostituito poi da Arnaldo Forlani, vice dello stesso Craxi in quell’esperienza di capo del governo. Nel pomeriggio di quella giornata di primavera, tornando a piedi nella redazione del Giorno, che dirigo da tre anni, incontro per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro. Che allontana col cenno di una mano gli agenti della scorta per venirmi incontro e parlarmi. Ci conosciamo solo superficialmente, avendolo incontrato una sola volta a pranzo, all’inizio del mio incarico al Giorno, col comune amico Claudio Dini, presidente della Metropolitana Milanese. Debbo inoltre a Di Pietro una certa gratitudine professionale perché, pur conoscendo il modo non acritico in cui seguivo le sue inchieste, ha avuto l’onestà in una intervista di difendermi dalle accuse, provenienti anche dall’interno del mio giornale, di non divulgare col dovuto rilievo, diciamo così, le notizie della Procura. D’altronde era stato proprio Il Giorno a destare l’anno prima la curiosità della Procura con servizi di cronaca su ciò che accadeva negli ospedali per la macabra corsa delle agenzie funebri all’accaparramento dei clienti. E all’arresto di Chiesa, presidente della cosiddetta Baggina, ospedale e insieme casa di riposo, Il Giorno era stato il solo a sparare la notizia in prima pagina, per mia personale decisione: tanto che all’indomani, visti gli altri giornali, nella prima riunione redazionale chiesi, un po’ preoccupato, al responsabile della Cronaca se fosse sicuro della notizia nei termini da noi riferiti. Cosa, questa, che dopo qualche tempo – giusto per darvi l’idea del clima che stava montando – avrei trovato raccontato su un quotidiano come prova di un mio intervento censorio sulla redazione. Ma torniamo all’incontro con Di Pietro in quel pomeriggio. Tonino, come lo chiamano gli amici, allarga le braccia e mi esprime tutto il suo stupore per le notizie, anzi per le indiscrezioni diffuse dalle agenzie sul coinvolgimento del presidente. Ch’egli nomina così facendo cenno verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi di Craxi. Di Pietro mi assicura che in nessuna delle carte spedite dalla Procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio. E mi anticipa che fra poco la stessa Procura emetterà una nota. In effetti dopo un paio d’ore viene diffusa una smentita dagli uffici giudiziari con la classica formula dell’estraneità di Craxi ‘ allo stato’ delle indagini. Formula che poi sarà usata dal capo della Procura, Francesco Saverio Borrelli, nella inusuale partecipazione alle consultazioni riservate del presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo. Che si risolveranno col conferimento dell’incarico a Giuliano Amato, anziché a Craxi. Nella riunione serale di redazione per la confezione della prima pagina decidiamo di titolare sul comunicato della Procura, destinando le indiscrezioni a carico del segretario socialista non ricordo più se al sommario o al catenaccio, come si chiama in gergo tecnico un rigo vistoso di sottotitolo: tutto a metà pagina, per dare più spazio agli arresti ormai di giornata. A tarda sera, mentre sto per scendere in tipografia a chiudere il giornale – altro gergo tecnico – mi chiama da Roma l’amico Ugo Intini, portavoce e consigliere di Craxi, per chiedermi la cortesia di dirgli come saremmo usciti. Alla lettura del titolo mi chiede un’altra cortesia: Posso farti chiamare da Roberto? Che è Villetti, direttore dello storico Avanti!, il quotidiano ufficiale del Psi. Villetti mi chiama dopo un quarto d’ora e non mi lascia neppure il tempo di salutarlo perché mi assale, letteralmente, con questa domanda: ‘ Ma è vero che esci titolando sulla smentita della Procura? Certo. È l’unica notizia vera. Il resto è un assemblaggio di condizionali, di sembra che, di pare. Vuoi che privilegi questa roba, utile solo a boicottare l’incarico di governo a Craxi?, gli rispondo. Roberto si traveste da fratello, non bastandogli più l’amicizia, e mi dice, accorato: ‘ Francesco, ma che fai? Non essere più realista del re. Questo ti nuoce professionalmente. Non reggo più a sentirlo. Lo saluto e fuggo via dal telefono. Sono sinceramente esterrefatto. Mi metto le mani fra i capelli pensando a qualche mese prima, a quella trattoria di Bari dove avevo trattenuto Bettino dall’intenzione che mi aveva espresso di cambiare il direttore dell’Avanti!. Non avevo neppure fatto tanta fatica. Mi era bastato chiedere a Craxi perché mai volesse fare di Roberto un martire. Il primo avviso di garanzia al leader socialista sarebbe arrivato verso la fine del 1992: il primo di una lunga serie. E dopo qualche settimana si sarebbe dimesso da segretario del partito scrivendomi, con quella sua grafia grande e frettolosa: ‘ Faccio come il generale Kutuzov. Indietreggio per poter poi attaccare’. Povero Bettino. Si illudeva di poter ancora fronteggiare la belva scatenata da quella che dopo, molto dopo, il buon Luciano Violante avrebbe sarcasticamente chiamato la carriera unica di pubblici ministeri e giornalisti. E che Piero Sansonetti ha efficacemente descritto raccontando delle telefonate che scorrevano ogni sera fra le redazioni dei maggiori giornali, compreso il suo, l’Unità, per consultarsi e uscire poi il più omogeneamente possibile. *** Fa bene Piero a dubitare della consapevolezza di Eugenio Scalfari in questa partita. Di lui ricordo nitidamente, senza bisogno di ricorrere all’archivio, l’editoriale sui decreti che, su iniziativa dell’allora guardasigilli Giovanni Conso, il primo governo di Giuliano Amato varò nel marzo del 2013 per la cosiddetta ‘ uscita politica’ da Tangentopoli. Che non sarebbe forse servita a salvare lo stesso la prima Repubblica – quella vera, non la Repubblica di carta di Scalfari – ma avrebbe probabilmente ridotto le perdite. Usciti peraltro da una lunghissima riunione del Consiglio dei ministri, sospesa una ventina di volte per consentire consultazioni telefoniche fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale, i decreti Conso furono giudicati positivamente da Scalfari. Che non aveva previsto le proteste della Procura di Milano, il cui capo lesse personalmente davanti alle telecamere una dichiarazione di forte dissenso, negando che quella roba lì rispondesse in qualche modo, come si era scritto da qualche parte, alle attese degli ormai stanchi inquirenti; spiegando che le nuove norme avrebbero invece danneggiato le indagini; minacciando infine ricorsi alla Corte Costituzionale. Tanto bastò al capo dello Stato per scomodare di domenica i suoi uffici al Quirinale e fare annunciare un suo motivato rifiuto di firmare i decreti legge e renderli esecutivi. Giocò, in particolare, contro uno dei decreti il fatto che, riformando la legge sul finanziamento dei partiti avrebbe fatto saltare un imminente referendum abrogativo della stessa legge promosso dai radicali. Se il decreto non fosse stato approvato dalle Camere entro i 60 giorni prescritti dalla Costituzione, il danno apportato al referendum – osservò Scalfaro – sarebbe risultato irrimediabile. Comunque motivato, l’imprevisto rifiutò della firma di Scalfaro segnò, dopo la resa della libera informazione e quella della politica, la resa anche delle istituzioni. Per la Repubblica, senza discontinuità purtroppo fra la prima che moriva e la seconda che si affacciava in quei giorni alle finestre del referendum elettorale contro il sistema proporzionale, fu un’altra storia. Per uscire dalla quale, con un riequilibrio fra politica e giustizia, entrambe al minuscolo per favore, chissà quanto altro tempo dovrà ancora trascorrere.

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.

Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia. Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi, scrive Wlodek Goldkorn il 29 dicembre 2016 su "L'Espresso". Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”. O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando. Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa). E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte? La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole. Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata». Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide. Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia». E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia». A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso». E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv. Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.

La democrazia? E' viva e lotta insieme a noi. "L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico". Il controcanto di Bernard Manin, scrive Wlodek Goldkorn il 29 dicembre 2016 su "L'Espresso". Bernard Manin, 65 anni, marsigliese, professore alla New York University e a L’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, è considerato uno dei massimi studiosi dei sistemi politici e della loro storia. Autore del fondamentale “Principi del governo rappresentativo” (il Mulino), da anni parla dell’evoluzione della democrazia verso un “democrazia del pubblico”, dove non sono più i partiti con i loro apparati a scegliere i leader, ma l’ascesa e la carriera dei politici dipende dal loro rapporto con i potenziali elettori, rapporto talvolta diretto, talvolta mediato attraverso i mezzi di comunicazione.

Ha ancora senso parlare della democrazia?

«Sì. Penso che la forma che diamo a questo tipo di sistema politico cambia con il tempo. Ma non è esaurita. La democrazia ha un interessante futuro davanti».

Manca però il dibattito ponderato, razionale e dove alla fine gli elettori votano a seconda delle convinzioni e interessi ben compresi. Oggi, qualunque governo perde comunque qualunque referendum. La classe politica non ci rappresenta più?

«Non confonderei quello che è un fenomeno del tempo breve con i tempi lunghi della storia. L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche, intese come “policy”, come soluzioni concrete. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico, e cioè il fatto delle elezioni periodiche, dell’autonomia degli eletti e degli elettori e della libertà di esprimere le proprie opinioni ed esigenze».

E lo scontento?

«È dovuto alla globalizzazione. In quel processo ci sono i vincitori e gli sconfitti. La democrazia non è in grado di venire in soccorso ai perdenti. E questo è un problema».

E allora che fare?

«Non parlare della post-democrazia; non cedere alle utopie di stampo retrò e romantico; continuare a credere nei valori dell’Illuminismo e insistere sull’importanza dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà di parola. In altri termini: dobbiamo resistere, per migliorare la qualità delle nostre democrazie e non affossarle come fanno invece coloro che parlando della “postdemocrazia”. Ricordiamoci di cosa era il secolo scorso. Se la democrazia non è morta allora, vuol dire che ha una vita lunghissima davanti».

Colin Crouch: "L’illusione della rivolta apre le porte ai dittatori". Ha descritto un mondo in mano alle élite dove al popolo era concessa solo la “finzione” del voto. «Ma oggi è molto peggio». Parla il sociologo che ha inventato la parola “postdemocrazia”, scrive Marco Pacini il 29 dicembre 2016 su "L'Espresso". Peggio, oggi è peggio». Forse Colin Crouch non immaginava di giungere a una conclusione così perentoria a soli 13 anni di distanza dal mondo che descriveva in “Postdemocrazia”: un titolo, ma soprattutto una definizione destinata a entrare nel lessico politico in modo stabile. Perché quel mondo, analizzato dal sociologo e politologo inglese nel fortunato saggio del 2003, era già l’esito di un declino; e la sua era la diagnosi di un male oscuro che colpiva i gangli vitali di un sistema che l’Occidente, ma non solo, sembrava aver eretto a paradigma universale e insostituibile dalla seconda metà del Novecento. Se 13 anni fa Crouch metteva in guardia contro il sorgere di sistemi statali saldamente nelle mani della nuova aristocrazia delle grandi imprese, concludendo che alle élite non serve una dittatura per esercitare il potere, oggi il risorgere dei nazionalismi e l’emergere di leader sempre più “democratori” lo costringono a correggere in senso peggiorativo alcune delle sue analisi-previsioni. «Il mondo di Hitler potrebbe non essere così lontano», titolava nel marzo scorso The Guardian online un lungo stralcio sulla crisi delle democrazie firmato Timothy Snyder, storico di Yale. E se pur non arriva a tanto, Crouch oggi non fa fatica e evocare con l’Espresso i nomi di Hitler e Mussolini. «Questi movimenti populisti e nazionalisti - spiega il sociologo - sono una rivolta contro la postdemocrazia che analizzavo. Ma secondo me conducono verso qualcosa di peggio della postdemocrazia. Forse il caso italiano, e mi riferisco al Movimento 5stelle, è ancora parzialmente diverso. Ma quando osserviamo i nuovi movimenti populisti in Paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, quello che emerge è un conflitto profondo tra ragione ed emozione, un rifiuto del ragionamento. Forse la politica democratica nella postdemocrazia era ancora politica, senza un prevalere delle passioni, delle emozioni; era piuttosto dominata da dati, ragioni economiche, tecnologia. Ma conservava qualcosa di democratico».

In “Postdemocrazia” lei scriveva che “la massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve, e a parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Oggi è la rabbia, più che l’apatia, a dominare la scena, con esiti imprevedibili.

«Ciò a cui assistiamo prende la forma di una rivolta delle emozioni. Come avvenne in Europa negli anni 20 e 30 con Mussolini e Hitler. Ripeto: oggi è peggio. Assistiamo a una rivolta contro certi meccanismi postdemocratici che è ancora più postdemocratica. Perché non è il popolo che trionfa, ma certi leader che manipolano le emozioni e le paure del popolo. Non si tratta affatto di una rivolta contro le élite. Trump è un esempio perfetto di questa post-postdemocrazia. La politica delle emozioni che i Trump incarnano segna una svolta ancora più accentuata verso un “dopo” rispetto alla democrazia. E a questo processo partecipa anche l’informazione. Basti pensare a certi media online negli Usa e ad alcuni tabloid britannici che soffiavano sulla rivolta della Brexit attaccando pesantemente il ruolo dei giudici e del parlamento».

Dovremmo parlare allora di psicopolitica più che di politica, come suggerisce qualche filosofo?

«Psicopolitica è un termine pertinente per descrivere i fenomeni in atto. Io sono un sociologo, ma credo che oggi sociologia e psicologia debbano incontrarsi, procedere insieme nell’analisi dei processi politici. Perché il background delle azioni politiche spesso si chiama paura. Nient’altro che paura».

Chiamiamo populismo il vento che soffia sull’Occidente. Uno stesso clima che ci fa assimilare l’elezione di Donald Trump alla Brexit, e ora anche all’esito del voto nel referendum in Italia sulla riforma della Costituzione, benché in questo caso il voto anti-establishment sarebbe stato il Sì, secondo la campagna condotta dall’ex premier anche con toni populisti. Sviste degli analisti e degli osservatori? Semplificazioni?

«In effetti è apparentemente molto paradossale e contraddittorio quello che è accaduto in Italia. Ma al fondo di tutto c’è la parola rivolta. Il caso italiano è più complicato. Quella che veniva presentata come la “sostanza” del referendum pochi l’hanno vista. Ed è normale che in Italia se uno vuole troppo... poi susciti questo tipo di reazione. Ma nell’esito del voto, in generale, c’è dell’altro: dall’antieuropeismo all’immigrazione. È una rivolta del No generica. Accade nel mondo in generale, dalla Scandinavia all’Ungheria, alla Polonia; e ora anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Sembra che ci siano molte persone oggi che si sentono escluse dalla modernità. Non è stato un caso che gli elettori a favore della Brexit fossero in gran parte anziani. Al di là del merito specifico sul quale si chiede agli elettori di pronunciarsi, ciò che sembra prevalere, la vera divisione, è tra rifiuto e accettazione del mondo moderno. E il punto più forte di questa divisione riguarda l’immigrazione. Trump ha usato molto la paura dell’islam benché avesse pochissimo a che fare con i principali temi delle presidenziali. E nel voto sulla Brexit è accaduta la stessa cosa: non è razionale, è emozionale. E dobbiamo chiederci che cosa significa, dove porta. Il ruolo, la paura dell’Islam, fanno sempre parte del dibattito, magari sottotraccia. Ma ogni giorno arriva sempre più in superficie. Dopo il referendum sulla Brexit ho visto nel mio Paese un mutamento profondo, una nuova legittimazione del razzismo fino al moltiplicarsi di attacchi e aggressioni contro le persone di fede islamica».

È la fine del modello, o dell’illusione, multiculturalista?

«Siamo tutti divisi. Nel mondo islamico ci sono molte persone che vogliono vivere pacificamente insieme, che credono che possiamo condividere la cultura, cosa che la razza umana ha fatto da sempre. Per esempio, è fondamentale nella cucina italiana il ruolo del pomodoro, ma il pomodoro non è italiano, viene dall’America. Noi possiamo fare ancora questo con la cultura islamica. Ma ci sono molti altri che vogliono il conflitto. C’è una guerra in atto, ma più che tra Occidente e mondo islamico è una guerra tra chi crede che sia possibile la convivenza e chi no. Le nuove onde populiste non la accettano. Come non accettano il ruolo delle istituzioni delle democrazie. Questi aspetti, insieme, sono l’anticamera delle dittature. In molti Paesi assistiamo all’avanzata di movimenti populisti e alla retorica degli anni 20 e 30. Anche in Russia sta accadendo da tempo... Che accadesse degli Stati Uniti non potevano aspettarcelo. Ora più che mai abbiamo bisogno dell’Unione europea. Oggi che la “testa” americana sta con la Russia... E stanno insieme perché c’è una visione comune profondamente di destra. Questo è un grande cambiamento nel mondo».

Nei suoi lavori successivi a “Postdemocrazia” (“Il Potere dei giganti” e “Quanto capitalismo può sopportare la società”), lei si occupa a fondo delle disuguaglianze crescenti. Come e quanto hanno inciso all’interno delle società occidentali nello sfaldamento delle democrazie. E perché portano a destra?

«Già, è un fenomeno interessante. Finalmente è arrivata una rivolta contro la disuguaglianza... ma prende una forma politica di destra estrema, condita di razzismo. Così oggi abbiamo il confronto tra due opzioni di destra in molti Paesi: la destra neoliberale contro la destra populista e xenofoba. Queste due destre sono nemiche. E con un’idea di democrazia sociale molto debole, in questa fase sono i neoliberali che devono scegliere. Normalmente preferiscono i compromessi con la destra nazionalista. Ma forse adesso trovano che i loro nemici profondi sono le estreme destre. Perciò solo un compromesso tra la democrazia sociale e i neoliberali potrebbe essere l’argine. Solo coalizioni così potrebbero salvare le democrazie da derive autoritarie».

Se la democrazia finisce, cosa c’è dopo?

«Ci sono molte discussioni sulla democrazia diretta, come evoluzione della democrazia che conosciamo. Ma i referendum dimostrano che quando il popolo ha un’occasione per parlare c’è un potere di interpretare la “voglia” del popolo senza discussione parlamentare, senza filtri. La democrazia è solo un voto e il ruolo delle istituzioni viene quasi cancellato. E questa, ripeto, è la strada verso la dittatura. Perciò la risposta è: dopo la democrazia c’è solo la dittatura».

La falsa lezione di chi dice che la democrazia è falsa. Lo storico Emilio Gentile sembra scoprire solo ora i vizi del sistema di governo preferito in Occidente, scrive Dino Cofrancesco, Venerdì 30/12/2016, su "Il Giornale". «Storico di fama internazionale», Emilio Gentile si cimenta con la political theory, nella collana Idola dell'editore Laterza nata per smascherare i falsi ideologici di ogni tipo (non è vero che in Italia paghiamo troppe tasse, che dobbiamo restituire fiducia ai mercati, che senza proprietà non c'è libertà, che il matrimonio omosessuale è contro natura, che l'Islam è una minaccia etc.). In democrazia il popolo è sempre sovrano. Falso! (così s'intitola il suo saggio). Sarà anche vero che si tratta di un falso, ma tutto dipende dalle definizioni che si danno di democrazia, popolo, sovranità, come potrebbe obiettare Sancho Panza, memore della critica feroce che il democratico Rousseau rivolgeva alla perfida Albione: «Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla». Per Gentile, in verità, è falsa quella che lui chiama la «democrazia recitativa», un'espressione da cui si ripromette, forse, un posto in quella secolare storia delle forme di governo che da Erodoto giunge a Montesquieu e oltre. «Oggi - scrive lo storico/filosofo politico sembra che l'ombra dell'ipocrisia democratica si vada estendendo con la rappresentanza scenografica di una democrazia recitativa, che ha per palcoscenico lo Stato, come attori protagonisti i governanti, e come comparsa occasionale il popolo sovrano, che entra sul palco solo per la scena delle elezioni mentre per il resto del tempo assiste allo spettacolo come pubblico». Sennonché cosa c'azzecca la recita, per parlare come un quasi conterraneo di Gentile? A teatro compare Alfio ammazza per finta compare Turiddu, ma a ogni elezione politica il popolo - sovrano solo nel momento in cui viene chiamato alle urne - non sostituisce Prodi a Berlusconi o viceversa per finta, e non importa l'indice di partecipazione o la competenza dei votanti. In sostanza, Gentile non dice assolutamente nulla di nuovo rispetto alle severe diagnosi che della democrazia dei contemporanei avevano già fatto sociologi e scienziati politici come S.N. Eisenstadt (Paradossi della democrazia, Il Mulino) e, soprattutto, C. Crouch (Postdemocrazia, Laterza). Il degrado della comunicazione politica di massa, la crescente personalizzazione della politica elettorale, la concentrazione del «potere politico nelle mani di una minoranza di governanti, legati a potentati economici e finanziari, quando non sono gli stessi esponenti di questi potentati a diventare governanti grazie a un elettorato sul quale ha avuto effetto» una «martellante campagna pubblicitaria», le sfide della globalizzazione economica e culturale, i nuovi antagonismi culturali, etnici, nazionalisti, religiosi, il declino del Welfare State e quella che un tempo si chiamava la «crisi fiscale dello Stato»: sono fenomeni fritti e rifritti in tutte le salse e non è certo l'invenzione della «democrazia recitativa» a darne una definitiva sistemazione concettuale. Il problema diventa serio quando si tenta (almeno) di individuare non le cause ma i mutamenti istituzionali che hanno reso quei fenomeni comuni dal più al meno - a tutti i Paesi delle due rive dell'Atlantico. Ma su questo piano il demistificatore del nuovo falso si chiude in un poco dignitoso silenzio. Non solo non viene mai fuori il nome di Giuseppe Maranini, un lucido analista della partitocrazia e della sua genesi, ma neppure si accenna a storici come Renzo De Felice o Rosario Romeo i quali avevano meditato sulla crisi della democrazia e sul suo nesso con la crisi della nazione, una tematica oggi al centro di autori come Pierre Manent, Yakov M. Rabkin, Roger Scruton. Inoltre meraviglia non poco che nell'analisi del berlusconismo lo storico non accenni neppure alle ragioni reali del suo successo ma si limiti a far suo il giudizio dell'Economist (aprile 2001) sull'uomo «inadatto a governare l'Italia» o che metta alla gogna quanti vorrebbero dare maggior potere all'Esecutivo, dimenticando che la Costituzione è stata criticata per mezzo secolo per aver riguardato il capo del governo come un primus inter pares alla mercé di un legislativo pletorico, bicefalo e (giacobinamente) onnipotente. Si ha l'impressione, in realtà, che Gentile abbia appena sfiorato l'universo liberale. Parlando della democrazia greca, a esempio, la definisce una «democrazia diretta», ma guastata da un demos che non comprendeva donne, schiavi e meteci, senza dire che, per i moderni (Benjamin Constant docet), il suo peccato di origine stava piuttosto nella mancanza di limiti alle competenze del popolo sovrano. In un'altra pagina, scrive che Tocqueville fu affascinato dall'esperimento democratico americano in cui il popolo «è la causa e il fine di ogni cosa: tutto esce da lui e tutto finisce in lui», ignorando che ad affascinare Tocqueville non era il popolo che «regna nel mondo politico americano come Iddio regna dell'universo» ma il fatto che «I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono i diritti. Essi professano l'opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è il regno tranquillo della maggioranza. (...) Ma la maggioranza, di per se stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l'umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti». Ancora una volta, i limiti! Forse all'origine della crisi profonda della democrazia c'è una political culture che scarica sullo Stato ogni tipo di bisogni, ogni disagio individuale e collettivo, in linea con l'evergreen «piove, governo ladro!».

Grillo svela il programma: autarchia, decrescita e povertà felice, scrive Piero Sansonetti il 27 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  Beppe Grillo con due interventi ci ha offerto finalmente il suo programma. Nel primo si è pronunciato per l’espulsione dei clandestini dall’Italia. Nel secondo – citando Goffredo Parise – per la “povertà” e la decrescita come valore e come prospettiva di diversa modernità. Difficile non provare simpatia per il pianto di Virginia Raggi, all’incontro con la Caritas di Roma. Il pianto in pubblico non è una vergogna o una debolezza: è un modo di comunicare. Finalmente questa contestatissima sindaca di Roma ci comunica qualcosa di comprensibile: la difficoltà, la paura di non farcela, il disappunto per gli errori. Finora sembrava chiusa in una gelida torre blindata, lontana dalla gente, dai problemi, dai programmi. Adesso sappiamo che c’è. Non se è brava, se avrà successo, se servirà alla città: però almeno sappiamo che c’è. E questo un pochino ci rassicura. Ma il Movimento 5 stelle, a Natale, non ci ha regalato solo le lacrime tenere della Raggi. Anche un’altra cosa, che mancava da tantissimo tempo: il proprio programma politico. Finora avevamo capito solo che il movimento proclamava l’esigenza dell’onestà e la necessità di demolire il vecchio sistema politico. Avevamo dei dubbi sull’ utilità di demolire un sistema politico senza averne a disposizione un altro, mentre apprezzavamo l’inno all’onestà, ma francamente ci sembrava un valore “debole”, se preso da solo, e non in grado di alimentare un programma di governo o di riforma. Nelle ultime ore Beppe Grillo in persona, con due brevissimi interventi, ci ha offerto un programma politico – non so se di governo o solo di opposizione – che ha una sua solidità. Il primo intervento è stato quello nel quale si è pronunciato per l’espulsione dei clandestini dall’Italia, allineandosi su questo terreno alle posizioni della destra classica e in contrasto aperto col Vaticano. Il secondo intervento – illustrato da un bellissimo articolo di Goffredo Parise del 1974 – è stato quello a favore della “povertà” come valore e come programma. L’idea che ci propone Grillo – attraverso l’analisi spietata e suggestiva di Parise – è quella di ricostruire l’Italia ripartendo dall’inizio, e cioè mettendo tra parentesi i risultati – positivi e negativi – della ricostruzione postbellica, del boom economico degli anni sessanta, e poi delle riforme degli anni settanta e della gestione per metà liberista e per metà socialdemocratica dei decenni successivi. Ripartire da zero mettendo in discussione tre elementi che sono stati nel Dna di questi settant’anni di storia nazionale: il consumismo, lo sviluppismo e l’omologazione. La trasformazione che ci proponeva – quarant’anni fa – Goffredo Parise era un “ritorno indietro”. Attraverso una scelta di decrescita e di autarchia. Riduzione drastica dei consumi, redistribuzione delle ricchezze, appianamento verso il basso delle diseguaglianze, ritorno ai valori di una comunità contadina. Fine della predominanza dell’economia e della produzione di massa. La filosofia politica della decrescita è tornata di attualità qualche anno fa – nei primi anni di questo decennio – quando le varie anime del movimento cosiddetto no- global si sono opposte frontalmente alla globalizzazione delle multinazionali (che poi ha preso probabilmente una via molto diversa da quella che si era immaginato). Filosofi e politologi americani, sudamericani ed europei l’hanno studiata e predicata. Il più noto e il più completo probabilmente è il francese Serge Latouche. Ma l’idea anticonsumista non è nuovissima. In parte accompagnò lo sviluppo del sessantotto – arricchita persino da spinte di luddismo, e cioè di attività violenta volta a distruggere le macchine e le strutture dell’industria e quindi dello sviluppo – in parte, qui in Italia, diventò l’anima della politica del Pci berlingueriano, proprio negli anni immediatamente successivi a quelli nei quali scriveva Parise. La svolta fu sancita da un convegno importantissimo, organizzato dal Pci coi suoi intellettuali (che allora erano la parte prevalente e anche la più potente dell’intellettualità italiana) nel gennaio del 1977 ( esattamente 40 anni fa) al teatro Eliseo di Roma. In quella sede il segretario del Pci ( poche settimane prima dell’esplosione del movimento giovanile che si chiamò, appunto, il movimento del ‘ 77, e che culminò con la cacciata dall’università di Roma, in febbraio, del capo della Cgil Luciano Lama) tenne un discorso nel quale proclamò la necessità, anche per la classe operaia, di fare sacrifici e di rinunciare ad alcuni lussi e a parte della propria ricchezza per diventare la guida di un processo di profonda trasformazione che avrebbe prodotto un “modello di sviluppo” diverso dal modello industrialista e capitalista. Berlinguer concepì questa nuova linea politica – che camminò con gambe robuste dopo che la Cgil, in una famosa conferenza tenuta al palazzo dei congressi dell’Eur, fece prevalere al suo interno la linea dei “sacrifici”, che rovesciava la politica degli aumenti salariali dell’autunno caldo – anche per creare le condizioni di un accesso del Pci al governo ( accesso che non avvenne mai, anche se il Pci nel 1978– 1979 condizionò fortissimamente le riforme realizzate dal governo Andreotti, al quale, per la prima volta dopo il 1947, aveva concesso il voto di fiducia). Lo scritto di Parise – che in parte riprendeva idee già espresse da Pier Paolo Pasolini – anticipava la svolta del Pci. Era una ipotesi ragionevole di ingresso in una diversa modernità? Le opinioni sono tutte legittime e ragionevoli. Grillo oggi si schiera per la ripresa di quella strada, autarchica e antiprogressista. Che taglia in due le ideologie di destra e sinistra, le esclude entrambe, e sfida l’establishment e anche la storia. E’ una buona notizia. Adesso sarà più semplice confrontarsi con l’onda grillina. Nei suoi aspetti di destra e in quelli di sinistra. E anche nel suo affascinante e rischiosissimo antimodernismo. P. S. A me capita, ogni volta che dichiaro pubblicamente la mia idea “aperturista” sull’immigrazione, e cioè la richiesta di aumentare l’accoglienza e non di concentrarsi sulle espulsioni, di sentirmi dire, molto polemicamente: «Ma perché non te li prendi a casa tua, gli immigrati?». Non li prendo a casa mia per due ragioni: primo perché casa mia è piccola, secondo perché io non credo che la politica dell’accoglienza debba essere realizzata individualmente dai singoli cittadini, ma invece dallo Stato, anzi dagli Stati, anzi, meglio, dall’Europa. Non credo che si possano contestare le idee di una persona imponendole di realizzare individualmente quelle idee prima di dichiararle. E’ una vecchia questione, che è stata sollevata tante volte negli ultimi secoli. Da quando i tribuni della plebe erano aristocratici…Dunque non penso che Grillo prima di proclamare la necessità di diventare tutti poveri, debba diventare povero anche lui. Però non si può negare che un problema – come dire? – estetico, si pone. Non so quanto guadagni Grillo. L’ultima volta che ho letto una sua dichiarazione dei redditi è stato qualche anno fa, e quella dichiarazione diceva che in un solo anno Grillo aveva guadagnato – mi pare di ricordare – circa 4 milioni e mezzo di euro. Che è circa il triplo di quello che io – che non sono povero – ho guadagnato in quarant’anni di lavoro abbastanza duro. Beh…

Come l’Italia è diventata un non-Stato, scrive Corrado Ocone il 29 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  Storia del declino del nostro Paese. Quante volte abbiamo ripercorso la storia degli ultimi settant’anni, la storia dell’Italia repubblicana? Eppure, devo dire che raramente mi è capitato di farlo con tanta soddisfazione finale come in questo caso, cioè dopo aver letto il denso e ampio libro di Piero Craveri intitolato L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana (Marsilio, pagine 592, euro 25). Il fatto è che questo volume, rispetto ai molti altri, pure eccellenti, sul tema, dà alla fine l’impressione di far cogliere al lettore il cosiddetto bandolo della matassa, quello attorno a cui un po’ tutti i fili, di volta in volta messi in luce, finiscono per raccogliersi. Sarà forse perché Craveri riesce a connettere la storia politica a quella economico– sociale e anche a quella istituzionale– amministrativa; sarà forse perché quella che egli racconta non è una storia di “magnifiche sorti e progressive”, ma una storia appunto di “declino” (una storia vista col senno dell’oggi), fatto sta che, alla fine dell’itinerario, molte cose ci sembrano più chiare. Che il nostro Paese, come ma molto più di altri dell’Occidente, sia in discesa, è opinione comune, oltre che stato psicologico generale. D’altronde, i dati macroeconomici sono chiari e inoppugnabili. Quello che però altrettanto chiaro non è a tutti, e che questo libro contribuisce a chiarire, è che il declino data da molto lontano, era già presente in nuce negli anni in cui tutto sembrava andare per il verso giusto e l’Italia si era lasciata alle spalle la distruzione della guerra e aveva addirittura fatto ingresso nel ristretto club dei paesi più industrializzati e ricchi del mondo. Le scelte di allora, degli “anni del boom”, quelli a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta, o meglio le non scelte di cui parla Craveri nel titolo, erano già un segno della crisi, come qualcuno fra i più avveduti e responsabili esponenti della classe dirigente faceva allora presente. Craveri pensa in primo luogo a Ugo La Malfa, uno dei pochi protagonisti in positivo della sua storia, il quale non a caso veniva apostrofato come una “Cassandra”. Si può es- sere più o meno d’accordo con Craveri. Il sottoscritto, per esempio, lo è solo in parte, ed ha seri dubbi a che le ricette lamalfiane, basate su una sorta di “dirigismo liberale” e sull’idea guida della “programmazione economica”, fossero sempre le migliori e più auspicabili per il nostro Paese. D’altronde, se il “non governo”, proprio perché è una “arte”, è anche una virtù e non sempre e solo un vizio. I processi, anche quelli economici, vanno sempre un po’ lasciati a loro stessi, controllati e anche governati, ma governati in senso formale e non sostanziale, con leggi e regole di contesto non con norme di condotta rigide e predeterminate. Credo che anche l’idea di un primo momento d’oro e positivo della Cassa per il Mezzogiorno e di altre “partecipazioni statali” vada rivisto e circoscritto. Ma un conto sono le ricette, altra l’analisi. E da questo secondo punto di vista ha davvero ragione Craveri quando individua in La Malfa e in pochi altri le “teste lucide” della nostra storia politica. Soprattutto però egli ha ragione quando collega il declino di oggi, soprattutto ma non solamente economico, a quel groviglio di poteri dispersi e sovrapponentisi che hanno fatto dell’Italia un “non Stato”. Craveri colloca negli anni Sessanta i prodromi della crisi, quasi in coincidenza e sovrapposizione con l’apice del nostro miracolo (nel 1963 fu raggiunta la piena occupazione mentre qualche anno prima, nel 1959, la lira aveva conquistato lo scettro di moneta più forte). Io, fatto tesoro delle pagine di questo libro, mi spingerei a dire che gli anni ‘ 68, ‘ 69 e ‘ 70 sono quelli simbolicamente più significativi. il ‘68 è, in tutto il mondo, l’anno della contestazione, che però in Italia assume da un lato un carattere molto politicizzato, più marxista che libertario, e dall’altro allunga le sue propaggini fino agli anni più recenti. È una vera e propria frattura, culturale e generazionale, la quale coinciderà con la secolarizzazione dei costumi del nostro Paese, ma che pure costituirà un ulteriore tassello di quella “ideologia italiana”, tutto fuorché liberale, che permea la cultura e la mentalità comune ancora oggi (il primo era stato, negli anni immediatamente successivi alla guerra, quel collante fra le culture cattoliche, comuniste e azioniste che aveva dato vita all’ideologia dell’antifascismo). Il ‘ 68 avrà anche una propaggine terroristica nel decennio seguente, con tutta la crisi che ne consegue a livello di sistema politico soprattutto dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, un contesto che Craveri illustra in pagine di indubbia efficacia. Il ‘69 è invece l’anno delle rivendicazioni sindacali, che si concretizzeranno in quella che presto diverrà un’altra palla al piede del nostro Paese: la ipersindacalizzazione della nostra società e, per converso, la politicizzazione del sindacato. A cominciare dalla CGIL, vissuta come una “cinghia di trasmissione” del PCI, che avrebbe poi portato entrambi a sbattere negli anni Ottanta sul referendum sulla scala mobile (ma prima ancora c’era stata a Torino la “marcia dei quarantamila” che certi equilibri aveva cominciato a rompere). Infine, il 1970 fu l’anno in cui il dettato costituzionale sull’istituzione delle regioni a statuto ordinario fu attuato con le elezioni dei primi consigli. Fu un modo per “consociare” sempre più al potere i comunisti, che negli enti locali erano in maggioranza. Si risolse tuttavia sempre più, soprattutto al Sud, in un nuovo e spesso incontrollato meccanismo di spesa. L’idea di diffondere il potere, piuttosto che controbilanciarlo, di evitare di individuare con precisione un responsabile unico e ultimo delle decisioni politiche, era d’altronde una facilmente prevedibile conseguenza dell’impalcatura costituzionale: della costituzione formale, non meno di quella materiale che si era andata con gli anni sedimentandosi. Per un liberale le regole sono il meccanismo per imbrigliare il potere, e sono quindi importanti. Nel nostro caso, la Grundnorm, la “nor- ma fondamentale”, che pur aveva una nobiltà e una ragion d’essere al suo esordio, non è stato certo elemento ultimo nell’impaludamento successivo del nostro sistema politico. Gli elementi per ricostruire questi snodi nel libro di Craveri ci sono tutti. Così come anche una descrizione dei generosi tentativi fatti, prima dell’ultimo referendum, per riformare la Carta. Molto ponderato è il giudizio, tutto sommato positivo, che Craveri dà di Craxi, così come quello, tutto sommato negativo, che dà dell’altro e successivo “grande riformatore” della politica italiana, quel Silvio Berlusconi di cui si mettono qui in chiara evidenza i limiti politici (nonché il conflitto di interessi) ma senza mai soggiacere alla retorica e all’inconsistenza sostanziale dell’antiberlusconismo di maniera. Appropriata è anche l’immagine, politicamente fallimentare, che viene fuori di Berlinguer e in genere di quel PCI che si è fatto travolgere dagli eventi non riuscendo a decidersi mai, fino alla fine della sua parabola, fra un’irrealistica “alternativa di sistema” e una compiuta socialdemocrazia. Un po’ forse troppo negativo invece il giudizio su Andreotti, la cui figura politica viene forse troppo appiattita su una cifra di cinismo e di mancanza di visione politica. Ad un certo punto, Craveri contrappone la concezione della politica di Andreotti a quella di Moro: per il primo, la politica deve riflettere e adeguarsi alla realtà; per il secondo la deve indirizzare. Craveri non ha dubbio che, giusta la sua idea di fondo del “non governo, Moro avesse ragione e Andreotti torto. Il che può concedersi, ma nella sola misura in cui riflettere gli umori di una società, anche quindi i peggiori, significhi assecondarli. È però da chiedersi, ancora una volta, se il dirigismo, in genere, sia la migliore ricetta, e se lo sia stato, in particolare, per l’Italia repubblicana. Molto importanti sono poi anche le pagine che Craveri dedica al tentativo delle più sensibili fra le élite italiane a provare a risolvere con un “vincolo esterno” i problemi più sostanziali della nostra economia, a cominciare dal “debito pubblico (destinato a crescere a dismisura dalla “crisi petrolifera” di metà anni ’ 70 fino ad oggi, tranne una breve parentesi negli anni ’ 80 di cui non si approfittò). Fu soprattutto Guido Carli che concepì questa politica e cominciò poi a mettere in pratica nel corso dei negoziati di Maastricht. Al fondo, c’era un’idea pessimistica sulla capacità dell’Italia di autocorreggersi, soprattutto di rivedere e diminuire la spesa pubblica (utilizzata a fini di consenso politico da una famelica classe politica nazionale e locale). Ancorarci all’Europa fu poi la parola d’ordine con la quale Ciampi e Prodi, attraverso un processo ben ricostruito da Craveri, ci portarono a entrare da subito nell’euro laddove sarebbe forse stato più opportuno aspettare un po’. Problemi seri, storici e di lunga data quelli dell’Italia, ci ricorda questo libro. Che lascia, non c’è dubbio, l’amaro in bocca a chi ancora tiene a questo Paese e non intravede vie d’uscita. In ogni caso, la capacità di legare i diversi aspetti della “vita materiale” della Repubblica è, come dicevo all’inizio, il grande merito di questo libro. Che va ad integrarsi con altri libri sullo stesso argomento usciti in quest’ ultimo anno, di tono meno pessimistico ma anche forse con qualche limite concettuale in più. Mi riferisco in particolare alla storia di Guido Crainz, uscita da Donzelli, e che molto si concentra più sulle mentalità e le visioni del mondo degli italiani (Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, pagine VII– 387, euro 27,009). E mi riferisco anche a quella di Agostino Giovagnoli, uscita per Laterza, che colloca la vicenda repubblicana in un orizzonte internazionale e di geopolitica, dando fra l’altro molto spazio ai rapporti del nostro Stato con la Chiesa cattolica e degli italiani col cristianesimo (La repubblica degli italiani. 19214– 2016), pagine 388, euro 24).

IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.

Cose nostre sono…, scrive Piero Sansonetti il 18 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Probabilmente la sentenza del tribunale civile di Roma è tecnicamente ineccepibile. Dice due cose. Che Virginia Raggi poteva essere eletta sindaco, anche se aveva firmato quel contratto capestro con la ditta Casaleggio. E questo è ovvio: chi prende i voti dei cittadini è eletto e basta, e ci mancherebbe altro che il tribunale decida di farlo decadere. Poi dice un’altra cosa, più preoccupante, discutibile. «Cose nostre sono!» Così si privatizza la politica. E cioè respinge la richiesta avanzata da un cittadino di considerare nullo il contratto di sottomissione della sindaca, eletta dai romani, nei confronti forse del capo del suo movimento o forse addirittura degli amministratori di una azienda privata (appunto, la Casaleggio). È possibile che il tribunale civile non potesse fare altro. E cioè che avesse bisogno del ricorso della stessa Raggi, o di qualche altro eletto dei 5Stelle contro il contratto capestro. Dunque che non potesse per motivi giuridici prendere in considerazione il ricorso presentato invece da un esterno, cioè dall’avvocato Monello. Tuttavia questa sentenza apre un problema enorme. Sul piano dei principi. Lascia capire che il Movimento 5 Stelle oggi, e in futuro qualunque altro partito, ha un diritto di proprietà e di dominio sui propri eletti. E in questo modo cancella il valore dell’articolo 67 della Costituzione, il quale esclude il vincolo di mandato per i parlamentari. Cosa vuol dire “vincolo di mandato”? Vuol dire in parole povere “disciplina di partito”. Cioè è n meccanismo che impedisce la libera coscienza e il libero convincimento degli eletti, e impone loro di comportarsi, e di giudicare, e di pensare, e di dichiarare in linea con i vertici del loro partito. Il vincolo di mandato è stato abolito in Europa quando è nata la democrazia moderna. Perché considerato non solo uno strumento illiberale – che nega le caratteristiche essenziali della libertà politica – ma un modo per espropriare i cittadini del proprio potere di elettori, e dunque del controllo sugli eletti, assegnando questo potere esclusivamente ai vertici dei partiti. Nella storia della Repubblica italiana il vincolo di mandato di fatto – ha convissuto per lunghissimi anni con la democrazia, in modo ambiguo. La disciplina di partito che vigeva nel Pci, e anche nell’Msi (cioè nel partito più di sinistra e in quello più di destra dello schieramento parlamentare) era, seppure in forma attenuta, un vincolo di mandato. Che raramente fu violato. Alla fine degli anni 80, la caduta del comunismo, la fine del Pci, poi lo scioglimento anche del Msi, avevano posto fine a questa fase. Nella seconda Repubblica, che è stata una Repubblica forse pessima ma comunque liberale, il vincolo non ha avuto diritto di cittadinanza. Qual è la differenza tra il contratto dei 5Stelle e la disciplina del Pci? La differenza sta nei soldi. Nella assoluta e totale privatizzazione e monetizzazione dell’idea politica. Il contratto non è più un accordo ideale con un partito, che comunque risponde a una struttura democratica (come era il Pci e come era anche il Msi) ma l’accettazione di una subordinazione a una ditta privata, e a un capo onnipotente. Non si basa più su un patto d’onore, su una consuetudine e una idea condivisa. Si basa sul potere del denaro frusciante. E dunque non solo riduce la democrazia ai minimi termini ed espropria gli elettori, ma rende la politica un’attività di tipo commerciale. Non era il tribunale civile di Roma a poter risolvere questo problema. Perciò se la politica e l’intellettualità fanno finta di non vedere che il problema esiste si suicidano. Negli ultimi anni la politica ha perso moltissimi spazi, ceduti al potere economico e alla magistratura. Ora rischia di giungere all’auto- annullamento. Gli elettori diventano spettatori, i partiti sono spariti, i leader decidono, dispongono, ordinano, eventualmente pensano. Il partito di Renzi, quello di Berlusconi, quello di Grillo, quello di Salvini. Tutti gli altri chinano la testa e obbediscono. Poi dicono che a uno gli viene la nostalgia di Andreotti… 

LA VERITA' E' FALSA.

La libertà di stampa vale soltanto quando i giornalisti non sono russi, scrive il 4 settembre 2017 Michele Crudelini su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Quando c’è la Russia di Vladimir Putin di mezzo spesso dall’Europa si fa fatica ad essere imparziali. É scattato infatti da parte delle istituzioni e i principali media dell’Europa occidentale un meccanismo di “due pesi e due misure” nel giudicare fatti che coinvolgono Mosca. Ecco un recentissimo esempio.

La “scomparsa” della giornalista russa in Ucraina. Si ha notizia certa che una giornalista di nazionalità russa, Anna Kurbatova, sia stata espulsa dall’Ucraina, Paese dove esercitava legittimamente il proprio mestiere. Lo scorso 31 agosto l’emittente russa Pervyj Kanal, per la quale la giornalista lavorava, annunciava la sparizione della propria collaboratrice/dipendente in territorio ucraino. La giornalista russa in realtà non era sparita, ma era stata “prelevata” dai servizi di sicurezza ucraini, come confermato poco dopo da Elena Gitlyanskaya, proprio la portavoce degli “007” di Kiev. La stessa portavoce ribadiva tuttavia che la procedura di fermo si era svolta nel pieno rispetto della legalità e che la giornalista sarebbe stata da lì a poco espulsa dal Paese perché sorpresa a svolgere attività che “ledono gli interessi nazionali ucraini”. Un episodio che va di pari passo con il divieto imposto dall’Estonia alla partecipazione di giornalisti russi dell’emittente Rossiya Segodnya al summit tra i Ministri degli Esteri dell’Ue in programma a Tallin. In questo caso il rifiuto estone non è stato nemmeno accompagnato da una spiegazione. Ora più che sprecare parole per l’evidente unilateralità di provvedimenti liberticidi, è più interessante osservare il meccanismo di “due pesi e due misure” prima citato. Vi è stato infatti un imbarazzante silenzio mediatico nell’Europa occidentale circa l’azione repressiva del Governo di Kiev e quello estone. Tra i principali media nostrani solo Il Giornale si è prodigato nel riportare la notizia della Kurbatova, mentre a livello europeo e internazionale è stata solo la Reuters a spenderci qualche parola. Sul divieto dell’Estonia ne ha parlato solo la sezione italiana di Sputnik News.  A livello istituzionale il silenzio si è fatto ancora più assordante. Non una parola è ancora arrivata dai vertici di Bruxelles. Un silenzio molto sospetto, soprattutto se consideriamo la reazione immediata e veemente che gli stessi funzionari Ue riservarono a Mosca dopo l’arresto di Alexei Navalny.

Quando l’Ue difendeva Navalny. Quando, infatti, lo scorso marzo 2017 il noto attivista anti Putin, Navalny, venne arrestato per aver organizzato una manifestazione non autorizzata a Mosca, un portavoce dell’Unione europea così dichiarava: “Le operazioni di polizia nella Federazione Russa, che hanno tentato di disperdere i manifestanti e hanno arrestato centinaia di cittadini, tra i quali il leader dell’opposizione, Alexei Navalny, hanno impedito di esercitare le loro libertà fondamentali, tra i quali la libertà di espressione, associazione e riunione pacifica, che sono iscritte nella Costituzione russa”. Sorvolando sull’errore, marchiano, di identificare Navalny come “leader dell’opposizione”, quando in realtà non lo è affatto, osserviamo l’attenzione e l’enfasi posta dal portavoce Ue su temi quali “libertà d’espressione”. La stessa che è stata recentemente negata ad Anna Kurbatova e ai giornalisti di Rossiya Segodnya, nell’indifferenza proprio dell’Unione europea. L’amnesia di Bruxelles non è passata però inosservata. La Federazione Europea dei Giornalisti ha infatti deciso di segnalare l’accaduto al Consiglio d’Europa (organo non facente parte dell’Ue) attraverso la sua piattaforma web. La speranza è che tale organo, fuori dai meri interessi politici di una Bruxelles più russofoba che mai, possa prendersi a carico la questione ed esercitare una pressione politica affinché venga rispettata la libertà di lavoro per qualsiasi giornalista, a prescindere dalla nazione d’appartenenza. 

La «post-verità» da Platone fino a Trump. La filosofa Adriana Cavarero analizza le radici della «parola internazionale dell’anno», ovvero quando i governanti diventano popolari sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza, scrive Adriana Cavarero il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Gli Oxford Dictionaries hanno eletto «post verità» parola internazionale dell’anno 2016, a seguito del controverso referendum sulla «Brexit» e dell’elezione presidenziale americana ugualmente contestata, che hanno contribuito a diffondere questo termine tanto nei mass media che nel gergo politico. Il dizionario definisce «post-verità» come «in rapporto o contestuale a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle emozioni e sulle credenze personali». Il prefisso «post», in questo caso, non significa «successivo», ma anzi denota un’atmosfera in cui la verità è irrilevante e prevalgono le credenze radicate nelle emozioni. Ci si chiede se una politica che fonda la sua agenda sul principio della verità, scartando il regno emotivo di sentimenti e credenze, sia mai esistita nell’intera tradizione politica dell’Occidente. A dire il vero è esistita, ma solo nel registro astratto della teoria: nella fervida immaginazione politica di Platone.

Nella Repubblica, Platone esamina l’antagonismo tra una politica costruita sulla verità, che corrisponde alla sua concezione della polis ideale, e una politica costruita invece sulle emozioni, ovvero sul pathos, la patologia di quella entità politica collettiva che egli chiama «i molti» — hoi polloi — e che descrive in modo allegorico come «un grosso animale». Il contesto in cui questa celebre e ignobile immagine emerge è un discorso di Socrate sulla natura del vero filosofo, che si distingue dalla natura di altri esperti di logos nell’Atene contemporanea, i sofisti. Nello sviluppare una speciale tecnica di linguaggio che riesce ad emozionare «i molti» i sofisti si prestano a pagamento a istruire i futuri leader politici su un discorso che miri a manipolare il pubblico e, tecnicamente, a conquistarsi i voti degli elettori. Platone paragona il sofista a qualcuno che «avesse compreso gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a insegnarle quasi avesse istituito un’arte;… tutto in base alle opinioni di quel grosso animale».

È risaputo che le teorie antidemocratiche di Platone sono state storicamente cooptate dalla tradizione reazionaria e dall’estrema destra, persino dalle ideologie naziste. Eppure vale la pena riflettere sulla sua critica della democrazia. Platone sostiene che la democrazia si trasforma inevitabilmente in demagogia, un regime politico che provoca la corruzione del popolo tramite la manipolazione dell’opinione pubblica e crea governanti che accrescono la loro popolarità sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza di molti, rinfocolando le loro emozioni e contrastando le decisioni ragionate. Questi leader si specializzano nel coltivare, incrementare, riprodurre e riformulare gli impulsi del grosso animale, allo scopo di stabilire e affermare un sistema di potere fondato sul pathos, una forma di «politica patologica». In questo senso, la polis ideale di Platone è all’opposto: come governanti, i filosofi sono in realtà guidati dalla verità del logos, ovvero dalla capacità della ragione di controllare e reprimere gli impulsi delle parti più basse e viscerali. I filosofi, sostiene Platone, devono essere educati ad amare la verità e provare vergogna nel mentire. Al contrario, dato che i politici educati dai sofisti guardano al logos non come una struttura che racchiude l’ordine della verità, ma piuttosto come uno strumento di azione per manipolare le emozioni della gente, essi mentono. La verità è irrilevante in questo contesto patologico. Talmente irrilevante che qualunque cosa il grosso animale creda o sia persuaso a credere, ciò corrisponde al vero. Il concetto della post-verità applicata alla politica, come suggerisce il dizionario di Oxford e come Platone sembra presagire, non liquida la verità, bensì la rende irrilevante.

La posta in gioco non è la verità, bensì il potere: sia il potere generalmente definito come dominio sugli altri tramite mezzi di persuasione oppure, più nello specifico, come caratteristica distintiva di operazioni linguistiche capaci di dimostrare l’irrilevanza e, in ultima analisi, la superfluità del vero. Platone, antidemocratico ed elitista, è il primo a detestare i tecnici della manipolazione del popolo che trasformano l’esercizio della menzogna in un’arte politica efficace, accettabile e gradevole, l’arte del discorso acrobatico, una specie di funambolismo verbale assai divertente. Per questo motivo Platone non esita a definire ciarlatani i sofisti e i loro emuli in politica, aggiungendo che la loro esibizione corrisponde ai gusti popolari degli spettatori del circo.

Potrei aggregarmi alla schiera degli scettici, ma non è questo il mio scopo. In questo momento, mi appassiono alla descrizione della fenomenologia della politica patologica, nel suo annoverare anacronistico e altamente polemico di una serie di caratteristiche e preoccupazioni riguardanti un certo pathos politico, i cui profili sembrano convergere nell’attuale definizione di post-verità. Se Platone insistendo sulle emozioni dei «molti» dava consistenza e giustificazione alla bugia, Hannah Arendt ci aiuta a comprendere lo specifico della menzogna politica moderna come «bugia fabbricata» e fittizia. La presa sulle emozioni è in questo caso aggravata da una comunicazione che, lungi dall’essere manipolazione acrobatica del discorso, mira ad accattivarsi il pubblico attraverso frasi tanto efficaci quanto sconnesse: in pratica sembrano vere in quanto prodotte non dalla ragione ma da impulsi. Improvvisato e privo di coerenza teorica il discorso politico dell’attuale potere spegne in noi il senso del reale, sostituendo la nostra presa sulla realtà con fatti «alternativi», fake theory, bugie rese «reali» dai social media. Nell’era della post verità il potere si esprime con stile improvvisato. Quello che twitter trasforma in realtà. Il rapporto tra verità e politica è definitivamente collassato? (Traduzione Rita Baldassarre)

La polemica: verità, post-verità e ragione. La verità tra sentimento soggettivo, dubbio e controllo della ragione, scrive Rocco Buttiglione il 15 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Adesso è di moda la post-verità. Uno incolto potrebbe pensare che la post-verità sia quello che una volta si chiamava menzogna ma in realtà non è proprio così. Tra la idea di menzogna e quella di post-verità sta la morte della idea di verità. I saggi, i colti, ci hanno spiegato che la verità non esiste. Prima ancora dell’era del web e della proliferazione incontrollata dei blog, dalle colonne dei grandi giornali e dalle cattedre universitarie ci hanno detto che la verità è pericolosa per la democrazia, che quelli che credono una verità hanno la tendenza naturale ad imporla e quindi sono tendenzialmente totalitari. C’è stato anche chi ha denunciato la pretesa totalitaria della ragione ed esaltato il primato della autenticità soggettiva. Che succede quando muore l’idea di verità? Ognuno di noi è abitato da un groviglio di impulsi, paure, desideri e tensioni istintive. La idea di verità ha la funzione di controllare (Foucault direbbe sorvegliare) questo magma, di costringerlo a fare i conti con la realtà. Se questo non avviene l’uomo rimane prigioniero di se stesso, perde la capacità di adattarsi all’ambiente, infine muore. Della realtà fanno parte anche gli altri esseri umani. Quando muore l’idea di verità muore anche il dialogo che unisce gli uomini fra di loro. Ogni uomo infatti ha una sua verità, che è la risultante delle sue interne passioni dell’anima. Per poter confrontare la mia verità con la verità dell’altro ho bisogno di credere in una verità più grande che possiamo scoprire insieme. Se questa idea viene meno avremo il pluralismo delle verità. Ognuno griderà la sua verità con tutta la forza di cui dispone. Il pluralismo delle verità era l’ideale dei decostruzionisti (quelli che volevano decostruire l’idea di verità). Essi, per la verità, immaginavano la coesistenza pacifica, senza violenza, delle diverse verità. Adesso abbiamo visto che si sbagliavano. Non vedevano il fatto che viviamo in un mondo comune e diamo forma alle nostre società attraverso un lavoro comune. Per realizzare il mio desiderio, per dare forma alla mia idea di verità, ho bisogno della collaborazione dell’altro. Credevano che il desiderio fosse buono o almeno innocuo. Non vedevano che l’invidia la violenza contro l’altro uomo è una componente fondamentale del desiderio non sottoposto al vincolo della ragione. Assistiamo dunque ad una regressione di massa. Nel Mercante di Venezia Shakespeare ci offre un modello insuperabile di questo movimento di pensiero. Io sono frustrato per le mille ragioni che si frappongono fra il mio desiderio e la sua realizzazione. Invece di cercare un percorso reale verso la realizzazione del desiderio mi trovo un responsabile immaginario della mia infelicità. Nel caso di Shakespeare questo responsabile è Shylock, l’ebreo. La mia frustrazione è reale e la condensazione delle sue cause in un personaggio fantastico è una grande opera d’arte. La identificazione di questo personaggio fantastico con l’ebreo reale è invece demoniaca (esiste anche il demoniaco nell’arte). Io sento che l’ebreo è la causa del male del mondo e, data che non esiste nessuna ragione superiore abilitata a giudicare del mio sentimento, allora l’ebreo è davvero, almeno per me (e per quanti si lasciano contagiare dal mio sentimento) la causa di tutti i mali del mondo. Per la verità una crisi analoga della idea di verità l’Europa la ha vissuta fra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX. È da quella crisi che nacquero i totalitarismi. Non a caso i nuovi filosofi della decostruzione fanno tutti riferimento a Nietzsche. Adesso si tende ad addossare al web tutti i mali della post verità. Il ragionamento andrebbe rovesciato. La diffusione del web ha effetti così distruttivi perché avviene in un tempo storico che già precedentemente aveva rinunciato alla idea di verità. Non abbiamo assistito a linciaggi mediatici fatti dalla grande stampa che adesso si straccia le vesti per le bufale del web già molti anni prima della diffusione di internet? Sia chiaro: internet va regolato ed è del tutto inaccettabile l’idea che esso possa essere uno spazio anarchico in cui ci si sottrae alla responsabilità per le proprie azioni. Talvolta le parole sono pietre e chi le scaglia non si può sottrarre alla propria responsabilità. Il problema vero, però, non è la regolamentazione del web, é la riabilitazione della idea di verità. Un problema strettamente connesso, poi, è quello del ripristino dei confini fra i generi letterari. In occasione dell’anniversario dell’attentato a Charlie Ebdo si moltiplicano gli articoli che chiedono un uso responsabile della satira. È giusto chiedere a chi fa della satira di essere responsabile? La satira è sempre stata un modo di far emergere il represso. Rido perché scopro in me stesso un umore che collude con quello che la satira mi dice, per crudele ed osceno che sia. Ne rido perché so che non è vero. È come andare allo zoo (pardon: al parco biologico) a vedere gli animali feroci. Mi diverto perché so che sono inoffensivi. Il vero problema è che è saltata la distinzione fra la satira e l’informazione. Una satira politicamente militante ha diseducato una generazione abituandola a pensare che il satiro dice la verità ovvero che non esiste differenza fra il sentimento soggettivo e la verità. Fra il sentimento soggettivo e la verità esiste il controllo della ragione. La ragione vaglia i fatti e valuta se essi confermino o contraddicano il sentimento soggettivo. La ragione sottopone il sentimento soggettivo al controllo metodico del dubbio e lo lascia valere solo se supera (nella misura in cui supera) questo vaglio del dubbio. Nel fare questo la ragione considera diverse ipotesi alternative. Esse hanno però il dovere di rendere ragione di tutti i fatti accertati, non possono selezionare solo i fatti che le confermano tacendo quelli che le contraddicono. È solo attraverso questo difficile esercizio che cresce una opinione pubblica matura. Senza di essa però la democrazia muore.

"Quelle previsioni vi truffano". Caldo percepito? Facci brutale: le tre cose che non sapete, scrive il 6 Agosto 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". Fa caldo davvero, un caldo boia, ma il "caldo percepito" è una truffa che va smascherata: perché i «63 gradi percepiti» urlati da Rainews e da innumerevoli siti e giornali, compresi La Stampa e il Corriere che ieri annunciavano 55 gradi in Campania (percepiti, ovvio) è roba che non trovi nella Valle della Morte negli Stati Uniti o nelle città più calde del mondo come Avhaz in Iran (46 di media) o Kuwait City che è la città più bollente che esista, con di 46,1 di media. Quindi ricordatevi alcune cosette. 1) Il caldo percepito - così come il freddo - è roba che esiste, ma le piccole truffe che si possono fare nel calcolarlo le ha spiegate anche quel prolisso rompicoglioni che è Paolo Sottocorona, meteorologo de La7 che spunta durante i programmi del mattino e non molla più la presa. Il caldo percepito è un indice di disagio: dice solo che, rispetto ai gradi centigradi, possono esserci delle specifiche (in genere l'umidità, ma anche il vento o singole caratteristiche dell'individuo) che possono rendere difficili l'evaporazione del sudore e favorire perciò i malori e i colpi di calore che ammazzano. Ma non ha senso fissare un numero preciso di gradi percepiti (come stanno facendo quasi tutti) per confonderlo con la temperatura reale. È una truffa. Non di rado si prende la massima temperatura reale (tipo: 40 gradi) e le si applica un coefficiente basato sul momento di umidità massima, e cioè di notte: combinando i dati vengono fuori dati sahariani. Ma rassegnatevi, in Italia 50 gradi non ci sono mai stati. Mai. A quelli della Stampa, secondo i quali a Grazzanise (casertano) l'altro giorno c' erano 55 gradi percepiti, andrebbe detto che se infilano un braccio nel forno della pizza forse la percepiscono ancora più alta. Comunque Paolo Sottocorona ha fatto un simpatico esempio: siccome ai tropici 40 gradi e 100 per cento di umidità sono la norma, calcolando la temperatura percepita - all' italiana - allora dovrebbe fare 100 gradi percepiti: da buttare la pasta direttamente nel piatto. Una volta ci si limitava a chiamare "afa" la presenza di caldo, alta umidità e assenza di vento, fine. Il discorso è diverso per il freddo percepito, che è quasi sempre identico al freddo ventoso (windchill) e che si calcola con più precisione anche perché chi pratica alpinismo, per esempio, può ritrovarsi differenze da paura: una temperatura di -4, con 30 nodi di vento, diventa all' istante percepibile - ma davvero - come -14. 2) I siti meteo, da cui vengono la maggioranza delle notizie, sono fondamentalmente un lucroso business e spesso sparano ridondanti cazzate perché hanno un giro d' affari pubblicitario da paura. Cioè: hanno tutto l'interesse non solo che li clicchiate, ma che torniate a farlo il più spesso possibile, ragione per cui tra le "tendenze" (che non sono previsioni: sono tendenze, così loro risolvono ogni problema di inattendibilità) c' è spesso piovosità nei weekend, il che induce a tornare più volte sul sito per vedere se la situazione sia cambiata. Stesso discorso, va da sè, riguarda il sensazionalismo di certe sparate e l'interesse di certe categorie (tu prendi gli albergatori) affinché le previsioni rimangano in un limbo di variabilità. Naturalmente i siti seri esistono, ma non siamo qui a farne pubblicità. A me li hanno segnalati alcune guide alpine, che di ritrovarsi un'imprevista tormenta sul Cervino non hanno tutta 'sta voglia. 3) Hanno già detto e scritto quando rinfrescherà, ma ricordate che le previsioni serie e pressoché certe sono a non più di due giorni, mentre a 3-4 giorni la percentuale di attendibilità scende circa all' 80 per cento: è già molto, e tutto il resto - previsioni a 15 giorni - sono delle riconosciute idiozie che le leggi della meteorologia negano in radice. In casi particolari le percentuali di attendibilità possono essere buone anche a 7 giorni, ma solo appunto in casi particolari. Molti l'hanno capito, ragion per cui nessuna persona seria - compresi alcuni governanti piccoli e grandi - prende più sul serio certe previsioni che in passato hanno preannunciato mezzi cicloni, anzi bombe d' acqua, e metri di neve, estati siccitose e insomma: roba che in teoria potrebbe spingere le istituzioni a prendere per tempo dei provvedimenti. Ora non si fida più nessuno. Qualcuno ricorderà le proteste di sindaci e governatori che avevano chiuso le scuole per prevista neve (poi mancata) con l'incazzatura di certi sciatori che si sono ritrovati le piste in pura erba: su tutto l'angoscia di enti territoriali terrorizzati dal possibile reato di "omessa segnalazione", che nel dubbio fa appunto eccedere per difetto. 4) Dopodiché è fuor di dubbio, dicevamo, che fa caldo davvero e che siamo sopra la media. Succede. Ad Aosta il vento caldo (ma secco) ha portato il termometro a 36 gradi, il rifugio Gonella per salire sul Monte Bianco (via italiana) ha dovuto chiudere perché non ricava acqua dai nevai, sullo Stelvio non si scia perché il ghiacciaio è troppo ritirato, il lago di Bracciano si sta prosciugando: tutto vero. Ma non dimenticate che la categoria "meteo" ormai si è emancipata dalla categoria "notizie" per reclamare un definitivo ruolo nell' intrattenimento: ormai fa notizia se fa freddo d' inverno, se non fa freddo d' inverno, se d' estate fa caldo e se non lo fa. Anziani e clochard schiattano tutto l'anno, ma se lo fanno in stagione fredda o calda finiscono sui giornali: altrimenti, ecco, non sono "percepiti". Oltre alla facile fruibilità dei siti meteo, infine, c' è forse da registrare che la crisi ha differenziato le aspettative di un popolo che, un tempo, andava in vacanza per stagioni intere e oggi invece tende a spezzettare in weekend o comunque in vacanze mordi e fuggi. Se poi il tempo facesse pure schifo, di percepito c' è il loro giramento di palle. Filippo Facci

Noi in trappola tra bufale e censura. La circolazione di false notizie online non si combatte con lo stop alla libertà di parola.  Ma evitando l’impunità di chi le diffonde, scrive Roberto Saviano l'08 gennaio 2017 su "L'Espresso". Come sempre in Italia (anche quando le notizie che ci riguardano arrivano dall’estero) si ragiona tirando in ballo la parola “emergenza” per far leva sull’emotività. Come sempre - e questo impedisce la ricerca reale di una soluzione - si propongono ricette inattuabili e che hanno un retrogusto amaro, quando non pericoloso. E come sempre, la risposta non tarda ad arrivare. Anch’essa è scomposta, deve alzare i toni perché la gara è a chi la spara più grossa, a chi fa più proselitismo e ovviamente il proposito finale non è trovare una soluzione, ma lasciare tutto com’è. Ché, detto tra noi, quando le cose vanno male sono in molti a stare bene. Ed ecco la nuova reale e pressante urgenza ed emergenza democratica: le bufale online, le false notizie. Non fraintendete il mio tono, è effettivamente un problema che esiste e non va sottovalutato, ma la sua risoluzione non si chiama censura. Per fare un esempio che è sotto gli occhi di tutti, secondo l’analisi della testata americana BuzzFeed, nella fase conclusiva della campagna presidenziale americana, le 20 notizie false più cliccate su Facebook hanno generato più condivisioni, più like e più commenti rispetto alle 20 notizie vere più cliccate: “Il Papa appoggia Donald Trump” (notizia falsa) ha avuto più condivisioni dell’inchiesta del Washington Post sui reati di truffa e corruzione di Trump (notizia vera). L’ho presa larga, ma sto parlando della nostra Costituzione, quella stessa che molti vogliono difendere, che pochi conoscono e che pochissimi si impegnano perché sia effettivamente applicata. Sto parlando dell’articolo 21 di cui cito le prime righe: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”. E io aggiungerei questo: la tutela della libera formazione delle opinioni nelle persone è un diritto fondamentale da tutelare e se le bufale, se le false notizie presenti online mettono a rischio questa libertà la risposta non può essere il controllo dello Stato sulle conseguenze, ma la ricerca delle cause. Allo stesso tempo la soluzione non può essere far finta che il problema non esista e rivendicare il diritto a dire ciò che si vuole, ovvero il diritto all’irresponsabilità. Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, rilascia al Financial Times (ecco la notizia che ci arriva dall’estero) un’intervista sullo stato dell’informazione in Italia e dice che la maggiore causa di degrado della democrazia sono le bufale che circolano sul web e sui social. Pitruzzella dice di non fidarsi del controllo che i social farebbero sulle notizie false e auspica la costituzione di una serie di istituti indipendenti coordinati da Bruxelles e modellati sull’Antitrust. Non sarebbe lavoro da affidare a società private, dice, perché: «è storicamente compito dei poteri pubblici». Afferma di non temere alcun rischio censura perché le persone «potranno continuare a utilizzare un web libero e aperto» (con “free”, l’intervista era in inglese, non credo di riferisse alla gratuità del servizio che in Italia è costoso anche quando - e capita spesso - è scadente. Ma questa è un’altra storia). Pitruzzella, a margine della sua intervista, accenna anche alla soluzione già esistente, ovvero il ricorso dei privati cittadini che si sentono danneggiati dalle false notizie all’autorità giudiziaria ma, secondo Pitruzzella, la macchina giudiziaria è notoriamente “clunky” che io tradurrei con “oberata”, “ingolfata”. Ecco, quindi una risposta di buon senso a Pitruzella poteva essere questa: ma invece di pensare a un intervento dello Stato, non sarebbe stato meglio auspicare una riforma del sistema giudiziario dando atto delle ripercussioni che il suo malfunzionamento ha anche sulla circolazione di notizie false e sulla sostanziale impunità per chi le produce e le diffonde? E invece no e a rispondere immediatamente è Beppe Grillo, che nella sua invettiva omette di citare le bufale da cui tutto oltreoceano era partito, e si accomoda sul banco degli imputati dicendo che è lui che vogliono zittire e censurare. Pitruzzella non l’aveva citato Grillo, che però, sentendosi chiamato in causa, rivendica di fatto il diritto alla bufala. Conclusione: c’è chi vorrebbe censurare e chi vuole dire balle, in mezzo ci siamo noi. That’s all folks.

La verità? E' falsa: 2016, un anno di bufale. Da Agnese Renzi che vota no a Boldi nei panni di Berlusconi, un’antologia delle migliori-peggiori notizie fasulle alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione, scrive Maurizio Di Fazio il 23 dicembre 2016 su "L'Espresso". Notizie false, falsissime, a cui però si è creduto in massa. Frottole, meme, favolette acchiappa-click diventate virali e verità costituita. Bufale passate senza soluzione di continuità dalla babele interessata dei siti Internet dedicati all’opinione pubblica ufficiale. Con i social network a fare spesso da porta girevole, da docile quinta colonna per la moltiplicazione incontrollata delle fandonie legate soprattutto alla politica, all’attualità, al costume, alla scienza e alla tecnologia. Per il guadagno di pochi mercanti di menzogne (capaci di aggirare a volte anche il sistema immunitario dei media autentici), complice la dabbenaggine di molti e insospettabili fruitori “attivi”, armati di like e condivisione. Questa è la storia contraffatta, ma sulle prime contrabbandata per buona, dell’anno che se ne va tra allarmismi, pietismi e le consuete morti ingannevoli di celebrities della politica e dello spettacolo; rivelazioni della Nasa sull’esistenza degli alieni; nuove e spaventose malattie in agguato e ripristini imminenti della leva obbligatoria; Facebook e Whatsapp che diventeranno a pagamento, e il ritorno alla lira fissato per il primo gennaio; l’ex ministro Cécile Kyenge che vomita cattiverie contro il nostro Paese, Laura Boldrini che preferisce gli immigrati clandestini a tutti noi e i giustizieri del pomeriggio che suppliscono col far west al lassismo di una classe politica che sempre dal primo gennaio ci toglierà la pensione per ridistribuirla agli immigrati stupratori. Eccovi quindi un’antologia delle migliori, peggiori bufale del 2016, alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione fattasi, per assurdo, fantomatica informazione corrente.

Attentato a Bruxelles. Il 23 marzo, il giorno dopo la strage all’aeroporto dell’Isis, ci casca la gran parte dei quotidiani italiani online, che pubblicano un video fake in apparenza riconducibile alle telecamere a circuito chiuso. E il video rimbalza in tutte le dirette televisive, commentato dal fior fiore degli opinionisti ed esperti di terrorismo e geopolitica. In verità, il filmato è relativo a un’altra carneficina, quella perpetrata cinque anni prima, l’11 gennaio del 2011, all’aeroporto russo di Mosca-Domodedovo, già presente già su Youtube.

Referendum sulle trivelle di aprile. Nel pubblicizzare il referendum, i “no triv” assicurano che sposando la loro posizione si eliminerebbero le piattaforme petrolifere dal panorama dei mari italiani. Ma non è così: il quesito referendario si limita al divieto del rinnovo delle concessioni per le trivellazioni in mare entro le dodici miglia. I fautori del sì agitano invece lo spettro dell’impennata dei licenziamenti e del crollo delle entrate dei petrolieri qualora perdessero la propria battaglia: doppio falso. Desta clamore il tweet di Giampaolo Galli, docente e parlamentare del Pd, che inneggia all’“astensione per Regeni e i marò”.

Sisma e menzogne. Nemmeno il tempo di riprendersi dallo spavento per i terremoti che squassano, tra agosto e ottobre, il centro Italia, che si fa largo la bugia epidemica della magnitudo abbassata ad arte (sotto i sei gradi) per non pagare i danni ai cittadini. Su Facebook proliferano tanti novelli sismologi, che asseverano con forza la bontà della loro teoria.

Referendum costituzionale. Da Gigi D’Alessio e Barbara D’Urso che smetteranno rispettivamente di cantare e di fare televisione se vincesse il no, a Vladimir Putin (un beniamino dei bufalari) che dichiara: “Se vince il sì, la Russia agirà di conseguenza, e non in senso positivo”. E che dire del presunto outing della first-lady Agnese Renzi, col suo “Voterò no”? Ma la bufala-spartiacque si mette in moto sulla scia del post Facebook del frontman dei Liftiba, Piero Pelù, che denuncia di essere stato costretto a usare una matita non copiativa in cabina elettorale. Parecchi altri seguono il suo esempio, nonostante la smentita ufficiale del Viminale. Le matite copiative funzionano solo su certi tipi di carta, e su quella normale si comportano come semplici matite. S’è sempre saputo.

Immigrati brutti, sporchi e cattivi. “Il Governo dà 35 euro al giorno a ogni immigrato”: tra le bufale a tema, questa è tra le più classiche. E tra gli “scoop” farseschi e xenofobi più originali dell’anno, si segnala questo del 28 agosto. “Pescara. Io ho più bisogno di quei terremotati, che si fottano. Da qui non me ne vado. Queste le parole di Mustafa Thomas Daverie, immigrato sbarcato a Lampedusa nel 2015 che attualmente soggiorna presso l’hotel (inesistente) “Nobelli” di Montesilvano. Il senegalese continua affermando che “i terremotati hanno i soldi quindi si possono risolvere da soli. Io no”, mentre tiene in mano il nuovissimo Galaxy S7 Edge pagato con le nostre tasse, 35 euro al giorno per la legge stabilita dal governo Renzi in collaborazione con la Boldrini. La nostra redazione è indignata dai commenti di questo ragazzo a cui noi italiani abbiamo salvato la vita. Ti senti indignato anche tu? Condividi il post, tutti devono sapere”. E in migliaia accorrono e condividono.

L'esordio di Gentiloni. "Basta ipocrisie, sono tutti finti poveri e io sono già scocciato di questo piagnisteo: rimboccarsi le maniche per il futuro del paese, qualche sacrificio non ha mai ammazzato nessuno, solo così l’Italia tornerà a primeggiare in Europa”. Queste le frasi che avrebbe proferito il nuovo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Parola, credibilissima, di “Libero Giornale”. Lo sfogo fittizio di Gentiloni prosegue così: "Ma per ritornare ad essere veramente competitivi gli italiani devono fare dei piccoli sacrifici quali smettere di lagnarsi sui social e poi fare la fila per comprarsi l’ultimo iPhone o insultare i protagonisti di Riccanza per poi fare tavolo in discoteca in 40 per potersi permettere una bottiglia di DonPero. Risparmiassero 10 euro in più al mese, così potrebbero campare dignitosamente".

Renzi che parla al cellulare in momenti decisamente inopportuni. Nella foto-meme si vedono Renzi, Boldrini, Grasso e Mattarella ad Ascoli al funerale delle vittime del terremoto, mentre si fanno il segno della croce. Qualcuno però mette in giro la voce che la mano del premier dietro la cravatta stia manipolando, in gran segreto, il suo smartphone… Una suggestione e niente più. Troppo tardi: l’indignazione dilaga sui social.

Pokémon bufala. Narra uno delle decine di siti di informazione pataccara: “La situazione sta davvero degenerando, incidente d’auto causato da Pokèmon Go. Un 22enne romano ha perso il controllo della sua auto che si è ribaltata a causa della brusca sterzata che il giovane aveva eseguito quando si è accorto che stava invadendo la corsia opposta. L’auto ha preso fiamme ma per fortuna il giovane è stato estratto e portato immediatamente in ospedale, dove, per le condizioni gravissime, è deceduto. La polizia municipale accorsa sul posto ha rilevato subito che il giovane usava lo smartphone mentre giocava a Pokémon Go, il nuovo videogame lanciato da Nintendo alcuni giorni fa e che sta facendo impazzire gli appassionati di tutto il mondo. La distrazione del videogame sul display del cellulare gli è stata fatale: l’auto è andata completamente distrutta come si vede nella foto”. Tutto falso. Hai capito, Galileo? Il rapper B.o.b. si professa convinto che la terra sia piatta e non sferica. E il bello è che lo seguono in moltitudini in questo suo sragionamento che ci riporta indietro di secoli, ai tempi della realtà aumentata.

Bufal-Stracult.

1) Il 5 marzo il solito “Libero Giornale” pubblica un “pezzo” dal titolo Sicilia: estremista islamico uccide il cane della fidanzata perché annusa il Corano. Svolgimento: “Bruttissima storia di crudeltà e ignoranza arriva da tranquillo comune siciliano di Marina di Vigata. Un pizzaiolo algerino di 22 anni, Aarif al Djebar ha crocifisso il cane della sua fidanzata italiana, una meticcio di Chihuahua. La bestiola era colpevole di aver annusato il suo Corano, incautamente lasciato sopra una sedia. L’uomo, che sembra avere legami con l’Isis, l’ha presa e l’ha crocifissa, poi, non contento ha anche dato fuoco alla carcassa. Il 22enne ha detto di averlo fatto perché era un cane degli infedeli. Il giovane, che risulta essere un clandestino, è balzato agli onori della cronaca francese quando nel 2011 fece saltare in aria un allevamento di maiali a Buffle, nella bassa Provenza”.

2) “Rocco Siffredi ha intrattenuto rapporti intimi con due donne nel bagno di un ristorante ed è stato allontanato dal proprietario su sollecitazione di clienti imbarazzati per i rumori”. Questa leggenda metropolitana è stata purtroppo ripresa e rilanciata anche da testate serie e autorevoli.

3) “Massimo Boldi vestirà i panni di Silvio Berlusconi nel prossimo film di Paolo Sorrentino”. La notizia, piuttosto incredibile, viene pubblicata da svariati giornali solitamente credibili. Ma era l’ennesima bufala assurta al rango di vero, sia pure giusto per qualche ora: un’eternità incontenibile, sul web.

I cretini della post verità Francesco, scrive Maria del Vigo l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. É l’anno dei cretini della post verità. Termine già certificato dal prestigiosissimo Oxford Dictionary e infatti tutti i più saccenti giornaloni si sono affrettati a mandare a memoria questa parola: dal Guardian al Washington Post, dal Times al Corriere della Sera, dal radicalchicchissimo Internazionale a Repubblica. È la parola dell’anno finito e senza dubbio ci romperanno le balle con questa strampalata teoria anche in quello che ha appena iniziato. Ma cos’è dunque questa post verità? Di cosa si stratta? È il solito giro di parole che le elite radical chic si inventano per darsi un po’ di arie. Questi sterminatori di parole e di buon senso hanno decretato che siamo nell’era della posto verità; e, per intenderci, sono gli stessi che chiamano lo spazzino operatore ecologico e l’handicappato diversamente abile; quelli che hanno inventato decine di perifrasi per catalogare (con estremo rispetto, ovviamente!) tutti i gusti sessuali, quelli che si dice genitore 1 e 2, quelli che se dici negro ti mettono alla gogna e che prima o poi chiameranno i bianchi diversamente neri per non essere troppo razzisti, senza accorgersi di essere gli ultimi razzisti rimasti sul pianeta terra. Hanno ecceduto a tal punto in questa ossessione politicamente corretta da essere diventati la caricatura di loro stessi. E qualcuno, esasperato da questo galateo dell’ipocrisia, ha sbroccato e ha pensato bene di ruttargli in faccia. L’ultimo in ordine temporale è stato Beppe Grillo. Ma torniamo alla post verità e al suo significato. Post verità è un modo per dire bufala, balla, bugia. Ma siccome – come dicevamo prima - loro non chiamano mai le cose col loro nome hanno pensato di apparecchiare questo termine paludato. La post verità è una bufala di nome e di fatto. La teoria è che nel far west della rete circolino così tante bugie che la gente (che se avessero il coraggio delle loro azioni definirebbero “plebi”) finisce per crederci e per farsene influenzare. Per non cadere nel loro stesso gioco: siamo di fronte a una cagata pazzesca. Provate un po’ a indovinare quando ha preso campo questa idea? Vi aiuto io: si è fatta largo silenziosamente dopo il successo della Brexit, è esplosa a livello mondiale a seguito della vittoria di Donald Trump e in Italia è diventata verbo dopo il trionfo del No al referendum costituzionale. Un caso? No. Anche perché coloro che la hanno inventata e la utilizzano come una scimitarra contro le folle populiste, sono gli stessi che non avevano capito niente di quello che stava ribollendo nei loro rispettivi paesi. Quelli che fino al giorno prima dicevano che se la Gran Bretagna fosse uscita dall’Europa il secolare impero di sua Maestà sarebbe andato gambe all’aria, che quell’arricchito di Trump avrebbe fatto esplodere il mondo e che lo stop alle riforme avrebbe portato ogni forma di distruzione sullo Stivale (queste non erano post verità ma semplicemente delle idiozie). Invece la regina è ancora lì con la sua imperturbabile permanente, Trump rispetto all’ultimo, isterico, Obama sembra uno statista e in Italia non è cambiato un tubo. Dunque, lorsignori, non adattandosi a un mondo che va per i fatti suoi e non si adatta ai fatti che circolano nella loro testa, hanno deciso di ribaltare il tavolo: hanno vinto i populisti perché la menzogna ha prevalso sulla verità e gli elettori hanno preso lucciole per lanterne. Insomma, è stato solo un gigantesco abbaglio. Ed è tutta colpa di internet e dei social network. Il passo successivo – e qualcuno già lo ha fatto capire tra le righe – è dire che gli elettori sono solo una massa di imbecilli e quindi bisogna abolire il suffragio universale. Così improvvisamente la post verità è stata spalmata come un balsamo su tutti i mezzi di comunicazione. Quando non sai come giustificare un clamoroso fallimento della tua combriccola ideologica tiri fuori la post verità e tac è fatta. Un manipolo di cretini che non capisce un cavolo di quello che vuole realmente la gente ha risolto la situazione classificando come ebeti qualche centinaio di milioni di persone: noi stiamo dalla parte giusta, loro da quella sbagliata perché sono ignoranti che si bevono qualunque fesseria. Perché è rassicurante, per chi ha perso ogni punto di rifermento, convincersi che è tutta colpa delle balle e di chi le posta su Facebook. Come se non fossero mai esistite le bufale, come se i cittadini, gli internauti e dunque gli elettori, non fossero capaci di distinguere autonomamente il vero dal falso. E così da strampalata teoria autoassolutoria e popolodenigratoria si è trasformata in un’istanza politica. Ed è questo il pericolo. Perché i governi hanno iniziato a dire che bisogna porre rimedio a questa cosa, che i social network sono delle cloache a cielo aperto dove tutti – ohibò! – possono dire quello che gli pare. Giovanni Pitruzzella, il presidente dell’Antitrust, ha dichiarato al Financial Times che “i pubblici poteri devono controllare l’informazione”. Oh, finalmente qualcuno ha calato la maschera. Beppe Grillo, una volta in vita sua, ha detto una cosa giusta: questa è una nuova inquisizione. Ha ragione. Ci manca solo che i burocrati di Roma o – ancora peggio – di Bruxelles si mettano a censurare quello che scriviamo sui nostri profili Facebook… Anche perché, allora, se si dichiara guerra alle balle bisogna mettere alla berlina tutti, ma proprio tutti i pinocchi del mondo, e non solo su Facebook. Sento tintinnare le ginocchia in Parlamento. Vogliamo imbavagliare Maria Elena Boschi perché in televisione diceva che con la vittoria del No sarebbe stato più difficile combattere il terrorismo islamico? E quella non era post verità, ma proprio una stronzata. Difatti i cittadini lo hanno capito, hanno smontato una per una tutte le trimalcioniche promesse referendarie e hanno dato il benservito a Renzi e al suo governo. A dimostrazione del fatto che gli elettori non hanno bisogno di una badante di Stato che verifichi e selezioni per loro quello che possono o non possono leggere. Ma loro, questa badante ce la vorrebbero appioppare. Vorrebbero mettere le nostre idee in libertà vigilata, sigillare una zona traffico limitato del pensiero, mettere fuori legge gli eretici. Perché ci vuole un attimo a infilare le critiche nel cestino della spazzatura, dello spam illeggibile. Sognano una discarica indifferenziata del pensiero politicamente diverso. Non scorretto. Gli scorretti – quelli che vogliono cambiare le regole del gioco – sono soltanto loro. Non ce la faranno, perché cercare di fermare la rete – la gente – con qualche carta bollata è come pensare di poter svuotare il Sahara con un cucchiaino da tè. Ma il 2017 sarà comunque l’anno in cui i cretini della post verità cercheranno di mangiarsi pezzi della nostra libertà. Libertà di informazione, libertà di critica e financo politica. Stiamo all’erta. 

"Non credono ai social, ma tre giovani su dieci rilanciano le bufale". L'87% diffida della Rete, ma il 28,5% ha condiviso almeno un fake e l'11% diffonde "sempre e comunque". I dati dell'istituto Toniolo, scrive Cristina Nadotti il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Consapevoli che quanto si legge sui social andrebbe verificato, ma comunque pronti al clic veloce che diffonde la bufala. Ci sono soprattutto due dati, nell'indagine dell'Osservatorio giovani dell'Istituto G. Toniolo su "Diffusione, uso, insidie dei social network", capaci di fotografare la società della post-verità: tra i giovani che hanno dai 20 ai 34 anni circa uno su tre (il 28,5 per cento) ammette di aver condiviso un'informazione poi rivelatasi falsa. Eppure il pericolo bufala è noto: l'86,6 per cento afferma che i social non vanno presi troppo sul serio perché "i contenuti che vi si pubblicano possono essere tanto veri quanto inventati". Un'anticipazione dell'indagine, condotta nel mese in corso su un campione di 2.182 persone, rappresentativo dei giovani dai 20 ai 34 anni, sarà presentata oggi all'incontro "Vero, verosimile, post-verità", che l'arcivescovo di Milano terrà con giornalisti e comunicatori. I dati raccolti sulla diffusione delle bufale in rete lasciano tuttavia qualche speranza su un mutamento di tendenza, su una maggiore consapevolezza nell'uso dei social. Se, come detto, il 28,5 per cento ha condiviso informazioni poi risultate false, il 75,4 riferisce che, dopo un'esperienza personale o la diffusione di una bufala da parte di un amico, ha aumentato la sensibilità sul tema e l'attenzione ai contenuti "sospetti". In particolare, il 55,6 per cento ha smesso di condividere contenuti da contatti a rischio e il 41,7 per cento ha rimosso dalla propria rete chi diffondeva notizie false. Ma resta un 11,2 per cento che tende a condividere "sempre e comunque, tanto è impossibile appurare l'attendibilità di quello che circola in rete". La capacità di fiutare l'inganno e di aumentare l'attenzione è poi strettamente legata agli strumenti culturali. Tra chi ha il solo diploma di scuola media, la condivisione di un bufala è al 31,7 per cento, scende al 24 per cento tra i laureati. Con un titolo di studio universitario si individuano le notizie false condivise da altri (77,8 per cento, contro il 74,6 per cento di chi ha un titolo intermedio e il 70,4 per cento di chi ha un titolo basso) e anche la reazione dipende dal livello culturale: il 79,1 per cento dei laureati è pronto a cancellare un contatto facile alle fake news, contro rispettivamente il 76,7 e 71,4 di chi ha un titolo intermedio o basso. Confermati anche il primato di Facebook tra i social network e l'uso dello smartphone. Il 90,3 per cento degli intervistati è presente sul social di Zuckerberg, il 56,6 per cento è su Instagram, Google+ cattura il 53,9 per cento degli utenti, mentre Twitter resta al 39,9. Chi usa Facebook è più assiduo (oltre il 90 per cento presente con cadenza quotidiana) e lo strumento privilegiato per connettersi è il telefonino (72,7 per cento), sul quale si leggono post di amici e follower (74,1 per cento), news (63,2 per cento), si conversa via messenger (57,8 per cento) e si commentano post dei contatti (49,1 per cento). Non vacilla il binomio rete/libertà: il 69,2 per cento degli intervistati considera i social uno strumento dove è più semplice comunicare stati d'animo ed emozioni ed esprimere "apertamente il proprio punto di vista sulle questioni più controverse dell'attualità" (71,3 per cento) con un linguaggio più schietto e diretto (70,1 per cento).

Contro la post-verità in rete, legittima difesa degli utenti. Non serve la censura ma il lavoro di contrasto delle fake news da parte dei lettori, dei giornalisti liberi, dei siti di fact-checking, in collaborazione con Facebook, Google e Twitter, scrive l'1 gennaio 2017 su Panorama Luigi Gavazzi. Il post-truth in rete e i populisti che la usano, la democrazia minacciata, sono entrati definitivamente nel dibattito politico quotidiano anche in Italia, dopo che giovedì scorso il presidente dell'Antitrust, Giovanni Pitruzzella, parlando con il Financial Times, ha proposto una rete di agenzie pubbliche dei Paesi Ue contro le notizie e le storie false diffuse online. Questa opera di individuazione e smascheramento delle bufale, secondo Pitruzzella sarebbe più efficace se venisse affidata direttamente a autorità pubbliche simili alle varie antitrust nazionali, invece che essere semplicemente delegata alle grandi aziende che dominano Internet - Facebook, Google o Twitter e alla loro volontà e capacità di contrastare le informazioni false. Gli utenti, dice Pitruzzella, continuerebbero "a usare un Internet libero", ma beneficerebbero di un'entità "terza", indipendente dal governo, "pronta a intervenire rapidamente se l'interesse pubblico viene minacciato". Contro Pitruzzella subito si è levato l'anatema di Beppe Grillo, che ha urlato al complotto contro la libertà di espressione, cui hanno fatto da eco immediatamente venerdì i social network, e sabato anche qualche giornale, Il Fatto Quotidiano in testa. Reazione che ovviamente allontana ogni possibilità di analisi e dibattito civile. Ma certo la questione del rischio censura merita tutta l'attenzione. Il punto ovviamente non è essere favorevole o meno alla censura. È invece necessario trovare modi e strumenti, e regole, per garantire la libertà di espressione, ma anche per evitare che essa diventi strumento di odio razziale e politico e, questo è il caso in questione, di informazione ingannevole. E con il web e i social network che amplificano a dismisura qualsiasi comunicazione, aumentandone il potenziale di influenza e convincimento, questi strumenti e regole devono essere probabilmente studiati specificamente. Intanto si tratta di vedere cosa intenda concretamente Pitruzzella, e come verrà eventualmente definito il potere di intervento delle agenzie che invoca. Lunedì 2 gennaio sul Corriere della Sera, il presidente dell'Antitrust ha chiarito parzialmente il suo pensiero. In sostanza quel che il presidente dell'Antitrust propone è l'introduzione di "istituzioni specializzate, terze e indipendenti, che, sulla base di principi predefiniti, intervengano successivamente, su richiesta di parte e in tempi rapidi, per rimuovere dalla rete quei contenuti che sono palesemente falsi o illegali o lesivi della dignità umana (non dimentichiamo il caso recente della ragazza napoletana che si è uccisa dopo la diffusione virale sulla rete di un suo video che doveva essere privato)". In linea generale è meglio evitare di andare oltre il perimetro previsto dalle leggi attuali, con le norme sulla diffamazione e la calunnia, e contro l'incitamento all'odio razziale. Ci sono poi le regole deontologiche dei giornalisti che potrebbero ispirare anche alcune regole generali di autoregolamentazione dei social network, relative ai limiti che si possono imporre alla diffusione delle informazioni. Un'Autorità che decida cosa è vero e cosa è falso può essere più pericolosa dei danni che vuole evitare. Buona parte del lavoro di difesa della verità e del diritto a essere informati correttamente, lo dovrebbero invece fare gli utenti della rete, i giornalisti, e le aziende protagoniste della diffusione dell'informazione sul web. Come ha scritto Nadia Urbinati su la Repubblica del 2 dicembre, è il caso di fare appello alla "responsabilità da parte di coloro che esercitano la politica e contribuiscono a creare l'opinione. La democrazia non sopporta né le politiche dell'odio né quelle della verità, ma neppure le azioni repressive che dovrebbero scongiurarle. Ha bisogno, in questi casi in modo particolare, di cittadini, di politici e di giornalisti capaci di virtù pubblica, di far affidamento al senso del limite e dell'autolimitazione. Non è stata ancora escogitata una forma migliore per governare le emozioni senza pretendere di estirparle, una medicina che ucciderebbe il malato nell'illusione di guarirlo". E in successivo intervento a Radio 3, Urbinati ha invocato anche il concetto di Sfera Pubblica nella definizione che ne ha data Jürgen Habermas. Timothy Garton Ash che alla questione della libertà di espressione nell'era di Internet sta dedicando parecchio lavoro - un sito per esempio, e un lungo ed elaborato libro, Free Speech: Ten Principles for a Connected World - ricorda il contributo importante che si apprestano a dare le grandi potenze del web, come Facebook, per esempio, che riconosce l'enorme responsabilità del social network nel "costruire uno spazio in cui le persone possano essere informate". Ma allo stesso tempo Garton Ash riconosce come Facebook e gli altri big del web siano da considerare più partner di altri attori, che essi stessi "arbitri della verità". Gli attori protagonisti sono innanzitutto gli utenti, che devono sempre più prestare attenzione, verificare le fonti cui attingono in rete, soprattutto sui social; scavare nei report poco credibili. E soprattutto rendere pubblico il proprio lavoro di verifica, mettendo a nudo le fonti di informazione bullshit, i siti di propaganda. Gli utenti, tutti noi, dovranno anche diventare un po' antipatici, almeno sui social. Quando un "amico" afferma o rilancia informazioni evidentemente false, di propaganda, diffamatorie, dovrebbe dirlo apertamente e esplicitamente. Sarà un lavoro duro e faticoso, ma se lo si fa in tanti, sarà efficace. A volte le bufale e le interpretazioni "post-fattuali" nascono anche da un collegamento inventato fra due fatti che non hanno relazioni alcuna di causa ed effetto, ma come tali vengono presentati. E il collegamento, magari solo suggerito, in rete rimbalza di account in account, e diventa certo, creduto. Diventa un post-fatto. E su questo tipo di false informazione il lavoro di decostruzione degli altri utenti è fondamentale, perché la loro credibilità sembra incontestabile, sembra quasi probabile, la loro efficacia retorica è subdola. I media con reputazione di credibilità e indipendenza che devono dedicare più tempo e attenzione a smascherare i fornitori di informazioni inventate, deformate e false. BuzzFeed che sta facendo un o sforzo notevole contro i fake, ha pubblicato a fine anno una lista delle 50 peggiori notizie false chehanno girato su Facebook nel 2016. Un'operazione che sicuramente aita a fare chiarezza e a difendersi. Le varie iniziative di crowdfunding e non-profit per il giornalismo investigativo e il fact-checking dovranno essere create, sostenute, aiutate, anche con lavoro volontario. Infine, Facebook, Google, Twitter. E le varie piattaforme di blogging. La tecnologia permette loro "di individuare ed eliminare - spiega Garton Ash - le notizie diffuse in massa da robot sotto la regia della Russia di Vladimir Putin o da siti di spamming (alias "meme farms") il cui scopo è semplicemente arricchirsi con la pubblicità online".

IL TURISMO DELL'ORRORE.

Maccio Capatonda: "Turismo dellʼorrore? La realtà supera il mio film", scrive TGCom 24 l'1 marzo 2017. Il regista ha presentato a Tgcom24 "Omicidio allʼitaliana", in sala dal 2 marzo.

Dopo l'esordio con "Italiano Medio", Maccio Capatonda torna a ironizzare sui difetti della nostra società con "Omicidio all'Italiana", in sala dal 2 marzo. Nel film si ride con amarezza del turismo dell'orrore e della spettacolarizzazione mediatica dei delitti, ma a Tgcom24 il regista (che è anche protagonista con Herbert Ballerina) ha svelato: "Ho cercato di esagerare, ma la realtà ha superato ogni mia fantasia". La critica non è solo rivolta ai media, ma anche al pubblico che è diventato più morboso. Nello sperduto paesino di Acitrullo la vita scorre lenta e monotona come sempre, fino a quando la morte improvvisa della contessa Ugalda sconvolge la routine dei sedici abitanti del borgo. Il sindaco Piero Peluria (Maccio Capatonda), con la complicità del fratello Marino (Herbert Ballerina), decide di trarre vantaggio dalla tragedia inventandosi un efferato omicidio che possa attirare l'attenzione dei media. Acitrullo diventa così la nuova meta del turismo dell'orrore, al pari di Cogne e Garlasco. Con "Omicidio all'italiana" torni a puntare il dito sugli aspetti più grotteschi e morbosi della nostra società...Maccio Capatonda - La mia intenzione era fare un film esclusivamente comico, ma non ci sono riuscito. Ormai ho questa vena satirica che è parte di me. Racconto il mondo in cui viviamo attraverso la lente dell'ironia, ma il mio non vuole essere un film di denuncia.

Tu e Herbert nel film siete i fratelli Peluria, personaggi che avevate già interpretato nella serie "Mario". Perché li avete ripescati?

MC - Amo molto questi personaggi e li ho voluti anche nel film. Sono stati stravolti perché c'era l'esigenza di renderli meno beceri, in particolare volevo rendere il sindaco più empatico.

Herbert Ballerina - L'unica cosa che non è cambiata è la quantità di peli che hanno addosso. Sono stati una vera tortura per me!

In "Omicidio all'italiana", a differenza del precedente "Italiano Medio", siete co-protagonisti...

MC - Sì, questo film nasce proprio dalla volontà di dare maggiore spazio a Herbert. La comicità tra di noi è una cosa che mi è mancata molto nel primo film.

Donatella Spruzzone, la conduttrice-iena interpretata da Sabrina Ferilli, è un chiaro riferimento a Roberta Bruzzone. Pensi che si arrabbierà?

MC - Secondo me no, credo si farà una risata. La critica non è solo rivolta a questo genere di conduttori, che conoscono i meccanismi dei media, ma anche al pubblico che è diventato più morboso su questi temi.

Sabrina Ferilli è stata la tua prima scelta per questo ruolo?

MC - Sì, ho subito pensato a lei anche se non credevo avrebbe accettato, invece la sceneggiatura le è subito piaciuta. Volevo un personaggio credibile e non troppo sopra le righe, in modo che risultasse grottesco nella sua normalità.

Ad Avetrana esisteva un tour operator che mandava i turisti a vedere il pozzo dov'è stata seppellita Sarah Scazzi. Avete girato in piccolo borgo abruzzese, tua terra di origine. Come avete scelto la cittadina?

MC - Infatti è stata proprio mia madre a farmi conoscere questo borgo, che fa parte di un paesino che si chiama Corvara. E' abitato da sei persone, tre cani e una ventina di capre. Me ne sono innamorato subito.

HB - A livello logistico, però, è stata una sfida per la troupe. C'erano poche case agibili e perdevamo molto tempo per spostare tutte le attrezzature prima di girare.

Il dialetto che parlate non è identificabile come tipicamente abruzzese...

MC - E' inventato, i momenti in cui parliamo in questo fantomatico dialetto sono gli unici in cui abbiamo improvvisato. Anche la cadenza non ha una localizzazione precisa, ma rispecchia la sperdutezza tipica di tanti paesini del centro Italia.

HB - Forse ci ricordavamo qualche parola, ma nella scena in cui ci insultiamo a tavola abbiamo tre ciak tutti uno diverso dall'altro (ride).

C'è una sequenza del film a cui sei particolarmente affezionato?

MC - Mi piace molto la scena dell'agenzia di viaggi, dove alla famiglia di napoletani vengono proposti dei tour sui luoghi delle tragedie. La cosa assurda è che ad Avetrana esisteva davvero un tour operator che mandava i 'turisti' a vedere il pozzo dov'è stata seppellita Sarah Scazzi. Io credevo di aver esagerato, ma come spesso accade la realtà supera la fantasia...

HB - Come disse Walt Disney! (sdrammatizza Herbert con una battuta).

Il vostro è un umorismo sui generis. Arrivato al secondo film credi che possa prendere piede in Italia?

MC - Noi abbiamo cercato di aprire il nostro umorismo ad un pubblico più ampio, con un film che fosse godibile anche a livello di storia. Cerchiamo di non ripeterci e di proporre sempre nuove idee, per non stancare il pubblico.

HB - Credo che in questo momento in Italia ci siano tante persone che hanno storie forti da raccontare. Basta pensare a "Jeeg Robot", "Veloce come il vento" o "Smetto quando voglio".  Il problema è che nel cinema si punta ancora troppo sull'attore famoso e poco sul soggetto, anche se per fortuna le cose stanno cambiando.

Ogni riferimento a fatti storici è del tutto casuale. 

IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.

Il giornalismo della maldicenza. Un articolo del 10 luglio 2006 su “La Repubblica” del compianto Giuseppe D’Avanzo, sicuramente il migliore dei giornalisti investigativi italiani degli ultimi 20 anni. Un giornalista di cui tutti i giornalisti che vogliono fare questo mestiere con la schiena diritta dovrebbero rileggere le sue inchieste, i suoi articoli, i suoi libri. Imparerebbero tante cose. "L’ Italia ha molti guai e tra i suoi guai c’ è, senza dubbio, il giornalismo. Nelle democrazie mature d’ Occidente, il giornalismo è spesso una parte della soluzione, qui da noi è un problema che rende più arduo venire a capo delle anomalie nazionali. Se questo avviene, un motivo c’ è: l’informazione è stata degradata a chiacchiera. In un certo posto, a una certa ora del giorno, qualcuno dice qualcosa. Non è accaduto nulla. C’ è uno che ha espresso un’opinione, ma quella diventa la notizia del giorno. Sulla finta notizia si raccolgono pareri, si scrivono editoriali, si titolano le prime pagine, si combinano interviste. Meglio se un tipo del centrosinistra si lancia contro Romano Prodi o uno del centrodestra dà sulla voce a Silvio Berlusconi. Ottimo se in questa routine si possa sistemare, con qualche ghirigoro, un pettegolezzo. Si conoscono tra gli addetti molte frasi famose di questo canone giornalistico. Quella che qui conta suona così: «Non parlatemi di inchieste giornalistiche, ché mi viene l’orticaria». Un’ inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’ interesse dell’opinione pubblica e anche nell’ interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa. è per proteggere se stessa che la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità» garantiti – le università, le magistrature – e difende dai governi la libertà di stampa senza la quale, in un mondo che cambia, “non sapremmo mai dove siamo”. Il giornalismo della chiacchiera e della maldicenza dimentica il suo dovere di raccontare «dove siamo». Non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, soprattutto non ne vuole tenere conto. Quando si ritrova improvvidamente qualche fatterello tra i piedi, lo trasforma in opinione. Screditata a opinione, la verità di fatto è fottuta perché diventa irrilevante. Ma è appunto in questo “salto” l’astuzia del gioco. Accantonata la realtà, quel che resta si può combinare a mano libera. Ogni cosa è uguale al suo contrario. Ognuno è uguale all’ altro. Non contano più comportamenti, responsabilità, abitudini, attitudini, condotte, decisioni, direzioni, orizzonti. Liberatosi dalla inevitabilità dei fatti, questo giornalismo deforme è ora il padrone della scacchiera. Muove torri e pedoni. Nella notte dove tutto è nero, nel vuoto di realtà creato, il lettore è frastornato. “Chi ha fatto che cosa?”, non trova mai una risposta. Accade in queste ore. C’ è un giornalista, Renato Farina, sorpreso a trafficare con i servizi segreti che lo pagano con migliaia di euro. Il disgraziato non sa come difendersi. L’ ha fatta grossa e lo sa. Ha tradito se stesso, il suo buon nome, l’amicizia di chi lavora con lui, gli appassionati lettori delle sue cronache. Non sa come uscirne con decoro. Gli suggeriscono di lanciarsi all’ attacco. Chi se ne importa dei codici deontologici, tu hai combattuto per l’Occidente la IV guerra mondiale. Sei un soldato dell’Occidente cristiano ed ebreo. Sei un crociato. Sei un patriota. Il disgraziato s’afferra all’argomento come un naufrago al legno. Sistemandosi addirittura accanto a Karol Wojtyla, scrive che ha “cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica”. E’ la pietosa menzogna di un uomo che prova a proteggersi dal disprezzo. L’ espediente miserabile di chi, religiosissimo, vuole rendere accettabile la sua umana debolezza invocando una fede e un’autorità che pure gli dovrebbero essere sacre. Un penoso spettacolo su cui si chiuderebbero volentieri gli occhi. Una brutta cosa che dovrebbe essere relegata in un angolino del discorso pubblico, e presto accantonata. Fino a quando, non sorprendentemente, il direttore del “Corriere della Sera” Paolo Mieli entra nel gioco. Prende sul serio quell’ argomento: Farina è un crociato e un patriota. Santifica le ragioni di quel disgraziato addirittura con la legge di Antigone (che Dio lo perdoni). Non giustifica che abbia preso del denaro, ma per tenere a galla l’esercizio deve precipitare nel suo ragionamento, con un venticello calunnioso, anche chi dai metodi di lavoro, la storia professionale, l’opacità morale di Renato Farina è lontano un braccio di mare. La manovra deve accecare il lettore, nascondergli una realtà che, se raccontata, renderebbe l’iniziativa di Mieli un’arlecchinata. Renato Farina non è stato pagato dal servizio segreto per difendere l’Occidente cristiano o combattere l’Islam radicale. Il Sismi ha chiesto a Farina di mettersi in contatto con un pubblico ministero per carpirgli informazioni (Armando Spataro n.d.r.) e inquinarne il lavoro. Per questo è stato pagato. Il Sismi ha retribuito Farina per vedere pubblicato un dossier falso e screditare Romano Prodi, il candidato dell’opposizione a Palazzo Chigi. Lo ha pagato per spiare gli esiti dell’inchiesta sulle intercettazioni abusive e i dossier illegali raccolti dalla “sicurezza” di Telecom. Le attività di Farina non hanno nulla a che fare con l’Occidente, l’Islam, la civiltà cattolica. Lo si vede a occhio nudo. Le attività di Farina, rivolte contro le istituzioni del Paese (magistratura, governo), sono del tutto anti-italiane, assai poco patriottiche. Se Paolo Mieli non avesse così in uggia il mestiere di informare i lettori che ancora hanno fiducia nel “Corriere della Sera”, si rimboccherebbe le maniche anche con l’orticaria per capire perché un’istituzione dello Stato (il Sismi) paga un giornalista (Farina) per mettere a mal partito altre istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi e la Procura di Milano). Chiederebbe ai suoi bravi cronisti di raccontare quali interessi nascondono queste manovre oscure. Si sforzerebbe di spiegare ai suoi lettori come, quando e perché questo è avvenuto, e che cosa significa. Ho lavorato per qualche tempo al “Corriere della Sera” e sono sicuro che un’eccellente redazione saprà riportare nel lavoro quotidiano i fatti là dove oggi ci sono soltanto chiacchiere e maldicenze. Non so se Paolo Mieli l’ha mai saputo, ma so che la sua redazione non ha dimenticato che, senza un’informazione basata sui fatti, la libertà d’ opinione è soltanto una beffa crudele.

"Tutto falso", "Ora basta" Lite tv Alemanno-Sciarelli. Un battibecco duro che ha stupito i telespettatori. Protagonisti Federica Sciarelli e Gianni Alemanno durante lo speciale su "Mafia Capitale", scrive Luca Romano, Venerdì 22/09/2017, su "Il Giornale". L'ex sindaco di Roma è stato tra gli ospiti in studio del programma di Rai tre dedicato a Mafia Capitale. La ricostruzione dei fatti non è stata digerita da Alemanno che ha puntato il dito contro la Sciarelli. Alemanno ha sottolineato come lui stesso non sia stato condannato per mafia. E così la Sciarelli ha alzato i toni della discussione: "Ribadisco, Alemanno ci tiene, che nessuna di queste persone è stata condannata per mafia". A questo punto Alemanno ribatte: "Non ci tiene Alemanno, ci tiene Roma". Poi ha aggiunto: "Non mi va di sentire cose false, avete fatto un servizio su di me. Sono solo falsità". I toni si accendono ancora di più e così va in onda un vero e proprio battibecco tra la conduttrice e l'ex sindaco della Capitale. La Sciarelli ribatte ancora: "Però cosi da casa i telespettatori non capiscono nulla". Alemanno: "Basta con queste falsità". Poi torna il sereno e la trasmissione prosegue. Insomma, Mafia Capitale è ancora un argomento che fa parecchio discutere.

Mafia Capitale, bufera in Rai: "Docufilm falso e scorretto". L'ex sindaco di Roma Alemanno querela: "Solo teoremi, l'aggravante di collusioni coi boss è caduta nel processo", scrive Tiziana Paolocci, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". Fascista-mafioso. Un binomio che non piace ad Alemanno, ma sul quale la Rai punta spesso. L'ex sindaco di Roma ha dato mandato ai legali di denunciare per diffamazione a mezzo stampa gli autori e i produttori del docufilm «I mille giorni di Mafia Capitale», trasmesso dalla RaiTre. «Questa produzione, particolarmente nella puntata di giovedì scorso - tuona Alemanno - ha travisato i fatti in modo tendenzioso, ignorando le risultanze della sentenza del processo e il proscioglimento da ogni reato associativo, richiesto e ottenuto nei miei confronti». Motivo per cui Alemanno ha chiesto ai parlamentari della Commissione Vigilanza Rai di presentare un'interpellanza contro l'uso «fuorviante» e «politicamente tendenzioso» del servizio pubblico. «Da tre anni sono sottoposto alla gogna mediatica per reati che sono stati perpetrati anche a mio danno come politico e cittadino - spiega - speravo che tutto questo finisse almeno dopo il proscioglimento, ma devo constatare che proprio la Rai si fa protagonista della continuazione di questo vergognoso progetto, che oggi risulta offensivo per la città, il sottoscritto, per la destra politica e per il lavoro della magistratura». Per l'ex primo cittadino il programma avrebbe ribadito il vecchio teorema «fascio-mafioso». «Queste tesi - prosegue Alemanno - sono state smentite dal numero preponderante di persone di sinistra coinvolte, guidate da due esponenti di spicco del Pd romano come Salvatore Buzzi e Luca Odevaine e dalla sentenza, che ha cancellato ogni forma di aggravante mafiosa». La denuncia è stata presentata contro le società di produzione Rai Fiction e Magnolia Spa, contro i registi e i dirigenti responsabili della messa in onda. Di «ricostruzione tendenziosa e fuorviante dei fatti» parla anche il presidente dei senatori di Fi, Maurizio Gasparri, che ha presentato un'interrogazione in Commissione di Vigilanza. «Tutto il docufilm, nonché il dibattito in studio - dichiara - ha come tema portante un presunto legame che ci sarebbe stato tra la destra politica romana e la criminalità organizzata di stampo mafioso. Un falso. Una clamorosa menzogna smentita anche dal numero degli esponenti di sinistra indagati, superiore a quelli della destra». Per Arturo Diaconale, consigliere di viale Mazzini, viene sposata una tesi accusatoria, nonostante l'esito del processo. «Una volta - dice - si facevano le fiction durante lo svolgimento dei processi e questo poteva influenzare l'esito, ora si fanno dopo che i processi si sono conclusi. Neanche nel Burundi». Di tutt'altro avviso il segretario e il presidente Fnsi, Raffaele Lorusso e Beppe Giulietti e il segretario Usigrai Vittorio di Trapani. «Ci risiamo - commentano - Di fronte alle inchieste, la risposta dei poteri è la querela. Un tentativo di intimidire e imbavagliare. La giustizia farà il proprio corso e abbiamo fiducia che deciderà al meglio, perché conosciamo la correttezza e lo scrupolosità di Federica Sciarelli. A lei e a tutti coloro che ci hanno lavorato la nostra solidarietà». Ma Alemanno non ci sta e replica. «L'Usigrai si mobilita inutilmente per difendere la Sciarelli - ribadisce - e cade nel ridicolo non riuscendo neppure a capire che i destinatari della querela non sono i giornalisti, ma sono gli autori e i produttori del docufilm. È inaccettabile il contenuto di una produzione che cancella la verità storica accertata dalle sentenze».

“I mille giorni di Mafia Capitale”, la Rai rischia di pagare risarcimenti record, scrive Eleonora Guerra lunedì 25 settembre 2017 su "Il Secolo d’Italia". Rischia di costare carissimo alla Rai il docufilm I mille giorni di Mafia Capitale. L’avvertimento arriva dal consigliere di amministrazione di viale Mazzini, Arturo Diaconale, che sottolinea come tutta la narrazione sia stata costruita con il materiale dell’inchiesta sul cosiddetto Mondo di mezzo, senza tenere conto però che gli stessi giudici hanno smontato la tesi dell’associazione mafiosa. «La Rai corre il rischio di richiesta di un risarcimento gigantesco», ha sottolineato Diaconale, ricordando che per il docufilm sono stati «usati tutti i materiali utilizzati dai pubblici ministeri, le intercettazioni, le riprese televisive a fronte, però, di un processo che si è concluso sostenendo che non c’è mafia capitale». «Una volta – ha proseguito il membro del Cda Rai – si facevano le fiction durante lo svolgimento dei processi e questo poteva influenzare l’esito dei processi stessi, ora si fanno dopo che i processi si sono conclusi. Neanche nel Burundi si fanno cose così. E i diritti dei cittadini dove sono finiti? Coloro che sono stati presentati come colpevoli mentre sono risultati innocenti, ora che faranno?». Una denuncia per diffamazione a mezzo stampa nei confronti degli autori e dei produttori è già stata annunciata dall’ex primo cittadino della Capitale, Gianni Alemanno, che ha sottolineato come il docufilm abbia «chiaramente travisato i fatti in modo tendenzioso, ignorando le risultanze della sentenza del processo su Mafia Capitale e il proscioglimento da ogni reato associativo che è stato richiesto e ottenuto nei miei confronti dalla Procura di Roma». «Sono tre anni – ha aggiunto Alemanno – che sono sottoposto alla gogna mediatica per reati che sono stati perpetrati anche a mio danno come politico e cittadino, speravo che tutto questo finisse almeno dopo il proscioglimento, ma devo constatare che proprio la Rai si fa protagonista della continuazione di questo vergognoso progetto che oggi risulta offensivo non solo per il sottoscritto e per la destra politica, ma anche per il lavoro della magistratura e per tutta la città di Roma». Un fatto «ancora più intollerabile se si considera che questo lavoro è una coproduzione di Rai Fiction ed è stato trasmesso in una rete del servizio pubblico», ha proseguito Alemanno, chiarendo di aver anche chiesto ai parlamentari della Commissione di Vigilanza Rai «di presentare un’interpellanza contro questo uso fuorviante e politicamente tendenzioso del servizio pubblico». Lo stesso Diaconale, avvertendo sui rischi connessi a I mille giorni di Mafia Capitale, ha ricordato che «questa faccenda ha riguardato personalmente Gianni Alemanno», ma ha anche specificato che la questione è più ampia e che «il problema tocca, in generale, le garanzie dei cittadini che non possono essere cancellate per esigenze televisive».

Mafia capitale, allo scoperto le menzogne del docufilm Rai. Gasparri presenta un'interrogazione in Commissione di Vigilanza. Diaconale: neanche in Burundi, scrive il 26/09/2017 "Il Giornale d’Italia". Arturo Diaconale, consigliere di amministrazione della Rai, torna sulla vicenda del docufilm su Mafia capitale e sulla querela preannunciata da Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, chiamato in causa a fronte di un esito processuale del tutto diverso. “La Rai – sottolinea Diaconale -  corre il rischio di richiesta di un risarcimento gigantesco”, dopo che per il docufilm sono stati “usati tutti i materiali utilizzati dai pubblici ministeri, le intercettazioni, le riprese televisive a fronte, però, di un processo che si è concluso sostenendo che non c’è mafia capitale. Una volta si facevano le fiction durante lo svolgimento dei processi e questo poteva influenzare l’esito dei processi stessi, ora si fanno dopo che i processi si sono conclusi. Neanche nel Burundi si fanno cose così. E i diritti dei cittadini dove sono finiti? Coloro che sono stati presentati come colpevoli mentre sono risultati innocenti, ora che faranno? Questa faccenda ha riguardato personalmente Gianni Alemanno, ma il problema tocca in generale le garanzie dei cittadini che non possono essere cancellate per esigenze televisive”, chiosa Diaconale. Sulla vicenda interviene anche Maurizio Gasparri. “Trovo sconcertante che la Rai abbia coprodotto, insieme a Magnolia, e trasmesso su Rai3 il docufilm ‘I mille giorni di Mafia Capitale’, basandosi su una ricostruzione tendenziosa e fuorviante dei fatti”, afferma il presidente dei senatori di FI. “Tutto il docufilm, nonchè il dibattito in studio che segue alla messa in onda dei filmati ha come tema portante un presunto legame storico e organico che ci sarebbe stato tra la destra politica romana e la criminalità organizzata di stampo mafioso. Un falso. Una clamorosa menzogna smentita non solo dal numero degli esponenti di sinistra indagati nell’indagine di gran lunga superiori a quelli della destra. Ma soprattutto smontata pezzo pezzo dalla sentenza del Tribunale di Roma che ha fatto cadere per tutti gli imputati l’accusa di associazione mafiosa. Ho presentato su questa vicenda una interrogazione in commissione di Vigilanza”, fa sapere Gasparri. Arturo Diaconale, consigliere di amministrazione della Rai, torna sulla vicenda del docufilm su Mafia capitale e sulla querela preannunciata da Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, chiamato in causa a fronte di un esito processuale del tutto diverso. “La Rai – sottolinea Diaconale -  corre il rischio di richiesta di un risarcimento gigantesco”, dopo che per il docufilm sono stati “usati tutti i materiali utilizzati dai pubblici ministeri, le intercettazioni, le riprese televisive a fronte, però, di un processo che si è concluso sostenendo che non c’è mafia capitale. Una volta si facevano le fiction durante lo svolgimento dei processi e questo poteva influenzare l’esito dei processi stessi, ora si fanno dopo che i processi si sono conclusi. Neanche nel Burundi si fanno cose così. E i diritti dei cittadini dove sono finiti? Coloro che sono stati presentati come colpevoli mentre sono risultati innocenti, ora che faranno? Questa faccenda ha riguardato personalmente Gianni Alemanno, ma il problema tocca in generale le garanzie dei cittadini che non possono essere cancellate per esigenze televisive”, chiosa Diaconale. Sulla vicenda interviene anche Maurizio Gasparri. “Trovo sconcertante che la Rai abbia coprodotto, insieme a Magnolia, e trasmesso su Rai3 il docufilm I mille giorni di Mafia Capitale, basandosi su una ricostruzione tendenziosa e fuorviante dei fatti”, afferma il presidente dei senatori di FI. “Tutto il docufilm, nonchè il dibattito in studio che segue alla messa in onda dei filmati ha come tema portante un presunto legame storico e organico che ci sarebbe stato tra la destra politica romana e la criminalità organizzata di stampo mafioso. Un falso. Una clamorosa menzogna smentita non solo dal numero degli esponenti di sinistra indagati nell’indagine di gran lunga superiori a quelli della destra. Ma soprattutto smontata pezzo pezzo dalla sentenza del Tribunale di Roma che ha fatto cadere per tutti gli imputati l’accusa di associazione mafiosa. Ho presentato su questa vicenda una interrogazione in commissione di Vigilanza”, fa sapere Gasparri.

GIORNALI E PROCURE.

Giovanni Valentini: «Io, Pannella e il caso Tortora: ero l’unico garantista in redazione», scrive Rocco Vazzana il 15 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Quando era direttore dell’Espresso, Valentini invitò Pannella per parlare del caso Tortora, la redazione, che allora era decisamente colpevolista, minacciò quasi uno sciopero. Giovanni Valentini si considera un garantista da sempre. «Almeno dal 1972, quando per la Gazzetta del Mezzogiorno seguii la prima tranche del processo Valpreda insieme a Giampaolo Pansa, all’epoca alla Stampa, e al povero Walter Tobagi, che lavorava per il Corriere d’Informazione». Poi arrivò la direzione dell’Espresso e la vice direzione di Repubblica. Ma a furia di non puntare il dito contro gli imputati dei grandi processi mediatici, si guadagnò l’appellativo di “Penna rossa”. «Confondevano il mio garantismo con una sorta di innocentismo. Ma io, dal caso Valpreda a quello Marta Russo, non sono mai stato un innocentista, non ho mai sostenuto l’innocenza di un imputato, mi son sempre battuto solo per il diritto al giusto processo. E Valpreda fu accusato di una strage che non aveva compiuto», dice. «L’esposizione al pubblico ludibrio di un imputato, che avrebbe diritto alla presunzione di innocenza in base a un principio irrinunciabile di civiltà del diritto, corrisponde a una condanna. E ha ragione chi dice che non si può parlare di “gogna mediatica”, perché la gogna era una pena che veniva applicata dopo un processo, mentre adesso lo precede. Il sistema giudiziario italiano non tutela in modo sufficiente l’imputato». È un pozzo di aneddoti Valentini, testimone privilegiato dei grandi casi giudiziari degli ultimi cinquant’anni.

Direttore, tra i casi di cui si è occupato maggiormente c’è l’omicidio Marta Russo, su cui ha anche scritto un libro, “Il mistero della Sapienza”. Mise in dubbio l’impianto accusatorio…

«Io non ho mai sostenuto l’innocenza di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Ho espresso in modo civile e continente un’opinione: le prove, per come erano state raccolte erano incerte, tardive e contraddittorie. Sono i tre requisiti in base ai quali, secondo il codice di procedura penale, scaturisce l’assoluzione, perché l’accusa non è riuscita a dimostrare la colpevolezza dell’imputato».

Perché ha dichiarato in più occasioni di essere stato perseguitato dai due pm che seguirono il caso?

«Mi hanno querelato più volte per diffamazione, anche per alcuni articoli apparsi su Repubblica, quando pubblicai una contro inchiesta in cinque puntate. Ma non ho mai scritto, detto e pensato che i due imputati fossero innocenti. C’erano le condizioni minime per accusarli però i due inquirenti non sono mai riusciti a dimostrare la loro tesi accusatoria: l’omicidio volontario. Infatti Scattone e Ferraro sono sempre stati condannati per omicidio colposo, per il quale, in teoria, bisognerebbe cambiare il capo di imputazione, si dovrebbero produrre delle prove, non può essere uno sconto. Nel caso Marta Russo si vedono le principali storture del sistema giudiziario italiano, dove il pm è dominus assoluto delle indagini e le indirizza, le condiziona, le orienta e, a volte in perfetta buona fede, le disorienta. Di conseguenza, la polizia giudiziaria perde qualsiasi autonomia funzionale. Due o tre giorni dopo l’omicidio della povera studentessa, la Digos produsse un’informativa in cui si avanzava un’ipotesi del tutto diversa rispetto a quella dell’accusa: si sosteneva che il colpo fosse partito dal bagno disabili al pian terreno, non dalla sala assistenti».

E la perizia balistica?

«Le perizie erano anch’esse contraddittorie. È normale, sia chiaro, non c’è da scandalizzarsi. Ma se non si raggiunge una certezza definitiva sull’origine dello sparo, sulle modalità e sul movente è difficile riuscire a dimostrare la tesi dell’omicidio volontario».

Crede che Scattone e Ferrano non abbiano avuto un giusto processo?

«Il giusto processo deve garantire non solo l’imputato ma anche i cittadini. All’epoca c’erano i genitori di 200mila studenti della Sapienza particolarmente preoccupati per i loro figli. Non sapevano se all’università circolavano dei serial killer o dei terroristi. Il problema non riguarda solo i diretti interessati, riguarda tutta l’opinione pubblica. Per capirci, nella tesi accusatoria si ricordava che Scattone aveva sostenuto il servizio militare nei Carabinieri ed era in possesso di un ottimo libretto di tiro. Questo doveva essere un elemento determinante per dimostrare la volontarietà dell’omicidio. Lui però è stato condannato per omicidio colposo e il dettaglio della sua abilità nel tiro è sparito dal castello accusatorio per dimostrare una tesi opposta. Ma come è possibile che uno bravo a maneggiare le armi fa partire un colpo per sbaglio e uccide? Ciò non significa che fosse innocente, ma che la sua colpevolezza non è stata dimostrata».

Perché non venne riformulato il capo d’accusa?

«Al di là del caso specifico, il problema sta nella contiguità tra pm e giudice. Una contiguità che non si materializza solo tra l’inquirente e il giudice finale, ma in tutti i gradi del processo, anche con il Gip e il Gup. Troppo spesso il giudizio si precostituisce prima del dibattimento e della sentenza».

Come si scardina questo circolo vizioso?

«Trovo molto interessante la proposta emersa al congresso dell’Unione delle Camere penali: creare due Csm, uno per i pm e uno per i giudici. È una proposta garantista non solo perché garantisce il cittadino imputato, ma garantisce anche l’autorevolezza e l’affidabilità del magistrato».

Lei fu anche tra i primi a sostenere l’innocenza di Enzo Tortora…

«Assunsi la direzione dell’Espresso il primo luglio del 1984, il mio predecessore era Livio Zanetti, collocato su posizione vagamente radical- socialiste. C’era una nutrita pattuglia di bravi giornalisti giudiziari, non mi faccia fare nomi, schiacciati su una linea giustizialista e colpevolista contro Tortora. A poche settimane dal mio insediamento, Marco Pannella chiese di venire a trovarmi. Ricordo che sulla mia scrivania c’era un cartello verde con la scritta: “Vietato fumare”. Marco ci rimase malissimo. E il solo fatto che fosse venuto a spiegarmi alcuni particolari sul caso Tortora fu sufficiente a suscitare una reazione di protesta, ci mancò poco che scattasse uno sciopero su iniziativa di quei cronisti che, in perfetta buona fede, si fidavano delle loro fonti sul caso Tortora».

Come fece a gestire una redazione contraria?

«Ci volle un po’ di tempo e una lunga discussione ma, carte alla mano, riuscii a cambiare la linea del giornale. Verso la fine del processo pubblicai La colonna infame in allegato, come simbolo di questo errore giudiziario. Pochi giorni fa, la signora Scopelliti, vedova di Enzo Tortora, mi ha confidato di aver deposto una copia di quell’allegato nella bara del marito poco prima che venisse chiusa».

«Mai essere garantisti o arriva Rosy Bindi e ti lapida in pubblico», scrive Errico Novi il 3 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Intervista a Massimo Adinolfi, filosofo ed editorialista del “Mattino”: «La presidente dell’antimafia afferma che il mio giornale e il Messaggero difendono i corrotti. Parole volgari che seguono l’onda del populismo». Il filosofo Massimo Adinolfi è editorialista del Mattino da dieci anni. Mai gli era capitato di essere seppur indirettamente scaraventato nel girone degli opinionisti a gettone, di chi riflette e analizza non per convinzione ma per comodità. Nello specifico, Bindi ha di fatto messo anche lui nel calderone quando sabato scorso ha liquidato con la seguente sentenza la battaglia di Mattino e Messaggero contro i sequestri preventivi agli indiziati di corruzione: «Mi indigno perché vedo che ci sono alcuni direttori di giornale che fanno gli interessi dei loro editori non in quanto editori, ma in quanto costruttori, e attaccano questa legge in qualche modo per minare tutto il sistema delle misure di prevenzione». Un’allusione di sorprendente e gratuita sgradevolezza al fatto che i due principali quotidiani di Napoli e di Roma sono editi appunto da un costruttore, Francesco Gaetano Caltagirone. Sul Messaggero ieri ha risposto con ironia affilatissima Carlo Nordio, un altro della cui integrità sarebbe semplicemente demenziale dubitare.

E lei come l’ha presa, professor Adinolfi?

«Davvero male. Sono amareggiato e appunto ho preferito autocensurarmi. Non ho voluto utilizzare il mio giornale per una replica sincera e schietta che sarebbe apparsa come un fatto personale».

Può replicare con quest’intervista.

«Ecco, quella frase mi pare si inserisca alla perfezione in un certo andazzo, la lapidazione del garantismo attraverso lo screditamento di chi lo professa. Chiunque in questi ultimi anni si sia impegnato in battaglie sui diritti si è sentito rovesciare addosso volgarità dello stesso tipo. È un malcostume antico: anziché entrare nel merito si preferisce screditare la persona».

Spesso Bindi si è lamentata per la volgarità degli avversari, soprattutto di centrodestra: usa la stessa moneta?

«Guardi, la presidente Bindi è una sincera cattolica, giusto? Quindi parliamo del peccato ma non del peccatore, ecco. Se lei mi chiede se quella frase è stata volgare…»

Glielo chiedo.

«… lo è stata senza dubbio, ed è di quella volgarità che le dicevo, usata con abituale disinvoltura su argomenti del genere. Se invece mi chiede della presidente Bindi, le dico che non è una persona volgare. Ma è come se si fosse unita a un coro che rimbomba da anni».

La lapidazione dei garantisti?

«Nel clima giustizialista e populista che si respira, una battuta come quella del vertice dell’Antimafia è subito compresa. Se invece devi spiegare perché ti batti per impedire che una certa legge laceri il sistema delle garanzie, devi spiegarti a lungo, devi ricorrere a un armamentario persuasivo molto più articolato».

Come ci si è arrivati?

«Il fatto che chi ha posizioni garantiste venga subito additato come connivente, colluso, moralmente ambiguo, affonda le sue radici nella crisi della nostra classe dirigente, non solo di quella politica. La credibilità del sistema è precipitata a un grado così basso che assumere una posizione libera e indipendente senza essere subito trascinati nel gorgo degli screditamenti reciproci è diventata un’impresa».

La politica ha una pessima opinione di se stessa e la estende al prossimo.

«Di più: la politica ormai non ha alcuna idea di sé. C’è una perdita di funzione storica che è davvero drammatica: la politica non sa più dove portare questo Paese né sa perché ha un ruolo dirigente».

L’affermazione può essere letta anche al rovescio: proprio perché è stata svuotata di funzione da poteri sovranazionali e privi di legittimazione democratica, la politica ha perso credibilità.

«Certo, è un circolo vizioso. E se arriva a conseguenze sempre più estreme può mettere la democrazia in serio pericolo. È vero che l’uso della delegittimazione morale per abbattere un potere fa parte della storia europea dall’Illuminismo in poi. Cito un testo che lo spiega con chiarezza: Critica illuminista e crisi della società borghese, di Reinhart Koselleck. Solo che l’Ancien régime era un sistema evidentemente autocratico, nel nostro caso vediamo messa in discussione la sovranità democratica. E quanto più è sommersa dalla marea del discredito, tanto più la politica perde di senso e si svuota».

La battaglia garantista è persa in partenza?

«Faccio l’esempio della presidente Bindi: ha detto che i sequestri a chi è solo indiziato di corruzione sono un regalo agli italiani, io a lei vorrei regalare un manuale di logica. Mi riferisco a un’altra sua frase, secondo cui Mafia Capitale dimostrerebbe come la mafia usi metodi corruttivi, e che quindi le misure contenute nel Codice antimafia sono indispensabili. Il punto è che la mafia può anche servirsi dello strumento corruttivo, ma questo, sul piano logico, non può equivalere all’assunto per cui ogni fenomeno corruttivo è mafioso. È un errore circolare, è come dire che poiché tutti gli uomini sono mortali, e tutti gli animali sono mortali, tutti gli animali sono uomini».

Com’è che in Parlamento i fautori della legge hanno vinto?

«Primo: è un provvedimento illiberale. Secondo: sono sinceramente sorpreso del giudizio che ne ha dato il ministro Orlando, con il quale ho avuto il privilegio di collaborare. Conosco la sua misura, la sua preparazione, e davvero non comprendo perché si dica favorevole a una norma simile. Vorrei ricordare che vi è prevista l’inversione dell’onere della prova: è l’indiziato a dover fornire prova della lecita provenienza dei suoi beni. Ma un conto è imporlo a un presunto mafioso, estenderlo a chi è appena indiziato di reati contro la pubblica amministrazione è appunto illiberale.

Il ministro sostiene che i “no” sono tipici di un Paese in cui la proprietà privata è intangibile anche al di là di come la si è acquisita.

«Mi pare che nel nostro ordinamento siamo già colmi di misure di confisca, non credo si tratti di un tabù».

Iacona, dimmi, questo è giornalismo? Scrive Piero Sansonetti il 30 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La puntata di “Presa diretta” sulla mafia a Reggio Calabria è stato uno spot a un paio di magistrati, senza rispettare il diritto alla difesa. Pessimo servizio pubblico. Conosco Riccardo Iacona da molti, molti anni, da quando lavorava con Santoro, mi pare che fossero gli anni Ottanta. E lo stimo, mi è sempre sembrato molto bravo, in Tv, nelle inchieste sociali. Per questo sono rimasto davvero stupito, l’altra sera, vedendo la puntata della sua trasmissione, “Presa Diretta” (sulla Rai), intitolata i “mammasantissima”, presentata come una inchiesta giornalistica sulla mafia e la massoneria a Reggio Calabria. Più che una inchiesta, più che un lavoro giornalistico, sembrava un lunghissimo spot pubblicitario a un paio di Pm, e questo non è una bella cosa, specie sul servizio pubblico. Ma soprattutto sembrava un lavoro ordinato e organizzato dalla Santa Inquisizione, in un modo così sfacciato da lasciare interdetti. Non so se è giusto usare i vecchi aggettivi ormai consumati: manettaro forcaiolo… Ma è difficile non farlo. Quello che so è che Riccardo stavolta ha reso un servizio pessimo all’informazione. Non c’era nessuna inchiesta giornalistica, nella sua trasmissione, c’era una tesi e questa tesi era sostenuta da dichiarazioni – prive di qualunque riscontro – rilasciate dagli inquirenti e da qualche pentito: da nessun altro. Voci contrarie? Zero virgola zero. Parola alla difesa? Ma per carità! La tesi era questa. Che al di sopra della ‘ndrangheta c’è una super- cupola, la quale detta la strategia e dirige la ‘ndrangheta, e della quale fanno parte quattro persone, forse cinque. Le quattro persone sono l’avvocato De Stefano e tre politici: il senatore Caridi, l’ex parlamentare Romeo, e l’ex assessore Sarra. Poi, forse, c’è anche l’ex presidente della Regione, Scopelliti. Accanto a questa cupola c’è anche una cupoletta, costituita da un ex magistrato (Tuccio) e da un prete (il parroco di San Luca, don Pino Strangio). La tesi si sorregge su alcuni pezzi dell’inchiesta giudiziaria del Pm Giuseppe Lombardo, il quale, un anno e mezzo fa circa, ha ordinato l’arresto della presunta cupola (pre- sun- ta), con il benestare del Senato della Repubblica che ha acconsentito senza fiatare – nonostante la vistosa carenza di indizi – all’imprigionamento del senatore Caridi. Ho scritto “alcuni pezzi dell’inchiesta”, perché solo alcuni (quelli che sembrano a sostegno della colpevolezza) vengono utilizzati. Altri restano avvolti nel silenzio. E ho scritto “carenza di indizi” perché così ha detto la Corte di Cassazione, di fronte al ricorso della difesa di Caridi contro il suo arresto. La Cassazione ha accolto il ricorso della difesa e ha precisato che non gli sembravano sufficienti gli indizi contro Caridi, e questo la dice lunga sulla superficialità del Parlamento, che invece ha sùbito chinato la testa di fronte alla richiesta dei Pm e – da allora – di Caridi ha dimenticato persino il nome. Questa notizia della Cassazione che ha ritenuto insufficienti gli indizi e ha chiesto al tribunale del riesame di ripensarci (il riesame però non ci ha ripensato, e ora pende un nuovo ricorso in Cassazione) la trasmissione “Presa Diretta” l’ha bellamente ignorata. Del tutto. Perché? Perché disturbava la tesi. La trasmissione non ha mai nemmeno per un secondo messo in dubbio la colpevolezza di Caridi e degli altri. Ha indagato su quanto esteso fosse il loro potere mafioso, non sull’ipotesi di colpevolezza o innocenza. E naturalmente, in un’ora e 43 minuti, neppure un secondo è stato lasciato alla difesa. A che serve la difesa se già sappiamo chi è colpevole?

Detto tra parentesi, Presa Diretta ha persino aumentato il numero degli imputati, tirando in ballo il nome di Scopelliti che non è tra gli accusati. La tesi di Iacona, è basata, dicevamo, sulle testimonianze di alcuni pentiti. Precisamente due pentiti: Nino Fiume e Salvatore Aiello. Nino Fiume, che è stato arrestato nel 2001 e dunque conosce gli affari di mafia del secolo scorso (quando almeno alcuni degli imputati erano poco più che ragazzi) nelle interviste mandate in onda dice solo cose molto generiche e tutte per sentito dire. Usa termini che certo non sono mafiosi, ma sono suggeriti evidentemente dagli inquirenti, o dai giornalisti, tipo “zona grigia” della mafia (espressione che in gergo giudiziario, e anche sociologico, indica un settore della società che sta a metà strada tra mafia e Stato). Dice Fiume: «me l’hanno detto… le lascio immaginare… i burattinai che guidano il treno… chi sta al di sopra della ‘ ndrangheta…». Nomi niente, fatti niente. Aiello dice ancora meno, ma lui è il pentito che aveva indicato Caridi come mafioso e aveva raccontato di un incontro avuto da Caridi con un certo boss, il quale, si è saputo poi, al momento dell’incontro presunto era al 41 bis… E’ possibile dar credito a un pentito di questo genere? Nella trasmissione di Iacona non viene mai, neppure di sfuggita, messa in discussione la credibilità dei pentiti, né della tesi dei magistrati. E non viene mai detto che gli inquirenti hanno solo quello in mano: vecchie dichiarazioni di pentiti e intercettazioni nelle quali si parla per sentito dire, o si gridano dichiarazioni che possono tranquillamente essere interpretate come “millantato credito”.

A un certo momento Iacona cita anche Falcone, dimenticando che l’ipotesi della super- cupola, con Caridi e gli altri, è esattamente il rovesciamento delle ipotesi alle quali lavorava Falcone (e che perciò fu isolato e sommerso dalle polemiche): Falcone escludeva che la mafia fosse eterodiretta da una super- cupola. Poco prima di morire fu linciato in Tv per queste sue posizioni. La seconda parte della trasmissione è stata dedicata alla massoneria. Qui la tesi era veramente molto molto vaga. Più o meno era questa: non sappiamo bene perché, non abbiamo neppure un indizio, non c’è nessuna ragione perché sia così, ma noi pensiamo che massoneria e ‘ ndrangheta, se non sono la stessa cosa, poco ci manca. Il finale è stato lasciato, come si poteva prevedere, a Nicola Gratteri. La stella televisiva dei Pm. Il quale, peraltro, stavolta ha fatto la parte del moderato. L’intervista davvero era un po’ imbarazzante. Due tre volte le risposte di Gratteri sono state commentate dall’intervistatore con una esclamazione: “Bravo! Bravo! Bene!”. Diciamo che nei manuali di giornalismo non c’è mai scritto che l’intervistatore deve applaudire l’intervistato… Gratteri ha detto anche alcune cose sagge, e accanto a queste ha spiegato di nuovo la sua vecchia tesi, un po’ singolare: secondo la quale in Italia c’è stato un decadimento etico e quindi la mafia non ha più bisogno di uccidere ma corrompe. Abbiamo scritto altre volte che questa tesi secondo la quale bisogna essere molto allarmati perché non s’uccide più, non ci convince molto: ma questo non c’entra con l’inchiesta di Iacona.

A Riccardo vorrei dire solo questo: torna a fare le inchieste sociali, che le sai fare. Questo tuo lavoro su Reggio Calabria, diffuso attraverso il servizio pubblico (e peraltro realizzato in modo eccellente dal punto di vista tecnico e di scena) è stato un disastro. I magistrati fanno il loro lavoro come credono, ma poi i processi devono farli in aula, non in Tv. Davanti a un giudice terzo, non a un giornalista loro tifoso. Non ti pare?

Turi lesse i giornali e disse: «’Sto Turi è colpevole sicuro!», scrive Lanfranco Caminiti il 30 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La storia dell’avvocato che difese l’onore di Peppino Impastato e che fu arrestato, anni dopo, con l’accusa di avere relazioni con la mafia. Tornato a casa, leggendo i giornali sul suo caso, emise “la strana” sentenza su se stesso. Nell’imbarazzante scambio di accuse e repliche tra Giovanni, il fratello di Peppino Impastato, e Claudio Fava, intorno la presentazione alle elezioni regionali siciliane della lista “Cento passi”, non è facile prender partito: per un verso, sembra aver ragione Fava, quando rivendica una sorta di «proprietà intellettuale» sul famosissimo film ( dal cui titolo, la lista) di cui contribuì a scrivere la sceneggiatura, ricavato peraltro da un capitolo così intitolato di un suo libro sulla vicenda, quando rivendica, insomma, un suo ruolo non secondario nell’aver conficcato nell’immaginario nazionale quella storia; per un altro, più sostanziale, tocca il cuore la malinconica protesta di familiari e amici di Peppino che si sono sentiti abbandonati per anni, in cui da soli hanno sostenuto le battaglie legali e di opinione per affermare una verità che a fatica è emersa, benché gridata fin dalle prime ore, e sostengono che quel “titolo” – in cui peraltro alcuni sembrano proprio non riconoscersi, come una storiella edulcorata per poter diventare più fruibile – rimanda con ogni evidenza a una persona, a un percorso non solo individuale, a una storia, ormai conosciuta in tutt’Italia anche dai ragazzi delle scuole, e quindi è un “uso improprio” di una vicenda dietro cui “farsi belli”. Senza neanche averli interpellati. Non sappiamo se questo aspetto dell’averne parlato o meno sia in questi termini, ma sarebbe davvero sgradevole se come siano andate le cose si debba appurare per via di querele e di giudizio in tribunale. Quello che di questa storia sembra più importante è che ha riacceso un po’ di attenzione sulla figura del militante siciliano ucciso da una bomba della mafia – una verità che ci ha messo più di vent’anni per essere affermata nei tribunali – e che a volte i pellegrinaggi alla casa di famiglia, ormai un museo, mettono un po’ in ombra, sull’onda di sentimenti pur nobili. Ma c’è anche una storia “minore” che però vale la pena raccontare, anche se davvero – e lo diciamo subito – non c’entra proprio nulla con la polemica. E è la storia di Turi Lombardo. Turi Lombardo non è Raffaele Lombardo, catanese e medico psichiatra, già governatore della Sicilia, fondatore di un Movimento per le Autonomie che si diffuse fino al profondo Nord, e poi caduto nella polvere per accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso che lo fecero dimettere dalla carica nel 2012 e, dopo diversi anni e giudizi, si sono rivelate proprio nella primavera di quest’anno inconsistenti, condannandolo comunque per voto di scambio e restituendolo ormai sgonfio alla società civile – a quella politica, per ora, un po’ di lato. Però, Turi Lombardo condivide con Raffaele Lombardo, e con una nutrita pattuglia di politici siciliani – per citarne uno “di peso”, Calogero Mannino detto Lillo, ministro di questo e di quello nella Prima re- pubblica, accusato nel 1994 e definitivamente assolto nel 2010, con una coda per la trattativa mafia-Stato nel 2012 e assolto nel 2015 – la sorte di quelli “sporcati” da un’accusa infamante da cui, nonostante le assoluzioni benché tardive, non si riprendono più. Per dire: Paolo Piccione, anche lui finito nel tornado delle indagini degli anni Novanta – circa metà dell’Assemblea regionale siciliana era indagata – quando era presidente dell’Ars, per accuse di corruzione e turbative d’asta, da cui andò poi assolto. Fu, quel tornado, la fine dell’autonomia siciliana disegnata a misura di democristiani e socialisti e la premessa per quel clamoroso risultato elettorale del berlusconismo nel 2001 quando conquistò tutti i collegi tutti: 61 a zero, una cosa mai vista da nessuna parte, né prima né dopo. Fu, quel tornado, l’applicazione di un “teorema giudiziario”: in Sicilia non è possibile essere politici di livello se non si hanno rapporti stretti con i mafiosi, e lo scambio di voti trova la sua ragion d’essere attraverso gli appalti per i lavori pubblici. Era, anche, l’applicazione del “teorema Andreotti”: più l’accusa sembra sostanziata da una prova inverosimile – in quel caso il “bacio” con Riina – e più può sembrare sofisticata: chi mai accuserebbe Andreotti di scambiarsi baci – mica era Totò Cuffaro vasavasa – se non avesse in mano inconfutabile prova provata? Le prove non sempre risultarono provate, ma le carriere finirono spesso a gambe all’aria: d’altronde, era “senso comune” che i politici facessero affari con i mafiosi, no? A Turi Lombardo toccò sorte simile: fu accusato, da una sorta di “ministro” degli appalti mafiosi, di avere le mani in pasta. Ci ricamarono sopra, ci costruirono sopra architetture complesse di rapporti e relazioni e scambi: quando – lo racconta sempre lui stesso, questo aneddoto – fu restituito alla famiglia, agli arresti domiciliari dopo mesi di detenzione, e si mise a compulsare tutti i giornali che avevano parlato del suo caso, e che aveva chiesto alla moglie di conservare, leggendo questo e quello non poté fare a meno di esclamare: «Questo Lombardo è colpevole!». Ma lui non era quel Lombardo lì, quello raccontato in quel modo dai giornali, quello che filtrava dalle stanze della Procura. Ci mise un po’ a dimostrarlo: intanto si era dimesso da assessore regionale.

Che c’entra Turi Lombardo, socialista, palermitano, avvocato e professore universitario, con la storia di Peppino Impastato? C’entra, perché agli inizi lui era lì. Era lì, a Cinisi, in veste di militante civile e in veste di avvocato. Quando intorno agli Impastato s’era fatto il deserto, e solo i compagni suoi stretti – quelli di Democrazia proletaria, quelli del Centro di documentazione di Palermo – ebbero il coraggio di dire come stavano le cose. Ebbero il coraggio di dire che a Peppino l’aveva ammazzato la mafia, la mafia di Cinisi. Non era stato un suicidio, non era stato un maldestro tentativo di piazzare una bomba: la mafia l’aveva condannato da tempo, e aspettò il momento giusto. Lo sequestrarono, lo picchiarono, lo stordirono, lo piazzarono sui binari, gli fecero scoppiare una bomba in petto. Quando il pomeriggio del 9 maggio 1978 – mentre l’Italia intera trattiene il respiro perché è stato ritrovato il corpo di Aldo Moro in una R4 rossa in via Caetani – a decine compagni e cittadini si recano a Cinisi, tra loro c’è Turi Lombardo, socialista e avvocato, che insieme all’avvocato Di Napoli, redigerà l’esposto dei familiari e per un certo periodo seguirà le indagini. Quando il 19 maggio a Cinisi si svolge una manifestazione indetta dai sindacati Cgil, Cisl e Uil, dalla Federazione giovanile socialista, dal Movimento lavoratori per il socialismo, da Democrazia proletaria e dal Comitato di controinformazione, dal Partito radicale, dal quotidiano «Lotta continua», a parlare dal palco c’è anche Turi Lombardo. Quando, l’anno dopo, il 17 febbraio al cinema Alba di Cinisi, Radio Aut (che era la radio di Peppino), Democrazia proletaria di Cinisi e il Comitato di controinformazione Peppino Impastato organizzano un convegno su “Potere mafioso e lotta di classe”, con il fratello Giovanni, Giuseppe Di Lello ( giudice antimafia), Michele Pantaleone, Umberto Santino, Salvo Vitale ( uno dei più stretti compagni di Peppino), ci sono anche gli avvocati Di Napoli e Turi Lombardo. Poi, certo, le strade si dividono, la politica politicante, e spesso degli affari, è una cosa, la militanza di informazione e denuncia un’altra. E non basta certo una “singolare” coincidenza dell’agire giudiziario – pieno di depistaggi e ipotesi costruite “a arte” nel caso di Peppino, pieno di suggestive interpretazioni nel caso di Lombardo – a accomunare biografie e percorsi distantissimi. Rimane però un dato: che in Sicilia perché si faccia luce sulle vicende giudiziarie ci vuole un tempo imprecisabile. Nel caso di Peppino, c’è stata l’attività costante e determinata di un pugno di parenti, amici e compagni che ne ha tenuto viva la storia; e non a tutti va così.

Crolla il teorema dei pm, Del Turco assolto 9 anni dopo, scrive Errico Novi il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Un’odissea giudiziaria iniziata 9 anni fa.

L’APPELLO CANCELLA L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE. LA DIFESA: ORA LA REVISIONE. Mentre la Corte d’appello di Perugia assolve Ottaviano Del Turco dall’accusa di associazione a delinquere, il Senato si accinge ad approvare il ddl sui piccoli comuni. Del Turco viene da uno di questi, Collelongo, nell’Aquilano. Ha preso la licenza media alle scuole serali, se n’è venuto a Roma, si è fatto le ossa con la fatica e da sindacalista vero, che può parlare della fatica altrui perché conosce la propria. Forse per questo i giudici non gli avevano creduto, in primo e in secondo grado. E forse per questo i compagni che con l’ex governatore dell’Abruzzo avevano fondato il Pd, lo avevano scaricato il giorno stesso dell’arresto, nel luglio del 2008. Del Turco ha il volto scavato dell’operaio di provincia, non il profilo levigato della sinistra borghese. Di chi, come Walter Veltroni, nel pieno della tormenta gli disse: «Spero riuscirai a provare la tua innocenza». Secondo la Corte d’appello di Perugia, dunque, è certo che Ottaviano Del Turco, da presidente della Regione, non ha fatto parte di alcuna associazione a delinquere. Nel ultimo rivolo del processo sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, innescato dal rinvio della Cassazione, i giudici hanno fatto cadere il capo d’imputazione più odioso e ricalcolato la pena in 3 anni e 9 mesi. «Cade in modo rovinoso e definitivo l’intero impianto della Procura», commenta a caldo il difensore di Del Turco, Gian Domenico Caiazza. Non c’è la rete associativa. Restano cinque asseriti casi di induzione indebita a dare o commettere utilità. Episodi in cui l’ex governatore avrebbe ricevuto denaro dal suo unico accusatore, l’ex re delle cliniche Vincenzo Angelini. Ha preso quei soldi per favorire l’imprenditore? Ha modificato la politica sanitaria regionale per ricambiare le generose dazioni? Niente di tutto questo. «Del Turco continuò a fare un sedere così ad Angelini». Allo straordinario avvocato Caiazza si potrà perdonare il francesismo. I cinque episodi corruttivi restano dunque sospesi nel nulla, ma restano e non avrebbe potuto essere altrimenti. La Corte d’appello di Perugia era stata chiamata dalla Cassazione solo a decidere se c’era l’articolo 416. Non avrebbe potuto rivalutare nel merito le altre accuse.

L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE? UN FANTASMA. Cade l’associazione a delinquere, «perché il fatto non sussiste», anche per gli altri quattro imputati “rinviati”, come Del Turco, davanti al giudice di secondo grado. Si tratta dell’ex segretario della Presidenza all’epoca della giunta Del Turco, Lamberto Quarta, dell’allora capogruppo della Margherita in Consiglio regionale Camillo Cesarone, degli ex assessori alla Sanità Bernardo Mazzocca e alle Attività produttive Antonio Boschetti. Il sistema organizzato non c’è più. E non si capisce appunto, come facciano a esserci i singoli 5 illeciti residui, di induzione indebita da parte di Del Turco nei confronti di Angelini. «Viene meno la struttura stessa dell’accusa», spiega il difensore. Non a caso ora l’ex governatore e i suoi legali dicono: «Non è finita qui, adesso andiamo per la revisione del processo». In modo da cancellare tutto.

OTTAVIANO NON ASCOLTA LA LETTURA DELLA SENTENZA. Lui, Ottaviano, è a Perugia ma non se la sente di stare in aula al momento della pronuncia. C’è suo figlio Guido, giornalista del Tg5, che in questi casi è la sua ombra. E l’avvocato Caiazza. Sono loro due ad abbracciarlo e a comunicargli che un altro pezzo di incubo si è dissolto. Persino l’interdizione dai pubblici uffici è stata ridimensionata a 5 anni, da che era “perpetua”. «Resta quello schizzo di fango esiziale», lamenta il difensore. Le cinque induzioni indebite. Niente rispetto ai 24 capi d’imputazione contestati nel 2008 dalla Procura di Pescara. Troppe, anzi, tutte intollerabili dal punto di vista di chi si professa innocente.

STORIA DI UN PROCESSO, E DI UN ACCUSATORE, ROMANZESCHI. Il 14 luglio di 9 anni fa Del Turco viene arrestato con le accuse di corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. La Sanitopoli abruzzese nasce coi botti. Finisce in carcere un’altra decina di persone tra consiglieri regionali, assessori e alti funzionari dell’Amministrazione. Tutto gigantesco. Ma sorretto da un solo, unico pilastro: Vincenzo Angelini appunto. Accusa tutti, e Del Turco più di tutti, di avergli sfilato tangenti per 5 milioni e 800mila euro. Contati. Solo per Del Turco i capi d’imputazione sono 24, una quindicina riguardano appunto le mazzette all’ineffabile imprenditore. Fanno, in primo grado, una condanna a 9 anni e 6 mesi. Si va in appello e, nel novembre 2015, il conto è assai più che dimezzato. Oltre all’associazione a delinquere, restano in piedi solo 5 dei capi d’imputazione relativi alle asserite tangenti. Il precedente conto virtuale e immaginario di quasi 6 milioni si riduce a 600mila euro. La condanna scende a 4 anni e 2 mesi. Cadono le accuse sui reati “strumentali”. Nel caso di Del Turco il falso, per gli altri imputati gli abusi d’ufficio. E già lì il colpo all’impianto accusatorio è letale. Intanto perché le 5 dazioni sopravvissute del governatore a Angelini si reggono praticamente tutte su quella, leggendaria per così dire, della busta piena di mele con cui il magnate sanitario viene via da casa Del Turco a Collelongo, dopo averla svuotata di bigliettoni. La prova? Foto della busta coi bigliettoni, foto della busta con mele, foto sfocatissima che ritrae due figure indistinguibili. Sembra Fantozzi. È la prova regina, anche per la Corte d’appello dell’Aquila, che almeno quella mazzetta è passata nelle mani dell’ex presidente. Il quale quel giorno, il 2 novembre 2007, era a casa, ma con ospiti istituzionali che non ricordano affatto la misteriosa visita. Sopravvivono altre 4 dazioni per “riverbero” dalla prima. Secondo la impegnativa costruzione della sentenza di secondo grado, sono vere perché sarebbe provata quella delle mele e perché, anche in questi altri quattro casi, i riscontri dei passaggi Telepass forniti da Angelini non sono chiaramente improponibili. «Prima di Del Turco la Regione Abruzzo sfrondava la spesa sanitaria per 50mila euro l’anno di ‘ inattività inappropriate’, con lui si è arrivati in 3 anni a tagliarle per 100 milioni di euro: ora capite da dove nasce questo processo?», urlò inutilmente Caiazza davanti ai giudici d’appello.

LA PRONUNCIA CHE LA CASSAZIONE TROVA “ILLOGICA”. Si arriva in Cassazione. Non si possono più rivedere i cinque episodi di induzione indebita: la Suprema corte non è giudice di merito. Ma può, e lo fa, rilevare che l’accusa di associazione a delinquere è illogica, così come formulata dalla sentenza di secondo grado: non ci sono i reati strumentali di falso e abuso, ci dite allora come funzionava quest’associazione a delinquere che non produceva alcunché? Ecco perché il 3 dicembre dell’anno scorso la Cassazione annulla la pronuncia d’appello con rinvio, per competenza, ad altra Corte, quella di Perugia. Va riformulato con altri presupposti o cancellato il reato associativo.

IL LAPSUS DEL PG CHE CHIEDE UNA PENA TROPPO BASSA. Siamo a ieri, quando puntualmente l’associazione a delinquere cade per tutti, a cominciare da Del Turco. Nel suo caso ai 4 anni e 2 mesi della condanna precedente vengono sottratti i 3 mesi del articolo 416, ed ecco il rideterminazione di 3 anni e 9 mesi. Ma vorrà dire, vorrà pur dire qualcosa, il fatto che il sostituto procuratore generale Giuliano Mignini non solo chieda di cancellare quel capo d’ imputazione e rivedere così complessivamente al ribasso tutte le condanne; ma che nel formulare la richiesta per Del Turco esageri addirittura. Mignini chiede di portarla a 1 anno e 9 mesi. «È un errore, purtroppo, solo un errore tecnico, perché il minimo per l’induzione indebita è 3 anni e poi c’è l’asserita continuazione del reato», commenta Caiazza in attesa della sentenza. Quel lapsus però resta. «Ben rappresenta quale sia anche da parte della Procura generale l’apprezzamento di gravità del fatto che residua rispetto all’indagine di 9 anni fa». Nulla, appunto. Solo un ultimo schizzo di fango.

Del Turco: «Se ce l’ho con i pm? No, ce l’ho con il populismo giudiziario», scrive Giulia Merlo il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio".  «Mi sono liberato di un macigno sia psicologico che morale. Ora punto alla revisione del processo per dimostrare la mia piena innocenza». «Ora voglio la revisione del processo, per dimostrare la mia piena e totale innocenza». L’ex presi- dente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, è raggiante mentre torna in auto da Perugia, dopo la sentenza che lo assolve dall’accusa di associazione per delinquere. Il cellulare squilla in continuazione, mentre lo scandalo “Sanitopoli” abruzzese si sgretola, dopo quasi dieci anni dai primi arresti. Del Turco, detenuto 28 giorni nel carcere di Sulmona e poi agli arresti domiciliari, era stato condannato in primo grado a 9 anni e 6 mesi, ridotti in appello a 4 anni e due mesi con una sentenza che viene poi annullata con rinvio dalla Cassazione. Fino ad ieri, quando l’ultima sentenza della Corte d’Appello «mi ma liberato dall’aberrante accusa di essere a capo di una associazione per delinquere».

Onorevole, è soddisfatto degli esiti della sentenza? Rimane in piedi la condanna per induzione indebita a dare o promettere utilità.

«Soddisfazione è dire poco, mi sono liberato da un macigno che mi opprimeva. Lei non sa quanto mi sia pesata, sia dal punto di vista psicologico che morale, l’accusa di essere a capo di un’associazione per delinquere. Non trovo parole per descriverle quanto sia importante per me la sentenza di oggi».

La vicenda è chiusa, ora?

Sono felicissimo di questo primo passo verso la chiusura. Lo ricordava lei: rimane in piedi la condanna per induzione indebita, ma non è definitiva e mi batterò in giudizio perché cada anche quella. Ora, infatti, è il momento di trarre le conseguenze dell’assoluzione dall’accusa di associazione per delinquere: tutte le altre ipotesi di reato si giustificavano con l’esistenza dell’associazione, ma senza questa non hanno ragion d’essere. Questo sarà il tema del futuro giudizio».

Quale sarà la sua prossima mossa processuale?

«Punto a ottenere la revisione del processo. Come dicevo, il reato fondamentale a me contestato era quello associativo ed è stato distrutto da questa sentenza. Su questo si reggeva l’impianto accusatorio che tiene in piedi le altre ipotesi di reato. Ora voglio ottenere la piena assoluzione».

Lei, al momento dell’arresto, era governatore della Regione Abruzzo e dirigente del Partito Democratico. Ha ricevuto solidarietà dai colleghi di partito, in questi anni di battaglia processuale?

«Guardi, le posso dire di aver ricevuto moltissima solidarietà diretta, con centinaia e forse addirittura migliaia di telefonate di solidarietà, con molti che hanno definito vergognosa l’inchiesta contro di me. Ecco, ora penso che queste parole possano venire pronunciate anche pubblicamente, non solo a me per telefono».

Forse, ora, sente di poter vantare qualche credito anche nei confronti della politica?

«Assolutamente no. La prego, mi lasci passare qualche ora a crogiolarmi nella soddisfazione di aver smontato accuse mostruose nei miei confronti».

Nessun proverbiale sassolino dalla scarpa?

«Le dico la verità: non esco da questa vicenda con la voglia di rimettere in discussione gli equilibri politici di questo o quel partito, non sono quel genere di persona. Glielo assicuro, dalla meraviglia della sentenza di oggi trarrò conseguenze personali e non politiche».

La sua carriera politica è stata azzerata da questa inchiesta giudiziaria. Si sente di recriminare qualcosa ai magistrati che l’hanno indagata?

«Io sono un militante di un grande movimento democratico e vengo dalla tradizione socialista. Ho partecipato alle battaglie del Partito Democratico di questi anni e non metto in alcun modo in discussione le regole e gli ideali della democrazia. Anzi, le dico che questa sentenza rafforza la mia fiducia nella giustizia: da oggi, la mostruosità che si chiamava associazione a delinquere non pesa più sulle mie spalle».

Il suo non è il solo caso di politico finito imbrigliato da inchiesta giudiziarie. E’ in atto in questo senso un conflitto tra politica e magistratura?

«Il fatto che l’associazione per delinquere sia caduta nei confronti miei e degli altri imputati fortifica ulteriormente la fede nella politica, che ho conservato intatta in questi anni. Io spero però che la sentenza rimanga impressa nella mente di tutti quelli che hanno voluto giocare sulla pelle della politica, perché la smettano con il populismo giudiziario».

Ri-assolto pure Penati. La debacle dei pm nei processi politici, scrive Piero Sansonetti il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Dopo Del Turco, Orsoni, Mastella, Marino, Alemanno e altri…Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano, l’ex portavoce di Bersani, l’ex “corrotto” del Pd, è stato assolto in modo definitivo e completo dalla Corte d’appello, dopo essere stato assolto, circa un anno fa, in primo grado. È In- no- cen- te. Punto. E’ successo ieri. Ottaviano Del Turco è stato assolto in modo definitivo dall’accusa di associazione a delinquere, per la storia della Sanitopoli abruzzese. Del Turco, ex numero due della Cgil ai tempi di Lama, ex segretario del Psi, ex presidente della regione Abruzzo, ex galeotto in servizio nel carcere di Sulmona e poi ai domiciliari. È successo l’altro ieri. (E sempre l’altroieri, tra l’altro, sono stati assolti anche l’ex capo di Fastweb, Silvio Scaglia, e vari altri dirigenti, tra i quali Mario Rossetti, autore di un libro molto bello sulle sue vicende carcerarie, intitolato “Io non avevo l’avvocato”. Anche loro innocenti, assolutamente e completamente innocenti). Ri- assolto pure Penati La debacle dei Pm. Torniamo a ieri. Sono stati prosciolti due ex sindaci di Roma, e cioè Ignazio Marino e Gianni Alemanno. Marino in seguito alle accuse contro di lui, ingiuste, era stato costretto a dimettersi. Anche il suo partito lo aveva abbandonato. Al suo posto era stata eletta Virginia Raggi, e il centro- sinistra era stato sloggiato da palazzo Marino. Ieri il Pm ha chiesto il rinvio a giudizio per Virginia Raggi, la quale probabilmente sarà prosciolta o assolta nel giro di massimo un paio d’anni. Speriamo che nel frattempo non la costringano a dimettersi. Qualche giorno fa era stato assolto l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, Pd, il quale un paio d’anni prima era stato arrestato e scacciato dal Municipio. Si rivotò e vinse il centrodestra. Ora sappiamo che anche Orsoni era innocente. Se andiamo ancora indietro di qualche giorno troviamo l’assoluzione di Clemente Mastella, democristiano doc. Fu accusato di varie orrenderie e corruzioni assieme alla moglie nel 2008, si dimise da ministro della Giustizia, cadde il governo, iniziarono, lente lente, le indagini, poi concluse con la certezza che Mastella, e sua moglie, erano e restano innocenti. Come Orsoni, come Marino, come Alemanno, come Del Turco, come Scaglia, come Rossetti, come Penati…Sospendiamo l’elenco. Ci siamo limitati alle ultime due settimane e ai nomi più celebri. Poi ci sono tanti amministratori locali, meno noti, che hanno visto i sorci verdi prima di essere assolti. Ne parleremo un’altra volta. L’elenco dei “vip” scagionati in questi quindici giorni comunque è impressionante. Ci parla di persone ingiustamente “demolite” e alcune anche incarcerate. Che hanno visto stroncata la propria carriera politica, senza nessuna possibilità di riprenderla e senza nessun risarcimento. E ci parla anche di vistose manipolazioni dei rapporti di potere, e cioè del rovesciamento di giunte e maggioranze e governi da parte dei Pm. Questi casi che abbiamo snocciolato sono quasi tutti di amministrazioni di centrosinistra passate al centrodestra. Ma nella storia recente d’Italia ci sono molti esempi anche di segno contrario. A partire da uno o due governi Berlusconi mandati a gambe all’aria dai giudici (e dai giornali). Filippo Penati, l’ultimo degli assolti, nell’intervista che pubblichiamo a pagina 7, mostra un atteggiamento incredibilmente sereno. Va a suo merito, ci dice qualcosa della sua tempra morale. Penati spiega che lui ha cambiato vita, che non intende tornare alla politica, che non è detto che questo sia un danno, che dalla sua dolorosissima vicenda ha imparato a stimare ancora di più la magistratura italiana (quel famoso giudice che in genere sta a Berlino…), e poi osserva che i danni maggiori, a lui, li ha procurati la stampa, cioè un sistema d’informazione feroce e disonesto, che semina vittime e non le risarcisce mai. In parte, sicuramente ha ragione. La magistratura sta dimostrando di avere al suo interno delle componenti forti e sane, che riescono a riparare agli errori di altre parti di magistratura. Penati ha avuto la fortuna di non finire in prigione, come altri suoi colleghi, e non ha sentito, grazie a Dio, il pianto sfrenato di un suo nipotino, come è successo a Ottaviano Del Turco. Non sono del tutto convinto che la magistratura possa essere assolta per le ingiustizie che abbiamo appena raccontato. C’è un numero ridotto ma significativo di Pm che usano il proprio potere – il proprio enorme potere – con grande leggerezza. E non solo nei casi che riguardano i potenti. Del resto non lo dico io, abbiamo nei giorni scorsi riferito delle critiche – più diplomatiche, ma non molto diverse da queste – mosse dal Pg di Roma, Giovanni Salvi, al modo di lavorare approssimativo di molti Pm (e Giovanni Salvi, magistrato autorevolissimo, non è che possa essere proprio considerato un leader del garantismo…). E prima ancora di Salvi lo dicono i dati. I quali sono molto chiari. Se sommiamo le assoluzioni in primo grado e le assoluzioni in appello dopo una condanna in primo grado, scopriamo che la maggioranza assoluta dei processi – tra primo e secondo grado – si conclude con l’assoluzione dell’imputato. Molti di questi imputati subiscono un danno irreversibile – morale ed economico e di carriera. Ogni giorno – dicono sempre le statistiche – tre persone innocenti entrano in carcere e ne escono dopo parecchie settimane o mesi (se tutto va bene). È un problema o no? Quando si discute sull’efficienza della Giustizia è giusto tenere conto di queste disfunzioni, o dobbiamo parlare di disfunzioni solo quando scatta la prescrizione? Dopodiché, la questione che pone Penati è sacrosanta. La responsabilità della stampa e dell’informazione è spaventosa. Volete andare a controllare quanti giornali ieri hanno messo in prima pagina l’assoluzione di Del Turco dalla accusa di essere stato il capo di una associazione di delinquenti? Due o tre. E senza grandi titoli. Volete andare a vedere quanto giornali misero in prima pagina, a caratteri di scatola, il suo arresto? Ve lo dico io: tutti. Vediamo domani quanti giornali metteranno in prima pagina Penati. Non credo molti. Non è la prima volta che denunciamo il degrado dell’informazione. State tranquilli: purtroppo non sarà l’ultima.

Penati: «Il vero colpevole del mio processo è la stampa», scrive Giulia Merlo il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". «Il sistema dell’informazione ha molte colpe. Purtroppo fino all’apertura del processo si sente solo e soltanto la voce dell’accusa». «Sono doppiamente soddisfatto: per la conferma dell’assoluzione e la condanna alle spese delle parti civili, accanite contro di me». Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano e vicepresidente del consiglio regionale lombardo, ha incassato la conferma della sua assoluzione in appello: non c’era nessun “sistema Sesto”, ma la sua carriera politica è uscita in pezzi dall’inchiesta. «Col senno di poi, però, le dico che non ho rimpianti: oggi in politica sarei una mosca bianca. Ora sono sereno, ho rimesso in fila i valori della mia vita».

La sentenza d’appello conferma l’assoluzione in primo grado. Aveva dubbi?

«Nessuno. Era una sentenza attesa e ha solo confermato il fatto che si sia trattato di un processo senza alcun elemento a sostegno di un impianto accusatorio che era suggestivo quanto un romanzo giallo, ma frutto di pura fantasia. Confesso però che questa sentenza di appello mi ha dato una doppia soddisfazione».

E quale sarebbe?

«Le parti civili, ovvero l’ex provincia di Milano e la Serravalle, sono state condannate alle spese processuali. Per me è una soddisfazione perchè è una sanzione contro l’accanimento sia della Procura di Monza che delle parti civili, che non hanno voluto riconoscer- si in una sentenza di primo grado ben argomentata e hanno deciso comunque di appellare, al termine di un processo durato più di due anni, in cui sono stati ascoltati decine di testimoni».

Esiste sempre il ricorso in Cassazione.

«Ecco, io sinceramente mi auguro che questa sentenza metta fine a questo lungo iter processuale durato quasi sette anni. Spero che anche la Procura si sia convinta e che ogni elemento sia stato chiarito».

Sette anni non sono pochi. Si è sentito intrappolato in questo processo?

«Ricordo come fosse ieri la mattina del 20 luglio 2011. Alle 7 del mattino si è presentata la Guardia di Finanza e mi ha informato dell’indagine, poi hanno perquisito la mia casa e gli uffici della Regione Lombardia, dove allora ero vicepresidente del consiglio regionale. Sono stati anni durissimi, in cui ho vissuto lo sconcerto di non riuscire a capire quali fossero le contestazioni a mio carico ma soprattutto l’angoscia al pensiero delle ricadute di una cosa del genere sulla mia famiglia e su me stesso».

C’è stato un momento in cui ha iniziato a sperare nell’assoluzione?

«Guardi, appena è partito il processo ho capito che tutto si sarebbe risolto in un nulla. Sin dall’inizio ero certo che non ci fosse niente a mio carico e, non appena l’accusa ha svelato le carte, ne ho avuto la certezza. E’ stato allora che ho trovato in me la forza di essere sereno, convinto che tutto si sarebbe risolto positivamente. Questi sei anni, però, mi sono sembrati interminabili e mi hanno segnato in modo indelebile: solo dopo la sentenza di primo grado ho ripreso in mano la mia vita».

Una vita che, prima dell’inchiesta, era tutta votata alla politica, con una carriera che in quella fase era all’apice.

«Indubbiamente il processo ha bruscamente interrotto la mia carriera. Sono passato dalle stelle alle caverne, diciamo. Dopo la sentenza di primo grado, però, ho ricominciato a vivere scoprendo altri interessi: oggi sono presidente della più gloriosa società di basket femminile in Italia, dal 1 settembre sono in pensione e sono anche diventato nonno. Insomma, ho rimesso in fila i valori e le priorità della vita e oggi sono tranquillo e, soprattutto, sereno».

Dica la verità, la politica non le manca nemmeno un poco?

«La passione politica rimane e non si cancella, ma non ho intenzione nel breve periodo di tornare ad avere un ruolo attivo. Tra l’altro, le confesso che questo particolare momento politico non mi affascina per nulla. Lo considero una fase di imbarbarimento, in cui prevale la deriva demagogico- populista e la politica ha abdicato al proprio ruolo: la linea la dettano i sondaggi e non le convinzioni personali».

Davvero non si porta dentro alcun rimpianto?

«Glielo dico sinceramente: con il senno di poi posso dire che questa indagine, che pure non ha portato a nulla e mi ha colpito in maniera così pesante, non mi ha privato di qualcosa che oggi ambirei a continuare a svolgere. Non ho grandi rimpianti, ecco».

Si sente, allora, di indicare qualche responsabile?

«Il sistema dell’informazione ha molte colpe. Purtroppo, fino all’apertura del processo si sente solo e soltanto la voce dell’accusa e io sono stato processato dal sistema mediatico, solo sulla base della voce di chi mi accusava».

La sua sentenza d’appello segue all’assoluzione dall’accusa di associazione per delinquere a Ottaviano del Turco e a quella piena dell’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. Il sistema politico si sta prendendo la rivincita?

«Io credo che le ultime sentenze debbano almeno far riflettere il mondo dell’informazione, che in molti casi ha ecceduto nel dare per definitive le accuse, come se fossero già una condanna. D’altra parte, le dico anche che proprio queste sentenze mi rafforzano nella convinzione della bontà del sistema giudiziario e nella fiducia nella giustizia».

Eppure prima parlava di accanimento da parte della Procura di Monza.

«Si ma io mi sono difeso nel processo e ho trovato giudici che, superando la pressione mediatica, hanno espresso un giudizio attinente a quanto emerso nella fase dibattimentale, senza far prevalere un pregiudizio sorto sulla base dell’esposizione sulla stampa. Dopo questi sette anni, si è rafforzata in me la fiducia che in Italia ci siano giudici capaci di non essere condizionati dalla pressione dei media e dallo strapotere dell’accusa nella fase istruttoria, ma decisi a fare giustizia».

PIU’ GOGNA PER TUTTI. MEDIA. LA VOCE DELLE VOCI; LA VOCE DEGLI AVVOCATI; LA VOCE DELLE PROCURE.

La Voce delle Voci: vademecum di come si elimina la stampa libera e scomoda, scrive "Articolo 3" il 21 gennaio 2015". La Voce delle Voci nasce nel 1975 come Voce della Campania, è un quindicinale del Pci che annovera tra i suoi direttori Michele Santoro e tra i collaboratori un giovanissimo Roberto Saviano. Nel 1984 Andrea Cinquegrani, l’attuale direttore, rilancia la testata come mensile e nel 2007 diventa La Voce delle Voci, condirettore Rita Pennarola, moglie di Andrea: non un giornale d’inchiesta, ma il giornale d’inchiesta per antonomasia. Fra le firme fisse Ferdinando Imposimato, Sandro Provvisionato, Luciano Scateni, Jacopo Fo, don Vitaliano Della Sala, Nello Trocchia e immodestamente anch’io ho avuto l’onore di firmare le mie inchieste sulle pagine di quel giornale. Un giornale indipendente e coraggioso, quello diretto da Rita e Andrea, maestri di giornalismo, una voce libera e appassionata, che i poteri hanno da sempre ostacolato e cercato di mettere a tacere. E forse questa volta ci potrebbero essere riusciti. Tra una settimana la Voce sarà di nuovo in tribunale, trascinatavi da una certa Annita Zinni, compaesana e amica di Antonio Di Pietro; una vicenda allucinante che sta volgendo a un triste epilogo. Tutto ha origine da un pezzo scritto nel 2008 dal giornalista Alberico Giostra. Due anni dopo la Zinni decide che quell’articolo aveva provocato in lei dolorosi turbamenti e cita in giudizio La Voce delle Voci chiedendo un risarcimento “non inferiore a 40 mila euro”. Il giudice condanna la testata ad un risarcimento quasi doppio, una cifra sbalorditiva e spropositata, 70 mila euro lievitati, tra more, spese di giudizio e interessi a circa 150 mila. Tutto tra un bombardamento di pignoramenti e azioni giudiziarie nei confronti del direttore de La Voce e della cooperativa che edita la testata, letteralmente dilaniati dai procedimenti esecutivi. Unici obiettivi, dal momento che l’autore dell’articolo, Alberico Giostra, risulta escluso da qualsiasi azione risarcitoria. Il 26 gennaio la Voce delle Voci si presenterà all’esecuzione, con una piccola speranza, riposta nella procura di Campobasso, che ha iscritto, in merito alla vicenda, il giudice di Sulmona, Massimo Marasca, nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di abuso d’ufficio e omissione di atti di ufficio. Parti offese, Andrea Conquegrani e il condirettore de La Voce Rita Pennarola. Curioso è che la Voce delle Voci non sia stata condannata per diffamazione, bensì per lesioni personali che la signora Annita Zinni avrebbe patito, come un qualsiasi pedone arrotato da un’auto sulle strisce pedonali. A conferma di quanta sproporzione vi sia stata nella condanna de La Voce delle Voci, Andrea Cinquegrani ha così commentato: “un operaio della Thyssen ustionato che ha visto la morte dei propri compagni è stata risarcito con 50 mila euro. Ancora: il Tribunale di Milano ha recentemente condannato per diffamazione Roberto Saviano e la Mondadori, riconosciuti colpevoli di aver attribuito nel bestseller Gomorra reati di stampo camorristico ad una persona, ritenuta estranea ai fatti, a un risarcimento danni da 30.000 euro. Per la cronaca, Gomorra ha venduto circa 10 milioni di copie in tutto il mondo. Un piccolo giornale come il nostro viene citato per 95 mila euro, per aver arrecato danno a una persona che nello stesso periodo ha avuto il tempo di fare carriera politica, diventando segretario dell’Idv dell’Aquila. Assurdo”. La disavventura de La Voce delle Voci sembra insomma suggere che per un giornalismo che fa il suo mestiere e non guarda in faccia a nessuno, nel nostro paese sembra esserci davvero sempre meno spazio.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive Thomas Mackinson il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008, e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni. Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia: non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.

Voce delle Voci, respinta richiesta archiviazione per il giudice che pronunciò la condanna. Il 7 luglio a Campobasso si decide sul rinvio a giudizio, scrive il 16 Giugno 2015 "Prima da noi". Si terrà il 7 luglio prossimo al Tribunale di Campobasso la Camera di consiglio che dovrà stabilire se sarà o meno rinviato a giudizio il giudice Massimo Marasca per i reati di abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti della Voce delle Voci Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. La camera di consiglio del 7 luglio è stata fissata dal giudice per le indagini preliminari Libera Maria Rosaria Rinaldi, in accoglimento della opposizione alla richiesta di archiviazione del fascicolo proposta dal pm Barbara Lombardi (che si era avvicendato all’originario titolare dell’indagine, Francesco Santosuosso). La richiesta del pm Lombardi è stata respinta dal gip («ritenuto che la richiesta di archiviazione non possa essere allo stato accolta»), che ha accolto l'opposizione presentata dal difensore della Voce Serena Improta. «Vedremo il 7 luglio quale sarà la decisione del giudice circa il rinvio a giudizio», commenta il direttore Cinquegrani. «Intanto, però, questa data segna una tappa importante in una delle più paradossali vicende giudiziarie destinate ad imbavagliare la libertà di stampa nel nostro Paese». La vicenda ha avuto origine da un articolo pubblicato a ottobre 2008 sul mensile La Voce delle Voci, diretto da Cinquegrani e Pennarola, scritto dal giornalista Rai Alberico Giostra con il suo abituale pseudonimo, Giulio Sansevero. Nel pezzo, uno dei tanti dedicato da Giostra a Di Pietro nel periodo di incubazione del successivo libro shock “Il Tribuno”, si descriveva il sistema di potere collegato al partito, allora in auge, di Italia dei Valori, ed in un passaggio ci si soffermava sull’esame di maturità di Cristiano Di Pietro, riportando peraltro notizie già apparse su quotidiani nazionali circa l’interessamento di una insegnante molisana amica di famiglia dei Di Pietro, Annita Zinni.

Ad oltre un anno dalla pubblicazione dell’articolo la Zinni aveva presentato una citazione civile al Tribunale di Sulmona, città in cui risiedeva ed insegnava, chiedendo 40mila euro di risarcimento per presunto danno da “patema d’animo transeunte”. Il giudice Massimo Marasca, dopo aver accolto e convalidato i certificati di una psicologa sulmonese di Italia dei Valori a supporto delle affermazioni di Zinni, e dopo avere ammesso in aula come teste il pubblico ministero anziano di Sulmona Aura Scarsella, che confermava implicitamente in dibattimento la sua amicizia di lunga data con la Zinni, ha assegnato oltre 90mila euro di risarcimento danni cash, con una sentenza provvisoriamente esecutiva, alla insegnante dipietrista, divenuta nel frattempo segretario provinciale IDV a L’Aquila. I successivi atti di pignoramento dei legali della Zinni (avvocato Sergio Russo di Roma e avvocato Alessandra Vella di Italia dei Valori, Sulmona) sono stati notificati tra 2014 e 2015 all’intero sistema bancario italiano nonché alla presidenza del consiglio, dipartimento editoria, dove erano maturati contributi spettanti alla cooperativa editrice della Voce. Russo ha inoltre pignorato la testata La Voce delle Voci, chiedendone al Tribunale di Napoli la vendita all’asta. Mentre il giudizio d’appello, arenato dal 2013 all’Aquila, ha subito l’ennesimo rinvio a fine 2016, producendo per ora solo una sanzione contro la Voce, ‘rea’ di aver chiesto la sospensione della provvisoria esecuzione motivandola con la pendenza a Campobasso dell’indagine penale a carico di Marasca. Tutta la vicenda, segnalata dai giornalisti alla Procura generale presso la Cassazione, ha poi prodotto l’apertura di un fascicolo a carico del giudice Marasca presso la Procura di Campobasso, competente per territorio sul distretto di Sulmona. Nel frattempo la Voce ha chiuso i battenti a marzo 2014, cessando le pubblicazioni in edicola dopo oltre trent’anni di storia. «Assume perciò particolare rilievo», sottolinea Cinquegrani, «non solo per la Voce, ma per il destino del giornalismo in Italia, la decisione che sarà assunta in Camera di consiglio a Campobasso il 7 luglio prossimo, in merito ad una indagine nella quale, come si apprende dalla consultazione del fascicolo, Marasca finora si è fatto assistere solo da un difensore d’ufficio».

GIORNALISTI CARTA STRACCIA, scrive il 19 marzo 2016 Cristiano Mais su "La Voce delle Voci". Nel Paese in cui una delle massime istituzioni nazionali come il ministero degli Interni emana un bando per giornalisti professionisti disposti a lavorare gratis, può anche accadere che un giudice, dopo aver condannato una testata, così determinandone la chiusura e la riduzione in miseria dei lavoratori, oggi proponga una causa civile per chiedere un risarcimento danni a quegli stessi giornalisti. Una storia ai confini della realtà. Eppure in pieno svolgimento. Trent’anni in edicola e riconoscimenti anche dal Capo dello Stato per il servizio d’informazione svolto in terra di camorra, la Voce delle Voci è stata raggiunta dall’ennesima iniziativa giudiziaria piombata nelle scorse ore quale estrema – ma non ultima – azione connessa ad un articolo pubblicato nel 2008 sul mensile dal giornalista Rai Alberico Giostra. Il pezzo, una ricognizione fra le turbolenze in casa Italia dei Valori, riguardava fra l’altro l’esame di maturità di Cristiano Di Pietro, figlio di Antonio. Citati in giudizio dall’amica di famiglia dei Di Pietro Annita Zinni a Sulmona, dinanzi al tribunale di sua residenza, nel 2013 il direttore del mensile e la piccola cooperativa editrice furono condannati dal giudice Massimo Marasca, all’epoca in servizio a Sulmona e oggi a Civitavecchia, a risarcire la signora Zinni, menzionata nell’articolo di Giostra per l’aiuto che avrebbe dato a Cristiano, come già riportato da altri organi di stampa. Danni biologici, morali e materiali, quelli assegnati dal giudice Marasca alla Zinni, per quasi centomila euro, valutati sulla base dell’unica CTU affidata ad una psicologa sulmonese. Di qui la lunga serie di pignoramenti, tutti immediati ed esecutivi, per il protrarsi del giudizio di appello (tuttora in corso all’Aquila con lunghi rinvii) e per i due contestuali rigetti di richieste di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado. Tanto che nel frattempo due giudici dell’esecuzione, uno a Roma e l’altro a Napoli, attribuivano alla Zinni i modesti contributi spettanti al giornale, il primo, ed il secondo la facoltà di incassare il ricavato dalla vendita della storica testata, da qualche settimana affidata all’Istituto Vendite Giudiziarie di Napoli perché la metta all’asta insieme a televisori, lavatrici, arredi di negozi, auto, suppellettili, etc. di altri sfortunati cittadini partenopei.

QUANDO IL GIUDICE CHE TI HA CONDANNATO VUOLE ESSERE RISARCITO…Oggi il colpo di grazia: il giudice Massimo Marasca chiede i danni ai giornalisti della Voce, avanzando una richiesta di mediazione civile (come impone la legge nella fase preliminare al giudizio), per giunta in una sede ritenuta dai legali della Voce incompetente: quella di Roma. Vale a dire lo stesso distretto di Corte d’Appello nel quale rientra Civitavecchia. Il giudice Marasca si lamenta per un esposto nel quale i giornalisti, dopo la sentenza di condanna a Sulmona, avevano rispettosamente chiesto alle autorità competenti (Procura generale della Cassazione, ministero della Giustizia, CSM e, per doverosa conoscenza, la Procura di Campobasso) di valutare l’opportunità di accertare se fosse stato deontologicamente corretto l’aver ascoltato nel giudizio di primo grado a Sulmona, come teste della Zinni, un vertice degli uffici giudiziari locali quale era il procuratore capo facente funzioni a Sulmona Aura Scarsella, che abitualmente operava con lo stesso Marasca, quest’ultimo in veste di gip, nell’ambito di delicate inchieste, tutte agli onori delle cronache. Dopo qualche mese i giornalisti furono informati che la Procura di Campobasso aveva aperto un fascicolo a carico del giudice Marasca, indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio. In seguito al trasferimento in altra sede del pm Francesco Santosuosso, cui era stato affidato, il fascicolo è passato poi ad un altro pubblico ministero, che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione. Da qui prende le mosse il giudice Marasca per avanzare l’odierna richiesta di mediazione civile ai danni della Voce, aggiungendo inoltre di sentirsi diffamato per un recente articolo, pubblicato online, in cui venivano sintetizzati questi stessi fatti. Se pure quotidianamente avvengono ormai da tempo nelle aule dei tribunali vicende a danno del giornalismo italiano, in spregio al ruolo costituzionale dell’informazione e alla memoria dei tanti cronisti che per esercitare questa professione nell’unico interesse del Paese hanno pagato con la propria vita, quanto sta accadendo alla Voce delle Voci, testata anticamorra sterminata per via giudiziaria, rappresenta forse il punto più basso del definitivo inabissamento dell’informazione in Italia. La pensano così alcuni giornalisti dalla schiena dritta, rimasti in piedi a testimoniare l’antica dignità di questa professione. In primis la redazione di Ossigeno per l’Informazione e il suo direttore Alberto Spampinato, che in questa surreale via crucis ha costantemente offerto supporto e solidarietà alla Voce. «La giurisprudenza di Strasburgo – dichiara in proposito Spampinato – ha sempre sanzionato i risarcimenti per diffamazione che, come in questo caso, impediscono a giornali e giornalisti di proseguire la loro attività, ma adesso con la vendita della testata si va ancora oltre e io credo che un giudizio di questo tipo dovrebbe suscitare l’attenzione di tutti i giornalisti e editori e di coloro che già tengono sotto osservazione un paese in cui la stampa è libera soltanto parzialmente». E non tace Antimafia Duemila, coraggioso periodico di resistenza alle camorre di ogni genere, che nel commentare il caso Voce scrive: «L’enormità di una simile sentenza conferma che nel nostro Paese la libera informazione è sempre più bandita, “colpirne uno per educarne cento” resta il letit motiv più utilizzato per far tacere voci libere e indipendenti. Nella speranza che venga fatta giustizia, alla Voce l’abbraccio e la solidarietà di tutta la nostra redazione». La notizia è stata rilanciata a gran voce anche dal decano del giornalismo italiano Franco Abruzzo e dalla redazione di Articolo 21.

IL VIMINALE ISTITUZIONALIZZA Il GIORNALISTA “A GRATIS”. Giornalisti 5 euro al pezzo. Tariffe da venditori di fazzoletti ai semafori per una marea di free lance e ragazzi di belle speranze nella giungla del precariato quotidiano. Ma ecco che una Luce squarcia il Cielo, il Messaggio celestiale arriva dal Viminale: avrai la fortuna di lavorare per un anno come giornalista professionista potendo interloquire con autorità nazionali e internazionali. Gratis. Quando si dice “Free Press”…Non siamo su scherzi a parte, ma nelle ovattate stanze degli Interni, dove fervide menti hanno partorito la genialata del secolo: i giornalisti – bestie da soma – dovrebbero essere lieti e felici di lavorare per la gloria in una istituzione così prestigiosa come quella guidata, nel passato, da statisti del calibro di Antonio Gava ed Enzo Scotti, di Nicola Mancino e perfino Giorgio Napolitano; ed esaurito il plotone campano, in tempi più recenti del leghista Roberto Maroni fino ad approdare tra le braccia di Angelino Alfano. Di fronte alla cui figura tutti coloro i quali vivono di giornalismo devono inginocchiarsi in segno di gratitudine e rispetto: visto che dal Guardasigilli è arrivata la grande chance per la vita di molti, il lavoro “a gratis” che di questi tempi è l’ideale per tirare avanti e contemplare con filosofia i saccheggi delle casse pubbliche ad opera di onorevoli, senatori e lacchè della nostra repubblica delle Banane. Commenta un sindacalista romano che ne ha potute osservare tante in questi anni che hanno visto la categoria dei giornalisti sempre più ridotta a carne da cannone. “E’ da anni che denunciamo in modo del tutto inutile il precariato ormai dilagante in tutte le redazioni. Questi editori taroccati stanno uccidendo quel poco che resta della carta stampata pagando poco o niente i collaboratori e free lance che ormai fanno i giornali, tranne le poche firme rimaste sul campo come fiori nel deserto. E dicono: ‘dovresti già essere orgoglioso di mettere la tua firma sul giornale’, altro che storie. Siamo ridotti a questo. Il caso del Viminale è la ciliegina sulla torta, l’emblema di una situazione giunta al suo acme paradossale: se un ministro si permette di fare addirittura un bando istituzionalizzando non solo il lavoro precario, ma una sorta di nero ‘a gratis’, vuol dire che siamo alla frutta. In qualsiasi Paese un ministro del genere avrebbe già rassegnato da ‘ieri’ le dimissioni”. Ma c’è da stare certi: Angelino Alfano, che ne ha già passate diverse di bufere, anche giudiziarie, rimarrà avvitato alla sua poltrona. E più renzizzato che mai. Vediamo comunque qualche “retroscena” dell’intera vicenda. Da chi è partito, concretamente, il bando della vergogna? Da uno specifico Dipartimento che fa capo al Viminale, ossia il “Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione”, che ha pubblicato il 10 marzo sul proprio sito istituzionale una “Procedura comparativa per il conferimento a titolo gratuito di incarico di prestazione di lavoro autonomo occasionale per lo svolgimento delle attività di Comunicazione per le esigenze del Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione”. La richiesta è indirizzata a giornalisti professionisti, “con esperienza lavorativa documentabile da almeno tre anni nel settore della comunicazione e dell’informazione maturata nell’ambito della Comunicazione istituzionale presso le Pubbliche amministrazioni e/o presso questa Amministrazione”. Rigorosi, inflessibili e selettivi al punto giusto, le Menti del Viminale. Che chiedono una serie di ulteriori “requisiti”: perfetta padronanza dell’inglese, capacità di studiare ed elaborare “forme innovative di comunicazione”, disponibilità a viaggiare all’estero (chissà se a proprie spese). Il massimo. Vediamo a questo punto chi è al vertice di quel “Dipartimento”. Il responsabile si chiama Mario Morcone. Un signor nessuno, ma dal denso curriculum. 64 anni, casertano, comincia la sua carriera prefettizia all’ombra di Nicola Mancino: nel ’92, infatti, è capo della sua segretaria particolare proprio al Viminale. E’ poi prefetto in varie città italiane, tra cui Rieti e Arezzo. Quindi fine millennio coi botti: quelli del Kosovo, dove è tra gli inviati speciali con l’elmetto dell’Onu. Torna a Casa – il Viminale, of course – con l’inizio millennio, sulla poltrona di direttore generale del dipartimento di amministrazione civile. Ha la passione per il rischio e così per cinque anni, dal 2001 al 2006, va a capeggiare i Vigili del Fuoco. Brevissima parentesi al Comune di Roma (commissario straordinario nel dopo Veltroni), altro passaggio da non poco (la direzione nazionale dell’Agenzia per i beni confiscati alle mafie), poi l’approdo al suo Dipartimento, quello per le Libertà civili e l’Immigrazione. Che, però, gli procura qualche rogna: viene infatti indagato per una brutta storia finita sotto i riflettori della procura di Potenza e riguardante alcune sigle “caritatevoli e solidaristiche” impegnate nella gestione di centri per immigrati. Altro inquisito “eccellente” Gianni Letta, il gran Ciambellano di Silvio Berlusconi. L’inchiesta finirà nel solito flop, prosciolti gli imputati, tra cui ovviamente Morcone. Le sigle allora sotto i riflettori, però, riemergeranno qualche anno dopo con l’inchiesta di “Mafia Capitale”, proprio per gli stessi business sulla pelle degli immigrati, via centri d’accoglienza: le nuove “vie” di maxi business per coop facili di vari colori, colletti bianchi e mafie. Ma torniamo al pedigree di Morcone. Che nel 2011 viene presentato dal Pd come candidato alle amministrative di Napoli. Non arriva neanche al ballottaggio, surclassato da Luigi de Magistris, che poi diventa sindaco (e verrà riconfermato dal prossimo, scontato voto del 12 giugno), e dal forzista (anche lui ricandidato adesso, tanto per cambiare) Gianni Lettieri. Umiliato dal voto popolare, il signor nessuno torna al suo Viminale, per ri-occupare l’amata poltrona alle Libertà civili e all’Immigrazione: e partorire, oggi, il Super Bando…Un altro interrogativo sorge spontaneo: ma l’eterna portavoce di Angelino fin dai tempi della Giustizia (quando Alfano ricopriva la carica di ministro nell’esecutivo Berlusconi poi “montizzato”), ossia Danila Subranni, lavora “a gratis”? Viene pagata dal ministero? O da chi? Per la cronaca, si tratta della figlia del generale dei Carabinieri Antonio Subranni, al vertice del Ros nei i primi ’90, strategici nel “contrasto” alla mafia. Dalla cattura di Totò Riina alla clamorosa mancata perquisizione del covo, che permise la “sparizione” dei documenti top secret di Cosa nostra (in primis il famigerato “elenco dei 3000 nomi”, politici e colletti bianchi collusi con la mafia), fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano. A quanto pare era etichettato “U pinciuto” da Paolo Borsellino, il colonnello Subranni, ma il successivo procedimento giudiziario (come del resto quelli per il covo e la mancata cattura) s’è chiuso nel rituale flop (ad archiviare, in quel caso, il gip di Caltanissetta). Nel suo fitto pedigree c’è un’altra macchia, quella relativa al clamoroso depistaggio per la morte di Peppino Impastato: chiaramente vittima della lupara mafiosa (clan Badalamenti), il coraggioso giovane reporter, mentre il fiuto investigativo di Subranni aveva a lungo battuta la pista di un attentato terroristico (una bomba ad un traliccio nel giorno del rapimento di Aldo Moro) in cui avrebbe trovato la morte. Ha mai subito qualche “contraccolpo” per questa serie di prodezze, il generale? Macchè, è uno dei pensionati d’oro di un Belpaese diviso sempre più a metà: Paperoni e popolo bue, da spremere anche “a gratis”…

IL CALVARIO GIUDIZIARIO DELLA VOCE, scrive il 15 aprile 2015 Paolo Spiga su "La Voce delle voci". Le tappe kafkiane di una vicenda ai confini della realtà. Ma ben dentro la giustizia “civile” di questo Paese. Riassunto delle puntate precedenti (e aggiornamenti). La Voce viene condannata dal tribunale di Sulmona a 95 mila euro di danni per aver leso l’onore di una insegnante, Annita Zinni, che ha subito un “patema d’animo transeunte” per via di 20 righe sulla Voce a firma del giornalista Rai Alberico Giostra, che pochi mesi dopo pubblica “Il tribuno” su Antonio Di Pietro, grande amico della Zinni. L’articolo della Voce riguardava la controversa maturità del figlio di Di Pietro, Cristiano, ed era stato dalla Voce rettificato – per una piccola imprecisione – nel numero successivo, caso più unico che raro. Zinni cita in sede civile la Voce, batte cassa per 40 mila euro, il giudice Massimo Marasca ritiene la cifra modesta e va oltre il raddoppio. Quando uno stupro a Roma viene risarcito con 30 mila euro e un operaio Thyssen che – ustionato – ha avuto un patema un po’ più pesante assistendo in diretta alla morte di sette compagni viene liquidato con 35 mila euro. Storie di ordinaria – e civile – giustizia. Altrettanto kafkiano è l’iter che segue. E che si svolge su 4 fronti quattro, perchè il team legale messo su dalla Zinni band spara una raffica di azioni esecutive – fra pignoramenti multipli e richieste di vendite all’asta – degne d’un gruppo Berlusconi e di un colosso Murdoch. Ecco una rapida carrellata, fronte per fronte. L’Aquila – Dopo la condanna in primo grado a 95 mila euro e passa, abbiamo fatto appello, e abbiamo chiesto un giudizio d’urgenza, visti i gravi danni che provoca una sentenza del genere con la quale vengono bloccate le pubblicazioni di una testata in vita da trenta anni esatti. Motivi respinti: secondo l’Aquila non c’è alcuna urgenza. Abbiamo aspettato, allora, la data prevista per l’udienza, lo scorso 7 aprile 2015, una data per noi fondamentale: ebbene, in 2 minuti 2 l’udienza viene spostata a settembre 2016. Un anno e mezzo. Quando noi avevamo chiesto “urgenza”. Perchè un giornale che non esce muore. Senza leggere una carta, senza muovere un foglio, tutto rinviato. Giustizia civile. Roma – Al tribunale civile di Roma sono stati presentati atti esecutivi e pignoramenti presso tutte le banche italiane e filiali estere, come se la cooperativa Comunica – che editava il giornale – avesse conti correnti nell’universo bancario. Lo stesso nei confronti di Andrea Cinquegrani, il direttore della Voce (causando a Cinquegrani, come persona fisica, evidenti danni: perchè da un anno non può avere più un conto corrente). Ma soprattutto, a Roma, è stato azionato un pignoramento presso la presidenza del consiglio dei ministri, dove vengono accantonate le somme che spettano alle cooperative che editano testate storiche: piccole cifre che però, in periodi di fortissima crisi della pubblicità, rappresentano l’ultimo ossigeno per una stampa sempre più accerchiata da mafie e lobbies. I legali della signora Zinni hanno perciò chiesto l’assegnazione – proprio in forza della sentenza sulmonese di primo grado – dei fondi “editoria (circa 20 mila euro per una annualità) più piccole somme trovate su un conto corrente di Banca Etica, poco più di mille euro (cui vanno aggiunte “10 azioni di banca Etica”, come recita il provvedimento del tribunale di Roma). Ci siamo opposti, sottolineando il fatto che quei fondi dell’editoria sono “pubblici”, e quindi hanno una ben precisa destinazione per sostenere – istituzionalmente – l’editoria minore e indipendente: e per questo “insequestrabili” e “impignorabili”. Il giudice ci ha chiesto di produrre una relazione in grado di documentare ciò: l’abbiamo fatto. Poi il provvedimento del 24 febbraio: le somme vengono automaticamente assegnate perchè “il giudice dell’esecuzione non ha il potere di intervenire sul titolo già formatosi innanzi ad altro giudice. Egli deve limitarsi ad accertare la efficacia e validità del titolo posto in esecuzione”. E ancora: “la impignorabilità delle somme deve derivare espressamente da una disposizione normativa”. Continuiamo a sostenere: c’è una qualche differenza tra somme pubbliche e somme private, ad esempio derivanti da incassi per pubblicità, per vendite o per abbonamenti, quelli di prassi per i giornali, di natura commerciale. Qui si tratta di somme – ripetiamo – pubbliche, a precisa ‘destinazione’, la libertà di stampa: ancora per un po’ – speriamo – da non spedire in discarica. Nel corso di una udienza, uno dei legali dello studio Russo, che patrocina la signora Zinni, per dimostrare la “liquidità” della sua assistita – nel caso di eventuale soccombenza futura, manifestando quindi l’ampia possibilità di restituire somme a lei assegnate dal tribunale – ha parlato di alcuni immobili della stessa Zinni, tra cui “un appartamento a Roma, in via Merulana”: stessa via dove, guarda caso, ha una magione romana Antonio Di Pietro. Napoli – Anche qui raffica di pignoramenti verso tutte le banche, sparando nel mucchio (anche per gettare discredito sulla cooperativa e sulla persona fisica). E soprattutto nei confronti della testata, che il team legale della signora Zinni tratta, né più né meno, come una “partita di provoloni”, una partita commerciale, tra scaffali e scatoloni. Abbiamo fatto presente, nelle nostre memorie, che la questione è un tantino diversa, che forse l’impegno trentennale di una storica testata antimafia è un pelino diverso, che chiedere la messa all’asta – come imperterriti hanno fatto i legali romani della signora Zinni – della testata è qualcosa che va ben oltre e ben al di là di rivendicazioni da bottega di periferia. Campobasso – E’ il quarto fronte. Perchè è in piedi un procedimento penale avviato dopo un nostro esposto al Csm, al ministero della Giustizia, alla procura generale della Cassazione e inviato per competenza anche alla procura di Campobasso, per denunciare una serie di macroscopiche anomalie che si sono verificate nel processo di primo grado. Tra errori, omissioni, complicità che non abbiamo esitato a mettere nero su bianco e che hanno prodotto, a Campobasso, l’apertura di un procedimento penale a carico del giudice di Sulmona (nel frattempo passato al tribunale di Civitavecchia) Marasca per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio, non proprio bazzecole. Siamo in attesa di notizie.

GIUSTIZIA – MORIRE DUE VOLTE. A L’AQUILA, scrive il 20 settembre 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle voci". Non brilla certo per produttività il tribunale dell’Aquila. Il 6 ottobre scatta la mannaia prescrizione per i processi del terremoto senza che si muova una foglia. Processi che non riescono ad arrivare neanche ad una sentenza di primo grado: e di quel passo, comunque, nella migliore delle ipotesi giungerebbero poi “morti” in appello. Un altro schiaffo alle vittime di quel tragico sisma. Figurarsi le inchieste sulla ricostruzione, autentico banchetto per imprenditori taroccati, politici di riferimento e Casalesi: nel consueto copione delle “emergenze”, dopo le rituali lacrime comincia la grande abbuffata. E figurarsi le “umane” vicende, i contenziosi di routine, i processi quotidiani. Spesso e volentieri – all’Aquila – buttati negli scantinati ad ammuffire, impacchettati come partite di baccalà, gestiti come sacchetti a perdere, nel più totale disinteresse. Autentici pugni in faccia ai cittadini e a chi ancora crede in uno straccio di giustizia. Sta succedendo a noi della Voce: e per questo vi aggiorniamo sulla vicenda di cui abbiamo già altre volte scritto.

QUELLA VOCE DEVE ESSERE SOFFOCATA. 20 settembre. Si doveva svolgere una importante – per la Voce – udienza d’Appello, per via del ricorso che abbiamo presentato contro una sbalorditiva sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Sulmona a marzo 2013, una condanna a 95 mila euro che ha significato per noi la chiusura, ad aprile 2014, dell’edizione cartacea della Voce, in vita da trent’anni esatti (il primo numero della nuova edizione era datato aprile 1984). Ebbene, il 15 settembre il nostro avvocato, Herbert Simone, riceve una pec dalla Corte d’Appello dell’Aquila, in cui viene notificato il “rinvio d’ufficio” della causa a giugno 2018. Avete letto bene, 2018: quasi due anni. Il tutto, senza fornire alcuna motivazione. Un bel vaffanculo per via giudiziaria. Calpestato ogni diritto ad avere giustizia. Presa a calci ogni ragione che nell’appello è stata documentata, decretata “senza appello” – è il caso di dirlo – la morte di un giornale che si vede impedire – come neanche nella Turchia di Erdogan o nell’Iran komeinista – il diritto ad uscire in edicola, ad esercitare il suo mestiere di informare, a combattere come da sempre le sue battaglie anticorruzione e anticamorra. Tutto ciò – è bene chiarirlo una volta per tutte – ha un nome e un cognome ben precisi, il volto chiaro e netto di un mandante: si chiama Antonio Di Pietro. L’ex pm che con i risarcimenti per cause civili ha fino ad oggi raggranellato un bel bottino: fa il paio con i vagoni di danari prelevati pronta cassa fin dai tempi di Italia dei Valori – il contributo pubblico destinato ai partiti e all’epoca gestito con la moglie, Susanna Mazzoleni, e l’amica tesoriera, Silvana Mura – e con i cadeau di tanti amici-nemici, i suoi inquisiti di Mani pulite, come dettagliano per filo e per segno, regalo per regalo, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel volume “Corruzione ad Alta Velocità”, dedicato anche agli insabbiamenti dipietristi di quelle bollenti, prime indagini sull’arcimiliardario business della Tav. Ma ripercorriamo, tappa per tappa, la vicenda aquilana della Voce. Ai confini della realtà.

Ottobre 2008. Alberico Giostra, giornalista Rai e collaboratore da un paio d’anni della Voce, scrive un articolo su Cristiano Di Pietro, figlio di Tonino, e fa cenno alla sua tribolata maturità ed all’aiuto che avrebbe ricevuto, per superare quel terribile scoglio vista la preparazione non esattamente einsteiniana (come documenta una divertente intervista-quiz delle Iene sulle capitali del mondo dove il rampollo-consigliere regionale ne dice di cotte e di crude), da una insegnante di Sulmona, tale Annita Zinni da Montenero di Bisaccia, esponente Idv a Sulmona e grande amica della famiglia Di Pietro. Una vicenda di cui, peraltro, avevano già scritto le cronache, e che sarà ripresa, con ulteriori dettagli, nel volume “Il Tribuno” scritto da Giostra sul leader Idv e mai querelato né citato per alcun risarcimento, né dalla Zinni né tantomeno da Di Pietro. Verremo a sapere in seguito da un avvocato partenopeo, il quale conosceva e frequentava gli ambienti dipietristi, che il ministro delle Infrastrutture del governo Prodi aveva intenzione di citare per danni la Voce. Contattò un “amico” legale napoletano, a quanto pare venne anche scritta la citazione, ma in corner la moglie, anche lei avvocato, Susanna Mazzoleni appunto, lo avrebbe dissuaso. Consigliando invece di percorrere un’altra, più sicura strada: mandare avanti l’amica Annita, farle presentare una citazione civile con pesante richiesta danni. Da “monitorare” passo passo. E così fu. Il 21 aprile 2010 l’insegnante di Sulmona invia alla Voce una citazione con la richiesta di 40 mila euro come risarcimento. Sostiene, in soldoni, che a causa di quell’articolo ha vissuto un anno e passa di patimenti, non solo sotto il profilo fisico, ma dei rapporti personali: si vergognava di uscire, non faceva più politica… Dimenticando per strada due piccoli particolari: nel frattempo c’era stato – aprile 2009 – il devastante terremoto dell’Aquila, che forse qualche ‘patema’ in più dovrebbe averglielo procurato; e i filmati di You Tube, i quali documentano i suoi molteplici impegni di “partito” che infatti le hanno consentito di diventare, a luglio 2010, addirittura coordinatore provinciale Idv all’Aquila, vincendo un’agguerrita concorrenza interna: operazione difficile da portare a segno dal proprio letto di casa…Tre anni dopo, marzo 2013, il giudice del tribunale di Sulmona, Massimo Marasca, non solo accoglie il ricorso della Zinni ma – caso più unico che raro nelle storie giudiziarie – raddoppia! E cioè le assegna non 40 mila, come richiesto, ma 95 mila euro! Paragonando i patimenti della insegnante sulmonese a quelli di un premier (i legali di Zinni fanno espliciti riferimenti a personaggi politici di ben altro calibro, da Nicola Mancino a Bettino Craxi…) e i dati di diffusione della Voce a quelli di Espresso e Panorama. Ancora: il giudice accoglie in pieno le perizie redatte non da uno/a psichiatra – come previsto – ma da due psicologhe, entrambe di Sulmona: una in veste di ctu e l’altra, di parte, amica e collega di partito della Zinni. La quale, del resto, è notoriamente ottima amica anche del procuratore capo di Sulmona facente funzioni, Aura Scarsella, che viene addirittura chiamata nel corso del processo a testimoniare in favore della Zinni.

UN BINGO DA 150 MILIONI & PLOTONI DI ESECUZIONE. Il cerchio è chiuso. Una perfetta “associazione” tra amici, una minuziosa regia perchè venga decretato – per legge – un Bingo da quasi 100 milioni (ora sono lievitati a 150 tra interessi e spese legali) a favore della Zinni, che nel frattempo è tanto ‘danneggiata’ da scalare i ranghi all’interno del suo partito. I suoi legali riescono a fare anche di più: per dimostrare che l’insegnante, nel caso di sconfitta nei gradi successivi, può restituire le somme prelevate dalle esangui casse della Voce (tutti modesti anticipi bancari…), fanno sapere che la signora è proprietaria di immobili, non solo nel sulmonese, ma anche a Roma, per la precisione in via Merulana, guarda caso allo stesso civico dove si trovano alcuni appartamenti che fanno capo all’allora capo dell’Italia dei Valori Immobiliari, don Tonino. Quella sentenza di primo grado – come si sa – è provvisoriamente esecutiva: è così che tre anni e mezzo fa comincia la raffica di pignoramenti senza fine, diretti contro la piccola cooperativa editrice e il direttore responsabile: addirittura una cinquantina le banche che ricevono l’avviso di “notificare ogni somma detenuta per conto della cooperativa o di Andrea Cinquegrani”. Un atto palesemente ai confini della legalità – commento gli esperti – perchè “non puoi notificare a pioggia, ledendo non solo la reputazione ma anche la credibilità bancaria di un soggetto, ma devi agire solo nei confronti di quegli istituti di credito dove risulta esservi qualche deposito”. Ma tant’è: come davanti ad un plotone nazista. Messi quindi in ginocchio sia il direttore (che come persona non può avere più un conto corrente né niente) che la piccola cooperativa editrice “Comunica”, che rimane carica di debiti (le somme anticipate dalle due banche), non ha più un euro per pagare spese di stampa e di distribuzione e viene scippata dell’unica risorsa rimasta, il contributo del dipartimento per l’editoria presso la presidenza del Consiglio, i 20 centesimi a copia stampata: quel contributo pari a circa 20 mila euro, pignorato, ultimo ossigeno rimasto, va a finire nei conti correnti della Zinni, che comincia a riprendersi dal “patema d’animo transeunte” (questa la diagnosi) che l’aveva colpita dopo l’uscita del famigerato articolo. Ma la sequela di pignoramenti & azioni legali non è finita certo qui. Chiesta, ad esempio, la vendita all’asta dell’auto in uso, una 126 immatricolata 1 aprile 1976, 40 anni suonati: ma tutto fa brodo, tanto per continuare nella “esecuzione”. E chiesta la vendita all’asta della testata, anche se non si tratta di una partita di provoloni e mortadella, ma di un “valore” immateriale, non facilmente quantificabile, frutto dell’ingegno – come dicono i codici – e della passione civile (in questo caso). “Un episodio mai verificatosi – commentano allo stesso tribunale di Napoli – e non ne abbiano mai avuto notizia da alcun altro tribunale italiano. L’anomalia più grossa, però, è che tutto scaturisce da una sentenza di primo grado, addirittura appellata con più che argomentate motivazioni”. Ma tant’è. A Roma il tribunale civile assegna i 20 mila euro dei fondi per l’editoria, a Napoli va in scena (o sceneggiata) l’asta della testata, all’Aquila l’appello dorme sotto il “vigile” sguardo del presidente del tribunale, Augusto Pace, e del consigliere relatore, Angela Di Girolamo: così presi dai loro impegni lavorativi da rinviare “d’ufficio” l’udienza, senza il becco di una motivazione, di ulteriori 21 mesi! “Ottima e abbondante” risposta, quella delle toghe aquilane, alle richieste della Voce di “avere una sentenza”, un diritto ormai diventato una chimera, nel nostro Paese, quotidianamente disatteso e vilipeso. Per ben due volte abbiamo infatti chiesto l’anticipazione delle udienze e la sospensione della provvisoria esecuzione, visti anche i continui rinvii, con motivi di evidente urgenza, per un giornale privato della sua possibilità di “vivere”, cioè di uscire in edicola. E per due volte la nostra richiesta è stata respinta al mittente. Anzi, con una multa da mille euro, per aver disturbato lorsignori. Ora la mazzata finale: il rinvio – altrettanto immotivato – a giugno 2018.

DA MONTENERO A RIO. Intanto, il mandante – ora non più a volto coperto – Antonio Di Pietro, se la ride. Tutto lo cercano, tutti lo vogliono. Ma lui preferisce le vacanze, soprattutto in Brasile. Un cronista gli chiedeva lumi sulla possibile nomina nella giunta Raggi, come capo di gabinetto o come strategico assessore al Bilancio. Lui ha glissato: “Sto andando in Brasile”. C’era già stato qualche mese fa, in Sud America, per impartire il Verbo agli inquirenti carioca, impegnati nella maxi inchiesta Lava Jato che ha portato all’impeachment del presidente Dilma Rousseff e coinvolto praticamente tutta la classe politica locale, dalla maggioranza all’opposizione. C’è tornato adesso: per ricevere anche lui un alloro olimpico? E un paio di mesi fa il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, lo ha voluto con tutte le forze al vertice della “Pedemontana Lombarda”, strategica società che si occupa delle infrastrutture regionali e all’orizzonte non pochi appalti milionari. “L’ho scelto per la sua esperienza maturata al ministero delle Infrastrutture – ha giustificato Maroni l’opzione ‘trasversale’ – e Di Pietro si occupò parecchio già allora della Pedemontana che vide nascere”. Prosit. Poltrona praticamente omologa, in Campania, quella di “Tangenziale spa”, occupata dal suo grande amico, Paolo Cirino Pomicino, ‘O Ministro. Ricordate quando l’ex pm milanese venne chiamato al capezzale dell’ex inquisito-bypassato, l’amico Paolo, che lo voleva a lui vicino nel cruciale momento?

Qui sotto, il testo del comunicato stampa diffuso dalla Voce il 16 settembre scorso. Rinviata al 2018 l’udienza d’appello del processo Voce delle Voci – Di Pietro/Zinni.  I giornalisti: calpestati ancora una volta i diritti, il lavoro e la dignità di una testata anticamorra. Martedì prossimo, 20 settembre 2016, dopo un’attesa durata oltre tre anni, si sarebbe dovuta tenere a L’Aquila  un’udienza del processo d’appello promosso dalla Voce delle Voci contro la sentenza di Sulmona (caso Antonio Di Pietro-Annita Zinni) che nel marzo 2013 aveva condannato la Voce a risarcire l’insegnante dipietrista Annita Zinni con centomila euro (diventati nel frattempo 150mila, con conseguente raffica di pignoramenti, chiusura del giornale dopo 30 anni, messa all’asta della testata, etc.) per un articolo scritto a ottobre 2008 sulla Voce dal giornalista Rai Alberico Giostra. L’articolo condannato riguardava il presunto interessamento della Zinni all’esame di maturità di Cristiano Di Pietro. Il processo di Appello promosso dalla Voce contro la sentenza di Sulmona era iniziato a settembre 2013. Ieri, 15 settembre 2016, la Corte d’Appello dell’Aquila ha trasmesso una pec al nostro avvocato, Herbert Simone, nella quale comunica il RINVIO D’UFFICIO dell’udienza a GIUGNO 2018. Non 2017, ma addirittura metà 2018. Senza addurre alcuna motivazione. Consideriamo questo rinvio l’ennesima mortificazione non solo della Voce, ma dell’intera categoria del giornalisti italiani. Negare di fatto a noi la possibilità di un giudizio d’appello, dopo che la stessa Corte dell’Aquila aveva per due volte respinto le nostre richieste di sospendere la provvisoria esecuzione, significa infierire su una testata anticamorra già eliminata sommariamente per via giudiziaria dalla scena giornalistica a colpi di pignoramenti ed esecuzioni forzate conseguenti ad una sentenza di primo grado. Ci domandiamo quanto abbia potuto pesare e quanto tuttora incomba su questa kafkiana vicenda giudiziaria l’influenza di un potente ex magistrato, fortemente radicato sul territorio molisano ed abruzzese, come Antonio Di Pietro, famoso anche per essersi arricchito, come ha più volte dichiarato, con le tante cause civili intentate contro i giornali. I giornalisti della Voce, pur stremati dopo tre anni di pignoramenti selvaggi, che hanno portato fino alla messa all’asta della storica testata, annunciano che a seguito dell’ennesimo rinvio al 2018 sta per partire il ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 6 sulla giusta durata del processo. Alla Corte di Strasburgo saranno trasmesse, attraverso documenti in ordine cronologico, le tappe di questa allucinante via crucis giudiziaria, partita nel 2010 ed oggi rinviata d’ufficio al 2018 solo per ottenere una udienza interlocutoria del processo d’appello. La Voce delle Voci è stata calpestata da questo iter giudiziario, ma chiediamo alla FNSI, al sindacato giornalisti della Campania, all’ODG di intraprendere una battaglia affinché le conseguenze di una simile vicenda non travolgano la dignità della nostra professione nel Paese, più di quanto non sia già accaduto. Rivolgiamo un grazie a Ossigeno per l’informazione, che ci ha sempre seguiti da vicino. E un particolare appello al presidente Fnsi Beppe Giulietti ed al sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore i quali a fine luglio, intervenendo a Napoli ad una iniziativa sindacale sui cronisti minacciati, avevano sollevato proprio la questione delle cause civili a danno dei giornalisti, anche in riferimento alla Voce delle Voci, annunciando iniziative volte a scongiurare il rischio – oltremodo reale – che questo caso diventi un ‘metodo’ consolidato per soffocare le ultime testate giornalistiche indipendenti e ridurre i giornalisti in stato di schiavitù, come è accaduto a noi dopo aver condotto per trent’anni un giornalismo di frontiera in terra di camorra, sfidando la malavita organizzata in tutte le sue forme. Anche quelle istituzionali.

L’AQUILA / ECATOMBE GIUDIZIARIA, scrive il 24 novembre 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle voci". Assopiti, assonnati o dormienti i magistrati del tribunale dell’Aquila? L’interrogativo sorge spontaneo dopo il diluvio di prescrizioni per la tragedia del terremoto, andata in scena dopo i rituali sette anni e mezzo: la miseria di 9 condanne definitive (e miti) per tre crolli; tutti gli altri imputati liberi e belli (ben compresi l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso e gli ‘scienziati’ che capirono tardi…), un bel colpo di spugna e chissenefrega delle 309 vittime, uccise per una seconda volta, stavolta per mano di “giustizia”. Scrive ‘La Notizia‘: “il 6 ottobre è calato per sempre il sipario sui processi relativi ai crolli del terremoto, travolti dalla prescrizione. Restano senza giustizia le 13 persone morte nel crollo di via D’Annunzio. Stessa sorte per il processo relativo ai crolli di via Sturzo: qui le vittime che non avranno giustizia sono 27”. E poi, raccontano alcuni avvocati: “ci sono anche le inchieste finite nel nulla, perchè in alcuni casi la Cassazione ha ribaltato i verdetti, come per il crollo di via Rossi dove persero la vita 17 persone, finito con un incredibile ‘il fatto non sussiste’ circa la responsabilità degli imputati. Altre volte perfino l’accusa ha chiesto l’assoluzione, come per gli edifici crollati a via XX settembre, con nove morti, e via Persichetti, due vittime”. Una autentica ecatombe giudiziaria, una bandiera della giustizia a testa in giù e lacera, come nella indimenticabile scena finale dello stupendo Nella Valle di Elah (in quel caso si trattava di quella a stelle e strisce). L’interrogativo sorge ancora più spontaneo dopo la lettura di una missiva arrivata alla redazione della Voce che mette pesantemente in dubbio la trasparenza di quanto avviene in quel tribunale, puntando i riflettori su alcuni motivi che – a parere degli scriventi che si definiscono “schifati da questo tipo di giustizia, non possiamo firmarci” – sarebbero alla base di ritardi e inefficienze, nonché su alcuni conflitti d’interesse da non poco. Ecco il contenuto della lettera, emendato di qualche passaggio troppo colorito.

LA IANNACCONE DINASTY. “Ci corre l’obbligo di segnalarle che il rinvio della causa civile tra la sua testata (La Voce delle Voci, ndr) e l’entourage dell’ex pm Di Pietro, disposto d’ufficio dalla Corte d’Appello de L’Aquila, è stato causato dal fatto che l’ufficio del Presidente Iannaccone Giuseppe tratta disinvoltamente anche le cause dello studio legale Tittaferrante, con sede a Pescara, dove lavora come avvocato proprio il figlio del Presidente Iannaccone il quale, direttamente o per interposti colleghi, in questo modo tratta le cause di suo figlio, che le vince agevolmente: ciò in contrasto con le norme ordinamentali che obbligano o il padre o il figlio a cambiare Distretto Giudiziario”. “Sarebbe il caso – prosegue la missiva – che qualcuno avvertisse il CSM, badando bene che il vice presidente Legnini, abruzzese del PD, faccia il suo dovere”. E ancora: “Il Presidente Iannaccone non ha tempo per le cause della Corte d’Appello perchè è anche Presidente della Commissione Tributaria Regionale di Pescara e preferisce trattare le cause di quest’ultima per averne ulteriori, consistenti introiti. Il CSM dovrebbe essere chiamato a verificare se è lecito rinviare le cause dell’Ufficio di appartenenza per l’ingordigia di guadagni aggiuntivi”. Circostanze vere? False? Vere a metà o cosa? Abbiamo cercato di verificare punto per punto ed ecco i risultati. 64 anni, napoletano, Giuseppe Iannaccone è il presidente facente funzioni della Corte d’Appello dell’Aquila. E al tempo stesso è anche presidente della settima sezione della Commissione tributaria con sede a Pescara, in compagnia di Carmine Maffei (vice presidente) e dei giudici Mario D’Angelo, Giampiero Di Florio e Lucio Luciotti. Il figlio, Adriano Iannaccone, lavora effettivamente presso lo studio legale e tributario ‘Liberati Tittaferrante & associati‘ di Pescara, dove peraltro si rimbocca le maniche un fitto stuolo di giovani avvocati, una quindicina in tutto, oltre ai titolari Giancarlo Liberati e Giancarlo Tittaferrante. Di notevole interesse, poi, il pedigree politico di Adriano Iannaccone: un dipietrista doc, un fedelissimo di Italia dei Valori, almeno fino all’implosione del partito dopo il servizio di Report. Al comune di Venafro, uno degli avamposti storici del potere in Molise (qui il quartier generale dell’ex europarlamentare Aldo Patriciello, pomicinian-dipietrista, qui il suggello dei legami tra Idv e l’ex Pdl impersonato dal numero uno della Regione Michele Iorio, come ricostruisce Filippo Facci nel sua monumentale ‘Di Pietro. La storia vera’), nel 2009 “sindaco è diventato Nicandro Cotugno del Pdl che è subentrato all’ex primo cittadino Vincenzo Cotugno, ineleggibile per una pronuncia giudiziaria; assessore al commercio è invece diventato Adriano Iannaccone dell’Italia dei Valori; presidente del consiglio comunale è infine divenuto Nico Palumbo, dell’Italia dei Valori pure lui”. E così precisava il giornalista Rai Alberico Giosta, autore dell’altrettanto monumentale ‘il Tribuno‘, vita & opere dell’ex pm: “Tutta Venafro è stata costruita così. In base ad una finzione che ha visto trasformare di soppiatto costruzioni agricole destinate a chi lavora i campi in civili abitazioni. Chi dovrebbe verificare abusi di questo tipo è il responsabile dell’Ufficio urbanistica che però è il suocero di un assessore dell’Italia dei Valori, Adriano Iannaccone. Andrà a controllare come mai la villa dove Nicandro Ottaviano vive con la moglie Anna Ferrari (gratificata con una consulenza da 40 mila euro dall’allora ministro delle Infrastrutture Di Pietro) sorge su un terreno agricolo? E il pupillo di Di Pietro come farà a dichiarare nel 740 la sua bella villa fatta passare per casa rurale se essendo sconosciuta al catasto non dispone di una rendita catastale? E’ l’Italia dei Valori sconosciuti. Anche al catasto”. Aggiungeva Giostra: “se questo frazionamento (relativo al terreno di Ottaviano, ndr) è stato assentito dal comune di Venafro lo è stato dall’Ufficio urbanistica della cittadina molisana. Fino all’estate scorsa (siamo nel 2009, ndr) il responsabile dell’ufficio era il suocero dell’assessore dell’Idv, Adriano Iannaccone, un uomo di Ottaviano”. Tutti amici. E dipietristi». La lettera inviata alla nostra redazione esordisce con il rinvio “disposto d’ufficio dalla Corte d’Appello” nel giudizio che pende davanti al tribunale aquilano e relativo alla controversia tra la Voce e Annita Zinni, l’insegnante sulmonese molto amica della famiglia Di Pietro.

QUESTO APPELLO NON S’HA DA FARE. Come abbiamo ricostruito nel numero di novembre della Voce, il 20 settembre scorso era prevista l’udienza clou, dopo la condanna da noi subita in primo grado e un risarcimento record decretato dal giudice di Sulmona: 100 mila euro a favore della Zinni per un “patema d’animo transeunte” provocatole da un articolo firmato proprio da Giostra e riguardante la controversa maturità di Cristiano Di Pietro, figlio di Tonino. Abbiamo più volte documentato le tantissime anomalie di quella sentenza, abnorme sia nella quantificazione (una ventina di righe – per di più rettificate nel numero seguente per una imprecisione e non certo per ribaltarne il contenuto – valutate 100 mila euro, quanto Mondadori per Gomorra è stata condannata a 30 mila euro avendo scambiato un innocente per camorrista!) che nelle modalità (dalle perizie tecniche alla falsità delle circostanze, visto che la Zinni nel frattempo ha addirittura fatto carriera – alla faccia del patema – diventando segretario Idv a L’Aquila). Tant’è. Abbiamo proposto un appello super motivato e chiesto all’illustre corte aquilana la fissazione urgente dell’udienza. Richiesta respinta al mittente con tanto di multa da 1000 euro: per aver disturbato lorsignori. Finalmente sta per arrivare la tanto attesa data dell’udienza, fine settembre 2016, a circa tre anni 3 dalla sentenza. L’udienza neanche si tiene, perché tutto era stato già rinviato d’ufficio al 19 giugno 2018. Avete letto bene, un rinvio di quasi due anni. Per una nuova perizia? Per effettuare approfondimenti del caso? Per qualche altro arcano motivo? Niente. Un rinvio puro e semplice, immotivato: un calcio in faccia a chi chiede solo una sentenza d’appello. Poi arriva la lettera. Il documento siglato da chi è “schifato da questa giustizia”. Si chiede che intervenga il Csm. E a questo punto chiediamo anche noi lumi al Csm, cui abbiamo provveduto a girare la documentata segnalazione. “Se le cose stanno realmente così – osserva un penalista molisano – il Csm non può far finta di niente, non può insabbiare tutto. E ci sono gli estremi per una denuncia in via penale, perchè se quelle circostanze sono effettivamente vere si configurano le ipotesi di abuso d’ufficio e omissione d’atti d’ufficio, roba non da poco. Ma la cosa può interessare tutti gli aquilani, che hanno patito le pene dell’infermo prima con le scosse del terremoto e poi con la giustizia che ha sbattuto le porte in faccia e forse adesso scoprono qualche motivo prima non chiaro”. C’è poi un’altra circostanza. Un’occasione in cui, come aveva scritto la Voce a gennaio 2014, in un’inchiesta dal titolo “Mal d’Aquila”, ritroviamo insieme alcuni protagonisti della querelle Voce-Zinni. I legami professionali tra i diversi magistrati che se ne sono occupati sono documentati in un altro procedimento giudiziario, che nasce a metà 2011 e vede alcuni giudici di Sulmona e della Corte d’Appello aquilana prescegliere lo stesso avvocato per ricorrere al Tar contro il ministero della Giustizia per la presunta illegittimità delle decurtazioni sullo stipendio relative alla spending review. Tra i magistrati abruzzesi che si erano rivolti al Tar c’erano Massimo Marasca, autore della sentenza di primo grado che condanna la Voce, Aura Scarsella, teste a favore di Zinni nonché pubblico ministero anziano a Sulmona, ma anche Augusto Pace, Elvira Buzzelli e Angela Di Girolamo:  i tre giudici della Corte d’Appello dell’Aquila che il 4 novembre 2013 avevano respinto la richiesta presentata dalla Voce di sospendere i pignoramenti attivati da Annita Zinni attraverso il suo legale, l’avvocato Sergio Russo di Roma, sulla base della sentenza emessa da Marasca. Angela Di Girolamo, titolare del procedimento, è lo stesso giudice che il 15 settembre scorso, alla vigilia dell’udienza d’appello, ha disposto il rinvio d’ufficio a giugno 2018. Ma c’è di più. Perché in quel vecchio ricorso al Tar dei magistrati aquilani contro i tagli allo stipendio spicca la firma di un altro autorevole ricorrente: il presidente del tribunale Giuseppe Iannaccone.

LE BRETELLE AUTOSTRADALI DELL’EX PM DI PIETRO. Oggi Antonio Di Pietro è tornato prepotentemente alla ribalta, nominato dal governatore padano, il leghista Roberto Maroni, al vertice della ‘Pedemontana Lombarda‘, società strategica per la realizzazione di arterie autostradali con la possibilità di gestire ingenti risorse finanziarie. Con ogni probabilità c’era proprio bisogno di un ex pm in sella, vista la caterva di problemi giudiziari che investono quella società, secondo l’ultimo reportage dell’Espresso una delle “magnifiche sette” nella hit della corruzione (in compagnia di Alta Velocità, Mose, Salerno-Reggio Calabria, Ponte di Messina, Tunnel del Brennero). “Una grande opera cara alla Lega, che però è ferma a meno di metà del tracciato. Per cui quella superstrada da 4,2 miliardi resta semivuota, come la gemella Brebemi”. Due lotti finiti al centro non solo di indagini della magistratura ma anche di contenziosi a botte di milioni. Continua l’Espresso: “Oggi il secondo lotto è ancora fermo. E la Pedemontana rischia il fallimento. Il governatore Roberto Maroni l’ha affidata all’ex pm Antonio Di Pietro che lancia l’allarme: i soldi sono finiti, la società ha un anno di sopravvivenza. Dalle carte di Firenze, arrivate anche a Milano, risulta che come direttore dei lavori per la Pedemontana è stato scelto un ingegnere dello studio Spm, quello di Perotti. Mentre il progetto ‘free flow’ porta la firma di Corinne Perotti, la figlia dell’architetto arrestato nel 2015”. E’ protagonista dell’inchiesta sulle nuove Cricche degli appalti, soprattutto targati Alta Velocità, Stefano Perotti, finito sotto inchiesta con l’ex deus ex machina alle Infrastrutture, per anni capo della strategica Unità di Missione, Ercole Incalza, fresco di proscioglimento per le imputazioni principali (ha chiesto il rito abbreviato). E, soprattutto, resta consegnata alla “storia”, giudiziaria e non solo, l’inossidabile amicizia tra Perotti e Francesco Pacini Battaglia, consolidata, a inizio anni ’90, sotto l’ombrello di una sigla, Intercons, ovvero International Consulting. L’uomo a un passo da Dio, Chicchi Pacini Battaglia, come lo definì il suo pm, proprio il Di Pietro in toga ai primi tempi di Mani Pulite. Ma l’uomo di tutte le tangenti, a partire dalla regina, Enimont, venne letteralmente baciato dalla fortuna: il sempre inflessibile Tonino, quella volta, mostrò un cuore tenero e non fece passare neanche una notte in galera al suo grande inquisito. Anche grazie alla magica intuizione di Pacini Battaglia, che invece di scegliere uno dei tanti principi del foro meneghino decise di rivolgersi allo sconosciuto Peppino Lucibello, legale di belle speranze arrivato da Vallo della Lucania e ben presto diventato l’amico del cuore di Tonino. Come le autostrade, sempre nel cuore dipietrista. Dalla Lombardia al suo Molise. Così scrive Facci: a proposito di un’altra sigla tutta asfalto & bretelle, la ‘Autostrade del Molise‘: “in scia all’allucinazione di costruire un’autostrada da tre miliardi di euro in Molise, il ministero delle Infrastrutture guidato da Di Pietro (siamo al governo Prodi, 2007, ndr) spartì col governatore forzista Michele Iorio ogni posto disponibile nell’organigramma: la presidenza e metà consiglio d’amministrazione andarono a uomini di Iorio, l’altra metà a uomini di Tonino. E’ pur vero che Di Pietro, per l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano (la Brebemi, ndr) aveva trovato un accordo temporaneo anche con il governatore della Lombardia Roberto Formigoni: la differenza è che in Molise il rapporto con Iorio è stretto e fisiologico e appunto societario, tanto che non si contano, al riparo dalla stampa nazionale, le manifestazioni di reciproco e ormai consolidato elogio. Non fosse una parola inservibile, diremmo che tra i due è in atto un inciucio clamoroso”. Proprio come oggi va in onda la sceneggiata con Maroni e la Pedemontana Lombarda…

Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio": "Non è un giornale contro i magistrati ma contro il giustizialismo e per i diritti", scrive il 7/04/2016 Laura Eduati su "L'Huffington Post". Un giornale garantista e battagliero in difesa dei diritti, senza padroni politici. Piero Sansonetti lancia "Il Dubbio", il quotidiano che ha come editrice unica la Fondazione dell'Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che sarà in edicola e online dal 12 aprile. "Saremo la testata di riferimento per coloro che vorranno comprendere le ragioni della difesa e non soltanto quelle dell'accusa, ma non per questo saremo ossessionati dalla perfidia dei magistrati. Tanto è vero che ho invitato all'inaugurazione anche il procuratore Pignatone", spiega un po' scherzosamente l'ex cronista politico dell'Unità, già direttore di Liberazione, di Calabria Ora e del Garantista con la parentesi del settimanale Gli Altri. La squadra dei giornalisti è pronta. Le firme del politico e della cronaca giudiziaria comprendono l'ex notista storico del Messaggero Carlo Fusi, Davide Varì (ex vicedirettore di Calabria Ora) ed Enrico Novi (Indipendente, Liberal). Per il momento non esiste un vicedirettore, il ruolo di caporedattore centrale è affidato ad Angela Azzaro che dai tempi di Liberazione fa parte dei cronisti di fiducia di Sansonetti. Sono già 45mila gli abbonamenti attivati dagli avvocati in tutta Italia. Dodici le città dove sarà possibile trovare la versione cartacea: Roma, Milano, Torino, Genova, Padova, Venezia, Bologna, Bari, Napoli, Firenze, Pescara, Ancona. Un progetto ambizioso: 16 pagine a colori e un contenuto generalista che troverà nella politica e nella giustizia l'osso da mordere. L'obiettivo, spiega Sansonetti, non è tanto criticare l'operato della magistratura quanto "mettere in discussione la mentalità di un'Italia giustizialista che ritiene l'indagato immediatamente colpevole, trova giusta la pubblicazione delle intercettazioni private di Federica Guidi e scende in piazza per manifestare contro i giudici che hanno assolto i geologi processati per il terremoto dell'Aquila". "Perché agli italiani piacciono i processi di piazza", argomenta, "ma dimenticano che dei 4500 politici indagati per Tangentopoli ne sono stati condannati 800: moltissimi, anzi, troppi. Dobbiamo ricordare però che gli altri 3700 sono innocenti". C'è un altro esempio che Sansonetti ama citare per spiegare il clima contro il quale vorrebbe scrivere e fare cultura: il processo Cucchi. Gli agenti della polizia penitenziaria assolti in Cassazione eppure per anni additati come colpevoli: "Ora sono sotto inchiesta dei carabinieri per pestaggio. E' evidente che qualcuno dovrebbe chiedere scusa ai poliziotti". "La colpa di questa mentalità è più dei giornali che dei pubblici ministeri", osserva Sansonetti. "Il numero delle assoluzioni in realtà è altissimo e sono sicuro che molti magistrati la pensano come noi". A proposito della percezione che in realtà la macchina della giustizia sia lenta e non vi sia la certezza della pena, il direttore del "Dubbio" si trova quasi d'accordo ma con una precisazione statistica che rovescia in parte la credenza popolare: "Spesso si dice che per colpa della prescrizione i colpevoli non sono condannati. La verità è che il 70% delle prescrizioni avviene durante le indagini preliminari perciò non possiamo addossare la colpa della mancanza di giustizia agli avvocati, come se facessero di tutto per allungare i tempi". Da anni la battaglia di Sansonetti si concentra sulle storture dei processi. Non a caso il suo nuovo quotidiano prende il nome dall'articolo del codice penale secondo il quale il giudice deve condannare se ritiene l'imputato colpevole "oltre ogni ragionevole dubbio". Purtroppo, osserva, le condanne arrivano anche quando questo dubbio esiste ed è fondato: "Prendiamo Alberto Stasi. Il fatto che fosse stato assolto due volte doveva scalfire la certezza della sua colpevolezza. E invece si trova in prigione dopo l'ultimo passo alla Cassazione". Perché il pallino è la riforma della giustizia: "Sarei per eliminare l'appello se in primo grado ti assolvono. E naturalmente per la riforma delle carriere e in generale uno sveltimento dei procedimenti giudiziari per evitare di celebrare un processo anche otto anni dopo il fatto". Ma il governo è "timoroso": "Purtroppo nessuno è riuscito a far passare questa riforma e penso che nemmeno Andrea Orlando ce la farà, il potere della magistratura è ancora troppo forte. Matteo Renzi è un garantista timoroso. Ricordiamoci che è probabilmente il primo premier a non godere dell'immunità parlamentare, ciò significa che potrebbero arrestarlo senza passare dal Parlamento". Dopo la politica e la giustizia, "Il Dubbio" avrà una seconda missione: i diritti. "La nostra idea è che i diritti sociali e civili non possono essere influenzati dal mercato". A chi pensa che Sansonetti stia tornando al suo alveo politico originario (il Pci), arriva immediata la precisazione: "Il Dubbio non sarà un quotidiano anti-mercato, così come nemmeno io lo sono. Ma il mercato non può governare la società, a meno che non si vogliano schiacciare i diritti fondamentali e quelli acquisiti negli ultimi decenni in Occidente". Che esistano le voci delle Procure, che aspettano le veline illegali, da dare in pasto alla massa gossippara e giustizialista, non vi è dubbio. Fame di gogna che si alimenta con il mercato. Ma a certi avvocati non va giù che possa esistere la voce dell’Avvocatura, più garantista ed ispirata ai canoni di quel Cesare Beccaria, che tra i saccenti giuristi credo che sia poco conosciuto. La gogna mediatica si alimenta da sé. Il garantismo non ha appeal e non si paga, se non con il sostentamento.

Eppure…

Il quotidiano “Il Dubbio” oggetto di cause interne all’ avvocatura. La decisione al Tar Lazio, scrive "Il Corriere del Giorno" il 6 settembre 2017. Dall’ ottobre 2015 ad oggi il quotidiano Il Dubbio è costato agli avvocati italiani la somma di due milioni di euro causando una vera “rivoluzione interna gra gli ordini professionali territoriali, fra cui Milano, Firenze, Bari e Bergamo tra i primi. Non è piacevole preoccuparsi dei problemi editoriali di un concorrente, ma non ci si può esimere allorquando si tratta dell’organo di stampa del Consiglio Nazionale Forense, cioè l’Ordine Nazionale degli Avvocati. Stiamo parlando del quotidiano Il Dubbio diretto dal bravo collega Piero Sansonetti, edito con la dichiarata intenzione di far sentire la voce dell’avvocatura sui temi di attualità. L’Associazione Nazionale Forense cui aderisce il Sindacato Avvocati di Bari nella scorsa primavera ha aperto una vera e propria guerra interna, con un ricorso depositato dinnanzi al Tar Lazio. Nella giornata di oggi il Sindacato Avvocati Bari (ANF) e Avvocati Ora hanno divulgato sui social network stralcio del bilancio di esercizio al 31.12.2016 della società editrice del Dubbio, che riporta una perdita di esercizio pari a € 836.500 depositato della Edizioni Diritto e Ragione srl  ,  società editrice costituita il 10 dicembre 2015, avente socio unico la FAI-Fondazione per l’Avvocatura Italiana, istituita dal CNF,   che ha stanziato all’atto del “lancio” sul mercato editoriale, un contributo-finanziamento complessivo di 1.100.000 euro.  A contestare l’operazione editoriale del CNF anche l’Organismo Unitario dell’Avvocatura. Sul piede di guerra anche il Movimento forense, da sempre contrario all’iniziativa editoriale del Cnf. Il segretario Massimiliano Cesali al debutto in edicola del quotidiano Il Dubbio scriveva, “è un’iniziativa in conflitto con le funzioni che la legge riconosce all’Ente e comporta un ingente impiego di denaro degli avvocati”. Peraltro, proseguiva il segretario del Movimento forense, questa scelta “rende sempre più evidente l’ambizione da parte del CNF di svolgere una funzione politica non sua, in antitesi con l’art. 39 della Legge Professionale. Ciò genera confusione negli avvocati e offre giustificazioni alla politica”. Il progetto editoriale del Dubbio si sarebbe impantanato secondo quanto ci ha raccontato una fonte interna a causa di impegni editoriali e pubblicitari assunti dal Gruppo Sole24Ore, la cui concessionaria pubblicitaria avrebbe dovuto garantire delle entrate pubblicitarie, mai arrivate, motivo per cui Sansonetti si sarebbe rivolto recentemente alla “benevolenza” del Cav. Silvio Berlusconi, sperando nel supporto editoriale-pubblicitario della Mondadori Pubblicità e di Publitalia, società controllate dall’ (ex) Cavaliere. Dalla Nota integrativa al Bilancio 31.12.2016 della società Edizioni Diritto e Ragione Srl si legge: “In recepimento dell’art. 1 del D.Lgs. n. 173/2008, la società ha stipulato i seguenti accordi in funzione della natura e dell’obiettivo economico, dell’effetto patrimoniale, finanziario, economico: la società è stata costituita dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana per dar seguito alla convenzione stipulata dalla stessa con il Consiglio Nazionale Forense che mediante la Fondazione ha dato seguito all’iniziativa editoriale decisa nella seduta straordinaria del 29 ottobre 2015 e approvata nella seduta amministrativa del 19 novembre 2015. Con la stipula della predetta convenzione il CNF si è impegnato a dare copertura finanziaria e a determinare in via anticipata l’ammontare dei contributi che erogherà alla FAI tenendo conto dell’entità e della rilevanza del progetto editoriale, delle risorse di personale, mezzi e servizi necessari, nonchè delle attività svolte da quest’ultima in attuazione del predetto affidamento”. “L’articolo 2427, comma 1, numero 22-quater del Codice Civile – continua la nota integrativa al bilancio 2016 – richiede che debbano risultare i fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio. Si considerano fatti di rilievo quelli che, richiedendo o meno variazioni nei valori dello stesso, influenzano la situazione rappresentata in bilancio e sono di importanza tale che la loro mancata comunicazione comprometterebbe la possibilità dei destinatari dell’informazione societaria di fare corrette valutazioni e prendere decisioni appropriate. A tal proposito, si illustra la seguente informativa, nella quale viene posta evidenza della stima dell’effetto sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica ovvero le ragioni per cui l’effetto non è determinabile. In ottemperanza agli impegni assunti dal CNF per l’attuazione del progetto editoriale per tramite della FAI è stato deliberato per il 2017 un finanziamento a copertura delle eventuali perdite pari a euro 1.000.000,00.” Pertanto se la matematica non è un’opinione, ad oggi il quotidiano Il Dubbio è costato agli avvocati italiani la modica cifra di due milioni di euro! Il problema è che non basta trovare i soldi o far scrivere qualche bravo giornalista per mantenere in piedi un quotidiano con ambizioni di diffusione nazionale. Bisogna innanzitutto trovare qualcuno capace di fare l’editore. Invece secondo gli avvocati che contestano l’iniziativa editoriale, l’ “’iniziativa grava nell’immediato quanto ai costi sugli Avvocati italiani, visto che viene finanziata dal CNF attraverso i contributi richiesti dagli ordini forensi agli iscritti, ha sollevato perplessità e dubbi circa la sua legittimità rispetto alle norme che disciplinano l’editoria e alle norme dell’ordinamento professionale“.

L’iniziativa del COA Bari su Il Dubbio. ESTRATTO VERBALE DEL 20 APRILE 2016. Punto n. 11 all’Ordine del Giorno. (Assemblea straordinaria degli iscritti del 15/03/2016 – deliberato- determinazioni).

Il Consiglio, vista la delibera assembleare degli iscritti del 15 marzo 2016, ritenendo di dover dare corso alle ulteriori indicazioni provenienti dagli iscritti, approva il seguente deliberato:

Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bari, facendo proprio il deliberato dell’Assemblea degli iscritti del 15 marzo 2016, che demanda al COA di Bari la richiesta di intervento del Ministro della Giustizia e delle Autorità competenti.

PREMESSO

– che costituisce ormai fatto notorio, per averlo più volte comunicato il Presidente Mascherin sia negli incontri periodici con gli Ordini circondariali, sia in riunioni degli Ordini distrettuali appositamente convocati, che il CNF si è reso editore di un quotidiano generalista (“Il Dubbio”);

– che l’iniziativa editoriale, presentata, in termini mediatici, come potente mezzo di comunicazione degli avvocati e, in termini politici, come strumento di contrasto ai cc.dd. “giornali delle procure”, desta perplessità in numerosi avvocati, fra i quali, quelli del Foro Barese e il Consiglio dell’Ordine che li rappresenta;

– che, dalle notizie diffuse, risulta che il CNF e la propria Fondazione (FAI – Fondazione Avvocati Italiani), ha costituito una società di capitali (Edizioni Diritto e Ragione srl.), che provvederà alla pubblicazione del quotidiano;

RILEVATO

– che la società di capitali, denominata “Edizioni Diritto e Ragione srl”, ha quale socio unico la F.A.I., presieduta dall’avv. Mascherin, presidente del CNF;

– che, ai fini della diffusione del quotidiano, i componenti del CNF, con il direttore responsabile, hanno partecipato a numerose riunioni degli ordini distrettuali, invitandoli ad offrire contributi ovvero ad abbonare “di ufficio” gli iscritti ai rispettivi albi.

CONSIDERATO

– che il CNF, secondo la legge 247/2012, è un Ente pubblico non economico, “soggetto solo alla vigilanza del Ministro della giustizia”, la cui funzione istituzionale è unicamente quella di “garantire il rispetto dell’Ordinamento professionale e delle regole deontologiche”, “con finalità di tutela dell’utenza e degli interessi pubblici connessi all’esercizio della professione e al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale” (art. 24);

– che l’art. 35, nel definire in modo puntuale i compiti e le prerogative del CNF, prevede unicamente che quest’ultimo possa curare “mediante pubblicazioni, l’informazione sulla propria attività e sugli argomenti d’interesse dell’avvocatura” (lett.p);

– che, conseguentemente, il vigente Ordinamento professionale non sembra consentire nè la pubblicazione di quotidiani generalisti, né la utilizzazione dei contributi annuali degli avvocati per fini diversi da quelli istituzionali (“necessari per coprire le spese della sua gestione”, art. 35 comma 2);

RILEVATO ALTRESI’

– che l’art. 1 comma 13 della legge 5.8.1981 n. 416, riguardante la disciplina delle imprese editoriali, conferma la impossibilità, per il CNF, di pubblicazione di un giornale, facendo espresso divieto agli Enti pubblici di costituire o, comunque, di acquisire partecipazioni in aziende editoriali di giornali o di periodici “che non abbiano esclusivo carattere tecnico inerente l’attività dell’Ente”.

Tanto premesso, rilevato e considerato, CHIEDE

che il Ministro della Giustizia, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza e le altre Autorità interessate, nell’ambito delle rispettive competenze, con riferimento all’iniziativa editoriale assunta dal CNF con i contributi dovuti dagli avvocati (pena la sospensione dall’albo), vogliano esperire ogni opportuna indagine, operare le necessarie valutazioni ed emettere gli eventuali provvedimenti di rispettiva competenza. In particolare, chiede

a) se sia conforme ai fini istituzionali del C.N.F. ed alla legge sull’editoria la pubblicazione di un giornale generalista tramite la F.A.I.;

b) se al C.N.F. sia consentito utilizzare risorse degli avvocati sia provvedendo al pagamento degli stipendi dovuti al direttore e ai redattori, sia riservando al corpo redazionale appositi locali presso la sede consiliare di via del Governo vecchio;

c) se sia consentito al C.N.F. sollecitare gli Ordini e le Associazioni forensi a fornire contributi e abbonamenti degli iscritti e se sia consentito, da parte di questi ultimi, abbonare “di ufficio” i propri iscritti, senza la previa acquisizione del loro espresso consenso, trattandosi non già di rivista tecnica o notiziario informativo interno, ma di normale quotidiano generalista;

d) se, supposta la legittimità e correttezza dell’iniziativa, siano corrette le modalità di assunzione dei giornalisti, di scelta dei fornitori (carta, tipografo, distributore, raccolta pubblicitaria), di selezione dei collaboratori e di utilizzo delle risorse e di appostamento in bilancio delle relative voci spesa.”

Si delega il sig. Segretario alla trasmissione del deliberato al Ministro della Giustizia, all’Autorità Garante per le Comunicazioni, all’Autorità Nazionale Anticorruzione, al Garante per la protezione dei dati personali, a tutti gli Ordini forensi nazionali ed ai Consiglieri.

Il ricorso presentato successivamente al Tar Lazio verte su alcuni quesiti: può un ente pubblico, quale è il Consiglio Nazionale Forense, esercitare l’attività di editore di un giornale generalista? Può farsi rientrare tra le pubblicazioni su temi di interesse specifico dell’avvocatura attribuite dalla legge professionale alla cura del CNF un quotidiano che tratti temi di attualità, finanziato con i contributi degli iscritti agli ordini e che, peraltro, a meno di un anno dall’uscita, è già difficile reperire nelle edicole della città? E resta da capire un particolare a dir poco “strano” segnalatoci da non pochi avvocati. Il quotidiano Il Dubbio risulta essere stato registrato al Tribunale di Bolzano (n. 7 del 14 dicembre 2015). Eppure il Consiglio nazionale Forense, FAI-Fondazione per l’Avvocatura Italiana, e la società editrice Edizioni Diritto e Ragione srl  hanno tutti sede legale ed operativa a Roma, come anche la redazione del giornale. Cosa c’entra Bolzano?

Certi avvocati vogliono dar spazio alla Voce delle Procure…

Filippo Facci il 23 Gennaio 2015 su “Libero Quotidiano: la Legge Bravaglio. Da 23 anni mi sento dare dell'ingenuo - da vari colleghi ma anche, ricordo, dall'avvocato Caterina Malavenda, che fu mia insegnante alla scuola di giornalismo e ora difende uno come Travaglio - perché ho sempre scritto ciò che la Cassazione ha finalmente ribadito l'altro giorno, lasciando di stucco i soliti addetti alla copisteria giudiziaria: cioè che il Codice già contiene gli articoli 114, 329 e 684 che vietano espressamente la pubblicazione di virgolettati provenienti da atti e verbali e compagnia bella, questo senza bisogno che i governi ogni tanto abbozzino presunte "leggi bavaglio" che poi non vanno mai in porto. Non conta se i virgolettati siano coperti da segreto o no, se siano riportati correttamente, se si ravvisi un interesse pubblico: è vietato e basta, lo è già, lo era già, e per saperlo bastava leggere o voler rileggere le reazioni isteriche dei cronisti quando il Codice entrò in vigore, nel 1989: ancora non sapevano che gli articoli 114, 329 e 684 sarebbero stati assassinati da loro stessi in combutta con la stessa magistratura che, ora, riscopre l'ovvio. Riscopre cioè che - come scrive il Fatto Quotidiano - le violazioni sono sempre state "prassi comune di cui di solito non si duole nessuno". Un paio di palle. Certo, è comprensibile che ora ci sia sbigottimento: è come se la Cassazione avesse abolito il Fatto Quotidiano, il bavaglio a Travaglio. Tranquilli: la magistratura fa, disfa e rifà. Non c'è nessun altro. A parte i servi di procura che aspettano l'osso. Filippo Facci

Gogne e procure, i nostri veri poteri forti. Pm indagati, fughe di notizie, informative manipolate, intercettazioni nel ventilatore della melma. Lo “scoop” sui Renzi e l’autogol manettaro. Il caso Consip sta diventando la Caporetto del giustizialismo italiano, scrive Claudio Cerasa il 17 Maggio 2017 su "Il Foglio". L’Italia del buonsenso, se davvero avesse un po’ di buonsenso, piuttosto che indignarsi per l’incredibile vicenda legata al caso Consip, che ieri ha registrato un’ultima appassionante puntata con la pubblicazione sul Woodcock quotidiano di una serie di intercettazioni tra Tiziano Renzi e Matteo Renzi, dovrebbe avere il coraggio di ingaggiare un buon architetto e far costruire un gigantesco monumento di fronte al ministero della Giustizia in onore (Dio li benedica) di alcuni contemporanei eroi italiani: il procuratore di Napoli Henry John Woodcock, il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto e il giornalista del Fatto Marco Lillo, il quale con lo “scoop” di ieri relativo alle intercettazioni tra Renzi senior e Renzi junior ha aiutato a fare un po’ di chiarezza su quello che sta succedendo, davvero, intorno al caso Consip. Tutto quello che non va nell’inchiesta di Napoli, e quella guerra con Roma ormai palese. Proviamo a riassumerlo brevemente – e capirete da soli perché il caso Consip sta diventando la Caporetto del giustizialismo italiano.

Il 4 marzo la procura di Roma sceglie di revocare ai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) le indagini sul caso Consip, alla luce delle “ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto” istruttorio. La procura di Roma lo fa “per un’esigenza di chiarezza”, perché “gli accertamenti fin qui espletati hanno evidenziato che le indagini del procedimento a carico di Alfredo Romeo e altri sui fatti (poi) di competenza di questa procura sono state oggetto di ripetute rivelazione di notizie coperte da segreto sia prima che dopo la trasmissione degli atti a questo Ufficio, sia verso gli indagati o comunque verso persone coinvolte a vario titolo, sia nei confronti degli organi di informazione”. Passano alcuni giorni e la procura di Roma spiega esattamente in che senso la procura di Napoli ha peccato in chiarezza. Lo si scopre il 12 aprile, quando la procura comunica che il capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto, è accusato di falso ideologico per aver alterato la trascrizione di un’intercettazione contro Tiziano Renzi e accreditato la possibilità che i servizi segreti spiassero l’inchiesta. Per essere ancora più chiari: il capitano del Noe attribuì ad Alfredo Romeo una frase che provava l’avvenuto incontro fra l’imprenditore e il padre dell’ex presidente del Consiglio ma l’analisi dei nastri (voluta dalla procura di Roma) rivelerà che la frase incriminata sarebbe stata pronunciata non da Alfredo Romeo ma da Italo Bocchino. E non solo. La procura di Roma accusa Scafarto anche di aver fatto altro: aver deliberatamente manipolato l’informativa in un passaggio chiave allo scopo di accreditare falsamente un’attività di disturbo dei servizi segreti – e dunque implicitamente di Palazzo Chigi – sulle indagini che l’Arma stava conducendo sull’imprenditore Alfredo Romeo e sui suoi rapporti con Tiziano Renzi, padre dell’allora presidente del Consiglio. Falso anche questo. Ma c’è di più.

Il 12 maggio Scafarto viene interrogato per cinque ore in procura a Roma (presente anche Giuseppe Pignatone) e nel corso dell’interrogatorio cede e ammette l’indicibile: “La necessità di compilare un capitolo specifico, inerente al coinvolgimento di personaggi legati ai servizi segreti, fu a me rappresentata come utile direttamente dal dottor Woodcock che mi disse testualmente: al posto vostro farei capitolo autonomo su tali vicende, che io condivisi”. Scafarto dice esattamente quello che avete letto: fu Woodcock a “rappresentare come utile” l’inserimento nell’informativa Consip dei dettagli (rivelatisi poi farlocchi) sui servizi segreti. Il romanzo potrebbe concludersi così, e ci sarebbero già molte ragioni per costruire un monumento al valore per i campioni delle manette rimasti ostaggi del circuito mediatico-giudiziario da loro stessi alimentato, ma il problema è che la storia non è finita. Scafarto è lo stesso capitano del Noe lavorò in un’altra favolosa inchiesta denominata “Cpl Concordia” e all’interno di quell’inchiesta si sviluppò una trama simile a quella alla quale stiamo assistendo oggi: un giornale (chissà quale) pubblicò l’intercettazione di una telefonata fra il comandante interregionale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi e Matteo Renzi e quell’intercettazione (penalmente irrilevante) più che portare acqua al mulino dell’inchiesta (l’inchiesta fu archiviata subito dopo il trasferimento delle indagini a Roma) portò acqua esclusivamente al mulino del processo mediatico (fu in quell’occasione che Renzi, da segretario del Pd, espresse giudizi critici sull’allora premier Enrico Letta).

Basterebbe questo, ma lo scoop di ieri del Fatto – Matteo Renzi intercettato mentre chiede al padre di raccontare tutta la verità sui rapporti con Alfredo Romeo – ha avuto il merito di aprire un nuovo meraviglioso capitolo del romanzo manettaro e così ieri mattina la procura di Roma decide di aprire un fascicolo “per violazione del segreto istruttorio e per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale in relazione alla intercettazione di una telefonata, risalente al 2 marzo scorso e pubblicata sul Fatto Quotidiano, tra Matteo Renzi ed il padre Tiziano alla vigilia dell’interrogatorio di quest’ultimo nell’ambito dell’inchiesta Consip”. Le indagini andranno come andranno ma a prescindere da quello che sarà il giudizio finale della procura di Roma sui quattro amici al bar che gravitano attorno alla procura di Napoli si può dire che l’inchiesta sulla Consip sta diventando per molte ragioni il perfetto manifesto del cortocircuito mediatico. I rapporti patologici tra alcune procure e alcuni organi di stampa. L’incapacità dell’opinione pubblica nel considerare le veline delle procure non delle verità assolute ma delle verità parziali. La trasformazione degli indagati in colpevoli fino a sentenza definitiva. La scelta di alcuni giornalisti di vestire i panni dei cagnolini al guinzaglio delle procure. L’arma del garantismo utilizzata dai giustizialisti solo quando a essere indagati sono gli amici manettari. E infine l’utilizzo meticoloso delle intercettazioni come veicolo finalizzato a creare un’atmosfera, “un contesto ambientale”, ovverosia un’attenzione mediatica intorno a un’indagine che altrimenti faticherebbe a finire sulle prime pagine dei giornali. Ci si potrebbe deprimere di fronte agli ingredienti del circo mediatico giudiziario ma in realtà mai come oggi bisogna gioire: grazie alle imprese degli amici della procura di Napoli, in Italia potrebbe finalmente emergere in modo chiaro una maggioranza non più solo silenziosa intenzionata a ribellarsi contro la repubblica del pettegolezzo e contro la dittatura delle intercettazioni.

I veri poteri forti (senza quasi) sono questi, caro Ferruccio de Bortoli: sono coloro che possono decidere in modo indiscriminato il destino di un essere umano solo inserendo il suo nome in un brogliaccio telefonico e premendo quando desiderano loro un bottone rosso dell’infamia nazionale chiamato gogna. Un paese che non riesce a capire l’orrore di trascrivere (e poi commentare) intercettazioni penalmente irrilevanti è un paese senza speranza. Un paese che inizia invece a capire l’orrore di un sistema giudiziario che permette di dare in pasto ai giornalisti intercettazioni che non si dovrebbero leggere è un paese che ha la speranza di fare un passi in avanti imparando a distinguere prima di tutto che differenza c’è tra chi spaccia per libertà di stampa la libertà di sputtanare. I tempi per una grande e trasversale rivoluzione garantista contro la repubblica del pettegolezzo sono maturi. E se lo sono bisogna ringraziare di cuore gli amici della procura di Napoli. Cin cin.

I campioni del processo mediatico sono i veri nemici di una giustizia giusta. Diceva Falcone che la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo. Aveva ragione. Perché oggi il Foglio vi regala un bavaglio anti gogna, scrive Claudio Cerasa il 22 Maggio 2017 su "Il Foglio". Nell’ultima settimana, complice l’incredibile episodio di una telefonata penalmente irrilevante pubblicata da un giornale in modo probabilmente illegale nonostante nessuno (nessuno) ne abbia autorizzato la trascrizione, il tema del rapporto tra procure, politica e giornali è tornato a essere di grande attualità e molti osservatori, anche con sensibilità diverse, hanno riconosciuto che sì, in Italia, benvenuti, esiste un grave problema legato alle fughe di notizie dalle procure che alimentano un circo Barnum chiamato processo mediatico – all’interno del quale le vite degli altri possono essere spiattellate sulle prime pagine dei giornali senza una ragione che sia diversa dal voler sputtanare il prossimo. La diagnosi sul cortocircuito mediatico giudiziario ormai è condivisa anche da molti giornali che in passato hanno alimentato a testa bassa lo stesso cortocircuito contro il quale oggi si scandalizzano. Ma più che fare ironia sui velinari delle procure che oggi si indignano per le veline delle procure che le procure passano ad altri giornali (avremmo almeno dieci domande da fare, ma non importa) vale la pena spendere alcune righe per affrontare un tema del tutto ignorato in questi giorni nonostante l’orrenda presenza sulla scena di monsieur le cirque médiatique. Un tema che in realtà corrisponde a una domanda, solo una e non dieci: perché i giornali italiani, se davvero vogliono combattere l’orrore della gogna giudiziaria, non la smettono di alimentare il circo mediatico? 

Contro la gogna la soluzione c’è: smettere di pubblicare intercettazioni. La gogna si combatte non trasformando i giornali nella buca delle lettere delle procure. Perché il Foglio non pubblica intercettazioni. Questo giornale – come avrete visto e come è testimoniato dalla nostra copertina speciale che avvolge il Foglio di oggi – ha proposto una cosa molto semplice e ha suggerito agli altri giornali di combattere il circo mediatico smettendola di pubblicare intercettazioni quantomeno fino al dibattimento e smettendola così soprattutto di trasformare i giornali nella buca delle lettere delle procure. Le ragioni per cui molti giornali hanno risposto di no al Foglio (Corriere, Repubblica, ovviamente il Fatto) sono tante e sono le più variegate. C’è chi ha fatto della gogna una propria linea editoriale e ovviamente sospendere la gogna equivarrebbe a sospendere le pubblicazioni. C’è chi in passato ha fatto del processo mediatico un proprio tratto distintivo e ovviamente sottrarsi dal gioco del circo mediatico sarebbe complicato e porterebbe a disorientare alcuni lettori cresciuti con l’idea che fare giornalismo significhi pubblicare tutto ciò che arriva dai piccioni delle procure. Ci sono tante ragioni, poco nobili a nostro modo di vedere. Ma sotto sotto, se vogliamo proprio sforzarci di non vomitare quando parliamo di gogna, c’è una ragione che potrebbe essere considerata a prima vista (solo a prima vista) sincera e significativa quando si cerca di capire perché nessun giornale (tranne quello che leggete e pochi altri) vuole davvero combattere il circo mediatico. Quella ragione è sintetizzabile con un concetto assai diffuso nella nostra opinione pubblica. Suona più o meno così: dato che la giustizia non funziona, vale la pena accorciare i tempi del processo e celebrare sui giornali uno speciale e barbaro processo sommario per evitare che i possibili colpevoli possano restare degli impuniti. E’ la perfetta e forse inconsapevole declinazione di uno dei capisaldi del davighismo: non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti.

Piero Tony, mitico magistrato di sinistra che ha scelto di andare in pensione con qualche anno di anticipo anche per combattere gli orrori del circo mediatico, definisce così il processo combattuto a colpi di veline delle procure sbattute sui giornali: una nuova misura cautelare diventata ormai una costola del processo tradizionale e trasformata da alcuni magistrati e da alcuni giornalisti complici in una sorta di giudizio di primo grado anticipato. A voler seguire questo filo logico si potrebbe pensare che in fondo, in un sistema giudiziario “così ingiusto”, sia comprensibile che i magistrati, o almeno alcuni di essi, considerino, insieme con i loro fedeli cronisti al seguito, il processo mediatico l’unica vera sanzione contro i-potenti-che-la-fanno-sempre-franca. “La crisi della giustizia italiana, la sua lentezza, la capacità di ottenere la prescrizione degli imputati eccellenti – ha ricordato venerdì scorso Antonio Polito sul Corriere – rendono sempre più rare le sentenze, specialmente nel campo delle inchieste sui cosiddetti colletti bianchi. Gli italiani hanno capito che difficilmente, e chissà quando, il processo farà giustizia e la pena sarà certa. Dunque accettano, e purtroppo talvolta sollecitano, una giustizia più sommaria”. La ragione per cui molti giornali si rifiutano di combattere davvero il processo mediatico è dunque anche questa. Nessuno si fida della giustizia, e tutti vogliono farsi giustizia da soli, a colpi di fantastiche condanne morali. E le condanne morali maturano all’interno di un codice di procedura penale straordinario utilizzato dal circo mediatico in modo ormai lineare: se sei un potente intercettato, sei automaticamente un potente impunito; se sei un politico indagato, sei automaticamente un politico che prova a farla franca; se sei un politico citato da un indagato intercettato, sei automaticamente un politico che “spunta” nelle indagini e che in qualche modo è “coinvolto” nel processo mediatico e che merita di essere condannato. Semplice, no?

“Io – disse Giovanni Falcone nel 1991, in un’audizione a Palazzo dei Marescialli avvenuta in seguito alla scelta (criticata) di Falcone di non aver sviluppato le indagini su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia – posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole… o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese”. La lezione di Falcone oggi è ancora viva e ci dice una cosa semplice: i peggiori amici della giustizia sono coloro che alimentano il circo mediatico e che non cercano giustizia, ma vogliono solo farsi giustizia. I venticinque anni dalla strage di Capaci, e dalla morte di Giovanni Falcone, abbiamo scelto di ricordarli così. Con un giornale speciale dedicato a un’idea di un giudice che ha speso una vita a combattere la mafia anche puntando e scommettendo su un principio fondamentale oggi calpestato da molti ipocriti che lo ricorderanno nei prossimi giorni: “La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità: la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Vale per i giudici. Dovrebbe valere anche per noi giornalisti. Ne vogliamo parlare o no?

Perché Lillo no e Tiziano sì? Scrive Piero Sansonetti il 13 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Lo scandalo delle intercettazioni non finisce mai. Adesso però le parti si sono un po’ invertite. Quelli che sin qui si erano sempre pronunciati per la libertà piena di intercettare, di intercettare chiunque, di distribuire le intercettazione ai giornalisti e di pubblicarle, adesso si sentono vittime. E chiedono la privacy. Giustamente. Infischiandosene a viso aperto di ogni possibile richiamo alla coerenza. Ieri “Il Fatto Quotidiano” trasudava indignazione – finalmente – perché ha scoperto che alcuni Pm di Napoli, tempo fa, avevano chiesto di intercettare alcuni giornalisti del “Fatto” coinvolti nell’inchiesta sulla violazione dei segreti da parte della stessa Procura di Napoli. L’indignazione del Fatto, del resto, è del tutto giustificata perché le intercettazioni, se ci fossero state, sarebbero state un atto arbitrario. Perché Lillo no e Renzi sì? il colore delle intercettazioni. E infatti queste intercettazioni non ci sono mai state, perché il Gip di Napoli (che probabilmente conosce le leggi) ha spiegato che per intercettare qualcuno è necessario che il reato sia grave (e cioè sia punibile con una pena massima che supera i cinque anni di carcere) mentre l’inchiesta sulla fuga di notizie riguarda un reato con pene massime di tre anni. E ha negato l’autorizzazione ad intercettare. Capitolo chiuso? Macché, Il Fatto non è per niente tranquillo, perché sebbene in questo caso non ci sia stato nessun abuso da parte della magistratura, c’è stato comunque un rischio di abuso, che era insito nella richiesta dei Pm rigettata dal Gip. In qualche modo si può anche dare ragione al Fatto. L’idea che si debba ricorrere alle intercettazione dei giornalisti per indagare su un piccolo reato, risponde perfettamente a quella idea di “giustizia di polizia” che purtroppo in Italia dilaga, ma che chiunque ami la civiltà vorrebbe fermare. Non è una novità il fatto che nel nostro paese il numero delle intercettazioni sia di circa 1000 volte superiore al numero delle intercettazioni che si fanno in Gran Bretagna, sebbene la Gran Bretagna abbia un indice di criminalità molto più alto del nostro. E’ chiaro che se decidi di intercettare persino Marco Lillo (per provare a incastrare il tuo collega Woodcock) la quantità di telefoni intercettati sarà sempre più alta e insopportabile. Dunque piena solidarietà a Lillo e Travaglio. Ma…Ma è difficile non chiedere loro come mai non si sono preoccupati, tempo fa, quando veniva intercettato – probabilmente in violazione delle leggi, e comunque del buonsenso – il signor Tiziano Renzi, che era indagato per il reato (nuovo di zecca e finora, credo, mai usato per una condanna penale) di traffico di influenze (pena massima tre anni, decisamente inferiore al limite dei cinque, dei quali si è parlato, che consente le intercettazioni). Si potrebbe rispondere: perché gli inquirenti immaginavano che intercettare Renzi potesse aiutare le indagini sui reati di Romeo, che erano più gravi. E’ vero che in punta di diritto questo è possibile, ma la legge dice che è possibile in casi eccezionali: quando è assolutamente necessario, o quando i delitti siano molto gravi, come un sequestro di persona o un omicidio. Non è il caso di Tiziano Renzi. Però c’è una seconda obiezione: la protesta di Travaglio e del Fatto si concentra sull’attacco alla libertà di stampa, visto che la richiesta di intercettazione riguardava un giornalista, e tendeva a far saltare il suo segreto professionale. Giusto di nuovo, e di nuovo solidarietà a Travaglio e Lillo. Poi però un’altra domanda. Il segreto professionale del giornalista molto discusso in giurisprudenza – è sicuramente importante. Naturalmente però non è importante come il segreto professionale dell’avvocato, che è un caposaldo del diritto alla difesa previsto dalla Costituzione. Ecco, come mai Il Fatto Quotidiano – che in genere si mostra amico della Costituzione) non si è indignato neanche un po’ quando è stata intercettata la telefonata tra Tiziano Renzi e il suo avvocato? Sebbene fosse una telefonata che riguardava il rapporto tra avvocato e difesa e dunque fosse assolutamente proibito realizzarla e soprattutto diffonderla. E non solo non si è indignato – sebbene si trattasse di un abuso clamoroso ma si è fatto passare il testo della telefonata dalla sua fonte in Procura (che giustamente tiene segreta) e l’ha pubblicato, certamente compiendo un reato (non è questa la cosa importante) ma anche violando in modo plateale e abbastanza vile un principio essenziale della nostra democrazia, della Costituzione, della legalità, e, naturalmente, dello Stato di Diritto? Capisco che è una domanda antipatica, però se il giornalismo italiano continua a vivere nella pavidità, nel timor panico verso i giornali che trasformano l’etica professionale in etica delle vendite, dell’aggressività, dell’arroganza verso le regole e il diritto, io penso che il giornalismo italiano finirà per perdere completamente la sua funzione, il suo ruolo. Ed è lui stesso a mettere in discussione la libertà di stampa. Perché la libertà di stampa, e d’informazione, non può disconnettersi totalmente dalla necessità della coerenza e del rispetto della verità. Comunque noi restiamo solidali verso Marco Lillo, Federica Sciarelli e Tiziano Renzi, perché tutti e tre sono vittime (o hanno rischiato di esser vittime) dell’eccesso di poteri di pezzi della magistratura.

P. S. Nel suo editoriale di ieri, Marco Travaglio, giustamente esalta il ruolo e l’autorevolezza della Cedu (la Convenzione europea che poi ha dato vita alla Corte Europea). E si lamenta del fatto che le sentenze della Cedu, spesso, in Italia vengono ignorate. Di nuovo d’accordo con lui. Totalmente. Tra l’altro – gli ricordiamo – la Cedu recentemente ha dichiarato illegittima la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa del dottor Bruno Contrada e – per estensione – di Marcello Dell’Utri. Son sicuro che Travaglio sia molto critico per il fatto che Marcello Dell’Utri non è stato ancora scarcerato.

Intercettazioni, perchè non basta non avere nulla da nascondere. Solo chi non possiede nulla, infatti, non ha niente da nascondere. In senso morale si intende. Solo chi non ha alcuna idea dei propri diritti civili, chi vive nell’oblio dei principi che li fondano e delle idee che nutrono i rapporti dei singoli cittadini con l’autorità dello stato, non possiede nulla e non può perdere nulla, scrive Francesco Petrelli, avvocato, segretario Unione Camere Penali, l'1 agosto 2017. Cresce da tempo l’idea che i diritti della persona siano un vezzo illuministico, una cosa un poco snob che non riguardi affatto l’intera comunità democratica, ma solo un’esigua schiera di malfattori che lucra su quella bizzarra idea che vi debba essere un limite all’invadenza dello Stato, ed alla sua azione repressiva. Un limite invalicabile che disegna in fondo il perimetro della sua stessa legittimazione. Si fa affermando l’idea irresponsabile che il Paese possa essere “rigirato come un calzino” e che non se ne debba aver paura se non si ha nulla da nascondere. Un assioma tanto allettante quanto pericoloso, sul quale occorrerebbe fare qualche non oziosa riflessione. Solo chi non possiede nulla, infatti, non ha niente da nascondere. In senso morale si intende. Solo chi non ha alcuna idea dei propri diritti civili, chi vive nell’oblio dei principi che li fondano e delle idee che nutrono i rapporti dei singoli cittadini con l’autorità dello stato, non possiede nulla e non può perdere nulla. Chi dice di non temere affatto di essere intercettato perché “non ha nulla da nascondere”, vive della miseria di questo equivoco. Ovvero nell’ingenuità dell’idea che i diritti di libertà e i diritti della persona siano cose che riguardano esclusivamente i corrotti e i delinquenti. Che l’onestà non abbia bisogno di tutele e di statuti, di regole e di costituzioni. Che le garanzie le abbiano inventate gli usurpatori ai danni delle persone per bene. Una convinzione tanto errata quanto pericolosa che insuffla a sua volta negli individui un’idea proprietaria dei diritti, dei quali ognuno può far quel che vuole. Tutte le “notti di San Bartolomeo” che ci son servite per affermare l’idea della tolleranza religiosa, tutti i tormenti e tutti i supplizi che son stati necessari per produrre l’idea della “dolcezza delle pene” e della inviolabilità del corpo dell’ultimo dei dannati, tutti i soprusi, le discriminazioni razziali, le espropriazioni, i confini e le altre misure di polizia degli stati totalitari, ci hanno infine convinto della necessità e della imprescindibilità della libertà personali senza le quali le libertà civili e politiche neppure si danno. Ci hanno persuaso del fatto che le libertà stanno e cadono tutte assieme. Svenderle, mortificarle, cederle al primo offerente, dimenticando che quei diritti di libertà sono stati conquistati per tutti e sono dunque di tutti, significa danneggiare l’intera collettività. L’inviolabilità dei domicili e delle comunicazioni, la natura sacra e inviolabile del diritto di difesa, la presunzione di innocenza, dovrebbero essere intesi come un patrimonio comune, diffuso ed inalienabile, coessenziale ad una società democratica matura. Non proprietà del singolo che, ingenuamente convinto di essere al riparo da ogni possibile illibertà, pensa che aprire la porta al “grande fratello” sia un gesto di grande modernità. Compie invece quel che Herbert Marcuse, oltre cinquanta anni fa, teorizzava nella sua opera più pessimista, L’uomo a una dimensione, laddove nel segno di una “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà” gli uomini erano indotti a deprivarsi dei propri diritti ed a rendersi ingenuamente schiavi da sé stessi consegnandosi ad un potere illiberale, tecnologico e invasivo.

La Capua prosciolta ma vittima del metodo Espresso-Travaglio. Nei paesi normali la stampa dà notizia delle indagini della magistratura, descrive le ipotesi di accusa su vicende di interesse pubblico e ritorna sul tema quando arrivano le sentenze per spiegare cosa è successo e come si è conclusa la vicenda, scrive Luciano Capone il 12 Luglio 2016 su "Il Foglio". Nei paesi normali la stampa dà notizia delle indagini della magistratura, descrive le ipotesi di accusa su vicende di interesse pubblico e ritorna sul tema quando arrivano le sentenze – quindi dopo che accusa e difesa si sono confrontate ed è stato espresso un giudizio terzo – per spiegare cosa è successo e come si è conclusa la vicenda. In Italia invece succede che il processo mediatico coincide con le carte dell’accusa – prima di un giudizio, anzi prima del rinvio a giudizio, e molto spesso addirittura prima della chiusura delle indagini e dell’avviso di garanzia – si sparano in prima pagina intercettazioni e tesi dei pm che insieme racchiudono accusa, difesa, giudizio e condanna. Si tratta di un processo immediato più che mediatico, perché gli organi d’informazione non mediano nulla, ma si limitano a riportare le accuse, informative e brandelli d’intercettazioni. Quando poi arrivano le sentenze vere, che spesso smentiscono totalmente le ipotesi della procura, vengono completamente ignorate o comunque non ricevono lo stesso spazio e la stessa attenzione riservate alle carte degli accusatori. In questo senso la vicenda di Ilaria Capua è emblematica delle patologie della giustizia e dell’informazione. La virologa e deputata di Scelta civica, nota a livello internazionale per aver reso pubblica la sequenza genetica di un ceppo dell’aviaria umana senza brevettarla, era accusata dal procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo di essere al centro di un’associazione a delinquere che contrabbandava virus e causava epidemie in cambio di soldi in combutta con alcune multinazionali dei vaccini. Lo stesso Capaldo poi ha tenuto l’inchiesta nel cassetto per 7 anni, senza nemmeno fermare questa ipotetica associazione a delinquere che diffondeva virus ed epidemie pericolose per la salute pubblica. Di tutti questi limiti logici ha tenuto conto il processo vero, quello tenuto nelle aule di tribunale, che ha prosciolto dalle accuse la Capua e altre 15 persone. Ma sono cose di cui non si è occupato il processo mediatico e immediato che nel 2014, con la copertina dell’Espresso “Trafficanti di virus”, ha condannato per direttissima la scienziata. Quest’ultima, non avendo ricevuto all’epoca gli atti e la notifica della chiusura delle indagini, non ha avuto neppure la possibilità di difendersi dal processo di piazza in cui l’aveva trascinata l’“inchiesta” di Lirio Abbate. Eppure quel processo non è ancora finito. L’Espresso non solo non trova spazio in nessuna delle sue 102 pagine del numero in edicola per dare notizia del proscioglimento della donna che accusava in prima pagina, non solo non si scusa – come non aveva fatto con la finta intercettazione di Crocetta contro la famiglia Borsellino e con la fasulla inchiesta sull’acqua avvelenata di Napoli – ma continua a rimestare nel fango ricordando che la Capua è stata comunque prescritta per uno dei tanti capi d’accusa. E così fa anche Marco Travaglio che sul Fatto quotidiano continua a dedicare articoli alle accuse dei pm contro la ricercatrice. Scrivendo tra l’altro che il Foglio insulta i pm per le “intercettazioni a ciclo continuo”. Il direttore del Fatto spiega che è andato tutto a meraviglia: “Le indagini si fanno obbligatoriamente, per approfondire una notizia di reato” e per la Capua su un reato – la tentata concussione – è scattata la prescrizione. La prima cosa sorprendente è che per Travaglio le “intercettazioni a ciclo continuo” sono un insulto, la seconda meno è la scarsa comprensione del testo: il Foglio non criticava l’Espresso e Abbate per aver raccontato la vicenda, ma per l’esatto contrario. Per aver nascosto l’assoluzione e la fine che hanno fatto le accuse contro il mostro che avevano sbattuto in prima pagina. La sentenza del gup di Verona Laura Donati infatti fa a pezzi l’inchiesta di Capaldo, basata su un castello di intercettazioni senza riscontri oggettivi. Il gup segnala innanzitutto che molti reati erano già prescritti al momento dell’esercizio dell’azione penale, eppure l’accusa è andata avanti lo stesso. Poi evidenzia come per l’accusa di diffusione di epidemia “manca prima di tutto l’evento”: i sette ritenuti contagiati non avevano la malattia. Inoltre “manca la prova che i ceppi virali siano stati effettivamente e dolosamente messi in circolazione” e i pm hanno indicato come responsabile dell’epidemia un virus per un altro. E questo già era noto da un’indagine archiviata a Bologna: “E’ dunque evidente – scrive il gup – come gli inquirenti abbiano stravolto gli esiti dell’inchiesta bolognese archiviata per costruire accuse del tutto prive di fondamento”. Conseguentemente “sono inconsistenti pure le accuse di associazione a delinquere”. C’è poi un’accusa di corruzione, come tante altre, non provata perché “fondata solo sul tenore di conversazioni telefoniche non contestualizzate e prive di riscontri”. Tra l’altro, trattandosi dell’udienza preliminare il giudice non scende neppure nel dettaglio, semplicemente si limita a stabilire che le prove sono insufficienti e contraddittorie per sostenere l’accusa in giudizio. Solo su un capo d’accusa, quello prescritto per tentata concussione, il gup dice che ci sarebbero gli elementi per andare a processo. Si tratta di un’indagine finita in nulla e di questo i trombettieri dell’accusa non parlano. Preferiscono riflettere sulla prescrizione. Secondo Travaglio e l’Espresso, la Capua non sarebbe una vittima perché non ha rinunciato alla prescrizione. Dopo un’indagine durata 10 anni, dopo che l’inchiesta è finita su un settimanale prima dell’avviso di garanzia, dopo aver subito un processo mediatico senza conoscere le accuse e gli atti dell’indagine, dopo due anni di linciaggio personale, una vita politica finita, quella professionale ammaccata e quella privata distrutta, Ilaria Capua dovrebbe rinunciare alla prescrizione e continuare a pagare gli avvocati per dimostrare all’Espresso e a Travaglio di essere innocente. Questa è la tesi di chi ritiene che il garantismo – e i diritti e la civiltà che si porta dietro – sia un inutile gargarismo. C’è però un punto su cui Tavaglio ha ragione: le indagini si fanno, obbligatoriamente, per approfondire una notizia di reato. Una notizia (di reato) c’è: la copertina dell’Espresso sui “Trafficanti di virus” è figlia di una fuga di notizie. Sa se per caso è stato obbligatoriamente aperto un fascicolo per individuare i responsabili?

Strasburgo condanna il metodo Travaglio. La libertà d’espressione non contempla il diritto allo sputtanamento, scrive il 17 Febbraio 2017 "Il Foglio". C’è un giudice a Strasburgo. Ieri pomeriggio le agenzie hanno battuto una notizia gustosa che riguarda una condanna significativa contro il nostro eroe Marco Travaglio. La storia è nota: nel 2008 e nel 2010, Travaglio fu condannato per aver diffamato Cesare Previti in un articolo pubblicato nel 2002 sull’Espresso per aver riportato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte, diffusa giovedì dall’Ansa – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. Aggiunge la Corte: “Come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. In sostanza: Travaglio accusò Previti di aver partecipato a una riunione dove invece non aveva messo piede, ma nonostante la falsità raccontata il futuro direttore del Fatto, nel 2014, andò contro la decisione dei giudici e scelse di difendersi di fronte alla Corte di Strasburgo rivendicando il diritto alla libertà d’espressione. Nella difesa dell’allora collaboratore dell’Espresso – difesa fatta a fette da un tribunale di primo grado, da uno di secondo grado e da una Corte europea – c’è però qualcosa che vale la pena notare e che riguarda quello che più volte questo giornale ha definito un metodo giornalistico che è stato precursore di un metodo politico fatto proprio dal Movimento 5 stelle: utilizzare in modo creativo lo stile del taglia e cuci delle carte giudiziarie per costruire un fatto alternativo e mascherare poi con il diritto alla libertà d’espressione (o il diritto alla satira) ciò che in realtà è una richiesta più semplice, ovvero il diritto allo sputtanamento. La Corte di Strasburgo ieri ha ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità non si possono definire verità alternative, come vorrebbe far credere il Movimento 5 stelle, ma si possono definire solo in un modo: bugie. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del taglia e cuci, non è un fatto alternativo: è una non verità. C’è un giudice a Strasburgo.

Cartosio: «Colleghi pm, basta carriere costruite sulle infamie in Tv», scrive Errico Novi il 12 Agosto 2017 su "Il Dubbio". È l’invito ai colleghi magistrati di Ambrogio Cartosio, il nuovo procuratore di Termini Imerese, nel suo discorso di insediamento. «I pm non possono costruire brillanti carriere sulle infamie gettate addosso a chi è solo indagato». Parole forti. Giuste. E ancora più pesanti se a pronunciarle è un magistrato. Le ha scelte per il proprio discorso d’insediamento Ambrogio Cartosio, nuovo procuratore di Termini Imerese. Cartosio è un uomo mite, asciutto, accompagnato da recente notorietà per l’inchiesta sulla nave Iuventa ma dai modi che nascondono persino una certa timidezza. Non è un pm che insegue paginate sui giornali. Non a caso introduce il richiamo sulle inchieste come arma distruttiva dell’esistenza altrui con la questione del rapporto con i media, strettamente connessa all’altro tema. Rapporto che, attenzione, non deve consistere in chiusura e impenetrabilità. Anzi, Cartosio parte proprio dalla dichiarazione di avere, come progetto per l’ufficio alla cui giuda è stato assegnato, un’idea di «apertura» e di rapporto trasparente con la comunità, organi di informazione compresi. Cosa che evidentemente, secondo il nuovo procuratore di Termini Imerese, è possibile senza ricorrere a indagini basate sul clamore, sulla ricerca dell’indagato eccellente. Un bell’esempio di cultura della giurisdizione rigorosa e nello stesso tempo consapevole delle esigenze che si impongono oggi ai magistrati. Come spesso ha ripetuto l’attuale vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, «sarebbe opportuno che gli uffici giudiziari avessero una capacità e si dotassero di strumenti atti a comunicare con l’esterno in modo efficace e corretto». Tra l’impenetrabilità e le inchieste spettacolo c’è dunque una via di equilibrio che sarebbe giusto percorrere. E sembra quel- la indicata dal capo dei pm di Termini. L’opinione pubblica, spiega Cartosio, «ha diritto di essere informata». Innanzitutto quando si procede «a compiere arresti, perché non siamo in un Paese dittatoriale in cui le persone spariscono come desaparecidos». Ma l’informazione «deve essere contemperata con il massimo rispetto per le persone che vengono arrestate, e che però sono la Procura e la polizia giudiziaria a indicare unilateralmente come autori di un reato. Saranno poi i giudici a stabilire se il soggetto è veramente colpevole». Potrebbero sembrare assiomi superflui da richiamare. Ma alla luce di come spesso viene gestita l’informazione sulle inchieste, andrebbero scolpiti ed esposti in tutti i palazzi di giustizia del Paese. La presunzione di colpevolezza così esemplarmente evocata spiega perché, continua il procuratore nel discorso con cui si è insediato due giorni fa, «i pm, nel rapporto con la stampa, debbano mantenere la massima continenza. Non devono seguire le lusinghe delle apparizioni su organi di stampa e tv, lusinghe che», avverte appunto il nuovo capo dell’ufficio inquirente siciliano, «possono far fare carriere brillanti, ma a volte si tratta di carriere costruite su un’infamia gettata addosso a persone che poi nel tempo si rivelano diverse da com’erano state dipinte». Tanto per essere chiaro con i 9 magistrati della Procura appena affidatagli, Cartosio ribadisce: «Questo ufficio darà le informazioni necessarie, ma non saranno ammessi protagonismi, non sarà ammesso, soprattutto, che la reputazione delle persone venga infangata facilmente». Il magistrato perbene. sa che il suo non è esattamente il tipico discorso d’insediamento di un procuratore, e allora alza il tono nell’aula magna del Tribunale di Termini imerese – dove con il presidente Raimondo Loforti lo ascoltano pm, giudici e personale degli uffici insieme con tutte le autorità locali – e spiega che quello del clamore mediatico sulle indagini «è un tema enorme, gigantesco, perché il proliferare di trasmissioni e dibattiti sulla presunta colpevolezza di questo o quel soggetto è diventata una vera e propria malattia sociale». E, ancora con ammirevole apertura, il procuratore dichiara: «Devono essere i magistrati a farsi carico di arginare questo fenomeno». Tutto qui? E no. Perché intanto Cartosio ricorda di essere stato «un allievo di Paolo Borsellino: ero con lui alla Dda e credo sia evidente che con Giovanni Falcone è stato lui a far diventare la lotta alla mafia una cosa seria: prima i capi degli uffici ti dissuadevano, sostanzialmente ti dicevano che era meglio dedicarsi ad altro “tanto la mafia non esiste”…». E come se non bastasse il procuratore di Termini infrange un altro tabù, il rapporto tra pm e avvocato: «Se il lavoro del pm ha una dignità, ce l’ha perché esiste l’avvocato. Che è lì a farti le pulci, a cercare di farti venire dei dubbi, che ti scuote dalle tue certezze. E tu, pm, devi essere capace di rivederle. Non è che ti abbarbichi a una convinzione sbagliata solo perché la tua controparte ti ha messo in condizione di riconoscerla come tale… È l’errore peggiore che si possa fare da parte di un pubblico ministero». Cartosio, per inciso, ha preso possesso dell’incarico direttivo a Termini dopo anni trascorsi da aggiunto a Trapani. Ufficio quest’ultimo dove negli ultimi mesi aveva svolto il ruolo di capo facente funzioni e dove si è appena insediato, come nuovo procuratore, Alfredo Morvilo, con cui il collega ora nell’ex città della Fiat si è avvicendato. Una figura, quella di Cartosio, che a 25 anni di distanza conferma come da quelle parti il seme lasciato da Falcone e Borsellino viva ancora nell’attività di qualche magistrato.

Giornalista horizontal…, scrive Piero Sansonetti il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Panegirici per Davigo, interviste senza domande, anche il bravo Massimo Gramellini si piega alla cupola del giustizialismo. Bisogna sparare a zero sui politici, ma l’ossequio al giudice è un atto dovuto. Sul “Corriere della Sera” è apparso un articolo di Massimo Gramellini intitolato “Davigo vertical”. È una tipica espressione spagnola, l’hombre vertical, molto lusinghiera, che indica l’uomo tutto d’un pezzo, coerente, serio, incorruttibile. Mi è venuto da chiedermi cosa sarebbe successo se sul “Corriere della Sera” fosse apparso un articolo altrettanto adorante, e firmato da una delle firme più prestigiose del giornale, rivolto all’esaltazione di qualche leader politico. Renzi, magari, o Berlusconi, o Alfano, o Salvini o – al limite – Grillo. Oppure se un panegirico di stile gramelliniano fosse stato pronunciato in Tv, dedicato a un uomo di governo. Sarebbe successa l’iradiddio e il malcapitato adoratore avrebbe capito in un batter d’occhio di essere giunto a fine carriera. Giornalismo horizontal. L’ossequio al giudice è sempre ammesso. Gramellini invece è solo all’inizio di una carriera che sarà – ve lo garantisco – di grande, grande successo. Qual è la differenza tra Davigo e – poniamo – Gentiloni? Come mai se osanni Gentiloni sei degno di disprezzo e se osanni Davigo sei un giornalista coraggioso? A occhio non c’è nessuna differenza tra i due: Davigo e Gentiloni sono rappresentanti del potere, e dunque – vorrebbe una versione forse un po’ antica della deontologia professionale giornalistica – dovrebbero sempre essere osservati con occhio critico dai giornalisti, tenuti a distanza, non celebrati. In realtà uno dei due è molto più potente dell’altro. Davigo ha assunto un ruolo di comando nella magistratura, fino al vertice dell’associazione magistrati, è un giudice di Cassazione, ha un ascolto altissimo nei giornali e nelle Tv, ha a disposizione persino un partito politico, e cioè i 5 Stelle, cosa che – paradossalmente – Gentiloni neanche si sogna. Davigo decide sulla politica della giustizia molto più di Gentiloni, è in grado di guidare campagne di opinione che possono bloccare qualunque provvedimento del governo. E infatti ha bloccato la riforma- Orlando. Del resto lo ha detto lui stesso, proprio l’altro giorno, all’assemblea del suo partito di riferimento (i 5 Stelle): «Non entro in politica perché ho molta più forza se resto fuori». Davigo orienta la magistratura e anche la politica, e se lui chiede più carcere ottiene più carcere. Influenza le sentenze dei suoi colleghi e frena i provvedimenti di clemenza. Intimidisce i tribunali di sorveglianza. Probabilmente Gentiloni sarebbe favorevole all’amnistia o a una riforma garantista del codice penale. Non può, ha le mani legate da un potere molto più grande del suo. La risposta alla domanda sul “diritto di ossequio” è esattamente questa. L’ossequio andrebbe evitato, ma se proprio va reso allora conviene renderlo al più forte. Il potere politico da anni è in verticale caduta, e non è strettamente necessario rendergli omaggio. Il potere di un pezzo di magistratura è in esponenziale crescita, sta allargandosi attraverso una nuova ferrea alleanza con la stampa e pezzi della Tv, ed è molto pericoloso opporsi. Un tipo come Davigo – dicono che sia anche permaloso – va tenuto nel giusto conto. Talvolta, non c’è niente di male: anche i giornalisti possono accettare di diventare hombre orizontal. Il bello è che ci sono alcuni giornali che ogni tanto pubblicano le classifiche dei giornalisti subalterni. Il Fatto Quotidiano, per esempio, li chiama i “lecca lecca”. State pure certi che non metterà Gramellini nell’elenco. Né metterà lo stesso Travaglio, che l’altro giorno, intervistando il Pm palermitano Di Matteo, è riuscito a fare una sola domanda, formulata più o meno così: “Lei ha già risposto a tutte le domande che avrei voluto farle, prima ancora che io gliele facessi…”. Esempio sfrontato di giornalista guascone che non guarda in faccia all’intervistato. Del resto poco prima dell’intervista a Di Matteo, e nella stessa sede (gli stati generali sulla giustizia tenuti mercoledì scorso a Roma dal movimento 5 Stelle) una giornalista di Repubblica aveva dichiarato candidamente: «Non posso non unirmi, anche se non dovrei, all’ovazione per Davigo». Almeno lei ha aggiunto, sottovoce, quelle quattro paroline: «anche se non dovrei…». Naturalmente non ha nessun senso parlare di giornalismo di regime. Come non aveva senso farlo qualche anno fa, quando imperava Berlusconi, non lo ha neppure ora che impera Grillo. Però per chi fa il giornalista è giusto fare qualche attenzione al fenomeno. Il giornalismo italiano si sta piegando sempre di più alla cupola del giustizialismo. Gli spazi per i liberali e i garantisti sono diventati stretti stretti. Non è il caso di piangersi addosso, però non c’è ragione per nasconderlo.

A Otto e mezzo uno show giustizialista. Dodici domande a Lilli Gruber, scrive Piero Sansonetti il 18 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Marco Travaglio, Nicola Gratteri e Beppe Severgnini ospiti di La7 in un dibattito su politica e giustizia pieno di false informazioni e privo di contraddittorio. Ma questo è buon giornalismo? Indiscutibilmente Lilli Gruber è una delle giornaliste più prestigiose della televisione italiana. È preparata, ha carisma. Però ogni tanto sbaglia anche lei. Spesso sbaglia l’assortimento degli ospiti. E se commette questo errore senza conoscere troppo bene l’argomento del quale si parla, e dunque senza poter esercitare lei stessa l’obbligo della critica, finisce per fornire ai lettori un cattivo servizio, e per confondere le idee un po’ a tutti. Così è stato venerdì scorso, durante la puntata di “Otto e Mezzo”. Tema, la Giustizia. Ospiti: Nicola Gratteri (da Gruber definito Pm e saggista) Marco Travaglio e Beppe Severgnini. Dov’era l’errore nell’assortimento? I tre, sui temi in discussione, avevano idee perfettamente collimanti. E così non solo nessuno dissentiva, ma venivano lasciate passar per buone (cioè per vere) affermazioni del tutto infondate, o false, o quantomeno discutibilissime. Uno degli ospiti parlava, e gli altri due (ma anche Lilli Gruber, talvolta) annuivano, con la testa o coi sorrisi, in un clima sicuramente idilliaco ma che aveva a che fare poco poco sia col giornalismo, o con l’informazione, sia, ovviamente, col dibattito politico. Qui riassumo – senza commentare, o quasi… – in dodici punti solo le principali affermazioni non vere (o contestabilissime) che mi sono segnato su un taccuino. E provo a smentirle, sulla base dei fatti, e dei codici, e delle leggi. O anche del buonsenso.

Il processo a distanza. Il dottor Gratteri ha spiegato tutti i vantaggi del processo a distanza. Che funziona così: l’imputato non è presente in aula ma sta in carcere ed è collegato per via telematica in video e in audio. Dunque non ha il suo avvocato al fianco, non può consultarsi con lui in tempo reale, non è di fronte ai testimoni di accusa, né al pubblico ministero, non può intervenire, non può vedere documenti che eventualmente l’accusa esibisce, eccetera eccetera. Gratteri però questi inconvenienti non li ha elencati. Ha solo detto che comunque l’imputato può eventualmente consultarsi con l’avvocato via cellulare. E poi ha spiegato che in questo modo si risparmiano 70 milioni all’anno, facendoci capire che più che dello Stato di diritto è bene occuparsi del bilancio. Ha ragione Gratteri? No, ha torto. Il processo a distanza indubbiamente danneggia l’imputato e le sue possibilità di difesa. E lo costringe (se ha i soldi per pagarseli) ad avere due avvocati, uno in aula e uno accanto a lui in carcere. Ma se è povero, niente da fare. E soprattutto Gratteri ha torto perché esiste l’articolo 111 della Costituzione che dice così: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato (…) abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico (…)». In coscienza, qualcuno può ritenere che il processo a distanza, nel quale l’imputato, ad esempio, non può mai trovarsi faccia a faccia davanti al testimone d’accusa, e neppure davanti al giudice, è compatibile con questa norma della Costituzione? L’altro giorno persino il nuovo presidente dell’Anm (associazione nazionale magistrati) ha detto che il processo a distanza non sta in piedi. In trasmissione non si è neppure fatto cenno a questa circostanza.

«Gli avvocati difendono lo status quo». Questa è stata la motivazione fornita da Beppe Severgnini (editorialista del “Corriere della Sera” e direttore del settimanale “Sette”) per spiegare l’opposizione degli avvocati al processo a distanza. Eppure gli avvocati da molti e molti anni chiedono profondissime riforme della giustizia: la separazione delle carriere, per esempio, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la riforma della carcerazione preventiva, la regolamentazione delle intercettazioni e tante altre. A opporsi a queste riforme è stata una parte della magistratura, mai gli avvocati. Cosa c’entra lo Status quo? Il problema è la difesa dello Stato di diritto. Che alcuni considerano un orpello, una cosa antimoderna, incompatibile con una giustizia severa ed economica, e che gli avvocati invece difendono coi denti.

Carceri affollate per mancanza di personale. Gratteri ha sostenuto che non esisterebbe il sovraffollamento delle carceri se ci fosse il personale sufficiente per usare tutte le celle a disposizione. Ma siccome il personale è usato per i trasferimenti dei detenuti (che potrebbero essere aboliti col processo a distanza) le celle restano vuote. Non è vero. Le carceri sono sovraffollate semplicemente perché la massima capienza (e cioè 45 mila posti letto) è inferiore al numero dei detenuti (55 mila).

Detenuti stranieri. Gratteri ha fatto notare che in Africa il costo della vita è molto basso. E dunque ha auspicato che i detenuti in Italia, di nazionalità africana, siano rispediti nei paesi d’origine, con accordi che prevedano che l’Italia paghi loro il vitto. In questo modo – ha spiegato – svuoteremmo le carceri e risparmieremmo un sacco di soldi, perché il vitto africano costa poco. Applausi di Severgnini. Purtroppo nessuno ha fatto notare a Gratteri che in alcune carceri africane (per esempio in Libia) spesso si applica la tortura, e gli standard umani sono inferiori a qualunque principio costituzionale italiano.

Carcere duro. Gratteri – in contrasto con il linguaggio usato solitamente in magistratura – ha affermato che il famoso articolo 41 bis consiste nel carcere duro. Probabilmente è stata una disattenzione. I magistrati hanno sempre sostenuto che è solo una forma di maggiore vigilanza sull’attività del detenuti. Se il 41 bis è carcere duro come dice Gratteri (e su questo, probabilmente, ha ragione) è una forma incostituzionale e illegale di detenzione che va immediatamente abolita.

Prescrizione. Sempre Gratteri ha sostenuto che non va allungata la prescrizione ma ne vanno abolite le cause. E le cause sono la lunghezza dei processi. Anche qui: d’accordo. E qual è la causa principale della lunghezza dei processi? Dice Gratteri: il mancato processo a distanza. E se invece – chiediamo – si abolisse l’obbligatorietà dell’azione penale, come in tanti paesi occidentali, e si dimezzasse, o più, il numero dei processi? E se si abolisse il diritto dell’accusa di fare appello dopo una assoluzione in primo grado, dal momento che una sentenza di assoluzione in primo grado è di per se un “ragionevole dubbio” sulla possibile colpevolezza?

Tasso di impunità / 1. Marco Travaglio ha sostenuto che il provvedimento cosiddetto “svuota- carceri” ha disposto che sia impossibile, anche dopo la sentenza definitiva, mettere in prigione qualcuno se è stato condannato a meno di 4 anni. Prima – ha detto Travaglio – il limite era tre anni, ora l’hanno aumentato. Non è vero. Travaglio probabilmente ha fatto parecchia confusione. Esistono vari provvedimenti e non si capisce bene a quale lui si riferisca. Uno è la riforma carceraria di trent’anni fa, quella firmata dal parlamentare cattolico di sinistra Mario Gozzini, e approvata all’unanimità (tranne i neofascisti), che prevedeva la possibilità di varie misure alternative alla detenzione per i detenuti considerati non pericolosi. Tra queste misure c’era la possibilità di scontare la pena, o una parte della pena, in forme diverse dalla detenzione in cella. Il giudice di sorveglianza ha la possibilità di sospendere la pena per un certo numero di mesi, in caso di condanna a meno di tre anni, per dare il tempo dal condannato di chiedere le misure alternative. Ha la facoltà – attenzione – non l’obbligo. La decisione spetta solo a lui, non al parlamento. L’idea di portare dai tre ai quattro anni il tetto per ottenere queste misure, non è stata ancora realizzata. E’ una legge delega che aspetta i decreti attuativi. Non riguarda tutti i carcerati ma solo le donne incinta, i padri con bambini sotto dieci anni, i malati, gli anziani e i ragazzi sotto i 21 anni. Io non dico che tutti debbano conoscere per filo e per segno le leggi, ma insomma è proprio necessario parlare in tv, con prosa apodittica, di cose che non si conoscono? (Scusate il commento, mi è scappato…)

Tasso di impunità / 2. Travaglio sostiene che in questi ultimi anni le carceri si sono svuotate e i tassi di impunità aumentano, perché i politici fanno leggi per non andare loro in galera, e, con effetto- domino, finisce che aiutano anche i delinquenti di strada. E così il crimine aumenta. I delinquenti restano a piede libero, e la gente si spaventa e si arma. È giusta questa analisi? No, è sbagliata. Le carceri, in questi anni, non si sono svuotate ma riempite. E i delitti – viceversa – non sono aumentati ma diminuiti. Per l’esattezza, nel 1970 i detenuti erano circa 25.000. Nel 1990 erano circa 30 mila. Ora sono 55 mila. Negli anni 70 il tasso di delinquenza era circa il doppio, rispetto ad oggi. Gli omicidi circa 4 volte di più. Diciamo che viviamo in una società molto più sicura, molto più legale e anche molto più repressiva rispetto a quella di 30 o 40 anni fa.

Reati dei colletti bianchi. Beppe Severgnini ha sostenuto che in Italia esistono solo 230 colletti bianchi messi in prigione per reati finanziari. In Germania – ha detto – sono 18 volte di più. Ignoro l’origine di questi dati. Ho dato un’occhiata al foglio ufficiale del Dap (il dipartimento penitenziario). Prendo qualche numero a caso. Detenuti per bancarotta l’ultimo giorno dello scorso anno: 517. Per appropriazione indebita: 342. Per insolvenza fraudolenta: 726. Peculato: 341. Omissione d’atti d’ufficio: 401. Non voglio conteggiare truffa (1505) o altri reati simili, perché riguardano sia i colletti bianchi che la povera gente. Ho citato solo alcuni reati a caso. Ne mancano moltissimi altri, fra i reati dei colletti bianchi. Solo con questi che ho citato (e senza conteggiare le truffe) siamo oltre i 2400 detenuti. Da dove esce quel dato di 240? Nelle prigioni italiane ci sono un senatore in carica (Antonio Caridi) e due parlamentari della scorsa legislatura (Dell’Utri e Cosentino) più alcuni che sono ai domiciliari. Non sono sicurissimo che esistano molti altri paesi europei con dei parlamentari in prigione.

Carcerazione preventiva. Marco Travaglio ha spiegato che in Italia è difficile ottenere la carcerazione preventiva, perché per ottenerla bisogna beccare il reo mentre sta tenendo un testimone col coltello alla gola. Cioè bisogna dimostrare che sta cercando di fuggire, o di inquinare le prove, o di reiterare il reato.

Non è vero. E’ sufficiente il rischio. Il Pm e il Gip, a loro discrezione, decidono se esiste o no il rischio di inquinamento fuga o reiterazione. L’Italia infatti è il paese occidentale con la percentuale più alta di carcerazione preventiva. Circa il 33 per cento. Cioè più di 15 mila persone. Dei quali almeno la metà risulterà innocente. Negli ultimi 10 anni le ingiuste detenzioni accertate sono state 7000 all’anno. Cioè, più o meno, venti al giorno. Non bastano ancora?

Il capitan “Riscrivo” (Consip). Travaglio ha difeso il capitano dei carabinieri (capo del Noe) accusato dalla Procura di Roma di falso per aver consegnato una “informativa” nella quale si sosteneva che l’imprenditore Romeo era stato intercettato mentre diceva di avere incontrato Tiziano Renzi. L’informativa – sulla quale si è costruito un clamoroso scandalo sui giornali – era sbagliata, perché non era Romeo ma era l’ex parlamentare Italo Bocchino quello che diceva di avere incontrato Renzi, e si riferiva non a Tiziano ma a Matteo, che Bocchino, in quanto ex parlamentare, incontra spesso nei corridoi di Montecitorio. Travaglio ha detto che il capitano probabilmente ha solo commesso un errore “di svista”, perché ha sbagliato nell’informativa ma non nella trascrizione dell’intercettazione che invece riporta giustamente il nome di Bocchino. Già, ma Travaglio non ha detto che la trascrizione non l’ha eseguita il capitano, l’hanno eseguita un brigadiere e un maresciallo, i quali l’hanno consegnata al capitano, correttamente, e il capitano ha poi compilato l’informativa, e l’ha consegnata alla magistratura, invertendo i nomi. Che forse il capitan Riscrivo sia innocente, e abbia solo commesso un errore involontario, è possibilissimo. Solo stupisce l’eccesso di garantismo di Travaglio, abbastanza insolito, e qualche omissione nel riferire i fatti. Forse anche perché il Noe del capitan “Riscrivo” (come è stato scherzosamente ribattezzato) tempo fa aveva fornito presumibilmente al “Fatto” una intercettazione di Renzi che parlava male di Enrico Letta col comandante della Gdf (intercettazione priva di rilievo penale e che quindi andava distrutta e non passata i giornali).

Intercettazioni. Il dottor Gratteri ha sostenuto che la giustizia italiana vive di intercettazioni – a differenza degli altri paesi occidentali – perché sono economiche. Dice che altri metodi d’indagine, più concreti – accertamenti, pedinamenti, riscontri, testimonianze, eccetera – costano troppo. Severgnini a questo punto lo ha proposto come ministro della Giustizia. A me sembrerebbe più adatto a fare il ministro dell’economia.

Mi fermo qui. Non è successo niente di grave, naturalmente. Tutti errori veniali. Ma il numero di informazioni inesatte fornite ai telespettatori in 38 minuti di trasmissione è stato davvero altissimo. Io dico solo, sommessamente, che questo non è buon giornalismo. Può succedere. E’ che sui temi della giustizia succede spesso. Magari sarebbe opportuno, talvolta, quando si parla di giustizia, invitare non solo fans del “Fatto”, ma anche qualche esperto, qualche avvocato, qualcuno che conosce bene le cose e le ha studiate un po’. Voi direte: ma Gratteri le conosce bene! Non mi pare, francamente.

Ma il partito dei Pm esiste e ha molti appoggi, scrive Piero Sansonetti il 6 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Carissimo Morosini, sul Dubbio di ieri noi abbiamo riportato le sue dichiarazioni virgolettate ed esatte, e poi abbiamo pubblicato un commento. Come usano gli inglesi. Naturalmente i commenti appartengono a chi li scrive e basta. Le sue opinioni però mi hanno dato lo spunto per provare ad aprire una discussione con la magistratura Ma il partito dei Pm esiste e ha alleati nei partiti e nei giornali. Carissimo Morosini, sul Dubbio di ieri noi abbiamo riportato le sue dichiarazioni virgolettate ed esatte, e poi abbiamo pubblicato un commento. Come usano gli inglesi: i fatti separati dalle opinioni (in Italia, è vero, si usa pochissimo questo metodo). Naturalmente i commenti appartengono a chi li scrive e non certo a chi ne è “l’oggetto”. Ovvio che le mie considerazioni non coincidono con le sue opinioni. Né tantomeno con le cose che lei dichiara ufficialmente, soppesando bene le parole, come è giusto che sia visto il suo ruolo istituzionale, la sua lunga carriera in magistratura e la sua presenza attiva nelle associazioni dei magistrati. Le sue opinioni però – interessanti e non frequenti tra i magistrati – mi hanno dato lo spunto per andare oltre e provare a rivolgermi a quella parte della magistratura più moderna e meno reazionaria (della quale lei sicuramente fa parte), per chiedere di venire allo scoperto, di partecipare o addirittura pro- muovere un dibattito di idee che è necessario per fare uscire la giustizia italiana dalla crisi profonda nella quale si trova. Quanto alle osservazioni espresse nella sua lettera, mi permetto di fare a mia volta qualche altra considerazione.

A) Lei dice che per sostenere che esistono casi di magistrati che usano la giustizia per fare lotta politica bisogna fare nomi e cognomi. Specie se, come nel suo caso, si ricopre un ruolo istituzionale. Potrei fare diversi nomi e cognomi, visto che, ad esempio, come lei sa bene, il parlamento è pieno di magistrati, i vertici delle regioni sono pieni di magistrati, lo sono molte giunte comunali, diversi magistrati hanno partecipato anche ai governi della Repubblica, altri sono stati proposti per ruoli rilevantissimi, compreso quello di ministro della Giustizia. Oppure potrei citarle, tra i tanti, il caso di quell’ex deputato del Pd ( che mi pare si chiami Nicola Sinisi, peraltro ottima persona e onestissimo) che dopo anni di battaglie contro Augusto Minzolini, giornalista schierato a destra e poi senatore di Forza Italia, si trovò a giudicarlo (e Minzolini finì condannato, credo ingiustamente); o ancora le potrei parlare di un certo Bernini, assessore in Emilia di centrodestra, che finì indagato per collusioni con la ‘ ndrangheta ( restò nel limbo per anni, fu rovinato, e poi ne uscì pienamente assolto) da un magistrato di centrosinistra che era stato il capoufficio in un ministero del governo Prodi. Non sono belle cose, so che lei è d’accordo con me. Non succede in nessuna altra professione. Dopodiché è chiaro che in genere sono i partiti, e non direttamente la magistratura, ad utilizzare le inchieste a fini di lotta politica. Basta pensare alle liste di proscrizione stilate alla vigilia delle elezioni dalla Commissione antimafia, o al caso del povero sindaco di Roma Marino, del quale, giustamente, ha parlato anche lei, un po’ indignato, nell’intervista al quotidiano siciliano.

B) Lei giustamente sottolinea la necessità di regole certe per i magistrati, in tema di segretezza e la necessità “di sanzioni per chi non le rispetta”. Ha ragione. Però le regole ci sono, quasi nessuno le rispetta, e di sanzioni, fin qui, nemmeno l’ombra… O mi sbaglio?

C) Lei dice che condotte penalmente irrilevanti possono appannare la credibilità di un politico, e dunque ben vengano i codici etici. Forse ha ragione. Io però penso che a giudicare le condotte penalmente irrilevanti sarebbe giusto che se fossero gli elettori. Dovranno pure avere un potere questi elettori, o no? Oppure devono solo ratificare le scelte compiute a monte o dalla magistratura o dagli Stati maggiori dei partiti, o – nel caso in cui si parla tanto in questi giorni – da Grillo in persona?

D) Sul partito dei Pm possiamo discutere per ore e ore. Però, francamente, dottor Morosini, sostenere che non esiste è arduo. Ha una sua struttura (si chiama Anm), un capo (si chiama Davigo), una linea politica (attualmente, purtroppo, è il davighismo), moltissimi referenti esterni e moltissimi alleati, tra i quali un partito politico vero e proprio, i 5 Stelle, e un gran numero di testate giornalistiche. Altra cosa è dire che non è monolitico. Anch’io credo che non lo sia. E del resto la sua intervista al Giornale di Sicilia lo conferma. Il problema – che cercavo di sollevare nell’editoriale di ieri – è proprio questo: il silenzio di un pezzo importantissimo di magistratura che non è d’accordo con la linea davighiana eppure non esce allo scoperto. Le ultime righe della sua lettera mi incoraggiano: mi fanno capire che forse c’è la volontà di riaprire una discussione chiusa da troppo tempo. La domanda che le faccio è questa: esiste un pezzo di magistratura ha l’interesse e la forza e il coraggio per mettere tutto in discussione (in discussione vuol dire che si esaminano i pro e i contro e poi si decide): dalla separazione delle carriere, alla responsabilità civile, alle manette facili, al 41 bis, eccetera eccetera eccetera? Finché questa discussione non si apre, in modo moderno e leale, è difficile pensare a qualcosa di buono per la giustizia italiana.

Procura e redazioni: quando il copia-incolla diventa uno scoop! Scrive Paolo Delgado il 2 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Spesso dietro le notizie ci sono i magistrati, così finisce che a dettare la linea e il senso comune siano, appunto, quegli stessi magistrati. Intercettato in carcere Massimo Carminati, che secondo la procura di Roma è la versione romanesca di Totò Riina, si lascia andare a una confidenza sbalorditiva: «La vera Cupola a Roma sono i costruttori». Sull’Espresso, uno dei giornalisti più addentro nelle cose della Cosa nostra capitolina commenta: «La bomba er Cecato la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio». Però se le parole del temibile sono una bomba conviene evitare i bar della Capitale, pena il ritrovarsi nell’inferno di Mosul: che a Roma i padroni siano i palazzinari lo sanno e lo ripetono proprio tutti. Da decine d’anni. L’articolo in questione, uscito nel settembre scorso ma del tutto omogeneo a un migliaio d’altri usciti su quasi tutte le testate italiane, è un florilegio. Carminati è in cella con altre tre detenuti e stando in regime di 41bis non vede nessun altro. Sempre in virtù del medesimo 41bis, l’articolo che dispensa il carcere duro per i mafiosi, capita che in cella il Pirata si ritrovi appunto con mafiosi, tra cui Giulio Caporrimo, considerato intimo del super latitante Matteo Messina Danaro. Capita anche, per quanto incredibile sembri, che ci parli. Commento del settimanale: «Ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia». Di perle del genere, a spulciare i media italiani se ne rintracciano senza sforzo a tonnellate. Fanno notizia, anche quando la notizia latita o si riduce a un’opinione. Fanno cultura di massa, mentalità diffusa, e siccome 99 volte su 100 dietro quelle notizie ci sono le procure finisce che a dettare il senso comune sono appunto le procure. Fanno anche carriera: per essere promossi a principi del giornalismo niente, neppure una bella sparata contro i politici magnaccioni, vale una minaccia mafiosa, un sguardo di sbieco del boss di turno. Se resuscitasse, Leonardo Sciascia volgerebbe oggi i suoi strali non più contro i palazzi di giustizia ma contro le redazioni, che del resto ne sono spesso pure dependences. Roberto Saviano ha aperto la strada e indicato la rotta. In mezzo allo stuolo di principi e duchesse è senza discussioni il sovrano. Cosa abbia scritto nel celebre Gomorra che non fosse già noto è un mistero. L’apporto creativo e fantasioso in quello storico titolo è conclamato: si chiama romanzo proprio perché non perde tempo a separare i fatti dall’immaginazione. Ma se ai boss non è piaciuto deve per forza trattarsi di capolavoro: tanto che qualche anno fa di Saviano, con all’attivo due titoli, è uscita l’edizione di lusso delle opere complete. Come usa Con Tolstoj o Gadda. Il secondo titolo in questione, al quale si è aggiunto nel frattempo un terzo e bisognerà sfornare al più presto l’edizione aggiornata dell’opera omnia era un’inchiesta sullo spaccio di cocaina, “ZeroZeroZero”: basta spulciare i ringraziamenti finali per scoprire che le fonti dell’inchiesta sono essenzialmente le inchieste della magistratura. Del resto anche in quel caso si trattava di un romanzo…L’esempio più lampante ed eloquente resta tuttavia ancora quello dell’inchiesta Mafia capitale. La procura ipotizza l’associazione mafiosa, ma è ben consapevole di muoversi su un terreno friabile, tanto che nelle ordinanze pagine e pagine sono devolute a giustificare la pesante accusa a carico di un gruppo che non ammazza, non ferisce, non picchia ed è discutibile persino che minacci. A giudicare a fondatezza del capo d’accusa saranno ovviamente i tre gradi giudizio, ma il dubbio è lecito e dovrebbe anzi essere obbligato. Qualche giornalista infatti dubita, ma il circolo è ristretto e sembra essere precluso, con pochissime eccezioni, ai cronisti di giudiziaria. I quali si sono invece procurati in massa il crampo dello scrivano per spiegare senza pensarci su due volte che il capo d’accusa è in realtà solare e solidamente giustificato. Neppure quando una sentenza ha stabilito che nell’unico municipio di Roma sciolto per mafia, quello di Ostia, la mafia non c’era. Non è solo questione di opportunismo e asservimento alle procure. Quando si parla di mafia e affini entra in ballo l’impegno civile. Revocare in dubbio le conclusioni dei pm che indagano sulla criminalità organizzata significa farsene complici, e chi mai potrebbe guardarsi nello specchio sapendo di aver dato una mano a Matteo Messina Denaro o Massimo Carminati? Non è forse l’etica civile a imporre per prima di prendere per oro colato qualsiasi cosa i guerrieri dell’antimafia partoriscano, scemenze incluse? Il rovello non si pone solo nei casi clamorosi, come il processone romano. La logica discende sino a quelli microscopici.

Ilaria Capua: «Io, vittima delle calunnie dell’Espresso», scrive Valentina Stella l'1 Aprile 2017 su "Il Dubbio". L’amarezza di Ilaria Capua, prosciolta completamente dopo due anni di indagini, che ha dovuto subire una gogna giudiziaria e mediatica. Ilaria Capua, virologa e ricercatrice di fama mondiale, la prima ad aver caratterizzato il ceppo africano H5N1 dell’influenza aviaria, ha rischiato addirittura l’ergastolo perché nel 2014 il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo l’ha accusata – insieme ad altre 15 persone – di essere una criminale senza scrupoli, il vertice di una associazione a delinquere che contrabbandava virus e procurava epidemie in cambio di soldi, in accordo con alcune multinazionali dei vaccini. Ne veniva fuori l’immagine di una donna che lucrava e metteva in pericolo la salute dei cittadini, ma che stranamente il magistrato Capaldo decise di mantenere a piede libero per oltre sette anni prima di accusarla formalmente. L’indagine della procura di Roma ha prodotto 17.000 pagine di documentazione, tra cui moltissime intercettazioni della scienziata che – coerentemente col vizietto italiano di fare della stampa il megafono delle Procure sono finite sui giornali prima ancora che le venisse notificata la chiusura delle indagini a suo carico. Stiamo parlando della famosa copertina dell’Espresso intitolata “Trafficanti di virus” e della inchiesta a firma del giornalista Lirio Abbate. Dopo due anni, e il trasferimento del processo a Verona, per undici dei dodici capi di accusa, tra cui quelli riguardanti la diffusione di epidemie nell’uomo e negli animali, associazione per delinquere, falso ideologico, concussione e abuso d’ufficio, è stata prosciolta “perché il fatto non sussiste”. Il proscioglimento nel merito, più favorevole all’imputato, ha prevalso rispetto alla dichiarazioni di estinzione del reato, ossia la prescrizione, anche per tutte – tranne una – le accuse prescritte. Gogna giudiziaria e mediatica hanno portato tuttavia la Capua a dimettersi da parlamentare di Scelta civica e a trasferirsi negli Stati Uniti dove attualmente dirige un centro di ricerca d’eccellenza dell’Università della Florida, e dove vive con suo marito Richard John Currie e sua figlia Mia. Oggi si racconta in un libro, edito da Rizzoli, Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia scritto con il giornalista scientifico Daniele Mont D’Arpizio.

Professoressa Capua, lei è rimasta “impiccata” ed è stata lasciata penzolare per più di due anni al cappio di accuse infamanti che, come descrive nel suo libro, l’hanno resa in quel momento “una donna finita, disidratata per quanto ho pianto, disperata. Violentata, sì”. Come ci si riesce a rialzare in queste situazioni?

«Conservando la lucidità, mantenendo la barra dritta, sapendo che l’esito della vicenda dipende solo da te».

Lei al termine del libro scrive: “Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente”.

«Vorrei che questa mia storia servisse a tante persone, che sono coinvolte in vicende come la mia, a farsi forza ed andare avanti. Io ho voluto dare voce anche a queste persone. Se con il mio libro riuscissi a evitare che anche un solo scienziato o una persona onesta venissero accusati ingiustamente e svergognati sui giornali avrei vinto la mia battaglia».

Qual è il virus che attanaglia la nostra giustizia e quali potrebbero essere gli anticorpi affinché casi simili non avvengano più?

«La giustizia ma anche l’opinione pubblica sono segnate dalla rassegnazione. Una delle cose che mi son sentita dire più volte è “ma in Italia si sa che è così”. E questo non va bene, non è accettabile che le vite delle persone vengano stravolte da meccanismi troppo lenti e soprattutto dalla mancanza di risposte certe. Quando ponevo domande circa i tempi e l’iter processuale, la risposta più frequente era “dipende dal giudice, dal pubblico ministero, da quanto hanno da fare”. Il mio non lo ritengo un caso di malagiustizia ma di amara giustizia: alla fine giustizia è stata fatta ma ci è voluto tempo, c’è stata la messa in discussione della mia vita e lo sradicamento di una famiglia dall’Italia, il trasferimento dall’altra parte del mondo. Mi sento come se fossi stata ostaggio della giustizia».

Passiamo al linciaggio mediatico. Lei racconta di pubblicazione di intercettazioni del tutto decontestualizzate, un tentativo – poi mal riuscito – di “svergognare e denudare le persone”. Dopo il proscioglimento si sarebbe aspettata una copertina opposta dall’Espresso e le scuse del giornalista Lirio Abbate?

«No, perché mi è stato subito detto che nessuno avrebbe scritto una riga. Addirittura Abbate in una intervista ha sostenuto che io non l’avessi querelato per diffamazione. Invece l’ho fatto immediatamente perché sapevo di essere innocente, e lo ha capito anche la giustizia: ho querelato lui e l’Espresso e li ho citati anche per danni. Mi è dispiaciuto il fatto che, al di là del male che questa persona ha fatto a me e alla mia famiglia, ho dovuto sentire anche ulteriori menzogne. Lui non ha voluto realmente approfondire e scoprire la verità, mi ha fatto tre domande secche, come scrivo nel libro, ma ho avuto l’impressione che lui non volesse onestamente capire. Si è trovato in mano le carte sulla mia indagine e ha deciso di prendere una certa posizione. Detto ciò, esiste però il fair play, quindi secondo me non è giusto e non è corretto che il giorno stesso del mio proscioglimento lui firmi un altro articolo in cui scrive, tirando fuori altre intercettazioni, che i magistrati di fatto hanno scoperto il business tra aziende e comparto pubblico».

Cosa si sente di dire a qualsiasi giornalista che desidera fare in modo professionale cronaca giudiziaria?

«Un giornalista che vuole fare giornalismo di inchiesta deve lavorare in buona fede dando al malcapitato il beneficio del dubbio. Se una persona si dichiara innocente e gode anche di una certa credibilità in ambito scientifico e reputazione internazionale, bisognerebbe avere almeno la mente sufficientemente aperta per valutare le varie versioni».

Lei si chiede ad un certo punto nel libro: “Ma un pm è obbligato a conoscere la scienza? Un giudice, un carabiniere? Un giornalista?”. Che risposta si è data?

«Non è un obbligo che conoscano determinate dinamiche e ramificazioni del mondo scientifico perché io da 25 anni faccio il virologo e garantisco che i virus sono una realtà molto complicata. Però prima di accusare delle persone e sbatterle in prima pagina e trasformarle in mostri criminali occorrerebbe far vedere la documentazione a un paio di persone esperte. Come ricordo nel libro, nelle pagine della mia inchiesta, finite sui giornali, avevano confuso i virus: è come se avessero detto che Paolo Rossi e Michele Rossi sono la stessa persona. Vi erano degli errori proprio grossolani. È forse anche vero che i lettori non hanno gli strumenti per districarsi in certi argomenti e prendono per oro colato quello che viene pubblicato. Non si può incolpare il lettore perché il giornalista serve anche per selezionare e tradurre le informazioni. Io non me la sento di dire al cittadino o al lettore dell’Espresso che deve conoscere la nomenclatura dei virus influenzali».

Appena scoppiato lo scandalo, il deputato Gianluca Vacca del Movimento 5 Stelle chiese le sue dimissioni da vicepresidente della commissione Cultura alla Camera ove fosse stata iscritta nel registro degli indagati. Due mesi fa invece i pentastellati virano verso un moderato garantismo qualora qualcuno di loro riceva avvisi di garanzia. Come commenta?

«Io in quel momento non avevo ricevuto alcun avviso di garanzia, ma mi ero trovata sbattuta sulla copertina dell’Espresso accusata di reati gravissimi. Trovo che l’onorevole Vacca come altri esponenti del Movimento 5 Stelle abbiano peccato e continuino a peccare di inesperienza e di mancanza di conoscenza della complessità di alcuni problemi e di come alcune situazioni vengano strumentalizzate dalla stampa e non solo. La loro svolta garantista mi lascia un po’ perplessa perché loro stessi dicono “decideremo caso per caso”: questo mi sembra davvero un abuso di responsabilità. Sulla base di cosa un laureato, per esempio in ingegneria, si mette a discutere o a decidere – Grillo non so nemmeno se sia laureato – se determinate accuse sul traffico di vaccini stanno in piedi o no? Siamo arrivati alla giustizia sommaria?»

Suo padre voleva farle studiare legge ma lei rispose: “Papà, ma io voglio fare ricerca nel pubblico, perché la scienza è di tutti”. Oggi però in Italia si investe pubblicamente pochissimo in ricerca. Come mai secondo lei?

«Manca la cultura della ricerca, quella che collega la ricerca alla competitività, che produce posti di lavoro e punta al benessere della società. E poi la ricerca è la Cenerentola dell’agenda politica, quando si devono fare dei tagli la ricerca ne soffre sempre. Alla base manca la meritocrazia».

Il sistema scienza in Italia è ancora quindi troppo intriso di nepotismo per mettersi davvero in competizione con la realtà internazionale? E come si può ovviare?

«Basta copiare quello che fanno nelle altre parti del mondo, come in Olanda, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti: basta fare dei bandi che siano realmente competitivi e valorizzare le persone e i loro meriti, senza cercare di proteggere dei feudi e delle aree di potere».

Parlando della sua esperienza parlamentare lei scrive: “A volte in questo Paese sembra che di scienza non importi niente a nessuno”. Filosofi della scienza e bioeticisti invece sostengono che il metodo scientifico dovrebbe essere il prototipo della democrazia. Perché in Italia la politica è indifferente alla scienza se non per vietare, e come dovrebbe migliorare il rapporto tra scienza e politica?

Io speravo di riuscire a migliorare questo rapporto con la mia presenza in Parlamento: mi sono impegnata, ho cercato di dialogare, cercando una maggiore apertura e comprensione da parte dei miei colleghi alla Camera verso il mondo scientifico, ma poi è successo quello che racconto nel libro e che mi ha costretto a lasciare lo scranno di Montecitorio. Purtroppo manca apertura mentale e disponibilità a capire determinati aspetti».

Scrivendo del periodo di campagna elettorale con Monti racconta di quando venne ripresa dagli attivisti per alcune affermazioni pubbliche, espressioni del suo pensiero laico. Quanto pesa ancora la presenza del Vaticano nelle decisioni politiche, ad esempio in materia di inizio e fine vita?

«Moltissimo, la nostra radice cattolica è determinante. Penso a come l’establishment religioso abbia preso posizione nel caso di Dj Fabo e della sua richiesta di suicidio assistito, e anche sul voto sul testamento biologico».

Lei ha voluto fare ricerca per decenni in Italia, rifiutando prestigiosi incarichi all’estero, perché ha sempre voluto scommettere sul nostro Paese. Oggi però le strutture di ricerca italiane non sono considerate “appealing”, i giovani preferiscono portare le loro borse di studio all’estero. Cosa direbbe a un cervello in fuga per farlo rimanere?

«Io avevo predisposto una proposta di legge proprio per i ragazzi che partecipano ai bandi europei per permettere loro di spendere questi soldi in Italia. Inoltre sono contraria allo stereotipo del cervello in fuga, perché ritengo che i cervelli debbano muoversi, ci deve essere una circolazione di cervelli. E così come l’Italia esporta cervelli, sarebbe opportuno che ci fosse un saldo positivo, ossia che il nostro Paese importasse un numero pari o superiore dei cervelli che esporta. In Italia ora si fanno meno figli e spesso si è costretti a scegliere tra lavoro e maternità».

Lei però con la sua storia vuole anche “dare l’esempio, dimostrare che la conciliazione mamma- dottoressa è possibile”. Questo è davvero auspicabile in Italia o lei ha rappresentato una eccezione?

«Davvero è possibile per alcune persone che hanno determinate capacità organizzative e che hanno la fortuna di intraprendere dei percorsi giusti come è successo a me. Io negli Stati Uniti ho iniziato un lavoro di mentorship sulla leadership al femminile, sulla conciliazione tra la perpetuazione della specie, affidata alle donne, e la gratificazione professionale».

Cosa pensa di una legge sulla obbligatorietà dei vaccini in Italia?

«Mi spiace che si debba arrivare a una legge, però a mali estremi, estremi rimedi; in particolare quando si tratta delle vaccinazioni infantili, perché alcuni genitori, rifiutando di vaccinare, si prendono la responsabilità nei confronti dei loro figli e di quelli degli altri che non dovrebbero prendere. Nel momento in cui la percentuale della copertura vaccinale scende sotto determinati livelli come sta avvenendo in Italia io sono d’accordo che si imponga la vaccinazione ai bambini che frequentano la scuola e vivono in comunità».

«Manette e gogna mediatica: così mi hanno annientata», scrive Valentina Stella il 19 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Parla Maria Grazia Modena, la cardiologa fatta arrestare dai giudici dell’inchiesta “Camici sporchi”, condannata e linciata da televisioni e giornali, poi assolta in tribunale. Una mattina come un’altra, cinque anni fa, i carabinieri hanno bussato alla sua porta, le hanno messo le manette e l’hanno portata via. È iniziato l’inferno. Titoli feroci suoi giornali, detenzione, gogna, grida in Tv, poi una condanna in primo grado, infine la liberazione con l’assoluzione piena in appello. Non ha commesso il fatto, il fatto non sussiste. Si chiama Maria Grazia Modena, è una cardiologa molto famosa in tutto il mondo. È professoressa all’Università di Modena e Reggio Emilia, è stata Presidente della Società Italiana di Cardiologia e primario al Policlinico modenese. In quel mattino del 2012, insieme a lei furono arrestati altri 8 medici. Era l’operazione “Camici sporchi”. L’accusa: associazione a delinquere finalizzata a sperimentazioni cliniche non autorizzate L’inchiesta è finita in una bolla di spone. Lei però ha avuto la vita distrutta. E’ un caso come quello di Ilaria Capua. La vicenda di Ilaria Capua non è la sola a vedere una delle eccellenze della scienza italiana stritolata dalla macchina difettosa della giustizia e dall’accanimento mediatico. Oggi vi raccontiamo la storia di Maria Grazia Modena, professoressa di Cardiologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Presidente della Società Italiana di Cardiologia – la prima donna a ricoprire tale ruolo -, ed ex primario della Cardiologia del Policlinico modenese. Il suo nome balza agli onori della cronaca, prima nazionale e poi internazionale – Forbes ad esempio -, nel 2012: all’alba del 9 novembre, i carabinieri suonano il campanello della sua casa e le mettono le manette, mentre elicotteri dell’Arma sorvolano su di loro. Insieme a lei vengono arrestati altri 8 medici, vengono effettuate 33 perquisizioni, nonché imposto il divieto a dodici aziende che producono attrezzature cardiologiche di contrattare con la Pubblica amministrazione. L’ operazione “Camici sporchi” impegnò oltre 150 militari dei Nas, coordinati dalla Procura di Modena e individuava una associazione a delinquere finalizzata a sperimentazioni cliniche non autorizzate, all’ installazione di apparecchiature mediche, alcune delle quali difettose, su pazienti ignari e alla creazione di false cartelle cliniche. Il ruolo apicale, secondo il pm Marco Niccolini e l’allora procuratore capo Vito Zincani, all’interno della presunta associazione, era svolto proprio dalla professoressa Modena, che secondo gli accusatori "promuoveva e tollerava lo svolgimento delle sperimentazioni illegittime presso il reparto da lei diretto, al fine di trarne beneficio in termini di carriera essendo indicata quale autrice di numerose pubblicazioni ed abstract".

Dal giorno dell’arresto la sua faccia è stata sbattuta sulle prime pagine dei giornali e nei tg che avevano già decretato la sua colpevolezza. Rimase ai domiciliari per 40 giorni, poi, avendo spedito delle email affinché dei colleghi la sostituissero ad alcuni lezioni ai suoi studenti, fu costretta dalle autorità a risiedere per due mesi al di fuori della provincia di Modena, poiché ritenuta pericolosa e con tendenza a reiterare i suoi crimini. Tornata a Modena ebbe l’obbligo di firma. In primo grado, con rito abbreviato, è stata condannata dal Gup del tribunale di Modena ad una pena di 4 anni e mezzo. Ma nel dicembre dello scorso anno la corte d’Appello di Bologna ha annullato quasi totalmente la sentenza emessa. L’ex Direttrice del reparto di Cardiologia è stata difatti assolta dai reati più gravi con formula piena per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste: associazione a delinquere, corruzione, truffa ai danni dell’ospedale e abuso d’ufficio. Rimane in piedi solo la condanna a otto mesi (pena sospesa) per falso, per la quale gli avvocati Iovino e Stortoni ricorreranno in Cassazione, in merito a due lettere firmate da lei ma che riportavano dati errati su alcune sperimentazioni. Annullata anche l’interdizione dai pubblici uffici. Ieri la Procura Generale ha deciso di ricorrere in Cassazione contro l’assoluzione. Intanto la professoressa Modena si racconta nel suo secondo libro Il Caso cardiologia… la Verità, che segue Il Caso cardiologia. La mia vita, la mia verità, entrambi Edizioni il Fiorino.

Si aspettava il ricorso in Cassazione?

«Era scontato, contro di me c’è un vero accanimento. La Procura di Modena ha investito troppo in questa inchiesta e non è pronta ad ammettere di aver sbagliato nei miei confronti».

Cosa ha provato nel momento dell’assoluzione, giunta a dicembre in appello?

«Ho provato la consapevolezza di quanto sia importante essere dichiarata innocente per una innocente».

Chi era la professoressa Modena prima di quel 9 novembre 2012?

«Una persona rispettata, stimata, conosciuta, consapevole di avere ricevuto tanto, anche sotto il profilo cristiano di “talenti”, ma inconsapevole che la vita può cambiare in un attimo dalla sera alla mattina, come quella mattina dell’arresto».

Come ha vissuto il periodo ai domiciliari?

«In una specie di limbo, senza mai perdere fiducia in me stessa (non nella magistratura, come usano dire tutti…), con serenità e speranza per tre motivi: la vicinanza di mio marito, la certezza di avere dei grandi avvocati e di vivere un enorme errore giudiziario, che si sarebbe presto chiarito. E invece è diventato un incubo, ma me sono resa conto solo a posteriori».

Quello che ha colpito lei, ha anche distrutto l’intera reputazione del reparto di cardiologia e la fiducia dei pazienti. Quando riprenderà il Suo posto al Policlinico?

«Non lo so, mi si dice da cinque mesi che ci sono tanti interlocutori che si stanno confrontando su di me e sul come reintegrarmi: il Rettore, il Preside, il Direttore Generale del Policlinico, l’Assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna, manca solo la Ministra Lorenzin. Credo che il problema sia da ascrivere al fatto che il professor Giuseppe Boriani, peraltro segnalato anche da me quando fui sospesa, ha preso il mio posto e che tutti i sopracitati attori siano stati spiazzati da un’assoluzione così rapida e imprevista».

Lei sintetizza la sua vicenda così: la mia convinzione è che siamo in un Paese dal sistema giudiziario tutt’altro che garantista che tratta gli “innocenti fino a prova contraria” come “colpevoli fino a prova contraria”. Secondo lei cosa non hanno capito i Pm e i giudici di primo grado?

«Forse che il merito e il prestigio in ambiente universitario non sono sinonimi di cupidigia, ma sono parte del mondo accademico. Le ricordo che io sono stata condannata per corruzione ascrivibile all’ambizione di veder aumentare le mie pubblicazioni, non per denaro. La mia non era ambizione personale, ma il desiderio di veder crescere un reparto, quello che nel mio primo libro chiamai ‘ la mitica cardiologia del policlinico” e tale è stata fino alla sua distruzione motivata dall’invidia: questo è un vizio capitale, non l’ambizione».

Lei scrive anche: la poca preparazione – da parte dei Nas in una branca della medicina altamente specialistica e la “scarsa” conoscenza della lingua inglese, soprattutto tecnica, hanno originato errori grossolani che sono emersi durante le udienze. Può spiegarci meglio?

«L’inchiesta della Procura di Modena partì da esposti anonimi su elenchi di pazienti deceduti o con complicanze dopo interventi “subìti” presso la cardiologia del Policlinico, poi continuò su elenchi – sempre preparati da anonimi – di sperimentazioni clandestine su pazienti ignari. Morti e feriti però non risultavano da nessuna parte, né risultava un solo caso di malasanità, e allora tutto si concentrò sulle sperimentazioni (quelle incriminate non erano tali, bensì normali interventi di angioplastiche con raccolta di dati). Ritengo che per indagare su materiali di uso in emodinamica, come cateteri, stent, protocolli, registri, linee guida spesso in lingua inglese, si sarebbe dovuto ricorrere a personale competente in materia o, per lo meno, ricorrere a periti, non a dei Carabinieri».

Sostiene di aver subìto un processo per direttissima, con annessa condanna, attraverso i mezzi di comunicazione. Racconta di essere stata descritta come la “vergogna dei cardiologi senza cuore", “mela marcia” in una puntata di Quinta Colonna, “mercante di stent” in una puntata di Report, annoverata fra le “dame nere della sanità’ sul Corriere della Sera. Cosa le ha fatto più male leggere?

«Mi ha fatto male tutto e nulla, sono arrivata a un punto da sentirmi ferita, ma inossidabile, tranne per due aspetti: il dolore che provava, più di me, la mia famiglia e il panico che si era creato nei pazienti, panico che nessuna Istituzione ha saputo, o voluto, governare».

Lei ipotizza un disegno programmato di chirurgia politico- sanitaria, una trama fra Regione e politica sanitaria locale per colpire lei e il suo operato. Da cosa deduce questo, e secondo lei quale sarebbe stato il motivo?

«Modena è una piccola città con da sempre una competizione fra troppi ospedali e soprattutto fra Università e Ospedale. Io ero allora direttore del Dipartimento di Emergenza Urgenza e del Reparto di Cardiologia del Policlinico e in un tavolo di confronto per ridurre le spese, proposi, tra l’altro, l’unione delle varie Cardiologie in unico Dipartimento: mi fu detto di no, anzi fu proprio quello il momento in cui mi scavai la fossa, era il 2011. Ora però stanno attuando il mio progetto, perché la crisi finanziaria è insostenibile. Ero una donna di grande visibilità e a capo di un reparto di eccellenza. Non ti perdonano il successo e di voler competere addirittura con Bologna».

Come ha reagito alla vicenda l’allora presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani?

«Mi ha apparentemente ignorata. E quando si arrivò, su pressione, credo, dell’Associazione Amici del Cuore (da cui poi è partita l’inchiesta), a dovermi confermare nella Direzione della Cardiologia, spinse il Direttore Generale a licenziarmi e questi si oppose. Pagai lo scandalo con la mancata conferma a Direttore della Cardiologia. Non so ancora perché, ma fu allora che cominciò il mio calvario. Certamente il tritacarne mediatico spinse tutti ad abbandonarmi, e il primo fu il Rettore di allora, che avrebbe dovuto per lo meno tutelarmi in attesa di giudizio. Era il mio legittimo capo».

Tra i suoi grandi accusatori c’era il dottor Daniele Giovanardi, fratello del senatore. Lei gli dedica il capitolo L’ingloriosa fine del “castigatore di costumi”. Perché?

«Da apparente amico (era allora il mio vice Direttore del Dipartimento di Emergenza Urgenza) diventò, perché vicino al presidente degli Amici del Cuore, uno dei miei più grandi accusatori, presente quasi quotidianamente sui giornali locali, per il suo cognome, ad accusarmi di corruzione, di “sottrarre letti agli infartuati per destinarli alle sperimentazioni”. Poi al processo ordinario l’anno scorso smentì tutto, dicendo che erano voci di corridoio».

Chi tra i suoi colleghi l’ha delusa di più e da chi invece ha ricevuto solidarietà?

«Quasi tutti, quando sei in disgrazia, ti abbandonano, ti evitano, ti ignorano. Solidarietà dai pazienti, dai miei ex collaboratori per bene che hanno pagato quanto me, dagli infermieri, dalla gente comune.

Dalle strade di Modena però le hanno gridato “troia” e “assassina”. Oggi com’è il suo rapporto con la città?

Non amo più questa città, che mi diede tanto; ora mi abbracciano e si congratulano con me per l’assoluzione, ma quando scoppiò lo scandalo mi trattarono come una appestata. Sono nata in un paesino di provincia, che invece non mi ha mai voltato le spalle».

Quando nacque la santa alleanza tra media e procure, scrive Paolo Delgado il 9 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il caso Tortora fu anche il vero esperimento pilota di una pratica diventata poi merce comune. I giornali bombardarono quotidianamente i lettori con verbali di interrogatorio, notizie riservate e annunci di nuove presunte scoperte a carico dell'imputato. «La vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra magistrati e giornalisti»: la battuta sarebbe stata folgorante e puntuale comunque. Essendo stata pronunciata da uno che se ne intende, Luciano Violante, diventa proverbiale. Il caso italiano si presenta in effetti come una variante probabilmente unica di degenerazione nel corretto rapporto tra i poteri dello Stato in una società democratica. Se praticamente tutti gli studi moderni accostano ai tre poteri codificati da Montesquieu quello dell’informazione, e non per esempio quello economico, è perché all’informazione spetta, nei sistemi democratici, il compito di sorvegliare sia sull’operato dei singoli poteri sia sulle eventuali invasioni di campo. L’Italia della seconda repubblica è stata segnata, da un lato, da un conflitto inaudito per profondità, dimensione e durata tra il potere politico e quello giudiziario, dall’altro da un massiccio schieramento combattente dell’informazione a sostegno del secondo e contro il primo. Almeno fino al 2011, cioè sino alle dimissioni dell’ultimo governo regolarmente eletto, i media hanno sorvegliato sull’operato pubblico e privato dell’esecutivo e in particolare del suo capo con una attenzione ossessiva e maniacale, non priva di aspetti propriamente persecutori. Ogni tentativo da parte dell’esecutivo o del legislativo di impicciarsi negli affari del potere giudiziario, a volte con intenti invasivi ma in altre occasioni al puro fine di colmare lo squilibrio prodottosi, è stato denunciato, stigmatizzato, ostacolato e in buona parte proprio grazie allo schieramento militante dell’informazione alla fine e debellato. I media hanno invece serrato con altrettante costanza e determinazione occhi e orecchie su qualsiasi sconfinamento del potere giudiziario dai propri limiti istituzionali e dai vincoli di un corretto operare. Il sodalizio dura da tanto che viene quasi spontaneo immaginare che sia così da sempre. Invece no. Per tutta la fase fiorente della prima Repubblica il sistema dell’informazione ha assolto, nel complesso, alla propria funzione di controllo, sorveglianza. C’è un evento preciso che segna la fine della relativa "neutralità" dell’informazione, a metà di quel triennio di solidarietà nazionale che è all’origine di quasi tutti i guasti dei decenni successivi: il sequestro di Aldo Moro. Nel corso dei 55 giorni, per la prima volta, l’informazione scelse in modo quasi unanime non di stare dalla parte dello Stato contro il partito armato, come era ovvio e sacrosanto che fosse, ma di impegnarsi nello scontro anche a costo di violare sistematicamente le proprie stesse regole. Nei giorni del sequestro, l’intero apparato mediatico, con le sole eccezioni del Manifesto, Lotta continua e Radio Radicale, negò l’autenticità delle lettere dal carcere del sequestrato. Non che non fossero di suo pugno, questo era pacifico. Solo che il poveretto era di fatto «impazzito» e nulla di quel che scriveva andava pertanto riconosciuto come realmente frutto del suo pensiero. Non meritava pertanto neppure di essere discusso o preso in considerazione. Da quel momento l’escalation fu rapidissima e impressionante. L’anno dopo, nel quadro dell’inchiesta 7 aprile, furono arrestati, come ideatori del sequestro Moro, i principali leader dell’Autonomia operaia e con loro anche il giornalista dell’Espresso Pino Nicotri, che collaborava anche con Repubblica. Quando le accuse caddero gli inquirenti si limitano a modificarle, ripetendo il gioco a più riprese. La libera stampa non trovò nulla da ridire sull’operazione e restò incrollabilmente a sostegno dell’inchiesta. Nicotri invece, a cui L’Espresso aveva garantito un’ottima difesa, fu invece scarcerato dopo tre mesi. Ad attenderlo fuori dal carcere il giornalista trovò una macchina che, senza neppure passare da casa, lo portò da Eugenio Scalfari. Il direttore lo invitò caldamente a non prendere le difese dei coimputati perché «questa storia del 7 aprile sta molto al di sopra delle nostre teste». Nicotri rifiutò e il suo rapporto con il quotidiano liberal terminò lì una volta per tutte. Un anno dopo, nel dicembre 1980, la preoccupazione di non fare il gioco dei terroristi convincerà i direttori di quasi tutti i giornali a non pubblicare l’appello la cui diffusione era il prezzo chiesto dalle Br per liberare il magistrato rapito Giovanni D’Urso. Lo salveranno i radicali, mettendo a disposizione il loro spazio elettorale in tv per leggere il documento brigatista. Sono solo esempi tra innumerevoli altri. Entrambi i passaggi fondamentali destinati a incidere per decenni sul percorso della storia italiana si compiono negli anni dell’emergenza e in nome dell’emergenza. La magistratura si incarica, con il beneplacito della politica, di supplire al vuoto della politica stessa e di gestire su ogni fronte, incluso quello legislativo, la lotta al terrorismo. L’informazione sigla un patto di ferro con la magistratura inquirente, venendo meno a tutte le sue regole essenziali pur di sostenerla in quella lotta. Una volta finita l’emergenza e uscito di scena il terrorismo, però, sarebbe stato possibile invertire la direzione e indirizzarsi verso un ritorno alla normalità, sia sul fronte dell’equilibrio istituzionale sia su quello di un’informazione meno parziale. Solo che, all’uscita dagli anni di piombo, il potere politico era ancora più debole di quanto non fosse stato negli anni 70 e quello giudiziario, sia pur scontando divisioni al proprio interno, non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla postazione conquistata. Al bivio, la flotta dell’informazione ebbe pochi dubbi e scelse di mantenere intatto lasse con i pm, in nome di una emergenza diventata infinita, nella quale cambiavano solo i connotati del pericolo mortale di turno. È probabile che quella scelta di campo definitiva sia stata fortemente condizionata dal legame che si era creato tra pm e cronisti negli anni roventi del terrorismo, quando i medesimi inquirenti si erano imposti come fonte principale, dunque dotata di un fortissimo potere di ricatto, a cui i giornalisti attingevano e quando si era stabilito un legame tra magistrati e professionisti dell’informazione molto vicino a quel che i togati amano definire sodalizio. Il percorso si delinea con chiarezza nel caso giudiziario più esemplare del decennio 80: l’arresto per camorra del popolarissimo presentatore Enzo Tortora nel 1983. I media, con rarissime eccezioni fecero a gara nell’esaltare gli inquirenti: «Scrupolosi, seri, prudenti e stimati» per Il Giorno, addirittura «esemplari per zelo e disprezzo del rischio» secondo il Corriere della Sera. Per il presentatore, invece, il massacro di immediato. Secondo Il Tempo, «rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto», per Il Messaggero «desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata». La star Camilla Cederna era convinta della colpevolezza soprattutto perché le trasmissioni di Tortora non le erano mai piaciute, e poi perché «se un uomo viene catturato in piena notte è segno che qualcosa di grave ha commesso». Il caso Tortora fu anche il vero esperimento pilota di una pratica diventata poi merce comune. I giornali bombardarono quotidianamente i lettori con verbali di interrogatorio, notizie riservate e annunci di nuove presunte scoperte a carico dell’imputato. Ma se l’esercito dei cronisti, da Novella 2000 al Corrierone suonava la stessa musica, tra i commentatori il quadro era più equilibrato. Cerano parecchie autorevoli penne che avanzavano dubbi sempre più forti sui metodi adottati dai pm: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Walter Vecellio. Non è una circostanza casuale: è proprio in quegli anni 80 che i cronisti iniziano a dipendere sempre più dalle notizie passate dagli stessi inquirenti, dai verbali, dagli interrogatori, dalle intercettazioni. Tra i magistrati inquirenti e i cronisti si cementa così una reciproca dipendenza che sconfina nella complicità. La crepa nella compattezza dello schieramento dell’informazione a sostegno delle toghe si chiuderà solo con tangentopoli. Non solo si ripeterà lì, in forma macroscopica, la stessa campagna di sostegno già dispiegata nel caso Tortora. I media faranno direttamente scudo alla magistratura ogni volta che, nei due anni dell’inchiesta, la politica tenterà di frenarne l’impeto. Dal decreto Conso, fatto ritirare nel marzo 1993 proprio dalla reazione violentissima (e concordata dai principali direttori) delle testate, alla levata di scudi contro il cosiddetto decreto salva-ladri varato dal governo Berlusconi nel luglio 1994, giornalisti e magistrati formarono negli anni di Mani pulite un fronte unico. Tanto da giustificare la decisione dei principali giornali di pubblicare nello stesso giorno editoriali molto simili e palesemente concordati che alludono tutti a una rivoluzione italiana fatta proprio da magistrati e giornalisti. In parte a spiegare la scelta dell’informazione valgono le considerazioni precedenti sulla dipendenza dei giornalisti dalle informazioni concesse dalle toghe, tanto più importante dato l’immenso rilievo mediatico dell’inchiesta. Ma entrarono allora in campo altre considerazioni. L’inchiesta, come ha poi confermato lo stesso Di Pietro, «colpiva duro i politici ma salvava gli imprenditori, considerandoli vittime» invece che co-responsabili a pieno titolo del sistema delle tangenti. Gli editori, che erano poi quegli stessi industriali, avevano tutto l’interesse a difendere un accordo che li metteva al riparo. I direttori e gli editorialisti, pur avendo sempre difeso il sistema dei partiti, speravano che l’inchiesta rendesse il sistema più efficiente, assolvendo le imprese dall’obbligo di trattare con la politica, e di pagarla. La rivoluzione, come è noto, ebbe esito imprevisto, ma il modello definito una volta per tutte allora, poi rinsaldato dall’ascesa di un Berlusconi che i giornalisti e i loro editori hanno sempre tollerato di mala voglia, non è più stato scalfito. Giornalisti e magistrati? Due corporazioni, una sola carriera.

«Noi avvocati di Romeo trattati da camorristi sui giornali dei pm», scrive Errico Novi il 20 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Esposto di tre legali napoletani a Cnf e Camere Penali. Le intercettazioni selvagge e la frenesia del Fatto Quotidiano. I difensori di Alfredo Romeo quell’espressione l’avevano usata: “Cavallo di Troia”. E per questo “siamo stati chiamati mafiosi”, denunciano ora in un esposto a Consiglio nazionale forense e Unione Camere penali. La nota diffusa lo scorso 5 gennaio dai legali napoletani Francesco Carotenuto, Alfredo Sorge e Giovanbattista Vignola e definita “inquietante” dal Fatto quotidiano finisce dunque all’attenzione dei massimi organismi dell’avvocatura. Chiamati dai tre professionisti a intervenire sia contro “gli attacchi” di stampa, sia per la “fuga di notizie” sull’inchiesta che vede indagati anche il ministro dello Sport Luca Lotti e il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette. L’assistito in questione, l’imprenditore casertano che gestisce servizi e manutenzione presso “almeno 200 amministrazioni pubbliche” era stato – avevano sostenuto i tre difensori nella nota del 5 gennaio – “usato strumentalmente per indagare sulla Consip e sulle alte cariche dello Stato”. Volevano spiegare che nell’inchiesta sui servizi di pulizia all’ospedale Cardarelli di Napoli, l’uso delle intercettazioni (fatte anche attraverso i “trojan horse”), era forzato, indebito. A loro giudizio le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa che giustificavano le captazioni erano “insussistenti”. Volevano insomma dire che se i pm della Procura di Napoli non avessero ipotizzato l’accusa di concorso esterno nei confronti di Romeo, non avrebbero intanto potuto intercettare lui, e successivamente neppure gli altri soggetti coinvolti, ministro e comandante compresi. E che, in ultima analisi, il vero “cavallo di Troia” è proprio quel “doppio binario investigativo” che prevede di usare le intercettazioni contro mafiosi e terroristi, ma che, con una semplice esagerazione nell’ipotesi di accusa, consente di fatto alle Procure di intercettare chiunque. Anche “le alte cariche dello Stato”. Gli avvocati volevano dire questo. Inoppugnabile. La loro nota è stata additata come un “pizzino”. E loro dunque come la versione avvocatesca di Binu “U tratturi” Provenzano. Nella frenesia con cui nei primi giorni dell’anno il Fatto quotidiano prima e altri media poi hanno dato notizia dell’indagine su Romeo, Lotti e Del Sette, questa pazzesca accusa agli avvocati si era, per così dire, persa nel mucchio. Ora i tre professionisti dell’Ordine di Napoli la denunciano nell’esposto a Cnf e Ucpi, indirizzato anche al Consiglio dell’Ordine e alla Camera penale partenopee. Il documento, inviato due giorni fa, chiede di intervenire su due fronti. Innanzitutto sugli “attacchi” comparsi nei loro confronti sui giornali. A cominciare dall’aggettivo “inquietante” con cui il Fatto quotidiano ha definito la loro “nota tecnica” e da quel titolo sull’imprenditore che, attraverso i suoi tre legali, “lancia messaggi a Renzi e Lotti”. Interpretazione già terribile trasfigurata poi su Dagospia in un titolo peggiore: “I legali dell’imprenditore mandano un pizzino agli amici degli amici”. Sintesi, che “accusa ancora più chiaramente i sottoscritti avvocati di essere ‘ messaggeri della camorra’ usati per intimidire alte cariche dello Stato”. Inoppugnabile anche questo. L’altro fronte sul quale gli Carotenuto, Sorge e Vignola invocano l’intervento degli organismi forensi è la “fuga di notizie che riguarda questa indagine”. Perché come l’avvocato Sorge ricorda al Dubbio, “la quasi totalità degli atti finiti sui giornali non erano ancora conoscibili per noi difensori, dunque ancora segreti”. Sulla violazione, l’esposto chiede di “sollecitare indagini”. Che magari arriveranno pure. Ma considerate le pene edittali previste, faranno al massimo un po’ di solletico.

Il linciaggio di Virginia Raggi, scrive Piero Sansonetti il 28 gennaio 2017 su "Il Dubbio". L’assalto a Virginia Raggi è vicino al diapason. Nel senso che è diventato una polemica politico- giornalistica “purissima”, molto elevata, priva di argomenti concreti ma condotta con tecniche avanzate. L’assalto a Virginia Raggi è vicino al diapason. Nel senso che è diventato una polemica politico- giornalistica “purissima”, molto elevata, priva di argomenti concreti ma condotta con tecniche avanzate. Dico “purissima” proprio per questo: perché non è inquinata da fatti reali (dei quali nessuno si occupa: tipo le strade a pezzi, i tram che non funzionano, il traffico, i migranti…) ma si fonda semplicemente sulla dilatazione di una iniziativa giudiziaria. Che tristezza questo linciaggio di Virginia Raggi. Da giorni e giorni Tv e giornali dedicano pagine e pagine ( compresa la prima) a spiegarci come e perché in modo truffaldino la sindaca Raggi ha messo un suo uomo ( cioè una persona sulla quale, a occhio, riponeva la sua fiducia) a capo del dipartimento turismo; e poi altre pagine per esaltare l’azione rigorosa della magistratura, che ora vorrebbe o una confessione piena, da parte della Raggi, con accluso atto di pentimento e richiesta di perdono, oppure un processo immediato che – dicono – potrebbe portare anche ad una pena superiore ai tre anni di galera, e dunque senza condizionale. Nel secondo caso la Raggi, se condannata, sarebbe comunque rimossa immediatamente dal suo incarico sulla base della legge Severino (una legga che sospende i diritti costituzionali, precisamente l’articolo 27 sulla presunzione di innocenza, per alcune categorie di cittadini, tra le quali i sindaci e in genere i famigerati “politici”). Nel primo caso (confessione piena e pentimento, come fece anche Bucharin, nel 1930 di fronte al giudice Viscinski) la Raggi si salverebbe dalla legge dello Stato ma non dal codice di Grillo che non ammette dichiarazioni mendaci. Un bell’incastro. Siccome da un paio d’anni Roma si ritrova costretta a rinunciare ai sindaci che ha eletto, per via di iniziative giornalistico- giudiziarie, cerchiamo di capire cosa è successo. La sindaca, eletta con un plebiscito pochi mesi fa, ha nominato il fratello di Marra (quello arrestato perché accusato di corruzione) a occuparsi di turismo, e gli ha concesso, visto l’importanza del nuovo incarico, un aumento di stipendio di circa 800 euro al mese. Quando la Raggi ha nominato il fratello di Marra, il Marra principale non era ancora indiziato di nulla, e lei non è in nessun modo coinvolta con il caso di presunta corruzione di Marra. Quindi, qual è la sua colpa? Quella di essersi scelta un collaboratore. E la sua sfortuna, invece, è quella di essere resa invisa a tutti i grandi giornali, escluso “Il Fatto”, il quale in questa vicenda ha paradossalmente assunto il compito di unico tra i grandi giornali su posizioni garantiste (quant’è crudele e spiritosa, talvolta, la sorte!). C’è però qualche altra considerazione da fare su questo caso. La Raggi – come dicevamo – non è la prima sindaca a rischiare di essere liquidata su ordine della stampa. Al suo predecessore, Ignazio Marino, successe esattamente la stessa cosa. Lo accusarono di avere usato la carta di credito del Comune per andare a pranzo con la moglie. Appostamenti, interviste a vari osti, denunce “coraggiose”. Alla fine Marino fu cacciato via con ignominia. Anche perché si scoprì che talvolta parcheggiava la sua automobile, una vecchia Panda, in divieto di sosta o senza pagare il parcheggio. Si scatenò il putiferio, e persino il partito di Marino capì che quel sindaco era indifendibile. La magistratura, chiamata in causa dai giornali, e poi dai politici che si erano accodati ai giornali, fu costretta a intervenire. Recentemente Ignazio Marino è stato assolto da tutte le accuse, ma ormai non è più sindaco, la sua carriera è stata rovinata, Roma è passata prima nelle mani di un commissario e poi della sindaca Raggi. Diciamo la verità: il linciaggio di Marino e poi della Raggi è una ignominia. Peraltro realizzata da soggetti in parte diversi: i grillintravagli che guidarono la decapitazione di Marino mo’ si trovano a difendere la Raggi in contrasto aperto con i loro alleati di allora 8 e anche, un po’, con i loro principi). Come si spiega questa ignominia? Ci sono due spiegazioni possibili: una triste e una tristissima. La prima è che i giornali agiscano per proprio conto, usando in modo molto allegro il proprio potere, facendosi forti della storica alleanza col partito dei Pm, e senza uno scopo preciso tranne quello di dare soddisfazione all’irresistibile impulso al linciaggio. Questa è l’ipotesi triste. La seconda ipotesi è quella tristissima. Marino e la Raggi hanno qualcosa in comune: piacciono assai pochi ad alcune categorie di imprenditori romani, specialmente gli imprenditori edili, ma non solo loro, che da alcuni decenni (o forse secoli) hanno un enorme potere sulla città e anche sulle giunte che l’hanno governata. Questi imprenditori, da sempre, hanno anche una grande influenza sulla stampa. Magari sono loro ad aver voluto cacciare Marino, e ora la Raggi, nella speranza di ottenere un sindaco più amico? P. S. Dopodiché bisogna dire che la Raggi aiuta molto i suoi nemici. In due modi: generalmente evitando qualunque iniziativa amministrativa, nonostante l’urgenza dei problemi. Ogni tanto prendendo invece delle iniziative che lasciano, quantomeno, stupiti. Ieri ha annunciato con gran fanfara di aver deciso di esentare tutti i reduci dei campi di sterminio che risiedono a Roma dal pagamento del biglietto dell’autobus. Noi non sappiamo quanti siano. Da una stima attendibile non meno di due e non più di otto. Tutti ultranovantenni: sicuri che prendano l’autobus?

Fuga di notizie su Lotti, indagato da pm e Fatto per fuga di notizie, scrive Davide Varì il 24 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Il reato contestato al ministro è grosso modo lo stesso che la redazione del giornale di Travaglio potrebbe aver commesso nel rivelare la notizia. Il nuovo ministro dello Sport e renziano di ferro Luca Lotti sarebbe indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento. Lo ha rivelato – senza che il ministro sapesse ancora nulla, e forse a indagini ancora in corso – il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Insomma, il reato contestato al ministro è grosso modo lo stesso che la redazione del Fatto potrebbe aver commesso nel rivelare la notizia. Cosa piuttosto comune nelle redazioni italiane. Ma andiamo ai fatti. Fatti che, per forza di cose, muovono dall’istruttoria messa in piedi dai cronisti del giornale di Travaglio. Al centro dell’affaire Lotti ci sarebbe la Consip, una Spa del ministero dell’Economia che si occupa di “attività di consulenza, assistenza e supporto nell’ambito degli acquisti di beni e servizi nelle amministrazioni pubbliche”. Tradotto: per Consip passano i bandi più importanti della pubblica amministrazione. Dai servizi di pulizia degli ospedali alle penne delle cancellerie. Un giro d’affari di vari miliardi di euro. Ecco, secondo il Fatto i nomi di Lotti, del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e quello di Emanuele Saltalamacchia, comandante della Legione Toscana dell’Arma, sarebbero rimasti impigliati in una partita di 2,7 miliardi di euro messi a bando proprio da Consip. A tirare in ballo il ministro del “giglio magico” sarebbe stato Luigi Marroni, nominato amministratore delegato di Consip dal governo Renzi. Marroni avrebbe deciso di “cantare” dopo il blitz in Consip da parte dei carabinieri del Noe e della polizia tributaria. E a quanto pare l’ingegnere se l’è cantata subito, come direbbe il Fatto. In meno di 24 ore avrebbe infatti “rivelato” nomi e cognomi dei presunti coinvolti eccellenti. Per farlo cedere sarebbero bastate le allusioni di Henry John Woodcock (pm titolare dell’indagine e noto per l’inchiesta “Vipgate” finita con decine di assoluzioni e archiviazioni) su presunte intercettazioni e foto di pedinamenti che lo riguarderebbero. Le parole di Marroni sono immediatamente arrivate fin sui tavoli della redazione de Il Fatto che ha pubblicato tutto spiegando che il ruolo del ministro Lotti e del generale Saltalamacchia sarebbe stato quello di mettere in guardia il presidente e l’Ad di Consip dalle indagini sul bando milionario. E nel calderone politico- giudiziario è finito magicamente dentro anche Tiziano Renzi. Secondo il Fatto Renzi senior avrebbe una relazione sospetta con un certo signor Carlo Russo, titolare della società che avrebbe bonificato gli uffici di Consip – zeppi di microspie – dopo e grazie alla “presunta” soffiata di Lotti e del generale Saltalamacchia. Insomma, una situazione contorta e basata su indizi e intuizioni tutte da verificare. Da parte sua il ministro Lotti, colui che sapeva tutto dell’indagine su Consip ma che era all’oscuro di quella che lo riguardava, si è precipitato immediatamente a Roma: «Noi non scappiamo dalle indagini: siamo a totale disposizione di ogni chiarimento da parte dell’autorità giudiziaria. La verità è più forte di qualsiasi polemica mediatica e non vedo l’ora di dimostrarlo», ha dichiarato. In attesa di nuove scottanti rivelazioni del Fatto, la palla è passata nelle mani della repubblica di Roma che ha ereditato l’inchiesta per competenza territoriale.

Giornalismo d’inchiesta o giornalismo illegale? Scrive Piero Sansonetti il 13 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Lo “scoop” del Fatto Quotidiano su Luca Lotti: Il quotidiano dice vi aver visionato i verbali, eppure esiste un articolo del codice di procedura penale che proibisce la pubblicazione degli atti almeno fino alla chiusura delle indagini. Ieri il “Fatto Quotidiano” ha realizzato uno scoop. Con il quale ha aperto la prima pagina del giornale. È entrato in possesso dei verbali dell’interrogatorio del ministro Luca Lotti, ascoltato il 27 dicembre da un sostituto procuratore di Roma a proposito del cosiddetto scandalo Consip. E li ha pubblicati. Tra poche righe proviamo a riassumere lo scandalo Consip, intanto poniamo una domanda semplice semplice: cosa vuol dire “entrato in possesso? ”. I verbali della deposizione di Lotti fanno parte di un’inchiesta che è ancora nella sua fase preliminare. Come tutti gli atti di questa inchiesta, i verbali sono sottoposti al segreto d’ufficio. Il “Fatto” ci dice che ha potuto visionare i verbali, e li ha visionati abbastanza bene perché ne ha trascritti interi brani, con frasi testuali. Esiste un articolo del codice di procedura penale (il 114) che proibisce la divulgazione e la pubblicazione degli atti delle inchieste giudiziarie almeno fino alla conclusione delle indagini preliminari. E un articolo del codice penale (il 326) che punisce la violazione del segreto addirittura con il carcere da sei mesi a tre anni. Lo scoop del “Fatto” è la prova provata che questo articolo 114 è stato violato. Al momento non sappiamo da chi, in che modo, in quali circostanze, ma la violazione c’è. Il “Fatto”, nell’articolo che rende conto dello scoop, spiega che l’interrogatorio non è stato secretato, e dunque è pubblico. Non è così. L’interrogatorio non è stato secretato (e qui si parla del segreto investigativo, e cioè all’articolo 329 del codice di procedura) ma il segreto d’ufficio resta comunque, fino alla fine delle indagini preliminari. Ammenoché il Pm (ma non ci sono precedenti significativi) non decida di sospenderlo, con un decreto motivato, per particolari esigenze delle indagini. Circostanza, francamente, da escludere nel caso della deposizione di Lotti. Segreto investigativo e segreto d’ufficio non sono la stessa cosa. Pubblicare il verbale della deposizione di Lotti era e resta una violazione del diritto e della riservatezza e della Costituzione. La seconda serie di domande che vorremmo porre è questa: fare uno scoop di questo genere è giornalismo investigativo, giornalismo d’inchiesta, o è semplicemente giornalismo corsaro? E il giornalismo corsaro è la forma moderna del giornalismo d’inchiesta, o più spesso è semplicemente un metodo di lotta politica, esercitato talvolta per conto proprio talvolta per conto terzi? E se è esercitato per conto terzi, di solito, chi sono questi terzi? Prima di provare a rispondere, forniamo in sintesi la sostanza dello scoop. La procura di Napoli e la Procura di Roma stanno indagando sulla possibilità che alcuni alti ufficiali delle forze armate e alti funzionari dello Stato e lo stesso ministro Lotti abbiano commesso il reato di violazione del segreto d’ufficio, fornendo ad alcuni dirigenti della Consip la notizia che si stava indagando su di loro per il sospetto di un giro di tangenti (La Consip è una società di proprietà del ministero dell’Economia che si occupa di appalti e di spesa pubblica). Il “Fatto Quotidiano” ha ricevuto alla fine di dicembre da ignoti la noti- zia di questa indagine e ha pubblicato i nomi degli indagati. A questo punto al primo reato di fuga di notizie si è aggiunto un secondo reato identico: la fuga di notizie sulla fuga di notizie. Stavolta a mezzo stampa. Il ministro Lotti ha giurato di non sapere niente di tutta questa storia e ha chiesto di essere ascoltato. Un sostituto procuratore di Roma lo ha ascoltato e poi i verbali sono finiti sulle pagine del “Fatto” (e a questo punto i reati sono tre, ai primi due si aggiunge il reato di fuga di notizie su fuga di notizie). Nei prossimi giorni, giurateci, le “fughe” aumenteranno. Non è la prima volta che succede. E certamente non è solo “Il Fatto” ad essere strumento di questi reati (quante volte grandi giornali, come Il “Corriere della Sera” o “Repubblica” hanno pubblicato, ad esempio, fiumi di intercettazioni segrete?). E di sicuro non è l’ultima volta che di fronte all’evidenza di questi reati nessuno indaga. Eppure è certo che qualcuno ha violato il segreto. Chi? E’ così difficile scoprirlo? Va applicato o no l’articolo 326 del codice penale? A queste ultime domande la risposta è semplice: non è difficile scoprirlo ma nessuno indagherà, nessuno lo scoprirà, nessuno sarà sanzionato. Riprendiamo invece le domande di fondo che abbiamo posto un paio di capoversi più sopra e che riguardano il profilo del moderno giornalismo in Italia. Io credo che il giornalismo corsaro basato sulla violazione dei segreti – e dello Stato di diritto – da parte delle autorità che invece hanno il compito di tutelare quei segreti, non sia giornalismo moderno, tantomeno d’inchiesta né investigativo. Sia semplice sottomissione del giornalismo alle Procure, talvolta per guadagnarne i favori, talvolta per interessi commerciali (vendere qualche copia di più). E che il prezzo di questo tipo di giornalismo (e anche di questo modo di svolgere le inchieste con un occhio sempre fisso allo spettacolo e all’informazione) crei dei danni gravissimi al Diritto. Può darsi che io sbagli, ma francamente non riesco a capire dove. Nessuno è mai riuscito a spiegarmi perché violare la legalità con lo scopo di danneggiare degli imputati, e violare quindi i diritti degli imputati, sia un atto di libertà e di democrazia. E non mi pare che da parte del giornalismo italiano ci sia la volontà di discutere queste cose. P. S. L’altro giorno è morta Clare Hollingworth. Aveva 105 anni. Il 29 agosto del 1939 si appostò al confine tra Polonia e Germania e si accorse che i carrarmati tedeschi stavano per invadere e dare il via alla seconda guerra mondiale. Diede la notizia in esclusiva al suo giornale, il Daily Telegraph. Ecco, quello era uno scoop, credo. Senza veline, senza verbali copiati. Voi dite che semplicemente io sono un nostalgico? Forse avete ragione.

Chi calunnia ha sempre ragione, scrive Piero Sansonetti il 14 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Magari vi annoio un po’, però vorrei trascrivere tre o quattro titoloni che qualche mese fa campeggiavano a tutta pagina, in prima, sui principali giornali italiani. Eccoli qui. «La ministra garantiva gli affari del suo uomo». Titolo del Giornale, gigantesco e per di più in caratteri tutti maiuscoli. Chi calunnia un ministro comunque ha ragione…Poi: «Scandalo petroli: via la Guidi per la norma ad fidanzatum», sempre in prima sotto la testata, “Il Fatto Quotidiano”. Simile il titolo di “Libero” e sempre a tutta prima pagina: «Il regalo del governo al fidanzato del ministro». E ancora: «Petrolio e appalti, Guidi si dimette tradita dalle telefonate al fidanzato», questa è “Repubblica”. Il “Corriere” e “La Stampa” molto più sobri, ma comunque col titolo a tutta pagina. L’inchiesta nella quale fu coinvolta la ex ministra era la cosiddetta “Tempa Rossa”. Fu indagato il fidanzato della Guidi, non lei. Ma i magistrati – non vedo chi altro – passarono le carte ai giornali, con tutte le intercettazioni, che non avevano in se nessun elemento contro la Guidi, ma mostravano un quadro dei rapporti tra la ministra e il fidanzato, tesi come spesso sono i rapporti tra fidanzati. Fece epoca la frase, ripresa e amplificata da tutti i giornali, attribuita alla stessa Guidi: “Tu mi tratti come una sguattera guatemalteca”. La Guidi fu costretta alle dimissioni. Non la difese nessuno, nemmeno nel suo partito. La sua carriera politica finì lì. Ora sapete che non solo la Guidi, ma anche il suo fidanzato, sono usciti completamente dalla vicenda. Il Pm ha chiesto l’archiviazione perché non ha trovato traccia di reati: l’uomo descritto come un lestofante (il fidanzato) era una brava persona, la Guidi una bravissima persona e forse era anche brava a fare la ministra. In tutta la vicenda, di reati ce n’era uno solo: la violazione del segreto d’ufficio commessa dai magistrati che passarono le carte ai giornalisti e dai giornalisti che le pubblicarono. Il codice, per questo reato, prevede da sei mesi a tre anni. In questi giorni alcuni giornali hanno pubblicato la notizia dell’archiviazione, poche righe. Nessuno scandalo. Se non fosse stato per un articolo di una certa visibilità pubblicato ieri dal “Corriere della Sera”, la notizia sarebbe del tutto sparita. E comunque, se andate per strada e chiudete a qualcuno della Guidi, ci sono 95 probabilità per cento che non sappia nulla dell’archiviazione e sappia invece della campagna che fu condotta contro di lei. E che alla vostra domanda, risponda: «Una politicante che usava il ministero per far fare affari al suo fidanzato…». I giornali invece credo che non abbiano mai riportato neppure una riga sull’archiviazione delle imputazioni a carico di un certo dottor Incalza, ex altissimo dirigente del ministero delle infrastrutture, e di un certo signor Perotti, imprenditore. Erano stati accusati di varie malversazioni, e i giornali chiesero perciò le dimissioni del ministro Lupi, che non aveva vigilato su Incalza, anche perché pare che Perotti era un amico di famiglia del ministro e pare che avesse regalato un orologio al figlio di Lupi (che a sua volta fu messo in croce). Lupi fu costretto a dimettersi. Perotti e Incalza sono stati del tutto scagionati. Silenzio. Si era dimessa da ministro qualche mese prima, ai tempi del governo Letta, Nunzia De Girolamo. Grillini e giornali fecero i diavoli a quattro per mandarla a casa con ignominia, perché aveva ricevuto un avviso di garanzia. Colpevole! Colpevole! Era ministra dell’agricoltura e la sua carriera era in grande ascesa. La carriera ha preso la discesa. L’archiviazione e il suo pieno proscioglimento sono arrivati l’altro ieri. Nel disinteresse generale. Tre ministri maciullati con le calunnie a voi sembrano una piccola cosa? Non vi pare che si sia ormai consolidato un metodo che di fatto produce la totale delegittimazione della politica, e concede ai Pm e ai giornali il diritto di “asfaltare” chi vogliono (o in malafede o, più spesso, in buonafede) senza nessuna possibilità di difesa per il malcapitato? E dal punto di vista della correttezza dell’informazione, qualcuno saprebbe spiegarmi perché è giornalismo “coraggioso e a schiena dritta” quello che sommerge di contumelie e di pettegolezzi volgari la ministra Guidi, e ritiene di star compiendo la altissima missione di controllare il potere politico; e invece non è giornalismo affatto ( nel senso che non se ne vede l’ombra) quello che, accertata la “bufala”, non solo si applica per riabilitare la vittima, ma chiede conto a chi l’ha linciata dell’ingiusto linciaggio? Ve lo dico io perché: perché i giornali, per comportarsi così, dovrebbero accusare se stessi. E non possono farlo. Trovano molto più comodo fingere che il “Palazzo” da controllare sia quello della Guidi o di Lupi o della de Girolamo, e in questo modo può accucciarsi con la coscienza tranquilla ai piedi dei Pm e del giornalismo forcaiolo. Cioè del Potere, del potere vero.

STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.

I fatti non contano più: è l’epoca della “post verità”. L’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno “post truth”. La gente è più influenzabile dalle emozioni che dalla realtà. Anche la battaglia tra Trump e Clinton ha vissuto di «post truth», scrive il 17/11/2016 Gianni Riotta su “La Stampa”. Una delle più struggenti storie della storica campagna elettorale americana del 2016 resta la profezia del musicista Kurt Cobain, nel 1993, un anno prima di suicidarsi: «Alla fine la mia generazione sorprenderà tutti. Sappiamo che i due partiti giocano insieme al centro e, quando matureremo, eleggeremo finalmente un uomo libero. Non sarei per nulla sorpreso se fosse un uomo d’affari, incorruttibile, che si dia davvero da fare per la gente. Un tipo alla Donald Trump, e non datemi del pazzo…». Peccato che la citazione del leader dei Nirvana, che ha fatto il giro dei social media, Twitter, Facebook, Google, sia inventata, forse in Russia, forse in America, da trolls che inquinano di menzogne i paesi democratici. Bene ha fatto dunque ieri l’Oxford Dictionary a dichiarare «Parola dell’anno 2016», «Post truth» la post verità, diffidenza per le opinioni diffuse e credulità per bugie condivise da siti a noi cari. La battaglia Trump-Clinton ha vissuto di post verità, dall’attore Denzel Washington paladino di Trump, alla bambina di 12 anni che accusa il neo presidente di stupro. Falsità che milioni di cittadini amano tuttavia credere. Aristotele aveva legato «verità» e «realtà», facendo dire secoli dopo al logico Alfred Tarski che «La frase “La neve è bianca” è vera se, e solo se, la neve è bianca». Questa è nozione di verità che impariamo da bambini, ma la crisi dell’autorità nel secondo Novecento, mettendo in discussione politica, famiglia, tradizioni, cultura, religione, ha frantumato la fede nel nesso Verità-Realtà, dapprima con un salutare moto critico, poi sprofondando nel nichilismo. Il filosofo Carlo Sini sintetizza la sindrome con una battuta macabra «La verità è la tomba dei filosofi…la Signora è decisamente invecchiata». Quando l’insegnamento del filosofo Derrida si diffonde ovunque, la «signora Verità» si consuma in bolsa «narrativa», che ciascuno piega a suo gusto. Ma i filosofi, non è purtroppo la prima volta, non avevano previsto che quando la mattanza della verità lascia le sofisticate torri accademiche per investire il web, le «menzogne», o false notizie, avrebbero impestato, come un’epidemia, il dibattito. Già nel 2014 il World Economic Forum denunciava i falsi online «uno dei pericoli del nostro tempo», studiosi come Farida Vis e Walter Quattrociocchi catalogavano casi gravi di menzogne diventate «vere», ma intanto il virus della bugia veniva militarizzato da stati e nuclei terroristici. Oggi il presidente cinese Xi Jinping, in un messaggio alla Conferenza internazionale sul web di Wuzhen, ricorda la necessità del controllo statale sulla rete, contro i falsi: medicina drastica da società autoritarie, non da democrazia. Così da Mosca Putin scatena seminatori di zizzania digitale, da un laboratorio di San Pietroburgo, 50 di via Savushkina, e giovani macedoni spacciano falsi online in America, mano d’opera a basso costo. Secondo le rivelazioni su «La Stampa» di ieri, a firma Jacopo Iacoboni, metodi di post verità politica sarebbero in uso anche tra i 5 Stelle, e del resto al fondatore Casaleggio veniva fatto dire «Ciò che è virale è vero», massima forse apocrifa ma calzante. Ciascuno di noi crede ai propri «fatti», su vaccini, calcio, clima, politica, e l’algoritmo dei social ci respinge tra i nostri simili. Ora il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, cerca di difendersi assicurando che «il 99% di quello che gira da noi è vero, il falso solo l’1%» e dichiara di non volersi fare lui «arbitro del vero». Purtroppo l’ex collaboratore Garcia Martinez lo smentisce dicendo che i funzionari provano a vendere pubblicità politica agendo giusto da «arbitri del vero». Quel 99 a 1 che a Zuckerberg sembra innocuo è letale, perché non sappiamo «dove» si nasconda, e quindi finiamo con il dubitare dell’insieme. «Ex falso sequitur quodlibet», dal falso deriva ogni cosa in modo indifferente: la massima medievale anticipa l’era della post verità, un solo 1% di falso basta a rendere incredibile il 99% di vero. 

Grillo: "Vero o falso? Un tribunale del popolo per giudicare Tg e giornali". Il leader del Movimento 5 Stelle auspica una giuria scelta a sorte che decida se le notizie date sono false o vere. I colpevoli "a capo chino", scrive il 3 gennaio 2017 Panorama. Altro che post-verità. Non c'è pace nemmeno per la verità. Perlomeno quella nella quale dovremmo essere "giustificati" a credere. Ovviamente non si tratta, del tormento filosofico. È Beppe Grillo che tuona e vorrebbe un tribunale del popolo per smascherare i giornalisti che a suo dire scrivono e dicono frottole. Nei giorni scorsi aveva tuonato contro l'idea di autorità terze cui appellarsi per provare, a pubblicazione avvenuta, che una certa notizia o ricostruzione di evento fossero palesemente false, come aveva proposto il presidente dell'Antitrust italiana, Giovanni Pitruzzella. Martedì invece è passato all'attacco alzo zero contro i suoi principali nemici, i giornalisti. Scrive Grillo sul suo blog - in un post dal titolo decisamente facile da capire: "Una giuria popolare per le balle dei media": "I giornali e i tg sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa." Ovviamente sono arrivate numerose risposte a questa singolare proposta del comico/politico.

Enrico Mentana querela Beppe Grillo: "Il mio Tg non fabbrica notizie false. Ne risponderà in sede civile e penale".

L'Ordine nazionale dei giornalisti ha scritto che, "Beppe Grillo dalle colonne del suo blog ha sferrato l'ennesimo attacco alla libertà di stampa avanzando una proposta grave e sconcertante". L'Ordine ricorda che "esiste già un ordinamento che tutela chi si ritiene danneggiato dagli organi di informazione". Infatti, dice ancora l'OdG che "giace in quarta lettura dal 23 giugno 2015 in Senato la nuova legge sulla diffamazione. Sarebbe molto più costruttivo se Beppe Grillo esortasse i propri parlamentari a far sì che questa legge venisse approvata in tempi brevi abrogando il carcere per i giornalisti e ponendo un freno alle cosiddette querele temerarie. L'unico Tribunale riconosciuto dall'OdG è quello dell'ordinamento giudiziario ferma restando la singola responsabilità dei giornalisti che non rispettano le regole deontologiche e che vengono sanzionati dai Consigli di Disciplina. Tali strumenti sono di per sé idonei ad assicurare il diritto dei cittadini a essere informati correttamente". L'Ordine invita il leader dell'M5S "a riflettere sul clima e sulle conseguenze che le sue parole possono determinare e sottolinea l'invito rivolto agli italiani nel discorso di fine anno dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Secondo il Capo dello Stato l'odio come strumento di lotta politica è nemico della convivenza e crea «una società divisa, rissosa e in preda al risentimento» che «smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza»".

Filippo Facci il 5 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”: le post querele. Fate disinformazione; vi querelo; no, ma parlavamo degli altri; non vi querelo più. Alzi la mano chi non ha trovato imbarazzante tutto il teatrino tra Grillo e Mentana: il primo che spara le solite cazzate sui giornalisti e usa come sfondo un collage di testate rubato a tv.blog, il secondo che allora fa un casino in diretta perché nel collage c' è anche lui (La7) e annuncia querela; il primo che allora fa una rettifica penosa e dice che Mentana (solo lui) è diverso e fa informazione rispettosa della verità, il secondo che allora ritira la querela e scrive un papiro su Facebook perché si è accorto che intanto gli webeti grillini lo stanno infamando lo stesso. Siamo al post-nulla a somma zero, ne sentivamo tutti un drammatico bisogno: Mentana ha la sindrome da primo della classe e lo sapevamo, ma Grillo ha la dignità di un coniglio e state certi che se a querelarlo fossero stati in due anche le rettifiche sarebbero state due. Grillo ha paura delle querele? Probabile: perché è tirchio e perché ha già beccato delle condanne. Mentana teme di perdere pubblico grillino? Improbabile: chi disprezza compra, e comunque il suo tg resta il migliore. Per i feticisti: nel collage di testate utilizzato da Grillo manca Il Messaggero (un caso) e il Fatto Quotidiano (meno un caso). Però tra i disinformatori compare TuttoSport: serve una giuria popolare per la Juve.

Colleghi giornalisti, siamo vittime o carnefici? Scrive Tiziana Maiolo il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ora non facciamo le verginelle, noi giornalisti, per favore. Gestiamo un potere di vita e di morte sui cittadini, secondo solo a quello dei magistrati. I quali peraltro sono più che soddisfatti quando hanno la nostra complicità ma anche il nostro incitamento, come sta accadendo in questi giorni con l’istigazione palese a che qualcuno si sbrighi a inviare un’informazione di garanzia al sindaco di Roma Virginia Raggi. Non possiamo dirci vittime, neppure quando capita, come in questi giorni, che un importante leader politico quale Beppe Grillo, ci accusi di essere manipolatori e dispensatori di notizie false. Non è forse vero? Non interessa il fatto che lui stesso con questa dichiarazione cerchi a sua volta di manipolare l’opinione pubblica (e ci riuscirà, perché la nostra categoria non è molto amata), quel che conta è avere il coraggio di superare la debolezza del corporativismo per ritrovare la forza di guardarci allo specchio e fronteggiare ad armi pari l’interlocutore politico. Né vittime né carnefici. Cerchiamo prima di tutto di non trasformare in vittima il “carnefice” Grillo, come fu fatto con Berlusconi per il reato di “editto”, mentre fu salvato Renzi, che pure cacciò dalla direzione del Tg3 una brava giornalista come Bianca Berlinguer, la “strega” che non gli baciava l’anello. Cerchiamo di guardare con occhio autocritico tutti i nostri editti e le nostre manipolazioni. Piero Sansonetti ha spiegato molto bene quel che succedeva nelle redazioni dei tre principali quotidiani italiani e in quello che era organo del Pci nei primi anni novanta quando, in piena Tangentopoli, gli imprenditori (compresi quelli che erano anche editori) cercavano in ogni modo di evitare la galera e i quattro direttori concordavano l’uscita collettiva del giorno dopo. E intanto, mentre Romiti e De Benedetti salvavano i polsi dalla seccatura delle manette, cadeva la Prima Repubblica. Siamo così sicuri che a vent’anni di distanza, noi siamo diventati più virtuosi? Sappiamo bene che quando inizia una campagna stampa nei confronti di qualcuno, quel qualcuno finirà, volente o nolente, per doversi dimettere. L’abbiamo visto accadere a Roma nei confronti dell’ex sindaco Marino, crocifisso per una questione di scontrini, e contro l’ex ministro Lupi (mai colpito da alcun provvedimento giudiziario) per un orologio regalato al figlio da un amico di famiglia. Questo significa una cosa sola: non solo che la stampa italiana è libera, ma anche che è in grado di modificare la realtà, quindi che è potente. E allora non si può prima dire che occorre colpire le bufale dei social (la violenza verbale sì, invece) e poi offendersi se Grillo ci dice che anche noi ogni tanto le spariamo grosse, e che vuol fare il “tribunale del popolo” neanche fosse il capo delle Brigate rosse. Impariamo prima noi a rispettare gli altri, tutti. Beppe Giulietti, presidente della Federazione della stampa, nell’intervista al nostro giornale invita Grillo a sollecitare i suoi parlamentari perché facciano approvare due proposte di legge giacenti in Parlamento: una contro il carcere per i giornalisti, l’altra contro la “querela temeraria”, cioè pretestuosa e finalizzata a tappare la bocca al giornalista scomodo. Bene, questa seconda è argomento molto scivoloso e Giulietti, che è stato in Parlamento quindi è anche un politico di professione, sa bene che quando un quotidiano (o anche un singolo giornalista) ti prende di mira, ne puoi uscire solo attraverso la querela, l’unica forma di autodifesa possibile. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, con un’accorata pubblica dichiarazione di difesa della propria correttezza professionale, ha annunciato di querelarsi nei confronti di Beppe Grillo. Poi pare abbia cambiato idea. Ma è proprio sicuro di essere lui, in rappresentanza della categoria, la vera vittima e non, talvolta il “carnefice”? 

Siti responsabili per commenti degli utenti, lo dice la Cassazione, scrive il 3 gennaio 2017 "Adnkronos.com". Chi gestisce un sito web è responsabile dei commenti di utenti e lettori, anche quelli che postano in forma anonima. Lo stabilisce la sentenza 54946 della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso presentato dal gestore del sito agenziacalcio.it. Sulla community del sito, un utente ha pubblicato un commento relativo al presidente della Figc, Carlo Tavecchio: il numero 1 della federcalcio è stato definito nella circostanza “emerito farabutto” e “pregiudicato doc”. Al commento, come si legge nella sentenza, “l’utente allegava il certificato penale”. Il gestore del sito è assolto in primo grado e condannato in secondo. La Cassazione ha confermato la sentenza che prevede il pagamento di 60mila euro al presidente della Figc, per “concorso in diffamazione”. 

Altro che giuria popolare M5S. La Cassazione inguaia i siti. Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese, scrive Daniela Missaglia, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese. Il 2016 si chiude infatti con una discutibilissima sentenza della Corte di Cassazione che, contravvenendo ogni principio di logica e diritto, persino quelli stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, introduce una responsabilità in concorso del gestore di siti internet nei quali un forumer non anonimo iscriva commenti ritenuti diffamatori. Questo è quello che la Suprema Corte ci sta dicendo: se sul sito di questo giornale o in qualsiasi altro sito aperto ai commenti, un lettore (pur identificato con nome e cognome e regolare registrazione) dovesse esprimere feroci censure ad una notizia di cronaca politica, dipingendo come un farabutto questo o quell'onorevole, la responsabilità penale non sarebbe solo quella personale del commentatore fumino, ma anche del gestore o amministratore del sito che si buscherebbe un bel concorso in diffamazione. È bastato che un lettore chiamasse «farabutto emerito» e «pregiudicato doc» il presidente della Figc ad oscurare il sito su cui il post incriminato era stato vergato elettronicamente, con avvio dell'azione penale verso i gestori (e 60mila euro di condanna risarcitoria). Fermo il rispetto a Giancarlo Tavecchio ed al suo sacrosanto diritto di difendere la propria onorabilità nei confronti di chi lo diffami, con questa logica perversa (non a caso esclusa dal Tribunale di prime cure) stiamo condannando alla chiusura forum, chat pubbliche, piattaforme e siti che ammettono il coinvolgimento degli utenti attraverso i commenti. Pensare che la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva bacchettato, nel febbraio 2016, gli Stati dell'Unione che condannavano i gestori dei siti per effetto di commenti di utenti anonimi o non identificabili: questo perché, spiegavano i magistrati di Strasburgo, così si finiva per ledere la libertà d'espressione che è un diritto fondamentale dell'umanità. Chi, dopo la sentenza in commento del supremo organo giurisdizionale nostrano, avrà il coraggio di gestire un sito e ammettere i commenti dei lettori? Si fa un gran parlare di post-verità, di Beppe Grillo e giurie popolari per smascherare i media, dell'ira del divin Mentana contro il leader pentastellato e poi questa sentenza scivola in un trafiletto delle pagine interne. A questa stregua Laura Boldrini o Matteo Renzi potrebbero, da soli, far chiudere l'80% dei siti italiani ma bisognerebbe costruire un super-carcere apposito per ospitare tutti gli amministratori. Per non parlare di quanto è stato scritto negli anni su Silvio Berlusconi e qualsiasi altro personaggio della politica, sport, finanza, tv o carta stampata che, per la sua visibilità e notorietà, automaticamente ha risentito di critiche, anche ben oltre il lecito. Siamo ad un bivio: la Cassazione dipinge lo scenario futuristico di un mondo di repressione verbale, la Corte europea fornisce invece una visione più garantista e rassicurante, identificando come personale la responsabilità penale, a tutela di un diritto fondamentale, il diritto alla libertà d'espressione. Questa volta mi sento di propendere per la visione europea, una volta tanto più avveduta dei manicheismi patri.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto in questi giorni si è discusso del ruolo di Facebook e di Twitter nella campagna elettorale che ha visto trionfare il candidato repubblicano Donald Trump, accusato di aver adottato una strategia in rete particolarmente aggressiva. Sul banco degli imputati, in queste ore, soprattutto, gli hoax, le bufale, e le notizie false, messe in circolazione ad arte per influenzare l’opinione pubblica e orientare il dibattito. Un esempio di questa strategia manipolatoria— che i colossi della Silicon Valley stanno tentando di contrastare — è un post diffuso nei giorni scorsi che ha per oggetto Denzel Washington. Come riferisce la Bbc, l’attore americano è stato trasformato, suo malgrado, in un supporter del presidente eletto Trump. «Lo ringrazio, abbiamo bisogno di più posti di lavoro. E lui è uno che assunto più impiegati di chiunque altro nel mondo», sono le parole attribuite al protagonista di «Philadelphia», di «Malcom X» e di tanti altri film, bandiera dell’America liberale e democratica. A diffondere su Facebook questa notizia falsa è stata American news, sito specializzato in propaganda di destra che ha più di 5 milioni di fan su Facebook. Impossibile capire chi ci sia dietro, in quanto gli articoli non sono firmati e non esiste un colophon della redazione. Ma la tecnica è quella usata da molti movimenti populisti in tutto il mondo (Movimento Cinque Stelle compreso): si tratta di clickbaiting (condivisione di contenuti spazzatura con espressioni del tipo: «non avete idea di quello che ha detto tizio e caio» per invogliare a cliccare il link) mischiato a temi che generalmente colpiscono l’opinione pubblica e gli spettatori (le tasse, i soldi, i divi di Hollywood, le soubrette, ecc). Il risultato è propaganda veicolata sulle piattaforme più utilizzate (Facebook conta 1,7 miliardi di utenti) a costo praticamente zero per chi la produce. Tornando al caso specifico, Denzel Washington ha negato categoricamente di aver in alcun modo espresso il proprio sostegno al presidente eletto. «Si tratta di una notizia totalmente falsa», ha spiegato l’agente di Washington alla Bbc. Ma American News è andata avanti imperterrita. «Mentre il resto della Hollywood liberale demonizza Trump, Denzel Washington ha parlato in favore del presidente eletto. Ecco come», hanno ribadito su Facebook riproponendo il link all’articolo. Il post è stato successivamente rimosso. Ma prima di finire nel cestino della spazzatura di Menlo Park, come dimostra lo screenshot della Bbc, è stato condiviso ben 22 mila volte. In tanti, dunque, hanno creduto alla bufala, come dimostrano i commenti postati sotto l’articolo. «È sempre stato il mio attore preferito, ora lo è ancora di più grazie Denzel!», ha scritto un utente. «Dobbiamo rimanere uniti, le sue parole sono un bell’esempio», ha sottolineato qualcun altro. E così via. Alla faccia della verità.

Denzel Washington contro i giornalisti, attacca l’informazione di massa moderna. What is the long-term effect of too much information? One of the effects is the need to be first, not even to be true anymore. So what a responsibility you all [in the media] have… to tell the truth, not just to be first, but to tell the truth. We live in a society now where it’s just first. “Who cares?” [the media seems to say,] “Get it out there. We don’t care who it hurts. We don’t care who we destroy. We don’t care if it’s true. Just say it, sell it.”

Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.

Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni!

I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

Vietato criticare Woodcock: il pm cita in giudizio la Chirico. La giornalista ed editorialista del «Giornale» Annalisa Chirico (nella foto), che per un'intervista e un libro sull'abuso della custodia cautelare in Italia («Condannati preventivi», ed. Rubbettino) finisce davanti al giudice, scrive "Il Giornale" Venerdì 6/01/2017. Blin-blin? Suonano alla porta, è l'appuntato dei Carabinieri che deve procedere col «rito della consegna» (della citazione in giudizio). Il pericoloso soggetto destinatario del provvedimento è la giornalista ed editorialista del «Giornale» Annalisa Chirico (nella foto), che per un'intervista e un libro sull'abuso della custodia cautelare in Italia («Condannati preventivi», ed. Rubbettino) finisce davanti al giudice. Il presunto reato? Aver procurato «una grande sofferenza morale» e «gravissime ricadute nella sfera personale, famigliare e professionale», quantificabili in 180mila euro di risarcimento, al pm della Procura di Napoli, Henry John Woodcock, titolare di celeberrime inchieste sul malaffare politico, non tutte impeccabili. Il pamphlet della Chirico si permette di criticare un'inchiesta di Woodcock, il risultato è che il libro «finisce all'indice in tre fascicoli: Napoli, Roma (giudizio civile) e Lamezia Terme (penale per diffamazione). Bingo» racconta la giornalista sul «Foglio» ricostruendo il caso. La libertà di stampa in Italia c'è, «ma ci sono tante cose di cui non si può parlare, se sfidi il divieto diventi un bersaglio». La magistratura italiana è una di queste, certe Procure più suscettibili di altre. Il rischio è l'autocensura, per timore di rappresaglie. Come capita alla Chirico dovendo scrivere del carcere per sbaglio di Vittorio Emanuele di Savoia, inchiesta Woodcock. Ma poi: «Chissenefrega, scrivo, sono libera».

Giornalisti in carcere: i precedenti. Da Guareschi a Surace, da Sparagno a Venezia, passando per Guarino e per Jannuzzi (che finì solo ai domiciliari). Ecco i precedenti, scrive Luca Romano, Mercoledì 26/09/2012, su "Il Giornale". Di casi di giornalisti in carcere per diffamazione ce ne sono stati davvero pochi. C'è quello famoso di Giovannino Guareschi, che scontò 409 giorni dietro le sbarre dopo essere stato condannato nel 1954 a un anno di carcere per aver diffamato a mezzo stampa sul settimanale Candido Alcide De Gasperi (a ciò si aggiunsero gli otto mesi che il tribunale gli aveva comminato nel 1951, sempre per lo stesso reato, per aver pubblicato sul Candido, di cui era direttore responsabile, una vignetta di Carlo Manzoni che prendeva bonariamente in giro il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi). Dopo Guareschi, c'è stato il caso di Lino Jannuzzi che però finì agli arresti domiciliari prima di ricevere la grazia dal capo dello Stato. Tra gli altri colleghi dietro le sbarre ci sono poi Stefano Surace (direttore della rivista "Le Ore" e di "Az", inviato speciale di "Abc), che finì dentro all'età di 70 anni dopo aver subito due condanne inflitte in contumacia perché lui si trovava in Francia, e Gianluigi Guarino (direttore del Corriere di Caserta) arrestato per un cumulo di pene riguardanti l'omesso controllo di alcuni articoli ritenuti diffamatori e condannato alla pena complessiva di tre anni e un mese di reclusione (pena ridotta a un anno e due mesi). Infine ci sono i casi di Vincenzo Sparagna e Calogero Venezia della rivista satirica del Male e condannati e finiti in carcere per delle vignette. 

Ordine italiano dei giornalisti. Riprendono, stavolta contro Feltri, i "safari al giornalista scomodo", scrive "Abcnews.free.fr". Dopo l'esemplare lezione ricevuta ad opera di Stefano Surace e della magistratura superiore (Corte di appello di Napoli e Corte di Cassazione) certi superstiti personaggi dell'Ordine ci riprovano, stavolta con Vittorio Feltri. Non poco scalpore ha suscitato il fatto che l'Ordine dei giornalisti di Milano abbia emesso un provvedimento "disciplinare" di radiazione nei confronti di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano "Libero" e già direttore di varie importanti testate... Nonché giornalista non poco "scomodo" per per la sua "ingovernabilità", che fra l'altro lo aveva fatto passare da una direzione di giornale all'altra ogni volta che la sua indipendenza di giudizio gli sembrasse in qualche modo limitata, o che la linea editoriale fosse cambiata. A seguito di questa radiazione Feltri si trova, di punto in bianco, a non poter fare il giornalista. Né più né meno...Motivo ufficiale addotto dall'Ordine della Lombardia, presieduto da Franco Abruzzo: la pubblicazione su "Libero", nel quadro dello scandalo dei pedofili, di alcune foto "proibite" tratte da materiale che era già stato diffuso dalla televisione di Stato. Solo che il responsabile di quella diffusione televisiva, Lener, non è stato radiato, mentre Feltri sì...Benché fosse infinitamente più grave far apparire quel materiale alla televisione - che entra tranquillamente in tutte le case, alla portata dei minori - che pubblicarne delle foto su un quotidiano letto praticamente solo da adulti. Vero che Lener è ben lontano dall'essere "scomodo" come Feltri...Di quì la sensazione, subito diffusasi, che quelle foto su "Libero" c'entrino come i cavoli a merenda, e siano state solo la sospirata occasione per colpire un giornalista che dà "fastidio". Eppure dopo la dura sentenza emessa a carico dell'Ordine dei giornalisti dalla magistratura superiore (Corte d'Appello di Napoli e poi Corte di Cassazione) a seguito dell'ormai celebre ricorso di Stefano Surace, sembrava che certi personaggi fossero stati da tempo allontanati dai suoi vertici. Quei personaggi, per intenderci, che agivano in singolare assonanza coi "safari al giornalista scomodo" che periodicamente venivano lanciati da certi ambienti. Come si ricorderà infatti l'Ordine aveva avuto la buona idea di radiare Surace - l'intellettuale italo-francese e maestro di arti marziali che più scomodo non si può con quelle sue inchieste, polemiche e campagne di stampa che durano da cinquant'anni - non solo non dandogli alcuna possibilità di difesa ma, come risultò, senza neanche dirne le ragioni (era difficile trovarne). Fra l'altro quella radiazione ebbe affetti micidiali sulla libertà di stampa in Italia: da quel momento i giornalisti italiani si sentirono sotto la minaccia costante di essere radiati dall'Ordine di punto in bianco, senza potersi praticamente difendere, se andavano a ficcare il naso negli affari non troppo confessabili di certi ambienti politici ed economici. Se era stato possibile radiare in quel modo un tipo agguerrito come Surace, figurarsi per gli altri...Fu così che quella di giornalista divenne di colpo, in Italia, la professione meno garantita del mondo. Mentre avrebbe dovuto godere di particolari garanzie, essendo uno degli elementi fondamentali per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. Con una tale spada di Damocle sulla testa, i giornalisti non trovarono di meglio che attendere tempi migliori per occuparsi di certi argomenti... Sicché gli abusi e gli intrallazzi di quegli ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono finalmente dilagare indisturbati. Per rendersi conto di a che punto era giunta la situazione, basti pensare che due giudici di Treviso, Labozzetta e Napolitano, avevano incriminato ufficialmente parecchi personaggi molto "in alto", fra cui il comandante in capo della guardia di finanza e il suo braccio destro, nel quadro di quello che poi divenne il famoso "scandalo dei petroli in Italia". Ebbene, i corrispondenti da quella città delle agenzie e di diversi quotidiani avevano inviato regolarmente, alle loro redazioni centrali, numerosi articoli sull'argomento. Ne avevano inviati per un anno, ma nessuno era stato pubblicato... Così, se l'opinione pubblica poté apprendere la faccenda fu proprio grazie al solito Surace, che nel frattempo si era spostato a Parigi. Da lì in effetti accusò certi magistrati di Monza di coprire quel traffico, dopodiché costoro (il presidente di quel tribunale, il procuratore capo e un suo sostituto) furono incriminati dalla stessa magistratura, e lo scandalo scoppiò col clamore che si sa. Per di più, in seguito la Corte d'Appello di Napoli (presieduta da un insigne magistrato, Vincenzo Schiano di Colella Lavina, con relatore Carlo Aponte, consigliere Francesco d'Alessandro; integrata - come prevede la legge in questi casi - da due giornalisti, Lino Zaccaria e Francesco Maria Cervelli) stabilì che la radiazione del Surace era stata non solo errata, ma addirittura illecita (per cui l'Ordine deve anche risarcirlo) e l'annullò d'autorità, evocando fra l'altro "gli obiettivi altamente sociali perseguiti dal Surace nella sua attività, le sue campagne di stampa, i riconoscimenti ottenuti". Inoltre, accertò che era stata decisa senza dare all'accusato alcuna possibilità di difesa e costatò (riportiamo testualmente dalla sentenza) "la mancanza di qualsiasi specificazione dei fatti che si imputavano al Surace". Surace era stato dunque radiato dall'Ordine senza che neanche si dicesse perchè...Questa "storica" decisione della Corte d'Appello (poi confermata dalla Cassazione) fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. Il presidente dell'Ordine all'epoca, Saverio Barbati, non si vide rinnovato l'incarico che ricopriva da anni. Surace l'aveva poco prima esortato, in un'intervista, "a darsi alla pastorizia, che ha molto bisogno di braccia". I membri del Consiglio dell'Ordine che avevano deciso quella radiazione si videro bollati sulla stampa come "sicari sfortunati", mentre Surace veniva definito fra l'altro "un grande eroe civile, un maître à penser, e à agir, non violento ma micidiale quando si tratta di difendere la verità, la giustizia e i diritti umani". Si verificarono perfino fenomeni di rigetto come l'iniziativa, in sede politica, di promuovere un referendum per l'abolizione dell'Ordine, visto ormai da molti come una minaccia per la libertà di stampa e dunque per una corretta democrazia. E in ogni caso nella categoria dei giornalisti sorse una larga esigenza di riforma profonda di questo organismo. L'Associazione napoletana della stampa si congratulò con Surace con lettera ufficiale. Nei vertici dell'Ordine si fece una buona pulizia di quei personaggi che ne avevano tanto malmenato l'immagine, con la loro bella idea di andare a prendersela con Surace...A questo punto i giornalisti italiani - sentendosi finalmente liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere che avevano sentito pendere costantemente sulle loro teste dopo la radiazione di Surace - si affrettarono a recuperare normalmente la propria funzione, così essenziale in democrazia. E gli effetti non tardarono a farsi sentire. Certi magistrati della Procura di Milano, indagando su un certo Chiesa per una faccenda abbastanza banale di distrazione di fondi, si trovarono davanti un uomo che, sentendosi abbandonato dagli "amici" vuotò il sacco rivelando una serie di intrallazzi ben più pesanti. Quei magistrati si trovarono così in mano una serie di quegli abusi che avevano potuto prosperare e proliferare indisturbati grazie anche alla specie di terrorismo cui erano sentiti sottoposti i giornalisti italiani. E si misero a indagare anche su queste storie. Se ciò si fosse verificato durante il precedente periodo di bavaglio alla stampa, quei magistrati avrebbero trovato ostacoli pressoché insormontabili alla loro azione, come accaduto tante altre volte. In questo nuovo clima invece gli articoli inviati sull'argomento dai vari corrispondenti da Milano alle loro sedi centrali furono pubblicati, e come. L'intera stampa italiana, ben lieta di rifarsi degli anni di bavaglio, si occupò massicciamente dell'azione di quei magistrati, che battezzò "operazione mani pulite" contro "Tangentopoli" trascinando il pubblico che si schierò dunque nettamente anch'esso a favore del "pool di mani pulite". Cosicché buona parte della classe politica italiana, diventata ormai corrotta fino alle midolla, si trovò spazzata via da un momento all'altro. L'azione di quei magistrati ebbe vasta risonanza in tutto il mondo, tanto che le giustizie di vari paesi ne seguirono l'esempio. Fra l'altro in Francia certi magistrati se ne ispirarono, e venne fuori che una serie di personaggi che ricoprivano le più alte cariche dello Stato (compreso l'ex presidente della repubblica François Mitterrand) erano immersi fino al collo in scandali semplicemente colossali... Con grande stupore dell'opinione pubblica francese che, non avendo l'abitudine a cose del genere, aveva tranquillamente avuto fiducia in quegli uomini e nelle istituzioni che rappresentavano. Certo, nella sua azione il "pool" di Milano fece anche degli errori, tuttavia abbastanza comprensibili: con la valanga di casi che erano venuti fuori, non era sempre facile distinguere subito il grano dal loglio. Ci furono poi anche, puntualmente, strumentalizzazioni politiche. C'è sempre chi è pronto ad approfittare di certi eventi per trarne vantaggi. Vennero così a trovarsi paradossalmente l'uno contro l'altro personaggi di rilievo che in realtà avevano lo stesso scopo: far sì che lo Stato italiano diventasse un pò più pulito e giusto. Comunque, sembrava che la minaccia che certi personaggi dell'Ordine avevano fatto pendere sui giornalisti italiani appartenesse ormai a un deplorevole passato. Invece, in realtà, non tutti quei personaggi erano stati eliminati dai vertici: alcuni superstiti, che a suo tempo avevano avuto cura di tirare il sasso ma nascondere la mano, erano ancora lì. Ed ecco che ci hanno riprovato. Stavolta con Feltri. Che è comunque ricorso all'Ordine nazionale dove dovrebbe respirarsi, oggi, aria migliore che in passato. Affare da seguire.

Com'è stato "ucciso" Craxi, scrive "Abcnews.free.fr" (Da "Sicilia Sera"). La morte di Bettino Craxi ha messo in luce alcune gravi aberrazioni del sistema giuridico italiano (condannate costantemente già da tempi dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo) che hanno permesso e permettono abusi in serie. Calpestati sistematicamente principi fondamentali del diritto. Una dichiarazione illuminante del Procuratore della Repubblica di Milano, Gerardo D'Ambrosio. A seguito della morte di Bettino Craxi, il "pool" milanese detto di "mani pulite" è stato letteralmente sommerso da accuse per non aver permesso a Craxi di rientrare in Italia da libero per consentirgli di curarsi adeguatamente in una clinica milanese che dava ogni garanzia operatoria e post-operatoria, invece che in una struttura tunisina assai meno adeguata. Ciò avrebbe permesso a Craxi di essere curato seriamente, ed oggi sarebbe probabilmente ancora in vita. Per difendersi da queste critiche, il Procuratore di Milano Gerardo D'Ambrosio ha dichiarato a "Repubblica" che non era possibile far rientrare Craxi in Italia da libero, poiché c'erano ormai a suo carico condanne definitive. Ebbene, con questa dichiarazione, il D'Ambrosio non ha fatto che dare - certo involontariamente - la misura di quanto aberrante sia l'attuale sistema giuridico italiano. In qualunque altro paese civile infatti una condanna non può mai diventare definitiva se emessa in un processo in cui l'accusato, per una ragione o l'altra, non è stato presente. Anche nel caso che, come Craxi, vi si sta sottratto volontariamente "con la fuga", come suol dirsi. Nessuno in effetti è tenuto ad andare volontariamente contro se stesso presentandosi al carnefice, o comunque ad un tribunale che potrebbe attribuirgli una pesante condanna. Per esempio in Francia (la cui magistratura è notoriamente fra le più rispettate del mondo) se un tribunale condanna qualcuno non presente al processo (cioè, come suol dirsi, "contumace" o "latitante") la condanna non può diventare definitiva. Se in seguito il condannato si presenta volontariamente, oppure è catturato, il processo viene rifatto in sua presenza. Un processo è infatti costituito da tre elementi indispensabili: l'accusatore, l'accusato e il giudice. Se ne manca uno - per esempio l'accusato - non può considerarsi un vero processo. Si tratta di un principio fondamentale, inderogabile del diritto, mirante ad evitare che si possa condannare qualcuno senza che si difenda. Anche in Italia "culla del diritto"(ma divenutane la tomba) vigeva naturalmente questo principio fondamentale. Finchè prima della seconda guerra mondiale, negli anni 30, il regime di allora, per mettere facilmente i suoi oppositori nell'impossibilità di nuocere, trovò comodo sostituirlo con il criterio antigiuridico che una condanna "contumaciale" poteva diventare definitiva ed esecutiva. Questo "criterio" mostrò largamente la sua efficacia con accusati che si chiamavano, per esempio, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Luigi Sturzo, Giorgio Amendola. Grazie ad esso, alcuni di costoro si trovarono in galera senza essersi potuti difendere, in seguito a condanne che si facevano risultare "definitive ed esecutive" senza che al processo si fossero mai visti gli accusati; ed altri, per non subire la stessa sorte, dovettero riparare all'estero, Francia e Stati Uniti soprattutto. Finita la guerra e caduto il regime di allora, molte cose cambiarono in Italia, ed anche si ribaltarono. Saragat e Pertini, i condannato rifugiatisi in Francia, divennero perfino Presidenti della repubblica italiana. Ma, stranamente, quel criterio antigiuridico che era stato loro applicato non fu eliminato dal nuovo regime repubblicano...Ed è così che lo si è potuto applicare ora anche a Bettino Craxi ... fino alla sua morte. Il più strano è che nessun media ha rilevato quanto elemento di importanza capitale. Eppure, a causa di questo criterio antigiuridico, l'Italia ha già subito innumerevoli condanne dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo che le ha ingiunto, come in suo potere, di rientrare nella legalità rispettando quel principio fondamentale. Ma l'Italia non ha ancora ottemperato, restando così in piena illegalità. Identico sistema era stato a suo tempo usato contro un giornalista e scrittore le cui famose inchieste e campagne di stampa negli anni 60 e 70 rendevano particolarmente "scomodo" per certi ambienti e personaggi politici ed economici italiani molto "in alto, dalle attività non precisamente confessabili. Stiamo parlando di Stefano Surace. Non riuscendo a farlo condannare normalmente, poiché le sue inchieste erano ben documentate, gli si lanciarono contro degli ordini di cattura per pretesti reati a mezzo stampa, sicché fu costretto a riparare all'estero (come farà appunto Craxi). Dopodiché gli si lanciò, in sua assenza, una vera raffica di condanne per pretesi reati a mezzo stampa, per un assurdo totale di ... diciotto anni di galera (neanche per un assassinio efferato); che, come per Craxi, furono fatte diventare subito definitive ed esecutive grazie a quel criterio antigiuridico. Ma per Surace le cose andarono un po' diversamente che per Craxi. La magistratura francese (ripetiamo, fra le più stimate del mondo) ha considerato "inesistenti giuridicamente" tutte (diciamo tutte) quelle condanne attribuitegli in Italia, constatando che erano state emesse in violazione di principi fondamentali del diritto; fra cui quello, appunto, che una condanna contumaciale non può essere dichiarata definitiva. Per di più il Presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, decorò Surace della medaglia d'oro, sulla quale è inciso "Parigi a Stefano Surace"...Lezione esemplare per quei magistrati italiani che pretendevano di fargli fare diciotto anni di galera! Surace è stato letteralmente coperto di onori anche in Spagna, in Gran Bretagna e perfino in Giappone. Lo stesso governo italiano, rendendosi conto di quanto l'"affaire Surace" danneggiasse anche all'estero l'immagine della Penisola - e non sapendo cos'altro fare poiché il giornalista-scrittore rifiutava ogni ipotesi di grazia che non comportasse una esplicita sconfessione ufficiale di quelle condanne - rinunciò a qualsiasi tentativo di estradizione (d'altronde senza speranza) vietando agli organi competenti qualsiasi procedura in tal senso nei suoi riguardi. Da aggiungere che, allorché Surace dovette espatriare in Francia, certi personaggi dell'Ordine dei giornalisti, invece di mobilitarsi in sua difesa come loro dovere, tentarono di pugnalarlo alle spalle, radiandolo. Ma in seguito la Corte di Appello di Napoli e la Corte di Cassazione hanno dichiarato illegittima questa radiazione e l'Ordine ha dovuto reiscriverlo. Ed ora i legali del Surace hanno citato l'Ordine per 19 miliardi di lire, a titolo di risarcimento dei danni materiali e morali cagionati da quella radiazione indebita. Ma questo contro Surace non era stato che l'ultimo episodio di una lunga serie di autentici "safari" contro personaggi scomodi. Per esempio quello contro un altro grande giornalista, Gaetano Baldacci. Fondatore de "Il Giorno" (quotidiano che in qualche mese di vita, con lui direttore, aveva quasi superato il "Corriere della Sera") in seguito aveva lasciato "Il Giorno" fondando il celebre settimanale "ABC" (di cui era direttore ed editore) concentrandovi quasi tutti i giornalisti italiani "troppo vivaci". Ma non si tardò a lanciargli un ordine di cattura con un'accusa fasulla, tanto che dovette rifugiarsi in Libano e poi in Canada. Parecchi anni dopo si riconobbe che l'accusa era fasulla, ma intanto era stato distrutto: tornato in Italia, dopo pochi mesi morì di crepacuore. Mino Pecorelli, giornalista molto deprecato in certi ambienti anche per la straordinaria esattezza delle sue notizie, commentò ad un certo punto sul suo settimanale "OP" ("Osservatorio Politico"): "Una giustizia che realizzi simili exploits perde ogni residua credibilità non solo all'interno del Paese, ma anche a livello internazionale. Non si tratta difatti di semplici errori come possono sempre capitarne, ma di una serie lunghissima di fatti aberranti". Ebbene, pochi giorni dopo aver scritto queste righe, Pecorelli fu ucciso da un killer. Si cercò di addossare la colpa del delitto ad Andreotti, chiudendo sistematicamente gli occhi su altre piste, indicate proprio da Stefano Surace in alcuni suoi libri e interviste alla stampa e alla televisione. Piste che conducevano diritto ad ambienti vicini a certi magistrati di Monza, che Pecorelli aveva additato alla pubblica attenzione per certo loro operato a favore di petrolieri evasori e di loro complici "ad alto livello", nel quadro del famoso scandalo dei petroli. Dopo anni, le accuse contro Andreotti sono cadute clamorosamente, ma - poiché le altre piste erano state ignorate con cura - i responsabili di quel delitto restano tuttora "ignoti"...Intanto un gruppo di intellettuali (l'italiano Federico Navarro, il francese Daniel Mercier e l'italo-francese Angelo Zambon) hanno promosso una petizione indirizzata alle autorità politiche, in cui si sottolineano fra l'altro "i casi gravissimi che sono stati resi possibili dal fatto che in Italia è ancora in vigore un tipo di processo penale contumaciale che viola gravemente il diritto, consentendo fra l'altro di dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in assenza dell'accusato; come costantemente ribadito anche dalla Corte europea pei diritti dell'uomo, che per questa ragione ha condannato ormai innumerevoli volte l'Italia". Affare da seguire...

Milano, è in carcere da mesi per pubblicazione oscena e diffamazione. I radicali sono in sciopero della fame per fargli avere la grazia. Surace, settantenne in prigione per due articoli degli anni '60. Il Quirinale non è contrario alla grazia, manca il parere di Castelli, scrive Fabrizio Ravelli l'8 agosto 2002 su “La Repubblica". Cella numero 1, quarto piano, galleria 3, carcere milanese di Opera. Reparto "anziani definitivi". Ieri pomeriggio, quando ha ricevuto visite, Stefano Surace è apparso "provato, ma non accasciato, consapevole dell'ingiustizia che sta subendo, combattivo". Così riferiscono i radicali Daniele Capezzone e Rita Bernardini, che ieri sera hanno cominciato uno sciopero della fame "per aiutare il ministro della Giustizia a esprimere un parere sulla domanda di grazia". Aggiungono che Surace - barba lunga, jeans neri e maglietta blu - era sepolto in un mare di carte. L'hanno appena "tradotto" da Poggioreale, una settimana fa era comparso in manette davanti ai giudici del tribunale di Napoli. Stefano Surace ha settant'anni suonati. Non è un vecchietto indifeso: l'unica foto in circolazione lo ritrae in kimono bianco, è un maestro di Ju Jitsu (decimo dan Menkyo Kaiden, il grado più elevato al mondo). Viveva da più di trent'anni a Parigi. Jacques Chirac l'ha decorato per i suoi meriti di educatore e creatore di campioni. Questa era la sua vita fino alla vigilia di Natale dell'anno scorso, quando è tornato in Italia per visitare un fratello gravemente malato a Napoli. Da quel giorno, Stefano Surace si è trasformato nella testimonianza vivente - si fa per dire, visto che sta in galera e non è in buona salute - di come la giustizia italiana possa avere, a sproposito, una memoria infallibile, un'efficienza asburgica, una durezza spietata. Anche quando - e questo è il caso di Surace - quasi nessuno ricorda più o è in grado di ricostruire con precisione le colpe del condannato. Lui stesso pare faccia una certa fatica a ricordare. Sta in carcere da sette mesi. Deve scontare 2 anni, 6 mesi e 12 giorni. Residuo di pena, per tre condanne che risalgono a trent'anni fa. Due per diffamazione a mezzo stampa, una per pubblicazione oscena. Condanne inflitte in contumacia. Lui non c'era, era già in Francia. Allora - trent'anni fa, nell'Italia che usciva dal boom - Surace era un giornalista. È stato direttore della rivista "Le Ore" e di "Az", inviato speciale di "Abc", ha fondato un'agenzia che si chiamava "Inchiesta", ha pubblicato un libro sul delitto Pecorelli. Qualcuno, fra i lettori più anzianotti, si ricorderà "Le Ore" e "Abc". La prima era una rivista semi-porno, ma di un porno che adesso non stuzzicherebbe un ragazzino delle elementari. La seconda mescolava giornalismo d'inchiesta aggressivo - molto, per quei tempi - a un po' di sesso e di anticonformismo. Dopo che l'hanno sbattuto in galera, i legali di Surace hanno provato a capire di che cosa trattassero i processi in questione. Lui stesso ricorda vagamente: "In un articolo denunciavo un abuso commesso da un colonnello dei carabinieri", ha scritto a un quotidiano. In un altro (era il 30 dicembre del 1966) segnalava i pasticci di bilancio di una cooperativa dei paesi vesuviani. Quando alla pubblicazione oscena, chissà qual era. Non se la ricorda nemmeno Nicola Cerrato, che oggi è un alto dirigente del ministero di Grazia e Giustizia. Allora era uno dei magistrati anti-pornografia, anzi uno dei più famosi d'Italia: "Ricordo vagamente il nome di Surace. Quelle pubblicazioni avevano direttori che cambiavano in continuazione". Per evitare la galera, cosa che a Surace non riusciva nemmeno allora. Solo che lui, a quei tempi, sfruttò qualche breve periodo in cella per fare inchieste sulla condizione carceraria. Visitò nove galere italiane: da San Vittore a Poggioreale, fino a Monza, Arezzo, Voghera, Legnano. I suoi reportages fecero scandalo. Lo chiamarono "inviato speciale nel continente carceri". Lui fondò l'Aided ("Associazione italiana cittadini detenuti, ex-detenuti e loro familiari"), il primo "sindacato dei detenuti". Fu fra i protagonisti, a San Vittore, della "rivolta bianca": uno sciopero della fame a singhiozzo, a gruppi di seicento detenuti per volta. Insomma, sarà anche stato un pornografo, ma viveva per il giornalismo vero. Anche adesso, nella sua cella di Opera piena di carte, forse progetta di scrivere un altro capitolo. Ma prima deve uscire di galera. Formalmente, dicono i difensori, la sua detenzione non fa una grinza. Hanno chiesto l'affidamento ai servizi sociali, il tribunale si è riservato di decidere. Franco Corbelli, del Movimento per i diritti civili, da due mesi si batte per fargli ottenere la grazia. Daniele Capezzone, segretario dei radicali, dice: "Risulta che il presidente Ciampi non è contrario al provvedimento, manca però un parere del ministro della Giustizia Castelli. Ci auguriamo che entrambi facciano al più presto quello che è necessario e possibile. Perché siamo di fronte a un caso di giustizia assassina". È intervenuto anche Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione della Stampa: "La vicenda di Stefano Surace sta diventando una vera persecuzione nei confronti del giornalista e della famiglia. Non sollevo la questione soltanto perché si tratta di un giornalista ma in quanto questa è l'ordinaria odissea di un cittadino qualunque che non può non suscitare la pena e la rabbia dell'intera collettività".

Intervista a Stefano Surace di Antonella Ricciardi del 2-3 luglio 2006. Stefano Surace, giornalista, scrittore, maestro dell'arte marziale di origine giapponese Ju-Jitsu, in questa intervista parla di alcuni nodi cruciali per la cultura non solo italiana. Esprimendovi anche la sua visione del giornalismo, molto diversa da quella, per esempio, dei colleghi Indro Montanelli ed Enzo Biagi. E come maestro di arti marziali ha tenuto ad evidenziare lo spirito più autentico del Ju-Jitsu. Fra l’altro si è molto occupato del tema della giustizia, che lo vede artefice da decenni di inchieste molto approfondite. Negli anni 70, per esempio gli riuscì l’exploit di farsi incarcerare volontariamente ben 19 volte, per brevi periodi, in 8 diverse carceri, per poter constatare di persona le condizioni delle prigioni italiane (tra queste anche l'Opg di Aversa). Famoso il mezzo che usò per riuscire in questa impresa ritenuta “impossibile”: assunse la carica di direttore responsabile del settimanale Le Ore e di altre pubblicazioni di un erotismo assai blando (come sottolineato anche dal quotidiano francese Le Monde) ma che all’epoca induceva varie Procure ad emettere ordini di cattura che Surace utilizzava puntualmente per entrare quando voleva per pochi giorni nelle carceri che gli interessavano. In quelle sue inchieste svelava fra l’altro gli abusi di vari personaggi e oligarchie ai danni dei cittadini, e diversi retroscena come quelli relativi al caso Andreotti, di cui aveva sostenuto fin dall’inizio in un suo libro, contro l’opinione generale, l’estraneità al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura. Questa sua attività suscitò nella magistratura una specie di dicotomia, nei suoi riguardi. Mentre alcuni magistrati non nascondevano la loro ammirazione per le sue attività che definivano “di alto valore civile e sociale”, anche nelle sentenze che lo riguardavano, altri invece non sembravano che sognare di metterlo in galera fino alla fine dei suoi giorni...Così quando, seguendo la sua carriera di giornalista e di sportivo si trasferì a Parigi, certi tribunali italiani credettero bene di lanciargli, in sua assenza, una serie di condanne per presunti reati a mezzo stampa per un totale di oltre... 18 anni di galera, definitive ed esecutive, facendogli conseguire il record mondiale (almeno del mondo occidentale) per condanne ricevute per quel tipo di reati. Quando tuttavia se ne chiese alla Francia l’estradizione, l’Italia ricevette un netto rifiuto, le autorità d’Oltralpe avendo ritenuto quelle condanne tutte inattendibili, ed anzi coprendo Surace di onori: fra l’altro Chirac lo decorò “per i suoi meriti di giornalista, scrittore, maestro di arti marziali di rinomanza internazionale, formatore dei giovani e creatore di campioni”. Comunque in seguito anche in Italia quelle condanne furono spazzate via da altri magistrati. Surace viveva dunque ormai a Parigi da quasi trent’anni, circondato dalla generale stima, quando, nel 2001, si recò in Italia poiché la madre 92enne, che abitava a Napoli, gli chiedeva di occuparsi di alcune pratiche che ella, data l’età, non era più in grado di seguire. Ma a Napoli venne arrestato in esecuzione di una condanna per traffico di droga che tuttavia, in realtà, non era mai stata emessa... Venuto fuori l’ “errore”, si cercò di trattenerlo comunque in carcere adducendo condanne per suoi articoli pubblicati circa 40 anni prima…Ma tutto ciò suscitò la reazione massiccia della stampa italiana e internazionale, fra cui i quotidiani francesi “Le Monde” (in prima pagina) e “Le Figaro”, il britannico “Guardian” (che definì “kafkiano” il suo caso, nonché come un “affare Dreyfus all’italiana”) dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, della Federazione della stampa, del movimento per i diritti civili di Corbelli, di deputati e senatori dei più diversi partiti - dall’estrema destra all’estrema sinistra - di intellettuali di ogni orientamento politico. Il Presidente della repubblica Ciampi si dichiarò pronto ad emettere un provvedimento di grazia e il capo del Governo Berlusconi sollecitò il ministro della giustizia a promuoverne l’iter ma Surace rifiutò gentilmente, non essendo grazie che preferiva, ma giustizia. E così, sull’onda di questa mobilitazione a suo favore si dovette farlo uscire dal carcere. Siccome però si era creduto bene di sostituire la galera con una specie di detenzione domiciliare che riteneva del tutto al di fuori da qualsiasi criterio giuridico, dapprima pubblicò una serie di articoli su vari quotidiani e rilasciò diverse interviste, dopodiché eluse ogni “strettissima sorveglianza” e se ne partì tranquillamente per Parigi dove ancora una volta le autorità francesi respinsero ogni richiesta di estradizione. In una conferenza stampa organizzata al suo arrivo in suo onore da Reporters sans Frontières Surace illustrò, dinanzi ai rappresentanti della stampa mondiale, lo stato della giustizia e della libertà di stampa in Italia. Sicchè certa magistratura italiana si trovò coperta di discredito di fronte all’opinione pubblica internazionale, discredito di cui subisce ancora le pesanti conseguenze. Una settimana dopo questa conferenza di Surace, «Reporters sans Frontières» classificò, quanto a libertà di stampa, l’Italia – fino a quel momento ritenuta un Paese dalle istituzioni correttamente democratiche - al 40° posto nel mondo dietro Benin, Bulgaria ed Ecuador, basandosi esplicitamente su quanto da lui rivelato. E l’anno dopo, al 53° posto dietro Ghana, Bosnia-Erzegovina e Bolivia. Attualmente Surace, anche come presidente dell’”Observatoire Européen pour la Justice et la liberté de presse”, segue con interesse l’evoluzione di certe situazioni in Italia.

D.) Nel corso della sua lunga carriera giornalistica lei ha spesso assunto posizioni fuori dal coro, non di rado divenute poi condivise da ampie maggioranze. In diverse occasioni in particolare ha criticato l'operato dei famosi colleghi Enzo Biagi ed Indro Montanelli, di solito incensati dai mass media: può spiegare i motivi che l'hanno spinta ad arrivare a queste conclusioni su quei giornalisti?

R.) Mi limiterò a rispondere con poche parole: come Eduardo Scarfoglio fu definito a suo tempo “una penna d'oro intinta nel fango”, così Montanelli lo definirei una penna magari non proprio d'oro, diciamo d'argento, intinta nella manipolazione. Il suo criterio, come del resto quello di Enzo Biagi, era di apparire come qualcuno che critica i potenti, mentre in realtà ne faceva gli interessi. Il che aveva per lui un doppio vantaggio, e di peso: da un lato gli faceva evitare la sorte di altri giornalisti che invece certi poteri li avevano combattuti davvero... Basti pensare a Gaetano Baldacci, a Giovanni Guareschi e ai pesanti inconvenienti che gliene derivarono. E d’altro canto ciò gli assicurava una carriera piena di onori, anche se al prezzo di venir meno al dovere fondamentale del giornalista, che giustifica la libertà di stampa: quello di informare correttamente i cittadini su ogni questione d’interesse pubblico. D’altronde sembrava che l’impulso a manipolare le situazioni fosse proprio più forte di lui, quasi che provasse una gratificazione speciale nel riuscire a far credere alla gente il contrario di come stavano le cose... Doveva sentirsene molto valorizzato, come del resto Biagi. Questa sua tendenza irresistibile alla manipolazione la si nota anche nei suoi libri su soggetti storici, di cui mi è capitato di leggerne un paio. A conferma dei suoi ottimi rapporti con il potere, ogni tanto a Montanelli sfuggiva qualche frase rivelatrice: come quando scrisse che le estati le passava sempre invitato negli yacht di grossi personaggi... Uno che attaccava davvero i poteri non sarebbe stato invitato così facilmente e costantemente negli yacht...Montanelli insomma si appoggiava a tutti i potentati del momento: quando un potentato non era più tale, passava al potentato di turno. Per esempio, si atteggiava ad anticomunista ma a un certo punto...

D.) Già, dopo ci fu un'aspra rottura con Berlusconi, che l’aveva finanziato per anni: in che modo se la spiega?

R.) Col fatto che a un certo punto ebbe la sensazione che il potere reale in Italia si fosse esteso in buona parte ai postcomunisti grazie ad una specie di alleanza che si era consolidata tra certi industriali ed una parte della sinistra in funzione anti-Berlusconi. Nelle previsioni di Montanelli, grazie a quell’alleanza Berlusconi era già cotto. Solo che in realtà ad essere cotto prima fu lui, col fallimento del nuovo quotidiano che aveva messo in piedi.

D.) Lei è noto, tra l'altro, anche per avere spiegato in un libro le ragioni dell'innocenza di Andreotti riguardo al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura: può illustrare il perchè di quella sua posizione già all'epoca?

R.) Io sapevo per certo che per il delitto Pecorelli tutti gli elementi portavano in una direzione ben diversa da Andreotti. Pecorelli infatti mi aveva contattato quando ero già in Francia, sul fatto che all’epoca approfittando della mia assenza dall’Italia, certi magistrati avevano avuto la buona idea di lanciarmi condanne per pretesi reati a mezzo stampa per la bellezza di 19 anni di galera...Dopodiché avevano chiesto la mia estradizione in Italia alle autorità francesi che però respinsero la richiesta, anche abbastanza rudemente, senza darmi nessuna noia, senza neppure invitarmi a comparire per interrogarmi, niente...Avevano infatti subito ritenuto inattendibili quelle condanne. Fu un vero smacco a livello internazionale per quelle “autorità” italiane... e purtroppo anche per l’Italia.

D.) Anche perchè quelle condanne erano state emesse in contumacia?

R.) Certo, e per il fatto che, nonostante ciò, erano state dichiarate in Italia definitive ed esecutive. Cosa che per il diritto, ed in particolare per il diritto francese, non è ammissibile. Se si emette una condanna in assenza dell'imputato, nel caso che poi costui si presenti spontaneamente o sia catturato, si deve rifare il processo in sua presenza: si tratta di un principio fondamentale del diritto, valido in tutti i Paesi occidentali... ma non in Italia. E non a caso, trattandosi di un mezzo particolarmente agevole per realizzare abusi colossali. Basti dire che nelle carceri italiane ci sono oltre 5000 persone che vi sono tenute abusivamente a seguito di condanne “definitive ed esecutive” senza che mai abbiano visto i giudici che li hanno « condannati »...Ciò contro ogni principio del diritto, e malgrado il biasimo e il disprezzo manifestato costantemente dalle magistrature di tutti i paesi occidentali nei confronti della « giustizia » italiana a causa di questo fenomeno, e le continue condanne all’Italia emesse al riguardo della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il bello è che la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione italiane hanno sancito nel 1993, con sentenze molto chiare, che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo deve considerarsi integralmente legge italiana, che per di più prevale su qualsiasi altra norma italiana che ne sia in contrasto, anche se emessa successivamente. E inoltre che i tribunali italiani, nell’applicarla, devono attenersi alle interpretazioni che ne dà la Corte europea di Strasburgo. Ebbene, malgrado ciò, si assiste al fenomeno che i tribunali italiani se ne infischiano totalmente del dettato di quelle Corti Supreme, continuando tranquillamente a dichiarare «definitive ed esecutive» condanne emesse in contumacia.

D.) Dunque Pecorelli la contattò. E che successe?

R.) Siccome il mio caso confermava che qualcosa non andava nella giustizia italiana, mi domandò dunque se avevo altri elementi su questo problema. Gli mandai allora del materiale che dimostrava come certi magistrati di Monza (il procuratore capo, il suo vice, e il presidente del tribunale) favorivano dei giri illeciti su larga scala come la pornografia “hard” e certi petrolieri grossi evasori fiscali. E Pecorelli preparò, in base al mio materiale, una campagna su come funziona certa giustizia nel Bel Paese. Partiva appunto dal mio caso, che era lampante, con un articolo di ben 8 pagine sul suo settimanale OP intitolato esplicitamente "Scandalo a Palazzo di Giustizia" in cui accusava fra l’altro quei magistrati di Monza di favorire il giro della pornografia hard.

D.) Si trattava di un giro di pornografia pesante, di tipo malavitoso?

R.) Malavitoso o no, era comunque illegale, e la posizione di quei magistrati si trovava fortemente compromessa. Pecorelli tuttavia non sapeva che proprio il suo distributore, la Dipress di Milano (con cui aveva preso accordi solo da qualche settimana avendo rotto col precedente, Parrini di Roma) era proprio uno dei boss della pornografia hard....Così, quando gli mandò quel numero con l’articolo “Scandalo a Palazzo di Giustizia”, il distributore rifiutò di distribuirlo, ponendo come condizione a Pecorelli per distribuire quel numero, che lo ristampasse togliendo quell'articolo. Pecorelli “obtorto collo”, non avendo altra scelta sul momento, stette in apparenza al gioco, ristampando senza l’articolo il numero, che così venne distribuito. Intanto però si accordò con un altro distributore, e inserì l'articolo “Scandalo a Palazzo di giustizia” nel primo numero che doveva essere diffuso da questo. Ma quel nuovo numero con l’articolo che “non s’aveva a pubblicare” non venne mai distribuito, per la semplice ragione che Pecorelli fu tempestivamente ucciso da un killer.

D.) Quindi per lei ci fu una istantanea reazione di causa-effetto, in quel marzo 1979?

R.) Sono i fatti che lo dicono... Così rilasciai subito delle dichiarazioni in tal senso al Corriere della Sera indicando quella traccia precisa. Che tuttavia ci si guardò bene dal seguire, dirigendo invece tutto su Andreotti.

D.) Ma lei ha idea di chi potesse essere interessato a colpire Andreotti?

R.) Beh chi indirizzò tutto l’affare su Andreotti fu, com’è noto, quel magistrato poi divenuto deputato, Luciano Violante, che in tal modo otteneva due scopi: coprire i suoi colleghi di Monza evitando un grosso scandalo alla magistratura, e nello stesso tempo colpire un nemico politico. Quei magistrati di Monza comunque non poterono evitare noie per altre ragioni, sempre a seguito di una mia inchiesta, in cui misi in luce che avevano appunto favorito dei petrolieri grossi evasori fiscali. Dei carabinieri di Monza avevano infatti trovato dei documenti provanti che quei petrolieri riuscivano ad eludere il fisco con la complicità di alcuni grossi capi della Guardia di Finanza, facendo figurare falsamente il gasolio per carburante come gasolio per uso domestico, molto meno tassato, realizzando così evasioni miliardarie. Avevano allora passato quei documenti alla Procura di Monza, competente per territorio, che a sua volta avrebbe dovuto incriminare questi petrolieri e chi li favoriva. Ma quei magistrati li avevano scagionati, facendoli passare addirittura per vittime…Io feci allora un'inchiesta su questa faccenda, e la Procura di Milano intervenne incriminando quei giudici di Monza per favoreggiamento di questi petrolieri. Scoppiò così il famoso scandalo dei petroli che fece molto scalpore anche perché vi furono processarti e condannati il capo supremo della Guardia di Finanza, il suo braccio destro e l'ex braccio destro di Moro. Quanto a quei magistrati di Monza, ci fu una lunga e tormentata istruttoria a loro carico che passò dapprima a Torino e poi a Brescia, competente per i reati dei giudici operanti nella circoscrizione di Milano, che comprendeva anche Monza. Ebbene i magistrati di Brescia accertarono che i loro colleghi di Monza avevano effettivamente commesso i fatti di erano accusati, ma ebbero l’amabilità di scagionali affermando che li avevano commessi, sì, ma per... “mera sprovvedutezza” (testuale). Così poterono cavarsela, col solo danno di dover rinunciare a ogni ambizione di carriera, e si evitò che anche la magistratura risultasse coinvolta in quel clamoroso scandalo.

D.) Signor Surace, un suo interesse costante è stato quello della salvaguardia dei diritti umani, anche nelle carceri. Ultimamente ha dichiarato che ci sono ragioni per cui un'amnistia in Italia sarebbe non una concessione ma un atto dovuto: può spiegare le motivazioni di questa sua posizione?

R.) Il fatto è che l’Italia si trova in una situazione di assoluta illegalità nei riguardi dei detenuti. Certo i detenuti si trovano in carcere perchè si ritiene che abbiano violato la legge, ma il paradosso è che innanzitutto a violare la legge e la Costituzione è proprio lo Stato italiano, visto che sottopone i cittadini che si trovano nelle carceri a pene in realtà ben più pesanti di quelle permesse dalla legge e dalla Costituzione. Queste infatti impongono che le pene devono essere eseguite in condizioni tali da favorire il reinserimento del detenuto nella società, e che dunque innanzitutto non calpestino la dignità umana. Sicché si potrebbe dire che scontare una pena nelle condizioni attuali è in realtà come scontarne illegalmente il doppio. Per cui abbreviarla non è un concessione ma un dovere di giustizia, di equità. E l'unico modo per abbreviarla nelle condizioni attuali è appunto l’amnistia, visto che è evidentemente impossibile adeguare in tempi brevi le condizioni nelle carceri. A causa della suddetta situazione, lo Stato italiano è esposto ad essere accusato davanti ad un Tribunale Internazionale, ma paradossalmente nessuno lo faceva. Erano in tanti a parlare di amnistia, di “battersi per carceri umane”, ma non toccavano questo punto. L’ho allora toccato io con vari articoli e dichiarazioni alla stampa, e ho visto che in seguito se ne è fatto eco due o tre volte Pannella il quale, mettendo da parte il suo solito, confuso, bla bla, è stato per una volta chiaro, affermando che (cito testualmente) «il comportamento criminale dello Stato italiano diventa da tribunale penale internazionale e l’Italia resta in una situazione di flagrante criminalità. C’è un dovere, un obbligo di interrompere questo reato». Solo che ha subito dopo dimenticato di passare dalle parole ai fatti, e cioè denunciare certe “autorità” italiane davanti a un tribunale internazionale. Vero che fra il dire e il fare...In seguito perfino il cardinale Martino, che presiede il Consiglio vaticano di giustizia e pace, ha dichiarato a proposito dell’amnistia, su incarico del Papa (cito ancora testualmente): «Una cosa è la pena secondo giustizia, e un’altra è una pena che viola i diritti. La pena è privazione della libertà e dal legislatore è concepita come riabilitativa. Ma se è scontata in condizioni disumane, come avviene in Italia, alla privazione della libertà si accompagna ogni possibile vessazione. Invece di fare riabilitazione si scatena la ferocia». Più chiaro di così... Eppur nessun si muove.

D.) Ma, allo stato, quali reali possibilità potranno esserci per una eventuale emissione di un tale provvedimento?

R.) Bah, temo che prima si dovrebbe tornare al criterio del 50 per cento più uno dei voti parlamentari per approvarla, in luogo dello sciagurato 75 per cento che lo ha reso quasi impossibile, poiché ha messo il provvedimento dell’amnistia nelle mani di una minoranza di personaggi forcaioli (nei confronti degli altri) che hanno tutti i requisiti per andare essi in galera, come complici di una situazione giudiziario-carceraria pesantemente illecita che costituisce semplicemente un crimine contro l’umanità. Un'azione penale davanti ad un Tribunale internazionale era una cosa che bisognava fare da tempo. Vero che se ne comincia a parlare, tuttavia non ci si decide ancora a farlo...

D.) Ultimamente, mentre era ancora al governo la CdL, un progetto era stato bloccato in particolare dall'opposizione di Gianfranco Fini e della Lega Nord... Che ne pensa?

R.) Già, ma anche da parte di una componente della sinistra, basti pensare ad Anna Finocchiaro... Componente che è stata determinante visto che lo scorso gennaio l’amnistia non è stata approvata per soli quattro voti.

D.) Lei dirige anche una reputata scuola dell'arte marziale Ju-Jitsu, per cui è famoso anche in quanto sportivo... il Ju-Jitsu non è solo una pratica atletica, ma ha dietro di sè anche una antica sua filosofia di vita: può illustrare in cosa consistano i suoi tratti essenziali, compresa l'origine dello stesso Ju-Jitsu?

R.) Il Ju-Jitsu non è un'attività sportiva, è una disciplina marziale, bisogna fare differenza. Ha infatti lo scopo di mettere in grado una persona di difendersi da attacchi fisici anche da parte di una o più persone che non pongano limiti alla propria violenza, ed usa quindi delle tecniche molto sofisticate che vengono dal Giappone feudale, ma sono di stretta attualità anche per le esigenze del mondo moderno. Bisogna comunque fare attenzione, perchè purtroppo si sono diffuse, sotto il nome di Ju-Jitsu, delle pratiche in realtà sportive, con regolamenti, proibizioni... Per cui il termine Ju-Jitsu è utilizzato, a volte, non correttamente.

D.) E' allora una vera e propria tecnica di combattimento?

R.) Sì, di combattimento reale. Evidentemente, ad un certo livello, il Ju-Jitsu non solo permette di difendersi, ma di farlo senza ferire gravemente l'avversario.

D.) Cioè bloccare la persona senza ucciderla, senza danneggiarla in modo grave, giusto?

R.) Sì, e questo è anche molto pratico nel mondo d’oggi, perchè evita fra l’altro la possibilità di conseguenze giudiziarie. Se infatti uno ferisce gravemente o al limite uccide, dovrà poi risponderne in giustizia, e non sempre è facile dimostrare che ci si era in uno stato di legittima difesa, poiché o non c’erano testimoni, o i testimoni si sono “squagliati” o peggio sono legati all’aggressore oppure disonesti... In ogni caso si è in balìa di testimoni non sempre affidabili. Per cui essere in grado di bloccare senza ferire mette al riparo anche da queste spiacevoli eventualità. Certo questo criterio di neutralizzare, senza causargli danni seri, anche un aggressore che abbia intenzione di uccidere, è già in sé un concetto filosofico profondo che va ben al di là dello stesso criterio giuridico di legittima difesa. Le arti marziali giapponesi a un certo livello hanno infatti un codice, il “bushido” le cui principali regole sono amore della verità, coraggio fino in fondo e benevolenza verso l'umanità. Certo bisogna avere i mezzi per poterlo applicare, e il ju-jitsu autentico ne dà di particolarmente efficaci...

D). Pensa che questo codice etico abbia potuto influenzare anche la sua vita, viste pure le battaglie particolarmente rischiose che lei ha continuamente affrontato?

R.) Beh, quando uno è stato formato fin dall’infanzia a certi concetti, non può non esserne influenzato anche per il resto della propria vita...

D.) C'è una sorta di compassione di fondo, quindi, in questa pratica?

R.) Si tratta di benevolenza, di un atteggiamento a priori non ostile anche verso un avversario accanito, che comunque è sempre un essere umano. Naturalmente finchè ciò è possibile. Poichè se ci si trova per esempio aggrediti da più energumeni armati di coltelli o cose del genere, non si potrà fare a meno di usare altri criteri, non esitando ad agire, per esempio, con tecniche agenti sui loro punti vitali.

D.) Si sa che lei si trova molto bene a Parigi. Ma non vi si sente un po’ in esilio?

Esilio? Niente affatto. A Parigi ci venni a suo tempo volontariamente, e ci sono come a casa mia. Anzi, se permette, infinitamente meglio che in quella che dovrebbe essere casa mia, cioè l’Italia. A Parigi mi hanno colmato di onori proprio quando in Italia si faceva di tutto per... “catturarmi”. Comunque non ho dimenticato l’Italia e le infinite battaglie che vi ho fatto per migliorarne certi aspetti degradanti per un popolo di altissima civiltà quale è l’italiano. Naturalmente ci vado quando voglio, non riconoscendo a nessuno il diritto di impedirmi arbitrariamente di metter piede nella terra in cui sono nato, e per la quale mi sono tanto battuto per decenni. Per esempio nel 1994, quando c’erano ancora in piedi quelle volenterose condanne abusive per 18 anni di galera, ho arbitrato per due giorni interi, al Palasport di Rimini, le semifinali e la finale della Coppa del mondo WBI di Ju-Jitsu, davanti a 10.000 spettatori e alle telecamere. Vero che c’erano con me i miei fedeli assistenti francesi e italiani, tutti campioni di Ju Jitsu, e che quei diecimila spettatori erano tutti praticanti di arti marziali...Sicché se si fosse provato ad arrestarmi non sarebbe bastato un battaglione di poliziotti. Tanto più che i poliziotti e i carabinieri sono essi stessi in buona parte praticanti di arti marziali, e non sarebbe stato facile spingerli a tentare di arrestare un maestro modestamente stimato e benvoluto nel mondo intero. Comunque se in uno dei miei soggiorni in Italia ci si prova a ricadere nel vizietto di arrestarmi, tanto peggio per chi ci prova. Si è già visto cosa è successo quando ci si è provato. [Questo articolo è stato pubblicato sui giornali Deasport, Corriere di Aversa e Giugliano, Caserta24ore, L'Altra Voce, e sull'agenzia giornalistica Abc-Flash Paris] Antonella Ricciardi, 2-3 luglio 2006

Scandalo a Palazzo di giustizia. I sette exploits del giudice Cataldi, scrive "Abcnews.free.fr". L'Ordine dei giornalisti aveva radiato illecitamente dall'albo professionale un asso del giornalismo, il celebre intellettuale, scrittore e gran maestro di arti marziali italo-francese Stefano Surace; le cui battaglie civili (inchieste, polemiche e campagne di stampa) sono da quasi mezzo secolo uno straordinario esempio del giornalismo migliore, ed hanno stimolato decisive riforme in vari settori e paesi. Ma la magistratura (Corte di Appello di Napoli e Corte di Cassazione) è intervenuta stabilendo, con sentenza definitiva, che la radiazione era stata illecita, sicchè l'Ordine ha dovuto reintegrarlo. La "storica" decisione della Corte d'Appello - che ha definito con precisione per la prima volta le garanzie a cui l'Ordine è tenuto ad attenersi allorché promuove un procedimento disciplinare, e ha fatto dunque giurisprudenza - fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. Essa ha avuto difatti una importanza fondamentale per il corretto esercizio della libertà di stampa nel nostro paese. Grazie ad essa, in effetti, i giornalisti italiani si sentirono liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere - se "davano fastidio" a certi ambienti - che avevano sentito pendere costantemente sulla loro testa dopo la radiazione di Surace (la Corte ha stabilito fra l'altro che l'Ordine aveva radiato Surace senza neppure dire il perché, quindi in modo del tutto arbitrario). Quella minaccia aveva paralizzato per anni la stampa italiana su certi argomenti, sicché le attività inconfessabili di certi ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono dilagare indisturbate fino a straripare in modo intollerabile. Al punto che un gruppo di magistrati dovette ricorrere, per cercare in qualche modo di porvi un argine, alla famosa - anche se discussa per alcuni errori probabilmente difficili da evitare, data la situazione di assoluta emergenza - operazione "mani pulite" contro "Tangentopoli". Insomma, grazie a quella decisione della Corte d'appello, i giornalisti recuperarono di colpo la possibilità di esercitare degnamente la propria funzione, fondamentale per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. In seguito i legali del Surace hanno logicamente citato l'Ordine per il risarcimento dei danni cagionati al giornalista da quella radiazione, che si era protratta per oltre 18 anni. Il processo per il risarcimento, affidato dapprima al giudice Milena Balsamo (Tribunale di Napoli, 4a sezione civile) venne poi passato a un altro, Giulio Cataldi, che ha emesso una singolare sentenza che, secondo autorevoli giuristi, è caratterizzata da ben 7 gravi violazioni di legge in sole quattro paginette. In essa, pur confermando l'illiceità del comportamento dell'Ordine, il Cataldi sostiene che Surace non avrebbe il diritto ad essere risarcito poichè l'azione sarebbe prescritta, ed anzi è lui a dover pagare all'Ordine oltre 50 milioni di lire per spese ed onorari! Nelle singolari intenzioni di quel giudice si dovrebbe quindi premiare il colpevole riconosciuto (l'Ordine) e punire proprio il danneggiato, ribaltando ogni criterio di giustizia e raggiungendo straordinari vertici di iniquità. Fra l'altro, per cercare di fondare in qualche modo la sua affermazione, il Cataldi giunge nella sentenza ad attribuire ad una norma di legge un testo in realtà inesistente! Ci si potrebbe chiedere fino a qual punto l'autore di una sentenza con sette gravi errori di diritto in quattro paginette, e che per affermare una tesi assurda si dà ad inventare addirittura il testo di una norma, sia in grado di rivestire una funzione delicata come quella di giudice senza pericolo per i cittadini e per la dignità della giustizia italiana anche a livello internazionale. Il Surace ha dunque impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d'appello di Napoli, assistito da un collegio di giuristi coordinato dall' avv. Vincenzo Vano del foro di Milano, con studio a Milano e Napoli, ed espresso l'intenzione di inviare un esposto al Consiglio superiore della magistratura sull'operato del Cataldi. Un "affaire" particolarmente inquietante che ha suscitato viva sensazione, specie negli ambienti giudiziari e giornalistici, per le sue pesanti implicazioni sulle garanzie di equità dei processi in Italia, e sulla libertà di stampa. "Italia 2" ha dunque ritenuto di effettuare un'inchiesta approfondita in merito.

(Infos-Inter) - Questo affare riguarda un asso del giornalismo: il celebre intellettuale, scrittore e gran maestro di arti marziali italo-francese Stefano Surace, le cui battaglie civili (inchieste, polemiche e campagne di stampa) sono da quasi mezzo secolo uno straordinario esempio del migliore giornalismo, oltre ad aver stimolato decisive riforme in vari settori e paesi. Sua linea professionale costante, l'approfondimento e la denuncia giornalistica di gravi problemi di interesse pubblico, compresi i comportamenti devianti di chi riveste incarichi pubblici, elettivi e no. Il che è del resto la funzione fondamentale del giornalismo, quella stessa che legittima la libertà di stampa in un paese democratico. Memorabili le sue campagne su grossi scandali politico-economici, finanziari, immobiliari, sui rackets della droga, del gioco d'azzardo, dell'usura, sul celebre scandalo dei petroli, sugli abusi psichiatrici, sulle carceri, alcune delle quali furono determinanti per riforme in vari settori. Da ricordare anche la sua funzione di "garante" della stampa erotica italiana negli anni dal 1970 al 1974, attribuitagli per la sua solida reputazione di integrità morale non ancorata tuttavia a concetti arcaici in materia. Funzione assai delicata e anche rischiosa, per la quale aveva poteri legali che neanche i magistrati possedevano. Poté così bloccare per anni, talora con polso di ferro, quei personaggi (certi distributori ed editori) che per sete di guadagno intendevano far superare certi limiti alle loro pubblicazioni benchè vendute nelle edicole alla portata dei minori. Surace pilotò così, con prudenza e saggezza, quell'autentica svolta culturale che fu la graduale liberalizzazione della stampa erotica in Italia. Surace insomma faceva parte di quei giornalisti italiani che avevano la capacità e la volontà di informare il pubblico su come realmente andavano certe cose. E contro i quali fu lanciata, a un certo punto, una serie di "safari al giornalista scomodo"...Si cominciò con un altro grande giornalista, Gaetano Baldacci, il maestro appunto di Surace. Fondatore e direttore del quotidiano "Il Giorno", in sei mesi lo aveva portato a una tiratura quasi uguale a quella del "Corriere della Sera" che aveva messo quasi un secolo per raggiungerla (coi successivi direttori invece le vendite de "Il Giorno" calarono vertiginosamente). In seguito Baldacci fondò e diresse il settimanale "ABC", in cui tenne a concentrare buona parte dei giornalisti italiani "troppo vivaci". Ne fece in breve un settimanale che tutta la stampa europea ci invidiava come una referenza di giornalismo coraggioso e qualificato. Ebbene, a un certo punto contro Baldacci fu lanciata una incriminazione con ordine di cattura, e per non ritrovarsi in carcere dovette rifugiarsi in Libano e poi in Canada, che non avevano accordi di estradizione con l'Italia. Dopo qualche anno venne fuori che l'accusa era fasulla, la sua piena innocenza fu riconosciuta, poté tornare in Italia ma, ormai distrutto, dopo pochi mesi decedette. Anche l'editore che aveva ripreso "ABC" al suo espatrio, Enzo Sabàto, subì analoghe persecuzioni. Depredato della proprietà del settimanale in circostanze ributtanti e tenuto sempre sotto la minaccia di "fargli fare la fine di Baldacci", morì di crepacuore. Quanto a Surace, fu subissato addirittura di condanne per ... 18 anni di galera. Una pena da assassinio efferato per accuse di reati a mezzo stampa, singolare ricompensa per le battaglie civili che per tanti anni aveva sostenuto per il suo Paese con rischi non lievi. Surace conseguiva così il record mondiale assoluto del giornalista più condannato del mondo per accuse di reati a mezzo stampa, e l'Italia quello delle pene attribuite con questo tipo di accusa...Non si riuscì tuttavia a far fare a Surace la stessa fine di Baldacci e Sabàto. Espatriato oltralpe, la magistratura francese - notoriamente una delle più reputate del mondo - considerò tutte quelle condanne "giuridicamente inesistenti" in quanto emesse con modalità gravemente in contrasto coi principi fondamentali del diritto. Surace poté così stabilirsi a Parigi, al Quartiere Latino e le autorità, gli intellettuali, gli ambienti sportivi francesi, britannici, spagnoli e perfino giapponesi tennero a manifestargli la loro più viva stima e ammirazione. Sarebbe lungo elencare tutte le onorificenze, gli attestati di stima e simpatia di cui Surace è stato fatto segno in Francia e altrove anche dalle più alte autorità. Ci limiteremo a citare la prestigiosa medaglia della Città di Parigi attribuitagli da Jacques Chirac, attuale presidente della repubblica francese, decorazione molto raramente concessa a stranieri. Vi è inciso "Parigi a Stefano Surace", cioè che Parigi si onora ufficialmente di averlo come suo ospite privilegiato. Bel contrasto col grottesco atteggiamento di certe nostre "autorità" che si coprivano di ridicolo nella vana pretesa di fargli fare quei 18 anni di galera...La TV giapponese (canale "Fuji", il principale in quel paese) diffuse delle emissioni particolarmente elogiative su di lui. Un film, "Ju Jitsu Butokukai", venne girato in Francia sulle sue attività. Una serie di organismi di vari paesi (citeremo il World Butokukai Institute, la Federation Française de Ju Jitsu Butokukai e disciplines associées) lo hanno voluto loro presidente. Ed altri (la "British Martial Art Association", la spagnola "Kaizem Ryu") lo hanno accolto come membro d'onore a vita. Anche in Italia quelle singolari condanne a Surace suscitarono indignazione negli ambienti al corrente di come stavano realmente le cose. Nei corridoi del Tribunale e della Procura di Milano circolavano fra magistrati visibilmente compiaciuti battute come: "Surace volevano mandarlo a San Vittore, e invece se n'è andato a Saint Tropez ..." Una giuria di giornalisti, presieduta dal noto critico Mario Tilgher, premiò nell'82 il suo libro "Caro Pertini" come "miglior libro dell'anno". Giulia Borgese sul "Corriere della Sera" scrisse in terza pagina sulle sue attività di "inviato d'assalto" del settimanale ABC, e sui suoi "scandali nazionali di livello sociale e politico"". Sempre sul "Corriere della Sera" Glauco Licata lo descrisse "dinamico giornalista dal solidi principi etici" cui era stata attribuita "una condanna che neanche ad Al Capone... Ed ora aspetta a Cap d'Antibes che scoppi in Italia... un Wateragate". Scoppierà, invece, Tangentopoli, di cui in Francia è considerato il precursore. Il settimanale "Giorni-Vie Nuove" diretto all'epoca da Davide Laiolo, pubblicò un servizio su 10 pagine a firma Guido Cappato (numero del 16 maggio 1977). Dopo aver passato in rassegna una serie di celebri inchieste di Surace commentava: "Come si potrà notare, Surace appartiene alla categoria degli uomini scomodi". Naturalmente c'era da attendersi che l'Ordine dei giornalisti italiano reagisse anch'esso decisamente, come suo dovere istituzionale, contro quei 18 anni di galera lanciati contro un giornalista con accuse di reati a mezzo stampa, trattandosi di un attentato particolarmente grave alla libertà di stampa. Invece l'Ordine si scagliò stranamente proprio contro Surace, facendolo segno ad una misura di sospensione dalla professione che aveva l'effetto di bloccare istantaneamente la sua attività giornalistica. E poi addirittura lo radiò, senza mai dire di cosa lo accusasse. Surace potè così vivere all'estero per vari anni solo grazie ai risparmi di due decenni di intenso lavoro. E in seguito poté continuare grazie alla sua competenza ad altissimo livello in certe Arti Marziali, che gli permise di raggiungere in breve una nuova posizione di rilievo, sia pure in un campo apparentemente così diverso dal giornalismo. Intanto però, a seguito di quella radiazione, i giornalisti italiani si sentirono sotto la minaccia costante di essere "sospesi" e poi radiati dall'Ordine se "davano fastidio" a un certi ambienti politici ed economici dall'operato non precisamente confessabile. Se era stato così facile radiare Surace, il più agguerrito fra loro, sarebbe stato ancor più facile per gli altri. Quella di giornalista divenne di colpo, in Italia, la professione meno garantita del mondo. Le attività inconfessabili di quegli ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono così dilagare indisturbate. Basti dire che allorchè due giudici di Treviso avevano incriminato ufficialmente parecchi personaggi molto "in alto", fra cui il comandante in capo della guardia di Finanza e il suo braccio destro, nel quadro di quello che poi divenne il famoso "scandalo dei petroli in Italia", i corrispondenti da quella città dell'agenzia ANSA e di diversi quotidiani avevano inviato regolarmente, alle loro redazioni centrali, numerosi articoli sull'argomento. Ne avevano inviati per un anno, ma nessuno era stato pubblicato...Ad un certo punto tutto ciò divenne intollerabile, tanto che un gruppo di magistrati tentò di opporvisi con la famosa operazione "mani pulite" contro "Tangentopoli". Intanto la magistratura italiana interveniva anch'essa, come già quella francese, nella vicenda Surace. La Corte d'Appello di Napoli (presieduta da un insigne magistrato, Vincenzo Schiano di Colella Lavina, con relatore Carlo Aponte, consigliere Francesco d'Alessandro; integrata - come prevede la legge in questi casi - da due giornalisti, Lino Zaccaria e Francesco Maria Cervelli) stabilì che la radiazione del Surace era stata illecita e l'annullò d'autorità, evocando fra l'altro "gli obiettivi altamente sociali perseguiti nella sua attività, le sue campagne di stampa, i riconoscimenti ottenuti". E riscontrando nel provvedimento di radiazione "la mancanza di qualsiasi specificazione dei fatti che si imputavano al Surace". Surace era stato dunque radiato dall'Ordine senza che neanche si dicesse perchè... La "storica" decisione della Corte d'Appello fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. I giornalisti italiani si sentirono liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere che avevano sentito pendere costantemente sulla loro testa dopo la radiazione di Surace. Di colpo, recuperarono la possibilità di esercitare degnamente la propria funzione, fondamentale per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. L'Associazione napoletana della stampa si congratulò con Surace con lettera ufficiale. Il presidente dell'Ordine all'epoca, Saverio Barbati, non si vide rinnovato l'incarico che ricopriva da anni. Surace l'aveva poco prima esortato, in un'intervista "a darsi alla pastorizia, che ha molto bisogno di braccia". I membri del Consiglio dell'Ordine che avevano deciso quella radiazione si videro definiti sulla stampa "sicari sfortunati", mentre di Surace si scriveva come di "un grande eroe civile, un "maître à penser", e "à agir", non violento ma micidiale quando si tratta di difendere la verità, la giustizia e i diritti umani". Si verificarono perfino fenomeni di rigetto come l'iniziativa, in sede politica, di promuovere un referendum per l'abolizione dell'Ordine, visto ormai da molti come una minaccia per la libertà di stampa e dunque per una corretta democrazia. E in ogni caso nella categoria dei giornalisti sorse una larga esigenza di riforma profonda di questo organismo. Successivamente si sono avuti per Surace altri interventi della magistratura italiana, stavolta di Milano, che hanno spazzato via tutte le condanne che gli erano state volenterosamente attribuite. Surace è potuto quindi rientrare felicemente in Italia, anche se la sua principale residenza resta Parigi. La Corte d'appello avendo dunque annullato la radiazione, questa era da considerarsi come mai esistita. E siccome la sentenza era immediatamente esecutiva, l'Ordine regionale (della Campania) era tenuto a reintegrare senza ritardo Surace nell'Albo. Ma l'Ordine regionale cercò non di ottemperare a tale obbligo. Presentò un ricorso per Cassazione nell'intento evidente di tentare di giustificare il suo comportamento. Il ricorso tuttavia non toglieva nulla all'illegittimità dell'omissione, la sentenza della Corte d'Appello essendo già esecutiva. Per di più risultava talmente infondato ictu oculi che perfino l'Ordine nazionale si rifiutò di sottoscriverlo. E la Cassazione lo rigettò in data 8/11/91, l'Ordine regionale vedendosi anche condannato alle spese di giudizio. Visto che non si era ancora provveduto alla reiscrizione, il legale del Surace ingiunse all'Ordine, con lettera 16/11/93, di ottemperare alla decisione della Corte d'Appello (confermata per di più nel frattempo dalla Cassazione) reiscrivendo Surace all'Albo professionale entro 15 giorni. In mancanza, avrebbe provveduto come per legge. La lettera esprimeva anche la volontà di richiedere il risarcimento del danno. Poichè, malgrado la lettera, l'Ordine continuava a non ottemperare, ne inviò un'altra, datata 24/1/94, in cui ripeteva l'ingiunzione dando un termine stavolta di 10 giorni e specificando che in mancanza avrebbe intrapreso "un'azione giudiziaria in via esecutiva, con nomina di un commissario ad acta". A questo punto l'Ordine dovette provvedere, "obtorto collo", a registrare la reintegrazione del Surace a tambur battente, prima della scadenza dei dieci giorni (precisamente dopo 6 giorni, il 30/1/94); e dovette rilasciargli un tesserino professionale attestante che era "iscritto all'Ordine dal 1958" (ininterrottamente, essendo appunto scomparsa la radiazione). Il danno al Surace si era dunque esteso dal 28/5/75 (data della sospensione) al 30/1/94 (data della reintegrazione) cioè per oltre 18 anni. Ed era stato cagionato da una serie di atti illeciti commessi dall'Ordine e di atti dovuti invece omessi, sempre illecitamente. Vediamoli: 

- Prima azione illecita commessa: emissione del provvedimento di sospensione.

- Seconda azione illecita commessa: apertura del procedimento disciplinare che causava già, di per sè, il prolungamento degli effetti della sospensione.

- Terza azione illecita commessa: emissione del provvedimento illecito di radiazione.

- Quarto illecito, stavolta omissivo: Mancato ottemperamento alla decisione esecutiva della Corte d'Appello che annullava la radiazione con conseguente obbligo per l'Ordine di reiscrivere senza ritardo Surace. Omissione di rilevanza anche penale che da sola ha prodotto un prolungamento del danno di ben 7 anni (dal 24/5/86 al 30/1/94).

Ciò che ha causato il danno al Surace è stato dunque un illecito prolungato, reiterato, palesemente permanente che ha messo arbitrariamente Surace nell'impossibilità di continuare la sua attività professionale, benemerita per il suo valore civico e sociale ma scomoda per certi ambienti potenti e senza scrupoli dagli interessi non precisamente confessabili, con i quali l'operato dell'Ordine è apparso, in questa vicenda, in perfetta assonanza. Stando così le cose, i legali di Surace hanno citato l'Ordine dei giornalisti dinanzi al tribunale di Napoli, perché risponda dei danni morali e materiali cagionati da quella serie di provvedimenti illeciti. Danni particolarmente rilevanti se si pensa che al momento della sospensione Surace era, secondo ricerche bancarie e previdenziali effettuate da un istituto specializzato neutrale, il giornalista di gran lunga meglio retribuito in Italia, se non d'Europa. E che il blocco indebito della sua attività giornalistica era durato oltre 18 anni. La sua successiva attività di maestro di arti marziali era certo particolarmente prestigiosa, ma i proventi economici che gli procurava non erano neanche lontanamente paragonabili a quelli della sua precedente attività giornalistica in Italia.

I legali del Surace hanno anche depositato un dossier in cui fra l'altro sottolineano come "i membri del consiglio dell'Ordine, col loro comportamento nei confronti di Stefano Surace, messo in luce dalla magistratura superiore con sentenza definitiva, hanno compromesso non solo la dignità, ma l'onore della categoria dei giornalisti; coprendo di vergogna se stessi, l'Ordine, e di conseguenza il giornalismo italiano che appariva rappresentato da simili personaggi". Vi pongono inoltre una serie di inquietanti interrogativi:

Com'è che l'Ordine ha avuto la possibilità di radiare per "indegnità". Uno dei giornalisti più degni che il paese abbia mai avuto?

"Ma allora i giornalisti italiani lavorano sotto la minaccia costante di essere "sospesi" e poi essere radiati dall'Ordine senza che neanche si dica il perché?

"Qual è dunque la funzione dell'Ordine dei giornalisti, di tutelare la categoria e i suoi membri, o di imbavagliarli?"

"E' per questo che i giornalisti italiani, anche i più quotati, sono apparsi per vari anni così silenziosi e "disciplinati" su certi argomenti di particolare gravità?"

"Si può, in queste condizioni, affermare che in Italia ci sia ancora libertà di stampa?"

"E' questa una delle cause del profondo deterioramento, cui abbiamo assistito in questi anni, della vita democratica nella Penisola, visto che in assenza di libertà di stampa qualsiasi democrazia non può che degenerare in tempi brevi".

"Oppure la radiazione di Surace è stato solo un episodio circoscritto, di cui si erano resi protagonisti certi personaggi "devianti", nel frattempo in gran parte allontanati dai vertici dell'Ordine dei giornalisti?"

Il testo del dossier è stato riportato integralmente in un libro di Walter Minardi edito a Parigi in francese, inglese e italiano dal titolo "Stefano Surace e i sicari sfortunati...". Si trattava ora, per il Tribunale civile di Napoli, di completare l'azione di ristabilimento della giustizia intrapresa dalla magistratura parigina e in seguito dalla Corte d'Appello di Napoli, dalla Corte di Cassazione e dai magistrati milanesi, attribuendo il giusto risarcimento a questo straordinario giornalista che ha sempre fatto onore al nostro Paese. Senonchè, le cose presero una piega piuttosto singolare...Il processo per il risarcimento fu in effetti affidato al giudice Milena Balsamo del tribunale di Napoli, IV sezione civile.

Poco dopo però la Balsamo fu trasferita a un'altra sezione dello stesso Tribunale (l'ottava), e al suo posto fu istallato un altro giudice, certo Giulio Cataldi. Dopo questa inusuale staffetta, il processo ha assunto aspetti decisamente surreali. Il Cataldi in effetti ha emesso una sentenza in cui non ha potuto negare che la radiazione del Surace era stata illecita, dato che era stato sancito dalla Corte d'Appello e dalla Cassazione in via definitiva. Ma vi sostiene che il diritto al risarcimento sarebbe ormai prescritto, poichè la citazione sarebbe stata presentata in ritardo. Cosicchè, anche se l'Ordine è colpevole della radiazione indebita, non si potrebbe procedere nei suoi confronti. E aggiunge che in realtà è Surace a dover dare dei soldi all'Ordine: oltre una cinquantina di milioni, a titolo di spese e onorari! Con ciò si premierebbe dunque il colpevole riconosciuto (l'Ordine) e si punirebbe proprio il danneggiato, ribaltando ogni criterio di giustizia e raggiungendo straordinari vertici di iniquità. È tuttavia risultato, ad un esame di autorevoli giuristi ed alla luce dell'orientamento costante della Suprema Corte, Sezioni Unite, che quella sentenza è basata interamente su 7 gravi errori di diritto, contenuti in quattro paginette... E che addirittura il Cataldi, in mancanza di meglio per puntellare la sua tesi, era giunto ad inventare nella sentenza, per una norma di legge, un testo in realtà inesistente... Un exploit, quello del Cataldi, che contrasta in modo stridente con l'azione intrapresa da alcuni anni da una lunga serie di magistrati degni italiani e francesi, a tutti i livelli compresi i più elevati, per ristabilire la giustizia per Surace e rimediare per quanto possibile al discredito per la nostra magistratura che è derivata internazionalmente dal suo caso emblematico. Qualcuno si è chiesto fino a qual punto l'autore di una sentenza con ben sette gravi violazioni di legge in qualche paginetta, e che altera addirittura in sentenza il testo di una norma, possa esser lasciato in una funzione delicata come quella di giudice senza pericolo per i cittadini, e per la dignità della giustizia italiana anche a livello internazionale. Il Surace ci ha dunque impugnato la strana sentenza dinanzi alla Corte d'appello di Napoli assistito da un collegio di giuristi coordinato dall' avv. Vincenzo Vano del foro di Milano, con studio a Milano e Napoli, e un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Intanto ha appena terminato un libro che è la continuazione di "Caro Pertini" dal titolo "Cercate Surace..." di cui alcuni capitoli sono dedicati a questo " affaire ". Vediamole ora più da vicino, le sette violazioni del Cataldi.

Prima violazione di legge. Il danno al Surace, esteso per oltre 18 anni, era stato cagionato, come abbiamo visto, da un illecito permanente dell'Ordine, caratterizzato da una serie di atti illeciti commessi e di atti dovuti che invece erano stati omessi illecitamente. Precisamente:

- Prima azione illecita commessa: emissione del provvedimento di sospensione.

- Seconda azione illecita commessa: apertura del procedimento disciplinare che causava già, di per sè, il prolungamento degli effetti della sospensione.

- Terza azione illecita commessa: emissione del provvedimento illecito di radiazione.

- Quarto illecito, stavolta omissivo: Mancato ottemperamento alla decisione esecutiva della Corte d'Appello che annullava la radiazione con conseguente obbligo per l'Ordine di reiscrivere senza ritardo Surace. Omissione di rilevanza anche penale che da sola ha prodotto un prolungamento del danno di ben 7 anni (dal 24/5/86 al 30/1/94).

Ciò che ha causato il danno al Surace è stato dunque un illecito prolungato, reiterato, palesemente permanente che ha messo arbitrariamente Surace nell'impossibilità di continuare la sua attività professionale, benemerita per il suo valore civico e sociale ma scomoda per certi ambienti dagli interessi non precisamente confessabili.

Ora, per un illecito di tipo permanente la legge prevede che il danneggiato ha diritto a richiedere il risarcimento entro 5 anni dalla cessazione del danno. Al di là, si ha prescrizione. In questo caso dunque, poichè il danno era cessato il 30/1/94 (data della reiscrizione) c'era tempo fino al 30/1/99 per presentare tale richiesta. I legali del Surace la presentarono in effetti in data 20/2/98 (largamente dunque nei termini, 10 mesi prima della scadenza). Ebbene il Cataldi nella sua sentenza, pur ammettendo che la radiazione nei confronti del Surace era stata illecita vi sostiene tuttavia, contro ogni evidenza, che l'illecito dell'Ordine non era stato permanente ma... istantaneo, sia pure con effetti permanenti. Per cui Surace avrebbe dovuto presentare la sua domanda di risarcimento entro 5 anni non dalla cessazione del danno, ma dalla sentenza 24/5/86 della Corte d'appello; e cioè entro il 24/5/91. Siccome l'aveva invece presentata dopo tale termine (il 20/2/98) c'era prescrizione e non si poteva procedere contro l'Ordine. Si trattava di un ragionamento del tutto privo di fondamento, poichè l'illecito, come abbiamo visto, era stato macroscopicamente permanente. Con ciò il Cataldi commetteva la prima violazione di legge.

Seconda violazione di legge. In ogni caso il ragionamento del Cataldi non era valido neppure se l'illecito fosse stato davvero istantaneo. In effetti, per tale caso la legge stabilisce che la prescrizione va calcolata a partire non dalla data della sentenza della Corte d'appello, come affermava il Cataldi, ma dalla dichiarata definitività della decisione della magistratura (e cioè dalla sentenza 8/11/91 della Cassazione, che l'aveva sancita) come confermato costantemente dalla Cassazione stessa, Sezioni Unite. Con ciò il Cataldi commetteva una seconda violazione di legge.

Terza violazione di legge. In ogni caso, anche nell'ipotesi che l'illecito fosse stato istantaneo, la prescrizione era stata interrotta dalla lettera 16/11/93 in cui il difensore aveva espresso la volontà di richiedere il risarcimento del danno. Andava dunque calcolata a partire da tale data, sicchè il termine di 5 anni veniva a cadere il 16/11/98, ben dopo la data della presentazione della domanda (20/2/98) che restava così valida. Con ciò il Cataldi realizzava una terza violazione di legge.

Quarta violazione di legge. Il Cataldi affermava che, a seguito della sentenza della Corte d'appello, l'Ordine non era tenuto a reiscrivere senza ritardo Surace, poichè detta Corte aveva sì annullato la radiazione, ma non aveva ordinato esplicitamente all'Ordine di reiscriverlo. Per ottenere dunque la reiscrizione, Surace avrebbe dovuto presentare una domanda specifica, dopodichè l'Ordine aveva la facoltà di decidere se reiscriverlo o meno. E siccome Surace aveva presentato domanda in tal senso solo con una lettera 16/11/93, l'Ordine non aveva potuto reiscriverlo che poco dopo, in data 30/1/94. Ma si trattava di un'altra affermazione priva di fondamento. Poichè la Corte d'appello aveva annullato la radiazione, questa era da considerarsi come mai avvenuta. E siccome la sentenza era immediatamente esecutiva, l'Ordine regionale, a cui essa era stata regolarmente notificata, era tenuto a provvedere senza ritardo alla pedissequa registrazione della reintegrazione del Surace, senza alcuna facoltà di decidere il contrario. Doveva eseguire e basta. Inoltre, la lettera 16/11/93 non era stata affatto una "domanda di reiscrizione" ma un richiamo perentorio a reiscrivere Surace all'Albo professionale entro 15 giorni. A seguito del quale, e della successiva analoga lettera 24/1/94, l'Ordine dovette provvedere, "obtorto collo" come abbiamo visto, a registrare la reintegrazione del Surace a tambur battente (precisamente, dopo 6 giorni, il 30/1/94). Con ciò il Cataldi ha commesso una quarta violazione di legge.

Quinta e sesta violazione di legge. Per sostenere che l'Ordine aveva bisogno di una domanda del Surace per poterlo reintegrare, dopodichè aveva la facoltà di decidere se reiscriverlo o no, il Cataldi afferma di rifarsi agli artt. 46 e 55 della legge sull'ordinamento della professione di giornalista (legge 3/2/63 n. 69). Ma, al solito, del tutto infondatamente poichè questi articoli si riferiscono a casi ben diversi, quelli di giornalisti che siano stati radiati ma la cui radiazione non sia stata poi annullata dalla magistratura. Per di più, per cercare puntellare la sua tesi, il Cataldi attribuiva a detto art. 55 un testo in realtà inesistente...Con ciò, il Cataldi commetteva una quinta e una sesta violazione di legge.

Settima violazione di legge. Il Cataldi ha condannato Surace a pagare all'Ordine oltre una cinquantina di milioni a titolo di spese e onorari mentre, anche se ci fosse stata davvero prescrizione, l'equo criterio era di compensare le spese fra le parti. Commetteva con ciò una settima violazione di legge. Mica male come record...Ad maiora!

Stefano Surace: Saviano? un goffo traditore della propria terra..., scrive il 3 gennaio 2017 “Affari Italiani”. Saviano? Un goffo traditore della propria terra... che con le sue panzane sistematiche contro Napoli e il Sud fa il gioco di certi ambienti polentoni che l'hanno creato appositamente dal nulla. Dopo che l'altro manutengolo che avevano creato a quello scopo prima di lui, Pino Aprile, era stato ormai smascherato, con una piccola mano di ABCnews. E così - ha ora dichiarato ad ABCnews Stefano Surace, l'asso del giornalismo d'inchiesta e maestro di arti marziali di rinomanza mondiale - quei polentoni hanno ritenuto di rimediare creando questo Saviano e pubblicizzando urbi et orbi le sue fandonie fino a farle diventare il best seller mondiale della menzogna sistematica. Ed ora il Saviano ha provato a prendersela con Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli... E ciò non a caso, visto che il De Magistris è diventato una specie di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire alla depredazione e distruzione sistematica della propria terra e della propria gente da parte di quegli ambienti "padani". Ma a De Magistris, per smascherare il Saviano, sono bastate tre parole: "Non conosce Napoli" Sette guardie del corpo...!!! Ma il più bello è che al questo Saviano è stata attribuita una scorta di ben... 7 guardie del corpo, sostenendo che sarebbe sotto tiro mortale della camorra...Mentre la camorra è ben contenta che resti vivo e vegeto, poiché in realtà costui le fa una bella pubblicità facendola apparire mondialmente come praticamente invincibile...E addirittura, con le trasposizioni televisive, la mitizza agli occhi dei giovani e adolescenti, spingendoli magari a farne parte, o quanto meno ad emularla in gruppetti di minorenni aggressivi. Vedere al riguardo quel suo recente libercolo "La paranza dei bambini", che sarebbe meglio intitolare "Le spaparanzate del Saviano contaballe". In effetti costui sa bene che dalla camorra non corre alcun rischio visto che, invece di attenersi alle normali cautele usate da chi è sotto scorta, non fa che passare da un intervento pubblico all'altro, perfino dando lezioni in assemblee di studenti in certe università, e da un'allocuzione televisiva all'altra. Il che non gli sarebbe certo possibile se fosse davvero sotto tiro della camorra la quale, con quei comportamenti di costui, se volesse non ci metterebbe niente a farlo fuori, scorta o non scorta. Ma vediamo qualche dettaglio...Quegli ambienti polentoni hanno dunque preso una perfetta nullità (Saviano andava presentandosi come giornalista pur non essendo neanche iscritto all'albo) e l'hanno montato a tutto spiano, facendolo passare per un vero napoletano che conosce a fondo Napoli, i suoi abitanti, i suoi vari aspetti e quartieri... In realtà costui è nato effettivamente a Napoli, ma in una clinica dove sua madre si era recata apposta per partorirlo, ritornandosene subito dopo alla sua Caserta, località ben diversa da Napoli. Per cui questo Saviano non ha mai conosciuto praticamente nulla direttamente di questa complessa, affascinante e invidiatissima Napoli, unica al mondo, avendovi soggiornato e solo saltuariamente allorché vi aveva poi frequentato bene o male l'università. Tuttavia, in esecuzione di quella "missione" da manutengolo anti-Napoli e anti-Sud per la quale è stato creato appunto dal nulla, si è dato a lanciare una valanga di panzane l'una più grottesca dell'altra, attribuendo a Napoli e al Sud una generale criminalità che affermava falsamente aver constatato direttamente di persona. Omettendo scrupolosamente di precisare che, nella travagliata Penisola, il criminale che vi impera in realtà è proprio lo stato cosiddetto italiano. Stato raffazzonato un secolo e mezzo fa (1861) da un fecciume piemontese-lombardo, accozzaglia di gente primitiva e abbondantemente tarata, calata da quelle loro zone retrograde ed affamate per depredare e distruggere un Sud prospero e civile, rendendosi autori di un sistematico crimine contro l'umanità. Degni discendenti diretti di unni, ostrogoti, visigoti e simili, col loro odio viscerale verso i popoli civili che hanno in quel caso espresso contro una gente da millenni fonte primaria di cultura e civiltà per il mondo intero: bruciando villaggi, uccidendo e seviziando in massa uomini, donne, preti, bambini, distruggendo i raccolti agricoli, incendiando foreste compresi i villaggi e gli abitanti che vi si trovavano. Praticando metodicamente il terrore, il saccheggio, la tortura e sevizie inaudite contro inermi cittadini, gesta al cui confronto quelle famigerate delle SS naziste appaiono cosette da asilo infantile. Tutto ciò reso possibile dal fatto che, col decesso prematuro dell'efficiente Ferdinando II di Borbone, si era trovato proiettato sul trono delle Due Sicilie, a Napoli, Francesco II detto “Franceschiello”, giovane lontano anni-luce dall'efficacia dei suoi predecessori, essendo affetto da tare genetiche tipicamente piemontesi ereditate dalla madre, una Savoia. Sicché, grazie alla serie-record di idiozie commesse da questo Franceschiello - dettagliate da ABCnews in precedenti servizi - poté verificarsi il fatto fino allora inconcepibile che un Piemonte, zona fra le più sottosviluppate e malandate d’Europa - la cui popolazione, come quella della Lombardia, era fra l'altro ritenuta scientificamente campione mondiale di cretinismo clinico genetico - poté invadere un regno prospero, prestigioso e infinitamente più potente anche militarmente come quello delle Due Sicilie, annetterselo, depredarlo delle sue ingenti ricchezze e raffazzonare disastrosamente uno Stato cosiddetto italiano. Con effetti particolarmente distruttivi per le popolazioni meridionali, che da 154 anni si prolungano tuttora - basti pensare alla cosiddetta "terra dei fuochi - e che, essendo ormai del tutto insostenibili, rendono indispensabile un'urgente secessione del Sud da questo stato criminale fin da quando è nato. Da notare che nel Sud certi fenomeni fuori-legge come la camorra - in realtà ben poca cosa rispetto alla colossale criminalità dello stato - sono stati creati proprio da questo, che se ne serve per i propri fini, fra cui scaricare su di essi le proprie malefatte... Stato che contrasta questi fuori-legge solo se entrano in concorrenza coi propri misfatti o interessi, o magari (succede anche questo) cercano di opporsi a certi suoi abusi contro la popolazione. 9 volte più ricco dell'intera padania. Orbene, contro questa aberrante situazione la gente meridionale e vari suoi rappresentanti - Luigi De Magistris sindaco di Napoli, Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Marcello Pittella, Mario Oliveiro rispettivamente governatori di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria - stanno ormai reagendo con un sincronismo che esprime bene lo slancio ormai generale della gente del Sud. Si tratta di un fenomeno di importanza capitale. Basti considerare che finora ogni iniziativa di qualsiasi dirigente meridionale valido veniva puntualmente bloccata in un modo o nell'altro, attraverso Roma, da quegli ambienti del nord che da 155 anni depredandolo il Sud. Si eliminava insomma a Sud sistematicamente ogni dirigente valido, risparmiando solo quelli disposti a fare i manutengoli di quegli ambienti. Si assiste ora invece al fenomeno di dirigenti meridionali che, benché siano state perpetrate cose incredibili per bloccarli, reagiscono decisamente ed efficacemente, appoggiati dalla popolazione. Il che terrorizza i suddetti ambienti polentoni, poiché il 60% delle loro risorse proviene tuttora dal Sud, sicché se questo si distacca rischiano di tornare alla loro atavica miseria. Basti dire che all'atto della cosiddetta "unità" il Sud era semplicemente 9 volte più ricco dell'intera polentonia: Due Sicilie 443,2 milioni di lire-oro, polentonia tutta intera (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Parma, Piacenza, Modena tutte insieme) 49,7 milioni di lire-oro. Insomma erano proprio dei poveracci questi polentoni, prima della cosiddetta "unità"...Situazione miseranda da cui sono poi potuti uscire solo grazie all’arrivo massiccio, in Lombardia e Piemonte, dei meridionali che, in linea con la loro tradizione di civilizzatori, hanno spinto quelle regioni al progresso. E così lombardi e piemontesi, dalla loro polenta fonte di pellagra e conseguente dilagante idiozia (che si aggiungeva al loro diffuso cretinismo clinico genetico scientificamente accertato) erano potuti passare ai salutari napoletanissimi spaghetti...Tuttavia i meridionali poterono far evolvere piemontesi e lombardi solo superficialmente, le tare di quella gente essendo appunto genetiche e quindi praticamente inestirpabili. Renzi vattene a casa... Non c'è dunque da sorprendersi se ora Saviano il manutengolo sia stato lanciato contro De Magistris, il quale parlando di "Sud ribelle", "Napoli capitale", "Renzi vattene a casa" tra la folla in delirio è diventato una sorta di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire. Additando, in piena assonanza con lo spirito ormai generale dei meridionali, quegli ambienti "padani" come i peggiori nemici di Napoli e del Sud, e indirizzando a Renzi, capo del governo cosiddetto italiano, un bel "ti devi cagare sotto". Espressione ben adeguata rispetto agli insulti rabbiosi e le insolenze deliranti usati massicciamente contro Napoli e il Sud da quei polentoni per distogliere l'attenzione dalle loro malefatte, e dalle loro tare genetiche. Esemplare il caso di Donatella Galli, consigliere provinciale di Monza e Brianza in quota Lega Nord, che si era data a lanciare, come tanti suoi simili, contro i meridionali espressioni tipo "Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili (i tre principali vulcani del meridione, compreso quello sottomarino...) distruggili". Sennonché questa tizia e suoi simili devono portare davvero iella alla loro parte, poiché i disastri tellurici si sono poi purtroppo effettivamente verificati, e particolarmente gravi, tuttavia non certo a Napoli e nel Sud ma proprio a nord (Emilia) e al centro fra Umbria e Marche (Norcia, Amatrice, Accumoli, Preci, ecc.). Comunque sia il Renzi che gli ambienti da lui rappresentati già si "cagavano sotto" abbondantemente, terrorizzati dall'idea che il Sud li molli, riappropriandosi della propria indipendenza, delle proprie risorse, riprendendo il proprio congeniale cammino di efficace progresso economico e culturale sconvolto da quella crimine cosiddetta “unità”, nel qual caso appunto le zone padaniche rischierebbero di ripiombare nella loro tradizionale miseria...Ed ora il De Magistris, dopo aver smascherato il Saviano semplicemente con quelle tre parole ("non conosce Napoli") è possibile che lo tratti ancora peggio di come ha trattato vittoriosamente il Renzi. Visto che il Saviano non solo è un nemico accanito di Napoli e del Sud, ma è ancor più spregevole del Renzi poiché è nato, bene o male, proprio nel Sud ed è dunque indiscutibilmente un turpe traditore della propria terra. C'è chi afferma che comunque in fondo questo Saviano un certo talento a scrivere ce l'ha... Ma ciò, date le circostanze, lo rende ancor più indegno, poiché invece di usarlo fra l'altro ad onore e difesa della propria terra, l'ha utilizzato a sua bugiarda denigrazione mercenaria. Da aggiungere che Stefano Surace, il giornalista e scrittore specializzato in inchieste di cui alcune hanno prodotto profonde riforme non solo in Italia, appare deciso ad aggiungere alla lunga serie di sue battaglie “impossibili” ma sempre vittoriose, quella per far recuperare l’indipendenza a questa sua amata terra delle Due Sicilie in cui è nato e si è formato, e di cui non tollera l’attuale drammatica situazione. E - grazie al suo carisma di combattente vittorioso e senza paura acquistato in vari decenni di battaglie di forte interesse pubblico non solo in Italia - è diventato per coloro che intendono difendere realmente gli interessi morali e materiali del Sud Italia un punto di riferimento, una fonte di ispirazione e suggerimenti anche strategici (frutto della sua straordinaria esperienza in conflitti particolarmente duri ma appunto sempre vittoriosi) per azioni da effettuare soprattutto in piena concordia fra i vari esponenti meridionali, mettendo da parte ogni deleteria rivalità. Indirizzando così la propria combattività tutti insieme contro il nemico comune, cioè i suddetti ambienti polentoni parassiti. Da ABCnews Europa (agence européenne de presse)

Dopo Salvini si scatena la Meloni: Saviano umiliato con tre parole, scrive “Libero Quotidiano" il 5 gennaio 2017. Esilarante sfottò di Giorgia Meloni su Twitter. La leader di Fratelli d'Italia prende in giro Roberto Saviano che dice di "sognare dei sindaci africani per salvare il mio Sud martoriato". "Vada a vivere in Africa allora", cinguetta la Meloni: "Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani". Ma la risposta dell'autore di Gomorra non si è fatta attendere, così sempre su Twitter, ribatte: "In Africa con Salvini a recuperare i fondi pubblici della Lega finiti in Tanzania e con Meloni a scusarsi per le atrocità nelle ex colonie". A Giorgia l'ultima parola: "Saviano purtroppo quando non copi cose scritte da altri, spari idiozie ciclopiche. Non hai un amico che possa aiutarti coi social?".

Giorgia Meloni. "Saviano dice che sogna sindaci africani. Vada a vivere in Africa allora. Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani".

"Saviano? Uno speculatore che fa soldi sulla camorra". L'affondo del sindaco di Napoli De Magistris contro lo scrittore di Gomorra, scrive Luisa De Montis, Venerdì 6/01/2017 su "Il Giornale". Non è nuova la divergenza di opinioni e la conseguente polemica fra lo scrittore Roberto Saviano e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Ma dopo le ultime prese di posizione di Saviano che nel commentare il ferimento di una bambina in una sparatoria ha parlato di una città in cui non c'è cambiamento, l'affondo dell'ex pm è duro, e arriva via Facebook. Il primo cittadino partenopeo mette nero su bianco che Saviano si arricchisce sulla pelle della città, e per questo non potrà mai ammettere che a Napoli le cose stanno cambiando. "Mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi", premette de Magistris, che prosegue: "Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più, più si spara, più cresce la tua impresa. Opinioni legittime, ma non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra. Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l'invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari". Il sindaco ammette che "a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il sistema, ma non è possibile che Saviano non si sia reso conto di quanto sia cambiata Napoli" e che lo scrittore sia "ignorante" per "mancata conoscenza dei fatti. Saviano - scrive de Magistris - non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo - prosegue il sindaco - Saviano è in malafede? È un avversario politico? Non ci credo, non ci voglio credere, non ne vedrei un motivo plausibile. Ed allora, caro Saviano, vuoi vedere che sei nulla di più che un personaggio divenuto suscettibile di valutazione economica e commerciale? Un brand che tira se tira una certa narrazione". E se Napoli e i napoletani "cambiano la storia, la pseudo-storia di Saviano perde di valore economico. Vuoi vedere, caro Saviano, che ti stai costruendo un impero sulla pelle di Napoli e dei napoletani? Stai facendo ricchezza sulle nostre fatiche, sulle nostre sofferenze, sulle nostre lotte. Che tristezza. Non voglio crederci. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l'hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Un intellettuale vero ed onesto conosce, apprende, studia, prima di parlare e di scrivere. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura". "Più racconti che la camorra è invincibile e che Napoli senza speranza e più hai successo e acquisisci ricchezza. Caro Saviano ti devi rassegnare: Napoli è cambiata, non speculare più sulla nostra pelle". In ogni caso, "senza rancore", "pensala come vuoi - conclude il sindaco - le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità".

FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA. 

Rai3 diventa garantista e manda in soffitta la gogna mediatica. Dopo anni di processi in tv, la malagiustizia sbarca in prima serata. "Basta colpevolismo", scrive Lodovica Bulian, Lunedì 9/01/2017 su "Il Giornale". «Ho baciato la terra e ho ringraziato Dio. Dicevo a mio figlio, in macchina, ma quanto corri?. Papà sono a 50 km all'ora. Un anno di carcere ti fa perdere le misure, il profumo dell'autunno. Là questo non c'è». «Là» è la cella dove Diego Olivieri, imprenditore vicentino, ha vissuto 365 giorni da innocente. E le parole con cui ricorda la fine di quell'incubo hanno aperto la prima puntata della nuova trasmissione su Rai Tre, che manda in soffitta un ventennio di giustizialismo in prima serata. Il format condotto dal giornalista e volto del Tg1, Alberto Matano, per la prima volta accende le telecamere sul rovescio della medaglia. Quello che dà voce, con ricostruzioni, immagini e documenti, all'inferno di chi finisce nel vortice della malagiustizia, un girone da 24mila dannati in 24 anni. E che sul terzo canale - dopo la parentesi di «Presunto colpevole», seconda serata su Rai due nel 2012 - porta le «storie di uomini, donne, che sin da primo momento hanno gridato una cosa sola: sono innocente», proprio come il titolo del programma. Sotto i riflettori dell'inedita prima serata non ci sono più i processi giudiziari e mediatici che per 35 anni hanno fatto il successo di programmi come Un giorno in pretura, che hanno gonfiato lo share viaggiando sul confine sottile tra informazione e morbosità, offrendo in pasto al pubblico atti, testimonianze, alimentando spesso dibattiti autoreferenziali. E che hanno trascinato le aule di giustizia nei tribunali televisivi. Nel richiamo dell'Agcom a Michele Santoro per una puntata di Annozero nel 2008, l'Authority spiegava che «il processo, lo pseudo processo o la mimesi del processo non si possono fare. L'informazione non può diventare gogna mediatica né spettacolarizzazione ispirata più all'amore per l'audience che all'amore per la verità». Ora tocca alle storture del sistema, agli ingranaggi che si inceppano e inghiottono esistenze che passavano di là per caso. In studio con Matano ci sono non solo i protagonisti, ma anche i loro familiari, gli avvocati che hanno lavorato per smontare accuse piovute come massi da faldoni di ordinanze di custodia cautelare. In una corsa contro il tempo per dimostrare la verità. La stessa che può venire oscurata, travisata da un'intercettazione, da una parola che genera equivoci, da una dichiarazione di un pentito. Come quella per cui Olivieri è stato accusato per 5 anni ingiustamente di riciclaggio, associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti, prima di essere assolto perché «il fatto non sussiste». O da un maledetto scambio di persona, all'origine dell'altro caso raccontato nella puntata di sabato sera, per cui una studentessa, Maria Andò, nel 2008 finì in carcere per 9 giorni, indagata per rapina e tentato omicidio, salvo poi, dopo un anno, essere assolta con tante scuse: «Il maresciallo era convinto che fossi io il colpevole, che il caso fosse chiuso». La madre Giusi si sentì dire che «sua figlia stasera dormirà in carcere», al Pagliarelli di Palermo. «Vivere l'esperienza del carcere può cambiare la vita - ha esordito Matano presentando la prima serata - Soprattutto se non si è colpevoli. Non vogliamo fare il processo al processo, né cercare una nuova e diversa verità giudiziaria, semplicemente vogliamo raccontare delle storie». Anche perché «davanti a certi casi serve più prudenza e meno fretta di sbattere il mostro in prima pagina: soprattutto negli ultimi anni in Italia si abusa di colpevolismo». Forse è la fine di un'era. Almeno di un'era televisiva.

«Sono innocente»: la tv civile è una garanzia per gli ascolti. Il nuovo programma di Rai3 è dedicato alle storie di persone comuni che per errori giudiziari o indagini mal direzionate sono finite in carcere pur essendo innocenti, scrive Aldo Grasso l'8 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". «Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Non ci sono parole più pertinenti o più angoscianti per raccontare «Sono innocente», il nuovo programma di Rai3 dedicato alle storie di persone comuni che per errori giudiziari o indagini mal direzionate sono finite in carcere pur essendo completamente innocenti (sabato, 21.10). È una sensazione kafkiana d’impotenza mista a paura: è noto che in Italia finire in carcere può essere un’esperienza terrorizzante, che lascia dei segni indelebili su chi l’ha provata. Il tema della responsabilità civile dei magistrati (sempre impuniti) e quello della situazione delle carceri meritano un ragionamento serio ed è giusto che i riflettori rimangano accesi anche con programmi intensi come questo. Per le false rivelazioni di un collaboratore di giustizia, l’imprenditore Diego Olivieri viene sospettato di avere delle connessioni con un boss mafioso e da lì inizia la sua odissea giudiziaria: un anno in carcere per reati gravi, mai commessi. Maria Andò viene collegata a una rapina con tentato omicidio per una fotografia in cui somigliava alla vera colpevole. Le tracce sono labili, ma a 21 anni finisce in prigione, per poi venire liberata con tante scuse. Da un punto di vista tecnico, «Sono innocente» (firmato da Rai3 e Nonpanic) segue un filone internazionale consolidato, quello del true crime: casi giudiziari reali che vengono raccontati dai veri protagonisti, con il supporto di ricostruzioni interpretate da attori e interviste in studio condotte dal giornalista del Tg1 Alberto Matano. I linguaggi sono moderni ma il mito è classico, quello della tv civile di Angelo Guglielmi che rivive, con nuove premesse, nella nuova Rai3, in cui i programmi di questo tipo (vedi soprattutto «Chi l’ha visto») sono anche garanzia per gli ascolti.

Sono Innocente, un cazzotto allo stomaco attutito dall'emotaiment all'italiana: scelta o necessità? Scrive Giorgia Iovane sabato 7 gennaio 2017 su Tv Blog. Sono Innocente, Alberto Matano racconta le storie di vittime della malagiustizia. La prima puntata live su Blogo. Vedi Sono Innocente e ti ritrovi di fronte a Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971) distillato in un classico docureality all'americana, ma con inserti da info-emo-tainment del daytime. Un cazzotto allo stomaco del telespettatore ma attutito da un cuscino che cerca di smussare la crudezza dell'errore giudiziario per non affrontarlo direttamente. Il titolo, infatti, sembra voler mascherare il vero succo del racconto, la malagiustizia. Il nome "Sono Innocente", invece, aiuta a puntare il riflettore sulle vittime - e magari a distogliere da pressioni extratelevisive e interrogazioni parlamentari - ma il nodo narrativo è tutto nei paradossi investigativi e giudiziari che hanno reso degli innocenti i protagonisti di un'esperienza umana (e disumana) che segna per sempre anche chi li circonda. Le storie di Diego Olivieri, costretto a un anno di carcere per una malevola interpretazione del gergo dei pellai, e di Maria Andò, incarcerata per rapina e tentato omicidio in una città che non aveva mai visitato, sono esempi di una dinamica inquirente perversa, più diffusa di quanto si pensi. E il pensiero corre subito a quel numero di telefono appuntato su un'agendina, usato per corroborare le parole di un pentito contro Enzo Tortora, e mai composto per appurare a chi appartenesse.

Sono innocente, su Rai Tre il caso di Maria Andò. In cella per errore, un inferno «dal quale non esci più», scrive Stefania Brusca il 7 gennaio 2017. Parla la donna vittima di un errore giudiziario, arrestata nel 2008 e portata in carcere con l'accusa di rapina e tentato omicidio a causa di uno scambio di persona. «Una ferita che non si sana, una sensazione amplificata dal fatto che adesso sono mamma, con la consapevolezza che quello che è successo a me, può succedere a chiunque». «Prima di realizzare cosa è successo sono passate almeno 24 ore. Non si dorme, non si riesce a credere di trovarsi davvero in quella situazione e quelle poche volte che riesci a prendere sonno il risveglio è terribile: ti rendi conto che non è un incubo. Sei davvero in carcere». Mentre l’ascolti, non sembra una storia vera. La mente non riesce a credere che sia un fatto reale, qualcosa che possa accadere davvero a qualcuno. Eppure Maria Andò, palermitana, ad appena 22 anni, un giorno ha sentito suonare il citofono, mentre era a casa, «un suono familiare, normale», ma questa volta dietro la porta non c’era un amico, il fidanzato o un parente ma i carabinieri con un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per rapina e tentato omicidio. Era un mercoledì come tanti, il 13 febbraio del 2008. Dai libri - studiava giurisprudenza - a una cella del carcere Pagliarelli. Nove giorni di inferno. Un errore giudiziario, è stato accertato poi. Ma una parte di lei, Maria, l’ha lasciata lì: «Una volta che sei entrata in contatto con quel mondo non ne esci più». La sua storia l’ha raccontata diverse volte, ma continua a farlo quando le si presenta l’occasione, anche se le procura dolore: «Perché quello che è successo a me non capiti ad altri. Per invitare i magistrati a fare più attenzione, a leggere attentamente le carte prima di firmare provvedimenti come quello che ha riguardato me». Ne ha parlato ancora una volta a Sono Innocente, la nuova trasmissione in onda su Rai Tre. Un arresto avvenuto nei confronti di un’incensurata. «Il reato è stato commesso a fine agosto 2007. Mi hanno arrestata dopo sei mesi, se avessi voluto reiterare il reato l'avrei potuto fare, se avessi voluto scappare all'estero l'avrei potuto fare e se avessi voluto inquinare le prove l'avrei potuto fare. Quindi non si è capito perché questa misura cautelare», afferma. Tra l’altro l’aggressione della quale era accusata era avvenuta a Catania, un posto dove «non ero mai stata», eppure è finita in manette. Un uomo, un tassista, era stato derubato e picchiato da una coppia di giovani - poi identificati come due clochard - e lasciato in fin di vita. L’uomo avrebbe poi riferito che si trattava di due ragazzi che aveva preso a cuore, a cui dava da mangiare. Una sim card regalata dalla sorella di Maria Andò, Federica, al suo fidanzato - oggi marito - che faceva il militare a Catania, sarebbe stata il collegamento che ha portato Maria dietro le sbarre. Uno scambio di persona. «Hanno scritto che la ragazza autrice dell’aggressione mi somigliava: l’unica cosa che avevamo in comune era che nella foto del documento di identità avevo i capelli lisci come lei». «In carcere c’è solidarietà tra le detenute - ripercorre - la prima sera la mia compagna di cella mi ha fatto il letto ‘perché qui si usa così’ e mi ha detto anche come funzionavano le cose». Ad uno ad uno sfilano i ricordi di quei giorni: il rifiuto di fare l’unica doccia, il rifiuto dell’ora d’aria al mattino: «Avevo paura di tutto». Le visite dei familiari che rinunciano a vederla per dare priorità all'incontro con gli avvocati, l’ora d’aria pomeridiana: carte e ping pong. Lei sempre in cella. La solitudine e il timore che qualcosa di brutto possa succedere all'improvviso. Una sensazione che Maria si porterà dietro per molti anni. Il nono giorno la scarcerazione. «La secondina arrivò per dirmi di prendere le mie cose, perché sarei uscita da lì. Non sono riuscita a fermare le lacrime. Un fiume in piena». Le foto della festa dei quarantanni dello zio alla quale si trovava la sera in cui a Catania il tassista veniva aggredito e la testimonianza di una collega universitaria e di sua madre, dalla quale lei si trovava il pomeriggio di quel giorno oltre che, l'arresto di uno dei due autori del reato, hanno permesso a Maria di ritornare alla sua vita, anche se da quel momento nulla è stato come prima. Oltre ad aver dovuto «spendere soldi che non hai, e quindi subire un danno economico non indifferente, ti resta dentro una ferita che non si sana. Quello che ho vissuto lo rivivo con le stesse sensazioni ogni volta che racconto quello che è successo. Tutto amplificato dal fatto che adesso sono mamma, e ho la consapevolezza che quello che è accaduto a me, può capitare a chiunque».

In onda questa sera, 14 gennaio 2017, la seconda delle dieci puntate di “Io sono innocente”, il programma di Rai 3 che dà spazio a quanti sono stati accusati ingiustamente dalla giustizia, scrive Valentina Addesso su "Italia post" il 14 gennaio 2017. Nella puntata di questa sera, presentata come sempre dal giornalista Alberto Matano, si parlerà ancora una volta dei tanti casi, dei drammi e del riscatto, di tutte quelle persone che si sono ritrovate in carcere accusate ingiustamente. L’esperienza del carcere, a volte vissuta per anni, a volte solo per pochi giorni, è sempre un’esperienza che cambia la vita e segna profondamente ogni persona. Nella puntata di questa sera, Alberto Matano incontrerà Giuseppe Gulotta e Vittorio Raffaele Gallo. Gulotta, accusato di aver ucciso due carabinieri della caserma di Alcamo, fu condannato all’ergastolo, e soltanto dopo 9 processi e 22 anni di carcere, è stato assolto. Giuseppe ripercorrerà il racconto della vicenda che ha cambiato per sempre la sua vita, e che gli è costato 22 anni di carcere che non meritava. Vittorio Raffaele Gallo, impiegato delle Poste, fu invece erroneamente considerato il basista di una rapina avvenuta a Roma, allo sportello dove prestava servizio. Condannato nel 1997 e scagionato nel 2011, racconterà la sua esperienza di custodia cautelare in carcere e poi domiciliari.

Due nuove storie per Alberto Matano, scrive Fausto Egidio Piu il 13.1.2017. Ha ottenuto dallo Stato un risarcimento di 6,5 milioni di euro. Giuseppe Gulotta sarà protagonista della seconda puntata di "Sono innocente", il nuovo programma di Rai 3 in onda domani sera alle 21:10 con la conduzione di Alberto Matano, giornalista e conduttore del Tg1. Gulotta era stato condannato all'ergastolo con l'accusa di aver ucciso due carabinieri nella caserma di Alcamo, in provincia di Trapani. Ma dopo nove processi e 22 anni di carcere è stato assolto. Le indagini hanno accertato infatti che la sua confessione era stata estorta con la tortura. «Per trentasei anni sono stato un assassino», aveva raccontato in un libro del 2013 lo stesso Gulotta. «Mi avevano costretto a firmare una confessione con le botte - continuò il muratore di Certaldo, paese a pochi chilometri da Firenze - puntandomi una pistola in faccia e torturandomi per una notte intera. Alla fine mi ero autoaccusato: l'unico modo per farli smettere». Proprio per questo, dopo tanti anni passati in galera da innocente, la Corte d'Appello di Reggio Calabria ha stabilito nei suoi confronti un risarcimento milionario. Quell'omicidio non era stato compiuto da Gulotta e, nonostante l'assoluzione, l'uomo non è riuscito a cancellare dalla sua memoria la dura esperienza carceraria. Cinque mesi di carcere e sette mesi di arresti domiciliari con l'accusa di aver fatto da basista in due rapine avvenute presso l'ufficio postale in cui lavorava. È la seconda storia che sarà affrontata nel corso del programma. Anche Vittorio Raffaele Gallo, ex impiegato delle Poste nel quartiere Portuense di Roma, si è visto stravolgere la propria esistenza da una ingiusta condanna. È stato licenziato e ha dovuto fare i conti con problemi familiari ed economici. La moglie ha cambiato la serratura di casa e lui è stato costretto a rivolgersi alla Caritas per avere cibo e vestiti, ha avuto problemi di salute ed è stato costretto a vivere con una piccola pensione sociale, essendo invalido al 100%. Storie di uomini e donne che da una vita normale e tranquilla si ritrovano ad affrontare un vero e proprio incubo, l'esperienza del carcere. È la mission di "Sono innocente", programma di servizio pubblico che cerca di portare alla luce gli errori e le contraddizioni della giustizia italiana.

Sono innocente, la lezione eretica di Matano, scrive Andrea Camaiora, Spin doctor, esperto in Litigation communication, su "L'Huffingtonpost.it" il 12/01/2017. Ci voleva RaiTre per affrontare culturalmente quello che è diventato ormai un vero tabù: gli errori giudiziari e le traversie delle persone che vengono toccate anche solo marginalmente da quella colossale macchina "tritapersone" che è il sistema giudiziario italiano. "Sono innocente", il programma condotto con umanità da Alberto Matano, rompe appunto il tabù e contribuirà, specialmente se farà da apripista, a esperienze simili nel mondo dell'informazione. Si tratta di una trasmissione di fatto eretica se si considera il coro giustizialista pressoché unanime che occupa media e istituzioni. La verità, molto semplice, è che gli uomini sbagliano e possono commettere errori anche clamorosi come quelli illustrati dal programma della terza rete del servizio pubblico radiotelevisivo. Ciò che però sfugge al grande pubblico - che pure a giudicare dai social è stato molto colpito dal programma - è che le vicende che vengono raccontate nella trasmissione di Matano sono tutt'altro che "storie limite". Anzi. Chi opera a vario titolo nel sistema mediatico giudiziario sa bene che errori, imprecisioni, falsità, ribaltamenti della realtà, rappresentazioni fuorvianti di fatti e circostanze sono all'ordine del giorno. Le vicende affrontate da RaiTre sono tanto più significative perché riguardano gente comune. Le persone - al caldo della propria casa, seduti a tavola o sdraiate sul divano - sono facilmente inclini ad attribuire a questo o quell'indagato o imputato (meglio se uomo politico o persona celebre) un inappellabile giudizio di colpevolezza, quando invece le accuse - è così nello stato di diritto - sono sempre tutte da dimostrare. Noi viviamo invece in una società impazzita nella quale ormai è l'innocenza da dimostrare e non la colpevolezza. Le storie di Kafka e Solženicyn sembrano raccontare la nostra quotidianità in un mondo che mastica sempre più velocemente i procedimenti giudiziari di Tizio o Caio e senza che si dica una parola, alla fine, se l'imputato anziché essere dichiarato colpevole sia ritenuto innocente oppure se un indagato sia prosciolto, magari per iniziativa dello stesso pubblico ministero che lo ha iscritto nel registro degli indagati. Alla fine, possiamo dirlo, alle battute iniziali di questo nuovo anno, basterebbe operare la rivoluzione del buonsenso. Meno clamore per gli avvisi di garanzia, meno aderenza supina e servile della maggior parte degli organi di informazione nei confronti dell'attività degli inquirenti e il recupero di una nobile e qualificatissima branca giornalistica, quella della cronaca giudiziaria. Tv e giornali ritornino a occuparsi delle vicende giudiziarie raccontando con equilibrio cosa accade nelle aule di tribunale, dove compaiono i testimoni, si formano le prove di fronte al giudice, emergono le verità e si chiariscono anche alcuni errori, umani, talvolta piccoli, talvolta come racconta il programma di Matano grandi, che vengono compiuti dagli inquirenti. Al di là di ogni questione di merito, infine, è lecito domandarsi perché, dopo tante chiacchiere vuote sul garantismo, una trasmissione del genere non sia stata partorita da Mediaset. In attesa di una risposta, viva RaiTre. 

Terzo appuntamento con il nuovo programma di Rai 3 “Sono innocente” condotto dal giornalista Alberto Matano. Vediamo le anticipazioni e le storie che verranno presentate questa sera 21 gennaio 2017, alle 21:15, scrive Valentina Addesso il 21 gennaio 2017 su "Italiapost”. Le storie di uomini e di donne che, dalla normalità della loro vita, si trovano catapultate in un vero e proprio incubo. Persone innocenti che, per errori della giustizia, si ritrovano a scontare pene per colpe che non hanno commesso. Per tutti loro, l’esperienza in carcere, che sia stata di un giorno o di interi anni, ha segnato per sempre la vita, come un marchio indelebile sulla pelle e nell’anima. Le testimonianze che verranno raccontate questa sera, saranno quelle di Lucia Fiumberti e Giovanni De Luise. Lucia Fiumberti, di Lodi, ha passato 22 giorni in carcere accusata ingiustamente di aver falsificato una firma per un’autorizzazione in cambio di soldi. In realtà i suoi dirigenti avevano fatto ricadere le colpe su di lei, pur essendo i veri responsabili. Ancora più forte la storia di Giovanni De Luise, il giovane che nel 2004, a soli 22 anni, fu condannato in via definitiva a 22 anni di prigione come killer di Massimo Marino. Ad accusarlo fu la sorella della vittima. Soltanto dopo diverso tempo Giovanni venne scagionato grazie alle parole di un pentito che si prese tutta la responsabilità dell’omicidio.

Sono innocente: quando la Rai fa servizio pubblico. Alberto Matano conduce Sono innocente, programma che racconta le storie di persone ingiustamente finite dietro le sbarre, scrive Cecilia Primerano su "it.blastingnews.com" il 22 gennaio 2017. Ieri, 21 gennaio, è andato in onda in prima serata su Rai 3 il terzo appuntamento con il programma condotto da Alberto Matano, Sono innocente. Un contenitore televisivo che dà voce alle vittime di errori giudiziari che hanno vissuto l'esperienza terrificante del carcere. Un programma strutturato in maniera simile ad 'Amore criminale', infatti, in ogni appuntamento vengono raccontate due storie attraverso la voce dei protagonisti reali e con ricostruzioni che mostrano ai telespettatori i momenti salienti delle vicende narrate. Dall'arresto, all'ingresso in carcere, fino alla gogna mediatica e giornalistica, viene mostrato l'iter che porta inesorabilmente all'inferno persone ritenute erroneamente colpevoli, talvolta, anche di efferati delitti. Nella puntata di ieri, Alberto ha raccontato le storie di Flavia e Giovanni, detenuti in carcere ingiustamente per ventidue giorni e per nove anni. Soprattutto, la storia del ragazzo napoletano colpisce perché, dopo quasi dieci anni passati in carcere, è ancora in attesa del processo di revisione, fondamentale per il risarcimento danni e per ripulire la sua fedina penale. Sono innocente è davvero uno dei programmi più interessanti e ben fatti della televisione italiana, seppur nella struttura non sia originale. Molti sono gli aspetti positivi, uno su tutti: al cento vengono poste le vittime. I protagonisti sono uomini e donne che sono finiti ingiustamente dietro le sbarre. Persone che, nonostante abbiano gridato sin da subito la loro innocenza, si sono ritrovate a vivere, per un arco di tempo più o meno variabile, nella cella di una casa circondariale. Dunque, in un panorama televisivo in cui sempre più spesso sono i carnefici a polarizzare l'attenzione, è un atto di doverosa giustizia dare voce a queste persone. Sono innocente è un programma ben fatto perché non cerca la polemica e lo sterile sensazionalismo. Alberto Matano racconta, infatti, le storie ponendo al centro la vita dei suoi protagonisti, narrando il dramma vissuto da queste persone e dalle loro famiglie. Dunque, un programma che fa servizio pubblico, offrendo la possibilità a tutte queste persone di ribadire, con fierezza e orgoglio, la loro innocenza. Molto apprezzabile è anche lo stile del giornalista che riesce con delicatezza ed empatia a entrare nel dramma umano di questi individui, senza scadere nella retorica o nella banalità. Per chiosare, è inutile nasconderlo, Sono innocente pone in essere una profonda riflessione sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla lentezza atavica dei tempi della giustizia italiana.  

Un nuovo appuntamento questa sera con la trasmissione “Sono Innocente”, condotta da Alberto Matano, scrive Valentina Addesso il 28 gennaio 2017. Anche questa sera verranno raccontate le esperienze di alcune persone che hanno vissuto il dramma della carcerazione pur essendo innocenti. Vediamo le anticipazioni e le storie che verranno raccontate stasera su Rai 3. Tantissime sono le testimonianze di quanti, per errori della Giustizia, si sono ritrovati a passare diverso tempo in carcere da innocenti. Che siano stati pochi giorni, o addirittura diversi anni, quella del carcere è un esperienza che segna nel profondo chiunque. Le incertezze, le paure, il distacco dagli affetti, tutto questo pur sapendosi innocenti. Questa sera verranno raccontate e ascoltate le esperienze di Fabrizio Bottaro e Corrado Di Giovanni. Il primo è stato vittima di un furto di identità che lo portò ad essere condannato per una rapina che non aveva commesso. Il 47enne romano, che stasera racconterà la sua storia in trasmissione, ha passato alcuni anni in carcere e alcuni ai domiciliari. Corrado di Giovani, invece, fu accusato di essere la talpa di una banda di criminali che rapinavano le ville degli imprenditori. Il 57 enne di Pordenone ha trascorso più di un anno in carcere e diversi mesi di domiciliari pur essendo totalmente innocente. Questa sera, le storie di Fabrizio e Corrado verranno raccontate e analizzate nella trasmissione.

Sono Innocente, le storie di Corrado Di Giovanni e Fabrizio Bottaro sabato 28 gennaio, scrive Luca Fusco il 28 gennaio 2017. Stasera in tv su Rai 3 quarta puntata di Sono Innocente, programma di Alberto Matano sulle vittime di ingiustizie, Corrado Di Giovanni e Fabrizio Bottaro. Corrado Di Giovanni e Fabrizio Bottaro. Le loro storie, i loro casi di ingiustizia saranno sotto la lente di ingrandimento con analisi e ricostruzioni della quarta puntata di Sono Innocente stasera in tv, sabato 28 gennaio con Alberto Matano. La puntata può essere vista anche in streaming, da pc, tablet e cellulari su Rai 3 Play mentre on demand dopo la mezzanotte su Rai Repley.

Corrado Di Giovanni, 57 anni, di Pordenone, viene accusato di essere la talpa di una banda sospettata di avere compiuto rapine nelle ville di imprenditori di Pramaggiore, Pasiano e Mansuè; quattordici mesi di carcere cautelare e uno ai domiciliari. Al processo di primo grado viene assolto. Sentenza confermata in appello. Oggi, colui che fatturava 8 milioni di euro l’anno è senza lavoro.

Il calvario di Fabrizio Bottaro, quarantenne designer di moda romano, ha origine per un errore purtroppo frequente: il classico “furto d’identità”, per il quale viene arrestato e messo in carcere. Quindi ai domiciliari. E poi ancora dietro le sbarre. E processato. Per una rapina che non aveva commesso.

Vivere l’esperienza del carcere può cambiare la vita. Soprattutto se non si è colpevoli. In studio Alberto Matano ricostruirà le singole vicende e introdurrà filmati, composti da fiction, interviste e materiali di repertorio, che accompagneranno lo sviluppo della narrazione. Il racconto attraverserà tre fasi della vita dei protagonisti chiaramente distinte: il periodo che precede lo sconvolgente episodio dell’arresto, la detenzione e l’iter giudiziario e la scarcerazione per riconosciuta innocenza. Al temine di questo percorso interverrà in studio il protagonista, che aggiungerà alla narrazione elementi sulla vita presente, sui problemi che si affrontano dopo un’ingiusta condanna e detenzione e sulla risposta personale ed esistenziale che segue, in modo soggettivo, ad un’esperienza così drammatica e dolorosa.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” il 28 gennaio 2017: Danno giudiziario. Due esempi di come certa magistratura sia fuori dal mondo. Primo esempio: l'Anm (sindacato che difende i privilegi delle toghe) ora protesta perché vuole che il pensionamento sia esteso oltre i 70 anni, mentre tutti gli italiani, che alla pensione faticano ad arrivarci, ambiscono al contrario. Intanto straparla di «autonomia e indipendenza della magistratura». E da qui il secondo esempio, che ci ha raccontato l'avvocato Giuseppe Lipera. Nel 2012 un maresciallo dei Carabinieri di Enna viene arrestato da altri carabinieri di Enna. L' accusa non è leggerina: ricettazione, detenzione di armi e droga e legami mafiosi. Finisce nel carcere militare e si va a processo, e neanche quello è una cacchiata: quattro anni e mezzo di dibattimento dopo il quale il Tribunale di Enna accoglie le richieste del pm e lo assolve con formula piena. Il maresciallo viene riammesso in servizio. Non solo: anche la Direzione Distrettuale Antimafia, che frattanto aveva indagato per anni, decide di archiviare ogni accusa pendente contro il maresciallo. Tutti felici? Manco per idea: la giustizia ha fatto ampiamente il suo corso (carabinieri contro un carabiniere, processo, indagini della Dda) ma arriva la procura generale di Caltanissetta che propone appello, cioè vuole che il processo venga rifatto. In sintesi: una procura chiede e ottiene l'assoluzione di un imputato in primo grado e un' altra procura si batte per farlo condannare in secondo grado. Ecco, questa «autonomia» e «indipendenza» esiste solo da noi.

Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Era un operaio della coop di Buzzi, lo hanno rovinato senza un processo e gli hanno tolto il lavoro. Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio «per motivi di ordine pubblico». Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di ‘ normale’ corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché «ci trattano come bestie da soma». Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a «non litigare» e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: «Non lo voglio tra i piedi». Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, «Adesso il capo sei tu», che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a ‘capo’ è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione «per motivi di ordine pubblico», che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite ‘kafkiane’. La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene «rapporti con la ‘ ndrangheta» e svolge un «ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa». Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo «sospeso» e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: «Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/ 2011… Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione». In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai «provvedimenti di prevenzione espressamente previsti» non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta.

«Sta morendo, scarceratelo». Udienza rinviata e lui muore, scrive Damiano Aliprandi il 25 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Stefano Crescenzi, 36 anni, era intubato. Ma per i giudici «poteva fuggire». L’avvocato aveva presentato richiesta di scarcerazione e cura in un luogo più idoneo. I magistrati non l’hanno scarcerato nonostante i medici avessero certificato che fosse in pericolo di vita. Avevano fissato per il 25 gennaio l’udienza del Riesame per discutere l’istanza di scarcerazione, ma Stefano Crescenzi è morto il 23. L’uomo, 36 anni, era un detenuto in attesa di giudizio e in fin di vita in ospedale. L’avvocato aveva presentato l’istanza di scarcerazione e cura in un luogo più idoneo. La Corte d’Assise aveva rigettato l’istanza, perché, secondo i magistrati, permanevano le condizioni per l’esigenza di cautela processuale. Le sue condizioni poi sono peggiorate sempre di più, tanto che gli avvocati difensori hanno tentato di ottenere un’altra istanza di scarcerazione. L’urgentissima richiesta formulata dagli avvocati – con la certificazione sanitaria dell’11 gennaio dell’ospedale Don Bosco di Napoli che attestava l’imminente pericolo di vita – ancora non ha ricevuto risposta. In attesa dell’udienza definitiva, la revoca non è arrivata e Stefano Crescenzi è morto. Era in custodia cautelare dopo la condanna di primo grado, alla pena di anni 23 di reclusione, Corte di Assise di Roma per l’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto a Roma in via Aquaroni. A causa delle sue gravissime condizioni di salute, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva ritenuto che Crescenzi non potesse rimanere in un istituto penitenziario ordinario e ha deciso il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno al centro clinico della casa circondariale di Napoli – Secondigliano. Il peggioramento, però, proseguiva. Infatti, subito, i sanitari del centro clinico della struttura penitenziaria napoletana si erano resi conto che non avrebbero potuto assicurare le cure necessarie al detenuto, le cui condizioni diventavano incontrollabili. Così, la direzione sanitaria del penitenziario partenopeo aveva deciso il trasferimento all’ospedale Cardarelli di Napoli, e, di lì, ancora, infine, in condizioni a dir poco preoccupanti, all’ospedale don Bosco di Napoli. Ma il quadro clinico di Stefano Crescenzi non è mai migliorato e, secondo l’avvocato, la struttura non era idonea per la cura della patologia dell’uomo. Della vicenda se ne era occupato già Il Dubbio. Ad ottobre dello scorso anno, l’avvocato aveva presentato istanza di scarcerazione e cura in un luogo più idoneo, ma dopo quattro giorni l’istanza era stata rigettata. Secondo la Corte d’Assise rimaneva il pericolo sia di fuga che di recidiva. Un rigetto che lasciò di stucco l’avvocato difensore Dario Vannetiello del Foro di Napoli. Raggiunto da Il Dubbio, l’avvocato Vannetiello spiegò di aver inoltrato alla Corte la richiesta di «poter adottare con la massima urgenza tutte le iniziative opportune per salvare la vita del detenuto e, comunque, revocare la misura in atto o sostituire la stessa disponendo gli arresti domiciliari, anche sotto controllo del braccialetto elettronico, per curarlo presso un centro altamente specializzato per le cure della patologia da cui risulta affetto». L’avvocato, partendo dai presupposti di custodia cautelare: rischio di inquinamento prove, pericolo di fuga e rischio di reiterazione del reato sottolineò: «Per l’inquinamento di prove il rischio è superato avendo già la condanna di primo grado, per le altre due esigenze è impossibile che ci sia il rischio visto che attualmente è in coma con tanto di ventilazione e alimentazione artificiale». Ma la Corte decise che sussistevano le esigenze di custodia cautelare e che il detenuto doveva rimanere nell’ospedale dov’era in cura visto che, per le sue gravissime condizioni cliniche, era assolutamente impossibile il suo trasferimento. Siccome le condizioni di Stefano Crescenzi continuavano a peggiorare, il 19 gennaio i difensori hanno depositato un’altra istanza, stavolta alla Corte d’assise d’appello. Richiesta, quest’ultima, corredata della certificazione sanitaria dell’ospedale «attestante che il detenuto era in imminente pericolo di vita». Nel frattempo, il 13 gennaio, c’era stata un’udienza davanti al Riesame, ma i giudici, riferiscono gli avvocati, anche se «avevano già ricevuto l’allarmante comunicazione dei sanitari del San Giovanni Bosco circa il rischio di morte del Crescenzi, hanno deciso di conferire un incarico peritale rinviando all’udienza del 25 gennaio». Data a cui il 36enne non è arrivato vivo.

La bambina ha un anno, è malata ma per i giudici deve restare in carcere, scrive Damiano Aliprandi il 26 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il caso nel penitenziario di Cagliari. La madre è una rom condannata per piccoli reati e la piccola ha bisogno di cure. È una storia incredibile. Incredibile ma verissima: C’è una bambina piccola piccola, che ha appena 14 mesi e ha subito da poco un’operazione chirurgica abbastanza complicata alla bocca e al palato. Ha bisogno di cure continue. Non può averle. Perché? Perché vive in prigione. Sì: in cella, a Cagliari, con la sua mamma, una giovane donna rom che ha subito varie piccole condanne, ma che sommate l’una all’altra le costano otto anni. Il caso, che francamente è clamoroso, è stato denunciato da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione “Socialismo Diritti Riforme” che si occupa dei diritti dei detenuti nelle carceri sarde. Una bambina di 14 mesi ha bisogno di cure perché ha subito un intervento chirurgico piuttosto delicato alla bocca e al palato. Ma è in carcere con la madre e queste cure non può riceverle. La donna – che è una rom – ha subìto una serie di condanne definitive per reati minori, ma le condanne si sono accumulate fino ad arrivare a otto anni di reclusione. A denunciare la vicenda è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione “Socialismo Diritti Riforme” che si occupa dei diritti dei detenuti nelle carceri sarde. «Da una settimana, la bambina è rinchiusa con la giovane madre nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari- Uta – dice Caligaris -, la piccola, che ha subito di recente un intervento chirurgico di labiopalatoschisi, necessita di particolari condizioni igienico- sanitarie e nutrizionali. La sua permanenza in carcere, nonostante l’impegno delle agenti, dei medici e degli infermieri, risulta inaccettabile. Le Istituzioni devono farsi carico di trovare una sistemazione alternativa alla donna e alla bambina». Sottolinea sempre la presidente di Sdr: «Madre e figlia sono assistite con professionalità e tenerezza, ma la situazione è tuttavia molto delicata perché la bimba deve essere costantemente monitorata e le visite pediatriche in ospedale possono avvenire solo con la scorta in un momento in cui peraltro il numero del personale penitenziario è ridotto all’osso. Per quanto possano esservi esigenze cautelari gravi una madre con una creatura di 14 mesi, e altri due bambini in tenera età, non può stare in carcere e le istituzioni devono farsi carico di trovare delle strutture a custodia attenuata». Ci sarebbe l’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) ma è dislocato purtroppo in una località periferica e richiede la presenza costante di agenti della polizia penitenziaria. E allora. Dice la Calligaris: «Esistono alternative alla detenzione carceraria che non possono essere ignorate». Nonostante gli sforzi del ministro della Giustizia per risolvere la questione dei bambini dietro le sbarre, i numeri ancora risultano alti. Secondo l’ultima proiezione messa a disposizione dal ministero della Giustizia, al 31 dicembre del 2016 all’interno delle carceri italiani sono detenuti 37 bambini. Sempre dalla stessa statistica risulta che ad oggi gli Icam attualmente sono a Torino ‘Lorusso e Cutugno’, Milano ‘ San Vittore’, Venezia ‘ Giudecca’ e a Cagliari. Quest’ultimo, come ha denunciato la presidente di Sdr, si trova in una località periferica e quindi presenta delle criticità logistiche. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, per le madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva affrontato il problema dei bambini in carcere avviando a Milano la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri. Tale modello è stato realizzato in una sede esterna agli istituti penitenziari, dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini. Ad oggi il governo ancora non ha adeguatamente investito in tali strutture esterne al carcere e quindi decine di bambini sono costretti a vivere dentro le patrie galere. L’altro problema è quello della troppo ampia discrezionalità dei magistrati di sorveglianza. Nonostante la legge contempli anche la detenzione domiciliare per le detenute madri, non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è anche la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom come nel caso denunciato da Caligaris. Per sanare questo problema, la legge contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette. Ad oggi ne è stata realizzata solo una grazie al finanziamento di 150 mila euro da parte della fondazione Poste insieme onlus. Si chiama “Casa di Leda “ed è un edificio confiscato alla mafia nel quartiere romano dell’Eur. Ancora non è operativa, ma il comune di Roma ha promesso che lo sarà al più presto.

Se il bullo lo trovi in tribunale, scrive Piero Sansonetti il 24 gennaio 2017 su "Il Dubbio". La storia, raccontata sulla terza rete, di una donna sbattuta in cella e poi presa in giro dal pm: «Il carcere è una bella esperienza». Vietato far nomi. Il Pm che l’aveva fatta arrestare senza avere in mano neppure lo straccio di un indizio sulla sua colpevolezza, non ha pensato di chiedere scusa per la propria leggerezza: gli è sembrato più ragionevole rivendicare il proprio atteggiamento e suggerire alla vittima, alla quale aveva rovinato la vita, di ringraziare per il trattamento ricevuto. La vittima, ingrata, non ha ringraziato sua eccellenza. L’altro giorno Selvaggia Lucarelli ha scritto un articolo molto bello sul “Fatto quotidiano” (beh, per una volta anche noi parliamo bene del “Fatto”…) nel quale racconta un episodio tremendo di bullismo tra i bambini del collegio – prestigiosissimo – San Carlo di Milano, e se la prende con le autorità scolastiche e coi giornali che invece di parlare di bullismo parlano di “situazioni di emergenza educativa”. La Lucarelli osserva, con tristezza, che bulli sono solo i teppisti di periferia, se invece sei di buona famiglia e fai il gradasso violento, è meglio trovare un altro termine per parlare di te. Già. Se poi non solo sei di buona famiglia, ma sei un magistrato, meglio non parlarne affatto…Per fortuna è venuta la terza rete della Rai a raccontarci questo episodio, che davvero è sconvolgente. E però anche la terza rete della Rai ha voluto tenere un velo, un piccolo velo. Come si chiama questo pubblico ministero? Non si sa. Perché se un medico sbaglia un’operazione finisce subito sul giornale, con nome, cognome, fotografia, nomi dei parenti… perché se un professore sbaglia a comportarsi con gli allievi, o un ingegnere a fare dei calcoli, o un giornalista scrive una notizia non vera, il professore e l’ingegnere e il giornalista vengono processati in pubblico, e se invece un magistrato rovina la vita a un poveretto, o a una poveretta, ha diritto non solo a non risponderne davanti alla legge ( perché la responsabilità civile, nonostante leggi varie e riforme varie delle leggi, praticamente non esiste) ma neppure dinnanzi all’opinione pubblica? Sarebbe logico il contrario. Che su chi detiene un potere più grande ricada una responsabilità più grande. Invece, se sei un furbetto del cartellino a 1300 euro al mese, e ti beccano, puoi essere crocifisso, mostrato in Tv, seguìto per strada dalle telecamere dei giornalisti di assalto. Se sei un magistrato hai diritto alla privacy. La storia di questo Pm e questa signora di Lodi è stata raccontata molto bene, sabato sera, dalla trasmissione “Io sono innocente” sul terzo canale della Rai. E commentata in modo saggio e adeguato da Alberto Matano, che conduce in studio. Dico subito che questa trasmissione, che va in onda il sabato sera, è assai bella, avvincente e merita applausi (ma anche qualche critica, come quella che è stata rivolta su queste colone, lunedì scorso, da Francesco Petrelli, e che qui ribadiamo: la malagiustizia non cade dal cielo ma ha dei colpevoli con nome e cognome). Succede che in un ente pubblico viene firmata una autorizzazione che non dovrebbe essere autorizzata. Il responsabile sostiene che la firma non è sua ma è stata falsificata ed è stata falsificata da una dipendente, che sarebbe, appunto, quella giovane signora di cui parlavamo all’inizio dell’articolo. Il Pm ci crede e manda i carabinieri, in piena notte, ad arrestare questa signora, ignara e incensurata. La quale senza neanche capire cosa sta succedendo viene sbattuta in cella. Indicata al paese intero come truffatrice. Moralmente linciata. Costretta a dimettersi dal posto di lavoro. Terrorizzata. E poi, dopo 22 giorni, sottoposta alla perizia calligrafica e del tutto prosciolta. E finalmente scarcerata. Non si poteva fare prima la perizia? C’era bisogno di arrestare una ragazza incensurata perché accusata da un suo superiore di aver falsificato una firma? Non bastava, eventualmente, un avviso di garanzia? Perché sono stati necessari 22 giorni di cella per accertare una verità evidentissima sin dall’inizio? E come può permettersi un Pm che ha tenuto per tre settimane un’innocente in cella, di prenderla pure in giro con quella affermazione sull’esperienza formativa del E’ del tutto evidente che questo caso non è indicativo del comportamento della magistratura. Sono sicuro che parecchi magistrati l’altra sera hanno visto la trasmissione di Rai tre e si sono indignati esattamente quanto me, per il comportamento del loro collega. Però la questione resta aperta: dal momento che la magistratura (e spesso il singolo Pm) ha un potere enorme sulle nostre vite (come ha detto giorni fa alla Camera il ministro Orlando), ha anche il potere di ferirle in modo permanente e irreparabile, è giusto che i magistrati esercitino il loro potere in assoluta discrezionalità e senza temere che un loro errore possa minimamente danneggiarli né scalfire la loro immagine? E’ utile che una società sia organizzata in modo che tutti sono uguali, tutti devono rispondere di ciò che fanno, tranne una piccola categoria di persone che invece gode del privilegio di poter svolgere il proprio lavoro senza che nessuna entità “esterna” possa giudicarlo? Tutto ciò non introduce nella comunità in cui viviamo un elemento di evidente autoritarismo, che riduce considerevolmente lo stato di diritto? Molto recentemente è stato proprio il numero 1 della magistratura italiana, Giovanni Canzio, a lamentarsi con il Csm perché quando da un giudizio su un magistrato, nel 99,9 per cento dei casi da un giudizio positivo. Cioè a lamentarsi per lo stato di “non controllo” nel quale i magistrati svolgono i loro compiti. Ha perfettamente ragione, Canzio. Ed è molto importante che questa osservazione giunga dall’interno della magistratura. Forse però anche noi dovremmo scrollarci di dosso tante paure, non farci più intimidire. Dico noi giornalisti, noi cittadini, noi avvocati. La signora di Lodi è stata linciata per giorni e giorni dai mezzi di informazione. Nessuno invece, a partire dalla Tv, ha messo in pubblico il nome del magistrato, che è proibito chiamare “Bullo” come i bambini del San Carlo in stato di disagio educativo (per il Pm potremmo parlare di disagio giudiziario…). P. S. Il secondo caso trattato nella trasmissione di Rai- tre sabato sera riguardava un ragazzo di 22 anni arrestato il giorno del funerale di suo fratello (ucciso dalla camorra) e accusato di avere ucciso a sua volta l’assassino di suo fratello. Non era vero. Si è fatto nove anni di prigione. Nessuno sa come mai non sia impazzito. Dopo nove anni il vero killer ha confessato e fornito i riscontri, e lui è stato scarcerato. Non ha ancora ricevuto il risarcimento.

Quinto appuntamento con il programma televisivo che dà voce a quanti hanno vissuto l'esperienza traumatica del carcere da innocenti. I casi di stasera, scrive Valentina Addesso su "Italia Post" il 4 febbraio 2017. Un nuovo appuntamento su Rai3, con la trasmissione che dà spazio a quanti sono stati in carcere senza aver commesso nessun reato. Errori della giustizia pagati a caro prezzo. Vediamo insieme le anticipazioni dei casi che verranno trattati questa sera nella quinta puntata di “Sono Innocente”. Persone normali, che vivono la loro vita come ognuno di noi, che si ritrovano in carcere per reati che non hanno mai commesso. Sono queste le storie e le testimonianze che vengono raccontate dai protagonisti della trasmissione “Sono Innocente”. Questa sera, con la conduzione di Alberto Matano, conosceremo due importanti casi, quello di Anna Maria Manna e quello di Antonio Lattanzi.

Il primo caso vede come protagonista una donna, all’epoca dei fatti 30enne, che alcuni anni fa fu coinvolta nelle indagini di pedofilia a danno di bambini delle scuole elementari. Il fatto accadde a Palagiano, un paesino pugliese in provincia di Taranto. Alcuni bambini raccontarono alle maestre di festini a sfondo sessuale con alcuni adulti. Erroneamente tra le persone coinvolte venne additata anche Anna Maria Manna, che trascorse 15 giorni in carcere, prima a Torino e poi a Taranto. Un’esperienza molto dolorosa per la donna, che fu accusata di pedofilia, minacciata ed emarginata, fino a quando non fu richiesto l’incidente probatorio, da parte del pubblico ministero, che la scagionò da ogni accusa. 

Il secondo caso che verrà trattato durante la serata, è quello di Antonio Lattanzi, nel 2002 assessore comunale de L’Aquila, che fu accusato di tentata concussione dalla Procura de L’Aquila e successivamente arrestato. Dopo esser stato scagionato dal Tribunale del Riesame, il Gip emise altre tre ordinanze e lo ripotò in galera. Arrestato quattro volte, Antonio Lattanzi ha passato circa tre mesi in carcere per reati mai commessi.

Martinsicuro, la storia di Toni Lattanzi a “Sono innocente”, su Rai3, scrive Lino Nazionale il 4 febbraio 2017 su "City Rumors". Oltre 80 giorni trascorsi in carcere, da innocente. La storia di Toni Lattanzi, ex assessore ai lavori pubblici del Comune di Martinsicuro questa sera alle 21,10 su Rai3 nella trasmissione “Sono Innocente”, condotta da Alberto Matano. Sarà ricostruita la terribile vicenda di Lattanzi che nel 2002 venne arrestato con pesanti accuse come la tentata concussione. Una vicenda giudiziaria carica di errori, complice anche false testimonianze che miravano a mettere nei guai Toni Lattanzi, oggi responsabile provinciale del movimento politico Noi con Salvini. 83 giorni trascorsi in carcere, durante i quali l’ex assessore ha covato anche propositi per farla finita. Ma ha combattuto la sua battaglia, lo ha fatto fino in fondo sino a quando la giustizia, seppur pachidermica e bradipa nel suo percorso, alla fine è riuscita ad accertare la verità. E così la vicenda di Toni Lattanzi, che ha fatto scalpore in Italia, torna nuovamente in Tv nel programma di successo “Sono Innocente” che tratta casi giudiziari e storie umane di persone che hanno dovuto trascorrere parte della loro vita dietro le sbarre. Oggi Toni Lattanzi è tornato ad essere un uomo attivo politicamente e conduce le sue battaglie a favore delle fasce più deboli. E soprattutto combatte per un giustizia vera.

La storia di Antonio Lattanzi e Anna Maria Manna. Due ennesimi casi di malagiustizia, scrive "Il Corriere del Giorno" il 5 febbraio 2017. Due incredibili vergognosi storie di errori giudiziari che hanno visto Anna Maria Manna e Toni Lattanzi “vittime” di due dei tanti casi di malagiustizia italiana. Una vera e propria odissea per Lattanzi durata dieci anni, con 4 arresti consecutivi, trascorrendo 83 giorni di ingiusta carcerazione, mentre alla Manna per la sua vicenda inesistente toccarono solo 15 giorni di carcere. Dopo aver seguito l’ultima puntata odierna del programma “Sono innocente” (RAI 3) condotto dal giornalista Alberto Matano, che si è occupata ieri di  Antonio Lattanzi, l’ex-assessore ai lavori pubblici di Martinsicuro (Teramo) , il quale ha raccontato il suo personale “folle” caso di persecuzione giudiziaria, Una vera e propria odissea durata  dieci anni, con 4 arresti consecutivi, trascorrendo 83 giorni di ingiusta carcerazione, vittima di atti giudiziari (o meglio di ripicca) conseguenziali alle altrettante decisioni del Tribunale del Riesame che annullava le folli teorie del solito pubblico ministero a caccia di protagonismo, con chi un magistrato ha manifestato in realtà  la propria incapacità investigativa. L’incredibile vergognosa storia giudiziaria che ha visto Toni Lattanzi “vittima” di uno dei tanti casi di malagiustizia italiana, è stata trattata anche dal docufilm “Non guardarmi indietro” realizzato dal regista Francesco Del Grosso, era stata seguita dal programma televisivo “Le Iene” (Italia1), ora si appresta a diventare un libro. “Non auguro a nessuno – dice Lattanzi al quotidiano Il Messaggero – quello che ho passato io. E non smetterò mai di ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicini in questi lunghi anni, in primis la mia famiglia, e tutte quelle persone che continuano a tenere alta l’attenzione, come l’associazione ErroriGiudiziari.com “. “Quando mi chiamano a partecipare a queste trasmissioni – continua Lattanzi – lo faccio sempre volentieri perchè spero sempre con tutto il cuore che questi errori (o abusi? n.d.r.)  non si ripetano più in futuro . Credo poi che sia doveroso lanciare un messaggio di speranza a chi dovesse trovarsi in questa drammatica situazione. Vi assicuro che è dura, anche dopo l’assoluzione piena, dover combattere lo stesso contro i sommari giudizi della gente, ci vuole una grande forza d’animo per uscirne e tornare a vivere”.

Un altro caso trattato è stato quello di Anna Maria Manna avvenuto in Puglia. Nel 1999 il paese di Palagiano (Taranto) venne sconvolto da un’inchiesta giudiziaria: dei bambini di una scuola elementare confessarono alle proprie maestre di aver partecipato a dei festini a sfondo sessuale con degli adulti. Nell’inchiesta venne coinvolta anche Anna Maria Manna, una giovane trentenne, perché, sebbene confusamente, viene riconosciuta tra le foto mostrate dagli investigatori. La Manna passò 15 giorni in carcere, prima a Torino, dove si trovava per un concorso pubblico proprio in uno dei giorni in cui era svolto uno dei “festini”, poi trasferita a Taranto. Viene additata come una pedofila, emarginata e minacciata. “Non so assolutamente perchè sono finita nell’inchiesta ha dichiarato la Manna. Il suo legale Antonio Orlando ha evidenziato gli errori “In un passaggio viene chiesto ad un bambino se avesse toccato la donna e dove. Il bambino risponde: sul naso”. Ma nelle trascrizioni compare ben altro: “davanti”. Il difensore della Manna ha trovato molte altre incongruenze con le trascrizioni. Solo un bambino sostiene di aver visto la Manna fare l’amore con un uomo. “Mi accusarono di essere in una di queste feste. Mentre io ero a Torino. Ma questo non bastò agli inquirenti. Grazie all’incidente probatorio, richiesto dal suo legale, si riuscì a provare la sua innocenza.  Infatti i bambini non la riconoscono. E’ la fine di un incubo. Ma chi ha pagato per questo errore giudiziario? Solo la povera Anna Maria. Che è stata risarcita dallo Stato con 63mila euro. La sua storia venne trattata anche in un precedente programma della RAI “Presunto colpevole”. Guardando gli abusi e follie giudiziarie del magistrato che ha ordinato per ben 4 volte la carcerazione del povero Lattanzi, abbiamo pensato alla richiesta di arresti del nostro Direttore formulata da due pubblici ministeri  dalla Procura di Taranto sulla base del nulla (rigettata dal Gip del Tribunale ), entrambe evidentemente a caccia di protagonismo mediatico (soltanto ?)  , le quali adesso dovranno rispondere del loro operato  dinnanzi alle Magistrature ed Autorità competenti, ci viene spontaneo chiedersi: ma è questa la “giustizia” di cui parla l’ ANM – Associazione Nazionale Magistrati ? Quando avremo anche in Italia una “giustizia giusta”, e soprattutto quando i magistrati saranno chiamati a rispondere dei loro abusi, omissioni e soprusi. Nei Paesi civili tutto questo non accade…

Sono Innocente, i casi di Giuseppe Giuliana e di Sandra Maltini, scrive Luca Fusco il 18 febbraio 2017. Torna Sono Innocente con la sesta puntata, Alberto Matano parla delle ingiustizie subite da Giuseppe Giuliana e Sandra Maltini. Giuseppe Giuliana e Sandra Maltini sono i protagonisti che hanno subito quelle che Alberto Matano ci racconta come storie di “giustizia ingiusta” nelle analisi e ricostruzioni della sesta puntata di Sono Innocente che torna in onda stasera in tv sabato 18 febbraio dopo la sosta della scorsa settimana per il Festival di Sanremo. 

Sandra Maltinti, architetto di 61 anni, è stata arrestata nel 2004 per una storia di tangenti sull’isola d’Elba. Sconta 72 giorni di carcere e 15 ai domiciliari prima che il suo caso venga di nuovo sottoposto a giudizio. L’indagine che la vede coinvolta si riferisce al comune di Portoferraio dove, secondo l’accusa, si era creato un comitato d’affari che, con la complicità di alcuni imprenditori, gestiva il potere e che vedeva coinvolti il sindaco, gli esponenti della sua amministrazione e il capo dell’ufficio tecnico, Sandra Maltinti, appunto. Viene trasferita nel carcere di Sollicciano con l’accusa di aver favorito degli imprenditori con concessioni edilizie e svendite di terreni in cambio di sostegno elettorale. Solo l’8 luglio 2008 arriva la sentenza di assoluzione con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Ha scritto un libro nel quale affronta la vita in cella, le compagne, gli hobby che servono per sopravvivere e il malessere per la libertà persa ingiustamente.

Cinque anni di carcere più 2 anni e 5 mesi con l’obbligo di dimora e divieto di espatrio per un omicidio mai commesso. Un errore giudiziario per il quale Giuseppe Giuliana, bracciante agricolo di 50 anni originario di Canicattì (Agrigento), ha chiesto e ottenuto un risarcimento dallo Stato di 500.000 euro. Riconosciuto colpevole in primo grado dalla Corte di Assise il 4 luglio 1997, la sentenza venne confermata anche dalla Corte di Appello: condanna a 19 anni di reclusione per omicidio, detenzione e porto d’armi da fuoco, rapina aggravata. Giuseppe Giuliana ha continuato a proclamarsi innocente tanto da riuscire a far riaprire il caso… che si è concluso con una sentenza di assoluzione da parte della Corte d’Assise d’Appello di Catania il 6 dicembre 2014. Ora si sta lentamente ricostruendo una vita.

Sono Innocente, quando la giustizia diventa ingiustizia. Vivere l’esperienza del carcere può cambiare la vita. Soprattutto se non si è colpevoli. In studio Alberto Matano ricostruirà le singole vicende e introdurrà filmati, composti da fiction, interviste e materiali di repertorio, che accompagneranno lo sviluppo della narrazione. Il racconto attraverserà tre fasi della vita dei protagonisti chiaramente distinte: il periodo che precede lo sconvolgente episodio dell’arresto, la detenzione e l’iter giudiziario e la scarcerazione per riconosciuta innocenza. Al temine di questo percorso interverrà in studio il protagonista, che aggiungerà alla narrazione elementi sulla vita presente, sui problemi che si affrontano dopo un’ingiusta condanna e detenzione e sulla risposta personale ed esistenziale che segue, in modo soggettivo, ad un’esperienza così drammatica e dolorosa.

Settimo appuntamento con il programma “Sono Innocente” in onda su Rai 3 che racconta, con la conduzione di Alberto Matano, tutte quelle storie di cattiva giustizia che hanno costretto uomini e donne innocenti a scontare la pena del carcere, scrive Valentina Addesso il 25 febbraio 2017 su "Italia Post". Che sia di pochi giorni o lunga diversi anni, l’esperienza del carcere segna sempre in modo negativo e totale la vita di una persona. I casi che verranno raccontati questa sera sono due, quello di Gerardo De Sapio e quello di Vittorio Luigi Colitti.

Brigadiere dei Carabinieri di Avellino, Gerardo De Sapio, nel 2008 venne accusato di per favoreggiamento al clan mafioso dei Genovese. Lui, da trent’anni impegnato a combattere la criminalità organizzata, venner arrestato dai suoi colleghe per volere del Dda di Napoli. Gerardo trascorrerà 19 lunghi giorni nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. L’incubo finirà, con la restituzione dell’onore della carriera, soltanto nel 2009, quando il Tribunale di Napoli lo dicharerà assolto per non aver commesso il fatto.

Vittorio Luigi ha trascorso ben quattordici mesi presso l’istituto penale minorile di Bari quando, ancora minorenne, venne accusato di omicidio (in concorso con suo nonno Vittorio) di Giuseppe Basile, consigliere dell’Italia dei Valori, assassinato davanti alla sua abitazione in provincia di Lecce. Il ragazzo, scagionato e riteuto innocente, soffrea ancora oggi di stress post traumatico di grado severo e di attacchi di panico, sengno lasciato dalla brutta esperienza del penitenziario in una fase molto delicata ed importante della vita come quella dell’adolescenza.

Sono Innocente, i casi di Gerardo De Sapio e di Vittorio Luigi Colitti stasera su Rai 3, scrive Luca Fusco il 25 febbraio 2017. Settima puntata di Sono Innocente questa sera sabato 25 febbraio su Rai 3 con Alberto Matano le ingiustizie su Gerardo De Sapio e di Vittorio Luigi Colitti. Gerardo De Sapio e Vittorio Luigi Colitti sono i protagonisti, a malincuore, stasera in tv sabato 25 febbraio di quelle ingiustizie che Alberto Matano ci racconta come storie nelle analisi e ricostruzioni della settima puntata di Sono Innocente che torna in onda su Rai 3 dopo le 21 in prima serata. La puntata può essere vista anche in streaming, da pc, tablet e cellulari su Rai 3 Play mentre on demand dopo la mezzanotte su Rai Repley.

Vittorio Luigi Colitti ha trascorso oltre quattordici mesi presso l’istituto penale minorile di Bari per un omicidio che non ha mai commesso. Infatti, ancora minorenne, è stato accusato (in concorso con il nonno Vittorio) dell’omicidio di Giuseppe Basile, consigliere dell’Italia dei Valori, assassinato davanti alla sua abitazione a Ugento – in provincia di Lecce – la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. Il giovane è stato assolto per ben due volte. La sentenza è diventata definitiva e irrevocabile il 28 maggio 2013. Una vicenda che ha segnato per sempre la vita del giovane e della sua famiglia. Vittorio, un ragazzo come tanti, ha visto sgretolarsi nei mesi i suoi affetti, gli studi, il lavoro e i legami più cari. Ha sviluppato, come accertato dai consulenti, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica, e con sopraggiunti attacchi di panico, con un danno biologico residuo pari al 35%”.

L’otto marzo 2008 è un giorno che Gerardo De Sapio non dimenticherà mai. E’ l’inizio di un incubo per il brigadiere dei Carabinieri di Avellino, trent’anni in prima linea contro la criminalità organizzata, che viene arrestato dai suoi colleghi, su disposizione della Dda di Napoli, per favoreggiamento al clan Genovese. Avrebbe passato informazioni di natura mafiosa. De Sapio trascorrerà diciannove lunghi giorni di carcere, quello militare di Santa Maria Capua Vetere, dove il sottufficiale conoscerà anche Bruno Contrada. L’onore di una carriera, vissuta in zone calde della Campania da sottufficiale, sarà restituito solo nell’aprile del 2009, quando il Gip del Tribunale di Napoli lo dichiarerà assolto per «non aver commesso il fatto». Per il brigadiere è la fine di un incubo.

Brigadiere arrestato ingiustamente chiede un milione di risarcimento Monteforte, scrive il 05/05/2013 Attilio Ronga su "Corriere Irpinia". L'otto marzo 2008 è un giorno che Gerardo De Sapio non dimenticherà mai. E' l'inizio di un incubo per il brigadiere dei Carabinieri di Avellino, trent'anni in prima linea contro la criminalità organizzata, che viene arrestato dai suoi colleghi su disposizione della Dda di Napoli per favoreggiamento al clan Genovese. «Incastrato», come si scrisse all'epoca, dalle indagini coordinate dalla pm Maria Antonietta Troncone. Per lui, diciannove lunghi giorni di carcere, quello militare di Santa Maria Capua Vetere, dove il sottufficiale conoscerà anche Bruno Contrada. Poi arriva il primo verdetto su quella misura cautelare. Quello dei magistrati del Riesame di Napoli, che annullano la misura cautelare firmata dal Gip Fallarino. L'onore di una carriera vissuta in zone calde della Campania dal sottufficiale, come Castello di Cisterna, sarà restituito comunque solo nell'aprile del 2009. Quando il Gip del Tribunale di Napoli Nicola Miraglia del Giudice lo manderà assolto per «non aver commesso il fatto». Così come aveva chiesto non solo il suo difensore, il penalista Gaetano Aufiero, ma anche lo stesso pm impegnato nel procedimento, il magistrato antimafia Carmine Esposito. E' la fine di un incubo per il brigadiere. Quello scatenato a causa di un'intercettazione in carcere. Quel nome, Gerardo. Quelle informazioni che sarebbero passate ai vertici del clan Genovese. Tutto falso, dirà il Gup Miraglia del Giudice. Ora De Sapio presenta il «conto». Se si può dire così per tutto quello che il sottufficiale ha subìto anche durante la sua detenzione. Un milione di euro. La richiesta di risarcimento danni che i suoi legali si preparano a formalizzare nelle prossime ore. Una battaglia che dovrebbe restituire in minima parte quanto sofferto da De Sapio. Che in questi anni si è comunque battuto, e lo sta facendo ancora, affinché i responsabili del suo arresto pagassero per gli errori compiuti nel corso delle indagini. Denunce, ma anche proteste come quella che il sottufficiale portò finanche all’attenzione dell’allora Procuratore della Repubblica Angelo Di Popolo, nell’ottobre del 2010. Per lui ora inizia la battaglia più importante. Il riconoscimento che qualcuno sbagliò, quando quella mattina del 2008 bussò all’abitazione di De Sapio per compiere quello che si è rilevato un arresto ingiusto. Saranno altri magistrati ora a decidere se questa maxirichiesta di indennizzo da parte del sottufficiale possa essere valida o meno. Lui, De Sapio, sicuramente non demorde. Tanto che cartello alla mano, ha già girato l’Italia per protestare contro una giustizia che nel suo caso è stata abbastanza «cieca».

"Sono innocente", su Rai 3 la storia di Vittorio Colitti e del nonno, accusati dell'omicidio Basile, scrive domenica 26 febbraio 2017 "Lecce sette”. Durante la puntata di eri il racconto dell'arresto, della detenzione e infine dell'assoluzione dei due ugentini accusati di aver ucciso il consigliere dell'Italia dei Valori. La storia dei due Colitti, Vittorio Luigi e del nonno Vittorio, accusati dell'omicidio di Peppino Basile, è stata raccontata ieri in prima serata su Rai 3 nel corso della trasmissione “Sono Innocente”. Nonno e nipote, assolti dall'accusa, hanno ripercorso tra le lacrime le tappe dell'arresto, la detenzione in carcere e il ritorno alla libertà. Una storia triste che ha segnato la famiglia Colitti, la comunità di Ugento e soprattutto la vita del giovane Vittorio che al momento dell'arresto aveva solo 17 anni. Sullo sfondo la consapevolezza che un delitto efferato come quello del consigliere dell'Italia dei Valori è tuttora senza colpevoli.

Ugento: Vittorio Luigi Colitti, minorenne accusato e in carcere per un omicidio mai commesso. L'assassinio di Giuseppe Basile, a metà giugno 2008. Se ne parla a "Sono innocente", scrive il 25 febbraio 2017 "Noi Notizie". La puntata di stasera del programma “Sono innocente” (Raitre) descrive due casi. Quello di Gerardo De Sapio, ad esempio: avellinese investigatore integerrimo, si fece un anno di carcere perché sospettato di legami con la camorra. Nel 2009 venne completamente riabilitato. C’è poi un caso pugliese, quello di Vittorio Luigi Colitti: in galera a diciotto anni per un omicidio mai commesso. Dopo la vicenda di Angelo Massaro di Fragagnano, alla ribalta in questi giorni (21 anni di carcere per un clamorosissimo quanto gravissimo errore giudiziario) ecco un altro caso sbagliato dall’amministrazione della giustizia. Di seguito il comunicato dello Sportello dei diritti: Vittorio Luigi Colitti ha trascorso oltre quattordici mesi presso l’istituto penale minorile di Bari per un omicidio che non ha mai commesso. Infatti, ancora minorenne, è stato accusato (in concorso con il nonno Vittorio) dell’omicidio di Giuseppe Basile, consigliere dell’Italia dei Valori, assassinato davanti alla sua abitazione a Ugento – in provincia di Lecce – la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. Il giovane è stato assolto per ben due volte. La sentenza è diventata definitiva e irrevocabile il 28 maggio 2013. Una vicenda che ha segnato per sempre la vita del giovane e della sua famiglia. Vittorio, un ragazzo come tanti, ha visto sgretolarsi nei mesi i suoi affetti, gli studi, il lavoro e i legami più cari. Ha sviluppato, come accertato dai consulenti, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica, e con sopraggiunti attacchi di panico, con un danno biologico residuo pari al 35%”.

Torna questa sera sabato 4 marzo, a partire dalle 21.10 su Rai 3, l’appuntamento settimanale con il programma di approfondimento giornalistico “Sono innocente” condotto da Alberto Matano, giunto alla sua ottava puntata di questa prima stagione, scrive Nico Donvito. Di seguito tutte le anticipazioni sui casi che verranno trattati nel corso della trasmissione. La trasmissione si occupa del raccontare le storie di uomini e donne protagoniste loro malgrado di errori giudiziari, che si sono ritrovati a scontare delle pene per reati mai commessi, catapultati in un vero e proprio incubo, con una realtà spietata come quella del carcere. I due casi che verranno esposti nel corso di questa serata, riguardano Roberto Giannoni e di Gigliola Di Michele.

Roberto è un direttore di banca livornese, che fu arrestato il nel 1992 con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, estorsioni, riciclaggio, traffico di stupefacenti e armi. Stando alle prime indagini, era stato considerato dagli inquirenti il braccio destro finanziario della mafia in Toscana, avvalorate da alcune dichiarazioni spontanee rilasciate da due collaboratori di giustizia. Ha trascorso un anno in carcere in regime di 41 bis, ma con gli anni è riuscito a dimostrare la sua totale estraneità ai fatti. La storia di Gigliola, invece, risale al 2009, quando assieme al suo datore di lavoro viene arrestata per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento. Una fatto che la segnerà moralmente per sempre, ma anche lei riuscirà a dimostrare la sua innocenza.

Altri casi di errori giudiziari, che si aggiungono a quelli raccontati con professionalità dall’emittente pubblica, nelle sette puntate precedenti. Appuntamento, dunque, per questa sera sabato 4 marzo, alle 21.10 in prima serata su Rai 3. Sono Innocente, i casi di Roberto Giannoni e Gigliola Di Michele stasera su Rai 3, scrive Luca Fusco. Ottava puntata di Sono Innocente stasera sabato 4 marzo su Rai 3 con Alberto Matano le storie tristi di Roberto Giannoni e Gigliola Di Michele. Roberto Giannoni e Gigliola Di Michele sono stati e saranno i protagonisti, loro malgrado, delle storie di “ingiusta giustizia” che Alberto Matano ci racconta stasera in tv sabato 4 marzo nella ottava puntata di Sono Innocente che torna in onda su Rai 3 dopo le 21 in prima serata. La puntata può essere vista anche in streaming, da pc, tablet e cellulari su Rai 3 Play mentre on demand dopo la mezzanotte su Rai Repley.

Coniugata con un agente di polizia municipale e mamma di una figlia adolescente, Gigliola Di Michele lavora mezza giornata come badante e l’altra metà come segretaria presso un’agenzia immobiliare di Silvi (Teramo). La mattina del 5 marzo 2009 i carabinieri suonano alla sua porta e la prelevano dall’abitazione, ammanettandola. Il proprietario dell’agenzia dove lavora è stato arrestato per sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento. Passerà un giorno in carcere e 28 giorni ai domiciliari. Le modalità dell’arresto e il rilievo che la notizia ha avuto sui giornali locali l’hanno distrutta psicologicamente. Tutta la famiglia ne ha risentito: il marito e soprattutto la giovane figlia adolescente che, a scuola, ha subito parecchie discriminazioni tanto da essere bocciata e perdere tutte le amicizie.

Direttore di banca a Livorno, Roberto Giannoni fu arrestato il 10 giugno del 1992 con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, estorsioni, riciclaggio, traffico di stupefacenti e armi. Era ritenuto la mente finanziaria della mafia in Toscana: tutto si reggeva sulle dichiarazioni rilasciate da due collaboratori di giustizia. È stato assolto al termine di un processo durato quasi quattro anni, con oltre 450 testi portati dall’accusa. È stato detenuto per 12 mesi, i primi due in “alta sorveglianza”, il resto in regime di 41 bis. Oggi è un uomo libero che ha reagito positivamente a questa esperienza drammatica e va in carcere ad assistere, volontario, i detenuti di Porto Azzurro.

Vivere l’esperienza del carcere può cambiare la vita. Soprattutto se non si è colpevoli. In studio Alberto Matano ricostruirà le singole vicende e introdurrà filmati, composti da fiction, interviste e materiali di repertorio, che accompagneranno lo sviluppo della narrazione. Il racconto attraverserà tre fasi della vita dei protagonisti chiaramente distinte: il periodo che precede lo sconvolgente episodio dell’arresto, la detenzione e l’iter giudiziario e la scarcerazione per riconosciuta innocenza. Al temine di questo percorso interverrà in studio il protagonista, che aggiungerà alla narrazione elementi sulla vita presente, sui problemi che si affrontano dopo un’ingiusta condanna e detenzione e sulla risposta personale ed esistenziale che segue, in modo soggettivo, ad un’esperienza così drammatica e dolorosa.

Roberto Giannoni, in tv a “Sono innocente”. La vicenda di un bancario che ha passato un anno in carcere, ingiustamente accusato di essere «la mente finanziaria della mafia in Toscana». E che ha deciso di tornare in galera, da volontario, scrive Eugenio Arcidiacono su "Famiglia Cristiana" il 14/03/2017. Appena entrati nella sua casa, Roberto Giannoni mostra una piastrella: «Qui c’era mio padre in mutande quando i poliziotti sono entrati in casa. Erano le 4 e un quarto del mattino. Hanno perquisito tutto e mi hanno detto di chiamare il mio avvocato. Quando è arrivato ha letto i fogli dove erano indicati i capi di imputazione: droga, prostituzione, traffico d’armi, usura, associazione a delinquere di stampo mafioso... Mio padre ha trovato la forza solo per dirmi: “Ma che hai combinato”?». Sono passati quasi 25 anni da quel 10 giugno del 1992, quando la vita di un tranquillo direttore di banca è stata sconvolta per sempre. Ma lui ricorda ogni particolare: «Vede questa tovaglia? L’ha ricamata per me un mafioso come regalo quando sono uscito di prigione». Perché sono i dettagli che restituiscono il senso più profondo di questa storia che sarà raccontata su Rai 3 nella puntata del 4 marzo di Sono innocente, il programma di Alberto Matano che ricostruisce le vicende di persone vittime di errori giudiziari. Torniamo allora a quella notte e alla casa di Campiglia Marittima, nel Livornese, dove Giannoni vive ancora: «Dopo aver finito la perquisizione, i poliziotti mi hanno messo le manette. Prima siamo passati dalla mia banca e dopo ci siamo diretti in Questura dove insieme alla nostra arrivavano altre volanti: seppi poi che quella notte avevano arrestato 46 persone». All’ingresso è pieno di fotografi e giornalisti: «Un agente mi disse: “Si metta il giubbotto in testa e si copra il viso con il giornale. Proprio come in un film». Dalla Questura, nel pomeriggio il trasferimento alla Procura di Firenze, dove viene interrogato da tre magistrati: «Io raccontavo della mia vita e del mio lavoro e loro mi parlavano di rapine e di tangenti». Finché, quando è ormai mezzanotte, si decide di fare una pausa: «Un poliziotto iniziò a urlare: “Non hai detto nulla! Guarda che non esci più”. A quel punto scoppiai a piangere come un bambino. Mi riportarono dentro per interrogarmi fino alle due di notte. Poi un magistrato mi disse: “Ora la trasferiamo in carcere. Così con calma le tornano in mente le cose. Poi lei ce le racconta e se ne torna a casa”». Così il bancario varca per la prima volta le porte del carcere di Sollicciano. «Quando hanno aperto la cella e hanno acceso la luce ho visto solo facce di uomini neri. Mi sono messo a piangere di nuovo e a implorare: “Non voglio entrare!”. “Fate tutti così. Dovevi pensarci prima”, replica un secondino». Alla fine Giannoni viene sistemato in una cella di soli italiani, ma le cose per lui non si mettono bene, anzi. Dopo qualche giorno arriva la notizia del trasferimento sotto il regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi. «In realtà è stata la mia salvezza: non avrei mai resistito tra detenuti comuni. Invece il mio primo compagno di cella, il vecchio boss Silvio Mazziotti, dopo aver ascoltato la mia storia emise la sua sentenza: “Voi non mi sembrate un mafioso, mi sembrate piuttosto un bischero”. Usò una parola più colorita, ma il senso era quello». Da quel momento l’ex bancario (la banca lo licenziò due giorni dopo l’arresto) fu adottato da compagni che avevano decine di omicidi sulla coscienza come una mascotte: «Preparavo il caffè e scrivevo lettere per loro. Un altro boss, Giuseppe Misso detto “’o nasone”, mi ripeteva sempre: “Direttore, voi andrete via presto”». L’altro incontro cruciale in quei mesi fu con il cappellano, don Danilo Cubattoli, per tutti don Cuba. «Siccome a noi del 41 bis non era consentito di partecipare alla Messa in cappella, ci diedero il permesso di celebrarla durante l’ora d’aria. Così allestii l’altare su un tavolo da ping pong e da quel giorno divenni il chierichetto di don Cuba. Siamo diventati amici, fino alla sua morte nel 2006». Dopo un anno, Giannoni viene finalmente scarcerato per la scadenza dei termini della carcerazione preventiva. La sua seconda vita però è durissima: «Avevo perso totalmente il senso della distanza. Abituato a camminare al massimo per 25 metri, la lunghezza dello spazio dell’ora d’aria, dopo mi sembrava di precipitare nel vuoto. Non sapevo mai quando era il momento giusto per attraversare la strada e quando ho riprovato a guidare, alla prima curva sono finito fuori». In più, in attesa del processo, per tutti Giannoni è “La mente finanziaria della mafia in Toscana”, come titolò un giornale dopo il suo arresto. «La gente mi evitava e, se proprio non poteva farne a meno, scambiava due parole di circostanza e se ne andava». Ma lui ha bisogno di lavorare, anche perché la banca si è ripresa anche la casa e non vuole continuare a vivere con i genitori. «Passarono due anni prima che un mio amico tipografo mi offrisse di lavorare per lui come ragioniere». E solo un mese prima dell’inizio del processo, tre anni dopo l’arresto, Giannoni conosce su cosa si basano le accuse: le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: «Erano due clienti della mia banca, un uomo e una donna. Mi avevano messo in mezzo perché era stato detto loro che più nomi facevano e più la loro posizione si sarebbe alleggerita. Subito dopo averlo saputo, mio padre è morto d’infarto». In aula, l’uomo ritratta subito le accuse. La donna le ribadisce, ma è lo stesso pubblico ministero a smontarle. «In pratica, il Pm ha fatto quei semplicissimi riscontri che durante le indagini nessuno fece». Il 16 dicembre 1998 arriva la sentenza di assoluzione: «Erano passati 6 anni, 6 mesi e 6 giorni dal mio arresto. Tre mesi dopo, è morta anche mia madre». Come risarcimento per tutto questo, Giannoni ha ottenuto 200 milioni di lire. «Anzi, 199. Perché ho fatto ricorso in Cassazione, l’ho perso e quindi ho dovuto pagare le spese legali». E qui arriva la parte più incredibile di questa storia: dopo quello che ha passato, Giannoni decide di tornare in carcere, questa volta come volontario per la San Vincenzo de’ Paoli, perché «voglio restituire ai detenuti un po’ dell’umanità che loro hanno donato a me». È convinto che quanto è accaduto a lui possa ripetersi anche adesso, a causa «del protagonismo di certi magistrati, della smania di finire sui giornali. Oggi ho letto di un blitz in cui sono state arrestate 50 persone. Ma quante di queste alla fine saranno colpevoli? Nel mio caso, oltre a me, è finito in galera un ristoratore poi risultato totalmente estraneo a tutto». Agli inquirenti che hanno disposto il suo arresto, chiede solo una cosa: «Andate sulla tomba dei miei genitori e dite per loro una preghiera».

Sono Innocente stasera in tv su Rai 3: storie di Claudio Ribelli e di Michele Tedesco, scrive Luca Fusco l'11 marzo 2017. Claudio Ribelli e Michele Tedesco sono i protagonisti malgrado loro delle storie di “ingiusta giustizia” che Alberto Matano ci racconta stasera in tv sabato 11 marzo nella nona e penultima puntata di Sono Innocente che torna in onda su Rai 3 nel nuovo orario delle 22. La puntata può essere vista anche in streaming, da pc, tablet e cellulari su Rai 3 Play mentre on demand dopo la mezzanotte su Rai Repley.

Michele Tedesco, imprenditore che ha perso tutto a causa di false accuse di pentiti e oggi continua a lottare per riprendersi ciò che un arresto ingiusto gli ha portato via.

Sei mesi in carcere più altri sei ai domiciliari: un anno di detenzione per un reato mai commesso. È la storia dell’operaio Claudio Ribelli, di Sinnai (Cagliari), accusato di aver rapinato una donna puntando il coltello alla gola del suo bambino. Dopo alcune incertezze iniziali, la donna lo aveva indicato come esecutore della rapina. “Prima dell’arresto avevo supplicato le forze dell’ordine di confrontare le mie impronte digitali con quelle trovate sul posto. Mi risposero che non erano tenuti a farlo. Ho poi scoperto di essere finito in prigione soltanto perché quella mattina al bar avevo offerto un caffè alla persona che ha confessato il reato”. Ribelli era stato accusato di aver rapinato una donna e di aver puntato un coltello alla gola del suo bambino. Chiamato in causa dai carabinieri del suo paese, Claudio dopo alcune titubanze da parte della donna era stato indicato come esecutore della rapina. «Prima dell’arresto avevo chiesto alle forze dell’ordine di confrontare le mie impronte digitali con quelle trovate sul posto. Mi ero reso disponibile a qualsiasi tipo di controllo, anche a quello del Dna. Mi risposero che non erano tenuti a farlo. Ho poi scoperto di essere finito in prigione soltanto perché quella mattina al bar avevo offerto un caffè alla persona che ha confessato il reato, mentre facevo una serie di commissioni tra l’orto di casa e il paese».  Il 19 ottobre 2010 due uomini erano entrati a casa della donna fingendosi tecnici comunali per rapinarla. Uno di questi, Pierpaolo Atzeni, aveva confessato il reato. Ma il complice non era Ribelli, come dimostra un video ripreso da una telecamera di una stazione di servizio, nel quale si distingue Atzeni in auto, pochi secondi dopo la rapina, con un ragazzo che non è certo l’operaio di Sinnai. Trascorrere sei mesi in carcere da innocente gli ha causato pesanti ripercussioni sulla vita che richiedono terapie adeguate e un’invalidità del 30%. Ma la vita va avanti, e a inizio ottobre Claudio si è sposato.

Nono appuntamento con il nuovo programma di Rai3 Sono Innocente, condotto dal giornalista Alberto Matano, scrive Salvatore Cau. Il dramma e il riscatto di uomini e donne accusati ingiustamente, le storie di persone che da una vita normale e tranquilla si trovano catapultate in un vero e proprio incubo, la realtà cruda e difficile del carcere. I casi raccontati questa settimana sono quelli di Claudio Ribelli e di Michele Tedesco. Sei mesi in carcere più altri sei ai domiciliari: un anno di detenzione per un reato mai commesso. È la storia dell’operaio Claudio Ribelli, di Sinnai (Cagliari), accusato di aver rapinato una donna puntando il coltello alla gola del suo bambino. Dopo alcune incertezze iniziali, la donna lo aveva indicato come esecutore della rapina. “Prima dell’arresto avevo supplicato le forze dell’ordine di confrontare le mie impronte digitali con quelle trovate sul posto. Mi risposero che non erano tenuti a farlo. Ho poi scoperto di essere finito in prigione soltanto perché quella mattina al bar avevo offerto un caffè alla persona che ha confessato il reato”. Il 19 ottobre 2010 due uomini erano entrati a casa della donna fingendosi tecnici comunali per rapinarla. Uno di questi, Pierpaolo Atzeni, aveva confessato il reato. Ma il complice non era Ribelli, come dimostra un video ripreso da una telecamera di una stazione di servizio, nel quale si distingue Atzeni in auto, pochi secondi dopo la rapina, con un ragazzo che non è certo l’operaio di Sinnai.

Decimo e ultimo appuntamento sabato 18 marzo 2017 alle 21.10 con il programma di Rai3 “Sono Innocente”, condotto dal giornalista Alberto Matano, scrive L’Ufficio Stampa della Rai. Il dramma e il riscatto di uomini e donne accusati ingiustamente, le storie di persone che da una vita normale e tranquilla si trovano catapultate in un vero e proprio incubo, la realtà cruda e difficile del carcere. I casi raccontati questa settimana sono quelli di Francesco Raiola e di Joan Hardugaci.

Francesco Raiola ha 30 anni quando accadono i fatti. E’ un militare di valore: due missioni in Kosovo, una in Afghanistan. Un uomo forte e integro. Nel 2011 viene accusato di traffico e ricettazione di stupefacenti. Solo nel 2015 viene prosciolto ma, nel frattempo, Raiola ha perduto per decaduti diritti morali il suo posto nell'Esercito italiano. Ha vissuto oltre 4 mesi agli arresti domiciliari e ha scontato 21 giorni di carcere, di cui quattro in cella di isolamento nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Sono due telefonate travisate a costargli la libertà. In una si parla di televisori, nell’altra di mozzarelle. Ma i carabinieri pensano che Francesco parli di carichi di droga. E che faccia da intermediario con i trafficanti campani finiti nell'inchiesta per portare grosse quantità di stupefacenti in Puglia, dove svolge l'attività di militare. Il 21 settembre del 2011 avviene così l'arresto per spaccio insieme a 70 presunti trafficanti di droga tra le province di Napoli e Salerno. Un dramma che colpisce anche la moglie, in quel periodo in attesa del primo figlio. Francesco dovrà attendere il 25 febbraio del 2015 per essere dichiarato innocente.

Nessuno sembrava voler credere che Joan Hardugaci non fosse l’autore di una rapina brutale nei confronti di un’anziana signora di Montelupo, in provincia di Empoli. E così, il romeno era finito in carcere per un reato mai commesso. Vittima di un errore giudiziario causato da un clamoroso scambio di persona. Un mese in cella, poi altre tre settimane con obbligo di firma in caserma. Ma non c’era lui quel giorno di novembre del 2009 con altri due connazionali durante la rapina ai danni della donna 77enne, legata mani e piedi con delle stringhe e messa a tacere con un cuscino sulla bocca. Le indagini si concentrarono subito sulle frequentazioni di una ex badante dell’anziana, identificando presto uno dei responsabili. Lo catturarono in un ristorante, mentre era a cena con altri connazionali. Per una coincidenza, in quello stesso locale c’era anche, ma con un amico inglese, Hardugaci. Nonostante il vero autore del colpo sostenne che Joan con la rapina non c’entrava nulla, ci sono voluti ben tre gradi di giudizio per accertare la sua innocenza. 

Il “mostro” da sbattere in prima pagina stavolta è un chirurgo, scrive Piero Sansonetti il 25 Marzo 2017 su "Il Dubbio".  Ieri quasi tutti i giornali italiani hanno piazzato in prima pagina, con gran rilievo, la fotografia di un medico milanese, considerato nel suo ambiente un luminare dell’ortopedia, accompagnata dalla scritta: «spezzafemori». Molti hanno anche messo nel titolo, tra virgolette, una frase che in realtà il medico non ha mai pronunciato: «Le ho spaccato il femore per allenarmi». Sbatti il mostro in prima pagina Stavolta il mostro è un chirurgo. Nessun giornale ha neppure preso lontanamente in considerazione l’ipotesi che questo dottore, che si chiama Norberto Confalonieri, possa essere innocente o comunque possa non essere un tipo che per ragioni tutte sue danneggia i malati, e li ferisce, e magari li azzoppa per sempre. Del resto, lasciare qualche spazio alla difesa, ormai, è considerata azione sovversiva e prova di correità. In realtà il Gip – cioè il giudice delle indagini preliminari – che ha concesso l’arresto (ai domiciliari) di Confalonieri, sospettato di avere favorito alcune aziende che producono protesi ortopediche, ha negato l’arresto per il reato di lesioni. Che era stato chiesto dal Pm. Perché – ha detto – non ci sono indizi. Cioè il magistrato ha esaminato le carte, che poi sono state fornite a tutti i giornalisti, e ha stabilito che non c’è niente che faccia pensare che «Spezzafemori» davvero spezzasse i femori. Si direbbe che l’unico ad avere dubbi sulla colpevolezza, paradossal- mente, è il giudice. Del resto trovare dei giornalisti che hanno dubbi sulla colpevolezza di qualcuno, sta diventando uno sport estremo.

Le cose stanno così: insieme alla notizia dell’arresto del professor Confalonieri, sono state fornite ai giornalisti le trascrizioni di un certo numero di intercettazioni. In queste intercettazioni il medico parla del suo lavoro, ovviamente con linguaggio non professionale. Come spesso capita, in tutte le professioni (compresa quella di noi giornalisti), linguaggio non professionale vuol dire linguaggio goliardico. Ad esempio invece di dire: «Ieri ho operato una anziana signora», Confalonieri ha detto: «Ieri ho fatto una vecchietta». Non ha mai detto, nelle intercettazioni fornite ai giornali: «Le ho rotto un femore per allenarmi», quindi volontariamente. C’è una intercettazione dalla quale sembra capire che Confalonieri ha sbagliato un intervento chirurgico e che dovrà rifarlo. Ma in quella intercettazione il medico appare molto preoccupato, e non scherza, né si vanta. Sembra che Confalonieri esegua circa 400 interventi al femore ogni anno. È statisticamente certo che almeno uno o due interventi all’anno li sbaglia. I giornali hanno fatto un’opera di montaggio tra l’intercettazione sulla vecchietta e quella sull’intervento sbagliato e hanno costruito la frase: «Le ho rotto un femore per allenarmi».

Naturalmente noi non siamo assolutamente in grado di giudicare sulla colpevolezza o sull’innocenza di Confalonieri. Semplicemente abbiamo come tutti letto le intercettazioni e ne abbiamo tratto la netta impressione – come pare sia capitato anche al Gip – che nulla lascia credere che il medico facesse operazioni inutili, o rompesse le ossa dei pazienti per esercitarsi o per sperimentare. Non sappiamo invece se abbia o no un fondamento l’ipotesi che prendesse delle tangenti per favorire certe imprese rispetto ad altre. Anche se le cifre che abbiamo letto lasciano qualche dubbio: si parla mazzette per circa 16 mila euro: a occhio la cifra che il professore guadagnava eseguendo privatamente due o tre interventi chirurgici. Diciamo il lavoro di una mattinata. Non crediamo, francamente, che Confalonieri sia un tipo povero. Davvero si vendeva per una cifra che in nessun modo cambiava il tenore della sua vita? Può darsi. E se esistono degli indizi i magistrati hanno fatto benissimo a indagare, e ora dovranno interrogare il professore – che si dichiara innocente su tutto – e svolgere nuovi accertamenti, e poi, eventualmente, andare a processo e confrontarsi, sullo stesso piano, con la difesa. Poi una giuria deciderà.

Invece è successo che – dal punto di vista, diciamo così, morale – una giuria ha già deciso e ha deciso che il professor Confalonieri è un mostro che prendeva tangenti e spaccava le ossa ai suoi pazienti per guadagnare qualche soldo in più. Questa giuria, molto larga, è composta dalla quasi totalità dei giornali quotidiani e delle Tv. Con rarissime, ma proprio rarissime eccezioni. I giornali hanno accertato che il professore è un mostro e lo hanno – come si fa coi mostri “sbattuto in prima pagina. «Sbatti il mostro in prima pagina» è proprio il titolo di un film che ebbe un notevole successo nel 1972, diretto e pensato dal giovane Marco Bellocchio e interpretato dal grande Gian Maria Volontè. Era un film “di sinistra”, perché Bellochio e Volonté erano due icone della sinistra. Dovete sapere – i più giovani non ci crederanno mai – che allora la sinistra era garantista. E questo film racconta la storia di una montatura giornalistica, che in quel caso era voluta e aveva fini elettorali. Ora le montature giornalistiche non sono più neanche volute. Spesso non hanno fini. Il mostro va in prima pagina solo perché la cultura largamente prevalente è quella là. Se c’è un sospetto di colpevolezza c’è la certezza della colpevolezza. E se una persona è colpevole è meglio esagerare il più possibile la sua malvagità e l’enormità morale dei suoi atti. Qualche anno fa un altro medico, anche lui di gran nome, incappato nella “garrota” della campagna mediatica, si dimise, perse il lavoro, poi s’uccise. Si chiamava Carlo Marcelletti era il numero 1 della cardiochirurgia infantile.

«Confalonieri è innocente non uno spezzafemori…», scrive Simona Musco il 25 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Parla l’avvocata Ivana Anomali, legale del primario ortopedico dell’ospedale Pini, Norberto Confalonieri, accusato di corruzione e turbativa d’asta. «È un uomo distrutto, avvilito. Non ha fatto nulla di tutto ciò di cui è stato accusato». Ivana Anomali, difensore del primario ortopedico dell’ospedale Pini, Norberto Confalonieri, all’indomani dell’inchiesta che ha fatto finire ai domiciliari il professionista smentisce categoricamente che quanto contestato dai magistrati sia vero. Non entra nel merito delle accuse – «Chiariremo tutto dopo l’interrogatorio di lunedì, per rispetto della magistratura» – ma chiarisce il punto che più sta a cuore al suo assistito: le lesioni volontarie ai pazienti, quelli che lo hanno fatto finire sulle prime pagine dei giornali con l’appellativo “lo spaccafemori”. Oltre alle accuse di corruzione e turbativa d’asta, infatti, la Procura gli contesta anche lesioni sui pazienti. Sono 62 i casi che per i magistrati sono «sospetti» e sui quali il gip vuole fare maggiore chiarezza. Pioniere degli interventi con tecnica computer assistita, ‘ super- interventista’ con centinaia di interventi l’anno, il primario è stato denunciato dai colleghi. Ed è per questo che pri- ma di chiarire quelli che sono i suoi sospetti sulla violenta tempesta giudiziaria che si è abbattuta su di lui vuole farsi sentire dal gip. «Ci sarà modo di spiegare – afferma l’avvocato Anomali – Ha una sua idea ed è documentata». Le accuse. Secondo la Procura, Confalonieri, in cambio di favori e regali, contratti di consulenza occulti, viaggi e comparsate tv, consentiva alle multinazionali Johnson & Johnson e B. Braun di piazzare le loro protesi in ospedale. Ma l’accusa più pesante, sebbene finora più difficile da dimostrare, è quella relativa ai presunti danni fisici riportati da alcuni pazienti. «Ho rotto un femore a una vecchietta per allenarmi» è la frase che tutti i giornali hanno riportato ieri. «Frasi decontestualizzate e travisate», spiega invece la Anomali. «Tutte le intercettazioni messe sui giornali – ha spiegato il legale al Dubbio – hanno sicuramente una chiave di lettura alternativa che non è stata presa in considerazione. Confalonieri continua a ribadire la propria innocenza: non aveva bisogno di fare allenamento, d’altronde, facendo centinaia di interventi l’anno». Il suo curriculum parla chiaro: esegue interventi ogni giorno, per una produzione di circa 2000 prestazioni l’anno e, in prima persona, una media di 500 interventi chirurgici in 12 mesi. Tanto che gli stessi colleghi affermavano: «Non gli rimane che operare le renne». Nelle carte dell’inchiesta si parla infatti di una vera e propria «tendenza all’intervento chirurgico mediante impianto di protesi a massa». Il gip Teresa De Pascale, su richiesta dei pm Fusco e Mantella, ha fatto eseguire anche cinque misure interdittive nei confronti del responsabile acquisti e forniture dell’ospedale di Sesto San Giovanni, e di quattro dipendenti di Johnson & Johnson e B. Braun. I fatti contestati risalgono al periodo compreso tra il 2012 e il 2015, quando il Cto in cui presta servizio il chirurgo da circa 40 anni non era ancora fuso con l’ortopedico Pini. Sarebbero almeno tre i pazienti che, secondo l’accusa, sarebbero stati operati con la tecnica della “navigazione chirurgica computerizzata” nella clinica privata San Camillo di Milano, dove Confalonieri operava in regime privato. Alcuni di loro, a seguito di complicazioni, sarebbero poi stati operati nuovamente al Pini in regime pubblico. Secondo l’accusa, Confalonieri avrebbe incentivato gli interventi anche quando non era necessario impiantare le protesi. Il gip ha così disposto il sequestro di 62 cartelle cliniche «per verificare se sono state impiantate protesi senza alcuna necessità clinica e per accertare la gravità delle lesioni cagionate». Le intercettazioni. «Eh l’ho rotto, è andato (…) per allenarmi su quella che dovevo fare privatamente», si sente dire a Confalonieri mentre parla di una paziente 78enne. «Ho spaccato il femore anche qua… è un periodo di m…». Oppure: «se va in mano a un altro collega sono finito», nel caso di una 40enne uscita con un femore rotto dall’operazione in clinica e da rioperare nell’ospedale pubblico. «La signora anziana aveva già un’altra patologia – spiega il legale - non è stato un errore volontario: il femore si è frantumato, sono i rischi di operazioni così delicate. Ne parlava con i colleghi con uno slang loro proprio ma non si riferiva a danneggiamenti voluti». Il termine “allenamento”, spiega l’avvocato Anomali, si riferisce anche alla tecnica utilizzata – la cosiddetta “tecnica d’accesso bikini” – relativamente nuova. «L’utilizzo di questo termine dipende dal fatto che proprio per sistemare un femore ha fatto ricorso a questo particolare tipo di intervento – ha aggiunto -. Ma di certo non ha bisogno di allenarsi: è conosciuto in tutto il mondo, uno che tutte le mattine si alza alle 5 per andare a lavoro e torna a casa alle 22. Non può accettare queste accuse e spiegherà anche perché non sono vere». Spiegazioni che il gip ascolterà lunedì prossimo, nel corso dell’interrogatorio di garanzia.

«Non sono un mostro, vivo per curare la gente», scrive Norberto Confalonieri il 28 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Pubblichiamo il memoriale di Norberto Confalonieri, il primario di ortopedia e traumatologia al Cto Gaetano Pini di Milano, già condannato dai media come lo “spezzafemori”. Ieri si è svolto l’interrogatorio di garanzia di Norberto Confalonieri, il primario di ortopedia accusato di corruzione e turbativa d’asta e indagato per lesioni sui pazienti. La gran parte dei media non ha dubbi: il dottor Confalonieri, detto “spezzafemori”, è sicuramente colpevole. Di seguito pubblichiamo il suo memoriale:

1) Non sono un mostro, né un money maker, come sono stato descritto. Da sempre, ho aperto un ambualtorio al CTO con il servizio sanitario nazionale per i pazienti meno abbienti e visito circa 30 persone alla settimana. Cosa rara per un Primario. Collaboro con Mondo x di Padre Eligio e visito e curo tutti i loro assistiti in ospedale. Sono un rotariano dal ’ 92, organizzo manifestazioni di beneficenza ogni anno, distribuendo fondi a tutte le associazioni più importanti (lega del filod’oro, vidas, dino ferrari, ecc.), ho fondato una cooperativa per il recupero al lavoro dei disabili mentali, curo tutti, ed i parenti di tutti, gratis.

2) Sono Primario dal 1999, opero circa 300 pazienti l’anno e, per ora, non ho contenziosi aperti con loro, dopo questa gogna mediatica, sicuramente. Entro in ospedale prima delle 7, tutti i giorni e, a volte, anche il sabato e la domenica, la vigilia di natale, per interventi urgenti e, in agosto, è capitato di rientrare dalle ferie, per interventi in ospedale.

3) Ho un contratto extramoenia, cioè sono un libero professionista, ho una partita iva. I compensi ricevuti non sono tangenti in nero, ma rimborsi per prestazioni scientifiche di divulgazione e aggiornamento. Tutti i compensi sono rintracciabili – non c’è occulto.

4) Sono solo un primario, sopra di me c’è un capo dipartimento, un direttore sanitario, un responsabile approvvigionamento ed un direttore generale.

5) Al tempo dei fatti, quando dovevo fare un intervento, comunicavo il tipo di protesi, tramite segretaria. Era un desiderio, non un ordine, basato sulla mia preparazione scientifica, la migliore protesi con il miglior strumentario per il paziente. Infatti, qualora ci fossero stati degli ostacoli o impedimenti, venivano comunicati, dagli uffici preposti, per risolvere il problema con altro materiale o rimandando l’intervento a soluzione avvenuta.

6) Non ho mai fatto ordini alle ditte né chiesto reintegro. C’erano gli uffici preposti. Se non potevo mettere un impianto, questi non ordinavano il materiale o lo ritiravano o non facevano il reintegro.

7) Attività scientifica: rendo noto, che è prassi comune a tutti i miei colleghi che vengano sponsorizzate le spese per i congressi, anche a quelli che non insegnano, ma ascoltano ed imparano. L’attività scientifica di promozione, aggiornamento e divulgazione è sostenuta, in Italia, dalle ditte private che pagano le spese dei chirurghi per recarsi ai congressi. E’ quindi il contrario di quello che si possa pensare. Tutto sempre nell’ambito della divulgazione scientifica e non per utilità personali del medico interessato.

8) In più, per i chirurghi docenti, quando vengono coinvolti in attività più impegnative, come la consulenza per un prodotto, la ricerca per una tecnologia, l’insegnamento sul cadavere o ai dipendenti dell’Azienda, dove il chirurgo discetta e porta la sua esperienza con la tecnologia del prodotto, vengono posti in essere dei con- tratti di consulenza o testimoniali.

9) Anche qui, è usanza comune di tutte le ditte con i loro chirurghi referenti. Stiamo parlando di qualche migliaio, solo in Italia. All’estero anche di più. E’ un modo per finanziare la ricerca e l’innovazione tecnologica, con fondi privati. Non corruzione o truffa ma rimborsi a prestazione. Tutto in trasparenza, non si tratta di tangenti o corruzione ma rimborsi per il lavoro prestato extramoenia, fuori orario di servizio, extraospedale tracciabile e fatturato con iva. Se il mio comportamento risulta disdicevole, allora tutto il sistema di divulgazione e aggiornamento scientifico, è coinvolto!

10) Tra l’altro stiamo parlando di poche migliaia di euro l’anno (circa 3.000 euro).

11) i bonifici citati nell’ordinanza, versati sul conto di mio figlio, sono pagamenti per prestazioni professionali. Lui fa l’art director ed il web designer, dovendo produrre materiale per la divulgazione scientifica, video, foto, ecc., chi meglio di lui per questo? Tutto fatturato.

12) Televisione e giornali: non pubblicità per mettere più protesi JJ o BBRAUN, ma divulgazione scientifica di tecnologie innovative mininvasive, al pubblico. Come farle conoscere altrimenti?

13) Anche qui, è prassi comune, centinaia di miei colleghi utilizzano questa forma di divulgazione avvalendosi della varie società di promozione sul mercato. Divulgazione scientifica, non pubblicità a fine reconditi!

14) Pazienti: Ho operato, nei miei 35 anni di attività, circa 8/ 9.000 pazienti. Non ho contenziosi aperti con loro. Da me arrivano pazienti molto complessi, in virtù della mia esperienza. Nel nostro lavoro ci sono complicanze ed insuccessi. Il compito del medico è quello di curare, a volte non riesce a guarire. Essendo il nostro lavoro un’obbligazione di mezzi e non di risultato. La frase incriminata dell’intercettazione è mal interpretata, non ho rotto il femore apposta per allenarmi ma si è rotto nell’impiantare la protesi, probabilmente in maniera lieve, tanto da non richiedere una sintesi dell’osso, ma solo riposo per un breve periodo. Allenarmi è un vocabolo goliardico, non professionale, da intercettazione, in realtà stavo perfezionando la tecnica operatoria sulla via d’accesso, per poter operare al meglio le pazienti, previa valutazione sulle indicazioni corrette.

15) De Monti e Albuge: due casi complessi e problematici, con complicanze risolte e guarigione, anche se problematica ma con quadro clinico migliore. La loro trattazione richiede una preparazione specifica.

16) La paziente disabile, citata da Rizzo. Altro caso difficile e umano. Era una paziente complicata, disabile mentale, ex leucemica, giunta da Sud nel mio ambulatorio della mutua al CTO, con la speranza dei famigliari di poter farla camminare, non parlava, mi guardava supplicante, non dimenticherò mai i suoi occhi. Aveva due ginocchia completamente flesse con decubiti cutanei. Ho fatto solo una tenotomia dei flessori del ginocchio per raddrizzarglieli (20 minuti d’intervento). Purtroppo per complicanze respiratorie è deceduta, ma l’intervento fu quasi incruento, del tutto estraneo alla causa di morte. L’intervento rivestiva i caratteri dell’urgenza per i decubiti dietro il ginocchio e la sofferenza di vedere una ragazza così in carrozzina. Già coinvolti per il contenzioso con la corte dei conti, a causa del risarcimento, siamo stati tutti prosciolti.

17) Accuse di aumentare la lista d’attesa, di nuovo chiacchiere da bar, goliardiche e mi scuso. Consigli senza costrutto alcuno. Altre volte ho detto non fare come me, nessuno dirà mai grazie, anzi…..buon profeta. Infatti, sono il chirurgo che opera di più al CTO, non ho bisogno di gonfiare la lista d’attesa, perché l’ho già. Le mie liste operatorie al CTO sono sempre piene. E, con la mia attività, in tutti questi anni ho portato il CTO all’attenzione del panorama scientifico internazionale.

18) Interventista: non sono interventista, al contrario, ho pazienti basiti perché non li ho voluti operare, nonostante il parere di qualche mio collega. Alcuni vogliono testimoniare. Tutti con la possibilità di essere operati privatamente, io mi sono rifiutato e li ho guariti senza intervento.

Grazie dell’ascolto – Spero mi si conceda la possibilità di poter lavorare ancora, per chi crede in me (ho un memory book delle testimonianze di gratitudine dei miei pazienti, spesso 5 cm). E’ la mia vita e non ho altri sostentamenti per la mia famiglia e sto operando per il bene dei pazienti e della società. Avete davanti a voi uno dei maggiori esperti mondiali di chirurgia mininvasiva computer o robot assistita. Le nuove tecnologie computerizzate portano un miglioramento della tecnica chirurgica. Rendono il chirurgo meno artista e più scolastico. Impongono di seguire i campi obbligatori del computer e controllare la bontà dei tagli ossei, con un numero e non una sensazione. Standardizzano le procedure e migliorano le performances. Tutto per una maggior durata degli impianti, una diminuzione delle revisioni a distanza e un benessere duraturo per i pazienti. Una vita spesa per gli altri e per la scienza. Ora, vi dico che, nonostante il trattamento ricevuto, da delinquente, e la gogna mediatica che ha distrutto la mia persona, ho fiducia nella magistratura. Sono sicuro in un giudizio sereno e ponderato alla gravità degli atti che mi vengono contestati. Grazie ancora.

Il taglia e cuci dei giudici che sta rovinando il chirurgo Confalonieri. Il legale del medico alla gogna come spaccaossa denuncia: «Le intercettazioni vanno lette tutte», scrive Luca Fazzo, Venerdì 31/03/2017, su "Il Giornale". Taglia qua, cuci là: tecnica ben più antica delle intercettazioni, ma che nell'utilizzo giudiziario della loquacità degli indagati ha raggiunto in passato vette eccelse. «Non bisogna fermarsi alle tre righe evidenziate dalla Procura in neretto, ma bisognerebbe leggere tutta la conversazione», dice adesso l'avvocato Valentina Anomali, difensore del primario milanese Norberto Achille, quello sbattuto in prima pagina perché «per allenarsi spaccava le gambe alle vecchiette». In effetti leggendo per intero le frasi pronunciate da Confalonieri il senso appare diverso - e in alcuni casi addirittura opposto - da quello che viene attribuito riportando singoli spezzoni. La brutalità di alcune battute resta, e l'ortopedico nel suo memoriale se ne scusa. Ma il rilievo penale delle frasi esce a volte decisamente ridimensionato. Il passaggio dove l'opera di selezione è quasi plateale è a pagina 86 dell'ordinanza di custodia. Il primario parla con una amica che gli chiede delle protesi americane non previste dagli accordi regionali e da lui ampiamente utilizzate, per le quali è accusato di corruzione: «Ma tu, onestamente perché continuavi a mettere queste Johnson & Johnson? Tu prendi qualche royalty da questi?». Nell'ordinanza, Confalonieri risponde: «Sono consulente, sì, sono consulente io». Ma la risposta integrale è: «Perché sono le migliori e perchè ho fatto il software con loro, usavo il mio software (... ) son consulente , si, sono consulente io, beh, ma metto anche le altre, sono consulente globale». Cambia tutto. «Erano in sala operatoria e le utilizzavo. Io richiesta specifica di Johnson & Johnson non ne ho mai fatte»: ma anche questa frase finisce in corpo minuscolo, nei brogliacci della Finanza. E via di questo passo. Una frase di Confalonieri per il giudice conferma «in maniera cristallina» la sua colpevolezza: peccato che dai brogliacci si scopra che subito dopo il medico si mette a ridere, ma il giudice non lo scrive. Per i viaggi che avrebbe scroccato alla società B.Braun in cambio dei trattamenti di favore ai suoi prodotti, spiega che in realtà la società non tirava fuori un euro: anche questo sparisce dalle carte. La lettura integrale dell'intercettazione che ha fatto il giro del web, frettolosamente spacciata per «ho spaccato una gamba per allenarmi» racconta chiaramente che in realtà «per allenarsi» all'utilizzo di una tecnica, l'accesso «Bikini» il medico aveva operato pochi giorni prima una anziana, e che la rottura del femore era stata un incidente. Nella parte di intercettazione che compare solo nei brogliacci Confaloneri rivendica la correttezza della tecnica: «È questo che si fa». E le intercettazioni successive all'altro intervento analogo che finisce anch'esso con la rottura del femore, lette integralmente mostrano un medico assai meno cinico di quanto il provvedimento giudiziario racconta. Sull'architrave dell'inchiesta, l'utilizzo per arricchirsi delle protesi Johnson & Johnson, in una intercettazione il primario è netto: «Finché nessuno mi dice niente io continuo ad usarla se è il prodotto che ritengo più idoneo alla mia attività», ma anche questa frase rimane confinata ai brogliacci. «Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare», diceva Richelieu. A volte bastano sei parole.

Se il mostro non fosse il dottore. Il caso del femore rotto. Il medico arrestato: "Io un pioniere, non un mostro". Ecco cosa c'è davvero agli atti dell'inchiesta, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 30/03/2017, su "Il Giornale". Una premessa d'obbligo. Non conosco Norberto Confalonieri, primario di ortopedia dell'ospedale Gaetano Pini di Milano arrestato la scorsa settimana con accuse gravi e infamanti. È che nella sua vicenda, riportata anche da noi con una certa rilevanza, c'è qualche cosa che non torna. Tutto il Paese si è giustamente indignato leggendo un'intercettazione telefonica scioccante che lo riguardava: «Ho rotto un femore a un'anziana per allenarmi». Oggi mi chiedo: davvero può essere che in uno dei più prestigiosi ospedali d'Italia si «rompa un femore» per allenamento? La cosa in effetti non risulta agli atti. C'è, sì, un'intercettazione nella quale, parlando con un'amica, Confalonieri dice: «Eh l'ho rotto... è come è andato... l'ho lasciato lì così perché... gli ho fatto la via d'accesso bikini... per allenarmi...». È evidente che la parola «allenamento» non è riferita a rompere femori ma a una tecnica («bikini»). Dai documenti risulta peraltro che il problema c'è stato, ma di una lievità tale che la paziente se l'è cavata con qualche giorno di riposo. Può un professionista essere fatto passare per mostro e arrestato solo perché al telefono, dopo una giornata passata in camera operatoria, usa parlando con amici una parola, «allenamento», inadeguata al tema? Se la risposta fosse «sì», saremmo in presenza di un nuovo reato, quello di «parola inadeguata o sconveniente», dal quale in pochi ci salveremmo. Non certo noi giornalisti (basterebbe intercettare una riunione di redazione), non certo i magistrati (basti ricordare il «io quello lo sfascio» pronunciato da Di Pietro pm nei confronti di Berlusconi). E allora mi chiedo: che bisogno c'era di divulgare un'intercettazione infamante facendo credere l'esistenza di un reato preciso (spezzare i femori) senza averne controllato prima la fondatezza? Non risulta neppure che il pm abbia chiesto consulenze scientifiche sulla «tecnica bikini» e sulle sue percentuali di successo. Ci sono insomma i presupposti per temere che ci si trovi di fronte all'ennesima inchiesta mediatica, questa volta nel campo della sanità. A tal proposito, consiglio il libro Io, trafficante di virus, una storia di scienza e di amara giustizia (editore Rizzoli). È scritto da Ilaria Capua, ricercatrice indagata per associazione a delinquere e poi completamente assolta. Invece che in galera, dove qualche pm voleva finisse, oggi dirige un centro di eccellenza in Florida. Come dire, a volte i cervelli fanno bene a fuggire.

Costa Concordia, Schettino si difende: "Non ho abbandonato la nave, non potevo risalire". L'ex capitano della Costa Concordia Francesco Schettino condannato a 16 anni per il nubifragio della nave si difende in un video pubblicato su Youtube, scrive Enrica Iacono, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Torna a parlare l'ex comandante della Costa Concordia Francesco Schettino condannato a 16 anni per il nubifragio della nave da crociera avvenuto nel gennaio 2012. Questa volta lo fa attraverso un video di 17 minuti postato su Youtube chiamato "L'onore del marinaio" in cui Schettino è pronto a dimostrare la sua innocenza: "È falso che io abbia abbandonato la nave. Posso dimostrarlo. Sono saltato sull'ultima scialuppa poco prima che la nave si abbattesse e la trascinasse sul fondo insieme a tutte le persone che erano a bordo", ha dichiarato Schettino. Il comandante dice di essere sceso per disincagliare l'ultima scialuppa su cui la nave stava per rovesciarsi e di aver coordinato i soccorsi dalla scogliera secondo le indicazioni del comando generale. Nel video si fa riferimento anche alla telefonata con Gregorio De Falco, capitano di fregata della capitaneria di porto che ordinò a Schettino di risalire immediatamente a bordo della nave attraverso la biscaggina: "Quando all'1.46 mi chiese di risalire a bordo - spiega Schettino - De Falco ignorava tutte le informazioni ricevute da me, dal comando generale delle Capitanerie di Roma e dalla motovedetta coordinatrice dei soccorsi sul campo. Non sapeva che la nave si era abbattuta sul fondo e, soprattutto, che la biscaggina da lui indicata era ormai sott'acqua". In più nel video c'è anche l'audio di una telefonata con il tenente di vascello Vincenzo manna del comando delle capitanerie a Roma che disse al comandante di restare sulla scogliera perché "ero il loro punto di riferimento visivo e mi disse di conservare la batteria del cellulare".

Assolto dopo 17 anni dall’accusa ingiusta di aver abusato dei figli, scrive Damiano Aliprandi il 22 Aprile 2017 su "Il Dubbio".  Era stato condannato ma i figli hanno ritrattato, confessando di essere stati costretti dalla madre ad accusare il padre. L’incubo di Saverio De Sario è durato diciassette anni, durante i quali si è sempre proclamato innocente per quell’accusa infamante di aver abusato dei suoi due figli. De Sario era stato condannato in via definitiva a 11 anni di carcere per abusi sessuali sui figli che però, a distanza di anni, hanno ritrattato la loro versione spiegando di essere stati costretti dalla madre, dalla quale De Sario si era separato, a mentire. Ieri la decisione della Corte di appello di Perugia, al termine del processo di revisione, lo ha assolto e i ragazzi, che oggi hanno 24 e 27 anni hanno potuto riabbracciare il padre. L’incubo per Saverio De Sario è finito ieri pomeriggio davanti al carcere di Terni. La Corte di appello di Perugia lo ha assolto al termine del processo di revisione dopo che era stato condannato in via definitiva a 11 anni di reclusione per abusi sessuali sui figli. C’erano proprio i figli, che hanno 27 e 24 anni, ad aspettare il padre fuori dal carcere, insieme alla zia Rita e a un cugino, oltre ad altri parenti e all’avvocato Massimiliano Battagliola. A De Sario gli abusi sui figli erano stati contestati tra la Sardegna, sua terra d’origine, e Brescia, dove la famiglia ha vissuto per anni prima della separazione tra marito e moglie. Alla revisione del processo a Perugia l’avvocato di De Sario, Massimiliano Battagliola, era arrivato dopo una prima richiesta rigettata dalla Corte d’appello. Nel primo processo i figli di De Sario, che all’epoca dei fatti avevano 7 e 10 anni, dichiararono di essere stati abusati dal padre. Ma due anni fa avevano ritrattato, sostenendo di aver fornito quella versione per assecondare la madre. La prima versione, resa 15 anni prima durante il processo in tribunale a Oristano, portò il padre alla condanna a 10 anni di carcere, diventata definitiva nel 2015. Agli atti del nuovo processo, oltre alla ritrattazione, anche un memoriale che Gabriele De Sario, il figlio maggiore, ha scritto durante la sua permanenza in una comunità a Brescia, nel quale il ragazzo racconta quella che a suo dire è la verità. Quel testo però non venne mai preso in considerazione dagli educatori della struttura. "Non ci speravamo più, dopo 17 anni siamo riusciti a far emergere la verità", ha commentato il figlio Gabriele dopo la lettura della sentenza che ha assolto il padre.

Le 23 volte di Francesca: ruba perché sa vivere solo in carcere, scrive Vincenzo Imperitura il 20 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La storia incredibile di una quarantenne romana che compie piccoli reati per farsi arrestare. Una vita difficile ai margini della città tra piccoli furti, droga e povertà. «Ma che devo fare per andare in galera» ? Francesca, poco più che quaranta anni, se lo lascia sfuggire durante l’ennesima udienza di convalida all’ennesimo arresto. Quasi un’invocazione, un appello, che rimbalza nell’aula affollata delle udienze “direttissime”. Con quello della settimana scorsa – accusata di tentato furto aggravato per avere portato via da un’autorimessa una manciata di chiavi e il frontalino di una radio – fanno 23 procedimenti penali pendenti, alcuni in fase di indagine, altri definiti in primo e in secondo grado, negli ultimi due anni. Un vero e proprio tour de force giudiziario per una figura che sfugge alle consuete classificazioni sociali. Cresciuta nella capitale, Francesca vive una vita quasi normale: il lavoro, almeno quando c’è, il matrimonio. Poi il baratro della droga che le costa una condanna definitiva per aver venduto una dose poi risultata fatale. Anche il suo compagno muore a causa di un’overdose, e Francesca resta vedova, con una pensioncina di reversibilità che le arriva per il lavoro del marito defunto. Una vita difficile, vissuta ai margini della città, tra gli ultimi. Tanto carcere, poi accampata dove capita: in una tenda arrangiata sul Tevere, o dentro i padiglioni dismessi del Forlanini, la donna viene inserita anche in un percorso di reinserimento attraverso una comunità terapeutica in Veneto, ma dura poco. Francesca scappa da Vicenza e torna a Roma. Non sta bene. Ormai anche gli ultimi amici, che ostinatamente avevano tentato di aiutarla, rinunciano. La donna inizia così la sua personale odissea giudiziaria: tra il 2015 e il 2017 si rende protagonista di piccoli furti (alcuni commessi a distanza di poche ore l’uno dall’altro) e non rispetta gli obblighi che le impone il tribuna- le in conseguenza agli stessi reati. Finisce così con l’entrare e uscire dalle aule di piazzale Clodio per una ventina di volte, l’ultima delle quali, appunto, la settimana scorsa, quando era stata sorpresa dopo avere tentato di sottrarre alcune chiavi e poco altro da un garage a Monteverde. Davanti al giudice che deve convalidare il suo arresto, la Procura – visto anche il curriculum giudiziario dell’indagata – chiede la custodia cautelare in carcere, ma la richiesta viene respinta dal tribunale che, salomonicamente, assegna alla donna l’obbligo di firma in questura, ignorando contestualmente anche la richiesta del suo legale. L’avvocato Dario Candeloro infatti, cercando di evitare l’ennesima carcerazione inutile ai suoi danni, aveva richiesto per Francesca l’applicazione della custodia cautelare presso una struttura di cura. Una tesi che si sosteneva anche sulla perizia psichiatrica che aveva riconosciuto Francesca come solo parzialmente in grado di intendere. Una soluzione prevista dal codice di procedura penale e che avrebbe certamente aiutato una donna che, appare evidente, continua a chiedere aiuto. La richiesta però è stata respinta e il “problema” Francesca così, rimandato al prossimo furtarello. «La mia assistita versa in una situazione assolutamente disperata, ai limiti del surreale, come d’altronde rappresentato all’autorità giudiziaria. Sotto il profilo prettamente giuridico – racconta l’avvocato Candeloro, che può consolarsi di avere almeno evitato il carcere per la propria assistita – si è ottenuto certamente il miglior risultato auspicabile; tuttavia sarebbe opportuno un incisivo intervento, da parte degli enti competenti, al fine di favorire il sostegno che necessita una persona che versa in queste condizioni, ed evitare il verificarsi di paradossali situazioni analoghe». Ora Francesca deve recarsi due volte la settimana in questura per la firma. Almeno fino a quando non tenterà di rubare qualche altra sciocchezza.

Sono innocente. Angelo Massaro. Taranto. Il Foro dell’ingiustizia. Angelo Massaro, 20 anni di carcere da innocente in folta compagnia. Non erano colpevoli, chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro. E poi ci sono le condanne dubbie in presenza di confessioni verificate, e ciononostante non credute: Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito per i delitti di Sebai, il killer delle vecchiette. Cosima Serrano e Sabrina Misseri per il delitto di Michele Misseri, il killer di Avetrana.

La storia di Angelo Massaro, che ha passato 20 anni in prigione per una parola fraintesa. L’incredibile odissea dell’uomo di 51 anni che è stato condannato a 30 anni per un delitto mai commesso. È stato scarcerato con revisione del processo, scrive Carlo Vulpio il 24 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Sua moglie Patrizia festeggia oggi (ieri, ndr) il compleanno, 43 anni, ventuno dei quali trascorsi ad aspettarlo, a crescere i loro due figli, Raffaele e Antonio, e a peregrinare da un carcere all’altro: Foggia, Carinola, Rossano Calabro, Melfi e infine Catanzaro. Lui, Angelo Massaro, 51 anni, di Fragagnano, Taranto, è appena uscito dal carcere di via Tre Fontane e ha trovato lì Patrizia, che lo ha abbracciato e in silenzio lo ha aiutato a caricare le sue poche cose su una station wagon molto usata. È già sera, ci allontaniamo da quei muri ostili, scegliamo un posto più defilato per parlare e finalmente lo troviamo nella sala del biliardo di un bar della frazione di Santa Maria, a Catanzaro Lido. Sappiamo, lo ha scritto il Quotidiano di Lecce, che Angelo Massaro, condannato ingiustamente per un omicidio mai commesso, quello di Lorenzo Fersurella, ammazzato a San Giorgio Jonico il 10 ottobre 1995, dopo ventuno anni di galera è stato riconosciuto innocente grazie alla revisione del processo, in cui hanno fermamente creduto i suoi avvocati, Salvatore Maggio e Salvatore Staiano. Ma non sappiamo che già un’altra volta Massaro è stato vittima di un altro clamoroso errore giudiziario, perché ritenuto l’autore di un altro omicidio, quello di Fernando Panico, avvenuto a Taranto nel 1991. Anche allora, Massaro fu arrestato, condannato a 21 anni, incarcerato per un anno e poi giudicato definitivamente innocente e risarcito dallo Stato con 10 milioni di lire. «Non pensavo che quattro anni dopo avrei vissuto lo stesso incubo — dice Angelo Massaro — per una intercettazione telefonica in cui dicevo a mia moglie, in dialetto, “tengo stu muert”, cioè “ho questo morto, questo peso morto”, un Bobcat che trasportavo nel carrello agganciato all’auto e che dovevo lasciare prima di andare a prendere mio figlio per accompagnarlo a scuola». Massaro era intercettato per fatti di droga — che lo stavano rovinando, perché la assumeva e poi l’ha anche spacciata —, ma paradossalmente proprio questa vicenda, conclusasi con la sua condanna definitiva a 10 anni, lo ha salvato dalla seconda ingiusta condanna per omicidio. «Ho sbagliato ed era giusto che pagassi, ma se non ci fosse stato il processo per spaccio di droga, dal quale abbiamo tratto gli elementi che mi hanno scagionato dall’accusa di omicidio, oggi per tutti io sarei un assassino». Certo, adesso Massaro chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione, come fece undici anni fa, sempre a Taranto, Domenico Morrone, 15 anni di galera per un duplice omicidio mai commesso e poi riconosciuto innocente e risarcito con 4,5 milioni di euro, forse la cifra record per questo tipo di performance della giustizia italiana. «Ma nessun risarcimento mi ridarà i miei anni perduti — dice lui — e mi consolerà delle afflizioni patite. Non ho visto i miei figli per sette anni consecutivi, dal 2008 al 2015. Ho condiviso celle minuscole con detenuti ammalati di Aids, tubercolosi, epatite C, senza che nessuno mi avesse avvertito. Mi sono stati negati i permessi più semplici, come quelli per il battesimo e la prima comunione dei miei bambini. E ora anche la beffa finale. Appena avremo finito di parlare, devo presentarmi in Questura perché mi hanno anche imposto la sorveglianza speciale. È questo il carcere che rieduca? Dalla galera, esce carico di odio anche un cagnolino docile». Massaro in carcere si è diplomato da geometra e si è poi iscritto a Giurisprudenza, facoltà in cui ha già superato cinque esami con voti alti. «Studiare mi è servito tanto — dice —, ma sono stati lo yoga, la meditazione e lo sport a non farmi impazzire, a farmi chiudere un capitolo della mia vita sbagliata e a sopravvivere alla persecuzione giudiziaria, che non auguro a nessuno».

La storia di Pio Del Gaudio, ex sindaco di Caserta, è andata in onda sul Tg1 del 6 febbraio 2017. Arrestato a luglio 2015 e prosciolto un anno e mezzo dopo dalle accuse di corruzione e finanziamento illecito. "sono entrato in carcere da camorrista ma adesso sono rinato", dice al Tg1. Emma D'Aquino.

Il Gip di Napoli Egle Pilla ha poi prosciolto dall'accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, con l'aggravante mafiosa, l'ex sindaco di Caserta Pio Del Gaudio (Fi), arrestato nel luglio del 2015 nell'ambito dell'indagine della Dda partenopea "Medea", sulle infiltrazioni e i condizionamenti del clan Zagaria negli appalti concessi da amministrazioni pubbliche, scrive il 27 gennaio 2017 "L'Eco di Caserta". Del Gaudio, accusato di aver intascato prima delle elezioni comunali del 2011, poi vinte, 30mila euro dall'imprenditore Pino Fontana, ritenuto vicino al clan Zagaria, restò in carcere per 14 giorni. Allora fece scalpore il fatto che per arrestare Del Gaudio, che in quel momento non occupava più da un mese la carica di sindaco, fosse stato utilizzato dai carabinieri un elicottero con cui sorvolare la sua abitazione. Nelle scorse settimane, la Dda di Napoli - sostituti Alessandro D'Alessio e Maurizio Giordano, -aveva notificato a Del Gaudio l'avviso di conclusione indagini, ma poi in seguito agli elementi a discarico presentati dal legale dell'ex sindaco, Dezio Ferraro, ha deciso di richiedere l'archiviazione, accolta oggi dal Gip. "È finito un incubo", dice sollevato Del Gaudio. "La mia fortuna - prosegue - è che nel mio caso i magistrati sono stati molto veloci, decidendo in un anno e mezzo, ma penso alle tante persone accusate ingiustamente, specie a quelle che sono in carcere, ma che non hanno la possibilità di difendersi. Voglio battermi per loro. Non ce l'ho con i magistrati, fanno il loro lavoro, ma dico che prima di arrestare qualcuno bisogna pensarci molto bene. Questa indagine ha rovinato la mia vita personale e professionale; faccio il commercialista e il mio studio, dopo il mio arresto, ha avuto un crollo. La cosa positiva è che quasi tutta la città già mi aveva assolto. Per ora non penso però a tornare in politica, e soprattutto non in questa politica dove non contano il merito e la competenza", conclude Del Gaudio.

«Io, ex sindaco finito in carcere da innocente: la mia vita distrutta», scrive Marilù Musto su “Il Mattino” il 27 gennaio 2017. «Io rispondo alla mia coscienza». Inizia così il lungo sfogo dell'ex sindaco della città di Caserta, Pio Del Gaudio, eletto nel 2011 e arrestato il 14 luglio del 2015 nell'operazione della Dda di Napoli «Medea». Ieri, dopo un anno e mezzo di indagini sul suo conto, il gip di Napoli ha deciso di archiviare il caso. Pesanti le accuse contestate e poi ritirate dalla Procura: corruzione e finanziamento illecito ai partiti in campagna elettorale con l'aggravante di aver agevolato il clan dei Casalesi negli appalti. Accuse cadute prima al Riesame e poi in Cassazione, dove i giudici hanno demolito la prima ordinanza emessa a luglio del 2015. «Sapevo di non aver fatto nulla - dice ancora Del Gaudio - mi ha fatto male vedere mio figlio scegliere di partecipare alla selezione universitaria per Medicina solo al Nord, che ha poi superato. Ho pianto da solo a casa, senza farmi vedere da nessuno in questi anni, nemmeno da mia moglie. Ho perso un mio amico e collega che un giorno mi disse: scusami, ma tu sei seguito dai carabinieri, noi non possiamo camminare insieme. Alcune deleghe mi sono state ritirate. In carcere però ho scoperto la solidarietà umana, la vicinanza del mio amico di cella, Mirko, e degli altri detenuti che mi dicevano: ma tu cosa ci fai qui? Ora ringrazio i miei avvocati, Dezio Ferraro e Giuseppe Stellato». «È finito un incubo», dice ancora sollevato Del Gaudio. «La mia fortuna - conclude - è che nel mio caso i magistrati sono stati molto veloci, decidendo in un anno e mezzo, ma penso alle tante persone accusate ingiustamente, specie a quelle che sono in carcere, ma che non hanno la possibilità di difendersi. Voglio battermi per loro. Non ce l’ho con i magistrati, fanno il loro lavoro, ma dico che prima di arrestare qualcuno bisogna pensarci molto bene. Questa indagine ha rovinato la mia vita personale e professionale; faccio il commercialista e il mio studio, dopo il mio arresto, ha avuto un crollo. La cosa positiva è che quasi tutta la città già mi aveva assolto. Per ora non penso però a tornare in politica, e soprattutto non in questa politica dove non contano il merito e la competenza».

L'odissea assurda di Incalza, mister sedici assoluzioni. Per anni è stato dipinto come il perno di un sistema corrotto. Invece non è mai arrivato neanche a processo, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". Due anni fa, quando lo arrestarono, il suo nome veniva associato in automatico alla parola sistema: si, il sistema Incalza. Diventò un mantra sui giornali e in tv: Ercole Incalza era ovunque e tutti lo descrivevano come un boiardo di Stato, un tecnico abilissimo che nelle pieghe della legge coltivava i propri interessi. Il signore del malaffare all'ombra di accordi indicibili, relazioni altolocate, tavoli fra potenti. Oggi le carte della magistratura, sentenze e decreti, ci restituiscono un'altra storia: meno affascinante, forse, ma ugualmente inquietante. Il manager settantaduenne è finito sul binario morto dell'archiviazione. Zero elementi, non si andrà neppure in aula perchè non ne vale la pena. Non ci sono prove, il procedimento finisce qua, anche se un troncone superstite, un relitto delle prime, devastanti accuse, è ancora in giro, disperso fra Firenze e altre città dove dovrebbe approdare. Lui riassume in poche battute una storia drammatica che dovrebbe far riflettere, sia detto senza proclami, proprio nel giorno in cui si celebrano i 25 anni di Mani pulite: «Sono stato arrestato nel marzo 2015 con una sfilza di accuse, dalla corruzione alla turbativa d'asta fino all'associazione a delinquere. Il mio nome era sulla bocca di tutti, come l'esempio eclatante del marcio che c'è nel nostro Paese. Bene, sono stato 19 giorni in carcere e 71 ai domiciliari, tutte le mie attività sono state spazzate via. Adesso il gip mette la parola fine su richiesta del pm». Ma c'è di più, a completare la parabola del mandarino che stava ai vertici del Ministero delle infrastrutture: «Questa è la sedicesima volta che vengo inquisito e la sedicesima che vengo scagionato, senza mai e sottolineo mai, dovermi difendere in aula». Perchè i capi d'imputazione, clamorosi o eclatanti che fossero, sono caduti prima. Come foglie al vento. C'è da stropicciarsi gli occhi. Perchè solo quest'ultimo capitolo fiorentino è una collezione di titoloni e di servizi da copertina: la controversa galleria dell'Alta velocità a Firenze, l'hub portuale di Trieste, le grandi opere che si portavano dietro, secondo la vulgata universalmente accettata, fiumi di tangenti, sprechi faraonici, scempi ambientali. Scandali, si diceva, provocati da network sotterranei di grand commis, politici senza scrupoli, funzionari compiacenti. Sarà pure vero, almeno in parte, ma fa una certa impressione leggere che il chilometrico atto d'accusa si accartoccia cosi, in poche, meste righe: «Rilevato che all'esito delle indagini svolte non sono stati acquisiti elementi di prova adeguati per sostenere fondatamente l'accusa in giudizio». Per questo tutta quella fragorosissima telenovela giudiziaria finisce nel cestino. A parte quel moncone ancora in viaggio, non si sa bene per quale procura. L' opinione pubblica scommetteva sulla colpevolezza, rilanciata da talk e reportage, il ministro Maurizio Lupi veniva messo alla gogna e si dimetteva dopo aver ricevuto l'ultima razione di insulti in una livida mattina alla Fiera di Rho. L'indagine, invece, ha smentito il teorema e le manette. Una storia che si ripete se si torna al procedimento numero quindici: qui Incalza, difeso dall'avvocato Titta Madia, era nel mirino, tanto per cambiare, per associazione a delinquere, sempre a Firenze e sempre per opere legate all'Alta velocità. Per la Procura Incalza e l'architetto Giuseppe Mele avrebbero portato un «rilevante contributo agli obiettivi dell'Associazione in quanto dirigenti dell'Unità di missione del ministero delle infrastrutture a cui faceva riferimento l'appalto Tav di Firenze». In soldoni, l'onnipresente manager avrebbe brigato per superare lo scoglio della valutazione paesaggistica: un passaggio necessario per far marciare i lavori. «Ma la vicenda - scrive il gip di Firenze - appare pregiudicata perchè l'autorizzazione non era scaduta». Tanto rumore per nulla. Come nel '98, quando Incalza, amministratore delegato della Tav nell'era Necci, fini ai domiciliari per 36 giorni. Pure allora, naturalmente, Incalza se la cavò. Cosi per una vita, su e giù sulle montagne russe della giustizia italiana.

I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare.

Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.

Centinaia di migliaia di errori giudiziari, in minima parte riconosciuti. E grazie ad Alberto Matano alcuni dei quali portati alla conoscenza del grande pubblico, con il suo programma “Sono Innocente” su Rai tre.

L’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto un libro, così come ha scritto su tutti i principali delitti andati agli onori delle cronache, specialmente a Taranto. Saggi inseriti in un contesto di malagiustizia dove ci sono inseriti esempi di confessioni estorte e di cui si può parlare senza subire ritorsioni. Uno tra tutti: Giuseppe Gullotta. Questi libri fanno parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” che si compone di decine di opere: saggi periodici di aggiornamento temporale; saggi tematici e saggi territoriali. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri. ecc.

Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.

Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.

Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

Estorcere le informazioni: interrogatori e torture, scrive Roberto Colella, Giornalista di Guerra e Ricercatore presso l'Isag, su "L'huffingtonpost.it" l'11/12/2014. Nel marzo 2002 veniva catturato Abu Zubeydah, nato in Arabia Saudita da genitori palestinesi. L'arresto di Abu Zubeydah era legato all'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Drogato dall'Fbi, rivelò le connessioni segrete tra i vertici di Al Qaeda, alcuni principi reali sauditi ed alti ufficiali pakistani, dei quali fornì i telefoni personali sperando di essere liberato. Da allora Abu Zubeydah venne preso in carico dalla Cia e trasportato in una base segreta in Thailandia per poi essere trasferito a Guantanamo solo nell'estate del 2006. Quella di sottoporre i terroristi a droghe allucinogene è soltanto una delle tecniche adottate per torturare i prigionieri. Oggi fanno rabbrividire i dati inerenti il "Rapporto sulla Tortura" preparato dalla Commissione intelligence del Senato Usa. Cinque prigionieri islamici sono stati soggetti ad alimentazione rettale, tra cui il cospiratore della Uss Cole, Abd al-Rahim al-Nashir, così come Majid Khan, amico e consigliere di uno dei responsabili dell'11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed. Il prigioniero Majid Khan ha ricevuto per via rettale il suo pasto: un purè di humus, pasta al sugo, noci e uvetta. Khalid Mohammed è stato invece sottoposto al processo di "reidratazione, senza che ve ne fosse una reale necessità". Già in precedenza molti dei terroristi detenuti a Guantanamo avevano subito una delle torture più dure ed espressamente vietata dalla Cia nel 2006: il waterboarding. Tra questi lo stesso Abu Zubaydah, che ha subito la pratica almeno 83 volte e Khalid Sheikh Mohammed, che l'ha provata per ben 183 volte. Gli effetti fisici di un waterboarding possono comprendere sofferenza e danno polmonare, danno neurologico causato dalla mancanza di ossigeno e, in alcuni casi, fratture causate delle cinghie utilizzate per immobilizzare la vittima. Gli effetti psicologici possono durare a lungo. Un uso prolungato del waterboarding può condurre anche alla morte. La tecnica prevede che la persona sia legata ad un'asse inclinata, con i piedi in alto e la testa in basso. Coloro che svolgono l'interrogatorio bloccano le braccia e le gambe alla persona in modo che non possa assolutamente muoversi, e le coprono la faccia. In alcune descrizioni, la persona è imbavagliata e qualche tipo di tessuto ne copre il naso e la bocca; in altre, la faccia è avvolta nel cellophane. A questo punto, colui che svolge l'interrogatorio a più riprese vuota dell'acqua sulla faccia della persona. A seconda del tipo di preparazione, l'acqua può entrare effettivamente nelle vie aeree oppure no; l'esperienza fisica di trovarsi sotto un'onda d'acqua sembra essere secondaria rispetto all'effetto psicologico. La mente crede di stare per affogare. Eppure nelle scuole americane dell'Fbi si prediligono e si insegnano altre tecniche di interrogatorio sui prigionieri, soprattutto basate su metodi non coercitivi e sul tranello psicologico. Tra queste il Knowelwdge bluff: chi interroga comunica dettagli con il finto atteggiamento di saperne molto di più, facendo credere all'interrogato di avere delle notizie, da altre fonti, che in realtà non si hanno. Fidex line-up: indicazione del sospettato come colpevole da parte di finti testimoni. Riverse line-up: l'interrogato viene falsamente accusato da parte di simulati testimoni di un reato molto più grave di quello di cui è sospettato. Bluff on a split pair: mettere in mano all'indagato una finta confessione dattiloscritta del complice, che lo accusa della responsabilità del reato commesso. Infine il famoso dilemma del prigioniero: se gli imputati sono due, metterli uno contro l'altro, facendo credere a ciascuno che l'altro ha confessato, accusandolo di correità, e sfruttando quindi la reciproca mancanza di fiducia. Il punto è che l'interesse degli organi militari americani è incentrato sull'informazione da estorcere piuttosto che sul rispetto dei diritti umani. Chi è sotto tortura spesso si limita a dire ciò che l'interrogatore si aspetta per porre fine alla sua sofferenza. L'interrogatore spesso è un militare che non ha conoscenze appropriate. Il ricorso alla tortura è spesso improduttivo e inaffidabile, ma ciò nonostante l'esercito continua ad utilizzarla. A molti sembra che la tortura sia un insieme di tecniche relegate ad un lontano passato. Ottenere una confessione senza i metodi di indagine moderni, come DNA, poligrafo e analisi della scena di un delitto ha contribuito a realizzare macchinosi e dolorosi metodi di tortura in passato, creando anche un'immagine del genere umano che nulla ha di edificante. Al giorno d'oggi sembra che il mondo civilizzato non abbia più bisogno di metodi così crudeli. La scienza è un fondamentale supporto per le indagini: abbiamo satelliti in grado di spiare le mosse del nemico, analisi chimiche che ci forniscono l'esatta identità di un criminale, tecniche sofisticate per ottenere una confessione veritiera senza sottoporre l'indagato ad una serie di pratiche che ben poco hanno di umano. Tuttavia la tortura è ancora oggi largamente impiegata, soprattutto in ambito militare. Quando sentiamo parlare di "waterboarding" o di "bombardamento sensoriale" sui prigionieri di guerra non stiamo facendo altro che dare nomi sofisticati a metodologie che non sono per nulla umane, ma rappresentano in tutto e per tutto tecniche di tortura. Durante il SERE, acronimo che sta per "Survival, Evasion, Resistance and Escape", i soldati americani ed inglesi vengono addestrati a ricorrere a "pratiche non ortodosse" per ottenere delle confessioni dai prigionieri. Le tecniche insegnate al SERE per molti sono soltanto un insieme di metodi per estorcere confessioni; il fine giustifica i mezzi. Per altri invece violano in tutto e per tutto la Convenzione di Ginevra, rendendole a tutti gli effetti metodi di tortura.

Una guida pratica ai metodi di tortura è codificata nel KUBARK (KUBARK Counterintelligence Interrogation), un manuale sulle tecniche di interrogatorio utilizzato dalla CIA. Tenuto segreto dal 1963 fino al 1997, la NSA lo ha reso di pubblico dominio dopo il Freedom of Information act, assieme ad un altro manuale, lo Human Resource Exploitation Manual, basato sul KUBARK.

Quali sono questi metodi? I più comuni sono i seguenti:

ISOLAMENTO. L'isolamento si è dimostrato un ottimo metodo di tortura per "spezzare" un essere umano. Sperimentato in molte carceri, l'isolamento si rivela spesso un'ottima arma per ridurre all'impotenza individui sociali, lasciandoli soli con loro stessi per periodi di tempo più o meno lunghi. Il KUBARK riporta l'esperienza di molti esploratori polari, i quali hanno riportato come l'isolamento sia un fattore di estremo stress per l'individuo, e che in molti casi sia stato la causa scatenante di attacchi di panico e di fobie. I sintomi primari dell'isolamento sono la superstizione, l'amore estremo per altri esseri viventi, percepire oggetti inanimati come vivi, e allucinazioni.

DOLORE. Il dolore è la più antica forma di tortura conosciuta. Molte persone sottovalutano la soglia del dolore che sono in grado di sostenere, ed una volta giunti al punto di rottura faranno di tutto per terminare l'agonia. La soglia del dolore può innalzarsi per motivi psicologici, come forti motivazioni, ma è pressochè identica per tutti gli esseri umani. Il KUBARK tuttavia specifica come il dolore non sia uno dei metodi di tortura migliori: proprio le motivazioni psicologiche dell'individuo sarebbero il punto debole di questa tecnica. Può inoltre fornire false confessioni nel caso il dolore fosse troppo intenso o prolungato nel tempo.

DEPRIVAZIONE DEL SONNO. Ci sono una marea di studi scientifici sulla deprivazione del sonno e sugli espetti devastanti che può avere sulla psiche umana. Il sonno è un elemento che contribuisce alla nostra stabilità mentale, e privare un individuo del riposo non fa altro che portarlo al punto di rottura, indurre allucinazioni multi-sensoriali e psicosi di diversa natura. Il KUBARK prevede che, dopo un periodo di tortura attraverso la deprivazione del sonno, il prigioniero venga fatto riposare, per poi procedere con l'interrogatorio. Il solo timore di poter tornare in uno stato di deprivazione del sonno è sufficiente a far parlare quasi chiunque. Menachem Begin, ex Primo Ministro israeliano, è stato prigioniero del KGB, ed ha subito questo genere di tortura. Parlando della sua esperienza riferisce: "Nella mente del prigioniero interrogato, inizia ad esserci confusione. Il suo spirito è stanco morto, le gambe sono instabili, ed ha un solo desiderio: dormire...Chiunque abbia sperimentato questa tortura sa che nemmeno la fame e la sete sono paragonabili a questo". Per fornire un esempio chiarificatore di cosa possa comportare la deprivazione del sonno, la Graduate Medical School di Singapore ha condotto un esperimento per verificare come la precezione visiva di un soggetto deprivato di sonno possa alterarsi. Il cervello viene alterato nella sua capacità di dare un senso a ciò che viene percepito attraverso la vista, può addirittura creare false memorie frutto di esperienze allucinatorie o di errate percezioni sensoriali, fino a condurre alla pazzia.

DEPRIVAZIONE SENSORIALE. La deprivazione sensoriale consiste nel privare un prigioniero di ogni stimolo proveniente dai sensi principali, isolandolo completamente dal mondo esterno. Come già scritto in un altro post riguardo alla deprivazione sensoriale, sono necessari solo 15 minuti per iniziare a sperimentare allucinazioni, attacchi di panico, paranoia. Poche ore di deprivazione sensoriale equivalgono a mesi di prigionia in una cella ordinaria...Alla Mcgill University, nel National Institute of Mental Health, sono stati condotti alcuni esperimenti sulla deprivazione sensoriale, dimostrando come questa tecnica di tortura possa alterare in brevissimo tempo la psiche di un individuo rendendolo estremamente più malleabile.

UMILIAZIONE SESSUALE. L'umiliazione sessuale si basa sulle credenze ed i punti di vista del prigioniero, e varia in base al sesso. Per esempio, una persona cattolica potrebbe essere un forte oppositore dell'omosessualità, per cui si punta a renderlo vittima di abusi orientati verso quel tipo di sfera sessuale. Il prigioniero può essere costretto ad indossare biancheria femminile, a travestirsi da donna, o fare lap dance di fronte all' interrogatore, in una serie di abusi psicologici, e talvolta fisici, che lo portano al punto di rottura. Un esempio classico di umiliazione sessuale è quello di Fahim Ansari, accusato della strage di Mumbai, che ha subito torture a sfondo sessuale da un agente donna dell'FBI riportando lesioni sui genitali e su altre parti del corpo. Altri casi di umiliazione sessuale sono avvenuti nel carcere di Abu Ghraib, con stupri, scariche elettriche ed sevizie a sfondo sessuale di ogni tipo.

FREDDO ESTREMO. Metodo di tortura che pare essere il preferito dal governo cinese, e sul quale ci sono numerose sperimentazioni passate su cavie umane compiute da menti malate come Shiro Ishii o Mengele. Il prigioniero viene bagnato con acqua fredda e lasciato all'esterno, o in una cella non riscaldata priva di vetri sulle finestre. Altri sono costretti a correre nella neve indossando soltanto la biancheria; altri ancora invece devono dormire per terra in celle non riscaldate, in pieno inverno. Lascio a voi immaginare se il metodo funziona o meno.

FOBIE E MINACCE. Il primo metodo di tortura sfrutta le fobie del prigioniero per spezzarne l'animo. C'è chi ad esempio ha la fobia per i ragni: in questo caso, può venir lasciato per ore in una stanza piena di ragni, per poi essere interrogato. Il timore di tornare in quella cella farà in modo che il prigioniero sia più calmo e risponda a tutte le domande che gli verranno poste. Ci sono inoltre le minacce: in individui con una bassa soglia del dolore, la minaccia di provocare dolore è insopportabile, a volte meno tollerabile ed efficace del dolore stesso. Per una strategia di tortura efficace, il KUBARK suggerisce di approfondire la psiche del prigioniero per fare leva efficacemente sulle sue paure più profonde, e per scoprire la soglia del dolore oltre la quale non possa più resistere.

WATER BOARDING. Il governo americano di recente ha confermato l'utilizzo del water boarding come strumento per ottenere delle confessioni. Sostanzialmente si tratta di un "affogamento controllato": si prende il prigioniero, e gli si versa acqua sul viso, simulando un annegamento. Alcuni agenti della CIA si sono sottoposti volontariamente al water boarding per provare l'esperienza, non riuscendo a resistere per più di 14 secondi.

La giornalista Julia Leyton ha descritto nei dettagli il metodo: "Il water boarding viene eseguito ponendo una persona su un tavolo inclinato, con la testa nel punto più basso ed i piedi in cima. L'interrogatore lega le braccia e le gambe del prigioniero in modo che non possa muoversi, e gli copre la faccia, alcune volte con del tessuto, altre con del cellophane. Poi si comincia a far cadere acqua sul viso del prigioniero; indipendentemente dal metodo, l'acqua entra o non entra nel naso e nella bocca del prigioniero. Ma l'esperienza fisica di essere sotto ondate di acqua sembra essere secondaria a quella psicologica. La mente del prigioniero crede che di essere realmente sul punto di affogare".

La “scienza dell’interrogatorio”. A volte l’interrogatorio è più devastante per chi lo effettua che per chi lo subisce. La notte del 22 dicembre 1961 il capo della stazione CIA a Helsinki, Franz Friberg, sentì suonare il campanello di casa. Insonnolito, andò ad aprire e si trovò di fronte uno sconosciuto; un uomo basso e massiccio, che in un inglese marcato da un vistoso accento russo gli disse di essere il maggiore Anatoly Klimov, dell’Ufficio Archivi del KGB: chiedeva asilo politico, in cambio avrebbe rivelato segreti della massima importanza. Inizialmente Friberg, come dichiarerà più tardi ad una commissione del Senato americano, pensò di avere a che fare con un pazzo o un provocatore e fu tentato di sbattergli la porta in faccia; invece, dopo avergli posto qualche domanda lo fece trasferire in una base americana nei pressi di Francoforte; lì, acclarata la sua identità, fu immediatamente trasportato negli Stati Uniti per essere interrogato dai migliori cervelli della CIA. Fu l’inizio della fine. Le circostanziate dichiarazioni di Klimov, infatti, permisero, sì, di smantellare quattro reti spionistiche che i sovietici avevano installato negli Stati Uniti e nei paesi della NATO ma delineavano un quadro agghiacciante: alcuni alti dirigenti dei servizi segreti occidentali, della stessa CIA, erano, in realtà “talpe”, agenti segreti dei sovietici. Chi erano? Klimov dichiarava di non saperlo; l’unica cosa che aveva appreso, spulciando frettolosamente qualche pratica segretissima finita negli archivi del KGB, era che i russi avevano favorito le loro carriere, ad esempio, consegnando ad essi alcune spie sovietiche. Un atroce dubbio si insinuò allora nella CIA: Klimov era veramente sincero o era una “polpetta avvelenata” lanciata dal KGB per distruggere la coesione dei servizi segreti occidentali? Per ben tre mesi il militare russo fu sottoposto alle più svariate tecniche di interrogatorio per acclarare questo enigma che, comunque, è rimasto tale; intanto l’ombra di un paranoico sospetto – che trasformava rivalità burocratiche in insinuazioni o, addirittura, in accuse di tradimento – paralizzava le attività della CIA e di altri servizi segreti occidentali. Stimati funzionari con anni di servizio alle spalle furono costretti al licenziamento e qualcuno tra questi andò a lamentarsi con i giornalisti. Lo scandalo partorì una commissione parlamentare di inchiesta che, se non è riuscita ad appurare la verità sul “caso Klimov”, (solo nel 1993 si è scoperto che Aldrich Ames, il dirigente della CIA che soprintendeva agli interrogatori di Klimov, era al soldo del KGB), almeno ha fatto conoscere all’opinione pubblica la, fino ad allora segreta, “scienza dell’interrogatorio”, codificata in un documento della CIA recentemente declassificato: il Kubark Counterintelligence Interrogation. I tentativi di trovare un modo “scientifico” per ottenere una piena confessione, comunque, risalgono, almeno al 1840 quando un clinico francese, Moreau de Tours, riferì che, durante il dormiveglia provocato da alcune sostanze, il paziente parla in modo, più o meno, incontrolla­to e può rivelare così i suoi altrimenti inconfessabili segreti. Questa considerazione determinò l’uso del protossido di azoto, del cloroformio, e dell’hashish, negli interrogatori che venivano condotti da poliziotti alla Sûreté di Parigi e da “alienisti” (antesignani dei moderni psichiatri) quali Magnan e Babinski. Nel 1931 Henry House battezza come “siero della verità” la scopolamina, una sostanza contenuta in alcuni vegetali, (quali la nostrana Mandragora Mandragora autumnalis o, ancora di più, in un arbusto, lo Hyoscyamus niger); analogo titolo si conquistano altre sostanze quali la mescalina, (prodotta dal fungo Peyotl cactacea), e barbiturici di sintesi quali Amital, Pentothal, Nembu­thal, Evipan… Negli anni “60 l’LSD (dietilammide dell’acido lisergico) suscita gli entusiasmi di alcuni ricercatori; primo tra tutti il dottor Donald Ewen Cameron, consulente della CIA e direttore del tenebroso “Progetto Mkultra” finalizzato a scoprire infallibili metodi per ottenere una completa confessione e le tecniche di “lavaggio del cervello” che si ipotizzava fossero state impiegate da farmacologi e psichiatri dell’Est per trasformare, ad esempio, ex prigionieri americani della guerra di Corea rientrati in patria in risoluti pacifisti. Dopo dieci anni di fallimentari esperimenti, il Progetto Mkultra fu chiuso. L’unico risultato sono state cinquanta persone con il sistema nervoso gravemente compromesso dalle altissime dosi di LSD somministrate da Cameron; nel 1988, dopo un processo durato quindici anni, sono state risarcite dal governo americano con 750.000 dollari a testa. Messo da parte l’inaffidabile LSD, alla metà degli anni 80 le speranze di ottenere il “siero della verità” si appuntano su alcune sostanze ottenute dalla metilendiossimetamfetamina (MDMA) che, a sua volta, discende da una molecola, l’MDA, brevettata in Germania nel 1914 e destinata come “droga di battaglia” per le truppe del Kaiser. Fino al 1990 l’MDMA, ideata dal neurochimico Alexander Shulgin, veniva impiegata in psichiatria nel tentativo di indurre maggiore capacità di autoanalisi poi il suo uso è stato proibito e da allora, questa droga, prodotta clandestinamente in innumerevoli laboratori e unita a intrugli vari, viene spacciata come “Ecstasy” tra il “popolo delle discoteche”. Ma “funzionano” davvero i sieri della verità? Secondo due psicologi americani, David Orne e James Gottschelck, il loro effetto, al di là dell’abbassamento della soglia di vigilanza, è sostanzialmente psicologico in quanto inducono nel soggetto che le ingerisce, e che si trova sotto stress per l’interrogatorio, una sorta di “alibi” per cedere. Esperimenti effettuati con placebo (una innocua pillola zuccherata spacciata per un potentissimo siero della verità) hanno, infatti, in molti casi indotto il soggetto a credere di essere stato drogato e a raccontare tutto senza alcun rimorso o paura di biasimo. Ma se la “verità” non la si può estorcere, perché non tentare, almeno, di segnalare le bugie? Già nel 1895 Cesare Lombroso per scoprire nelle “palpitazioni” la “prova” delle menzogne dell’interrogato usava un apparecchio di sua invenzione, l’idrosismografo, nel quale la mano dell’interrogato, immersa in un recipiente pieno di acqua, trasmetteva il ritmo del polso e le variazioni della pressione sanguigna ad un tubo di gomma e, quindi, ad un ago ricoperto di nerofumo che tracciava una striscia di carta. Negli anni seguenti si scoprì che in una persona sottoposta ad uno stress, come quello che si determinerebbe quando dice una bugia, si verifica quello che allora era chiamato “riflesso psico-galvanico” (e cioè, una variazione nella resistenza della pelle al passaggio di elettricità) e una variazione del ritmo respiratorio. L’americano Leonard Keeler costruì, quindi, nel 1939, un dispositivo che registrava simultaneamente la cadenza del polso, la pressione sanguigna, il ritmo respiratorio e il riflesso psico-galvanico, battezzandolo poligrafo o “Lie Detector” (rivelatore di bugie). In realtà il responso del poligrafo, che si limita a registrare improvvisi “turbamenti”, dipende dalla scelta e dall’opportuna distribuzione delle domande e dalla interpretazione che si da del tracciato. Per di più, l’interrogato durante la prova, può ingannare la macchina, ad esempio infliggendosi dolore, controllando la respirazione, contraendo impercettibilmente i muscoli delle braccia e delle gambe…Per vanificare quest’ultimo espediente Walter Reid negli anni “80 accessoriò il poligrafo con due cuscini pneumatici sistemati sotto gli avambracci e sotto le cosce dell’interrogato che registrano le pur minime contrazioni muscolari. È solo uno dei tanti stratagemmi messi a punto dai tecnici del Lie Detector che oggi si avvale di innumerevoli sensori collegati a potenti computer. Nonostante ciò, nel febbraio di quest’anno, la Corte Federale degli Stati Uniti ha stabilito che questa macchina non può essere impiegata in un procedimento penale, nemmeno come ultima carta in mano all’imputato per dimostrare la propria innocenza. Ovviamente, la decisione ha scatenato un mare di polemiche anche perché proprio in quei giorni un ministro israeliano è stato costretto alle dimissioni dalle accuse di molestie sessuali, accertate dal Lie Detector, di una sua segretaria. Intanto un’altra “macchina della verità” si affaccia sulla scena; il FACS (Facial Action Coding System) che analizza la contrazione dei muscoli facciali coinvolti nell’espressione delle differenti emozioni. Gli ideatori della macchina, Paul Ekman e Vincent Friesen, dopo aver esaminato quasi cinquemila videoregistrazioni di diverse espressioni, hanno costruito un data base che contempla ogni contrazione muscolare della faccia, la sua durata, l’intensità… Nascerebbe da qui la capacità della macchina di distinguere la “sincerità” di una persona. L’ “autentico” sorriso, ad esempio, prevede la contrazione dei muscoli gran zigomatici, che fanno sollevare gli angoli della bocca, e dei muscoli orbicolari che fanno restringere le orbite oculari. Se il sorriso non è autentico, invece, si avrebbe una differente contrazione dei muscoli e, quindi, una asimmetria tra la parte sinistra e destra del volto. Va da sé che anche il FACS può essere ingannato da un soggetto che si “immedesima” perfettamente nella parte che sta recitando o da fattori culturali, sociali ed emozionali ancora oggi impossibili da valutare automaticamente. Nonostante ciò, il FACS sta acquistando una crescente popolarità e uno dei suoi principali sostenitori, Paul Ekman, docente di psicologia alla University of California, promette che l’applicazione di nuovi microprocessori e software porteranno l’affidabilità del FACS al 99 per cento tra appena cinque anni. Prospettive meno esaltanti, invece, per il PSE Psycological Stress Evaluation, una altra “macchina della verità” che secondo i suoi ideatori – Allan Bell, Charles McQuinston, Bill Ford – sarebbe in grado di evidenziare i livelli – emozionale, cognitivo e fisiologico – della voce umana analizzando i differenti valori di modulazione di frequenza determinati dalla variazione dell’afflusso sanguigno alle corde vocali. Nasce da qui un software, venduto anche in Italia, che promette di distinguere tra affermazioni “vere”, “false” o “manipolate”. Questo fino al maggio 1999, fin a quando, cioè, l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato non ha condannato la società produttrice del software per pubblicità ingannevole. Messi da parte sieri e macchine, per ottenere la verità si può tentare con, l’ipnosi che effettivamente, se il soggetto collabora, riesce a fare emergere qualcosa dal buio della mente. Il caso più famoso è certamente l’interrogatorio sotto ipnosi di Trevor Rees-Jones, – unico superstite nell’incidente automobilistico nel quale, il 31 agosto 1977, morì la principessa Diana – dal quale, comunque, non si è appreso nulla di rilevante ai fini dell’indagine. Non così per un analogo interrogatorio al quale è stato sottoposto nel 1998 un cittadino di Gerusalemme che, sopravvissuto ad una autobomba, è riuscito sotto ipnosi a ricordare il viso di uno degli attentatori. Ma, al di là di sieri, macchine, ipnosi. Quali sono le tecniche per spingere una persona a confessare? Intanto la tortura che, ancora oggi, viene, più o meno istituzionalmente, praticata nella maggior parte dei paesi. Infliggere dolore per ottenere una confessione è una pratica antichissima che ha avuto una vertiginosa escalation quando, agli inizi del secolo, si è scoperto che l’applicazione di elettrodi in alcune zone del corpo rendeva rapido e meno stressante il lavoro per il carnefice. Si è passati poi alla somministrazione di anfetamine per rendere l’interrogato più sensibile alla tortura e all’ “assistenza” di un medico per valutare (ad esempio misurando il rilascio nell’organismo dell’oppiode endogeno ß-endorfina o di dopamina) il livello di dolore raggiunto dall’interrogato e la ulteriore “soglia” di sofferenza raggiungibile. Comunque ancora oggi, poco si sa di questi studi e non a caso nel manuale della CIA “Kubark Counterintelligence Interrogation” numerosi paragrafi dedicati alle tecniche di “interrogatorio coercitivo di fonti resistenti” sono stati censurati nella versione resa pubblica. Ma occupiamoci ora di tecniche di interrogatorio meno efferate. Un metodo antichissimo e che, in America negli anni “20, è stato battezzato come tecnica “Mutt­ and Jeff”, consiste nell’alternare un interrogante brutale, rabbioso, dominatore, in visibile contrasto con un interrogante cordiale e calmo al quale l’interrogato finirà per affidarsi e confidarsi. Ma questi sono sistemi “artigianali”. La vera “scienza dell’interrogatorio” nasce in Occidente negli anni 50 con il rientro negli Stati Uniti di prigionieri di guerra sottoposti ad interrogatori dai nord coreani. Da una ricerca su 759 militari, condotta dallo psicologo, Howard Hinkle, la CIA ricavò una serie di direttive che codificheranno gli interrogatori degli innumerevoli profughi riversatisi in Occidente, soprattutto a seguito delle repressioni susseguitesi alla rivolta di Budapest, nel 1956 e alla “primavera di Praga” nel 1968. Secondo queste direttive l’interrogatorio deve essere preceduto da uno screening effettuato da un intervistatore, eventualmente coadiuvato da un Lie Detector, finalizzato ad acquisire informazioni sulla vita familiare e quindi sulla personalità del soggetto che saranno poi utilizzate dall’interrogatore. Il lavoro di quest’ultimo comincia predisponendo la stanza dell’interrogatorio. Secondo le disposizioni della CIA, questa non dovrebbe avere elementi di distrazione come un telefono che può squillare, quadri o pareti dipinte con colori vivaci; la presenza o meno di una scrivania deve dipendere non dalla comodità dell’interrogante ma, piuttosto, dalla prevista reazione del soggetto ad apparenze di superiorità e ufficialità. Se si prevede un “interrogatorio di tipo non coercitivo con una fonte cooperativa” l’interrogato dovrà avere a disposizione una poltrona imbottita; se si tratta, invece, di una “fonte resistente” una luce puntata sulla sua faccia può risultare utile. In quest’ultimo caso l’interrogato dovrebbe avere già subito un trattamento finalizzato a porlo in condizioni di assoluta dipendenza dall’onnipotente interrogante che potrà avergli concesso o meno il diritto di dormire, mangiare, lavarsi, cambiarsi d’abito; e questo per provocare nell’interrogato una regressione allo stato infantile. A questo punto comincia l’interrogatorio vero e proprio che dovrà essere calibrato sul “tipo” di soggetto precedentemente classificato dall’intervistatore. A tal proposito la CIA ha classificato nove “tipi psicoemozionali” il loro presumibile “stato infantile” e le metodologie per interrogarli. Addentriamoci brevemente in qualcuno di questi “tipi”:

l. Il tipo ordinato‑ostinato. Sobrio, ordinato, freddo, spesso molto intellettuale, si considera superiore agli altri. Di solito è stato un “ribelle” durante la fanciullezza, facendo l’esatto contrario di ciò che gli veniva ordinato dai genitori; da adul­to odia ogni autorità anche se, spesso riesce a mascherare la sua indole. Può confessare facilmente e rapida­mente sotto interrogatorio anche atti che non ha commesso, per distogliere l’interrogante dallo scoprire qualcosa di si­gnificativo. L’interrogante non dovrà apparire come un’autorità utilizzando, ad esempio, minacce o pugni sul tavolo ma dovrà essere cordiale, ad esempio interessandosi ad eventuali hobby coltivati da questo tipo (solitamente colleziona monete o altri oggetti). È utile che l’interrogante e la stanza del­l’interrogatorio appaiano straordinariamente lindi.

2. Il tipo ottimista. Di solito, è stato il membro più giovane di una famiglia numerosa o è nato da una donna di mezza età. Questo tipo reagisce ad una sfida rifugiandosi nella convinzione che “tutto andrà bene”, convinto di dipende­re non già dalle sue azioni ma da un destino propizio. Tende a cercare promesse mettendo l’in­terrogante nel ruolo di protettore e di solutore di problemi. Sotto interrogatorio, solitamente, si confida davanti ad un approccio gentile, paterno. Se resi­ste, deve essere trattato con la tecnica “Mutt­ and Jeff”.

3. Il tipo avido, esigente. Ha spesso sofferto di una precoce privazione di affetto o di sicurezza che lo porta, da adulto, a cercare un sostituto dei genitori. La sua devozione si trasferisce facilmente quando sente che lo sponsor che ha scelto lo ha abbandonato. Può essere soggetto a gravi e improvvise depressioni e rivolgere verso se stesso il suo desiderio di ven­detta arrivando fino al suicidio. L’interrogante che tratta con questo tipo deve fare atten­zione a non respingerlo e tener conto che le sue richieste, spesso esorbitanti, non esprimono tanto una necessità specifica quanto il bisogno di sicurezza.

4. Il tipo ansioso, egocentrico. Timoroso, nonostante faccia di tutto per nasconderlo, spesso è un te­merario per vanità e portato a vantarsi; quasi sempre, mente per sete di complimenti e lodi. L’interrogante, dovrà assecondare la sua esigenza di fare buona impressione e non dovrà mai ignorare o ridicolizzare le sue vanterie, o tagliar corto sulle sue divagazioni. Gli interrogati ansiosi ed egocentrici che nascondono dei fatti significativi, come contatti con servizi nemici, possono divulgarli se indotti a ritenere che la verità non sarà usata per danneggiarli e se l’interrogante sottolinea la stupidità dell’avversario nell’in­viare una persona cosi intrepida in una missione così mal preparata.

5. Il tipo con complesso di colpa o incapace di successo. Apparten­gono a questa categoria i giocatori “coatti” che trovano sostanzialmente piacere nel perdere, masochisti che con­fessano crimini non commessi o che commettono davvero crimini per poi poterli con­fessare ed essere puniti È difficile interrogare questo tipo di persona in quanto egli può “confessare”, ad esempio, un’attività clandestina ostile nella quale non è mai stato coinvolto oppure può restare ostinatamente silenzioso o provocare l’interrogante per “godersi” poi la punizione. In alcuni casi, se punite in qualche modo, le persone con forti comples­si di colpa possono smettere di resistere e cooperare, grazie al senso di gratificazione indotto dalla punizione. Articolo di Francesco Santoianni. La “scienza dell’interrogatorio”. Pubblicato su Newton luglio 2000.

L’interrogatorio e l’intervista giudiziaria. Il 29 gennaio 2016, nell'ambito del Master in Analisi Comportamentale e Scienze Applicate alle Investigazioni, all'Intelligence e all'Homeland Security (ACSAII-HS) che si tiene a Roma presso l'Università degli studi Link Campus University, diretto dalla Dottoressa Paola Giannetakis, ha avuto luogo un interessante incontro con il Professor Ray Bull in tema di comportamento e interrogatorio. Aspetti di particolare interesse per l'acquisizione di informazioni attendibili sia in ambito investigativo che di intelligence operativa. Nel percorso del Master infatti si esplorano ed acquisiscono in maniera pratica e operativa competenze spendibili utili agli operatori delle Forze dell'ordine, agli operatori di intelligence e ad altre figure professionali che necessitano dei corretti approcci allo studio del comportamento per ottenere i migliori risultati. Ray Bull è professore di Criminologia Investigativa presso la University of Derby e professore Emerito di Psicologia Forense presso la University of Leicester, in Inghilterra. Il docente ha nell'occasione illustrato agli studenti in aula gli studi effettuati e gli approfondimenti esperiti sui processi psicologici di una persona che viene sottoposta ad interrogatorio, proponendo quindi le linee guida per una corretta conduzione dell'intervista giudiziaria. Nel gennaio del 1998 la Corte Suprema di Londra aveva assegnato 200 mila sterline ad un uomo come risarcimento per aver patito, nel 1987, arresto, interrogatorio e successivi anni di prigione. Secondo il giornale Daily "un uomo innocente aveva trascorso cinque anni infernali in prigione dopo essere stato percosso da un detective ed obbligato a firmare una confessione". Si era trattato di una 'vetusta modalità' di conduzione di interrogatori, fondata su 'oppressione, intimidazione e coercizione' e giustificata dall'erroneo convincimento che 'un sospettato generalmente non confessa sua sponte, ma a seguito di pressione fisica e psicologica da parte della polizia giudiziaria. I primi cambiamenti, ha spiegato il prof. Ray Bull, si sono avvertiti nel Regno Unito verso la metà degli anni '80, dopo che la Corte d'Appello di Londra aveva dichiarato non attendibili le confessioni estorte con atteggiamenti coercitivi degli operatori di polizia. Le prime ricerche al riguardo sono state pubblicate nel 1992, grazie allo studio commissionato a Baldwin dall'Ufficio Centrale di Inghilterra e del Galles. Baldwin analizzò i contenuti di interviste giudiziarie registrate dopo il 1986 scoprendo che 1/3 dei sospettati aveva ammesso di essere colpevole all'inizio del colloquio, forse a causa della strategia dei detective di rivelare al sospettato quanto la polizia aveva già acquisito contro di lui. Nuovi approfondimenti evidenziarono come solo 20 su 600 sospettati aveva modificato la propria posizione durante l'interrogatorio, mentre la maggior parte degli intervistati aveva confermato la propria iniziale versione indifferentemente dal modo in cui era stato condotto il colloquio. Ulteriori studi effettuati da Moston, Stephenson e Williamson riferirono che nella maggior parte delle interviste giudiziarie gli investigatori non si erano adoperati per ottenere più informazioni possibili dai sospettati. Il Governo si rese conto che la Polizia non era abile nel condurre un interrogatorio e decise di preparare i detective con corsi di formazione diretti a fornire loro una migliore preparazione. Nuove tecniche furono sviluppate da 12 esperti detective con il contributo di psicologi (tra questi il Prof. Ray Bull) e su queste basi nacque il modello PEACE, acronimo (dall'inglese) di Planning and Preparation, Engage and Explain, Account, Clarify and Closure, Evaluation. La collaborazione tra detective e psicologi sviluppatasi nel 1992 consentì di delineare i principi fondamentali dell'intervista giudiziaria: obiettivo dell'interrogatorio non è la ricerca della confessione, ma la ricerca della verità, intesa come la reale versione dei fatti; l'interrogatorio deve essere condotto da personale con una mente aperta; le informazioni ottenute dal sospettato devono essere sempre riscontrate con le informazioni acquisite precedentemente dalla Polizia.

Il modello PEACE prevede un contesto rilassato e sereno, caratterizzato da un reciproco rispetto tra le parti, distante dagli ambienti rigidi ed intimidatori del passato. Le analisi svolte nel 2005 da O'Connor e Carson, entrambi detective esperti, rivelarono che negli Stati Uniti d'America ciò che in particolare porta ad una confessione è il rispetto mostrato dagli intervistatori nei confronti degli intervistati, ipotesi confermata dalle ricerche svolte in Australia e in Svezia. La relazione che si instaura tra le parti durante l'interrogatorio produce reazioni che possono portare l'indagato ad ammettere o negare il reato. Nel 2010 Bull e Walsh, analizzando 142 interviste giudiziarie registrate, si resero conto che il sospettato aveva fornito maggiori informazioni nelle fasi in cui il detective aveva utilizzato il metodo PEACE. Gli studiosi individuarono le qualità che un buon investigatore deve possedere e valorizzare nella fase di acquisizione delle informazioni: capacità di incoraggiare il sospettato a fornire informazioni, capacità di sviluppare argomenti, capacità di porre domande appropriate ed aperte, mente aperta, capacità di ascoltare in modo attivo. L'interrogatorio produce ottimi riscontri se il rapporto tra le parti continua ad essere sereno e, nel caso in cui il risultato tardasse ad arrivare, l'investigatore deve tollerare il silenzio e mostrarsi preoccupato per la posizione del sospettato. Alison e colleghi esaminarono 288 ore di interviste registrate in Inghilterra con 29 sospettati, allo scopo di sperimentare il metodo PEACE negli interrogatori di terroristi o presunti tali. Questo modello di interviste giudiziarie prevede nuove abilità, tra le quali una buona capacità comunicativa, empatia, flessibilità, apertura di mente. Il colloquio, definito 'motivazionale', è caratterizzato da un rapporto collaborativo tra le parti, durante il quale è fondamentale per il detective mantenere un comportamento coerente. Goodman e colleghi, analizzando gli interrogatori di persone sospettate di avere informazioni relative a fatti terroristici, scoprirono che i detenuti erano stati più inclini a fornire informazioni utili in risposta a strategie psicologiche più sofisticate che la coercizione e che le confessioni erano risultate più complete in risposta a strategie non coercitive. Di fronte a gravi crimini, fondamentale era stata l'empatia, intesa come capacità di porsi nella situazione di un'altra persona e di comprendere le sue intenzioni e i suoi pensieri. Laddove l'empatia non significa comprensione, ma strumento strategico di lettura del pensiero e capacità di pianificare le azioni successive. Ed allora come è possibile comprendere se il sospettato mente? Secondo le linee guida descritte da diversi studi pubblicati, chi mente è solito alterare la propria espressione facciale, non comunica con l'interlocutore guardandolo negli occhi, muove in maniera costante mani e piedi, gesticola continuamente e tende a cambiare spesso posizione del corpo. Tale comportamento, in realtà, sebbene indichi nervosismo, non indica menzogna in maniera evidente, poichè il medesimo stato emotivo può caratterizzare persone innocenti e farle sembrare colpevoli, mentre, viceversa, una persona colpevole può mostrarsi serena e dare l'impressione di essere innocente. Sembra allora difficile capire se un sospettato mente, bisogna studiare il comportamento. Dalla confluenza di questa analisi, così come dalla capacità di interpretare i segnali multi fattoriali, si ottiene un tracciamento preciso di come procedere per ottenere le informazioni di cui si ha bisogno. Questo è uno dei training specifici che si fa nell'ambito di questo Master. Di Giulia Vasale Scientific Crime Analysis working group. Il contenuto è stato pubblicato da Link Campus University in data 12 febbraio 2016. La fonte è unica responsabile dei contenuti. Distribuito da Public, inalterato e non modificato, in data 12 febbraio 2016. 

"Io torturato per confessare ma ero innocente". Pasquale Virgilio fu accusato di omicidio, a salvarlo una lettera del papà dell'ex sindaco Pisapia, scrive Luca Fazzo, Venerdì 26/05/2017, su "Il Giornale". Doveva essere una rievocazione - a metà tra la fiction e la didattica, dedicata ai giovani avvocati milanesi - di uno dei processi che hanno fatto la storia della giustizia sotto la Madonnina. Invece mercoledì, la serata organizzata dalla Camera penale cittadina è iniziata da poco, si alza dalla platea un signore smilzo con la camicia rosa e dice: «Buonasera, sono Pasquale Virgilio». Fu lui, cinquant'anni fa, il protagonista di quel caso. Fa irruzione in carne, ossa, ricordi e rabbia - una rabbia lucida ed indomita - nel convegno. Ed è uno choc. Perché non si limita a raccontare di come venne accusato ingiustamente. Racconta, nei dettagli e con crudezza, come venne torturato. Non nello scantinato di una caserma di periferia ma all'interno del tribunale di Milano, il tempio laico al cui ingresso sta scritto Iustitia. Di Giandomenico Pisapia, il grande professore che col suo intervento lo salvò dall'ergastolo, parla con freddezza: «Perché hanno creduto a lui e non a me? E gli altri, quelli che non hanno un Pisapia a salvarli, come fanno?». Nel suo racconto, la giustizia di quegli anni è un tunnel degli orrori. Orrori che si compiono a pochi metri dagli uffici dei giudici; davanti alle loro conseguenze, i giudici chiudono gli occhi. «I carabinieri - racconta Virgilio - mi vennero a prendere a casa e mi portarono a palazzo di giustizia. Prima sotto, poi sopra»: cioè negli uffici del quarto piano, che ora sono occupati dalla Procura della Repubblica. Virgilio era in divisa, perché stava facendo la naja. «Mi fecero sdraiare sui tavoli, mi tolsero gli anfibi e i calzettoni, poi presero le scope e iniziarono a colpirmi sotto le piante dei piedi. Picchiavano così forte che anche in carcere per molto tempo non riuscivo a camminare». Le botte avevano un obiettivo: farlo «cantare», confessare di essere lui l'assassino del benzinaio di piazzale Lotto. Ma Virgilio, che non era una mammola («vivevo di espedienti», definisce laconicamente la sua vita di allora) non confessa, per il semplice motivo che è innocente. Allora arriva il grado successivo: «I flash delle macchine fotografiche erano grandi e grossi, si ricaricavano con le batterie. Allora prendono i fili e me li legano, diciamo, nelle parti delicate». E iniziano le scosse. Virgilio avrà urlato. Ma nessuno, a Palazzo di giustizia, sembra sentire le sue urla. Però non confessa. E alla corrente si aggiungono i sacchetti con cui viene colpito ripetutamente. «Stavano attenti a colpire nei posti giusti». Poi forse sbagliano, e gli spaccano le gengive e i denti. E lui niente. Alla fine gli fanno firmare il verbale di interrogatorio. In seguito, tra il testo e la sua firma, aggiungono due righe con la confessione. Quando il pm Pasquale Carcasio, qualche giorno dopo, lo interroga, i segni delle botte sono inequivocabili. «Ma lui mi disse: eh, sarà caduto dalle scale....». Il trattamento riservato a Virgilio risale ad un'altra epoca, in cui i primi interrogatori potevano svolgersi senza avvocato: ma il suo racconto arriva nel pieno dell'iter parlamentare, segnato da rigidità ed estremismi contrapposti, della legge sulla tortura; e costringe a fare domande - che restano senza risposta - su quali coperture fossero necessarie perché violenze del genere accadessero impunemente. Tanto che se si chiede a Virgilio perché non sporse denuncia, alza il sopracciglio brizzolato: «Sì, così mi prendevo anche una condanna per calunnia».

Le confessioni di rei ritenuti innocenti. Cosima Serrano ha sempre sostenuto la sua estraneità all’omicidio ed al fantomatico rapimento onirico. Oltre modo nessuno mai l'ha tirata in ballo. Nessun testimone, nè il marito loquace. Anche per mancanza di tempo, ribadita da un testimone, perchè rientrata alle 13.30 circa dal lavoro in campagna. Sabrina Misseri ha sempre negato il suo coinvolgimento al delitto, confermate dagli sms alle Spagnoletti, e la sua gelosia per Ivano, confermando il suo affetto per Sarah. Michele Misseri ha confessato il delitto, con riscontro di fatti, facendo trovare prima il cellulare, poi il corpo e palesando la sua colpa nella prima telefonata genuina intercettata tra lui e la figlia Sabrina durante il suo arresto nella caserma di Taranto, in seguito del quale ha fatto ritrovare il corpo. Ha deviato sulla sua versione solo quando non era presente coscientemente a causa dei psicofarmaci somministrati ed indotto dal carabiniere presente all’audizione, ovvero quando è stato indotto dal suo avvocato difensore, Daniele Galoppa, consigliato a Michele dal pubblico ministero Pietro Argentino, componente dell’accusa, ed indotto dalla consulente Roberta Bruzzone. Così come dichiarato dallo stesso Misseri. Bruzzone che nel processo ha rivestito le vesti di consulente di Michele Misseri, testimone dell’accusa e persona offesa (logicamente astiosa) nei confronti di Michele.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

Morire di carcere. Il sovraffollamento non fa che aumentare, mentre calano le forze di polizia penitenziaria. Una bomba a orologeria, come documentato da "L'Espresso", sempre sul punto di esplodere.

Anno 2000, 61 suicidi su 165 morti. 2001, 69 su 177. 2002, 52 su 160. 2003, 57 su 157. 2004, 52 su 156. 2005, 57 su 172. 2006, 50 su 134. 2007, 45 su 123. 2008, 46 su 142. 2009, 72 su 177. 2010, 66 su 184. 2011, 66 su 186. 2012, 60 su 154. 2013, 49 su 153. 2014, 44 su 132. 2015, 43 su 122. 2016, 45 su 115. 2017, 19 su 39. Totale 952 su 2.660.

Aggiornamento al 18 maggio 2017. Fonte: Centro Studi di Ristretti Orizzonti. Sul sito web dell'associazione i dati aggiornati giorno per giorno

Meno delitti, più detenuti: il paradosso della sicurezza, scrive Damiano Aliprandi il 26 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Calano furti, rapine e omicidi, ma le carceri sono piene. Il 13esimo rapporto dell’Associazione Antigone sullo stato delle nostre prigioni è un grido d’allarme: dal sovraffollamento cronico all’abuso della custodia cautelare. Il carcere ritorna protagonista: aumenta il numero dei detenuti, nonostante la diminuzione dei reati. È quello che emerge dal tredicesimo rapporto dell’associazione Antigone intitolato “Torna il carcere”. I numeri sono chiari: negli ultimi 6 mesi si è passati da 54.912 presenze a 56.436. Il rapporto dell’associazione Antigone, presieduta da Patrizio Gonnella e dalla coordinatrice Susanna Marietti, sulle condizioni di detenzione è stato presentato ieri mattina a Roma con il Capo del Dap, Santi Consolo, e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, infatti, si registra il 10,6% in meno di rapine (cioè furti aggravati dalla violenza o dalla minaccia), quasi il 7% in meno dei furti, il 15% in meno di omicidi volontari e tentati omicidi, il 6% in meno di violenze sessuali il 7,4% in meno di usura). Ci si era illusi che, dopo la condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani, 2013), il carcere potesse tornare a perseguire gli obiettivi dettati dalla Costituzione. I provvedimenti che incentivavano l’utilizzo delle misure alternative, le proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà aveva reso fiducioso Antigone per un positivo cambio di clima politico. E invece numeri e politiche ben fotografate dal rapporto, curato da Alessio Scandurra, Gennaro Santoro e Daniela Ronco, evidenziano passi indietro: 56.436 è il numero di persone detenute duemila persone in più in soli quattro mesi -; sono stati 45 i suicidi in carcere nel corso del 2016 – spesso avvenuti dopo la detenzione in celle di isolamento – e con 19 suicidi dall’inizio del nuovo anno; la riforma dell’ordinamento penitenziario è ferma al palo; la legge sul reato di tortura resa “monca” per le varie modifiche. E il populismo penale rischia di essere l’unica risposta all’insicurezza dei cittadini.

SOVRAFFOLLAMENTO. Nel rapporto di Antigone viene spiegato che negli ultimi 6 mesi si è passati dalle 54.912 presenze del 31 ottobre del 2016 alle 56.436 del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Alessio Scandurra scrive nel rapporto che si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile: non solo conferma una tendenza all’aumento già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione. Nel semestre precedente, dal 30 aprile al 31 ottobre del 2016, la crescita era stata infatti di 1.187 detenuti. «Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi – spiega Scandurra -, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000».

CUSTODIA CAUTELARE. L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, scrive Gennaro Santoro nel rapporto, con una percentuale di detenuti non definitivi, al 31 dicembre 2016, pari al 34,6% rispetto ad una media europea pari al 22%. Tra le varie cause che provocano l’elevato numero di ristretti non definitivi viene identificata l’eccessiva durata del procedimento penale e la scarsa applicazione di misure meno afflittive, quale ad esempio gli arresti domiciliari (con o senza l’utilizzo del braccialetto elettronico). Tale dato, inevitabilmente comporta che la custodia cautelare rappresenti anche una anticipazione (o, spesso, una sostituzione) della pena finale. “Ciò comporta – si legge sempre nel rapporto – che la custodia cautelare svolga una funzione in parte contraria alla legge, perché si pone in contrasto con il principio di presunzione di innocenza sopra menzionato: la funzione della custodia cautelare dovrebbe infatti risiedere esclusivamente nel rispondere alle esigenze cautelari”. Antigone denuncia le conseguenze drammatiche di tale situazione che si riversano sui detenuti stessi che, in quanto non definitivi, sono destinatari di norme e prassi carcerarie deteriori rispetto a quelle dedicate ai definitivi (ad esempio, per l’accesso al lavoro), nonostante possano trascorrere in carcere numerosi anni.

STRANIERI IN CARCERE. Secondo Antigone ci crea un effetto “criminalizzazione dello straniero”, con un aumento dal 33,2% del 2015 al 34,1% di oggi. Sono, poi, 356 i detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione. 11 sono i minori detenuti con l’accusa di essere scafisti. Ma, secondo Antigone, vi è il “forte rischio” che tra loro ci siano ragazzi indicati come tali dai veri scafisti, solo perché dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo.

MISURE ALTERNATIVE. “Sarebbe importante monitorare scrive Daniela Ronco nel rapporto di Antigone – in maniera sistematica e accurata i dati sulla recidiva nel nostro paese: le ricerche condotte, a livello nazionale o locale, dimostrano l’idea della funzione di riduzione della recidiva in caso di condanna scontata in misura alternativa anziché in carcere”. L’Ordinamento Penitenziario individua tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi- libertà, la detenzione domiciliare. La misura più utilizzata resta l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia quella sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento.

Quasi il 35% dei detenuti è straniero, scrive Damiano Aliprandi il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Secondo i dati del Dap, 6mila sono islamici. Il mondo politico e dell’associazionismo è diviso sulla proposta del ministro dell’interno Marco Minniti di rilanciare i Centri di identificazione ed espulsione. A proposito degli immigrati, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) dice: «Spero e mi auguro che le dichiarazioni di intenti del Viminale sulla annunciata stretta dei migranti irregolari in Italia trovi concretezza anche per quanto concerne le ricadute sul sistema penitenziario, dove oggi abbiamo presenti oltre 18.700 detenuti stranieri». Per il Sappe, «fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia». Però i dati sugli stranieri in carcere risultano un po’ più complessi. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha più volte spiegato che la presenza degli stranieri in carcere è dovuta al fatto che «subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali». Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. Sempre Gonnella ha spiegato il motivo: «I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità». In sostanza l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. Quindi i tassi di detenzione sono legati alla Bossi Fini, messa molto spesso in discussione da associazioni, movimenti politici e personalità che studiano il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu (Iniziativa e studi sulla multietnicità), gli stranieri residenti in Italia che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni), e dai cattolici (poco più di un milione). Passando alle religiose minori, i buddisti stranieri sono stimati in 182.000, i cristiani evangelisti in 121.000, gli induisti in 72.000, i sikh in 17.000, i cristiano- copti sono circa 19.000. L’indagine dell’Ismu evidenzia come il panorama delle religioni professate dagli stranieri è molto variegato e sfata il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’islam. Per quanto riguarda le incidenze percentuali i musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), i cristiano- ortodossi il 2,6%, i cattolici l’1,7%. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000). In Lombardia vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 277.000 presenze, seguita dal Lazio (152.000) e dall’Emilia Romagna (95.000). Per quanto riguarda la religione degli stranieri in carcere, la situazione rispecchia quella generale. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, i detenuti presenti al 31 dicembre 2016 erano 54.653, di questi 18.958 stranieri. Coloro che si sono dichiarati di religione islamica sono circa 6000. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che «la radicalizzazione nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo ed appartenenze di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati ad entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto darebbe invece la possibilità di portare nel carcere un Islam aperto e democratico». Per questo motivo apprezza la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di affidare al vicepresidente dell’Ucoii dei corsi per il personale di polizia penitenziaria. Sempre Gonnella ricorda che «la Camera ha già approvato il ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario dove si riconosce uno spazio ad hoc per la libertà di culto e vengono previsti una serie di diritti per i detenuti stranieri. Disegno di legge attualmente al Senato che, più volte, abbiamo sollecitato per un’immediata approvazione». Il presidente di Antigone infine conclude con un auspicio: «Va evitata la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione. Va evitata la sindrome della vittimizzazione. Va evitata la stigmatizzazione degli islamici che produce violenza e ulteriore radicalizzazione. Va evitato un sistema penitenziario affidato solo ai servizi di sicurezza. Vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione».

Prigionieri e suicidi: così il carcere uccide. Celle sature, carenza di medici, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci in meno di cinque mesi si sono già registrati 31 decessi. La polizia penitenziaria non riesce a impedire queste morti. E la Procura di Roma indaga per istigazione al suicidio, scrive Arianna Giunti il 24 maggio 2017 su "L'Espresso". Carmelo Mortari aveva 58 anni. Lo hanno trovato in una pozza di sangue nella sua cella di Rebibbia, reparto G9, lo scorso 25 marzo. Si è tagliato la gola ed è morto lentamente, dissanguato. Soffriva di depressione, ma nessuno se n’era accorto. Il giorno dopo a qualche chilometro di distanza Vehbija Hrustic, 30 anni, si è impiccato alla grata del bagno di Regina Coeli, dilaniato dal dolore. Gli avevano appena detto che sua figlia era morta. Sapevano che era sconvolto, ma non sono riusciti a fermarlo. Michele Daniele di anni ne aveva 41 ed era “dipendente dall’alcol”, come recita la sua cartella clinica. Secondo lo psichiatra che lo ha visitato, però, “non correva rischi suicidari”. Una settimana dopo si è ucciso nel bagno della sua cella di San Vittore impiccandosi con la cintura dell’accappatoio. In meno di cinque mesi, dall’inizio dell’anno a oggi, nelle carceri italiane sono già registrati 31 decessi fra cui 24 suicidi. Una media di cinque morti al mese. A febbraio, in particolare, si sono contati quattro suicidi in un solo giorno. Nell’anno 2016, in totale, erano centoquindici. Una strage inarrestabile e silenziosa che sembra essere la diretta conseguenza dello stato in cui versano le nostre prigioni, riprecipitate in un baratro allarmante. Il decreto “svuota carceri” voluto nel 2014 dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, infatti, ha avuto un effetto positivo ma molto breve: oggi le celle sono tornate a riempirsi a ritmo vertiginoso e contano un totale di 56.289 detenuti per 50.211 posti a disposizione, secondo gli ultimi dati disponibili del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Tanto che di recente l’Italia - ancora una volta – è stata bacchettata dal Consiglio d’Europa.  Un’emergenza fotografata anche dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sullo stato di detenzione in Italia, che fa luce soprattutto sull’inquietante ritorno del sovraffollamento: secondo l’osservatorio, la popolazione carceraria è aumentata di 2mila unità soltanto negli ultimi quattro mesi. Però, oltre le celle sature, sono molte tante le piaghe che non accennano a guarire: la carenza di medici dietro le sbarre, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - le strutture che dovrebbero accogliere i detenuti con problemi psichiatrici – sono troppo poche e troppo piene. Quindi i detenuti con patologie psichiche sono “curati” nelle celle ricorrendo a un massiccio uso di sedativi con conseguenze a volte letali. Mentre i poliziotti incaricati di sorvegliarli fanno quello che possono, ma sono troppo pochi. Capita che per un intero piano ci sia un solo agente. E’ così diventa una corsa contro il tempo. Che spesso si perde.

Sono bastati 45 minuti perché Vehbija Hrustic, detenuto di 30 anni, si infilasse al collo un cappio ricavato da un lenzuolo e si appendesse alle grate del bagno, a Regina Coeli. Era in carcere dallo scorso agosto in attesa di giudizio, ed era incensurato. Aveva una figlia, Iana, un anno appena, che soffriva di una grave patologia cardiaca congenita. Il giorno in cui sua figlia è morta all’ospedale Bambin Gesù, il 14 marzo scorso, Vehbja Hrustic lo ha saputo dallo psicologo del carcere. Raccontano che si è piegato in due dal dolore. Gli hanno permesso di andare al funerale, e da allora non ha più parlato. Si è chiuso in un silenzio ostinato e premonitore. Sapevano della sua condizione gli agenti della penitenziaria, la direzione carceraria, i magistrati di sorveglianza. Eppure nonostante l’altissimo rischio suicidario Hrustic non era sottoposto a un controllo di sorveglianza a vista. “Il detenuto è totalmente abbandonato a se stesso, demotivato dalla prematura scomparsa della figlia: tale drammatico evento potrebbe portarlo a commettere un gesto estremo”, si legge nell’istanza di scarcerazione datata 17 marzo che il legale del 30enne, Michela Renzi, aveva presentato ai giudici per chiedere che gli fossero concessi quantomeno i domiciliari. Per quindici giorni il legale si è presentata davanti al magistrato del Tribunale di sorveglianza per avvertire che la situazione stava precipitando. Una corsa contro il tempo, rimasta inascoltata. Perché il carcere, irremovibile, continuava a sostenere la sua versione: “La terapia farmacologica sta funzionando”. Gli psicofarmaci che gli facevano ingoiare più volte al giorno però non sono evidentemente serviti a nulla. “Me ne vado dalla piccola Iana”, è stata l’ultima frase che l’avvocato Renzi gli ha sentito sussurrare. E così Vehbja aspettato che calasse la notte e si è ammazzato. Oggi sul suo decesso è stata aperta un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero romano Laura Condemi. L’accusa è pesantissima: istigazione al suicidio. “Non doveva trovarsi un carcere – spiega l’avvocato Renzi – avrebbe dovuto essere seguito in un percorso psicologico costante che potesse permettergli di superare un momento così tragico, che avrebbe annientato qualsiasi essere umano. A maggior ragione un detenuto costretto a vivere dietro le sbarre”. “Si trattava di un uomo fortemente a rischio – le fa eco il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia – sia perché incensurato, e dunque non abituato alla vita nel carcere, sia perché prostrato da un lutto devastante, come può essere la morte di una figlia”. Ma il dato di fatto è che in carcere mancano operatori sanitari specializzati: psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Secondo quanto prevede l’ordinamento giudiziario, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di “Osservazione psichiatrica” per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario. Il più delle volte però – come confermano i sopralluoghi dei vari garanti dei diritti delle persone private della libertà – questo si traduce in “celle lisce”, prive di qualsiasi tipo di mobilio, dove sono presenti letti di contenzione con lacci di cuoio e dove vengono immobilizzati i detenuti in preda a crisi psichiatriche. A San Vittore – nonostante l’annunciata chiusura - è ancora presente la cella numero 5, utilizzata come cella di contenzione per detenuti definiti “problematici”.

Problematico era anche Valerio Guerrieri, 22 anni, affetto da “personalità borderline” e dichiarato da una perizia psichiatrica “incline al suicidio”. Arrestato lo scorso gennaio per resistenza a pubblico ufficiale e reati minori, era stato portato alla Rems di Ceccano, nel Frusinate, per ben due volte. Ma per ben due volte si era allontanato. A febbraio lo avevano trasferito quindi a Regina Coeli, terzo piano, seconda sezione. I giudici avevano già stabilito la sua incompatibilità con il carcere, per via del suo disagio psichico, e ne avevano predisposto il trasferimento alla Rems di Subiaco, ritenuta più idonea ad accoglierlo. La struttura però era piena e così Lorenzo è rimasto in carcere in attesa che si liberasse un posto. Nessuno – a parte la sua famiglia - si era evidentemente reso conto dell’abisso di disperazione nel quale il 22enne stava precipitando giorno dopo giorno. Il pomeriggio del 24 febbraio Valerio aspetta che il suo compagno di cella si addormenti. Quindi va in bagno, fabbrica una sorta di cappio con un lenzuolo e si impicca alle grate. E’ lo stesso bagno dove ha trovato la morte Vehbja Hrustic, nello stesso identico modo. “Non doveva trovarsi in carcere, quel suicidio si poteva evitare”, dicono oggi dall’Osservatorio Antigone. “Si tratta di una sezione che conta 170 detenuti e un solo agente incaricato di sorvegliarli su quattro piani”, si sono difesi i sindacati di polizia penitenziaria. Una tragica vicenda, questa, che accende l’attenzione sulla situazione dei Rems, le strutture che dopo la chiusura degli Opg dovrebbero accogliere i detenuti afflitti da gravi patologie psichiatriche e socialmente pericolosi e indirizzarli verso percorsi riabilitativi. In tutta Italia sono attualmente 28 per un totale di 624 posti disponibili. E sono quasi sempre piene. Sul caso di Valerio Guerrieri la Procura di Roma ha ora aperto un’inchiesta per omicidio colposo. “Lo hanno imbottito di psicofarmaci”, denuncia oggi la madre attraverso il suo legale Claudia Serafini. L’abuso di psicofarmaci in carcere, infatti, come evidenziato anche da un’inchiesta dell’Espresso, è un problema che sta sfuggendo al controllo dei operatori giudiziari e dei medici che prestano servizio negli istituti di pena.  Secondo recenti stime delle associazioni a tutela dei detenuti, quasi il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci o potenti sedativi che inibiscono il normale funzionamento psichico. Sono farmaci che provocano sbalzi di umore difficili da gestire, soprattutto nelle persone che hanno un passato di tossicodipendenza. Senza contare il fatto che le benzodiazepine – i sedativi più comunemente usati anche da detenuti perfettamente sani e non affetti da patologie mentali – provocano astinenza già dopo 15 giorni di assunzione. Gli psicofarmaci diventano infatti l’unica “anestesia” a disposizione dei prigionieri per riuscire a sopportare condizioni disumane e carcerazioni preventive. E così lo spaccio di medicinali nelle celle e l’uso smodato di sedativi continuano a moltiplicarsi. Con conseguenze spesso tragiche, come dimostrano recentissimi fatti di cronaca. Nel carcere di Perugia lo scorso novembre uno “speedball” di cocaina, ammoniaca e medicinali ha quasi ucciso un detenuto magrebino. Mentre lo scorso 4 aprile un potente mix di psicofarmaci e droga è stato fatale a un detenuto 33enne rinchiuso nel penitenziario di Rimini.

E poi c’è la vicenda di Andrea Cesar, 36 anni, detenuto in attesa di giudizio, trovato cadavere nella sua cella al secondo piano del carcere di Trieste la notte nel 27 aprile. Secondo gli inquirenti che stanno ancora indagando, Cesar sarebbe stato stroncato da un massiccio cocktail di psicofarmaci. Parallelamente all’inchiesta aperta in Procura, la direzione dell’istituto di pena ha aperto un’indagine interna. “Lo scambio di farmaci all’interno del penitenziario non è controllabile – ha ammesso il direttore del carcere triestino Silvia Della Bella – può capitare che qualche recluso riesca ad occultare i farmaci eludendo la sorveglianza per poi assumerli quando e come vogliono”. La notte in cui è morto il 36enne – ha spiegato il segretario provinciale della Uil Penitenziari Alessandro Penna – c’erano di turno soltanto due agenti. Uno dei due era stato mandato in ospedale per piantonare un detenuto. L’altro era rimasto a controllare un intero carcere. Da solo.

Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani. Mancano gli psicologi, così nelle carceri italiane il 50 per cento dei detenuti ne abusa. Con conseguenze spesso tragiche: dall'alterazione mentale al suicidio, scrive Arianna Giunti l'1 febbraio 2016. In carcere lo chiamano “il carrello della felicità”. Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico. Nelle prigioni italiane esiste un problema sotterraneo: l’abuso di psicofarmaci. Dati ufficiali però non esistono, perché la mancanza di cartelle cliniche informatizzate non permette, nel nostro Paese, di avere un quadro completo di quello che avviene nelle infermerie dei 206 istituti penitenziari. Ma si tratta di un’emergenza concreta. Come fanno emergere i sopralluoghi appena portati a termine dai Radicali nelle carceri della penisola, soprattutto del Sud Italia. E come confermano, puntuali, le associazioni a tutela dei carcerati (Osservatorio Antigone, Ristretti Orizzonti e Detenuto Ignoto) dalle quali arrivano dati poco rassicuranti: secondo le loro stime quasi il 50% delle persone dietro le sbarre – su un totale di 52.164 detenuti in base agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia - sarebbe sotto terapia da psicofarmaco. Mentre il 75% ricorrerebbe a quella che viene definita “terapia serale”: sedativi per dormire. L’abuso di psicofarmaci sarebbe l’effetto diretto di un’altra falla ormai cronicizza all’interno delle nostre prigioni: la carenza di psicologi. In poche parole, in assenza di specialisti che dovrebbero curare lo stato mentale dei detenuti con la psicoterapia, si fa uso di potenti medicinali. Con un risvolto non indifferente anche in termini di costi per il Sistema Sanitario Nazionale. E con conseguenze spesso tragiche: solo nelle ultime settimane si sono registrate due sospette overdose da farmaci. Spesso – va detto - si tratta di cure indispensabili per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte, invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un “contenimento di Stato”, come lo definiscono i sindacati di polizia penitenziaria e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i trattamenti degradanti negli istituti di pena in stato di fatiscenza e i lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e dolore. Però gli effetti di questa sedazione di massa, come ha accertato l’Espresso attraverso le testimonianze di medici, volontari, guardie carcerarie, detenuti ed ex detenuti, possono essere disastrosi. Gli strascichi si manifestano per anni, a volte per sempre, anche dopo essere usciti dal carcere. Rendendo il ritorno in società ancora più difficile. E poi creano più dipendenza dell’eroina. Così una volta tornati liberi spesso l’astinenza viene colmata con l’uso di droghe pesanti. Fra gli ex detenuti c’è chi racconta di aver avuto perdite di memoria - al punto di non ricordarsi più il nome del proprio figlio – e chi una volta tornato in libertà ha accusato crisi di panico e impotenza. Annullandosi come essere umano.

FELICITA’ CHIMICA. Nelle infermerie dei penitenziari è facile trovare sedativi perfettamente legali distribuiti su ricetta anche in farmacia. Ai prigionieri vengono somministrati soprattutto nei primi giorni di carcere per far fronte a quegli stati d’animo che, nel linguaggio medico della sanità penitenziaria, vengono definiti “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento”. La disperazione è ancora più forte nei “nuovi giunti”, detenuti in attesa di giudizio che sanno o che credono di essere innocenti. E che non riescono a sopportare l’idea di subire un’ingiustizia. “I nervi spesso cedono dopo la prima notte in cella”, spiegano dall’associazione Ristretti Orizzonti, una delle più attive nel denunciare l’abisso delle carceri. Poi ci sono gli antidepressivi, come il Prozac: provocano un rapido effetto di torpore e benessere. Un’altra categoria sono gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore, come il litio. Quelli più diffusi, però, sono le benzodiazepine: farmaci utilizzati per combattere l’insonnia, l’ansia e le convulsioni. Ma che creano assuefazione dopo pochissimo tempo. Conferma a l’Espresso Matteo Papoff, psichiatra per lungo tempo in servizio al carcere Buoncammino di Cagliari e oggi al penitenziario di Uta: “La dipendenza comincia a manifestarsi già dopo 12 settimane di assunzione. Non solo nei tossicodipendenti, ma anche nelle persone perfettamente sane. Ecco perché l’uso prolungato va assolutamente evitato”. “Da un punto di vista fisico queste terapie sconvolgono i detenuti – spiega Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa – Quando li vedi sono inconfondibili: non riescono a mantenere la posizione eretta, trascinano i piedi, gli occhi sono persi nel vuoto, il viso diventa simile a un teschio. Risulta perso ogni sussulto di vita”. “Le carceri sono diventate fabbriche di zombie. Ed è una situazione drammatica che si vuole tacere, perché fa comodo a tutti”, è l’amara conclusione di Ceraudo.

LE SEDUTE CON LO PSICOLOGO? UN MIRAGGIO. Ma come avviene, esattamente, la somministrazione dei farmaci? Formalmente solo sotto consenso di un medico, attraverso un’autorizzazione firmata. Però uno psichiatra fisso nelle carceri non sempre è disponibile. Soprattutto di notte. La copertura medica dello specialista dovrebbe essere garantita per 38 ore a settimana in ogni struttura. Ma dopo una prima visita obbligatoria spesso gli incontri si riducono a colloqui lampo di una manciata di minuti per ogni carcerato. “Troppo poco perché possa essere diagnosticato un problema e prescritta una terapia adatta - sostiene Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano – mentre allo stesso tempo in infermeria vengono distribuiti sedativi con grande disinvoltura. Basti sapere che a San Vittore, mentre il 30% dei detenuti assume regolarmente psicofarmaci, il 90% di loro è sottoposto a quello che viene chiamato ‘terapia serale’”. Ansiolitici per dormire. E così si arriva al paradosso che nelle carceri è più facile trovare un sedativo che un’aspirina. Come racconta a l’Espresso Giancarlo F., ex detenuto, che negli ultimi cinque anni ha girato altrettanti penitenziari del Nord Italia: “Soffro di “cefalea a grappolo”, attacchi di mal di testa che provocano dolori lancinanti. Per curarla ho bisogno di un farmaco specifico. In carcere dovevo compilare dozzine di moduli per poterlo ordinare: una burocrazia lentissima e complicata. Quasi mai riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e disponibili”. A focalizzare uno dei nodi cruciali è Fabio Gui, del Direttivo Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti della Regione Lazio: “Nella maggior parte degli istituti manca un monitoraggio centrale e cartelle cliniche informatizzate, quindi è impossibile calcolare quanti siano gli assuntori di farmaci e, più in generale, i malati. Soprattutto, manca una cabina di regia a livello nazionale che permetta di avere un quadro completo della situazione”. La sanità nelle carceri, infatti, dal 2008 non è più competenza dell’amministrazione penitenziaria ma a carico del Servizio Sanitario Nazionale e quindi gestita a livello regionale. Fra i pochissimi censimenti a disposizione – contenuti in uno studio multicentrico sulla salute dei detenuti in Italia dell’Agenzia Regionale della Sanità della Toscana - ci sono quelli del Lazio (3.576 detenuti su un totale di 4.992 assuntori di ansiolitici, antipsicotici, ipnotici-sedativi e antidepressivi), Veneto (1.284 su 1.460), Liguria (1.366 su 1.776), Umbria (659 su 800) e la città di Salerno (52 su 90). Mentre fino a oggi le regioni virtuose che hanno introdotto la cartella clinica digitale sono solo l’Emilia Romagna (in ciascun carcere già dall’estate 2014) e la Lombardia (San Vittore, Opera, Varese, Bergamo, Sondrio, Vigevano, Busto Arsizio). Niente invece in Calabria, Basilicata, Lazio, Liguria e Marche. E pochissimi istituti a norma in Sicilia (solo Messina) e in Campania (Carinola). “I fascicoli cartacei usati attualmente dalla medicina penitenziaria sembrano risalire a un’altra era: faldoni enormi pieni di foglietti stratificati scritti con grafie spesso incomprensibili – si legge nell’ultima relazione dell’Osservatorio Antigone – che non garantiscono continuità terapeutica e che rischiano di essere fatali in situazioni critiche dove è essenziale ricostruire la storia clinica del paziente”. Significativi, poi, i report prodotti in queste settimane dai Radicali, che sottolineano una carenza cronica soprattutto di specialisti psicologi. “A livello nazionale – fanno sapere dalla Società Italiana Psicologia Penitenziaria – il monte ore per gli psicologi esterni autorizzati a prestare servizio in carcere è di 105.751 ore. Tenuto conto che i detenuti oggi sfiorano quota 51mila, il tempo annuo per ogni detenuto è di 127 minuti”. A conti fatti, 2 minuti e mezzo a settimana per ogni paziente. Tempo che ovviamente si riduce se gli ingressi di prigionieri aumentano. E così si ricorre direttamente alla terapia d’urto: medicinali.

SPACCIO IN CELLA. I numeri di chi assume abitualmente psicofarmaci, comunque, sono calcolati per difetto. Perché quando i sedativi non vengono somministrati legalmente molti detenuti riescono a procurarseli di contrabbando e li assumono in dosi raddoppiate per ottenere un effetto più potente, simile a quello dell’eroina. “In carcere esiste persino un borsino del baratto - conferma Leo Beneduci del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp – e può accadere che nei cortili durante l’ora d’aria mezza capsula di Subtex sia ceduta per due pacchetti di sigarette, mentre il Rivotril o il Tranquirit per cinque. O che si spacci il metadone”. Per evitare il traffico di farmaci gli infermieri preferiscono somministrare le sostanze in gocce o aspettano che il detenuto deglutisca la pastiglia. Ma a volte queste precauzioni non bastano: alcuni fingono di ingoiare le pillole, poi le sputano e le rivendono. Anche gli operatori fanno quello che possono per arginare il problema. Racconta un volontario di San Vittore: “Le benzodiazepine vengono consumate a ettolitri. Il sesto raggio, in particolare, è un girone infernale”.  “L’orario della terapia è un incubo – si sfoga un paramedico in servizio a Poggioreale - ogni sera è una lotta per cercare di dare meno psicofarmaci possibili e spesso finiamo per essere presi a calci perché ci rifiutiamo di somministrare quello che ci chiedono per stordirsi”. Da Sud a Nord la situazione è sempre la stessa.  Nel carcere di Bolzano lo scorso 6 gennaio è scattato l’allarme per furti di psicofarmaci trafugati dall’infermeria, che verrebbero poi ceduti a pagamento ad altri detenuti. Poche settimane prima la Procura aveva aperto un’indagine su un detenuto colto in flagrante mentre rubava compresse di Rivotril, che serve a curare gli attacchi di panico ma viene utilizzato dai tossicodipendenti come surrogato dell’eroina. Alcuni mesi fa, sempre a Bolzano, un detenuto aveva rischiato la vita dopo un’overdose di benzodiazepine.

SUICIDI E BLACKOUT. Oltre ai malesseri fisici e allo stato di narcolessia, assumere i farmaci in maniera incontrollata ha un’altra conseguenza pericolosissima: l’alterazione mentale. I detenuti passano da uno stato di euforia alla più buia depressione, con tendenze auto lesioniste. Negli ultimi cinque anni nelle carceri italiane si sono contati 747 decessi, molti dei questi per cause non chiare. I suicidi, solo dal 2011 a oggi, sono arrivati a 261. Mentre solo nel 2014 sono stati 6.919 gli atti di autolesionismo. L’ultimo suicidio risale al 23 dicembre scorso: un ex impiegato di 64 anni si è tolto la vita al Pagliarelli di Palermo, dove non esiste un reparto psichiatrico. Mentre il 5 gennaio al Marassi di Genova un detenuto di 45 anni, Giovanni C., è stato trovato agonizzante nel suo letto ed è morto poco dopo l’intervento dei sanitari. La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta: sospetta che sia stato vittima di un’overdose da sostanze stupefacenti o psicofarmaci, ceduti da altri detenuti. A raccontare l’abuso di sedativi sono anche gli stessi carcerati. Gli effetti collaterali – spiegano - si manifestano lentamente. Fra questi ci sono le amnesie. “Un bel giorno cominci a dimenticarti cosa hai mangiato la sera prima”, racconta Gabriele F., “poi è come se il cervello avesse dei blackout sempre più frequenti. E finisce che non ti ricordi neanche più il nome di tuo figlio”. Le conseguenze degli abusi di psicofarmaci e sedativi, poi, si pagano per molto tempo. Come conferma chi ormai ha finito di scontare la propria pena e che fuori dalla galera si è trovato ad affrontare nuovi incubi: malesseri, depressione, fobie. Paura degli spazi aperti o, semplicemente, di attraversare la strada. “Prima sono iniziati i tremori alle mani, tanto che non riuscivo neppure a guidare”, racconta a l’Espresso Salvatore B., 45 anni, ex detenuto, “poi ho cominciato ad avere le allucinazioni, la tachicardia. Mentre a volte di punto in bianco mi addormentavo. Ovunque. Riprendere la vita quotidiana, affrontare colloqui di lavoro o anche solo ritornare ad avere un’intimità con mia moglie è stato impossibile”.

SOLUZIONI: PSICOTERAPIA E LAVORO. Non tutti i penitenziari, però, vivono questa realtà nera. Alcune regioni come Umbria e Sardegna si sono sforzate di migliorare la situazione carceraria attraverso dipartimenti di salute mentale con medici attivi 24 ore al giorno e gruppi sperimentali di psicoterapia. Mentre nelle carceri di Bollate e Rebibbia già da anni si pratica la “Mindfulness”, una pratica di meditazione molto diffusa anche all’estero. E i risultati sono stati ottimi. “Costa molto meno dei farmaci e non ha effetti collaterali”, conferma Gherardo Amadei, psichiatra e docente all’Università Bicocca di Milano. Un’altra soluzione pratica arriva dalle cooperative: il lavoro in carcere. Se, infatti, l’uso di psicofarmaci è altissimo nelle case circondariali, che ospitano chi è in attesa di giudizio o chi ha una condanna breve da scontare, si abbassa notevolmente nelle case di reclusione dove sono accolti i carcerati condannati in via definitiva. E che – come prevede l’ordinamento giudiziario – lavorano. “Tenere occupate le mani e la testa, sentirsi utili, è fondamentale per non impazzire - spiegano ancora da Ristretti Orizzonti - il lavoro dovrebbe essere concesso da subito”. A confermarne l’effetto benefico sono le storie dei detenuti. Come quella di Giacomo, milanese, 35 anni, una vita trascorsa a entrare e a uscire dalla cella dall’età di 14 anni. Ex tossicodipendente, era arrivato ad assumere benzodiazepine tre volte al giorno e pesava 40 chili. Oggi è uno dei giardinieri della cooperativa sociale carceraria di Bollate. E’ tornato ad avere un peso normale, sta studiando per il diploma di ragioneria e gioca a calcio. I sedativi sono soltanto un ricordo.

"In carcere psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni". «E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta». La denuncia di un ex detenuto, scrive Arianna Giunti l'1 gennaio 2016 su "L'Espresso". “Gli psicofarmaci, in cella, venivano somministrati a pioggia. Tre volte al giorno: mattina presto, pomeriggio e la sera prima di andare a letto. E così vedevi gente che stava anche per 24 ore sdraiata per terra. Narcotizzata. Io ci ho impiegato tre anni, una volta uscito dal carcere, per riprendermi da quella roba. E mi è andata bene. Perché ho visto gente morire”. Fabio M., 53 anni, ex detenuto romagnolo, di penitenziari ne ha visitati tre. Tutti nel centro Italia, dopo aver scontato una condanna di cinque anni. Oggi è un uomo pienamente recuperato, anche grazie all’associazione Papillon di Rimini, che da anni si dedica al difficile compito di reinserimento sociale degli ex carcerati. I ricordi di Fabio su quello che accadeva in carcere, però, sono ancora molto nitidi. In particolare quella “sedazione di Stato” di cui parlano anche medici, volontari e agenti della polizia penitenziaria. Psicofarmaci che sarebbero somministrati in dosi massicce per contenere i detenuti. Come racconta lui stesso a l’Espresso in questa intervista.

Com’è la vita in carcere?

«Dobbiamo fare prima di tutto una premessa. Chi finisce dietro le sbarre reagisce in tre modi diversi: c’è chi la prende con filosofia e inganna il tempo giocando a carte, c’è chi per sfogare la rabbia fa attività fisica fino all’esasperazione. Poi ci sono quelli che si chiudono in se stessi. Di solito si tratta di persone che entrano in carcere per la prima volta, magari in attesa di giudizio. Non mangiano, non parlano. Si imbottiscono di farmaci e passano le giornate stesi sulle barelle in infermerie sotterranee, sporche e senza luce. Simili a tombe. Noi detenuti le chiamano le buche”».

Come funziona la somministrazione di psicofarmaci in carcere?

«Per quello che ho potuto vedere con i miei occhi c’è una somministrazione a pioggia. Per molto tempo li ho assunti pure io, poi ho deciso di smettere. L’idea che mi sono fatto è che vengano dati con così tanta facilità per contenere, per tenere calmi i detenuti. Vista anche la situazione di perenne sovraffollamento: in una sola cella si potevano trovare anche undici persone».

Che tipo di farmaci vi venivano somministrati?

«Soprattutto psicofarmaci, ansiolitici e benzodiazepine».

Vi era stato detto che questi farmaci – in particolare le benzodiazepine - provocano astinenza già dopo poche settimane?

«Io ho deciso di smettere proprio per questo. Mi facevano vivere in uno stato di perenne angoscia. Mi sentivo malissimo. Appena riacquisti un momento di lucidità ti senti inadeguato, ti senti una nullità».

Ha mai assistito a spaccio di droga o di farmaci, in carcere?

«Questo è un altro problema serio. Molti detenuti si fanno consegnare le pastiglie, poi però non le assumono e le scambiano con le sigarette o con altri favori. Per evitare che avvenga questo spaccio gli operatori più scrupolosi somministrano solo farmaci liquidi in gocce e aspettano che il detenuto li deglutisca. Perché la realtà è proprio questa: i farmaci in carcere vanno a sostituire le droghe. E così diventa una sorta di “spaccio di Stato”. In carcere si crea uno stato di promiscuità tale che poi porta a far saltare tutti i valori».

In quale carcere, fra quelli che ha girato, ha assistito in particolare a questi episodi?

«Nel carcere di Rimini. Lì il problema dello spaccio era veramente forte. Per fortuna c’è un’equipe medica molto seria e attenta che cerca di arginare queste situazioni».

Lei ha mai avuto problemi di salute dopo la somministrazione di questi psicofarmaci?

«Io ci ho messo tre anni per riprendermi dall’uso di questi farmaci. E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta. Molti sono morti nel sonno, in cella. Perché quei sedativi provocano le overdose, proprio come le droghe».

I problemi di salute, quindi, saltano fuori soprattutto dopo la scarcerazione. Quando i detenuti si ritrovano a interrompere la terapia…

«Esattamente. E’ uno stato di felicità chimica, sono farmaci che vanno a riempire dei vuoti che i detenuti in carcere non riescono a colmare in un’altra maniera. Però sono medicine pericolosissime. Danneggiano il corpo e la mente, e uno se ne rende conto solo una volta uscito dal carcere. La pena detentiva dovrebbe avere il fine della rieducazione. E invece è una condizione che ti porta al limite della sopportazione umana. Come una tortura»

IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.

Crocetta nella palude degli scandali. È la fine di un moralizzatore, scrive Accursio Sabella sabato 3 giugno 2017 su "Live Sicilia". Dalle fragorose denunce alla clamorosa indagine che lo vede coinvolto. La parabola del governatore. Morale della favola: se fai la morale, rischi di finire moralizzato. È successo persino a Rosario Crocetta, il governatore siciliano giunto a Palazzo d'Orleans indossando i pennacchi dell'antimafia militante e seguito da una fanfara della legalità spesso fuori tempo. È toccato anche a lui, finito dentro una inchiesta che ancora promette di riservare sorprese, con una accusa che somiglia ai titoli di coda di un pessimo film: concorso in corruzione. È la fine di un moralizzatore. Perché al di là di quanto verrà accertato dalle indagini e dal processo che ne seguirà, passano agli archivi della cronaca e degli atti giudiziari, opere e omissioni, debolezze e vanità. Un canovaccio di protagonisti e comparse, di figuranti e presunti potenti, che raccontano, ciascuno a suo modo, la storia di una Regione corrotta, nel senso più ampio del termine. E in questa storia, c’è anche il personaggio che non ti aspetti. Le macchie che spuntano sugli abiti candidi dell'eroe. La denuncia che si rivolta contro, come l’inaspettato rinculo di uno sparo a salve. La difesa, imposta negli ultimi anni a malcapitati delinquenti o – molto più spesso – a ladri di polli e furbastri di provincia, diventare una necessità per allontanare da sé le ombre. Quando all'improvviso si spengono le musiche e si sgonfia il tendone del circo. Quando viene svelata l'illusione ottica in questo teatro nero della corruzione e si scopre che il trapezista, in realtà, aveva finora volteggiato a dieci centimetri dal pavimento e che la tigre altro non era che un docile gattino. La nebbia dell'impostura, insomma, che svanisce. La facciata che crolla. Liberando finalmente lo scheletro a tanti noto: quella che in Sicilia in questi quattro anni e mezzo hanno chiamato “moralizzazione” altro non era che una trovata politica. Messa drammaticamente a nudo dall'inchiesta della Procura di Palermo che ha coinvolto anche il presidente Crocetta. Del resto, senza andare a scomodare Nenni e i più puri che epurano i già puri, quello del moralista che affonda nella sua stessa retorica è un finale dal quale spesso non si scappa e che non subisce l’influenza di latitudini e palazzi, anagrafe e geografia. Dall’estremo Nord al profondo Sud, la storia è sempre quella. Prendi Gianfranco Fini: era lui, o almeno doveva essere, la versione più composta, più ordinata di quel centrodestra che vestiva le paillettes alla “Drive in” del berlusconismo folgorante e le sbracate camicie verdi della Lega. Eccolo, il moralizzatore politico finire dentro le inchieste per la nota vicenda riguardante la casa di Montecarlo, l’uso dei fondi del suo partito, il rapporto con i Tulliani, suoi nuovi familiari. Metti su casa, e va giù il partito. Insieme alla carriera politica. Perché ti sposti un po’, e scorgi un’altra tipologia di moralizzatore. Quello che urlava contro “Roma ladrona” è finito a processo con l’accusa di appropriazione indebita dei fondi della Lega Nord. Soldi che secondo l'accusa sarebbero serviti anche per ristrutturare la villa di Gemonio del Sanatùr. Per Umberto Bossi che nel frattempo si è fatto “scippare” il partito da Matteo Salvini, e il figlio Renzo, i pm milanesi già due mesi fa hanno chiesto una pesante condanna. Altro che casa, dolce casa. Ne sa qualcosa anche un moralizzatore istituzionale come fu Antonio Di Pietro. La sua leadership in Italia dei valori (un nome che contiene in sé una 'morale') e lo stesso partito finirono per sgonfiarsi repentinamente di fronte alle inchieste che allungavano ombre sui fondi di Idv e sul patrimonio immobiliare dell'ex pm-star di Mani pulite che ha provato recentemente e senza successo a rilanciarsi in occasione delle ultime amministrative di Milano. In quei giorni, nella Capitale d'Italia arrivavano invece i web-moralizzatori. Al grido di “Onestà, onestà” i grillini prendevano Roma. Ma nemmeno in quel caso l’autoproclamazione rendeva immuni da scivoloni e grane giudiziarie. La stessa Virginia Raggi è indagata, il suo (ex) braccio destro Raffaele Marra è finito ai domiciliari, un altro assessore (Paola Muraro) è finita nel registro degli indagati prima di dimettersi, mentre la Procura e l’Anticorruzione hanno bacchettato il primo cittadino su incarichi e promozioni. La stessa Anac che in Sicilia non molto tempo fa puntava il dito contro un moralizzatore “di professione”. Antonio Ingroia era stato appena inviato dal presidente della Regione siciliana Rosario Crocetta a capo della Provincia di Trapani anche con l’obiettivo di “contribuire alle ricerche del latitante Matteo Messina Denaro”, ma ha finito per scomodare Raffaele Cantone che ha dovuto dire “alt” a quell’incarico: l’ex pm aveva superato il limite massimo di poltrone consentite dalla legge. Ma sulla toga che aspirò a fare il premier è pure piombata una inchiesta della Procura della Corte dei conti, ancora in corso, sulle assunzioni in un carrozzone regionale. Da inquisitore a “inquisito”. Che è come dire, in fondo, da moralizzatore a moralizzato. E così, per non andare troppo lontano da Ingroia, il caso più clamoroso è tutto siciliano. Giusto il tempo di consentire a Massimo Giletti di chiudere la stagione dell’Arena, da dove l’ospite fisso e quasi mai contraddetto Rosario Crocetta recitava il domenicale Angelus dello scandalicchio vero o presunto, ed ecco che proprio il governatore della rivoluzione finiva dentro un’inchiesta ampia su un presunto caso di corruzione in Sicilia. Persino lui, il moralizzatore antimafia, il presidente – per usare sue parole – dal fiuto sbirresco, l’aglio per i vampiri della manciugghia (che sarebbe poi, fuor di vernacolo, lo spreco, lo sperpero). L’inchiesta che sta estendendosi non solo alle diverse Procure siciliane, ma anche verso qualche tribunale “continentale”, a cominciare da quello di Perugia, sta cercando di far luce sulle relazioni tra la politica siciliana e alcuni imprenditori padroni degli aliscafi con i quali vengono assicurati i collegamenti tra la Sicilia e le Isole minori. Sono già finiti ai domiciliari l'attivo consigliere regionale e attuale candidato a sindaco di Trapani Girolamo Fazio, il potente armatore Ettore Morace e Giuseppe Montalto uno dei collaboratori più stretti dell’assessore regionale alle Infrastrutture Giovanni Pistorio. Come detto, tra gli indagati altri nomi “eccellenti”, tra cui il Sottosegretario alle Infrastrutture Simona Vicari che si è dimessa a causa di un rolex, un po’ come avvenne per il ministro allo stesso ramo Maurizio Lupi (anche lui esponente alfaniano). “Le indagini fin dall’origine – hanno scritto del resto gli inquirenti in una ponderosa ordinanza - hanno evidenziato i rapporti talvolta assai confidenziali tra gli armatori e diversi esponenti delle amministrazioni pubbliche sia a livello politico che dirigenziale”. E quando si parla di politica, appunto, si fa esplicito riferimento anche al governatore. Il vertice delle istituzioni siciliane. Per il quale la Procura ha disposto persino controlli e pedinamenti, sulle assolate stradine di Filicudi, isola delle Eolie. Un’isola per la quale, stando alle intercettazioni, il presidente nutrirebbe una grande, irrefrenabile passione. Al punto da chiedere ai suoi burocrati e allo stesso assessore ai Trasporti, di creare una “corsa” attiva tutto l’anno. Un aliscafo pronto a salpare da Palermo anche nelle stagioni rigide, su quel mare d’inverno che persino Loredana Bertè tanti anni fa definì un “concetto che il pensiero non considera”. Non per il presidente che si sarebbe innamorato, stando alle conversazioni tra assessori e armatori, tra sindaci e burocrati, non solo delle bellezze naturalistiche dell’isolotto. E così, la patina dei discorsi da bar, la marmellata delle facili ironie, delle battute da caserma, si stende su un’amicizia tra il governatore e il gestore di un hotel a Filicudi che potrebbe avere però dei risvolti giudiziari, al di là del canovaccio da softcore, da sboccacciato filmetto anni ottanta. “Non sono un novello Formigoni”, si è sfogato subito Crocetta, prima di presentarsi all’opinione pubblica come un governatore francescano: “Quando ero a Filicudi, - ha raccontato - rifiutavo i giri in barca perché sapevo che me li avrebbero fatto fare gratis. Non andavo nei lidi perché temevo non mi facessero pagare. Così me ne andavo tra gli scogli, tra le pietre, senza nemmeno un ombrellone". Roba da rimanere scottati. Ma nelle carte degli inquirenti c’è il sospetto, e più di quello, che il governatore potesse utilizzare la Regione, le sue casse, per un “capriccio” come lo ha definito il suo stesso assessore. Un guaio che si aggiunge ad altre contestazioni della Procura, che ha deciso di recapitare al presidente un avviso di comparizione. L’accusa, in quel caso, è relativa a uno strano bonifico che l’armatore Morace avrebbe fatto giungere al nuovo movimento politico di Crocetta, “Riparte Sicilia”. “Sono così cretino da farmi corrompere con un bonifico? Se fosse così – ha spiegato Crocetta - dovrei autoproclamarmi primo presidente coglione della Regione". Al di là della consistenza delle accuse a Crocetta, però, e delle personalissime presunte responsabilità del governatore, c’è un dato che è emerso dall’inchiesta con una evidenza inaffondabile: la Regione degli scandali è sempre lì, tale e quale, così come in passato. Gli sprechi non sono stati debellati, e gli assessorati sono permeabili, gli uffici corruttibili, ora come allora. E come poche settimane fa, quando gli scandali venivano serviti al pubblico della domenica, insieme ad abbondanti dosi di populismo, di numeri strampalati, di manicheismo da fumetto. Scandali dai quali, però, il governatore si era sempre ovviamente tirato fuori. Stavolta non è così. E del resto, le incrinature sul paravento legalitario di Crocetta erano apparse già da tempo. E l’inchiesta sui rapporti tra politica e imprenditori privati non pare poi così dissimile da un’altra indagine che investì la Sicilia degli scandali mai estirpati. Un contesto fatto di amicizie e pubbliche relazioni, una Sicilia degli interessi pubblici piegati alle consuetudini dei caminetti, dei rapporti più o meno personali. È l'indagine che un paio di anni fa coinvolse alcuni medici e manager della Sanità siciliana. Anche in quel caso le intercettazioni svelarono la filigrana di una Regione ripulita solo in apparenza, le trame fittissime che legavano il pubblico e il privato. Gli ospedali siciliani e le amicizie. Inchieste che coinvolsero Giacomo Sampieri, commissario di un grosso ospedale palermitano, il “Villa Sofia-Cervello”, e in ottimi e frequenti rapporti col presidente della Regione. Il primario Matteo Tutino, invece, finito ai domiciliari, la mattina dell'arresto, all'arrivo delle forze dell'ordine chiamò proprio Rosario Crocetta. Che liquidò quei rapporti con un semplice: “E' solo un medico da cui mi sono fatto curare qualche volta”. Fatto sta che già mesi addietro, proprio da quella Sanità malata e dalla giunta di Crocetta era fuggita, sbattendo la porta, addirittura Lucia Borsellino, figlia del magistrato Paolo, che parlerà di dimissioni dovute a “ragioni di ordine etico e morale”. Un concetto che sarà ribadito in maniera drammatica dal figlio di Paolo, Manfredi, di fronte al presidente della Repubblica Mattarella: “Lucia ha portato la croce perché voleva una sanità libera e felice”. Tutto dimenticato. Troppo presto, forse. Sepolto dalle successive sparate del governatore sulle magnifiche azioni di pulizia in una Regione rimasta identica a prima. E non è un caso che alla fine del 2016 la Sicilia risultasse tra le Regioni più corrotte d'Italia, dietro solo a Campania e Lombardia. Non esattamente un successo, per il governo che avrebbe dovuto portare, anche nella pubblica amministrazione, il vento fresco della legalità. E che invece è impegnato, in questi mesi, nell’occupazione militare di ogni poltrona pubblica. Crocetta ha piazzato fedelissimi ovunque, a volte persino eludendo le norme pur di nominare un amico. È successo in un grosso ente pubblico che si occupa di finanziamenti alle cooperative siciliane, dove Crocetta ha fatto di tutto per designare un proprio consulente di origine tunisina. Nel cda di un istituto di credito regionale ha invece inviato il proprio Segretario generale e il proprio capo di gabinetto. Rantoli di un’agonia politica, spesso finiti, anche questi, sui tavoli delle Procure. Nell'ultima indagine, ad esempio, quella sulla presunta corruzione per favorire gli armatori Morace, è stato il turno di Massimo Finocchiaro, che Crocetta ha voluto a capo di una mega-azienda che si occupa del trasporto pubblico. Il funzionario è un amico personale, un militante del Megafono dalla prima ora, un attivo sostenitore di Crocetta fin dalla campagna elettorale del 2012. Ma non è l'unico caso. Della Sanità, così come dell'inchiesta contabile su Antonio Ingroia abbiamo già detto, ma lo stesso si può dire per esponenti della burocrazia regionale, per amministratori di alcune società partecipate, per giungere fino al suo vero braccio destro: il Segretario generale della Regione siciliana Patrizia Monterosso, fedelissima di un governatore che ricambia con almeno altrettanta fiducia, è già stata condannata dalla Corte dei conti per un danno all'erario da oltre un milione di euro ed è anche finita sotto processo per un presunto peculato. Che ha fatto il moralizzatore che diffondeva dai microfoni delle conferenze stampa e dal tubo catodico il Verbo della legalità? Prima le ha rinnovato l’incarico, poi ha anche deciso, nonostante un parere di segno opposto dell'Avvocatura dello Stato, che la Regione siciliana non dovrà costituirsi parte civile contro la dirigente. A differenza di quanto fatto in tante occasioni analoghe nel corso di questi quattro anni e mezzo di legislatura. Perché in fondo, la morale della favola è anche questa: il moralista, presto moralizzato, ha sempre con sé una morale di scorta.

Di Matteo studia da Guardasigilli per mollare il processo flop. La scalata ai 5 stelle del pm della trattativa Stato-mafia, scrive Mariateresa Conti, Venerdì 02/06/2017, su "Il Giornale". Sarà un misterioso virus sprigionato dal processo sulla trattativa Stato-mafia. Una sorta di effetto collaterale di quello che si annunciava come il processo dei processi e che ora si avvia all'epilogo, a fine anno, dopo avere incassato qua e là più di una bocciatura e con tutte le caratteristiche del flop. Ad Antonio Ingroia, il papà di quel processo, il passaggio alla politica è andato malissimo. Ma al pm Nino Di Matteo, il pm antimafia che quel processo ha ereditato, potrebbe andare meglio. Già solo per il fatto che, contrariamente al collega, lui non sembra intenzionato a crearsi un partito tutto suo, ma sarebbe piuttosto pronto ad accomodarsi in casa M5s, movimento del quale ha benedetto il codice etico, e del quale - è questo il sogno - in un ipotetico governo potrebbe diventare Guardasigilli. Cinquantasei anni, palermitano, vita blindata dal 1993, il pm più minacciato da Cosa nostra deve la sua carriera alle stragi. È con le indagini su quegli eccidi, soprattutto su quello di Borsellino in via D'Amelio, che il giovane sostituto Nino Di Matteo approdato a Caltanissetta nel 1991 diventa l'eroe che i grillini oggi sperano di avere al proprio fianco. Oddio, le indagini su Borsellino non è che alla distanza si siano rivelate un successone, anche per Di Matteo, che era uno dei pm. Il nuovo processo Borsellino nato dalla revisione, scoperti falsi pentiti e depistaggi precedenti, si è appena chiuso. E ha confermato il grande flop della prima indagine. Da Caltanissetta a Palermo, le stragi restano il filo conduttore dell'attività di Di Matteo. Che diventa l'erede naturale di Ingroia. C'è anche lui tra i pm della prova generale del processo sulla trattativa, quello contro il prefetto Mario Mori e l'ex colonnello Mauro Obinu, conclusosi in primo grado e in appello con l'assoluzione. E c'è lui soprattutto nella cabina di regia del processo su cui la procura di Palermo si gioca la faccia, quello sulla trattativa tra i boss e Cosa nostra. Un processo partito tra rulli di tamburo e che a Di Matteo ha già procurato più di qualche grattacapo. A cominciare dal procedimento davanti al Csm (poi archiviato) per avere indirettamente rivelato a Repubblica, confermandone l'esistenza, che le intercettazioni dell'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano al telefono con Nicola Mancino non erano agli atti perché non rilevanti. Non è il solo dispiacere che il processo trattativa gli ha causato. L'ex ministro Calogero Mannino, processato con rito abbreviato, in primo grado è stato assolto. E l'ex caposcorta di Di Matteo, chiamato al processo come teste, andrà a giudizio per calunnia. Sempre in guerra, Di Matteo. Non solo contro la mafia. Anche con il Csm ha avuto le sue battaglie. Come quella per la promozione alla Direzione nazionale antimafia. Negata regnante Napolitano al Quirinale, l'ha ottenuta a marzo. «Sono stato costretto - ha esultato - a conciliare la delicatezza di certi impegni con la necessità di occuparmi di una massa di procedimenti su piccoli furti, truffe e reati comuni». Il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi non ha gradito. E gli ha risposto, con una lettera indirizzata a tutti i suoi pm: «La notorietà è un valore effimero». Però nel frattempo, per sei mesi, lo ha trattenuto a Palermo. Ad occuparsi del processo trattativa ma pure dei disprezzati furtarelli.

Woodcock, nemico di politici e vip che colleziona solo flop. E sognava di fare lo stilista..., scrive il 13 Aprile 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano”. Nota preliminare: non è che possono dirmi «occhio alle querele» e poi chiedermi il ritratto di uno come Henry John Woodcock: significa che non hanno capito. Le querele basta farle, e lui le fa. Se un magistrato arresta mille persone per genocidio ma poi ne condannano una sola per divieto di sosta - è solo uno stupido esempio - ufficialmente la sua inchiesta non è stata un flop. Non puoi scriverlo, o meglio: puoi, ma rischi.

Comunque: Woodcock ha fatto un sacco di flop (lo scrivo, amen) e per il resto è la vanità fatta persona. Tralasciamo i cenni biografici soliti (nato a, figlio di) e diciamo solo che è un napoletano di crescita. La prima volta che lo vidi era al ristorante del lido di Macchiatonda, a Capalbio, alle 13.30 di una domenica del 2007: giubbotto rosso, cappellino da baseball, lo sguardo autoriflesso di chi si sentiva al centro dell’inquadratura. La stampa italiana, che tende a far schifo, aveva appena dedicato ampi servizi alla sua moto, al suo cane e alla bistecca di vitella tagliata grossa, che gli piaceva tanto e che comprava da un certo macellaio di Potenza. A un cronista di Vanity Fair, testata dal nome azzeccatissimo, era bastato chiedere per ottenere, dal riservato Woodcock, immagini posatissime. Sulla copertina di Dipiù comparivano Woodcock e signora (discreto magistrato anche lei) e all’interno eccoti Woodcock in barca, in jeans, in cravatta, in toga, con la mamma, ancora con il cane, col padre, senza padre, sulla slitta. Tutte foto private e il titolo «Woodcock, la carriera e l’inchiesta dell’uomo che sta affascinando l’Italia». Su Panorama lo si vedeva poppante e poi quattordicenne in Croazia, poi ancora col cane.

La stampa italiana è qualcosa che nel 2007 ti faceva sapere che Woodcock mangiava formaggini, arance, banane e soprattutto antipasto con ricotta, salame, mozzarella e caciocavallo. Però secondo Panorama - viva il pluralismo - preferiva fagioli e cozze, mentre Vanity Fair insisteva sugli strascinati e aggiungeva pasta e ceci. A Studio Aperto, su Italia Uno, nell’aprile 2007, Woodcock confessò che da giovane voleva fare lo stilista. Beh, a suo modo ce l’aveva fatta: era indubbiamente uno stilista del diritto come già gli avevano riconosciuto molti tribunali giudicanti. Le sue inchieste più note erano già state state una collezione di incompetenze territoriali, nomi altisonanti assolti, ministri prosciolti, richieste d’arresto ingiustificate, e poi archiviazioni, bocciature per il 70 per cento dei suoi ricorsi, più 6 milioni e 400mila euro spesi per tre anni di intercettazioni a Potenza. E dire che da scriverne seriamente non mancava: il primo flop risaliva al 2000, quando Woodcock imbastì un’inchiesta sulla Banca Mediterranea che diede un nulla di fatto. Poi il più noto “Vipgate” (2003) che coinvolgeva 78 persone e tra queste Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv Anna La Rosa. Accuse di ogni tipo (associazione per delinquere, corruzione, estorsione) ma poi l’inchiesta approderà a Roma e finirà archiviata. Poi l’inchiesta “Iene 2” (2004) su presunte connessioni tra politici lucani e mafia (51 arresti respinti) con tanto di ispezione mandata dal guardasigilli Roberto Castelli: fecero flop entrambe, l’inchiesta e l’ispezione.

Ed eccoci al mitico “Savoiagate”, quello che prese di mira Vittorio Emanuele di Savoia il quale tutto meritava, fuorché uno come Woodcock: finirà in nulla anche questa, e il reale verrà assolto con molti altri imputati. All’ex sindaco di Campione Roberto Salmoiraghi, arrestato e costretto alle dimissioni, fu riconosciuto un risarcimento di 11mila euro, mentre a Vittorio Emanuele, 40mila. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano giunse a chiedere al Csm notizie di questo Woodcock. Uh, abbiamo dimenticato l’inchiesta sull’Inail: furono prosciolti tutti i parlamentari che aveva inquisito e rispediti al mittente una sessantina di arresti, compresi due deputati e il presidente della Camera penale della Basilicata, poi scagionato e uscito di galera in tempo per diventare difensore di Vittorio Emanuele. Là è tutto un po’ aggrovigliato.

Forse è per questo che, più di queste cose, nel 2007, la stampa italiana spiegava che quando c’era Montalbano in tv, la sera, Woodcock usciva anzitempo dall’ufficio. Spiegava che gli piaceva anche Distretto di Polizia. Che sul suo comodino c’erano libri di Salinger, Pasolini ed Erri de Luca. Che il rapporto tra Woodcock e la giornalista Federica Sciarelli (con la quale fu immortalato in varie situazioni) era solamente di tipo professionale. Notizie importanti. E le ispezioni ministeriali, spedite a Potenza dall’allora guardasigilli Clemente Mastella, in fondo, di notizie non ne trovarono molte di più. I giornali invece sì, anche perché la nuova inchiesta glamour “Vallettopoli” era fantastica: la soubrette Elisabetta Gregoraci, il portavoce di Gianfranco Fini Salvatore Sottile, e Lele Mora, Fabrizio Corona, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio, poi vabbeh, l’inchiesta approdò a Roma per legittima competenza e videro che non c’era nulla: però c’eravamo divertiti, no? Morto un processo nel silenzio, tanto, i giornali già si lanciavano su sempre nuove inchieste: allora come oggi. Woodcock fece anche un’inchiesta sulla massoneria (mancava) ma per una volta fu lui stesso a fare marcia indietro per inconsistenza dell’accusa. Miracolo. Sta di fatto che Woodcock aveva raggiunto la quota di 210 innocenti accusati senza fondamento - fu calcolato - con una media di 15 all’anno a partire dal 1996.

Poi si trasferì a Napoli (2009) e con lui il suo metodo. Nel 2011, quando uscì il primo numero del Fatto Quotidiano, il primo titolo di prima pagina fu: «Indagato Gianni Letta»: e naturalmente era innocente. Indovinate di chi era l’inchiesta. Fecero rumore, dunque, le intercettazioni dell’indagine cosiddetta P4, un «sistema informativo parallelo» allestito dal mediatore Luigi Bisignani. Alfonso Papa (Pdl) fu clamorosamente svenduto dal Parlamento e divenne il primo parlamentare italiano a finire in carcere per dei reati non violenti: anche se, dopo 157 giorni di galera, fu scarcerato dal Tribunale del Riesame e poi anche dalla Cassazione, che di passaggio sancì che l’associazione P4 non esisteva.

Poi? Poi è finito lo spazio - qui - ma non i flop - ovunque. Ci sarebbe da dire anche sull’inchiesta sulla Guardia di Finanza avviata da Woodcock nel 2014: limitiamoci al destino del generale Vito Bardi, già indagato da Woodcock nell’inchiesta “P4” (innocente) e nuovamente archiviato il 4 aprile scorso per «insussistenza di ogni ipotesi di illecito». Bardi non era neppure stato mai ascoltato né aveva avuto la possibilità di conoscere i suoi accusatori. Carriera distrutta lo stesso: diversamente da quella del magistrato che l’aveva accusato due volte. In tribunale, comunque, Woodcock ha ottenuto anche delle vittorie: per le querele che ha sporto. Eccoci candidati a suoi nuovi mirabolanti successi. Filippo Facci

È caccia al pm Woodcock su falsi e fughe di notizie. Procura di Napoli e toga finiscono ancora sotto accusa Alta tensione tra tribunali, possibile fascicolo del Csm, scrive Anna Maria Greco, Giovedì 18/05/2017, su "Il Giornale". Negano che ci sia una guerra tra procure di Roma e Napoli nei palazzi di giustizia, eppure sul caso Consip ogni scandalo accentua le differenze tra due metodi investigativi. E nel mirino c'è ancora una volta lui, il pm anglopartenopeo Henry John Woodcock, titolare dell'inchiesta prima che passasse nella Capitale il filone principale. Sul sostituto procuratore pesa l'istruttoria disciplinare avviata dal Procuratore generale della Cassazione e, dopo l'ultima intercettazione tra Matteo e Tiziano Renzi finita nel libro del giornalista Marco Lillo, con la grancassa del Fatto quotidiano, anche il Guardasigilli Andrea Orlando ha disposto un'ispezione. La vicenda è sotto osservazione anche del Csm, che un mese fa ha negato l'apertura di una pratica in prima commissione chiesta dal laico di Fi Pierantonio Zanettin, ma ora potrebbe ripensarci. In un'intervista a Radio radicale Zanettin è tornato alla carica, dichiarandosi «allibito» per il fatto che il vertice di Palazzo de' Marescialli non voglia approfondire «fatti così inquietanti», che rappresentano un «inquinamento del processo democratico». Pesa sulla vicenda una frase a Radio 24 di Nicola Gratteri, stimatissimo procuratore di Catanzaro che ha appena scoperchiato i traffici nel più grande centro calabrese per profughi: «Quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c'è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della Procura. Sennò le notizie non escono». Il pm ha alle spalle un'esperienza di 30 anni di intercettazioni e insiste sulla «tracciabilità» degli interventi sui file audio (la conversazione non era stata trascritta). «Il procuratore - spiega - è il responsabile della sala di registrazione... Se io vado, vedo esattamente chi ha scaricato il file. L'ufficiale di polizia giudiziaria dirà me l'ha chiesto il procuratore. Ma se non ha una ricevuta, risponde lui». E anche da Roma arriva una nota polemica che tra le righe punta verso Napoli. La dirama il procuratore capo Giuseppe Pignatone per smentire la distruzione di una delle intercettazioni: «Peraltro - aggiunge in modo significativo il magistrato - l'eventuale distruzione poteva essere disposta solo dall'Ufficio che l'aveva disposta». È a Napoli che a marzo si è deciso di riprendere a spiare le conversazioni di Renzi senior, interrotte a dicembre. Si è fatto contro il parere di Roma, visto che il padre dell'ex premier è indagato per un reato che non giustifica le intercettazioni: traffico d'influenze illecite. È a Napoli che il lavoro di ascolto è ancora affidato al Noe dei carabinieri, cui i pm della capitale hanno revocato l'incarico dopo le prime fughe di notizie e gli errori o falsificazioni nelle trascrizioni che hanno fatto finire sotto inchiesta il capitano Gianpaolo Scafarto, che peraltro afferma di essere stato sempre diretto da Woodcock. Ora, l'ennesima violazione del segreto investigativo e Renzi che dice: «Le intercettazioni sono illegittime. Voglio sapere chi ha violato la legge». Come sono finite in pasto ai media le sue chiacchiere con il babbo, non penalmente rilevanti, ma politicamente sensibili? Il presidente del Pd Matteo Orfini parla di «attacco alla democrazia», Vito Crimi del M5S di «piccola recita» tra l'ex premier «che sa di esser intercettato» e il padre «che sa che è sotto indagine» e Daniela Santanchè di Fi dice che ora il Pd si rende conto del prezzo della gogna mediatica.

Ieri al Csm la questione non è stata affrontata in plenum, ma si è riunito a lungo il Comitato di presidenza, che decide sull'apertura delle pratiche ed era stata preannunciata una comunicazione. Alla fine tutto è stato rinviato ad oggi, quando proseguirà l'incontro tra vicepresidente Legnini, primo presidente Canzio e Pg della Cassazione Ciccolo, che secondo i rumors sarebbe stato pieno di tensione.

Giustizialisti. Così la politica lega le mani alla magistratura. Libro di Piercamillo Davigo, Sebastiano Ardita. Descrizione: «Noi con le nostre forze di Polizia li abbiamo arrestati. I giudici li hanno liberati. L'opinione pubblica deciderà». Così l'ex ministro dell'Interno Angelino Alfano all'indomani dei disordini degli antagonisti avvenuti a Bologna nel novembre del 2015. Come se i giudici avessero deciso liberamente, senza applicare le leggi in materia che il Parlamento aveva varato in precedenza. Alfano, ma non solo, sa che un magistrato spesso ha l'obbligo di scarcerare qualcuno, pur riconoscendo che la norma impone una scelta che egli stesso ritiene sbagliata. Lasciandolo in galera, infatti, incorrerebbe in una severa misura disciplinare. Questo, al contrario, non vale per i politici che se votano una legge iniqua o ad personam sono indenni da rischi perché agiscono nell'«esercizio dell'attività parlamentare». Un libro duro, sull'eterno scontro tra magistratura e politica. Un viaggio nelle aule dei tribunali, nelle Procure e nelle carceri dove i paradossi della legislazione nostrana implicano decisioni al limite della decenza e dove la giustizia diventa spesso ingiustizia.

L’ANTEPRIMA – GIUSTIZIALISTI, IL ROMANZO SOGNATO DA MONTANELLI. DAVIGO E ARDITA CI SPIEGANO COME LA POLITICA LEGA LE MANI ALLA MAGISTRATURA. Scrive il 30 marzo 2017 "Stampalibera.it". Un libro duro, sull’eterno scontro tra magistratura e politica. Un viaggio nelle aule dei tribunali, nelle Procure e nelle carceri dove i paradossi della legislazione nostrana implicano decisioni al limite della decenza e dove la giustizia diventa spesso ingiustizia. Noi di stampalibera abbiamo deciso di pubblicare la prefazione di Marco Travaglio che ci anticipa, come solo lui sa fare, i contenuti di un libro che con chiarezza spiega a tutti i non addetti ai lavori perché la giustizia italiana è allo sfascio. Verso la fine della sua lunghissima e bellissima vita, Indro Montanelli mi commissionò un libro: «Marco, tu devi scrivere il Codice penale tradotto in italiano. Te lo chiedo perché sarei il tuo primo lettore. Ho una vecchia laurea in Giurisprudenza, presa ancora ai tempi del codice Zanardelli, ma non mi è mai servita a niente: io nei meandri, nei meccanismi e nei linguaggi del processo penale mi perdo. E vorrei capirci qualcosa, anche perché ormai tutto passa di lì: è impossibile distinguere la cronaca politica da quella giudiziaria». Ci ho provato diverse volte, a scrivere quel libro, ma né prima né dopo la morte di Montanelli ci sono riuscito: c’era sempre qualche argomento più attuale, più urgente che prendeva il sopravvento. Poi, per fortuna, senza che ci parlassimo, la stessa idea è venuta a Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, due magistrati valorosi e benemeriti. Non solo per le indagini e i processi che hanno condotto. Ma anche e soprattutto per un’altra virtù, tanto rara quanto preziosa: quella di parlare e scrivere in italiano chiaro, diretto e comprensibile, al contrario di tanti loro colleghi che si esprimono nel sanscrito del giuridichese e impiegano un quarto d’ora solo per dire «buongiorno». Giustizialisti è proprio quel Codice penale (e anche di procedura penale) tradotto in italiano che sognava Montanelli e che io non sono riuscito a scrivere: un libro semplice e stuzzicante, provocatorio al punto giusto, che spiega a tutti i non addetti ai lavori i perché e i percome della giustizia italiana allo sfascio. Una giustizia-paradosso che macina montagne di processi e partorisce solo topolini. Una giustizia-spaventapasseri che, vista da lontano, fa paura a tutti e, da vicino, fa ridere anche i polli. Una giustizia accusata di non funzionare per colpa dei giudici e invece programmata dagli altri poteri apposta per non funzionare. Parlando e scrivendo come mangiano, Ardita e Davigo illuminano questioni che a noi comuni mortali risultano inintelligibili e invece hanno tutte una spiegazione semplice, spesso banale. Fanno parlare i dati, le cifre, le norme, gli episodi di vita vissuta sviscerando le questioni di più bruciante attualità e lumeggiandone le cause e le possibili soluzioni. E, al contempo, smontano a uno a uno gli slogan, le dicerie, i luoghi comuni e le menzogne diffusi a piene mani dall’eterno Partito dell’Impunità che in Italia si ammanta ipocritamente di alti principi e sacri valori come il “garantismo”, la “presunzione di innocenza”, la “separazione dei poteri”, il “primato della politica”. Tutte imposture divenute il rifugio dei peggiori mascalzoni in guanti gialli.

Il Paese dell’impunità. Si sente sproloquiare di sovraffollamento delle carceri, poi si scopre che ogni anno entrano nelle patrie galere 90 mila persone e ne escono 80 mila, con una permanenza media in cella di appena 90 giorni. Si sente cianciare di abusi della custodia cautelare, poi si scopre che è quasi impossibile arrestare un incensurato, salvo che si metta a sparare (e spesso neppure questo basta): così si crea la figura unica al mondo dell’“incensurato a vita” che delinque serialmente. Si sente vaneggiare di colletti bianchi perseguitati dalla giustizia, poi si scopre che solo lo 0,3% dei detenuti in espiazione della pena appartengono alla categoria Vip, mentre tutti gli altri sono condannati per reati di strada, di solito infinitamente meno gravi e socialmente meno dannosi di quelli commessi dai ricchi e dai potenti (in controtendenza con Paesi portati a esempio di virtù dai nostri “garantisti”, come gli Stati Uniti, dove la giustizia non ha alcun riguardo per i ricchi e i potenti, come dimostrano i casi di Dominique Strauss-Kahn, Paris Hilton, Mel Gibson, Hugh Grant, Bernie Madoff e così via). Anche fra i reati di strada, poi, le infinite scappatoie infilate nei Codici da una classe dirigente col culo sporco hanno creato un sistema demenziale che punisce più severamente condotte più lievi rispetto a quelle più pericolose: un condannato per rapina a mano armata trascorre in prigione una media di 635 giorni, contro i 761 di uno spacciatore di droga. In compenso, chi ha sottratto alla collettività decine o centinaia di milioni con una bancarotta fraudolenta non supera di solito i 190 giorni effettivi di detenzione (poi ottiene una pena alternativa, cioè torna in libertà con qualche ridicola restrizione), mentre chi è stato condannato per furto di soldi o beni di valore infinitamente più lievi, le pene alternative se le scorda e sconta in cella almeno 256 giorni. Il che basta e avanza per spiegare come mai l’Italia esporta cervelli in fuga e importa criminali da tutto il mondo. Fantastico il racconto della riunione al ministero della Giustizia fra le delegazioni del governo italiano e di quello romeno per il rimpatrio di cittadini della Romania condannati per delitti commessi nel nostro Paese. Gli italiani rinfacciano ai romeni gli altissimi tassi di devianza criminale dei loro concittadini, i romeni rispondono che i due Paesi hanno più o meno la stessa percentuale di delinquenti, senonché quelli romeni preferiscono delinquere in Italia perché da loro chi sbaglia paga e da noi no. Si sente delirare sulle ragioni della lunghezza dei processi, salvo poi scoprire – nel libro di Ardita e Davigo – che siamo l’unico Paese al mondo con la prescrizione eterna, che continua a decorrere anche dopo due condanne in primo e secondo grado; con i tre gradi di giudizio automatici, sempre sotto forma di dibattimento (nei Paesi anglosassoni i processi come li conosciamo noi sono una rarissima eccezione, perché il rischio di condanna per i colpevoli è talmente alto da indurli quasi tutti a confessare e a patteggiare la pena, cosa che in Italia non fa nessuno poiché il colpevole ha tutto l’interesse a tirarla in lungo in attesa della prescrizione); con il divieto per il giudice d’Appello di aumentare la pena inflitta da quello di primo grado (il che rende i ricorsi – anche se infondati e pretestuosi, cioè destinati alla bocciatura – comodi, gratuiti, a rischio zero e a vantaggio mille). Per questo in Italia delinquere conviene: prevale, nel legislatore, l’interesse a una giustizia che non funzioni, cioè l’interesse opposto a quello dei cittadini perbene, che i reati non li commettono ma spesso li subiscono.

«Siamo giustizialisti». Senza anticipare tutti i contenuti del libro, che si legge come un romanzo (ma noir, a tratti horror), trovo particolarmente preziosi alcuni capitoli. Quello sulla demenziale riforma Renzi sulla responsabilità (in)civile dei giudici, che ha reso la magistratura italiana ancor meno libera, indipendente dal potere (non solo politico, ma anche e soprattutto economico che, quando delinque e viene scoperto, ricatta la società con le conseguenze sociali, occupazionali e finanziarie dei processi). Quello sulle politiche dell’immigrazione, che tentano ridicolmente di affidare alla macchina già inceppata della nostra giustizia la soluzione delle conseguenze bibliche delle guerre e delle carestie e delle dittature di tutto il mondo: vedi il reato di clandestinità, che non ha mai prodotto una sola condanna davvero espiata e al contempo ha distrutto i processi agli scafisti e agli schiavisti (l’immigrato viene indagato appena sbarca e dunque non può essere sentito come testimone con l’obbligo di rispondere e di dire la verità su chi l’ha trasportato e sfruttato, magari gettando a mare decine o centinaia di esseri umani). Quello sulle tante balle che si raccontano, nei Palazzi del potere, contro lo strumento principe per la scoperta della verità: le intercettazioni telefoniche ambientali, che sarebbero sempre troppe e troppo costose rispetto agli altri Paesi (che invece ne fanno molte di più e senza alcun controllo, vedi anche gli ultimissimi casi dello spionaggio mondiale targato Stati Uniti e svelati da Wikileaks). Quello sulla voglia crescente di giustizia privata, sparando od organizzando “ronde” con l’appoggio di partiti politici che, nel frattempo, hanno fatto di tutto per distruggere la repressione e la prevenzione delle autorità pubbliche. E, infine, quello sul rapporto fra magistratura e politica (anche con forti accenti autocritici sulla “correntocrazia” del Csm e sulle indulgenze della magistratura progressista sulle controriforme dei governi di centrosinistra), sempre gabellato dal Partito Trasversale dell’Impunità per uno “scontro” o per una “guerra”: anche qui, dati e cifre alla mano, gli autori dimostra- no come la magistratura italiana, pur con tutti i suoi difetti, riesca a fare pulizia al proprio interno molto più e meglio di quanto non facciano le classi politica e imprenditoriale. Il titolo Giustizialisti è una risposta ironica alle accuse che pioveranno sul capo di Ardita e Davigo all’uscita del libro. Ma        a me piace intenderlo anche come una rivendicazione orgogliosa del principio costituzionale secondo cui la legge è uguale per tutti, anzi meglio: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge» (articolo 3 della Costituzione). Se il “garantismo” – strappato abusivamente dalle nobili pagine di Cesare Beccaria – è diventato il gargarismo dei peggiori farabutti per negare e rifiutare pro domo sua i principi di eguaglianza, di legalità e di responsabilità, e se il suo contrario è il “giustizialismo” (che un tempo definiva i seguaci di Juan Domingo Perón in Argentina, senz’alcuna attinenza con i temi giudiziari), è venuto il momento di dichiarare con orgoglio da che parte stiamo: ebbene sì, siamo giustizialisti. E allora?

La fine di Gianfranco Fini. L'accusa di riciclaggio nell'ambito dell'inchiesta sulla casa di Montecarlo potrebbe porre fine alla sua carriera politica, scrive Francesco Curridori, Lunedì 29/05/2017, su "Il Giornale". L’accusa di riciclaggio e il sequestro di un milione di euro pone fine a una vicenda, quella della casa di Montecarlo, che ha segnato la carriera politica di Gianfranco Fini.

Gli inizi della carriera politica. Carriera iniziata nel lontano 1968 quando, all’età di 16 anni, il futuro fondatore di Alleanza Nazionale, rimane coinvolto negli scontri con un gruppo di estrema sinistra che, all’uscita di un cinema di Bologna, contestava la proiezione del film sulla guerra in Vietnam, Berretti verdi. “Non avevo precise opinioni politiche. Mi piaceva John Wayne, tutto qui. Arrivato al cinema, beccai spintoni, sputi, calci, strilli perché gli estremisti rossi non volevano farci entrare. E così per reagire a tanta arroganza andai a curiosare nella sede cittadina della Giovane Italia”, racconterà molti anni più tardi a un quotidiano. Agli inizi degli anni ’70 si trasferisce a Roma ed entra nel Fronte della Gioventù, la formazione giovanile dell’MSI che aveva preso il posto della Giovane Italia. Il 7 gennaio 1978, giorno della strage di Acca Larentia, Fini, che nel frattempo era diventato presidente nazionale del Fronte, venne ferito da un candelotto lanciato dalla polizia per fermare i disordini.

Fini segretario dell'Msi. Ma l’anno che cambia la storia politica di Fini è il 1987 quando si svolge il Congresso del Movimento Sociale di Sorrento che segna l’uscita di scena di Giorgio Almirante. Fini, che ne è il delfino e l’erede designato, ne prende il posto alla segreteria battendo lo sfidante Pino Rauti propugnando per l'imminente futuro una nuova visione politica: "il fascismo del 2000". Alle elezioni Politiche dello stesso il Msi raggiunge il 5,5% dei voti in una campagna elettorale segnata dalla contiguità politica con il Front National di Jean-Marie Le Pen sul tema dell'immigrazione. A seguito del deludente risultato elettorale alle Europee del 1989, Rauti soffia la poltrona di segretario a Fini che la riconquisterà nel 1991. Siamo alla vigilia dell'inchiesta Tangentopoli che travolgerà il governo del pentapartito e aprirà le porte alla Seconda Repubblica. In questo contesto Fini, alle elezioni comunali del 1993, raccoglie i frutti di una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione. Il passaggio al secondo turno nella sfida romana contro Francesco Rutelli segna il definitivo sdoganamento della destra italiana e l'imminente passaggio da Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale. L'alleanza con Berlusconi e la vittoria alle Politiche del 1994 portano la destra a compiere la "svolta di Fiuggi". L'esperienza della destra al governo dura solo sei mesi ma passano due anni e Fini ottiene la sua vittoria più grande: An raggiunge il 15,5% incentrando la sua campagna elettorale sulla riforma presidenzialista dello Stato. Da lì in poi ha inizio il lento e inesorabile declino che si intravede nel 1999 con il sostegno a Mario Segni sul referendum per l'abolizione della quota proporzionale del Mattarellum, perso per un soffio, e con il flop alle Europee. La lista dell'elefantino, creata insieme ai pattisti di Segni, non sfonda ma si ferma al 10%. La carriera politica di Fini si risolleva con le Politiche del 2001 che riportano il centrodestra al governo per il quale ricopre l'incarico di vicepremier e di ministro degli Esteri. Il rapporto con Berlusconi va avanti, tra alti e bassi, fino al 2007 quando il Cavaliere annuncia dal predellino la nascita del partito unico del centrodestra.

La rottura con Berlusconi. "Voglio che sia chiaro a tutti che, almeno per quel che riguarda il presidente di An non esiste alcuna possibilità che An si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi", disse all'epoca, a poche dall'annuncio sentenziando: "Berlusconi con me ha chiuso". Questa è la prima di una lunga sfilza di bugie che Fini propinerà ai suoi elettori. Per le Politiche del 2008 nasce la lista Popolo della Libertà che, nel marzo dello stesso anno, diventerà partito. Fini, da presidente della Camera, inizia un’opposizione interna al premier Berlusconi che si fa sempre più incalzante fino alla rottura definitiva con quel “Che fai? Mi cacci?” pronunciato durante la direzione nazionale del 2010 che decretò la sua espulsione dal Pdl.

La fine della carriera politica e la vicenda della casa di Montecarlo. Di lì a poco nascerà Fli, Futuro e Libertà per l’Italia, che, un anno dopo, appoggerà il governo tecnico di Mario Monti. Un partito “nato morto” che nel 2013 raccoglie solo un disastroso 0,4% complice la svolta centrista e l’alleanza con Scelta Civica di Monti e l’Udc di Casini. Ma a travolgere Fini non è soltanto l'uscita dal Parlamento dopo 30 anni ma è soprattutto la vicenda della casa di Montecarlo, venuta fuori nell’estate 2010. Il presidente della Camera, in un intervento video, professa la sua estraneità ai fatti contestati al cognato, Giancarlo Tulliani, reo di aver acquistato a un prezzo di favore una casa di proprietà del partito. “Se dovesse emergere che l'appartamento di Montecarlo appartiene a Giancarlo Tulliani lascerò la presidenza della Camera”, disse all’epoca Fini. Nel 2015, però, la casa fu poi rivenduta a un imprenditore svizzero a ben 1,3 milioni di euro, con un plusvalore di oltre 1,2 milioni di euro, e, a dicembre 2016, la procura di Roma richiede la custodia cautelare per Francesco Corallo. Fini, a pochi giorni di distanza, al Fatto Quotidiano, ammette: “Sono stato un coglione, corrotto mai”. Ora spetterà alla magistratura stabilire quale sia la verità.

Perché la finanza ha sequestrato polizze da un milione di euro a Gianfranco Fini. Da alcuni mesi l'ex presidente della Camera è indagato per complicità in riciclaggio. E quello di oggi è l'ultimo atto di una vicenda che inizia con la casa di Montecarlo e passa dal re delle slot Francesco Corallo, scrivono Paolo Biondani e Giovanni Tizian il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". Mazzetta nera, sarai romana e per bandiera ti darem quella italiana... Bisogna rassegnarsi a parafrasare l'inno mussoliniano per raccontare la caccia al presunto bottino che segna l'ultimo sviluppo della pesante inchiesta che ha coinvolto l'ex presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini: un leader politico che ha avuto il merito storico di trasformare la destra post-fascista in un partito di governo con Berlusconi e Bossi. Per ordine dei magistrati di Roma, questa mattina i militari dello Scico (il reparto antimafia della Guardia di Finanza) hanno sequestrato all'ex presidente della Camera due polizze vita del valore di un milione di euro. Da alcuni mesi, come rivelò per primo l'Espresso, Fini è indagato con l'accusa di complicità nel riciclaggio di un tesoro intestato a tre suoi congiunti: circa 6 milioni di euro versati segretamente, attraverso anonime società offshore, dal re delle slot machine Francesco Corallo, che dal dicembre scorso è in stato d'arresto alle Antille Olandesi. Corallo, titolare del gruppo Global Starnet (già denominato Atlantis e poi Bplus), è l'imprenditore catanese che nel 2004 ha ottenuto, benché figlio di un pericoloso pregiudicato, la concessione statale a gestire il business miliardario delle macchinette mangiasoldi (new slot e vlt) che a partire da quell'anno hanno invaso l'Italia. Il re del gioco d'azzardo è stato arrestato con i più stretti collaboratori nella sua base ai Caraibi, con l'accusa di aver sottratto all'Italia oltre 250 milioni di euro: profitti incamerati con le macchinette mangiasoldi, trasferiti all'estero e occultati in anonime società offshore. L'indagine internazionale ha accertato che dalle casseforti segrete di Corallo è uscito un fiume di denaro che ha premiato anche tre familiari di Fini: la consorte Elisabetta Tulliani, suo fratello Giancarlo e il loro padre Sergio, che in totale si sono divisi, a partire dal 2008, quasi sette milioni di dollari. Interrogato dai magistrati di Roma dopo l'avviso di garanzia, Fini ha giurato di non aver mai saputo nulla dei fondi neri intascati dai suoi congiunti. E ha definito false le dichiarazioni accusatorie dell'ex parlamentare Amedeo Laboccetta, inquisito e poi scarcerato, che aveva accusato Fini, tra l'altro, di aver incontrato personalmente Corallo sia in Italia che ai Caraibi. Ma ora nelle motivazioni del sequestro patrimoniale, chiesto dal pm Barbara Sargenti con l'aggiunto Michele Prestipino e il procuratore capo Giuseppe Pignatone, il giudice delle indagini preliminari, Simonetta D’Alessandro, definisce «del tutto inverosimile» la versione di Fini secondo cui i Tulliani si sarebbero arricchiti a sua insaputa. ll provvedimento, al contrario, elenca una lunga serie di documenti, testimonianze e altri indizi concatenati che, secondo l'accusa, proverebbero la «piena consapevolezza» di Fini. In questo capitolo dell'inchiesta rientra anche lo scandalo politico dell'appartamento di Montecarlo: una casa di proprietà di Alleanza nazionale che nel 2008, con l'autorizzazione dell'allora presidente Fini, fu venduta a due società offshore, dietro le quali si nascondevano proprio Giancarlo ed Elisabetta Tulliani. L'inchiesta ha documentato che i due fratelli, a conti fatti, non spesero un soldo: il prezzo fu pagato interamente delle offshore di Corallo; e i Tulliani hanno poi rivenduto l'appartamento guadagnandoci un altro milione di euro. Elisabetta, in particolare, ha intascato personalmente un bonifico di 739 mila euro netti. In questi mesi la procura di Roma ha già ottenuto il sequestro di una dozzina di appartamenti e box nella zona di Roma, che risultano acquistati con un'altra parte del presunto bottino. Si tratta dei 3 milioni e 599 mila dollari versati nel 2009 dalle solite offshore Corallo su un conto estero intestato a Sergio Tulliani, che questi ha poi girato ai figli Giancarlo ed Elisabetta, per essere reimpiegati, appunto, negli investimenti immobiliari che hanno fatto scattare anche la nuova accusa di «auto-riciclaggio». Gli avvocati Michele Sarno e Francesco Caroleo Grimaldi, che assistono Fini, ora annunciano un ricorso al tribunale del riesame e ribadiscono «l'assoluta estraneità» dell'ex leader di An. Secondo i legali, inoltre, le polizze sono state sequestrate «per equivalente», per cui non sarebbero state create con soldi sporchi versati da Corallo ai Tulliani: sarebbero invece risparmi personali dell'ex leader di An, investiti da tempo in polizze intestate ai figli minorenni.

Il giustizialista Fini andrà da indagato al congresso Fli. Il gip rinvia al 2 marzo la decisione sull’archiviazione del caso Montecarlo nel quale il leader è imputato di truffa. Nuove rivelazioni dal Principato sullo scandalo del quartierino, scrive Gian Marco Chiocci, Giovedì 03/02/2011, su "Il Giornale". Ha sbagliato i calcoli un’altra volta. Travolto dallo scandalo della casa di Montecarlo (di proprietà del cognato Giancarlo Tulliani) il presidente della Camera era certo di presentarsi al congresso fondativo del Fli dell’11 febbraio libero dalla pendenza giudiziaria che lo vede a tutt’oggi sott’inchiesta per truffa. E invece, purtroppo per lui, l’indagato neo-giustizialista Gianfranco Fini, quello che dispensa consigli all’indagato Berlusconi, arriverà all’appuntamento con quest’onta poiché il gip Figliolia ha preferito rimandare al 2 marzo la decisione sull’archiviazione richiesta da una procura sin qui molto attenta a non esporre alla gogna mediatica e giudiziaria l’ex delfino di Giorgio Almirante. Sarà dunque curioso vedere come si comporterà il Grande Moralizzatore di fronte ai suoi fedelissimi, lui che da un po’ di tempo ha scoperto una vena giustizialista «che - per dirla con Storace - porta a chiedere le dimissioni di chiunque sia sotto indagine. Se crede nelle parole che pronuncia, questo è il momento di far seguire i fatti». Ieri mattina bastava mettere a confronto le facce degli autori dell’esposto de la Destra (Marco Di Andrea e Roberto Buonasorte) con quella, attonita, dell’avvocato-deputato finiano Giuseppe Consolo, per capire come la decisione del gip abbia scombussolato i piani del massimo inquilino di Montecitorio che dal 28 luglio, giorno dello scoop del Giornale sull’appartamento monegasco, si è espresso in ogni sede possibile, per 48 volte, a favore della magistratura. Il giudice ha accolto l’istanza presentata dall’avvocatessa Mara Ebano per conto dei denuncianti de La Destra per vagliare la documentazione proveniente da Santa Lucia che i solerti pubblici ministeri avevano invece bollato come «irrilevante». Ora non sappiamo se corrisponda al vero quel che minaccia Storace («in questo mese sarà possibile produrre ulteriore documentazione e Fini resterà indagato») ma è sicuro che da Montecarlo rischiano di uscire, a brevissimo, ulteriori rivelazioni sull’affaire immobiliare del Principato. Se saranno rilevanti per la decisione del gip è presto per dirlo. Di sicuro potrebbero avere una certa attinenza col filmato del Tg1 - preannunciato ieri dai ricorrenti contro la richiesta d’archiviazione - nel quale l’imprenditore italomonegasco Garzelli riferisce di aver ricevuto mandato direttamente dal principe Alberto di mettersi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Nell’intervista alla tv di Stato Garzelli parla dei suoi rapporti con Tulliani e con la sorella Elisabetta per la sistemazione dell’alloggio al 14 di rue Boulevard Charlotte, e rileva che in una telefonata il cognato più famoso d’Italia gli disse che il giorno prima Fini e la compagna erano stati a Montecarlo e si erano lamentati per aver trovato la casa non abitabile. Se le cose stanno come le racconta Garzelli, siamo di fronte a un altro testimone che smentisce Fini sulla sua presenza a Montecarlo.

Da Mani pulite alla galera per gli indagati. Quando invocava la forca giustizialista. La nemesi dell'ex Msi che tuonava contro i ladroni e faceva il moralizzatore, scrive Domenico Ferrara, Mercoledì 31/05/2017, su "Il Giornale". C'era un tempo in cui Gianfranco Fini sventolava le manette e faceva della moralizzazione politica il suo cavallo di battaglia. Erano gli anni di Mani Pulite. All'allora segretario del Msi bastava ascoltare la parola tangente o leggere di un avviso di garanzia per alzare l'indice e invocare le dimissioni, se non la galera. Qualche esempio? Quando il deputato repubblicano Antonio Del Pennino ricevette nel maggio del '92 un avviso di garanzia, Fini tuonò: «Il partito degli onesti perde colpi. Da oggi in poi, i repubblicani faranno bene a tacere sulla questione morale. Deve finire questa moda dell'autocensura di chi è accusato. Troppo spesso diventa un alibi per sfuggire all'autocritica. È molto meglio l'auto-arresto». Insomma, Fini era più dipietrista di Di Pietro, tanto da chiedere le elezioni amministrative anticipate per dar vita proprio a una «lista Di Pietro» formata «con chi non vuol pagare le tangenti» e da sfilare in piazza imbracciando cartelloni contro i partiti finiti sotto accusa. All'epoca non c'era nessun «coglione», erano tutti ladri e corrotti. «Occorre mandare a casa il governissimo dei ladroni, il ladronissimo Dc-Psi-Pds che ha inquinato la pubblica amministrazione milanese», chiosava Fini. E quando Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool, avanzò la proposta di condono per chi fosse coinvolto nelle inchieste sulle tangenti, Fini intervenne dimostrandosi ancora più severo della toga aggiungendo una conditio sine qua non: «Le sanzioni pecuniarie devono riguardare anche i partiti e non i loro singoli esponenti coinvolti». È lo stesso Fini che predicava la forca giustizialista basandosi sui condizionali. Come fece con l'allora sindaco di Palermo Aldo Rizzo: «Ha predicato contro la mafia ma pare che facesse affari con personaggi al di sotto di ogni sospetto. L'Europeo documenta eloquentemente le compromissioni di Rizzo con mafiosi di sicura fede. Se non ci sono reati, emerge sicuramente un quadro di intrecci censurabile politicamente». O, giusto per fare un altro esempio, è lo stesso Fini che nel 1993, dopo il coinvolgimento nell'inchiesta tangenti del presidente dell'Olivetti, Carlo De Benedetti, chiese le dimissioni del direttore Eugenio Scalfari in quanto: «Come si fa a dirigere un quotidiano, tanto più moralista e moralizzatore come il suo, quando l'editore è implicato in prima persona nella questione morale, al pari di personaggi come Ligresti o altri?». Col passare del tempo la musica non è poi così cambiata. Fini ha continuato a sostenere che i politici dovessero dare il buon esempio; che bisognasse disprezzare chi rubava senza scadere però nell'antipolitica; che la lotta alla corruzione non dovesse essere a intermittenza e che non si dovessero candidare i condannati in primo grado. Al grido di «chi è indagato lasci gli incarichi di partito», Fini è stato giustizialista pure nella storia recente. Solo per citare alcuni dei casi più simbolici, ha chiesto le dimissioni di Denis Verdini dal partito quando era soltanto indagato. Lo stesso ha fatto con Nicola Cosentino, pretendendone le dimissioni anche da coordinatore campano del Pdl. Poi, sul caso di Alfonso Papa, quando Fini era presidente della Camera, fu accusato di essere un «cinico burocrate che cerca di ribaltare la maggioranza con espedienti infimi» per aver conteggiato Papa ai fini del numero legale nonostante fosse in carcere. Il moralizzatore adesso però è finito nello stesso tritacarne politico-giudiziario che invocava per gli altri. Una nemesi storica travestita da paradosso.

Da Napolitano a Saviano tutti i "complici" di Fini. Travaglio, Saviano, politici e industriali. Quelli che nel 2010 difesero Fini accusandoci di essere una "macchina del fango", ora chiedano scusa, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 31/05/2017, su "Il Giornale". Concorso esterno in riciclaggio, depistaggio, falso in scrittura pubblica e privata e calunnia, dovrebbero essere i reati morali e professionali da contestare ai non pochi colleghi e ai tanti politici ed esponenti delle istituzioni che in quella estate del 2010 e nei mesi successivi garantirono a priori sulla moralità di Gianfranco Fini e si scagliarono con violenza contro noi de il Giornale, inventori a loro dire di una macchinazione, la famigerata «macchina del fango», che attentava all'onorabilità dell'allora presidente della Camera su ordine di Silvio Berlusconi. La «casa di Montecarlo» non è solo una truffa di Fini e dei suoi amici mafiosi, come oggi appare in modo incontestabile dalle carte giudiziarie, ma è stata, cosa assai più grave, una gigantesca operazione di occultamento e mistificazione della verità a cui si sono prestati in tanti che oggi fanno finta di nulla. In primis i giornali. La Repubblica schierò il suo primo trombone (parlandone da vivo) Giuseppe D'Avanzo, che garantì su Fini e bollò noi come «assassini politici», che se oggi fosse vivo dovrebbe nascondersi; sul Fatto Quotidiano Travaglio scrisse tra le tante - un'articolessa dissacratoria del nostro lavoro intitolata «Il pistolino fumante» che a noi parve idiota allora ma che riletta oggi risulta invece tragica e dovrebbe portarlo a dimettersi dalla professione per manifesta incapacità. Non mancarono intellettuali e scrittori, che quando si tratta di sparare a vanvera abbondano. Saviano, sulla «macchina del fango» fece uno dei suoi monologhi moralisti al Festival internazionale di giornalismo di Perugia (sic), bissato in diretta tv dal suo amico Fabio Fazio a «Vieni via con me», che se ha usato la stessa arguzia e faciloneria nel giudicare noi e nello scrivere Gomorra è anche possibile che un giorno si scopra che la camorra non esiste. E poi i politici di ogni genere (ci furono molte incertezze anche nelle file del centrodestra), magistrati compiacenti che in poche settimane scagionarono Fini e istituzioni omertose, a partire dal presidente Napolitano che difese Fini e dopo pochi mesi scoprimmo il perché, con il primo tentativo di disarcionare Berlusconi per mano proprio dell'allora presidente della Camera. Non furono mesi facili. Fini era diventato una star. Non solo Santoro e compagnia lo elevarono da fascista a statista, ma persino un uomo libero come Enrico Mentana gli concesse la vetrina di un suo TgLa7 senza contraddittorio. Lui era lui, noi eravamo servi, killer, «macchina del fango» appunto. In tv era un inferno. Più che in uno studio televisivo era come salire su un ring, dove conduttori compiacenti davano libertà di menarti a gente come Italo Bocchino e Fabio Granata, gli onorevoli picchiatori di Fini finiti chi in storie di corruzione chi non si sa dove. Tra di loro ce n'era uno particolarmente attivo e viscido: Benedetto Della Vedova, uomo per tutte le stagioni (è passato con disinvoltura dai radicali ai fascisti, da Monti a Renzi) che da buon trasformista è tra i pochi di quella stagione ancora oggi in attività, addirittura sottosegretario del governo Gentiloni. Nessuno aveva stima di Fini, ma tutti sapevano che si era reso disponibile a tradire Berlusconi e a far cadere il governo di centrodestra. E allora addosso a noi, che svelando il caso di quella maledetta casa (innescato da una intuizione di Livio Caputo, collega di lungo corso al di sopra di ogni sospetto) avevamo senza ancora saperlo messo una zeppa nel diabolico piano. Per fermarci arruolarono, penso a sua insaputa, persino la presidentessa di Confindustria, Emma Marcegaglia, donna capace ma, almeno in quella occasione, un po' isterica. Le fecero credere riferendole una battuta scherzosa - che la «macchina del fango» del Giornale stesse puntando su di lei. Così una mattina all'alba io e il vicedirettore Nicola Porro ci ritrovammo in casa i carabinieri mandati dall'immancabile pm Woodcock: se non ci hanno arrestati c'è mancato un pelo. Gianfranco Fini chiamò subito donna Emma e per esprimerle tutta la sua solidarietà in quanto anche lei vittima de il Giornale e si premurò di farlo sapere. Il sapientone Travaglio subito spiegò in un lungo articolo che la Marcegaglia era stata critica con Berlusconi e per questo il Giornale si apprestava a punirla. Sentenza, la sua, disattesa da quella della magistratura ordinaria, che ci ha poi scagionato senza ombra di dubbio da qualsiasi sospetto. Sarà un caso, ma in quei giorni subii due intrusioni in casa da parte di ladri che non rubarono nulla. «Servizi segreti», mi suggerì un amico esperto del settore. Fermare il Giornale attraverso la calunnia era diventata una vera ossessione dell'articolato sistema politico-mediatico che aveva trovato il pollo antiberlusconiano e non voleva che nessuno lo spennasse prima del tempo. Cercarono, Fini e soci, di intimidirci con querele a raffica (una, storica, di Bocchino denunciava per stalking tutti i miei colleghi che lo avevano anche solo citato) e richieste di risarcimenti milionari. Ricordo che in quelle settimane Silvio Berlusconi mi disse, scherzando ma non troppo: state facendo un gran casino, il mio governo rischia di cadere più per colpa vostra che per mano di Fini. Perché ricordiamo tutto questo? Perché di Fini oggi a noi interessa poco. Ha pagato politicamente e pagherà il suo conto con la giustizia. Ha detto, per sviare e minimizzare: «Scusate, sono stato un coglione». Non ci basta per chiudere questa storia di cui siamo stati vittime. «Sono stato un coglione» lo dovrebbero dire a La Repubblica per conto di D'Avanzo, Travaglio, Saviano, Della Vedova e soci, Napolitano, la Marcegaglia e Woodcock, Santoro e Mentana, e tutti quelli che all'epoca indicarono noi come criminali. Perché i casi sono solo due: o coglione o complice. Terzo non dato.

La memoria sporca di Calabresi. Il direttore di "Repubblica" non ha preso bene che gli abbiamo ricordato la cantonata presa dal suo giornale su Fini, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 2/06/2017, su "Il Giornale". Mario Calabresi, direttore di La Repubblica, non ha preso bene che gli abbiamo ricordato la cantonata, per la penna di Giuseppe D'Avanzo, presa dal suo giornale ai tempi dello scandalo della casa di Montecarlo. Tra la nostra documentata inchiesta e le bugie di Fini, La Repubblica e D'Avanzo infangarono la prima e spacciarono per buone le seconde. Incapaci, complici, in malafede, ossessionati? Chi può dirlo. Ma la verità spesso irrita Calabresi, che ieri ha scritto un isterico corsivetto a difesa del suo eroe D'Avanzo (pace all'anima sua) rinnovando a me l'accusa di essere il capo della «macchina del fango». Si legga le carte dell'inchiesta su Fini - altro che fango - e si rassegni: D'Avanzo, e altri con lui, scrissero un mare di castronerie, cosa che peraltro non ci sorprese conoscendo i soggetti. E dire che Calabresi di fango dovrebbe intendersi, dirigendo un giornale di un gruppo che sul fango ha costruito la sua fortuna. Fin dall'inizio, con la famosa inchiesta-campagna stampa de L'Espresso che costrinse l'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone a dimettersi e che si rivelò poi la più grande bufala nella storia del giornalismo italiano. E che dire del fondatore di La Repubblica, Eugenio Scalfari, firmatario insieme a diversi colleghi del quotidiano stesso di un manifesto che infangò l'onorabilità di un commissario di polizia, tale Luigi Calabresi (storia che il direttore dovrebbe ben conoscere essendo il di lui figlio) al punto da provocarne l'assassinio? E che dire, in tempi più recenti, del fango con cui La Repubblica ha sommerso Silvio Berlusconi per un reato - il caso Ruby - che i tribunali hanno poi dichiarato «non sussistere» in maniera inequivocabile? Siccome Calabresi è circondato dal fango, immagina che ogni giornale sia così. E invece non è così: qui al Giornale non abbiamo mandanti morali o politici di assassinii, noi su Fini avevamo scritto il giusto (per difetto) così come sul caso Boffo non abbiamo ricevuto neppure una querela. Perché noi quando commettiamo anche un solo piccolo errore anche se non inficia la sostanza lo ammettiamo e chiediamo scusa. Siamo fatti così, e al mattino non abbiamo problemi a guardarci allo specchio. Noi.

Caro Scalfari, non puoi dare lezioni a nessuno, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 21/05/2017, su "Il Giornale". Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano la Repubblica, ieri sul suo giornale ha scritto un lungo (e noioso come sempre) articolo zeppo di insulti contro Vittorio Feltri e chi, come noi, sostiene che lui e tanti altri intellettuali e giornalisti furono, nel 1971, i mandanti morali e politici dell'omicidio del commissario Calabresi di cui in questi giorni cade l'anniversario. Firmarono un appello, questi fenomeni, che sapeva di condanna a morte, che infatti poco dopo fu eseguita dai compagni di Lotta continua. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, Scalfari scrive che noi siamo «ciarpame» e svela di avere recentemente chiesto personalmente scusa alla vedova Calabresi per quella sciagurata firma sull'appello del 1971. Questo mascalzone pensa insomma che l'omicidio Calabresi sia stato, e sia ancora oggi, un fatto privato tra lui e i familiari della vittima, come fanno i banditi comuni pentiti - spesso per convenienza processuale - dei loro «raptus». No Scalfari, quell'appello non fu un «raptus» ma la libera scelta di stare dalla parte sbagliata - come poi si è dimostrato - della storia e per di più in modo criminale. Che oggi diventa furbo, perché non vuole ammetterlo né pagare pegno. Per Scalfari il «ciarpame» siamo noi, che Calabresi lo avremmo difeso fisicamente se ne avessimo solo avuto la possibilità, non lui e i suoi amici killer. È incredibile come in questo Paese ci sia gente in galera per «concorso esterno in associazione mafiosa» e quelli che fecero «concorso esterno in associazione terroristica» l'abbiano sfangata e ancora oggi si permettano di pontificare e giudicare. Essere di sinistra è stato per troppo tempo un salvacondotto che ha fatto più danni che se lo avessimo concesso a Vallanzasca.

Ma adesso basta, Scalfari. Gente così dovrebbe togliersi di mezzo, ha perso su tutti i fronti. Questo giornale, per il coraggio e la visione, è stato fin dall'inizio dalla parte che la storia ha dimostrato essere quella corretta, non la Repubblica e l'utopia socialista che tanti danni ha fatto e continua a fare. Purtroppo sotto la regia di un direttore che porta lo stesso cognome del commissario Calabresi.

Prima lo ammazzano poi lo fanno santo al Corriere della Sera e dintorni, scrive Vittorio Feltri il 19 maggio 2017 su "Libro Quotidiano".  Di certo da quel mazzo furono pescati tutti gli assi che parteciparono alla fondazione della Repubblica. Oscuri professorini, da quella firma cavarono un balzo nella carriera accademica. Alla cerimonia non è venuto alcuno di costoro. Battendosi non dico il petto, ma almeno il doppiopetto. La vedova Gemma ha offerto il «perdono trovato grazie alla fede»: non c'era nessuno lì a cui darlo. In via Fatebenefratelli l'altro ieri si è così esaltata la persona della vittima, com'è buono e giusto. Le autorità e la famiglia erano commosse. C'è la proposta di fare Luigi beato. Auguri, ma di questo non intendo occuparmi. Temo anzi che l'esaltazione dell'eroe a martire cattolico sia persino un modo comodo per avvolgere di mistica religiosa un fatto atroce e barbarico, trasferendolo così quasi sul piano della mitologia salvifica, una specie di male necessario e in fondo benedetto da Dio (oltre che da Marx). Forse Calabresi sarà innalzato agli altari. In realtà qualcuno tra i suoi pugnalatori è già diventato beato, di più, è stato consacrato divo immortale delle arti e della cultura, grazie alla meticolosa dimenticanza della realtà storica in cui maturò quell'assassinio. La smemoratezza dei mandanti morali di quel delitto è diventata omertà, e lega con fili sottili e indicibili la classe intellettuale che ha ancora il possesso delle sorgenti della conoscenza storica e del giudizio politico sui fatti passati e recenti di questo Paese. Lo s'è visto molto bene alla morte di Umberto Eco, nume tutelare, con Eugenio Scalfari, della brigata di diffamatori del commissario Calabresi. Stetti zitto allora per non passare per un perturbatore di funerali, ma a cerimonia fresca pro­Calabresi ho una voglia esagerata di turbare questi santoni che s'innalzano a vicenda, da vivi e da morti. Erano stati, se ho contato bene, 757 coloro che con nome e cognome si misero in fila per sottoscrivere le tesi della sciùra più popolare dei salotti progressisti di Milano, la Camilla Cederna. 757 più un nome collettivo che ha aderito senza se e senza ma: il «Movimento nazionale dei giornalisti democratici» che prese in mano attraverso sue propaggini l'Ordine dei giornalisti e il sindacato con la corrente Rinnovamento, cui si oppose Walter Tobagi, fatto fuori pure lui. Erano tanti, dunque. Di essi pochissimi hanno chiesto pubblicamente scusa, dichiarando di vergognarsene. Che io sappia, sono Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana. Se ce n'è altri, sarò lieto di pubblicare nomi e fotografia. Torno a Eco. La morte di Eco è avvenuta nella serata dello scorso venerdì 19 febbraio. La domenica un supplemento speciale lo ha commemorato su Repubblica. L'articolo decisivo è stato quello di Eugenio Scalfari. Vi ha rievocato l'allegra baldoria notturna che caratterizzava quel gruppo di autentici capataz della cultura italiana: «Per qualche tempo fu perfino un rapporto di baldoria; quando lui veniva a Roma da Milano dove abitava o da Bologna dove insegnava, la sera ci trovavamo al piano bar di Amerigo dove dopo le dieci della sera c'era tutta l'intellighenzia della nostra sinistra, della quale Umberto faceva parte. E lì si chiacchierava, si beveva, si cantavano canzoni e si ballava fino alle due del mattino». Domanda: è in una di queste simpatiche serate che si stabilì che Calabresi andava additato come un torturatore e lasciato in mano alla giustizia popolare? È antipatico fare i nomi dei pezzi grossi della simpatica masnada. Si fa prima a dire chi non c'era. Indro Montanelli ed Enzo Biagi. Neppure Giampaolo Pansa firmò. Il resto aderì. Mario Soldati, Dario Fo (ovvio), Federico Fellini, Gae Aulenti, Norberto Bobbio, Ferruccio Parri, Giancarlo Pajetta. Sono morti, e non hanno fatto a tempo a chiedere ­ che io sappia ­ scusa pubblica come pubblica fu l'accusa infame. Forza Scalfari, leader dei sopravvissuti, scrivi un manifesto da proporre ai firmatari di allora di sottoscrivere una semplice frase: abbiamo sbagliato, domandiamo perdono. Senza una rivisitazione critica e onesta di quel periodo terrificante, durante il quale furono seminati terrorismo e discriminazione ideologica, questa Italia resterà un povero Paese. Dunque, rassegniamoci, lo resterà per saecula saeculorum.

Il commissario Calabresi e quella firma del 1971. Era un periodo molto agitato della vita italiana, politica, economica e sociale: l’inizio di queste tristi e lunghe vicende cominciò con la strage di piazza Fontana a Milano, scrive Eugenio Scalfari il 20 maggio 2017 su "La Repubblica". Agli attacchi che da qualche tempo si moltiplicano nei miei confronti da parte di Vittorio Feltri sul suo giornale che si chiama " Libero" non ho mai risposto. Si tratta di puro teppismo giornalistico che non merita né querele per diffamazione né calunnie; forse ci sarebbero gli estremi ma è tempo perso per la magistratura e per l'offeso di rivalersi contro questo ciarpame. Nessuna somiglianza con il "Foglio" di Claudio Cerasa: sarebbe come mettere sullo stesso piano un buon giornalismo polemico con il teppismo e quindi due cose del tutto differenti. Ieri però mi ha chiamato in causa, a due giorni dal 45esimo anniversario della morte del commissario Calabresi, ricordando il manifesto pubblicato dall'Espresso nel 1971. Nel caso in questione sento il dovere di ricordare il tema e di aggiungere qualcosa che fino ad oggi era rimasto un fatto privato, non per rispondere a lui ma per chiarire una vicenda che coinvolse in qualche modo l'Italia democratica (e anche quella antidemocratica). Era un periodo molto agitato della vita italiana. Quella politica, quella economica, quella sociale. Eravamo nella seconda metà degli anni Sessanta e quell'agitazione, cambiando spesso segno e misura, durò fino alla metà degli anni Ottanta, culminando con il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978. L'inizio di queste tristi e lunghe vicende cominciò con la strage di piazza Fontana a Milano, quando una bomba piazzata all'interno della Banca dell'Agricoltura uccise 17 persone e provocò il ferimento di molte decine di impiegati e di clienti. Era il 12 dicembre del 1969. La magistratura aprì immediatamente un'inchiesta e un'analoga indagine fu portata avanti dalla polizia. Tra gli investigatori c'era il commissario Luigi Calabresi, noto per la sua efficienza nel mantenimento dell'ordine pubblico e per la sua attenzione a non turbare ed anzi possibilmente a tranquillizzare i vari ceti che operavano nella città: il proletariato delle fabbriche, la borghesia delle professioni, degli affari, delle banche, e infine l'immigrazione dalle campagne meridionali che in quegli anni ancora continuava creando frizioni evidenti. Calabresi era molto attento a gestire un ordine pubblico che fosse in qualche modo al servizio dei vari ceti, distribuiti anche territorialmente in zone diverse. Quando si aprì il problema della strage in piazza Fontana Calabresi tentò in tutti i modi e avvalendosi anche dei vari "confidenti" della polizia di trovare una traccia criminale, gli autori di quell'accaduto che non aveva precedenti. Questa indagine dette pochissimi frutti, anzi quasi nessuno, tant'è che polizia e magistratura si orientarono in un certo senso ideologicamente: da un lato aprirono indagini verso gruppi ben noti di neofascisti, ma dall'altro puntarono sugli anarchici di cui c'era abbondanza anche perché si distinguevano nettamente in due parti non contrapposte ma profondamente diverse: una che non disdegnava di praticare violenza e l'altra che si limitava a predicare le tesi politiche dell'anarchia. Tuttavia la parte violenta degli anarchici non aveva mai infierito contro la popolazione anonima, com'era accaduto alla Banca dell'Agricoltura. I suoi obiettivi semmai erano persone molto potenti. Così agivano certi anarchici non solo in Italia ma anche in Europa e in altri paesi: il regicidio. E così era stato ucciso Umberto I re d'Italia e qualche anno dopo a Sarajevo uno dei nipoti dell'imperatore d'Austria scatenando in quel caso addirittura la prima guerra mondiale 1914-18. Niente di simile a piazza Fontana. Lì si era colpita proprio la popolazione civile il che dimostrava un puro desiderio di spargere sangue per aumentare la tensione sociale. Furono arrestati parecchi anarchici tra i quali un ferroviere che si chiamava Giuseppe Pinelli. Lui la violenza non l'aveva mai praticata ed anzi l'aveva esclusa dalle sue idee. Predicava l'anarchia e la predicava con grande efficacia tanto che era diventato uno dei dirigenti o per lo meno una personalità a cui tutti gli altri guardavano, anche molti che anarchici non erano ma facevano parte di schieramenti politici di sinistra. L'arresto era comprensibile ma non dette alcun risultato, anzi ne dette uno sommamente tragico per le persone coinvolte a cominciare dallo stesso Pinelli. Era stato fermato e trattenuto per tre giorni nella Questura che aveva la sua sede in via Fatebenefratelli. L'interrogatorio al quale era presente anche Calabresi fu molto duro anche se nelle testimonianze emerse che il commissario non praticò mai la violenza. Non si arrivava però ad alcun risultato perché Pinelli negava di aver commesso o organizzato o comunque simpatizzato verso le bombe di piazza Fontana; al contrario condannava quel tipo di azione che aveva privato della vita molte persone, appunto impiegati o clienti, di cui si ignoravano le idee politiche e persino lo stato sociale. L'interrogatorio comunque continuava perché in questi casi uno degli elementi che può cogliere qualche notizia dall'interrogato si sposa con la stanchezza e mentre i poliziotti si avvicendavano ed erano quindi freschi e riposati Pinelli era ormai straziato da ore e ore di interrogatorio. Ad un certo punto Calabresi fu chiamato dal Questore il quale aveva urgente bisogno di parlargli e lo aspettava nel suo studio. Il commissario andò nella stanza del Questore mentre l'interrogatorio continuò senza di lui. Ad un certo punto Pinelli cadde dalla finestra della stanza situata al quarto piano e morì prima di arrivare in ospedale. La Polizia parlò di suicidio, la piazza di omicidio, la magistratura stabilì che era caduto per un malore. Naturalmente l'effetto sulla cittadinanza di quanto era accaduto fu enorme e ancora più enorme fu quello esercitato sulla politica e in particolare su quella di sinistra: i comunisti, i socialisti, il partito d'azione, i repubblicani, insomma la sinistra e il centro sinistra. Venne l'idea di fare una grande manifestazione popolare per le strade della città, ma le strade erano state ovviamente tutte bloccate e impedite dalla polizia e quindi una manifestazione del genere era improponibile. Si passò allora all'idea di stilare un documento di denuncia e di farlo circolare su tutti i giornali e le agenzie di informazione. Più avanti, era ormai il 1971 e si stava tenendo il processo per la morte di Pinelli, fu stilato un testo, fu discusso da un gruppo del quale anch'io facevo parte (ero deputato alla Camera dal 1968 e lo rimasi fino al '72) e nel finale di quel documento c'era scritto che in attesa della fine del lavoro della magistratura, il primo atto di riparazione morale avrebbe dovuto essere l'allontanamento del commissario Calabresi dalla sua sede di lavoro. Non ricordo più tutte le firme ma ricordo che erano alcune centinaia di persone tra le quali Rossana Rossanda, Umberto Eco, e gli esponenti intellettuali di tutti quei settori che ho sopra ricordato. Passarono alcune settimane. Calabresi non fu trasferito né lo voleva e cominciò una campagna sempre più violenta contro di lui, che culminò con il suo omicidio. In quel periodo cercai un colloquio con Calabresi, ma non riuscii a parlargli. Era stremato dalla situazione e non sovrapponeva al suo lavoro altri incontri inutili. Cercandolo ebbi modo di parlare brevemente con la moglie, molto più giovane di lui, la signora Gemma, la quale mi colpì per la sua gentilezza. Il commissario fu ucciso l'anno dopo, il 17 maggio del 1972, a soli 35 anni. Ma la storia non finisce qui. Esattamente dieci anni fa, era il 16 maggio del 2007, ho rivisto la signora Gemma. L'allora sindaco di Roma Walter Veltroni aveva deciso di intitolare una via all'interno di Villa Torlonia a Luigi Calabresi. Decisi di partecipare e solo quando la cerimonia si fu conclusa la avvicinai, le chiesi se potevo abbracciarla e lei accettò, poi le dissi che ero andato lì per fare pace con la storia. Allora parlammo brevemente dei fatti del passato, del manifesto e delle firme, le dissi che quella firma era stata un errore. Lei accettò le mie scuse e si commosse. Per il resto parlammo del lavoro del figlio Mario che allora era corrispondente di Repubblica da New York e che ora, da oltre un anno, dirige questo giornale.

L’assalto dei nani contro Eugenio Scalfari, scrive Piero Sansonetti il 23 Maggio 2017, su "Il Dubbio". Perché il fondatore di Repubblica, un uomo che ha discusso di politica e di economia con Togliatti ed Einaudi, con Fanfani e Moro e Berlinguer, con Nenni, La Malfa, Craxi e Riccardo Lombardi deve essere costretto a subire gli attacchi volgari di giornalisti come Feltri e Travaglio? Non ho mai avuto simpatia per Eugenio Scalfari. Un po’ perché la sua è un figura altezzosa. Un po’ perché, politicamente, è sempre stato espressione di un pezzo di sinistra abbastanza lontana dalla sinistra che piaceva a me. Una volta – quando ero giovane, una trentina di anni fa – rifiutai persino una sua proposta di andare a lavorare a Repubblica. Perché mi sentivo lontano dal suo modo di pensare, di essere borghese. Trovo francamente fuori da ogni misura della realtà, e anche volgari, gli attacchi che sempre più spesso gli vengono rivolti da giornalisti molto più giovani e molto molto meno dotati e meno autorevoli di lui. Lo accusano di oscillazioni politiche, oppure lo accusano di essere renziano, oppure gli rinfacciano di aver fatto parte della intellettualità progressista degli anni sessanta. Alcuni di loro, per esempio Travaglio, evidentemente lo fanno non conoscendo bene la sua storia, per colpa delle loro giovane età e per lacune di studio. Altri, per esempio Vittorio Feltri, lo fanno fingendo di non conoscerla. E bastonano, bastonano. Bastonano il vecchio intellettuale liberale – per fortuna solo virtualmente – un po’ come i fascisti facevano – realmente – con Amendola, o con Gobetti, o con Rosselli. Mi chiedo come si fa ad accusare di renzismo (seppure questo fosse un reato) un signore che da circa 70 anni è al vertice del giornalismo italiano, che ha interpretato ai massimi livelli il pensiero laico e liberale, che ha discusso di politica e di economia con Togliatti ed Einaudi, con Fanfani e Moro e Berlinguer, con Nenni, La Malfa, Craxi e Riccardo Lombardi. E che ha diretto e fondato il più importante e anticonformista settimanale italiano e il più innovativo e prestigioso quotidiano del dopoguerra. Eugenio Scalfari, nella sua vita, e anche nella sua lunga carriera di osservatore politico – certo – ha commesso un numero notevole di errori. La sua continua ricerca di una sponda riformista nel mondo politico ha dato quasi sempre pessimi risultati, per colpa sua o per colpa della sponda. De Mita, Occhetto, Prodi. Ma non credo che nessuno possa negare che egli sia un colosso del giornalismo italiano. Nel dopoguerra non mi pare che esista no altre figure della sua statura, a parte, forse (ripeto: forse), quella di Indro Montanelli. L’ultimo attacco gli è venuto da Vittorio Feltri, il quale lo ha accusato di essere stato tra coloro che sottoposero a linciaggio morale il commissario di polizia Luigi Calabresi, nel 1971, e quindi di portare sulle proprie spalle la responsabilità morale per la sua uccisione (avvenuta nel maggio dell’anno successivo). E gli ha ingiunto di chiedere scusa pubblicamente. Scalfari ha già risposto, su Repubblica, con un articolo per niente reticente, molto sereno e anche dolce (dote inconsueta per lui) che smonta l’assalto di Feltri. Non c’è molto altro da aggiungere a questa polemica. Però forse c’è da fare qualche riflessione ulteriore per cercare di capire perché Eugenio Scalfari è diventato il bersaglio preferito dei giornali della destra e non solo della destra (compreso Il Fatto). Sento in questa aggressione tutta la forza e lo spirito di sopraffazione del moderno giornalismo, che si è sostituito al vecchio giornalismo, e lo disprezza, e vuole cancellarlo, e per cancellarlo tende a demolire i pochi simboli che sono rimasti. Il nuovo giornalismo – quello inventato da Vittorio Feltri un quarto di secolo fa, e che poi ha avuto molti seguaci, tra i quali il più noto è sicuramente Travaglio – è fondato non sulle idee, né tantomeno sulla ricerca dell’informazione, della descrizione, del racconto. Non tiene in nessuna considerazione l’aspirazione alla verità. Considera l’oggettività una dote degli imbelli, dei paurosi. E fonda se stesso solo sulla ricerca ossessiva di un avversario, della colpa dell’avversario, della maledizione dell’avversario, della punizione, della demolizione, dell’umiliazione. Perché immagina – forse con qualche ragione – che questa sia l’unica via per conquistare il favore del lettore, per prendere possesso dei suoi sentimenti – accarezzandoli, blandendoli, oppure incattivendoli – e quindi per assicurare una platea a una attività che altrimenti rischia l’isolamento e la sconfitta. Il nuovo giornalismo ha escluso la possibilità di ricostruire una informazione di qualità. Dove le diverse posizioni si confrontino e lottino tra loro, e non si scontrino in una battaglia giudiziaria e di mostrificazione. Ha escluso il valore della verità. Ha abolito strumenti – una volta essenziali – come la verifica della notizia, il ragionamento sulla notizia, l’inchiesta, la ricerca, l’anticonformismo. Tutti elementi che ormai vengono considerati come impicci pericolosi. In parte anche per ragioni economiche. Verificare, studiare, indagare: costa. Richiede risorse umane molto grandi. Gli editori non vogliono. Vogliono la notizia subito, a due lire. Se c’è qualcuno, per esempio un po’ di Pm, disposto a fornirla, evviva i Pm. Succede così che una volta avevamo Scalfari, e Montanelli, e Pintor, e Reichlin, e Biagi, e Valli, e Mo, Colombo, Levi, Casalegno, Tobagi, Pansa, Bocca: ora ci restano solo il ghigno avvelenato di Travaglio e le frecce di Feltri. Una volta c’era l’inviato che passava un mese ai cancelli della Fiat, o a Gibellina, e poi scriveva un’inchiesta in tre puntate. Ora c’è Marco Lillo che passa un paio d’ore davanti alla porta di un carabiniere o di un Pm, e poi consegna al suo direttore quattro presunti scoop già pronti. Una volta un buon giornalista doveva saper scrivere. Ora deve sapere trascrivere. Mi ricordo che una trentina d’anni fa il giornale per il quale lavoravo, l’Unità, prese una gran cantonata: diede retta a un documento falso, che gli fu consegnato da un confidente della polizia o forse dei servizi segreti, e lo pubblicò. In questo documento c’era scritto che il ministro Scotti era stato in carcere a trattare con Raffaele Cutolo, boss della camorra, la liberazione di un assessore democristiano che si chiamava Ciro Cirillo e che era stato rapito dalle Brigate Rosse. Ci volle poco, nei giorni successivi, dopo le proteste indignate di Scotti e della Dc, per capire che il documento era falso. Si dimisero il direttore dell’Unità, il vicedirettore e il redattore- capo. E si dimise anche il vicesegretario – di fatto – del Pci, che era solo il partito editore. Il capo dei deputati comunisti si alzò nell’aula di Montecitorio e prese la parola per chiedere scusa. Si chiamava Giorgio Napolitano. Dare una notizia falsa, allora, era una cosa gravissima, quasi una vergogna per un giornalista. Di solito rovinava una carriera. Ora, tra le altre varie bufale, ci troviamo di fronte a giornali che hanno condotto una campagna di giorni e giorni sulla base di un documento falso, prodotto da un carabiniere ora inquisito, che accusava il padre del premier dell’epoca – e cioè Renzi – di avere incontrato l’ex parlamentare Bocchino per conto dell’imprenditore Romeo. Si suppone, a fini di corruzione. Quando si è scoperto che era una balla confezionata apposta o per errore, non solo non si è dimesso nessuno, ma si è moltiplicata la campagna, si è dato fondo alle intercettazioni illegali, si è giunti fino all’abominio – per qualunque liberale, anche leggermente liberale… – di pubblicare le intercettazioni del colloquio tra un avvocato e il suo assistito. È questo il nuovo giornalismo? A questo dobbiamo adeguarci? Bisogna chinare il capo perché è la modernità? Se proprio devo chinare il capo, preferisco farlo per dare omaggio al vecchio, indomito, saccente e insopportabile Eugenio Scalfari.

Vittorio Feltri il 21 Maggio 2017 su "Libero Quotidiano" risponde a Scalfari sul manifesto contro Luigi Calabresi: "Sarò teppista, ma so ancora distinguere gli errori e i crimini". Sarò un teppista, come mi definisce Eugenio Scalfari, ma mi sono preso la soddisfazione di svegliare l'elefante. Negli ultimi anni, nella sua omelia domenicale, aveva tenuto una corrispondenza solo con il Papa, con barriti flautati e grati, dato che il collega di prediche pare gli avesse garantito che non esiste il peccato. Mi sono permesso di sventolargliene uno sopra la proboscide, antico ma rinfrescato da recentissime cerimonie, e il pachiderma si è imbufalito (non so se si possa dire così, ma rende l'idea). Lascio perdere le villanie e le sgrammaticature, che scuso per l'età e perché la questione non è personale, e vado al sodo. A cosa debbo l'onore della barbuta reprimenda? A un articolo che qui, facendo crescere la barba anche a voi, sintetizzo. La cerimonia del 45° anniversario dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi ha rilanciato l'idea di promuoverne la beatificazione. Tutti d' accordo: è stato un martire. Lo sostengono anche quelli che gli hanno confezionato, mentre era vivo, la bara. Dal gregge di pecore (ma cachemire, beninteso) che isolò Calabresi e lo gettò in pasto al commando di Lotta Continua non si è levato non dico un grido, ma neanche un belato traducibile in mea culpa. Siccome sono uno che fa nomi, li ho fatti. Nessun lavorio dietro le quinte, nessun verbale coperto da segreto: carta pubblica, stampata, a gran tiratura. Nel 1971 uscì non una sola volta ma per alcune settimane il manifesto dell'Espresso firmato da 800 personaggi della crème di sinistra, e i cui capi intoccabili erano Umberto Eco ed Eugenio Scalfari. Sotto il titolo "Colpi di karatè" si indicava nel "commissario torturatore" il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, un anarchico in stato di fermo dopo la strage di Piazza Fontana. Ho anche citato due signori che hanno avuto il coraggio di battersi il petto davanti a tutti per quel mandato morale di omicidio, Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana. E ho concluso che l'Italia sarà un povero Paese finché non si avrà il coraggio della verità. Di quegli 800 nessuno ha pagato alcun prezzo di carriera o di immagine. Ci sia un gesto, un piccolo gesto, che costa pochissimo, ma vale moltissimo per dare magari persino un insegnamento alle giovani generazioni, ma anche a quelle anziane e ancora silenti. Forza Eugenio. Questo ho scritto più o meno, con altre parole per non farmi pagare due volte lo stesso articolo. Dinanzi a questa richiesta scritta persino in italiano corrente, Scalfari ha emesso una gigantesca pomposa pernacchia. Ma la dirige contro se stesso. Mostra infatti di avere ottima memoria e conferma di essere stato allora e di essere oggi un uomo di potere, tale e quale. Egli ricostruisce il momento in cui stese quel manifesto anti-Calabresi insieme ai pezzi grossi della cultura italiana. Sostiene che era un suo dovere, ci era tenuto in quanto a quel tempo era deputato socialista. La piazza fremeva, i "ceti" (scrive così) si ribellavano. E loro diedero indirizzo all' ira, quello di Calabresi. Ma non volevano fosse ammazzato, bensì semplicemente trasferito. Se è per questo ci riuscirono, fu spedito all' altro mondo. L' accusa dei colpi di karatè, quella di essere un torturatore? Scalfari non lo dice, se l'è scordato. Fu quasi un modo per proteggerlo, lascia capire, dalla giusta furia del proletariato. Scalfari rivela che nel 2007, cioè 36 anni dopo, abbracciò la vedova Gemma Calabresi partecipando con Walter Veltroni alla intestazione di una strada di Roma al commissario. Alla signora «dissi che quella firma era stata un errore». Del resto il figlio Mario - ricorda - era corrispondente da New York della "sua" Repubblica, e oggi ne è il direttore. Insomma. Ha aspettato qualche decina d' anni per confessare in privato un "errore", un onesto errore; ma ha dato lavoro al figlio, il quale ha fatto carriera, che si vuole di più da lui? Grande è il potere della menzogna. A questo punto mi consenta Scalfari di rubargli l'arte delle citazioni specialmente francesi. Questa frase è di Joseph Fouché, ministro di polizia di Napoleone durante il primo impero, commentando la fucilazione del duca di Enghien: «È peggio di un crimine, è un errore». Per Scalfari, che vede la storia dal suo balcone, dove laggiù sullo squallido suolo le formichine uccidono e muoiono, è stato un errore. Per noi, che siamo gente volgare, siamo teppisti, è peggio il crimine. E quel manifesto fu un crimine. Di Vittorio Feltri

Tutte le ultime baruffe di carta fra Scalfari, de Bortoli, Feltri e Cerasa, scrive Francesco Damato su "Formiche.net" il 20 maggio 2017. Il Foglio è notoriamente un giornale che supplisce alle poche copie vendute con la fantasia del fondatore Giuliano Ferrara, fra le altre cose ex ministro per i rapporti col Parlamento, nella ormai lontana stagione dell’esordio politico dell’amico Silvio Berlusconi. Una fantasia, quella di Ferrara, brillante, prolifera e mai inosservata perché il suo giornale, oltre ad arrivare nelle edicole, con le incognite e gli inconvenienti di un mercato un po’ avaro con tutti i quotidiani, è diffuso con le rassegne stampa negli ambienti che contano, fra quelli che l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, di cui tornerò a scrivere, chiama “i poteri forti, o quasi”. Poteri, per esempio, come quelli di Carlo De Benedetti e di Eugenio Scalfari, rispettivamente editore e fondatore di Repubblica. Si sa quanto sia difficile di gusti Scalfari, intervenuto pochi giorni fa a bacchettare e un po’ a dileggiare Claudio Cerasa, subentrato da qualche tempo a Giulianone nella direzione del giornale e azzardatosi a strappare a Matteo Renzi la prima intervista come risegretario del Pd, precedendo Repubblica. Ma per una questione personale, di cui vi dirò più avanti, il buon Scalfari ne ha appena tessuto gli elogi confrontandolo col “teppista” Vittorio Feltri, di Libero. Da qualche tempo tuttavia Il Foglio non è più soltanto un giornale. Sembra diventato una specie di sala parto di quel grande ospedale dove è ricoverata la politica italiana. In questa sala parto si cerca affannosamente, ogni volta che la politica offre un emergente, quello che Ferrara anni fa chiamò “royal baby”, inteso come erede del suo già ricordato amico Berlusconi. Dei cui anni che passano lo stesso Berlusconi non si accorge, ma Ferrara sì. Il primo royal baby del Foglio è stato notoriamente Matteo Renzi, con tanto di libro scritto dallo stesso Ferrara e più fortunato del suo quotidiano nelle vendite. Ma Renzi, per quanto risorto come segretario del suo partito dopo la mazzata invernale del referendum costituzionale, non ha più la brillantezza di una volta. Pertanto al Foglio hanno cominciato a cercare qualche altro baby da promuovere a royal. E Cerasa ha dato la sensazione di averlo trovato o intravisto in un sessantenne vigoroso e promettente, paragonandolo proprio a Berlusconi, di cui fu peraltro collaboratore da giovanissimo e potrebbe ripetere il percorso politico, se solo lo volesse. E’ Urbano Cairo, proprietario di una squadra di calcio, che il vecchio Berlusconi ora non ha più; di un giornale – addirittura il Corriere della Sera – altro che quello diretto da Alessandro Sallusti; e di una televisione. Che è la 7 e, pur non avendo gli ascolti delle tre reti del Biscione, fa più politica di tutte quelle messe insieme. E la fa in un modo che all’ex royal baby Renzi deve piacere sempre meno.

Ferruccio de Bortoli – vi ricordate? Vi avevo promesso che sarei tornato ad occuparmene ed eccomi qua – pubblica un libro che, volente o nolente, crea un bel po’ di problemi a Renzi, fra banche, massoneria e altro? E qual è la televisione che lo invita per prima a parlarne, avendo peraltro come spalla un Massimo Cacciari in grandissima forma? La 7 naturalmente, nello studio di Lilli Gruber, dove l’ex direttore del Corriere raccoglie e rilancia la minaccia della renziana sottosegretaria ed ex ministra Maria Elena Boschi, sfidandola a querelarlo davvero per averne rivelato un incontro politicamente galeotto con Federico Ghizzoni, quando questi era amministratore delegato di Unicredit e la Banca Etruria vice presieduta del papà della stessa Boschi ambiva ad essere acquistata, e salvata, proprio da Unicredit. Romano Prodi si fa intervistare da Repubblica mostrandosi assai scettico, se non contrario all’ipotesi che Renzi riconquisti la guida del governo, oltre alla segreteria del partito, e quale televisione lo chiama subito ad approfondire il tema cogliendo l’occasione anche per lanciarne un libro fresco di stampa? La 7, sempre nello studio di Lilli Gruber, che affonda continuamente il coltello nella piaga di Renzi possibile premier, contando sempre sul sorriso complice dell’ospite. La sera dopo quella birichina sempre o simil giovane Lilli, coetanea comunque del suo editore, chiama nel suo salotto un altro ex illustre: Walter Veltroni. Di cui la conduttrice deve presentare non un libro ma un film, dedicato ad un tema allettante come quello della felicità. Ma il tema principale della conversazione finisce -guarda caso- per diventare quello di Renzi e della sua ambizione, vera o presunta, a tornare anche a Palazzo Chigi, dopo essere rimasto al Nazareno. Il povero Walter, che peraltro ammette di avere votato alle primarie per Renzi, pur essendo quel giorno in viaggio -se non ho capito male- in Sudamerica, cerca più volte di sottrarsi all’assedio ma la Lilli non molla, anche a rischio di dimenticarsi del film. Che alla fine però arriva al pettine lo stesso, anche con la visione di qualche scena. Sbaglierò, ma l’impressione che ho ricavato è che la Gruber valuti personalmente l’ipotesi di Renzi di nuovo a Palazzo Chigi come Prodi, cioè male.

Vi avevo promesso che sarei tornato a scrivervi di Scalfari, che ha dato del “teppista” a Vittorio Feltri. Egli ha così reagito al rimprovero fattogli su Libero, in occasione del 45.mo anniversario – ahimè – dell’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi, vicino ora alla Beatificazione di Santa Romana Chiesa, di avere firmato l’anno prima del delitto un manifesto destinato ad eccitare ancora di più i malintenzionati di Lotta Continua. Dove accusavano il povero Calabresi, contro le stesse risultanze giudiziarie, di avere quanto meno contribuito nel 1969 alla mortale caduta da una finestra della Questura di Milano dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per la strage di Piazza Fontana. A parte l’insulto a Feltri, che un po’ – bisogna riconoscerlo – se la va a cercare con quel modo troppo urticante di scrivere e di titolare, Scalfari ha finalmente colto l’occasione per sciogliere un dubbio manifestato anche da me qui, su Formiche.net, quando egli non gradì quanto meno le modalità della nomina del figlio di Calabresi, Mario, a direttore della “sua” Repubblica. Dove peraltro Mario, prima di assumere la guida della Stampa, aveva lavorato con ruoli di rilievo, compreso quello di redattore capo. Scalfari ci ha ora rivelato di essersi pentito subito, sia pure solo in privato, della firma a quel manifesto, vista la strumentalizzazione cui si era prestato. Di avere inutilmente cercato di chiarirsi con lo stesso commissario, con cui tuttavia non riuscì a parlare, riuscendo invece con la moglie Gemma. Che incontrò personalmente nel 2007 nella via di Villa Torlonia appena dedicata alla memoria di suo marito, presente l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni, rinnovando le sue scuse e abbracciandola, entrambi commossi. Un abbraccio col quale Scalfari ha forse un po’ troppo enfaticamente scritto di avere ritenuto di “fare pace con la storia”. Ma se tutto questo lo avesse raccontato in occasione della nomina di Mario Calabresi a direttore della “sua” - ripeto – Repubblica, Scalfari non avrebbe fatto male. Nè avrebbe sbagliato ritirando quella maledetta firma pubblicamente, visto che il manifesto contro Calabresi fu a lungo riproposto dall’Espresso, e non solo, in ogni avversario della morte di Pinelli.

I due piombi di Calabresi, scrive Marcello Veneziani. Quest’anno il commissario Luigi Calabresi avrebbe compiuto ottant’anni. E invece all’età giovane di 35 anni, in un giorno di maggio, fu ucciso da un commando di Lotta Continua. È una ferita ancora aperta nella storia del nostro Paese anche perché vi fu una rete di complicità morali e intellettuali intorno a quell’assassinio che ancora scotta. Come ha dimostrato in questi giorni la polemica rovente tra Eugenio Scalfari, uno dei firmatari del manifesto contro Calabresi, e Vittorio Feltri, che glielo ricordava senza giri di parole. Quando ripenso ai primi anni settanta, ne ho un’immagine in bianco e nero come la tv del tempo; i maglioni dolcevita, le basette lunghe, la 500, le spranghe e le catene, i poliziotti, il sessantotto inacidito in terrorismo, la lotta politica che degradava nella lotta armata, le stragi. Quelle immagini, lievi e cruente, si compendiano tutte nel ritratto di Luigi Calabresi, commissario e martire negli anni di piombo. Ove per piombo s’intende non solo quello delle armi ma anche quello sotto le rotative. E che condannò Calabresi con una fatwa micidiale. Lo ricordo in bianco e nero, il commissario, con un dolcevita, le basette lunghe, lo sguardo fiero e mediterraneo, la sua cinquecento, tra i poliziotti; e poi le violenze di quegli anni, i cortei, gli insulti, il linciaggio a mezzo stampa, l’omicidio. Calabresi aveva il senso dello Stato, credeva al decoro delle istituzioni e alla dignità del suo ruolo, aveva la responsabilità di uomo d’ordine. Un’espressione antica, terribilmente demodé, le compendiava tutte: Servitore dello Stato. Così si definiva Luigi Calabresi. E a chi fa una smorfia d’insofferenza per un’espressione antiquata e retorica, ripensi con rispetto che a quella definizione Calabresi restò fedele fino alla morte. Inclusa. Tutto per 270 mila lire mensili, uno stipendio medio per quei tempi, che a Milano con famiglia a carico non consentiva una vita molto agiata. Un minimo decoro, però senza scialare. Ad aggravare il suo ritratto di uomo d’onore, vi era in Calabresi anche un fervente senso religioso. “Sono nelle mani di Dio” diceva. Anche per questo fu avviato il suo processo di beatificazione e fu proclamato servo di Dio. In un suo scritto, Calabresi criticava il degrado del senso civico e la riduzione delle aspettative di vita al successo, al sesso e al denaro. Era l’affiorare della società dei consumi; oggi dovremmo dire che Calabresi aveva visto sul nascere la barbarie benestante del nostro tempo, privo di valori. La borghesia cinica e miscredente muoveva allora i suoi primi passi. Sarà quella borghesia “illuminata” a partorire i radical chic e i salotti nemici di Calabresi. A lui fu data dal presidente Ciampi, con 32 anni di ritardo, la medaglia d’oro al valore civile. Un riconoscimento postumo, assai postumo, che si insinuava come una piccola parentesi nel fiume di parole, interventi, pressioni per concedere la grazia a Sofri e Bompressi. Nell’immaginario collettivo dei media, i martiri erano diventati loro, non Calabresi. Il caso Calabresi resta una ferita profonda nella storia civile e culturale d’Italia. Non possiamo dimenticare che si mobilitarono contro di lui, in un famigerato manifesto, i tre quarti della cultura e dell’intellighentia italiana. Ottocento firmatari, l’intero establishment culturale, accademico, editoriale e giornalistico italiano, ancora in auge, si schierò contro di lui, lo squalificò, lo delegittimò. Gettarono le basi per il suo assassinio, o perlomeno crearono un clima di ostilità favorevole alla “giustizia proletaria”. Non è il caso di rivangare con rancore quegli anni e quegli errori che mutarono in orrori. Ma quando si tratta di far la storia di quegli anni bisogna pur dirla la verità, bisogna pur ricordare la mobilitazione che collegò il partito armato al partito degli intellettuali, tramite l’estremismo politico e la sinistra intellettual-militante, in un girotondo nazionale da cui scappò più di un morto. Non capiremmo neanche la lobby continua in favore della scarcerazione di Bompressi e Sofri se non ricordassimo quelle ottocento firme. E se non ricordassimo la carriera folgorante di quel ceto di sessantottini arrabbiati che si raccolsero intorno a Lotta Continua. Belle intelligenze, ma all’epoca anche spietati radicali, feroci nel linguaggio e duri nei servizi d’ordine, teorici convinti che “uccidere un fascista (o un poliziotto) non è reato”; poi si disseminarono nella tv e nel giornalismo, nella sinistra ma anche nel centro-destra. Magari non capiremmo neanche la direzione de la Repubblica – covo di firmatari del manifesto anti-Calabresi – al figlio dello stesso Calabresi. Non è mai troppo tardi per ammettere: si, ci eravamo sbagliati, Calabresi era un galantuomo. Il furore di quegli anni ha oscurato la mente e inferocito gli animi, ma Calabresi fu uno dei pochi che lasciò a noi ragazzi degli anni settanta la residua speranza nello Stato, nell’amor patrio, la fedeltà alla propria missione. Quando sento parlare oggi di fedeltà alla Costituzione, vorrei ricordare che altri, come Calabresi, scontarono sulla propria pelle la fedeltà non a una carta, ma a uno stile, a una patria, a uno Stato. Che li mandava allo sbaraglio e poi si dimenticava di loro. Di lui mi resta viva un’immagine raccontata da Luciano Garibaldi: quella del Commissario Calabresi che passando con suo figlio ancora bambino, davanti alle scritte minacciose e infamanti contro di lui, “Calabresi assassino”, ha un sussulto di tragico e grottesco ottimismo, dicendo: meno male che lui non sa ancora leggere…Ma dopo, quando suo figlio ha capito chi era suo padre e chi erano i suoi nemici che lo volevano ammazzare, quando ha saputo leggere a rovescio quella scritta, non “Calabresi assassino” ma “assassino Calabresi”, mutando un sostantivo e un’accusa infami in un verbo e in una tragica minaccia, avrà ripensato a chi lo portava per mano per le vie di Milano e si sarà detto con commosso orgoglio: sì, quello era mio padre. Ma la storia di poi, come sapete, non andò proprio così…Il Tempo 26 maggio 2017.

Tutti gli strepitii giustizialisti contro Augusto Minzolini, scrive Francesco Damato su “Formiche.net” il 17 marzo 2017. Prima sono arrivati i 161 voti, per appello nominale, contro la sfiducia “individuale” reclamata dai senatori grillini per il ministro dello sport Luca Lotti, renziano di strettissima osservanza, indagato per violazione del segreto d’ufficio o istruttorio, da lui negato agli inquirenti, nell’inchiesta giudiziaria sugli appalti della Consip per gli acquisti miliardari della pubblica amministrazione. Poi, a distanza di meno di ventiquattro ore, sempre nell’aula del Senato, sono arrivati i 137 voti, anch’essi palesi, a favore del forzista Augusto Minzolini, sottratto alla decadenza da parlamentare proposta dalla competente giunta in applicazione della cosiddetta legge Severino, essendo stato condannato sette mesi fa in via definitiva a più di due anni -due anni e sei mesi- per peculato, anche su denuncia di Antonio Di Pietro. E di chi sennò? Peculato ai danni della Rai, dalla quale Minzolini dipendeva come direttore del Tg1 usando una carta di credito aziendale diventata poi oggetto di una lunga e contorta controversia amministrativa e infine giudiziaria, con verdetti opposti in primo e secondo grado. Un secondo grado, però, per quanto confermato dalla Cassazione, dove il giornalista e senatore si era imbattuto in un avversario politico, appena tornato a fare il giudice dopo una ventina d’anni di attività parlamentare, e anche di governo, tutti a sinistra. Mi pare di avervi raccontato tutto, sia pure per sommi capi: più comunque di quanto non abbia fatto con i suoi lettori, a grandissima sorpresa, Il Foglio del fondatore Giuliano Ferrara e del direttore Claudio Cerasa. Sulla cui prima pagina ho trovato solo sei righette di corpo millesimale sulla vicenda Minzolini nella rubrica La Giornata. Ma i colleghi avranno tempo, se vorranno, per recuperare, non foss’altro a causa delle scomposte, a dir poco, reazioni dei grillini e affini, convinti che non ci sarebbe da stupirsi se i loro elettori, simpatizzanti e quant’altri assaltassero i palazzi del potere per protesta contro il Senato e mettessero a ferro e a fuoco le piazze d’Italia. Dove -ahimè- può accadere anche questo senza che nessuno ne possa o debba poi rispondere, come dimostra la guerriglia appena praticata a Napoli contro l’ospite indesiderato Matteo Salvini, deriso dal sindaco della città Luigi de Magistris. Vi raccomando il de minuscolo perché spetta anagraficamente all’ex magistrato.

A guidare sul fronte mediatico la rivolta alla quale i grillini hanno garantito quanto meno la loro comprensione è naturalmente il direttore e co-fondatore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che non si dà pace delle delusioni procurategli dal Senato elettivo della Repubblica. Di cui lui nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale targata Renzi ha pur difeso strenuamente la sopravvivenza, accusando l’allora presidente del Consiglio di volerlo ridurre ad un dopolavoro dei troppo sputtanati - scusatemi la parolaccia - Consigli Regionali, dove non si riesce neppure più a contare i condannati e inquisiti per peculati, sperperi e varie. A fare saltare i sismografi degli umori nella redazione del Fatto Quotidiano e dintorni è stata anche la paura che, rotto col caso Minzolini l’incantesimo della legge Severino, e della sua applicazione curiosamente retroattiva, ne possa trarre presto beneficio anche Silvio Berlusconi, che di quella legge nell’autunno del 2013 rimase vittima con una votazione che lo espulse dal Senato. Il ricorso dell’ex presidente del Consiglio pendente da tempo davanti ad una Corte internazionale potrebbe ricevere una spinta decisiva proprio dal diverso verdetto, questa volta, dei senatori. Non si dà proprio pace, il povero Travaglio, del fatto che Minzolini non sia già decaduto automaticamente da senatore, che abbia invece continuato a riscuotere la sua indennità e a maturare la sua pensione, o come diavolo si chiama, per sette mesi dopo la sentenza definitiva di condanna, e possa continuare adesso, anche dimettendosi, come Augusto ha annunciato orgogliosamente di voler fare perché convinto di avere sostenuto una causa di principio, non di interesse. Travaglio si è fatto rapidamente i conti e si è accorto che nei nove o dieci mesi che mancano alla fine ordinaria di questa diciassettesima legislatura i senatori non avranno il tempo di accettare le dimissioni del loro collega con un voto a scrutinio, questa volta, rigorosamente segreto, e con la consuetudine maledettamente consolidata di respingerle la prima volta. Ah, sono proprio sfortunati questi afflitti da anticastite, nel senso di casta, fatta salva naturalmente la propria, perché di caste nel nostro Paese ce ne sono tantissime, al coperto di ordini, associazioni e quant’altro.

Se ne avesse avuto il tempo e lo spazio, forse Travaglio avrebbe completato con le loro fotine l’elenco pubblicato in prima pagina - tipo i manifesti dei ricercati nel far west- dei reprobi del gruppo Pd del Senato che hanno consentito a Minzolini di scampare alla decadenza. Un elenco però comprensivo sia dei 19 che hanno votato a favore del “pregiudicato”, avvalendosi della “libertà di coscienza” concessa dal capogruppo Luigi Zanda, sia dei 14 che si sono astenuti ma che di fatto, in base al regolamento di Palazzo Madama, si sono sostanzialmente aggiunti ai 35 che hanno votato contro. Neppure il modo di opporsi astenendosi, quindi, va bene ai grandi depositari della illibatezza morale e politica. Se la situazione non fosse drammaticamente seria, ci sarebbe da ridere. Ma a pochi giorni dal cambio naturale di stagione voglio sperare di festeggiare anche un cambio politico di stagione. Una rondine, si sa, non fa primavera. Ma due rondini, a distanza di poche ore l’una dall’altra, come sono stati i 161 voti a favore di Lotti e i 137 a favore di Minzolini, possono forse fare davvero primavera: quella del garantismo. E ciò alla faccia dei grillini, dei loro estimatori e persino del loro governo, che a Repubblica si sono appena avventurati a immaginare prevedendo il vice presidente della Camera Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, il suo amico-competitore Alessandro Di Battista, il Chè Guevara di Trastevere, al Viminale e l’ingegnere informatico Manlio Di Stefano, un palermitano eletto in Lombardia, alla Farnesina grazie al tirocinio in affari internazionali, diciamo così, fattosi in quattro anni frequentando la Commissione Esteri della Camera.

Pagina Facebook di Servizio Pubblico, 9 febbraio 2017 alle ore 19:59. Lettera aperta di Michele Santoro a Peter Gomez, direttore de ilfattoquotidiano.it. "Caro Peter Gomez, Vedo che hai sentito la necessità di correggere il tiro ma voglio lo stesso rivolgermi a te pubblicamente. Nella top ten delle frasi celebri penso che resti al primo posto quella di Stefano Ricucci, che bollava quelli che amano “fare i froci col culo degli altri”. Mi sembra che tu ora ne abbia varato una versione più casta: “Fare i moralisti col culo degli altri”. L’operazione della Stampa nei miei confronti (ma sarebbe più corretto dire, come si vedrà, nei confronti miei e de “Il Fatto”) è semplicemente vergognosa e rappresenta un insulto al giornalismo. Ma tu l’hai ripresa come se si trattasse di un personalissimo affare e non di un contratto con la Rai che porta la firma del tuo amministratore delegato, all’epoca anche amministratore della Zerostudio’s, e che riguarda non me come persona ma una società di cui il tuo giornale è socio al 48 percento. Ho sempre pensato che tu sia un giornalista vero e non uno Tze-Tze allenato a far girare la merda col ventilatore; perciò mi dedicherò all’impresa, temo inutile, di fornirti elementi seri per un giudizio. Prima di tutto occorre dire che la somma ormai famosa dei due milioni e settecentomila euro non è stata intascata ancora per intero da nessuno, come invece hai lasciato intendere nel tuo sito. Il pagamento avviene, infatti, a distanza di mesi dalla messa in onda, e la società deve anticipare tutti i pagamenti per il personale, le diarie e i servizi impiegati. Si riferisce a sei dirette di prima serata, a sei puntate di un reportage di Giulia Innocenzi e ad una serie di Sciuscià da rieditare, che comportano ulteriori turni di montaggio, mie presentazioni in studio, sonorizzazioni e missaggi. Tutto ciò è distribuito in un arco temporale molto vasto. Le puntate delle dirette sono molto distanti fra loro e dunque comportano costi raddoppiati, perché occorre ogni volta montare e smontare scenografie e luci. Anche i contratti dei redattori sono più lunghi di quelli che sarebbero necessari in una serie di trasmissioni programmate con cadenza settimanale. Non si tratta di un appalto ma di una fornitura “chiavi in mano”: la nostra società (e sottolineo nostra) deve provvedere a tutto ciò che è necessario alla messa in onda del programma, redazione, personale amministrativo, studio di registrazione, satelliti, regia; e siamo noi a farci carico delle spese legali che derivano dalla messa in onda dei nostri contenuti, con ulteriori costi. La Rai deve limitarsi a controllarne la qualità e ad autorizzare che si spinga un bottone per offrirli alla visione del pubblico. Posso garantirti che, prendendo come riferimento prodotti dello stesso tipo e applicando le stesse identiche valutazioni, si scoprirebbe che il costo di questi programmi è assolutamente in linea con il costo medio dei programmi simili del servizio pubblico. Usare l’espressione “compensi di Santoro” per definire questo tipo di contratto o addirittura quella di stipendio, come ha fatto la Stampa, è una corbelleria di cui un giornalista serio si dovrebbe semplicemente vergognare. La conclusione provvisoria è che non c’è nessuno scandalo; ma se uno scandalo esiste riguarda me quanto il tuo giornale, e se ci sono stati “compensi” sono stati anche per la società che edita il tuo giornale. Ma purtroppo per “Il Fatto”, per te e anche per me, nessuno di noi ha tratto guadagni dalle trasmissioni della Rai. Siamo stati così onesti da realizzare le quattro serate in perdita, e sottolineo in perdita, come chiunque potrà facilmente controllare scorrendo la nostra contabilità che, al contrario di certi spettacoli, fattura ogni cosa meticolosamente. Tempo fa ho chiesto a Grillo di mandare il suo fidato commercialista a fare un controllo. Non lo ha fatto perché è più comodo infangare senza fact checking, evitando di prendere atto di come stanno veramente le cose. I miei compensi non esistono. Da quasi due anni lavoro per tenere in piedi un gruppo che doveva servire a un progetto comune con “Il Fatto”, con regolari quanto rari contratti giornalistici. Ho accettato di fare queste trasmissioni prima di tutto per ricostruire un rapporto con la Rai, alla quale tengo molto e che continuo a considerare un bene essenziale per il Paese, ma anche perché erano compatibili con questo progetto. Ora tutti possono comprenderne il motivo. Ma di questi 2 milioni e settecentomila euro non ho preso e non prenderò per me un solo euro. Grillo non ha voluto verificare questa mia affermazione, ho chiesto al Direttore della Stampa di farlo, lo chiedo anche a te. C’è però Cinzia Monteverdi che è ancora presidente della Zerostudio’s e amministratore delegato de “Il Fatto”. Le chiederò di controllare i conti col microscopio e di pubblicare sul tuo sito un comunicato ufficiale in proposito. Anche se la inoppugnabile verità è questa: 1) Michele Santoro non ha percepito compensi né in forma diretta né in forma indiretta, né dalla Rai né da Zerostudio’s. 2) Zerostudio’s ha realizzato in perdita i programmi della Rai. Per il resto, lasciami concludere che una visione del mondo che non riconosce il valore degli altri, perfino quando le loro storie sono così intrecciate alla nostra da non poter emettere giudizi senza sentirci umanamente e moralmente coinvolti, non mi appartiene. Vedo che tu non hai paura di assomigliare a “Libero” e a “Il Giornale” che scrivono su di me quello che già scrivevano ai tempi di Berlusconi, ma se preferisci la loro compagnia alla mia dovresti almeno sentire la necessità di distinguerci separando definitivamente i nostri conti correnti. Almeno per evitare di cadere nel ridicolo. Michele Santoro".

IL PARTITO DELLE MANETTE SI SPACCA SUL BOTTINO. Giorgio Arnaboldi per "La Verità" l'11 febbraio 2017. Potremmo chiamarlo un regolamento di conti. Nel senso che il sasso che rotola dalla montagna con il compenso di Carlo Conti per condurre il festival di Sanremo ha provocato la valanga: altre rivelazioni, altri soldi a pioggia a firma Antonio Campo Dall' Orto e polemiche che con si fermano più alla sola Rai. Non è facile metabolizzare neppure i 2,7 milioni iscritti a bilancio alla voce Michele Santoro per 12 puntate di tre programmi giornalistici. Un rientro in Rai impalpabile nella memoria del telespettatore ma pesante per le casse dell'azienda pubblica, che ha fatto saltare sulla sedia anche i cronisti del Fatto Quotidiano, il suo giornale di riferimento, i quali, per nulla intimoriti dal suo ruolo di ispiratore, padre nobile e soprattutto azionista (lui possiede il 7% dell'editoriale e Il Fatto ha il 46,4% della sua società Zerostudio' s) hanno pubblicato la notizia sul sito. Per un sincero democratico rispettoso del ruolo della libera informazione come Santoro (in teoria), tutto ciò dovrebbe essere normale. Invece per un abile cesellatore di coscienze come Santoro (in pratica), tutto ciò normale non è. Infatti si è indignato per lesa maestà. Lo immaginiamo mentre si stupiva («Come osano?»), compreso nella parte come Eleonora Duse aggrappata alle tende, e si apprestava a scrivere l'estenuante post su Face book con il quale ha provato a inchiodare il direttore del sito del Fatto, Peter Gomez, alle sue responsabilità. Così si è scatenata una battaglia tutta interna alla sinistra legalitaria del giornalismo italiano, per una volta non tenuta insieme dal collante Berlusconi o dal bostik Renzi, ma libera di prendersi a schiaffi e specchio della sinistra italiana in politica, dove bastano tre per fare una scissione. Con una lecita forzatura da titolo potremmo dire che il partito delle manette litiga sui soldi. Sulla sua pagina dal nome Servizio pubblico, Santoro è andato giù pesante. «Nella top ten delle frasi celebri penso che resti al primo posto quella di Stefano Ricucci, che bollava quelli che amano "fare i froci col culo degli altri". Mi sembra che tu ora (si riferisce a Gomez, ndr) ne abbia varato una versione più casta: "Fare i moralisti col culo degli altri". L' operazione della Stampa (il giornale che per primo aveva rivelato i compensi Rai, ndr) nei miei confronti (ma sarebbe più corretto dire nei confronti miei e de Il Fatto) è semplicemente vergognosa e rappresenta un insulto al giornalismo. Ma tu l'hai ripresa come se si trattasse di un personalissimo affare e non di un contratto con la Rai che porta la firma del tuo amministratore delegato, all' epoca anche amministratore della Zerostudio' s, e che riguarda non me come persona ma una società di cui il tuo giornale è socio al 48%». Si intuisce un Santoro furibondo, del tutto sorpreso da quella che per il mondo è una notizia e per lui una pugnalata. Il che dimostra quanto sia facile fare i moralisti con i privilegi degli altri (anche questo ha qualcosa a che vedere con il filosofo situazionista Ricucci). Un Santoro che nel prosieguo del post spiega che i 2,7 milioni non li ha ancora incassati per intero, li ha dovuti anticipare a un nutrito staff per un lavoro in un arco temporale molto ampio, riguardano programmi «chiavi in mano» che hanno un costo in linea con altri simili. Quindi niente scandalo. Ma Michele è troppo arrabbiato per tirare il freno, così va lungo. «Se uno scandalo esiste riguarda me quanto il tuo giornale, e se ci sono stati "compensi" sono stati anche per la società che edita il tuo giornale. Ma purtroppo per Il Fatto, per te e anche per me, nessuno di noi ha tratto guadagni dalle trasmissioni della Rai. Siamo stati così onesti da realizzare le quattro serate in perdita, e sottolineo in perdita, come chiunque potrà facilmente controllare scorrendo la nostra contabilità che, al contrario di certi spettacoli, fattura ogni cosa meticolosamente». Travolto dalla disperazione, Michele Santoro fa sapere che la Rai non lo ha pagato, che i programmi erano in perdita e che 2,7 milioni di euro sono comunque evaporati dalle casse. Bel servizio pubblico. La risposta di Peter Gomez è fredda e lapidaria. «Caro Michele, in uno dei tanti turni della mattinata abbiamo ripreso le notizie sui compensi Rai. Nel tuo caso specificando non con sufficiente chiarezza che si trattava del compenso per Zerostudio (comunque citato). Appena ce ne siamo resi conto ci siamo doverosamente corretti. Sarebbe bastato un tuo sms per informarmi». Come dire che si può sbagliare in buona fede e che non è necessario suonare le trombe di Gerico al primo sussurro. Dopo una vita trascorsa col ditino alzato, Michele Santoro ha scoperto che c' è qualcuno più puro di lui. È il destino di chi sta sempre seduto dalla parte della ragione e non riesce a entrare in nulla tranne che nei propri comodi panni. Il rapporto fra lui e la squadra del Fatto Quotidiano vive un momento delicato, perché la polemica sul compenso va a sommarsi al diverbio sul referendum costituzionale. Santoro, sponsor di Renzi, non ebbe remore nel criticare Travaglio (paladino del No) tacciandolo di deriva grillina. «Trovo imbarazzante che tutto il Fatto Quotidiano, fin dentro ai necrologi, sia schierato per il No. È ridicolo. Trovo imbarazzante possedere delle quote di un giornale senza sfumature, che non ha dubbi». Mentre loro litigano, Berlusconi spolvera ridendo tutte le sedie della villa di Arcore.

GIUSTIZIA CAROGNA.

Io che mi occupo della prassi, ben conoscendo anche la legge e la sua personalistica applicazione corporativa (dei magistrati) e lobbistica (degli avvocati), posso dire che ci sono verità indicibili. Mai si dirà in convegni giudiziari o forensi che da un lato ci sono le misure di prevenzione (inefficienti ed inique perché mai al passo con i tempi ragionevoli del processo e spesso incongruenti con le risultanze processuali di assoluzione, vedi i Cavallotti) e dall’altra le confische (conseguenti a processi dubbi, vedi Francesco Cavallari, mafioso per associazione, ma senza sodali) ed i procedimenti fallimentari con le aste truccate. L’arbitrio dei magistrati sia in fase di misure cautelari e di prevenzione, sia in fase di confisca o di gestione e vendita dei beni confiscati o sequestrati (anche in sede civilistica con i fallimenti), non sono altro che strumenti di espropriazione illegale di aziende, spesso sane, per mantenere in modo vampiresco un sistema di potere, di cui i magistrati sono solo strumento, ma non beneficiari come lo sono il monopolio associativo di una certa antimafia o il sistema di gestione che è prevalentemente forense. Questo sistema è coperto dalla disinformazione dei media genuflessi a chi, dando vita alle liturgie antimafia, usufruisce dei vantaggi politici per generare ulteriore potere di restaurazione. Se a qualcuno interessa ho scritto un libro, “la mafia dell’antimafia”, sui benefici che si producono per fare antimafia. In più ho scritto “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”, che parla di usurpazione di beni privati a vantaggio di un sistema di potere insito nei palazzi di giustizia. Insomma: si toglie ai poveri per dare ai ricchi. E se qualcuno parla (come Pino Maniaci che “Muto deve stare”), scatta la ritorsione. Si badi bene: nessuno mi chiamerà per parlare di questo fenomeno, che è nazionale, in convegni organizzati nei fori giudiziari, né nessuna vittima pavida di questo fenomeno si prenderà la briga di divulgare queste verità, attraverso i miei saggi. Ecco perché si parlerà sempre di aria fritta e non ci sarà mai una rivoluzione che miri a ribaltare la prassi, più che a cambiare le norme.

De Rita: «Dove nasce l’odio? Nasce lì, nei giornali…». Intervista di Francesco Lo Dico del 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La riflessione sull’odio portata avanti dal nostro giornale, dopo l’iniziativa del Cnf per il G7 dell’avvocatura, continua con l’intervista al fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, che proprio di recente ha parlato della società del rancore. «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia, è un delinquente», amava ripetere Bertolt Brecht. Un adagio che ben si accompagna ai trombettieri delle fake news e ai mestatori in servizio permanente effettivo nelle sentine dei social. Dalla testata di Spada a Ostia alle testate che ogni giorno si abbattono, non meno spregevoli, sulla dignità di cose e persone, è stato un crescendo. L’onda anomala del disprezzo ha travolto istituzioni, ong, calciatori. Ma anche migranti, donne, star e politici stessi, al di là di ogni ragionevole dubbio, e spesso in direzione ostinata e contraria alla verità delle cose. Così che l’iniziativa lanciata a settembre dal Consiglio nazionale forense contro il linguaggio dell’odio, sembra aver assunto – di linciaggio in linciaggio – il carattere di una premonizione. Di quel clima violento segnalato tre mesi fa dal Cnf al G7 dell’avvocatura, e combattuto con vigore su queste pagine da autorevoli interlocutori, l’Italia del rancore descritta di recente dal Censis appare la cartina di tornasole. Tanto che Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Centro studi che da più di mezzo secolo racconta il Paese, tiene a riconoscere al Dubbio un impegno costante ma solitario. «È l’unico giornale italiano – sottolinea il sociologo – che combatte l’odio e la deriva giustizialista che trionfano invece sul resto dei quotidiani nazionali, a colpi di titoloni e mostri in prima pagina che durano il tempo di un giorno, servono a fare qualche spicciolo in più, ma rovinano per sempre la vita agli sfortunati protagonisti della gogna».

Presidente, perché l’Italia e i giornali che oggi ben la rappresentano, è diventata la terra del risentimento?

«Le ragioni che lo spiegano sono molteplici. Ma in primo luogo, si può ben dire che l’Italia del rancore descritta nel nostro rapporto è figlia di un incidente storicamente provato. Dopo aver garantito a milioni di persone prospettive di vita migliore negli anni 70, 80 e 90, il nostro ascensore sociale si è bloccato. Così che moltissimi italiani sono rimasti sospesi a mezza strada: non raggiungono il prestigio sociale che desiderano, non diventano qualcuno, e nonostante studi e sacrifici non hanno stipendi migliori né promozioni in vista. E questo li rende frustrati e risentiti: il rancore collettivo è il lutto per quel che non è stato».

Anche i lutti più dolorosi non durano per sempre: l’Italia può uscire dalla rabbia e dalla rassegnazione?

«Il ciclo formidabile che per cinquant’anni ha garantito al Paese un certo grado di benessere si è concluso. Di fronte alla crisi, l’eredità di quella stagione prospera ci ha consentito di resistere ma al prezzo di vedere congelata la nostra condizione. Da tempo siamo entrati in una fase transitoria, che può essere superata soltanto con un cambio di prospettiva deciso. Un nuovo paradigma in grado di rompere le molte inerzie che hanno fermato l’ascensore sociale: l’inerzia dell’economia sommersa, l’inerzia delle piccole e medie imprese, l’inerzia del ceto pubblico e dell’urbanizzazione della popolazione».

Eppure la ripresa economica, seppure di entità modesta, è stata finalmente riagganciata da un anno a questa parte. Perché ancora non riesce a tradursi in benefici concreti per la nostra società?

«È molto semplice: la nostra è una ripresa per pochi, trainata da pochi. Ne sono protagoniste alcune medie imprese manifatturiere, realtà di respiro internazionale legate alla logistica e industrie vocate all’export che hanno tirato a ritmo indiavolato anche grazie agli specifici incentivi dell’Industria 4.0. Ma in parallelo, è stato fatto molto poco per far ripartire le botteghe dietro l’angolo. Il mercato interno, decisivo per le sorti della maggioranza degli italiani, non ha ripreso slancio. Invece di prenderla di petto, la questione è stata presa di sguincio grazie ai bonus per casalinghe e dipendenti che non hanno funzionato: la maggior parte degli italiani, insomma, non è tornata a sorridere ed è perciò rimasta rancorosa».

È forse questo il limite che non ha premiato l’azione del governo Renzi. C’è un problema di errata percezione politica, dietro l’odio che alimenta la grancassa delle forze populiste?

«Il problema di questi ultimi anni è evidente. Prima di agire, chi governa dovrebbe capire quali sono le attese. Ma la politica ha fatto l’esatto contrario. Prima ha fatto gli interventi, e poi li ha comunicati nell’idea che, se venivano presentati bene, andassero incontro ai desideri della gente. Dire che hai dato tanti soldi ma che la campagna di comunicazione non ha funzionato, è un suicidio mediatico e intellettuale. Significa ammettere che dietro le misure non c’era una strategia lungimirante di rilancio, ma solo l’idea che per scatenare la ripresa dei consumi bastasse la propaganda».

E invece si è scatenata ancora di più la rabbia sociale che trova nel linguaggio dell’odio di Lega e Cinque Stelle.

«L’ascesa delle forze populiste non è recente. La forza del rancore si è accresciuta negli ultimi dieci anni, quando l’opinione pubblica ha scelto di montare sul cavallo dell’anti- casta, a prescindere da ragioni di appartenenza politica. Non si tratta più di attaccare la casta per motivazioni ideologiche come accadeva negli anni 50, o in funzione di una strategia economica come avveniva al tempo delle liberalizzazioni di Berlusconi e di Bersani. Contro la casta si è scatenato un odio cieco e totalizzante, che ha unificato i risentimenti di tutti gli indignati e ha fatto perdere di vista i veri problemi che alimentano l’insoddisfazione».

Dice quindi che chi oggi miete consensi sull’odio per gli avversari politici, per i migranti, per le riforme domani non sarà capace di placare al governo il risentimento sul quale hanno lucrato?

«Dico che fare politica in nome della semplice idea di abbattere i privilegi è inutile e illusorio: la storia insegna che abbattuta una casta, ne arriva subito un’altra. Il problema del Paese non è nella casta, ma nella classe dirigente che oggi è priva di professionalità e strategia, non ha il senso del futuro e non è all’altezza dei suoi compiti. Tolta di mezzo la casta, la classe dirigente resta quella che è. Ecco perché sostenevo poc’anzi che per uscire dalla spirale dell’odio occorre un ciclo, anche breve, di radicale rinnovamento».

E come si potrebbe, dato il generale scadimento che descrive?

«La politica non è un’arte. La politica è un mestieraccio. Ed è proprio degli odiati mestieranti che ha bisogno prima di tutto. Bisogna ridare spazio a chi ha fatto gavetta nei comuni e nelle sezioni di provincia, riaprire le porte a chi il mestiere lo conosce davvero. Ricordo ancora quello che gridava nelle stanze l’ex ministro Francesco Compagna: “Ladri li vogliamo, ma bravi!”».

È un tema che ci porta dritti a un’altra variazione sul tema dell’odio. Non è stata forse la furia giustizialista di Tangentopoli a innescare un simmetrico populismo penale che oggi dai tribunali irrompe sui giornali e sui social?

«Non sono, come è noto, un nemico dei giornali. Ma devo dire che ci sono ampie responsabilità dei giornalisti, dietro la cultura della politica poliziesca che ha scelto come agenda quotidiana il casellario giudiziario. Molti procuratori coltivano rapporti privilegiati con certa carta stampata, nella banale necessità di mostrare la sera, agli altri soci dei loro Rotary club, di aver fatto qualcosa di importante di cui sui giornali si parla in termini allarmanti. Ai giornalisti del Dubbio va tuttavia il mio attestato di stima: sono i paladini solitari di un’inversione di tendenza che richiede coraggio. Per ristabilire l’equilibrio di giudizio, occorre che i giornali si impongano di rinunciare a qualche copia, in nome di valutazioni più approfondite e intellettualmente oneste».

L’odio e la sproporzione sono dunque gli effetti collaterali di pure strategie commerciali, o c’è anche una matrice culturale dietro la deriva giustizialista?

«Quante volte leggiamo che Tizio rischia cinque anni di carcere, salvo poi svanire nel nulla il giorno dopo insieme alla storia allarmante di cui è il temibile protagonista? Il problema che affligge i nostri quotidiani è la smania del titolo, la logica pervasiva dell’evento. Lo aveva capito bene uno dei nuovi filosofi francesi, Jean Baudrillard. “L’evento – diceva – scava la fossa in cui verrà seppellito il giorno dopo”. Ed è proprio così. L’evento prende per un giorno tutto lo spazio possibile, poi il giorno dopo viene sepolto e nessuno se ne occupa più. Quella dei giornali è una catena di eventi che costruisce una storia evenemenziale, e cioè una storia fatta di eventi, che ha un’ottica parziale. La storia non è fatta solo di eventi. È fatta anche da processi lenti, commerciali, tecnologici, religiosi che nessuno sembra aver più voglia di indagare. È per questa ragione che in prima pagina non finiscono i fatti, ma le cose che hanno fatto “evento”. Per il giornalista è una tentazione, una coazione, quasi un obbligo. La necessità di “fare evento” alimenta ogni giorno nuovo risentimento: l’Italia del rancore».

L’Italia del rancore ha trovato nei social la sua più intensa e preoccupante bocca di fuoco: insulti e atti di sciacallaggio rivolti allo zimbello di turno diventano su Twitter trending topic, salvo poi scomparire nel nulla sostituiti da raffiche di mitra verso il prossimo obiettivo.

«Nel rapporto del Censis lo abbiamo scritto chiaramente: i social sono l’arena del rancore, il Colosseo del rancore, il circo equestre del rancore. Ma allo stesso tempo osservo che i tweet indignati scompaiono nel nulla dopo pochi minuti. In fondo milioni di cinguetti che spariscono ogni giorno indicano che non servono a niente e a nessuno, se non alla piattaforma che li ospita. Il problema vero non sono i social, ma la società che li popola. Che probabilmente, tweet dopo tweet comincerà a capire quali “eventi” vale davvero la pena discutere, e quali sono invece montati ad arte per fare discutere. Io credo che valga per i social la stessa parabola che ha accompagnato i talkshow: prima hanno spopolato, poi sono diventati marginali perché sono diventati noiosi. Tutti hanno capito che erano piccoli spettacoli da cui non usciva niente di utile per la società e la politica».

Spesso però escono dai palinsesti social cose false e molto dannose che arrecano danni duraturi e riescono a influenzare la politica stessa, come dimostra il caso delle ultime elezioni negli Stati Uniti. Che idea si è fatto delle fake news, che ormai convogliano molti rancori anche nella Penisola?

«È un fenomeno recente, di cui confesso di non essermi ancora fatto un’idea precisa. Sono però allo stesso tempo convinto che, da Biden a Renzi, l’argomento è stato finora trattato in modo confuso, e forse anche strumentale. Nutro per l’argomento delle bufale una certa resistenza psicologica. Ho il sospetto che, ancora una volta, quello delle fake news sia un “evento”, un argomento alla moda che come molti altri è destinato a finire nel nulla cosmico dei tweet perduti. Io credo che i social siano la patria del rancore, e che questa patria sia stata fondata dal “vaffa”. Ma credo anche che l’Italia del rancore non sia destinata a durare ancora per molto».

Nordio: «Così i magistrati hanno scalato il potere politico». Intervista di Giulia Merlo del 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". «A partire da Mani Pulite si è instaurato un intreccio perverso tra pm e stampa: i pm facevano filtrare notizie e in cambio ricevevano elogi. Oggi la conseguenza è che, servendosi di questo prestigio, molti sono entrati in politica». Chiaro e diretto, da sempre è considerato eretico dai suoi stessi colleghi. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, analizza a tutto campo il cortocircuito tra poteri e non lesina stilettate a una politica «che ha ceduto le armi» a una magistratura «che si è servita della stampa per ottenere la fama ed entrare in politica».

Procuratore, il processo mediatico è una patologia di questo tempo di crisi?

«Tutt’altro. Il processo mediatico c’è sempre stato a partire dal dopoguerra: penso all’omicidio di Wilma Montesi, che è stato il primo caso di interferenza delle indagini a fini politici, perchè il processo era stato montato a bella posta per colpire l’onorevole Piccioni. Questa strumentalizzazione, tuttavia, ha assunto la forma di ordinaria patologia con Tangentopoli».

Come è fatto questo virus che ha contagiato il nostro sistema giudiziario?

«Con Mani pulite si è instaurato un intreccio perverso tra magistratura inquirente e stampa. Gli inquirenti avevano canali privilegiati con alcuni giornali, ai quali facevano filtrare le notizie più succulente per fargli fare degli scoop. In cambio, questi pm ricevevano una serie di sperticati riconoscimenti elogiativi che li rendevano a loro volta più credibili, prestigiosi e forti. Così si è generato un potenziamento reciproco: più il magistrato era forte e più si sentiva impunito se lasciava filtrare le notizie, più le lasciava filtrare e più si rafforzava perchè riceveva in cambio una legittimazione da parte della stampa. Tutto questo ha portato a un cortocircuito che non solo ha condizionato la politica, ma ha anche alterato la fisiologia della giustizia e della stampa».

Parliamo di un cortocircuito iniziato venticinque anni fa. E oggi?

«Ora ne stiamo pagando le conseguenze, la più perniciosa delle quali è che una serie di magistrati, servendosi del prestigio e della fama acquisiti attraverso gli elogi della stampa, sono entrati in politica».

L’ultimo dei quali oggi è a capo di un partito politico, il presidente del Senato, Piero Grasso.

«Di Grasso io critico la scelta fatta ormai cinque anni fa: si è candidato alle elezioni politiche poche ore dopo essere uscito dalla magistratura. Ecco, poichè non credo che una candidatura si improvvisi nel giro di poche ore, questo significa che mentre indossava la toga ha avuto dei contatti politici».

Lei ritiene che un magistrato non dovrebbe fare politica?

«Intendiamoci, è perfettamente legittimo che lo faccia, ma secondo me è un elemento di disturbo nei rapporti fisiologici tra poteri. Un magistrato che indossa la toga può avere tutte le opinioni politiche che vuole e ha il diritto di esprimerle anche sui giornali, ma non trovo opportuno che abbia contatti diretti con la politica al fine di procurarsi una candidatura».

E un magistrato che ha smesso la toga, invece?

«Nemmeno, soprattutto se quel magistrato ha condotto inchieste che hanno avuto un forte impatto politico. Se si candida, infatti, si espone al rischio che le sue inchieste siano considerate un mezzo per procurarsi una sorta di buen retiro politico. Parlo per me: ho condotto l’inchiesta sul Mose che ha demolito la classe dirigente veneta. Troverei raccapricciante il solo sospetto che si possa pensare di me che ho fatto un’inchiesta per prendere il posto di chi ho mandato in galera. Per questo un magistrato non dovrebbe candidarsi, nemmeno dopo essere andato in pensione».

Da vittima, la politica si è innamorata dei carnefici. Non si contano i magistrati candidati, sia a destra che a sinistra.

«Con la caduta delle ideologie e la fine dei partiti di massa, la classe politica ha perduto completamente la fiducia in se stessa e, davanti all’offensiva giudiziaria, si è definitivamente sgretolata. Così ha cercato rifugio in quelli che sembravano i rappresentanti più significativi del Paese, cioè i magistrati».

Lei ha fissato nella legge Biondi del 1994 il momento storico in cui la politica ha definitivamente ceduto il passo alla magistratura.

«I quattro pm di Mani pulite andarono in televisione, chiedendo il ritiro del decreto e minacciando le dimissioni. Allora un politico serio avrebbe dovuto rispondere: «Cari pm, avete diritto di critica perchè non siete giudici terzi, per questo da domani separiamo le carriere. Inoltre, manteniamo il decreto e aspettiamo le vostre dimissioni». Invece la politica ha ceduto le armi. Da quel momento è finito tutto: quando un potere lascia un vuoto così clamoroso qualcuno lo occupa e così ha fatto la magistratura».

Intravede la possibilità di una inversione di tendenza?

«Dopo tanti anni di patologica regressione di campo da parte della politica non è facile ristabilire gli equilibri. lo mostra il fatto che, ogni volta che si propone una legge che incide sui poteri dei magistrati, l’Anm insorge e il Governo fa marcia indietro. L’unica soluzione si potrebbe trovare a livello costituzionale, rivedendo il reclutamento dei magistrati e il funzionamento del Csm, ma revisione non è cosa facile».

L’ordinamento non contiene già i limiti tra poteri?

«Per ricondurre in alveo costituzionale tutti i poteri dello Stato andrebbe attuato al 100% il codice penale accusatorio, un codice garantista e anglosassone che è stato attuato solo per il 20% e poi demolito dalla stessa Corte Costituzionale».

E’ una crisi ormai fisiologica e non risolvibile, quindi?

«Guardi, l’unica speranza è il ricambio generazionale, in magistratura come in politica. Questo, mi sembra, sta già avvenendo».

Tutto di lei si può dire, meno che non sia diretto. Quanto le sono costate queste posizioni in contrasto con le idee dominanti in magistratura?

[Ride di gusto ndr] «Io non ho mai cambiato idea e ciò che dico oggi l’ho scritto in un libro del 1997. La mia eresia di allora mi costò la chiamata davanti ai probi viri di Anm: io ci risi sopra e nemmeno mi presentai».

Lei, però, rimane una mosca bianca quando parla di separazione delle carriere e di magistrati in politica.

«Le assicuro che oggi molti magistrati la pensano come me, ma non tutti hanno poi il coraggio di dirlo perchè entrerebbero in conflitto col pensiero dominante dell’Anm che, attraverso il Csm decide le sorti professionali. Eppure, oggi la separazione delle carriere non è più il tabù che era vent’anni fa e lo stesso vale per la necessità di paletti più incisivi per l’ingresso dei magistrati in politica. Del resto ormai si è deideologizzato tutto, non vedo perchè lo stesso non possa accadere anche con gli ultimi pachidermici miti dell’Anm».

Ma esiste una magistratura di destra e una di sinistra?

«Io sono convinto che la giustizia risponda a criteri di buon senso e la distinzione destra- sinistra sia estremamente ingannevole su questo piano».

Lei è in pensione da un anno, le manca la toga?

«Mi mancano le amicizie che si sono un po’ diradate, ma non il lavoro. Mi piace leggere, scrivere, andare a cavallo e ascoltare musica classica e ora ho finalmente il tempo per farlo».

Guardandosi indietro, però, sceglierebbe ancora il lavoro di magistrato?

«Io non ho mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio. Anzi, diffido molto dei magistrati che vivono così il loro ufficio, perchè il sacerdozio rischia di sconfinare nel fanatismo. Per me, però, è sempre stata una funzione centrale per la democrazia: dopo il medico che incide sulla salute c’è il magistrato che incide sulla dignità e sull’onore del cittadino. Ecco, per questo sono orgoglioso di aver indossato la toga e rifarei senza dubbio questa scelta».

«Il compito della magistratura? Sottomettere la politica», scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Ho letto con molto interesse – e qualche apprensione… – il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica.

La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che – finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo – potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. «Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica».

Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano).

Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato.

Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali.

Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine – è il punto chiave – riguarda il compito e la missione della magistratura.

Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima ( destra Dc), e poi Falcone ( che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino ( ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata – se capiamo bene – perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere…Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano).

Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che – temo – va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. «Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)». E più avanti: «I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno… Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia». La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: «Non è carcere duro – mi hanno detto ogni volta – è solo una forma diversa di detenzione…». Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. E’ probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo – non so se anche da Scarpinato – o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli.

Dell’Utri, perché non lo fuciliamo? Scrive Piero Sansonetti il 6 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ma allora perché non lo fuciliamo, come si faceva una volta con i politici in disgrazia? In Italia, è vero, da una settantina d’anni non si usa più: l’ultimo credo che fu Buffarini Guidi. Luglio 1945. Però si può fare un’eccezione, e chiedere alla commissione antimafia, magari, di scegliere il plotone di esecuzione. Sto parlando di Marcello dell’Utri, naturalmente. Ieri il caso della sua carcerazione è andato davanti al tribunale di sorveglianza. Il tribunale di sorveglianza nelle prossime ore dovrà decidere se mandarlo a curarsi in ospedale o lasciarlo in carcere ad aspettare la fine. Dell’Utri ha un tumore maligno alla prostata, il cuore in condizioni pessime, il diabete altissimo. Non può operarsi perché le sue condizioni cardiache non lo permettono. Il Procuratore generale ha chiesto a dei periti di sua fiducia di visitare Dell’Utri. Che è stato visitato anche dai periti nominati dalla difesa, che sono quelli di Antigone, e dai periti del tribunale. I periti dell’accusa hanno dato lo stesso responso dei periti della difesa: le sue condizioni non sono compatibili con il regime carcerario. E hanno proposto i nomi di cinque istituti ospedalieri, di Roma e di Milano, in grado di ricoverarlo e di curarlo. Ma il Procuratore generale, nell’udienza di ieri, ha detto di fidarsi dei periti del tribunale e non dei periti nominati da lui. E siccome i periti del tribunale dicono che può restare in carcere, il Procuratore, smentendo clamorosamente i suoi periti, in un breve intervento (circa 2 minuti, poche parole succinte e chiare) ha chiesto che dell’Utri resti in cella. Non si conoscono precedenti di una situazione di questo genere. Un procuratore che dice di non credere ai periti che lui ha nominato è una novità assoluta in giurisprudenza, e anche nella vita di tutti i giorni. Ora bisognerà aspettare la decisione dei giudici. I quali dovranno tener conto delle richieste del Procuratore e delle perizie dei periti del tribunale, ma non potranno non prendere atto anche delle perizie dei medici scelti dalla Procura. Se i giudici dovessero decidere di rispedire Dell’Utri in carcere, la sua vita sarebbe in serissimo pericolo. Riassumiamo brevemente i fatti. Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, è stato condannato con sentenza definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Questo reato non esiste nel codice penale, e dunque la condanna confligge seriamente con l’articolo 1 del codice penale, il quale recita esattamente così: «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite». Da tempo però i magistrati hanno stabilito che il reato di associazione esterna esiste in quanto combinazione dell’articolo 110 (concorso in reato) e dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa). E che di conseguenza è ammissibile l’ipotesi che una persona faccia parte di una associazione pur non facendone parte, e sia interno a quell’associazione pur restandone fuori. E che le pene si decidano di volta in volta. In questo modo sono state comminate svariate condanne, anche a Dell’Utri. Nel frattempo però la Corte europea ha stabilito che si può anche ammettere che il reato ora esista, in quanto passato al vaglio dei tribunali italiani e della Cassazione, ma comunque esiste da non prima del 1994. Il problema è che Dell’Utri è accusato (ed è stato condannato) per fatti avvenuti tutti negli anni 80. Quando, dunque, il reato sicuramente non esisteva. Dell’Utri ha fatto ricorso alla Corte europea, contro la sentenza, ed è praticamente certo che la Corte gli darà ragione (visto che ha dato ragione a Bruno Contrada, ex dirigente dei servizi segreti, condannato per lo stesso reato e nelle stesse condizioni). Il problema è che la Corte europea è lenta, e probabilmente la sentenza e l’ordine di scarcerazione arriveranno quando dell’Utri avrà finito di scontare la pena, oppure sarà morto. Nel frattempo Dell’Utri si è ammalato, ha superato i 75 anni, ha scontato molto più della metà della pena. Esistono non alcune ragioni per scarcerarlo: esistono vagonate di ragioni (perché non esiste il reato, o perché è anziano, o perché è malato, o perché ha scontato più della metà della pena…). Perché nessuno muove un dito? Perché la procura generale di Roma ha smentito i suoi periti pur di non accettare che Dell’Utri sia curato come tutte le altre persone, libere o detenute? Ci sono state pressioni per impedire la scarcerazione? La verità che tutti sanno è che Dell’Utri non viene scarcerato per ragioni assolutamente, e squisitamente, e ormai del tutto palesemente politiche. Dell’Utri è Berlusconi. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è accusato di essere stato uno dei cervelli pensanti del berlusconismo, e questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è siciliano. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è stato per molti anni un parlamentare. E questo, naturalmente, viene ritenuto più che mai imperdonabile e comunque una aggravante. Talmente imperdonabili sono queste sue colpe (assai di più di qualunque associazione esterna) che sono mosche bianche quelli che hanno il coraggio di difenderlo. Perché – mi chiedo, per esempio – non esiste neppure un parlamentare di sinistra che abbia la sensatezza di dire: «Sta male, rischia la vita, fatelo uscire»? Naturalmente speriamo che, come spesso accade, tra i giudici che alla fine sono chiamati a giudicare, prevalga il buon senso e la conoscenza della Costituzione italiana, e i principi sacri dell’umanità. Se non sarà così Dell’Utri rischia la vita. Se Dell’Utri morirà in carcere nessuno potrà considerare la sua morte una cosa diversa da un delitto politico.

Massacro di un democristiano per bene, scrive Piero Sansonetti il 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio".  La persecuzione giudiziaria contro uno che ha fatto la storia della nostra democrazia. Mi dicono che Nicola Mancino non sta bene. Vive chiuso in casa, non vuol veder nessuno, è molto malinconico. Il modo nel quale lo hanno messo in mezzo, senza motivo, nel processo Stato- Mafia, non gli è andato giù. Sente l’ingiustizia, l’accanimento immotivato: non sa spiegarseli. Mancino ha 86 anni, li ha spesi quasi tutti per la politica. È difficile, oggi, far capire a un ragazzo cosa vuol dire questa espressione: «spesi per la politica». Ma c’è stato un periodo, nella storia d’Italia, nel quale la politica era una cosa molto seria, un mestieraccio (come diceva ieri Giuseppe De Rita su questo giornale) che richiedeva passione, intelligenza, strategia, impegno, rapporto con le masse. Noi di sinistra dicevamo così: «con le masse». Chi voleva far politica doveva “spenderci” tutte le energie che aveva. E doveva studiare, applicarsi, conoscere, parlare, stare a sentire. Ho conosciuto Nicola Mancino nei primissimi anni 80. Lui era il vice presidente dei senatori della Dc. Era già una autorità. Io un giovane cronista politico dell’Unità. Fronti opposti. Mi ricordo ancora di un articolo molto critico che scrissi su di lui (forse un po’ offensivo) e di un biglietto di protesta che mi mandò: era molto seccato ma non era aggressivo, o minaccioso, e accettava di discutere e di far polemica mettendosi sullo stesso piano di un ragazzino come me. Devo dire che oggi mi dispiace di avere scritto quell’articolo con la baldanza sfacciata e spavalda dei giovani. Credo che nella discussione avessi ragione io, ma alle volte, magari, prima di sputare addosso alla gente bisognerebbe conoscere meglio come stanno le cose. Mancino è stato un grande democristiano. Era uno dei leader del partito in Campania. E uno dei dirigenti nazionali nella sua corrente, corrente gloriosa e forte della sinistra Dc. Si chiamava La Base. L’avevano fondata Dossetti e Marcora, negli anni cinquanta, e avevano allevato una covata di giovanotti, come De Mita, Galloni, Granelli e lo stesso Mancino. Poi Dossetti lasciò la politica ma la corrente di Base andò avanti e fu un pilastro ben piantato del centrosinistra. Moro era Moro, certo, era su un altro pianeta. Ma sul piano della politica organizzata e anche della ricerca teorica, la Base fu essenziale – insieme alla corrente di Donat Cattin – nella svolta riformista che l’Italia visse negli anni sessanta e settanta. Mancino era lì. Spesso finiva nella bufera delle polemiche. Ma resisteva bene. Fu accusato tante volte soprattutto del «reato di clientelismo». Lo dico con cognizione di causa, perché noi dell’Unità eravamo tra gli accusatori più tenaci. Avevamo ragione? Un po’ sì. Un po’ però avevano ragione loro. È vero che in quegli anni il clientelismo (o l’assistenzialismo) democristiano fu uno dei motori della politica italiana. Ma il clientelismo non era un semplice fenomeno di corruzione. Era un meccanismo molto complicato che permise una grandiosa redistribuzione del lavoro, dell’assistenza, della ricchezza e dello stato sociale. L’Italia in quegli anni crebbe in tempi velocissimi, e la crescita non comportò un aumento, ma una riduzione drastica delle diseguaglianze sociali. La Dc era al centro di questo fenomeno. Luigi Pintor, grande giornalista comunista, una volta fece sul manifesto un titolo che diceva più o meno così: «Non vogliamo morire democristiani». Pintor morì nel 2003. Al governo c’era Berlusconi: chissà, magari lui in fin dei conti avrebbe preferito morire democristiano… Mancino è stato uno degli uomini forti della Democrazia Cristiana. Da parlamentare o da ministro ha accompagnato la crescita dell’Italia durante tutti gli anni della Prima Repubblica. Poi a un certo punto due giovani Pm di Palermo, che si erano convinti che tra il 1992 e il 1994 ci fu una trattativa tra Stato e Mafia, hanno deciso di puntare i loro strali contro Mancino, perché Mancino all’epoca era ministro dell’Interno e perchè alla loro costruzione accusatoria faceva comodo immaginare un ministro dell’Interno favorevole alla trattativa. Anzi, immaginare questa circostanza era indispensabile, altrimenti il castello dell’accusa andava giù. E su cosa si basava tutta l’accusa? Sul racconto del figlio di Vito Ciancimino (ex sindaco dc di Palermo, legato alla mafia), il quale figlio di Ciancimino poi fu condannato tante volte per calunnia. Non avevano nient’altro in mano i Pm. E allora sostennero che il socialista Amato, nel 92, cacciò il dc Vincenzo Scotti dal ministero dell’interno perché lo riteneva contrario alla trattativa, e mise al suo posto il morbido Mancino. E imputarono a De Mita questa scelta. il povero de Mita – che all’epoca era il segretario della Dc, spiegò ai Pm ( che conoscevano poco poco la storia d’Italia di quegli anni, forse perché erano troppo giovani) che nel 1992, esplosa Tangentopoli, la Dc aveva deciso di sancire l’incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare. Siccome Scotti voleva restare parlamentare, non si poteva farlo ministro. E fu indicato Mancino. Tutto qui. Del resto tutta la biografia di mancino depone per il suo impegno nella lotta alla mafia. Poi, negli anni successivi, Scotti e Martelli (all’epoca ministro della Giustizia) sollevarono molte polemiche contro Mancino, ma questo rientra nella fisiologia delle invidie e dei rancori in politica. Quello che lascia un po’ sgomenti è che su questa panna montata è stata costruita l’accusa di falsa testimonianza che tiene ancora Nicola Mancino dentro un processo senza capo né coda, dove non si sa più nemmeno chi è accusato e di che cosa, e dove i Pm svolgono requisitorie che in realtà smontano i teoremi accusatori. Si capisce bene che lui che ne soffre. Ne soffre anche la Storia, strattonata da tutte le parti, e ne soffre la sostanza della democrazia. Fa un po’ rabbia che dei Pm un tantino sprovveduti, nella loro foga di provare teoremi fantasiosi e di scoprire complotti inconfessabili, pestino l’acqua nel mortaio e buttino fango sulla vita di uno dei protagonisti della democrazia italiana.

Maroni: «Il Sisde spiava Mancino», scrive Errico Novi il 16 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’allora ministro dell’Interno: “Trovai sul mio predecessore dossier segreti da usare nella lotta politica. Dissi no alla nomina di Mori e al decreto che ostacolava le inchieste di mafia”. «Quando ero ministro dell’Interno avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale». Sono le parole durissime dell’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sentito nel processo sulla trattativa Stato- mafia. Che poi continua: «Anche questa vicenda – ha proseguito – mi indusse a rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde. Da ministro dell’Interno Maroni spiazzò tutti: anziché mettere a capo del Sisde uno dei nomi graditi a Palazzo Chigi, tra i quali Mario Mori, scelse uno sconosciuto generale dei carabinieri, Gaetano Marino, che «nell’Arma si occupava di formazione». Irregolare come capo del Viminale, controcorrente come teste al processo Stato- mafia: il governatore lombardo dà ai pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene risposte che gran parte degli altri testimoni aveva sfumato nelle nebbie dell’irrilevanza. Non che offra all’accusa e alla Corte d’assise di Palermo seri elementi di prova: anche dopo la deposizione di ieri non sembra accresciuta la possibilità di arrivare a qualche condanna. Ma almeno Maroni dà notizie sulle vicende di quegli anni, in particolare sul ’ 94: una di queste rappresenta l’imputato Nicola Mancino addirittura come vittima di impropri dossieraggi da parte dei servizi. «Appena nominato ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi», racconta l’attuale presidente della Lombardia, «trovai una serie di dossier del Sisde su alcuni politici, persino sul mio predecessore all’Interno», Mancino appunto. Secondo l’allora direttore del servizio segreto civile Domenico Salazar «si trattava di informazioni legate a motivi di sicurezza». Ma davanti a pm e giudici palermitani Maroni obietta: «Se il dossier era sulla sua sicurezza Mancino ne doveva essere informato, se non lo era a maggior ragione pensai che non erano dossier autorizzati». Certo il caso è sconcertante: il Sisde “pedinava” per scopi incomprensibili lo stesso ministro dell’Interno. Che d’altra parte era in buona compagnia: la documentazione trovata da Maroni riguardava «diversi politici, compreso Francesco Cossiga». Nel caso dell’imputato al processo in cui depone il governatore lombardo, «capii che quei pedinamenti servivano a sapere chi incontrava e a raccogliere informazioni da usare nella battaglia politica». Lui, Maroni, prima chiuse i faldoni in una cassaforte del suo studio «per evitare che li facessero sparire», poi li portò in Senato. Si muoveva da “mina vagante”, l’allora capo del Viminale: «Ero il primo che non venisse dalla Dc». Fece fuori Salazar, scartò Mori e altri possibili successori segnalati da Parisi e preferì appunto Marino. Il cuore dell’udienza, negli auspici dei pm, riguarderebbe il decreto del 14 luglio ’ 94, a cui Maroni e la Lega si opposero fino a farlo ritirare: «Il testo arrivato in Consiglio dei ministri non era quello originario. Ne parlai col procuratore di Palermo Caselli, mi disse che quelle norme rendevano più difficile la lotta alla mafia: c’era l’obbligo di riferire all’indagato dell’inchiesta in corso. Secondo Caselli indagini complicate sarebbero diventate impossibili». In realtà nel primo “report” fatto in proposito alla Procura, durante l’interrogatorio del 4 luglio scorso, Maroni aveva detto di aver stroncato il provvedimento in un’intervista al Tg3 per le limitazioni alle misure cautelari nei confronti di indagati per corruzione e concussione. Probabile dunque che il “movente” del decreto non fosse compiacere i mafiosi. Il no della Lega bastò a farlo accantonare. Così come il no di Berlusconi non impedì a Maroni di «nominare Gianni De Gennaro vice capo della polizia: io», dice in aula il governatore, «volevo ribadire la volontà di contrastare la mafia e, soprattutto, sparigliare i vecchi schemi». Il Cavaliere non voleva un poliziotto ritenuto “di sinistra”. Il che non emerge nella deposizione di ieri, ma non è che servisse il processo Statomafia per accertarlo.

Corona di spine con predica. Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare. L'articolo 27 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Evidentemente non lo ha letto bene il pm Tiziana Dolci. Dopo il precedente del pluridifeso (da attacchi che non ha avuto) Nino di Matteo, che nelle sue requisitorie abbonda più in teoremi che in fatti, abbiamo adesso la denuncia di «bugie clamorose» (da verificare) da parte di Corona: «Non si può scrivere quello che si vuole in un atto della Procura della Repubblica, siamo in uno Stato civile, non siamo in uno Stato in cui la magistratura può scrivere quello che vuole, vale per me e per tutti i cittadini». In effetti il dovere della verità, per un pm, dovrebbe prevalere sulla passione per l'accusa che, sostanzialmente, crea una disparità fra il magistrato e l'imputato. E, siccome i fatti non si possono discutere, la reazione a una contestazione non può essere una predica, ma un'affermazione certa. E invece, tradendo lo spirito dell'articolo 27, la Dolci ha risposto come una preside che crede nell'esempio delle punizioni: «Basta con questa aggressività, non c'è nessun motivo. Faccia tesoro delle esperienze passate». Chissà cosa avrebbe detto a Caravaggio!

"Aggredito e picchiato da quel ragazzo straniero. Ora mi licenziano pure". Il capotreno di Trenord: "Mi è sfuggita una frase razzista nella concitazione. Ma la vittima sono io", scrive Cristina Bassi, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". «Sono stato aggredito e picchiato. E adesso vengo licenziato per una frase - lo ammetto: razzista - che mi è sfuggita nella concitazione. In questa storia assurda la vittima sono io». Giordano Stagnati, capotreno cremonese di 25 anni, il 23 settembre scorso era in servizio sulla linea ferroviaria Brescia-Cremona. Ha discusso con un passeggero senza biglietto, un senegalese di 23 anni, sono volati insulti reciproci e poi le botte. In un video girato con il telefonino da un'altra viaggiatrice Stagnati apostrofa lo straniero con un «negro di m...», getta dal finestrino la sua carta prepagata senza credito. Moussa Diatta spinge a terra il capotreno, che lo morde a un braccio, e gli strappa via il palmare e il Pos aziendali. Il senegalese è stato arrestato per rapina, Stagnati licenziato da Trenord.

Se lo aspettava?

«Mi aspettavo un qualche provvedimento disciplinare, ma non una misura tanto severa. Così dice la lettera di licenziamento: ha tenuto un comportamento non consono alle mansioni proprie della sua figura professionale e della nostra Azienda che Lei comunque rappresenta mentre indossa l'uniforme aziendale ed esercita funzioni di incaricato di pubblico servizio per conto di Trenord. Inoltre avrei messo a repentaglio la mia sicurezza e quella dei viaggiatori».

Il video della rissa, in cui tra l'altro lei ha la peggio, è finito su internet e molti le hanno dato del razzista.

«Mi dispiace molto per quello che è successo. Ma mi è capitata questa brutta cosa, sono stato aggredito e mi è scappata una frase sgradevole. A bocce ferme è facile per chi non ci si è trovato chiamarmi razzista. Ora so di aver sbagliato e chiedo scusa. Però chissà gli altri al mio posto cosa avrebbero fatto».

Ci saranno strumentalizzazioni...

«Io non sono iscritto ad alcun partito politico, non uso i social e non ho mai espresso opinioni contro gli stranieri».

Aveva mai avuto problemi di questo tipo?

«No. Ho sempre avuto un comportamento educato con tutti i passeggeri. Non ho mai trasceso, neppure con quelli che alzano la voce con me. Non è vero che ho usato io le mani per primo con quel ragazzo straniero. Nel mio lavoro non ho mai gridato né tanto meno alzato le mani. Anche in questo caso stavo facendo il mio dovere e lui non ha esitato ad aggredirmi».

Si è accanito su di lui perché era straniero?

«Assolutamente no. Ho chiesto il biglietto a tutto il vagone, non era certo un fatto personale. I passeggeri sprovvisti erano solo Diatta e due ragazze, cui ho fatto pagare il biglietto con la maggiorazione prevista. Sono le stesse che poi hanno postato il video, forse perché erano arrabbiate con me, aggiungendo commenti offensivi nei miei confronti. I passeggeri senza biglietto sono spesso anche gli italiani e per i molti stranieri sprovvisti ce ne sono altrettanti con l'abbonamento».

Ha avuto paura quel giorno?

«Sì. Quel ragazzo mi ha detto razzista, bastardo, italiano di m.... Mi sono sentito in pericolo, ricordate cos'è successo al capotreno Carlo Di Napoli? (una gang di latinos gli amputò quasi un braccio con un machete, ndr). Poteva andarmi molto peggio e potevo finire con più di una contusione a un polso».

Adesso cosa farà?

«Assistito dall'avvocato Massimiliano Cortellazzi, farò ricorso contro il licenziamento. Inoltre mi costituirò parte civile nel processo per rapina contro Diatta. E ho querelato per diffamazione l'autrice del filmato».

Vorrebbe continuare a lavorare a Trenord?

«Mi trovo bene in questa azienda, mi hanno assunto a giugno di quest'anno. Vorrei tornare a lavorare. Ho superato una selezione e fatto mesi di formazione per arrivarci. Il mio è un bel lavoro, di responsabilità, anche se alcune volte è difficile».

Il caso Seregno. Il romanzo della mafia brianzola pieno di cumenda e senza l’ombra di un boss, scrive Tiziana Maiolo il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La regola è sempre la stessa: strillare su giornali e tv che i nostri territori sono invasi dalle mafie, poi diffondere un pacco di intercettazioni e una bella grande foto con al centro un personaggio politico che non c’entra niente ma che viene subito guardato con sospetto. E’ successo con Mafia Capitale, che mafia non era, come certificato dalla sentenza di primo grado. Sta capitando qualcosa di simile in Lombardia, dove un’inchiesta sulla ’ ndrangheta è stata mescolata in un minestrone velenoso con le indagini su un sindaco pressato da un imprenditore forse un po’ troppo trafficone e chiacchierone, che in qualche telefonata diceva di avere come punto di riferimento politico il senatore Mario Mantovani. Gli ingredienti ci sono tutti. Che in Brianza come un po’ in tutto il nord ci sia la ‘ ndrangheta, è fatto certo. Del resto le mafie vanno dove c’è maggiore accumulazione di capitali. E si sa anche di quali reati, oltre a quello associativo, si rendono responsabili gli uomini della criminalità organizzata: traffico di droga, estorsioni, incendi, ricatti, detenzione di armi, omicidi. Di questa parte dell’inchiesta, presentata in gran pompa nei giorni scorsi al palazzo di giustizia di Milano dalla Dda di Milano e Monza, però non si sa pressoché nulla, nessun mezzo di comunicazione ne parla. Il che è un po’ singolare, se viene lanciato un allarme (attenzione cittadini, siete invasi dai mafiosi) è bene che tutti sappiamo da chi dobbiamo difenderci. Invece niente. Evidentemente nella conferenza stampa non se ne è parlato. Oppure i nostri colleghi non lo hanno ritenuto interessante. Sappiamo invece tutto su quel che sarebbe accaduto un paio di anni fa all’interno del Comune di Seregno, pacifica (fino a ora, visto che la giunta ieri si è anche sciolta) cittadina di 45.000 abitanti nel cuore della ricca Brianza. Un centinaio di pagine di intercettazioni ambientali è dedicato a discussioni, litigi e pettegolezzi tra un gruppo di tecnici che battibeccavano sulle procedure necessarie per una variazione d’uso di un terreno su cui un imprenditore, Antonino Lugarà, intendeva costruire un supermercato. Il terreno andava forse prima bonificato, ma non tutti erano d’accordo. La delibera doveva essere di giunta o di consiglio? Di cose così si discuteva. Lugarà è stato arrestato per corruzione, perché con i voti per le elezioni del 2015 si sarebbe comprato il sindaco Edoardo Mazza (anche lui in manette), che avrebbe ricambiato con la variazione d’uso del suo territorio. E fino a qui sarà tutto nelle mani dei giudici (se si arriverà a processo) valutare se ci siano state irregolarità tecniche e anche, eventualmente, se i voti, che l’imprenditore valuta nel numero di 30, siano da considerarsi “altra utilità”, come prevede il codice per stabilire se un pubblico ufficiale, che non ha incassato mazzette, sia stato comunque corrotto. Che cosa c’entra la ‘ ndrangheta? Il fatto è che Antonino Lugarà viene descritto come un capomafia. Infatti quando viene svaligiata la casa della figlia, cui vengono rubati tutti i gioielli, l’imprenditore sparge la voce, e chiede non alla polizia ma ad “altri” se si riesce a recuperarli. Ma invano. Strano comportamento per un capomafia, che si lascia svaligiare e non è neanche in grado di recuperare la refurtiva. Va anche detto però che Lugarà è calabrese (questo è già sospetto) e magari frequenta qualche ambiente un po’ borderline. Forse, non sappiamo. Ma il vero peccato mortale di questo imprenditore che passa le giornate a stressare per il supermercato i tecnici del comune di Seregno e anche il sindaco Mazza (il quale a un certo punto si lascerà scappare al telefono «ogni promessa è debito») è la sua conoscenza con l’ex vicepresidente della Regione Lombardia, il senatore Mario Mantovani, che considera un suo punto di riferimento politico. Mantovani come ha detto nell’intervista al nostro giornale – è stato a Seregno durante la campagna elettorale del 2015, come altri dirigenti del centrodestra hanno fatto, e ha festeggiato insieme agli altri la vittoria. Ma quando, tramite Lugarà, gli viene chiesto (mentre era assessore alla sanità) di trasferire un certo primario e di promuoverne un altro, non lo fa. Il che dimostra, non solo che non c’entra con la mafia, ma neppure con eventuali intrallazzi o clientelismi a Seregno. Inoltre non c’è una sua intercettazione nell’inchiesta, ma solo conversazioni di altri su di lui. Si dice che è forte, che è potente. Gravissimo. Ma c’è quella foto in cui lui è con il sindaco presunto corrotto e con l’imprenditore presunto corruttore e anche presunto mafioso. Come negargli un’informazione di garanzia e soprattutto una bella gogna mediatica? Il ministro Poletti si è salvato da quella foto di Mafia capitale, e così sarà per Mantovani. Ma intanto…

Il teorema Seregno crolla ma la giunta (ops!) adesso non c’è più…, scrive Tiziana Maiolo il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il Comune brianzolo fu azzerato da un’inchiesta ma il Riesame scarcera tutti. Il “teorema Seregno” che un mese fa, con un’azione congiunta dei magistrati monzesi e della Pm milanese Ilda Boccassini aveva portato all’arresto di 24 persone e azzerato la giunta della città brianzola di Seregno, è già a pezzi. Il tribunale del riesame non solo ha scarcerato per grave mancanza di indizi l’imprenditore Antonino Lugarà, considerato punto centrale dell’inchiesta, ma ha demolito il pilastro dell’accusa che tanto aveva ingolosito i giornalisti- trombettieri delle procure, e cioè l’infiltrazione della ‘ ndrangheta nel Comune di Seregno, con la benedizione del senatore Mario Mantovani. Intanto va chiarita una cosa, che evidentemente ai nostri colleghi di troppi quotidiani è sfuggita (si fa per dire), mentre titolavano “’ ndrangheta in Comune”. Né il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e il consigliere comunale Stefano Gatti (ambedue ai domiciliari), né il senatore Mario Mantovani (indagato) né men che meno l’imprenditore Lugarà (arrestato) sono mai stati inquisiti per reati di mafia. Si dice solo che l’imprenditore, che è calabrese, è “sospettato”. Ma sospettato da chi? In genere i magistrati sanno bene come tradurre in provvedimenti giudiziari i propri sospetti. E sospettato di che cosa? Di aver intrattenuto rapporti. Ma non si sa bene con chi. Resta il fatto che il reato contestato a tutti è quello di corruzione, per la presunta accelerazione di una pratica di concessione edilizia di un supermercato. Proprio il fatto che oggi, con la scarcerazione di Lugarà per mancanza di gravi indizi di colpevolezza, il tribunale del riesame ha distrutto. A quanto pare c’è una perizia d’ufficio sbagliata, inoltre i voti raccolti come corrispettivo per la corruzione sono forse qualche decina e i famosi “eventi conviviali” cui avrebbe partecipato Mario Mantovani si riducono a un aperitivo in un bar. Così come semplici vanterie sono considerate le spacconate del figlio di Lugarà sui suoi rapporti con l’esponente di Forza Italia.

Tutto normale? Normale dialettica processuale? Eh no, perché i risultati sono politici, e nel frattempo la Giunta Comunale si è sciolta e a Seregno è arrivato il commissario. Una volta di più l’improvvido Circo mediatico- giudiziario ha vanificato un risultato elettorale. Ha rilevanza il fatto che nel maggio- giugno 2015 gli elettori abbiano premiato a Seregno i candidati del centro- destra? Speriamo non sia così, ma che siamo di fronte soltanto all’ennesima (grave) superficialità e sciatteria di qualche magistrato. Ma nel caso di Seregno c’è qualcosa di più e qualcosa di molto più inquietante della disattenzione. Usiamo come traccia un qualunque articolo del 26 settembre di un non- qualunque grande quotidiano nazionale. La cronaca è molto ampia e molto ben costruita. Si riferisce di una conferenza stampa congiunta tra alcuni magistrati di Monza e quelli della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, con la presenza della dirigente Ilda Boccassini, che spiega quale è il succo del blitz che, dopo indagini durate 7 anni, ha portato all’arresto di 24 persone. Sintetizza bene il cronista del grande quotidiano: «“Dal traffico internazionale di droga alla corruzione, dalla Calabria alla Lombardia, fino a una cittadina della Brianza, quella di Seregno, dove nell’ultimo blitz contro le infiltrazioni della ‘ ndrangheta al nord, finisce ai domiciliari anche il sindaco di Forza Italia…». Che cosa siamo dunque indotti a pensare? Che il Comune di Seregno sia stato sciolto per mafia, che tutte le persone coinvolte appartengano alla ’ ndrangheta. E il traffico di droga con tutti gli altri reati che caratterizzano l’appartenenza alle cosche? Zero assoluto, non ci soni i reati e neanche i nomi delle persone arrestate, tranne quelli del sindaco, di un consigliere, dell’imprenditore e del senatore Mantovani. All’ex coordinatore lombardo di Forza Italia viene dedicato un bel capitolo. Viene descritto come un politico molto potente, cui molti si rivolgevano per impetrare favori e carriere. Spesso si trattava di medici che si rivolgevano all’imprenditore Lugarà perché li raccomandasse all’assessore regionale alla sanità per questioni di trasferimenti o promozioni. Che regolarmente non erano andati a buon fine. In che cosa sarebbe dunque consistita la corruzione? Lo sapremo alla data della chiusura delle indagini. Ma intanto il circo mediatico ha già provveduto a fare il suo lavoro, rovinare reputazioni, contribuire ai ricambi di governo. Non dimentichiamo il caso di un’altra cittadina lombarda, Sedriano, assalita con lo stesso copione: inchiesta di ‘ ndrangheta e corruzione, arrestato il sindaco Celeste del centrodestra. L’inchiesta è finita nei mesi scorsi: il sindaco è stato assolto. Nel frattempo, dopo il commissariamento e le fiaccolate del Pd (che si era molto adoperato per far cadere la giunta), oggi a Sedriano governa il Movimento 5 stelle.

“Equivoci” e omissis: così hanno montato il caso Seregno, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 25 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il consiglio comunale del paese lombardo è stato sciolto per “mafia” in base a delle intercettazioni trascritte in maniera «erronea». Una consulenza tecnica che «non sta né in cielo e né in terra» e alcune intercettazioni telefoniche trascritte in maniera “erronea” hanno portato il mese scorso alle dimissioni dell’intero Consiglio comunale di Seregno e alla nomina di un commissario prefettizio. Secondo il teorema accusatorio della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sindaco della città brianzola Edoardo Mazza (FI) e il consigliere comunale Stefano Gatti sarebbero stati corrotti da Antonio Lugarà, un imprenditore di origini calabresi che in cambio del via libera alla realizzazione di un centro commerciale avrebbe garantito ai due un appoggio alle elezioni amministrative del 2015. Oltre a loro, erano state arrestate dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano 24 persone ritenute a vario titolo responsabili di reati che andavano dallo spaccio di sostanze stupefacenti, alla detenzione abusiva di armi, all’estorsione, il tutto con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Lugarà fin dal giorno del suo arresto aveva però sostenuto la regolarità dell’iter amministrativo del progetto edilizio e la mancanza del corrispettivo della corruzione contestato nell’appoggio politico al sindaco Mazza. Gli avvocati Luca Ricci e Bruno Brucoli, difensori di Lugarà, sono riusciti a dimostrare la correttezza da parte del loro assistito, che è stato scarcerato senza l’applicazione di alcuna misura la scorsa settimana, in quanto a suo carico, secondo il Tribunale del riesame, non «sussistono i gravi indizi di colpevolezza». Come dichiarato al Dubbio dall’avvocato Ricci, «l’intera indagine si basa su una consulenza tecnica di un architetto nominato dalla Procura e sul massiccio ricorso alle intercettazioni telefoniche». Grazie ad un «corretto» ascolto delle intercettazioni telefoniche, durate anni, ed una «diversa» lettura del materiale raccolto dal consulente della procura, gli avvocati di Lugarà hanno fatto crollare il castello accusatorio. «Non esistendo intercettazioni fra Lugarà, il sindaco Mazza e i funzionari comunali in cui emergano atti contrari ai doveri d’ufficio finalizzati all’ottenimento delle autorizzazioni – afferma Ricci – gli investigatori sono ricorsi ad una intercettazione fra due assessori». Per il gip di Monza Pierangela Renda che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare richiesta dal pm Ilda Boccassini è la pistola fumante in quanto evidenzia «l’assoluta e condivisa consapevolezza della contrarietà degli atti relativi alla vicenda (del permesso per costruire richiesto da Lugarà, ndr)». «In realtà – prosegue Ricci – i due assessori discutono di un piano urbanistico in una zona diversa, denominato “Pac1” che i carabinieri, invece di trascrivere correttamente, riportano con un omissis, e cioè solo “Pa”. Sigla questa che corrisponde effettivamente alla zona interessata dall’intervento edilizio da parte di Lugarà». L’appoggio elettorale di Lugarà al sindaco, definito dagli inquirenti «un vero e proprio “porta a porta” grazie alla sua fitta rete di conoscenze», si esaurisce, sempre secondo l’avvocato Ricci, «in due telefonate». In questa vicenda è stato tirato in ballo anche il consigliere regionale ed ex vice presidente di Regione Lombardia Mario Mantovani che si era recato a Seregno per sostenere la candidatura del sindaco Mazza. Secondo gli inquirenti, Mantovani sarebbe stato il «referente» di Lugarà. «Dalla lettura dei risultati elettorali del 2015 – aggiunge Ricci – i due candidati che Lugarà avrebbe appoggiato, in un comune di 45.000 abitanti, hanno preso complessivamente 100 voti». In particolare, nel seggio dove per residenza votavano Antonino Lugarà ed i suoi famigliari, «i voti riportati da entrambi sono stati 6, vale a dire esattamente i componenti della sua famiglia». «Il peso elettorale di Lugarà, dunque, tenuto conto che qualche amico e parente che li abbia votati i candidati lo avranno pur avuto, è di poco più di una decina di voti», conclude Ricci. Il mese prossimo le motivazioni complete da parte del Tribunale del riesame.

Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa. Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ndranghetisti, non si scappa. Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.

Il Csm: via i bambini ai mafiosi. Ma è un provvedimento giusto? Scrive Giovanni M. Jacobazzi il 26 Ottobre 2017 su "Il Dubbio".  Fa discutere la proposta sulla decadenza della potestà genitoriale. I nati in una famiglia di affiliati saranno equiparati ai figli di alcolisti e tossicodipendenti. I figli nati in una famiglia mafiosa devono essere equiparati a quelli nati in famiglie dove i genitori hanno problemi di alcolismo o tossicodipendenza. Ed è pertanto necessario procedere con provvedimenti giudiziari che comportino la decadenza della patria potestà e il successivo allontanamento del minore dalla residenza familiare, con il suo affido ad una struttura che consenta di crescere in un contesto idoneo per l’età. E’ questo il contenuto della risoluzione che il Plenum del Consiglio superiore della magistratura sta discutendo su iniziativa dei consiglieri Ercole Aprile e Antonello Ardituro, in materia di “tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata”. Per prevenire e recuperare i minori è, dunque, indispensabile intervenire sulla sfera familiare e/ o sociale di provenienza, in quanto è una delle prime cause che incidono sul percorso di crescita. In particolar modo nelle regioni meridionali si riscontra un frequente coinvolgimento di minori in attività illecite legate ad associazioni criminali, spesso di tipo mafioso (attività che consistono, ad esempio, nello spaccio di stupefacenti, estorsioni, omicidi). Forse anche a causa del condizionamento mediatico esercitato da alcune recenti fiction, il fenomeno si è accentuato e la “cultura” mafiosa ha fatto presa sui giovani provenienti da contesti malavitosi. La ricerca del potere, la facile ricchezza e realizzazione di sé, prevalgono sulla pacifica convivenza e mettono le istituzioni sotto una luce negativa. La soluzione è l’adozione di provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale (fino ad arrivare alla dichiarazione di adottabilità) e di collocamento del minore in strutture esterne al territorio di provenienza, per eliminare il legame con i condizionamenti socio- ambientali. Pur costituendo l’extrema ratio, la salvaguardia del superiore interesse del minore ad un corretto sviluppo psico-fisico prevale sull’autonomia riconosciuta ai genitori nell’adempimento del dovere educativo. La famiglia di origine, come nei casi in cui i genitori siano dei tossicodipendenti o degli alcolisti, è «famiglia maltrattante» che, per le modalità con cui «educa» i figli, ne compromette lo sviluppo psicofisico. Per il Csm vanno, in primis, potenziati gli strumenti a disposizione dei giudici minorili, con un’azione sinergica da parte dei servizi minorili e dei servizi sociali, e una collaborazione, quando necessario, con gli uffici giudiziari ordinari. Fondamentale, poi, un riassetto normativo che renda più efficace ed effettiva l’applicazione di questi provvedimenti e che investa anche il diritto penale (introducendo la pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale per i reati associativi di tipo mafioso) e processuale (dove si prevede ora l’affidamento alla famiglia anche di minori che abbiano commesso gravi reati). Un discorso a parte riguarda invece i figli minori di testimoni e collaboratori di giustizia per i quali oltre ad una tutela psicologica bisogna porre in essere le condizioni per un loro inserimento nelle località protette.

Caro Csm, Impastato era figlio di un boss ma si ribellò al padre, scrive Mimmo Gangemi il 28 Ottobre 2017 su "Il Dubbio".  Non c’è nessun automatismo tra il crescere in una famiglia mafiosa e diventare mafiosi. È in discussione al Csm la proposta di togliere la patria potestà alle famiglie mafiose e di affidare i figli a strutture pubbliche. Si può disquisire a sazietà sulla questione, resta però che i piccoli allontanati dal nido diventerebbero vittime sacrificate all’inefficienza di uno Stato che non riesce a estirpare il fenomeno, che eleva a logica incontestabile – offuscando così l’idea stessa di Giustizia – l’ipotesi che chi cresce in un ambiente mafioso debba per forza sviluppare l’animo del mafioso e che si arrabatta utilizzando i più deboli, dopo aver loro impresso a caldo il marchio di mafiosi già solo decidendo che giocoforza condurranno la stessa vita delittuosa dei padri. Dovesse esserci il sì del Csm, si stabilirebbe a priori, e con l’imperizia cinica delle decisioni frettolose e arruffone, che dove c’è un padre mafioso – latitante, carcerato – non ci sia possibilità di orientarsi per un’educazione sana ai figli, di guidarli su strade di rettitudine, di stare accorti a non porli davanti al bivio dove biforcano il carcere e la morte per mano assassina, magari spinti a ciò dall’intento di non incorrere nel destino amaro del genitore, tra sangue, galera, sofferenze inflitte e patite. E si dà per scontato che la nuova situazione di bimbo o ragazzo esiliato in strutture pubbliche – ed è tristemente noto come funzionano le più – non produca i guasti che invece spesso capitano a chi è estirpato alle origini e costretto, con buona pace dell’innocenza della giovane età, a mutare la vita da così a così e a finire in quella condizione di abbandono e di solitudine, senza l’affetto, le cure e le attenzioni di cui solo le mamme sono capaci. Inoltre, viene difficile credere che l’allontanamento possa trasformarsi in un affido a famiglie di buoni sentimenti: essendo note la pericolosità e la ferocia della ’ ndrangheta, nessuno si arrischierebbe ad accoglierli, per il timore di poter impattare nelle ritorsioni. La civiltà affossi quindi la barbarie. E la proposta cada nel vuoto. Applicarla sarebbe una prepotenza da Inquisizione, e una sconfitta delle Istituzioni, costrette a estremizzare con azioni da regime totalitario l’incapacità di estirpare il cancro. Pure, sarebbe un risultato pericoloso, con altri passi acciaccati verso la deriva autoritaria della Giustizia, in atto da tempo in certe aree più a rischio del paese e che avvolge di nebbia fitta lo Stato di diritto, incrina la libertà e la democrazia. Nessuno dovrebbe pagare la colpa del cognome che porta. Di sicuro, non un minore. Ho conoscenza diretta di famiglie di ’ ndrangheta che hanno deciso e attuato un futuro diverso per i figli, tenendoli estranei, spingendoli allo studio, alle buone frequentazioni, a forgiare pensieri positivi. Ma lo Stato pare non accorgersi della loro esistenza. O non intende accettarlo, per troppa rigidità, per troppe convinzioni che hanno messo crosta fino a deciderle inconfutabili, verità assolute. Non riflette, lo Stato, che i comportamenti repressivi applicati sul mucchio a prescindere, senza alcun distinguo tra chi nella malavita s’immerge mani e piedi e chi invece tende a scansarla, parano davanti a un muro cieco, diventano istigazione a delinquere, perché lasciare ai figli della ’ ndrangheta soltanto lo sbocco ’ ndrangheta impedirà di spezzare il circolo vizioso e perpetuerà la malapianta. Penso a Peppino Impastato, figlio di un boss di Cosa Nostra. Ha scelto un percorso di onestà e di denuncia, pur vivendo in un ambiente malsano. È in nome suo, e di tanti come lui di cui non c’è memoria solo perché non si sono immolati eroi, che bisogna astenersi dal sopruso amorale che si va profilando. Anche in nome e in ricordo di Maria Rita Logiudice, la ragazza venticinquenne, bella e fresca di laurea con lode, che si è uccisa gettandosi dal balcone per non aver più sopportato la discriminazione per l’appartenenza a una potente cosca di ’ ndrangheta di Reggio. Allora registrammo le parole di dolore e di contrizione del Procuratore Cafiero De Raho: «Credo che debba toccare la coscienza di tutti… che siamo tutti responsabili di fatti come questo… Persone così possono essere il cambiamento della Calabria… Se noi perdiamo simili occasioni per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, se diciamo ai ragazzi cambiate vita e poi, quando la cambiano, li isoliamo, li emarginiamo, non diamo nessun sostegno, allora non abbiamo più nessuna speranza per il nostro futuro… Dobbiamo fare tutto ciò che è necessario perché tragedie di questo tipo non avvengano più». Peppino e Maria Rita – e chissà quanti altri non noti alle cronache – sono la prova che non c’è automatismo tra il crescere dentro una famiglia di mafia e il diventare mafiosi. Comunque, pure a voler ammettere che i più di quegli innocenti di oggi da adulti non condurranno vite da innocenti, valgono i pochi, è più importante che, pur di colpire il resto, non si penalizzino i Peppino e i Maria Rita.

Chi va a decidere tenga nella giusta considerazione i piccoli dal cognome scomodo che verrebbero a essere privati del diritto alla famiglia. E non trascuri le esternazioni del Procuratore su una figlia della ’ ndrangheta che inseguiva e coltivava civiltà. Non commetta l’errore di lasciare che restino parole vuote. Non trasformi le lacrime di allora in lacrime di coccodrillo.

«Lotta alla mafia? Non spetta alle toghe, loro devono far rispettare la legge». La lezione di Macaluso, scrive Davide Varì il 4 Marzo 2017 su "Il Dubbio". In un appassionante intervento alla Scuola superiore della magistratura, lo storico dirigente e intellettuale comunista illustra le trasformazione delle cosche e spiega: «Le cose sono cambiate, i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo del passato». «Ho 92 anni suonati e nella mia vita ho visto di tutto. Eppure, parlare a dei giovani magistrati mi emoziona, mi commuove». Se qualcuno avesse detto a Emanuele Macaluso che un giorno sarebbe stato invitato dalla Scuola superiore della magistratura per tenere una lezione sulla mafia, la politica e la giustizia, lui, vecchio comunista siciliano, lo avrebbe fulminato con una “taliata”, magari facendo spallucce e voltandosi dall’altra parte. E invece è accaduto. E così il grande suggeritore di Giorgio Napolitano, si dice infatti che i suoi saggi consigli abbiano accompagnato il settennato e mezzo del presidente più “politico” degli ultimi anni, si è ritrovato, emozionato come un ragazzino alla prime armi, a dover spiegare a un nugolo di imberbi magistrati il complicatissimo rapporto tra politica e magistratura italiana. E allora conviene partire dalla fine, dalle parole con cui Macaluso ha chiuso il suo lungo e suggestivo intervento: «Eravamo all’inizio degli anni 80. Achille Occhetto era il segretario regionale del Pci siciliano e nel corso del suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario invitò tutti, magistrati compresi, a combattere contro la mafia. Poi prese la parola il presidente della Corte d’Appello di Palermo che con grande serenità e chiarezza spiegò al giovane Occhetto e a noi tutti, che la magistratura non doveva fare nessunissima lotta, neanche contro la mafia: “La magistratura deve applicare le leggi e basta”, disse». Ma questa è solo la conclusione dell’intervento di Macaluso. Per più di un’ora il vecchio comunista ha raccontato episodi chiave della storia della Sicilia e del nostro Paese. A cominciare dal fascismo e da Mussolini che «quando presentò il Listone in Sicilia si affacciò con i mafiosi sui balconi delle piazze, salvo poi inviare il prefetto Mori che perseguitò figli, moglie e genitori dei latitanti o presunti tali». E poi la liberazione e lo sbarco alleato, che divenne il momento in cui si saldò l’alleanza tra Stato, Chiesa, latifondo e Cosa nostra. E l’avvento della Dc col ricordo di Giuseppe Alessi: «Grande avvocato antifascista e primo presidente della regione Siciliana, che rifiutò di iscrivere i mafiosi nella Dc e per questo fu “minacciato” dal vescovo in persona». Poi Alessi si dimise, o fu fatto dimettere, e arrivò Arcangelo Cammarata che con i mafiosi era decisamente più disponibile e malleabile. E quel blocco di potere tra Chiesa, Stato, latifondo e mafia si rafforzò con le grandi lotte contadine. E a quel punto Macaluso ha spiegato ai giovani magistrati chi era Placido Rizzotto: «Un combattente che io conobbi e che fu ucciso dalla mafia perché lottava al fianco dei contadini». E se è vero che Rizzotto fu ucciso dalla mafia, è soprattutto vero che a tradirlo furono gli uomini dello Stato. A cominciare da un giovane ufficiale di nome Carlo Alberto Dalla Chiesa, il futuro generale Dalla Chiesa, il quale al processo sulla morte di Rizzotto dichiarò che quel delitto non aveva nulla a che vedere con la politica e con la mafia. «Ma io capisco quella sua posizione, allora c’era un unico grande nemico: il comunismo». Ma anche i giudici ebbero un ruolo in quel sistema. Anche pezzi di magistratura fecero parte di quel blocco di potere. «Il giudice Guido Lo Schiavo teorizzò in un libro quel legame: “Dire che la mafia disprezza la polizia e la magistratura è un’inesattezza – scrisse Lo Schiavo -, la mafia ha sempre rispettato la giustizia e la magistratura, si è inchinata alle sue sentenza collaborando anche alla cattura dei banditi”». Ma qualcosa iniziava a cambiare, tanto che nel ‘ 78 la procura di Palermo fu affidata a Gaetano Costa: «Un uomo rigoroso, colto, onestissimo. Un amico che pur avendo le sue idee non si iscrisse mai a Magistratura democratica per mantenere la sua indipendenza. Ma Costa fu isolato – ha raccontato Macaluso – tanto che quando preparava mandati di arresto per i mafiosi nessun aggiunto li firmava con lui. E questa fu la sua condanna». Poi arrivò la generazione che si era laureata nel ‘ 68 e allora la magistratura cambiò davvero e quel patto osceno venne meno: «E fu proprio la fine di quell’alleanza che determinò l’inizio del terrorismo mafioso che raggiunse il culmine negli anni ‘ 90». Ma di lì in poi Cosa nostra inizia a perdere. «Io credo che la mafia siciliana abbia perso – ha infatti ribadito alla platea di giovani magistrati Macaluso-. Questo non vuol dire che la mafia non c’è più. Io ritengo che le cose siano cambiate, che i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo che hanno avuto in passato». Poi la frase finale, il congedo da quella platea così particolare: «I giudici non fanno battaglie, i giudici devono far rispettare la legge. Non lasciate che la politica scarichi su di voi questa responsabilità». E chissà se qualcuno ascolterà le parole di un vecchio comunista.

Magistratura che deve applicare la legge e cercare di non sbagliare.

Via la toga per un errore giudiziario. Giudice reintegrato dopo 24 anni, scrive Viviana De Vita Venerdì 27 Ottobre 2017 su "Il Mattino". Fuori dalla magistratura per colpa di un errore giudiziario, sotto processo da innocente, assolto con formula piena, è stato reintegrato a distanza di quasi un quarto di secolo. Oggi ha 73 anni e, dopo aver dovuto “reinventare” una professione indossando la toga di avvocato, può finalmente, e nonostante l’età “pensionabile”, ritornare tra gli scranni dei magistrati. È una sentenza del Consiglio di Stato a sancire il diritto dell’avvocato Antonio Feleppa di essere reintegrato nella categoria dei magistrati nella quale entrò a soli 23 anni e, all’interno della quale, potrà militare per altri 19 anni quelli che, secondo il regolare iter lavorativo, lo avrebbero condotto alla pensione. La sentenza chiude un “braccio di ferro” protrattosi per anni dichiarando inammissibile l’appello dell’Avvocatura per il consiglio superiore della magistratura, che aveva impugnato la pronuncia del Tar Lazio che accolse il ricorso dell’avvocato Feleppa consentendogli di rientrare in magistratura in base a quanto sancito dalla legge che prevede il reintegro dei magistrati e dei funzionari dello Stato ingiustamente deposti. «La sentenza – afferma l’avvocato Feleppa – mi restituisce, seppure a distanza di tanti anni, il mio onore di magistrato. Se avessi avuto una carriera normale oggi, a 73 anni, sarei in pensione: sicuramente ho perso delle chances, avrei avuto altre opportunità ma, in cuor mio, non riesco ad odiare nessuno e non rimpiango nulla perché ritengo che fare l’avvocato è molto più difficile che fare il magistrato. Sono stato ingiustamente calunniato e, uno dei miei principali accusatori è stato condannato; ci sono persone che, al mio posto si sono ammalate o, addirittura, si sono suicidate: io mi sono solo adirato». Era il 1993 quando Antonio Feleppa, sostituto procuratore presso la pretura circondariale di Salerno, finì nel mirino degli inquirenti per presunti ritardi nell’ambito di un’inchiesta su abusi edilizi. Era l’epoca di “mani pulite” e un vero e proprio terremoto si abbatté sulla magistratura campana: l’allora pretore Antonio Feleppa aveva 49 anni e, davanti a sé, una carriera brillante.

Quegli assurdi processi della giustizia militare fra brioche e risse ultrà. Quarantotto giudici inutili e costosi. In aula trattano casi veri, che sembrano barzellette, scrive Nino Materi, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Sono casi entrati nella giurisprudenza. Che Gino Bramieri avrebbe certo apprezzato. Sentenze vere, ma così comiche da sembrare barzellette.

Condannati due carabinieri che in «servizio d'ordine» allo stadio se le sono date di santa ragione perché opposti tifosi delle squadre in campo.

Denunciato un sottufficiale che aveva scritto con lo spray sul muro della caserma: «Tua moglie è una gran p...».

Alla sbarra un caporale che aveva sottratto dal bancone del bar una brioche e un commilitone che «con mossa repentina ne ha mangiata una parte»: sotto processo entrambi, il primo per furto e il secondo per ricettazione «perché traeva profitto dal furto precedente».

Tenente a giudizio perché «rientrato in camerata entrando dalla finestra», il suo permesso d'uscita non era stato autorizzato.

Sono solo alcune delle sentenze emesse dai giudici militari, il cui «stupidario» dei verdetti che sembrano barzellette risulta particolarmente ampio e variegato. Mantenere in piedi il baraccone della magistratura con le stellette è come tenere aperto un'industria di stufe nel Sahara. Scelte lecite, per carità, ma assolutamente illogiche. Le toghe militari (competenti per i reati commessi da soldati e carabinieri) rappresenta infatti una microcasta - superflua, ma tutelatissima - all'interno della maxicasta delle toghe. Tecnicamente anche i magistrati militari fanno parte di quel potere giudiziario che è, insieme a quello esecutivo e legislativo, uno dei tre capisaldi fondamentali su cui si fonda lo Stato. Ma se poi si va a comparare la magistratura ordinaria con quella militare, la differenza balza subito agli occhi: nel primo caso migliaia di processi all'anno, nel secondo a poche decine. Uno squilibrio evidente conseguenza del fatto che per gli attuali 48 giudici militari (operativi fra tre Procure di Verona, Roma e Napoli) la materia del contendere è scarsissima e spesso relativa a illeciti «bagatellari» che potrebbero essere assorbiti dai magistrati ordinari, o nei casi più irrilevanti addirittura dai giudici di pace. Del resto con l'abolizione nel 2005 del servizio di leva obbligatoria, il crollo dei contenziosi era inevitabile, ma la lobby ha tenuto duro. Riuscendo a mantenere tutte le prebende che consentono di fare, con ottimi stipendi e una vita di tutto riposo. Quasi di letargo, a rileggere oggi la coraggiosa confessione del 2007 dell'allora giudice militare Benedetto Manlio Roberti che sull'Espresso dell'8 febbraio scrisse testualmente: «Devo riconoscerlo, rubo letteralmente lo stipendio all'amministrazione (...) È ora di finirla con questa farsa. Qui non si lavora più e questa non è dignità». Coerentemente a quanto denunciato il giudice Roberti ha chiesto e ottenuto il trasferimento nella magistratura ordinaria diventando nella Procura di Padova uno dei pm più impegnati soprattutto nel settore dei reati ambientali. Altri ex giudici militari colleghi di Roberti hanno seguito il suo esempio, ma molti altri hanno preferito continuare a godersi sonni tranquilli. Nel 2008 una riforma ha dato un serio taglio all'intero comparto della magistratura militare che però ancora oggi - se pur ridimensionata - continua ad avere un suo autonomo Csm (il Cmm), una sua Anm (l'Anmm), tre Tribunali, un Tribunale di sorveglianza, un Corte di Appello e una Procura Generale presso la Corte di Cassazione. Insomma, un perfetto - quanto pletorico - duplicato del già elefantiaco apparato della magistratura ordinaria. L'attuale ministro della Difesa, Roberta Pinotti, già 9 anni fa, in un'intervista del 3 giugno al Secolo XIX andava giù duro: «Abbiamo i processi più lenti d'Europa, mancano i giudici e ci permettiamo di mantenere decine di fannulloni forzati(...) Ci sono alcuni magistrati che giudicano indecoroso stare con le mani in mano e altri no. L'accorpamento dei tribunali comporterebbe un risparmio di oltre un miliardo di euro». Oggi siamo nel 2017 e la casta dei giudici con le stellette non lascia, anzi rilancia: «La giustizia militare è storicamente uno degli orgogli del nostro Paese, nonostante la politica stia facendo di tutto per farci sparire». Magari lo facesse davvero.

Kafka era un dilettante! Scrive Piero Sansonetti il 27 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Storie come queste, purtroppo, non sono infrequenti. Però se ne parla poco, perché l’idea è che se uno finisce sotto processo, almeno un po’, è colpevole. E quindi è bene che paghi. La riassumo in pochissime righe: c’è un tale – un imprenditore – che viene arrestato e sbattuto in prigione. Siccome ha una azienda e dei beni, gli sequestrano l’azienda e gli confiscano i beni. Trapani insegna: Kafka era solo un dilettante… Resta in prigione per anni. Affronta svariati processi. Poi lo assolvono. Gli dicono: «Oh, scusi, ci siamo sbagliati». Lui dice: allora posso avere indietro i beni che mi avete confiscato? «Eh, no – gli rispondono – purtroppo quelli ormai sono dell’erario». Ah. E mentre ancora è stordito per questa risposta, gli arriva un conto da 3 milioni che gli viene spedito da “Riscossione Sicilia” per via di alcuni debiti con l’erario che l’azienda – che ora è tornata sua – ha accumulato durante il periodo di amministrazione giudiziaria. Deve restituirli, e in fretta. Voi dite: vabbé non è possibile, manco Kafka si sarebbe immaginato una cosa del genere. Invece è proprio così Nomi e cognomi. Lui si chiama Enzo Mannina, è di Trapani, oggi ha 56 anni. La sua azienda si chiama “Mannina Vito Srl”, l’ha fondata suo padre una cinquantina d’anni fa. Ha 35 dipendenti. Che ora rischiano di restare per strada. L’ingiunzione della “Riscossione Sicilia” lascia pochi margini: pagare subito, entro 30 giorni. I 30 giorni scadono l’otto ottobre. Enzo Mannina i tre milioni non li ha, perché negli ultimi anni ha vissuto molto tempo in cella e ha guadagnato poco. E i soldi che aveva guadagnato prima, come dicevamo, glieli hanno confiscati e non glieli ridanno più. E allora che si fa? Figuratevi un po’, il poveretto – invece che dare di matto, come credo avrebbe fatto chiunque di noi – ha preso carta e penna per chiedere una rateizzazione. Perché avrebbe intenzione di riprendere in mano l’azienda, farla fruttare, e piano piano pagare i debiti e i danni apocalittici combinati dallo Stato e dalla giustizia, i quali Stato e giustizia non intendono in nessun modo assumersi le loro responsabilità. Dicono: in fondo alla fine lo abbiamo assolto, dunque ha avuto giustizia. Che vuole di più? Mannina era stato arrestato nel 2007 nell’ambito di una operazione che si chiamava “Mafia e Appalti”. Lo accusavano di far parte di Cosa Nostra e precisamente di essere il vice del capomandamento di Trapani, Francesco Pace. A quel punto erano scattati anche i sequestri preventivi, diventati poi confische, e la sua azienda era finita in amministrazione giudiziaria. Ed erano anche partite tutte le interdittive che avevano bloccato i lavori che gli erano stati commissionati da enti pubblici. Da quel momento è iniziata una serie infinita di processi, conclusi con alcune condanne e molte assoluzioni, e accompagnati da una lunga prigionia: quasi cinque anni. Poi, nel dicembre scorso, dopo un paio di rimpalli tra Appello e Cassazione, la Corte d’Appello di Palermo lo ha assolto definitivamente perché il fatto non sussiste. Finita l’odissea penale e carceraria è iniziata quella economica. Mannina, a 56 anni, si è trovato a dover ripartire da zero. L’avvocato del signor Mannina (Michele Guitta) ha spiegato il motivo per il quale non può riavere indietro i soldi che gli erano stati ingiustamente confiscati. Ha detto che questa situazione è il frutto della normativa vigente che prevede in caso di confisca definitiva dei beni (che nel caso di Mannina era scattata dopo la prima condanna) “l’estinzione per confusione dei crediti erariali”. Avete capito qualcosa? No, neanch’io. Però mi sono informato. Vuol dire che una volta che ti hanno confiscato i beni, e quei beni sono finito all’erario, è successo che si sono “confusi” con gli altri beni dell’erario e non è più possibile “separarli” e dunque renderteli. Restano dell’erario. Ci dispiace: stavolta è andata male…È chiaro che in questa storia di mischiano un numero incredibile di errori e di incongruenze della giustizia. Ho l’impressione però che siano tutti dovuti alla stessa idea: l’idea che la lotta alla mafia giustifica qualunque sopruso, perché comunque si tratta di soprusi a fin di bene. E questo sia al momento di immaginare e redigere le leggi, e le norme, e il meccanismo delle interdittive, sia nello svolgere le indagini e nel considerare un sospetto qualcosa di molto molto simile a una prova. E’ la cosiddetta pesca a strascico: la preoccupazione è quello di colpire, comunque e con durezza. Arrestare, confiscare, bloccare i lavori. Naturalmente è una preoccupazione ragionevole, nel senso che sarebbe una follia sottovalutare l’importanza della lotta alla mafia. Solo che è impossibile combattere la mafia facendo strame del diritto. E purtroppo è molto difficile far passare questa idea. La conseguenza di questa pesca a strascico è il caso Mannina. Il quale, vedrete, non appassionerà molto i giornali, i quali, di solito, a tutto sono interessati fuorché al diritto.

"Taccia lei è di Palermo", Ordine avvocati contro un giudice di Trento, scrive il 20 settembre 2017 "Nuovo Sud". "Avvocato, lei taccia, perchè qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo". La frase sarebbe stata pronunciata nel corso di una udienza al Tribunale del Riesame di Trento dal presidente Carlo Ancona all'avvocato palermitano Stefano Giordano (nella foto), figlio di Alfonso, storico presidente del maxiprocesso. "Un fatto sicuramente gravissimo quello accaduto al collega che me lo ha riferito. Domani pomeriggio informerò il Consiglio e aprirò un fascicolo", commenta il presidente dell'ordine degli Avvocati di Palermo Francesco Greco. "E' un fatto grave, oltre al riferimento razzista ed offensivo. Ho in ogni caso prova di tutto quello che è accaduto", si limita a confermare lo stesso Stefano Giordano che è riuscito, non senza difficoltà, ad ottenere la verbalizzazione di quanto accaduto. Il presidente dell'Ordine degli avvocati di Palermo precisa che, non appena ricevuta la nota da parte di Giordano, verrà trasmessa al Consiglio superiore della magistratura. Mentre il verbale di udienza - richiesto ma non ancora inviato - sarà trasmesso al procuratore generale della Corte di Cassazione.

«Siamo in un posto civile, mica a Palermo». Frase «shock» del giudice Ancona in aula durante un riesame. E l’avvocato siciliano è pronto a fare un esposto al Csm, scrive il 21 settembre 2017 "Trentino". «Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo». A pronunciare questa frase, come racconta l'avvocato Stefano Giordano, del foro di Palermo, il presidente del tribunale del riesame di Trento, Carlo Ancona, nel corso di una udienza che si è celebrata martedì mattina proprio in una delle aule del palazzo di giustizia di Trento. «È un fatto gravissimo oltre che una frase razzista - dice Giordano, che figlio del presidente del Maxiprocesso di Palermo, Alfonso Giordano, - Mi trovavo al tribunale di Trento per una udienza di rinvio al tribunale del riesame, quando è avvenuto un fatto increscioso. Il presidente Carlo Ancona - spiega Stefano Giordano - nel condurre l'udienza con un indagato palermitano e con il sottoscritto come difensore, mi ha impedito di svolgere la mia arringa, profferendo la seguente frase: “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. A questo punto, ho chiesto, e solo dopo numerosi sforzi, ho ottenuto la verbalizzazione di quanto accaduto». Una frase che, dopo il racconto dell’avvocato, è finita su siti di informazioni e sulle agenzie di stampa avendo ampio risalto. Una frase che lo stesso giudice Ancona non rinnega. «L’avvocato - spiega il giudice - aveva aggredito, verbalmente, una pubblico ministero che neppure centrava con la causa che si stava discutendo. Un atteggiamento non tollerabile al quale ho risposto. Per altro l’avvocato aveva pacificamente ragione e non c’era molto da discutere, ma ha avuto un atteggiamento scorretto». Una frase, che avrà delle conseguenze. Con un esposto che sarà, infatti, portato all’attenzione del Consiglio Superiore della Magistratura, che l’organo di autogoverno della magistratura. «Purtroppo - aggiunge l’avvocato palermitano Stefano Giordano - nonostante numerose richieste, non sono riuscito a ottenere dalla cancelleria del tribunale del Riesame di Trento una copia del verbale dell’udienza. Manifesto, in relazione a quanto accaduto, la mia preoccupazione per quanto accaduto, in quanto avvocato, in quanto cittadino italiano e, soprattutto, in quanto palermitano - conclude l’avvocato Stefano Giordano - Ho già concordato con il presidente dell'Ordine di Palermo, l'avvocato Francesco Greco, di redigere insieme un esposto che sarà prontamente comunicato al Csm e alle altre autorità istituzionali competenti». «Quanto accaduto, per come appreso - commenta Andrea de Bertolini, presidente dell’ordine degli avvocati di Trento - è un episodio infelice che, ritengo, possa essere stato l’esito di tensioni quali quelle che a volte le udienze penali possono generare; interessa un magistrato del quale, peraltro, il Foro ha sempre riconosciuto la grande preparazione e la dedizione al lavoro».

Csm restituisce 20 milioni di euro al bilancio dello Stato: ma i magistrati si occupano di finanza, edilizia o giustizia? A Trento nel frattempo va in scena l’ennesimo abuso del giudice di turno… La denuncia arrivata dell’avvocato Stefano Giordano, peraltro figlio del giudice Alfonso Giordano che fu il presidente del Maxiprocesso di Palermo: “Sono preoccupato per ciò che è accaduto, presenterò esposto al Csm”. I membri togati Morosini, Aprile, Ardituro, Forteleoni e Spina hanno immediatamente chiesto l’apertura di una pratica nei confronti del giudice Carlo Ancona, una “vecchia conoscenza” della commissione disciplinare. Ecco di cosa dovrebbe occuparsi il CSM…, scrive Antonello de Gennaro il 21 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Nella delibera del Comitato di Presidenza del CSM, approvata ieri all’unanimità dal Plenum, ed annunciata con toni trionfalistici da un comunicato stampa, si legge che secondo il vicepresidente Giovanni Legnini la decisione di restituire 20 milioni “appare la più opportuna nell’attuale contingenza economica, tanto più se la somma potrà essere destinata al sostegno degli uffici giudiziari”.  Il Consiglio Superiore della Magistratura restituisce al Bilancio dello Stato 20 milioni di euro risparmiati nel corso degli anni, con il fine di destinarli al sostegno degli uffici giudiziari che si trovano nelle aree colpite d al terremoto e che versano in un’eccezionale condizione di difficoltà. In particolare, il Consiglio Superiore propone al Ministero dell’Economia di “prevedere presso il ministero della Giustizia, l’istituzione di un apposito Fondo” i cui obiettivi dovrebbero essere gli “aiuti agli uffici giudiziari delle aree colpite da eventi sismici e di quelli che versano in un’eccezionale situazione di difficoltà“, nonchè un “sostegno all’attività dei Consigli giudiziari, anche per rafforzare gli strumenti di cooperazione tra il Csm e gli organi di governo autonomo di prossimità“. “E’ un provvedimento storico – ha detto forse con troppa enfasi il Vice Presidente Giovanni Legnini nel corso del Plenum – Per la prima volta il Consiglio restituisce una somma consistente, auspicando che venga destinata interamente per la giurisdizione”. “Mi farò carico personalmente – ha aggiunto Legnini – di fare in modo che con la prossima legge di stabilità venga istituito un Fondo sul Bilancio dello Stato, alimentato con questa somma, che abbia queste finalità”. Restituire fondi inutilizzati allo Stato non è un gesto “esemplare”, ma secondo noi giusto e corretto da parte di chi ha un senso dello Stato, e quindi verso i cittadini, e quindi non ci sarebbe bisogno neanche di comunicarlo con tutta questa enfasi. Probabilmente il Csm farebbe bene a pensare a “lottizzare” di meno le sue nomine nei vari uffici giudiziari, e soprattutto intervenire sull’operato dei giudici che indossando una toga a volte credono di essere dei “supermen”, degli “intoccabili”, che possono tutto, e guai a chi li tocca….

L’ultimo cattivo esempio dell’arroganza manifestata da alcuni magistrati, è stato quello del Presidente del Tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona che nel corso di una udienza che si è celebrata ieri proprio a Trento, rivolgendosi ad un avvocato ha detto “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. Lo ha reso noto l ‘avvocato Stefano Giordano, che si dice “preoccupato per l’accaduto. E’ un fatto gravissimo oltre che una frase razzista – commenta l’avv, Giordano, che peraltro è il figlio di un giudice Alfonso Giordano che è stato il Presidente del Maxiprocesso di Palermo – Ieri mi trovavo al Tribunale di Trento per una udienza di rinvio al Tribunale del Riesame, quando è avvenuto un fatto increscioso”. “Il presidente del Tribunale del Riesame di Trento, il dottor Carlo Ancona – spiega Stefano Giordano, nel frattempo rientrato a Palermo – nel condurre l’udienza con un indagato palermitano e con il sottoscritto come difensore, mi ha impedito di svolgere la mia arringa, proferendo la seguente frase: “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. A questo punto, ho chiesto, e solo dopo numerosi sforzi, ho ottenuto la verbalizzazione di quanto accaduto. Purtroppo nonostante numerose richieste – aggiunge l’avvocato Giordano – non sono riuscito a ottenere dalla cancelleria del Tribunale del Riesame di Trento copia del suddetto verbale”. “Manifesto la mia preoccupazione per quanto accaduto, in quanto avvocato, in quanto cittadino italiano e, soprattutto, in quanto palermitano – aggiunge ancora Stefano Giordano – Ho già concordato con il presidente dell’Ordine di Palermo, l’avvocato Francesco Greco, di redigere insieme un esposto che sarà prontamente comunicato al Csm e alle altre autorità istituzionali competenti”. A questo punto c’è è da auspicare il Ministro di Giustizia Andrea Orlando mandi degli ispettori anche presso il Tribunale di Trento ad accertare i comportamenti arroganti non solo del giudice in questione ma anche della cancelleria.

La frase shock è approdata al Consiglio superiore della magistratura, dove un componente togato del Csm Piergiorio Morosini ha chiesto ieri pomeriggio l’apertura di una pratica disciplinare nei confronti del giudice Ancona La richiesta sottoscritta anche da altri componenti togati del Csm, tra i quali Antonello Ardituro, da Ercole Aprile, da Luca Forteleoni e da Saro Spina, che ritengono  “dai toni inaccettabili, di matrice razzista” la frase espressa dal Presidente del Tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona . Quello che è sfuggito a molti è, che già in passato il giudice Carlo Ancora è stato censurato dal Csm, insieme ai colleghi Claudia Miori e il sostituto procuratore Pasquale Profiti tutti in servizio presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Trento.  La vicenda ebbe inizio nell’estate del 2008 quando davanti al giudice Ancona arrivò a giudizio un immigrato clandestino accusato di aver messo in atto una serie di danneggiamenti. Il giudice Ancona convalidò l’arresto e si va andò patteggiamento a otto mesi di reclusione sostituiti con l’espulsione dall’Italia per cinque anni.  A questo punto successe qualcosa di anomalo che poi portò al provvedimento disciplinare. L’immigrato, infatti, non venne scarcerato ed è il suo avvocato difensore, Filippo Fedrizzi, presentò istanza per la liberazione o, in subordine, per gli arresti domiciliari. Si andò quindi al riesame (il giudice era Claudia Miori) la quale acquisito anche il parere del pm Pasquale Profiti rigettò il ricorso. I giorni così passarono e il clandestino restò in cella in attesa dell’espulsione. Era il 14 agosto 2008 quando l’avvocato Filippo Fedrizzi, presentò un esposto a vari enti fra i quali il Ministero di Giustizia. Due giorni dopo, sia al 16 agosto, quindi a poco meno di un mese dal patteggiamento, avvenne finalmente la scarcerazione dell’immigrato. Dell’esposto se ne occupò il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. Si arrivò quindi alla “censura”, provvedimento contro il quale presentano ricorso tutti e tre i magistrati trentini compreso il giudice Ancona protagonista dell’ultima ennesima arroganza. Il fascicolo finì davanti alla Suprema Corte Cassazione che rigettò le opposizioni dei tre magistrati di Trento e quindi confermò la censura, in quanto il clandestino non doveva restare in carcere quel mese in più.  Questo fu all’epoca dei fatti il commento dal giudice Carlo Ancona: “Siamo stati puniti solo per aver tentato di far rispettare le leggi”.

La Legge non “è uguale per tutti”, ma bensì deve essere uguale per tutti. Anche per i magistrati che la violano, calpestando l’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, dimenticando che il pm deve acquisire anche le prove a favore dell’indagato.  Chissà se adesso il Csm si deciderà ad applicare dei provvedimenti ben più incisivi e rigorosi di una semplice “censura”.

Mastella assolto 9 anni dopo la caduta di Prodi: ho sofferto tanto. Accusato con la moglie Sandra Lonardo, l’ex leader dell’Udeur si dimise da Guardasigilli e mandò in crisi il governo, scrive Fulvio Bufi il 12 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Per quanto Berlusconi ci provò con la compravendita dei senatori, la vera causa della caduta del governo Prodi nel 2008 furono le dimissioni di Clemente Mastella da ministro della Giustizia. Scelse di farsi da parte, ma anche di ritirare l’appoggio dell’Udeur alla coalizione, quando dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere lo misero sotto inchiesta accusandolo di concussione nei confronti del governatore della Campania dell’epoca, Antonio Bassolino.

Il terremoto politico. Sono passati oltre nove anni da quell’inchiesta e ieri Mastella è stato assolto. Non impose cariche per esponenti del suo partito, non commise nessun altro tipo di reato. Assolti anche tutti gli altri imputati, tra i quali la moglie dell’attuale sindaco di Benevento, Sandra Lonardo, che all’epoca conobbe addirittura gli arresti domiciliari Nel gennaio del 2008 il Paese subì dunque un terremoto politico e una crisi di governo per nulla, si scopre oggi. E Mastella ne ricorda, però, soprattutto le conseguenze sul piano personale e familiare. «Ho sofferto tanto», commenta adesso. E aggiunge: «La mia famiglia e io abbiamo patito cose inimmaginabili. Sono contento soprattutto per la giustizia, perché questa sentenza conferma che la giustizia esiste e bisogna crederci, anche quando i tempi sono molto lunghi». Lui nel frattempo ha vissuto anni lontano dalla politica, ma non ce l’ha fatta a non tornare in gioco, anche se in qualche momento avrà pensato che era davvero fuori da tutto.

La vittoria a Benevento. Invece ora è sindaco a Benevento, e alla luce della sentenza emessa ieri dal Tribunale di Napoli, può tranquillamente restare al suo posto. In caso di condanna (il pubblico ministero Ida Frongillo aveva chiesto una pena di due anni e sei mesi) sarebbe invece in corso in quanto prevede la legge Severino e avrebbe dovuto lasciare la carica di primo cittadino. L’inchiesta nei confronti di Mastella disegnò l’Udeur come un centro di potere basato su illeciti di vario tipo. L’accusa principale rivolta al leader fu quella di aver imposto a Bassolino una importante nomina all’interno della Asl div Benevento, minacciando, in caso contrario, di ritirare la fiducia alla giunta regionale e di costringerla quindi a capitolare. Per la verità il primo a discolpare Mastella, nel corso di questi anni, è stato proprio Bassolino, che ha sempre negato di aver subito pressioni di alcun tipo. Alla fine se ne sono convinti anche i giudici.

Le indagini. Nelle indagini, oltre a Sandra Lonardo, furono coinvolti numerosi altri esponenti dell’Udeur, ma ieri tutti sono stati assolti. In alcuni casi erano maturati anche i tempi per la prescrizione (la cui applicazione è stata chiesta dal pm) ma il Tribunale ha preferito entrare nel merito e pronunciarsi per una assoluzione piena. Di quella vicenda di quasi dieci anni fa rimane — oltre a un’inchiesta finita nel nulla e a una crisi di governo — soltanto il ricordo di una surreale conferenza stampa, con il procuratore dell’epoca di Santa Maria Capua Vetere, Mariano Maffei, che non si rese conto di essere ripreso da decine di telecamere e che al termine provò a pretendere che nessuna immagine venisse mandata in onda. In realtà era già stato tutto trasmesso in diretta e in diretta andò anche la sua piccatissima reazione.

Clemente Mastella assolto dall'inchiesta che nove anni fa causò la caduta del Governo Prodi. Aveva lasciato la carica di ministro della Giustizia dopo un avviso garanzia e l'arresto della moglie Sandra Lonardo, scrive Roberto Fuccillo il 12 settembre 2017 su "La Repubblica". Assoluzione per Clemente Mastella. È la sentenza di primo grado al processo nato nel 2008 a Santa Maria Capua Vetere, e che costò tra l’altro la caduta dell’allora governo Prodi. Il verdetto è stato emesso dopo oltre sei ore di camera di consiglio dalla quarta sezione del Tribunale di Napoli. "È una riparazione a dieci anni di sofferenze - commenta Mastella, attualmente sindaco di Benevento - perchè è una vicenda che ha toccato tutta la mia famiglia". E aggiunge: "Non auguriamo a nessuno quello che è successo a noi. Ricordo quello che mi disse Andreotti: a me hanno risparmiato la famiglia, a te neppure quella". L’allora Guardasigilli (siamo nel 2008) reagì dimettendosi all’arresto della moglie Sandra Lonardo, disposto proprio nell’ambito dell’indagine. Le contestazioni si riferivano a presunte pressioni per le nomine in alcuni incarichi. Fra queste anche quella ipotizzata su Antonio Bassolino, all’epoca presidente della Regione, per una nomina alla Asi di Benevento. Pressione smentita dallo stesso Bassolino, ascoltato in aula. Nella sua requisitoria, il pm Ida Frongillo aveva comunque chiesto per l'ex ministro la condanna a due anni e otto mesi, modificando l'originaria imputazione di tentata concussione in indebita induzione. Al tempo stesso aveva sollecitato invece la prescrizione per Sandra Lonardo. Ieri, a quasi dieci anni da un passaggio che fu storico anche per le istituzioni italiane, la sentenza assolve l’ex ministro, oggi sindaco di Benevento, la consorte e gli altri due coimputati, l’ex consuocero Carlo Camilleri e l’avvocato Andrea Abbamonte, anch’essi all’epoca dei fatti dirigenti dell’Udeur. Il sindaco di Benevento, che all'epoca dei fatti ricopriva la carica di ministro della Giustizia ed era leader dell'Udeur, era accusato in particolare di "induzione indebita a dare o promettere utilità". Una ipotesi per la quale il pm aveva chiesto due anni e otto mesi di reclusione. La sentenza chiude una vicenda processuale tormentata, che culminò nel gennaio 2008 - quando l'inchiesta era condotta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere - nell'emissione dell'avviso di garanzia nei confronti del Guardasigilli. Una indagine che coinvolse anche la moglie del leader Udeur, Alessandra Lonardo, all'epoca presidente del consiglio regionale della Campania. Mastella si dimise dalla carica di ministro e pochi giorni dopo ritirò il suo appoggio al Governo Prodi, circostanza che contribuì alla caduta dell'esecutivo e alle elezioni anticipate che videro il successo della coalizione guidata da Berlusconi. Mastella e tutti i co-imputati, difesi dagli avvocati Alfonso Furgiuele e Fabio Carbonelli, sono stati assolto per tutti e tre i capi di imputazione con formula piane, anche per i due capi per i quali il pm aveva chiesto la prescrizione: perché il fatto non costituisce reato e perché il fatto non sussiste. Il capo di imputazione principale si riferiva a una presunta concussione ai danni dell'allora presidente della Regione Campania Antonio Bassolino. Secondo l'iniziale impostazione accusatoria, Mastella avrebbe imposto al Governatore la nomina di una persona da lui segnalata a commissario di una Asl, minacciando in caso di rifiuto di ritirare due assessori Udeur dalla Giunta. Una circostanza negata dallo stesso Bassolino nel corso del processo: l'ex presidente della Regione affermò di non aver subito alcuna pressione. Si sarebbe trattato di normali accordi politici. Il reato di concussione era stato derubricato dalla Procura in una induzione indebita a dare o promettere utilità. Il Tribunale ha ritenuto invece che si sarebbe potuto configurare un abuso di ufficio, concludendo comunque che il fatto attribuito a Mastella non costituisce reato. Il tribunale ha assolto con formula ampia anche la moglie di Mastella, l'ex presidente del Consiglio regionale della Campania Sandra Lonardo nonché i due ex assessori regionali dell'Udeur Nicola Ferraro e Andrea Abbamonte e l'ingegnere Carlo Camilleri, consuocero dell'ex ministro della Giustizia.

Mastella, cosa significa l'assoluzione nove anni (e otto mesi) dopo. L'ex ministro ha sempre parlato di manovre dei servizi segreti, ma forse ha pagato la sua idea di riforma della giustizia, scrive Maurizio Tortorella il 13 settembre 2017 su Panorama. Non è nemmeno la prima volta che Clemente Mastella, ex ministro della Giustizia, viene assolto. Era già accaduto l’8 marzo 2008, nell’inchiesta “Why not” avviata dall’ex sostituto procuratore di Catanzaro (e oggi sindaco di Napoli) Luigi De Magistris: Mastella, all’epoca Guardasigilli del governo di Romano Prodi, era stato indagato nell’ottobre 2007 per abuso d’ufficio. Il giudice lo aveva prosciolto scrivendo che "non vi erano neanche gli estremi per poter iscrivere Mastella nel registro degli indagati". Certo, in quel caso erano bastati cinque mesi. In questa seconda, grande assoluzione dall’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere, iniziata il 16 gennaio 2008 con l’arresto di sua moglie, invece, di mesi ne sono occorsi 116. I giornali hanno tutti titolato stamattina sui 9 anni occorsi perché si arrivasse alla sentenza di primo grado, ma in realtà sono stati 9 anni e otto mesi. Il reato contestato dai pubblici ministeri nel 2008 era grave: tentata concussione ai danni dell’allora governatore della Campania, Antonio Bassolino, per la nomina di un commissario di Asl. Non era servito a nulla che Bassolino negasse il ricatto, parlando di “normali trattative politiche”. Trasferito poi a Napoli, il procedimento è andato avanti. Ma con clamorosa lentezza: sono trascorsi oltre sei anni dal rinvio a giudizio all’assoluzione piena di ieri. Non è un record, va detto anche questo, perché se è vero che la media nazionale dei processi di primo grado è di 6-700 giorni, ci sono comunque casi in cui le sentenze arrivano dopo sette, otto, nove anni. Oggi Mastella, da sindaco di Benevento, protesta (giustamente) per la sua carriera politica (ingiustamente) ridimensionata a livello nazionale. Protesta per le sofferenze patite da lui e da sua moglie, che dopo aver patito gli arresti domiciliari fu sottoposta anche a un raro caso di divieto di dimora nella regione Campania. L’ex ministro aggiunge di essere sempre convinto che dietro la vicenda “non ci siano i giudizi ma i servizi”, e questa è una vecchia storia: “Alcuni cronisti” racconta Mastella “ricevettero una chiavetta informatica con le mie intercettazioni da un emissario della prefettura di Napoli”. Resta un altro sospetto, forse ancora più concreto: e cioè che Mastella abbia pagato per il suo tentativo d’imporre una riforma della giustizia molto poco gradita alla categoria dei magistrati: con importanti cambiamenti nel funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e una stretta alla divulgabilità delle intercettazioni.

Mastella, sfogo a «Porta a porta»: ​«I Servizi segreti dietro la mia vicenda», scrive Mercoledì 13 Settembre 2017 ”Il Mattino di Napoli”. «Non furono i giudici ma i servizi a farmi fuori. Nessuno dei miei colleghi ministri mi mostrò solidarietà, tanti mi trattarono come un 'nipotino di Belzebù». Clemente e Sandra Mastella, all'indomani della clamorosa assoluzione a loro carico, un pò spauriti uno a fianco dell'altro nel salotto di Porta a Porta ripercorrono il racconto del loro calvario giudiziario durato nove anni. Emozionati, a tratti in lacrime, trattengono a stento la rabbia contro chi, in questi lunghi anni, li ha ignorati o denigrati, in una conversazione che alterna sensazioni umane a considerazioni politiche. «Ero un obbiettivo facile, uno piccolo e nero, meridionale della prima repubblica...», lamenta l'ex Guardasigilli con i lucciconi. Ammette il dolore profondo: «Credo che un Paese in cui uno si alza e finisce in galera non vada lontano. Ora serve una riconciliazione. No a guerre tra politica e giustizia, ma lavoriamo assieme soprattutto sui tempi del giudizio». Si leva comunque qualche sassolino dalle scarpe che gli fa male da tanti anni: «Nessun collega volle venire in tv a esprimermi solidarietà, anche quella ipocrita. Nessuno tra chi era ministro grazie a me. Solo Chiti mi fu vicino al Senato». Ma lo fa senza alcuna animosità. Solo la moglie, elegante in un completo scuro, si lascia andare all'emozione, ma con grande dignità: «Abbiamo resistito grazie alla grande unità della nostra famiglia, e non è un fatto scontato», sottolinea con la voce rotta. Ma l'ex delfino di De Mita, ministro sia con Berlusconi, sia con Prodi, non rinuncia a parlare di politica. Prima a Benevento, poi a Porta a Porta, racconta che nelle ultime ore in tanti gli hanno offerto una candidatura. «Non mi interessa, continuerò a fare il Sindaco di Benevento», chiarisce. Prodi ha evitato ogni commento. Mastella si morde il labbro, non vuole polemizzare. Ma dopo la puntata si lascia andare a un piccolo sfogo, l'unico: «Per lui è comodo dire che cadde per colpa mia. Ma se fosse sincero dovrebbe dire che ci fu una strategia per fotterlo portata avanti da Veltroni. Ma così metterebbe in crisi l'Ulivo e tutta la stagione successiva. Io ero parte lesa». Un collaboratore gli porge il cellulare. È Silvio Berlusconi che gli esprime la sua solidarietà. E lo stesso farà con la signora. Quindi chiarisce che a suo giudizio, dietro l'inchiesta giudiziaria, ci fu qualche manina oscura. «Ebbi subito la percezione che ci fossero di mezzo i servizi segreti, magari deviati. E che vi fosse la volontà di far cadere quel governo. Credo che ci fosse l'obbiettivo di colpire me, l'anello più debole, per destabilizzare l'Italia. È certo che chi compete con l'Italia - sintetizza - avesse la volontà di indebolirci». Complotto o non complotto, quello che all'ex Sindaco di Ceppaloni sta a cuore oggi è difendere l'onore suo, della sua famiglia e dei suoi elettori. «In pochi giorni venne messo in galera un intero partito. Come se l'Udeur fosse un'associazione a delinquere. Nemmeno la Dc, il Psi, il Pci dei tempi di tangentopoli ebbero quel trattamento, malgrado la presenza di tangenti. Ora che è arrivata la sentenza - sottolinea in chiusura di trasmissione - sono qui per difendere tutta quella gente comune che mi è stata sempre vicina».

Mastella: «Voglio le scuse degli Usa. Indagato, mi vietarono un viaggio». L’ex ministro, incassata l’assoluzione dopo nove anni di attesa, si toglie alcuni sassolini. Attacca il governo Usa. «La sentenza mi restituisce la dignità», scrive Cesare Zapperi il 13 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. All’indomani dell’assoluzione, attesa nove anni, Clemente Mastella è andato a ringraziare la Madonna delle Grazie a Benevento cui ha dedicato un cero. «Avevo fatto un voto» ha spiegato. Poi si è dedicato alla sua tormentata vicenda giudiziaria che lo costrinse ad abbandonare il ministero di Grazia e Giustizia e il governo Prodi. L’attuale sindaco di Benevento ne ha per tutti. «Mi auguro che il Governo degli Stati Uniti mi porga le scuse perché tre anni fa mi impedirono di imbarcarmi in aeroporto a Fiumicino pur avendo il visto per gli Usa» ha detto. «Sul web circolavano notizie false o imprecise sul mio processo. È come se per gli Stati Uniti fossi stato un condannato, quando in realtà ero semplicemente indagato. E quando contattai l’ambasciata mi venne sconsigliato di partire perché non avrebbero fatto atterrare l’aereo». «Per questi motivi - ha continuato Mastella - voglio che Wikipedia cancelli quello che è scritto nella mia pagina altrimenti non esiterò a querelare chi diffonde notizie false su internet. Io sono stato assolto, questo è il dato. Sono stanco di quanti hanno diffuso fake news sulla sua vicenda giudiziaria facendomi passare come il nipote di Belzebù». «Nelle ultime ore ho ricevuto tantissime telefonate da parte di molti magistrati, politici (Bassolino, Casini, De Mita, Fassino, De Girolamo, ecc.), ma soprattutto da tantissima gente comune». Così Clemente Mastella incontrando la stampa. E alla domanda se gli avessero telefonato Prodi e Berlusconi, ha risposto con un secco «no». Quanto al suo futuro, Mastella fa sfoggio di serenità. «Continuerò a fare il sindaco di Benevento e a impegnarmi in politica, nonostante le proposte di candidatura che ho ricevuto anche durante la notte. La sentenza di ieri - ha aggiunto Mastella - mi restituisce la dignità politica, quella personale no in quanto la gente ha sempre avuto fiducia in me e nella mia famiglia». Poi si è soffermato sui temi della giustizia. «Non occorrono guerre tra schieramenti o tra magistrati e avvocati, o tra giudici e politici: tutti insieme dobbiamo lavorare per rendere la giustizia più giusta, soprattutto nei tempi». «Su questo - ha continuato Mastella - continuerò a impegnarmi su tutti i livelli perché mentre io, oggi, posso, attraverso i media, rendere pubblico il dramma che ho vissuto con la mia famiglia, oltre agli amici che mi sono stati vicini in undici anni di calvario, ci sono tanti altri cittadini che da anni attendono giustizia». E, a riguardo, Mastella rivela che «proprio questa mattina un imprenditore di Caserta, facendomi gli auguri per l’assoluzione, mi confessava che lui era ancora in attesa di una sentenza da 25 anni presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere».

Ora è lady Mastella che accusa: Bindi dovrebbe scusarsi con me. La moglie dell’ex Guardasigilli Sandra Lonardo: «Quando mi mise tra gli impresentabili svenni», scrive Simona Brandolini il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Al momento delle dimissioni in Aula, tra i banchi del governo, c’era solo Vannino Chiti. Oggi la solidarietà è totale e piena, o quasi. Ma non commenta Romano Prodi, uno dei pochi a non aver telefonato a Clemente Mastella. E l’ex Guardasigilli lo sottolinea: «Allora era facile colpevolizzarmi, io piccolo e nero, meridionale della Prima Repubblica. Per Prodi è comodo dire che il governo cadde per colpa di Mastella. Ma se volesse essere sincero fino in fondo dovrebbe dire che ci fu una strategia per fotterlo, portata avanti da Veltroni. Io in quella vicenda sono stato parte lesa». Clemente Mastella comincia a svelare qualche retroscena di una vicenda che dal punto di vista umano e politico ha travolto la sua famiglia e il suo partito, l’Udeur. «Credo che dietro la mia vicenda non ci siano i giudici ma i servizi: i cronisti ricevettero i file delle mie intercettazioni a Napoli da uno della prefettura. E questo la dice lunga». Il Mastella day comincia con la visita al Santuario di Ceppaloni, prosegue con una conferenza stampa a Benevento, città di cui è il sindaco, e termina a Roma, negli studi di Porta a Porta. Al suo fianco Sandra Lonardo, sua moglie, anche lei assolta.

Signora Lonardo, l’inchiesta riguardava presunte irregolarità nelle nomine della sanità. Sua era la frase riferita al manager dell’Asl di Caserta Luigi Annunziata: «Per me è un uomo morto». La ripeterebbe?

«Ho chiesto un parere all’Accademia della Crusca che mi ha dato ragione. Dire “è un uomo morto” significa “non lo voglio più vedere”. Certo che lo ripeterei. Non mi pento mai delle cose che dico».

Dopo dieci anni di processo cosa pensa di aver perso?

«Mi sono chiesta tante cose. Certo dovrei essere felice, sono più tranquilla, ma non è una bella giornata. Sono stati anni di disperazione, di dolore, è cambiato tutto. Io ero presidente del Consiglio regionale, Clemente ministro della Giustizia, un partito si è sciolto come neve al sole. Niente e nessuno potrà mai ripagarci. Ci vorrebbe una class action».

Ha detto spesso di sentirsi umiliata, l’assoluzione potrà cancellare tutto questo?

«San Filippo Neri utilizzava la metafora del pollo spennato. La maldicenza e la calunnia non si possono mai recuperare del tutto, come le penne sparse. L’80% delle persone è solidale con noi, ci stima. Ma ci sarà sempre un 20% per il quale saremo colpevoli».

All’epoca lei era in Consiglio regionale. Ma scattarono prima gli arresti domiciliari e poi il divieto di dimora in Campania. 

«Un incubo. Se non avessi avuto l’aiuto di due psicologici non l’avrei superata. Feci la campagna elettorale da Roma, con un avatar, grazie al web. Hanno scritto due tesi di laurea su quella scelta. Ora scriverò un libro, c’è tanto da raccontare».

Crede nella giustizia?

«Certo, ho creduto anche nel pm che mi ha messo sotto inchiesta. Ho sempre avuto rispetto di tutte le istituzioni. Ma serve una seria riforma della giustizia e anche la modifica di alcune leggi, cominciando dalla Severino».

Nel 2015, si ripresentò alle elezioni e finì nella lista degli impresentabili della commissione Antimafia, presieduta da Rosy Bindi.

«Senza nessuna condanna, Rosy Bindi dovrebbe dimettersi se ha una coscienza. Ma non ne ha. Ha giocato con la vita delle persone. Quantomeno dovrebbe chiedermi scusa. Svenni quando un giornalista me lo disse al telefono».

Cosa fa più male perdere, il potere o la dignità?

«Entrambe le cose quando sei in sella».

Tornerà a fare politica?

«Non so rispondere ora. Per anni mi sono occupata di altro. La cucina, il cibo. Tra un po’ lancio una mia linea di prodotti tipici».

Biografia di Clemente Mastella da Alberto Spada.

• Ceppaloni (Benevento) 5 febbraio 1947. Politico. Sindaco di Benevento dal 20 giugno 2016. Eletto alla Camera nel 1976, 1979, 1983, 1987, 1992, 1994, 1996, 2001 (Dc, Ccd, Margherita), al Senato nel 2006 (Udeur), al Parlamento Europeo nel 2009 (Pdl, ricandidato e non eletto nel 2014 con Fi). Sottosegretario alla Difesa nell’Andreotti VI e VII (1989-1992). Già ministro del Lavoro nel Berlusconi I (1994-1995), ministro della Giustizia nel Prodi II (2006-2008): le sue dimissioni portarono alla caduta del governo e alla fine della XV legislatura. «Conosce la storia del castoro? Quella citata da Gramsci? Un tempo, il castoro era molto ricercato dai cacciatori, perché dai suoi testicoli si traeva una sostanza considerata miracolosa. Quando il povero animale si vedeva circondato, si strappava i testicoli e li gettava ai cacciatori, per aver salva la vita. Ecco, quel castoro sono io. Quando mi sono visto circondato da giudici, giornalisti, servizi segreti, ho lasciato il ministero, insomma mi sono strappato i testicoli. E mi hanno risparmiato» (ad Aldo Cazzullo).

• «Da quando, nel 1976, è entrato in politica, ha fatto il deputato, il senatore e l’eurodeputato ininterrottamente. Un primato. L’uomo di Ceppaloni non colleziona soltanto seggi. Ma anche partiti: ne ha fondati una mezza dozzina; è stato nella Dc ed è in Forza Italia. Ha un debole per le poltrone di governo: due volte sottosegretario e due volte ministro. Nelle cerimonie pubbliche usa il risvolto dei pantaloni per pulirsi le scarpe. Confonde le Mura di Gerico con il Muro del pianto. Ed è persino convinto che Mosè abbia attraversato il Mar Rosso da solo» (Guido Quaranta) [Esp 2/5/2014].

• Figlio di un maestro, laureato in Filosofia («primo in una famiglia di analfabeti»), giornalista, lavorò in Rai e fu capo dell’ufficio stampa della Democrazia cristiana guidata da Ciriaco De Mita: il segretario faceva “ragionamenti” e lui «li traduceva in notizie per gli amici giornalisti. Tanti». «Cordialone con i cronisti ossequiosi e arrogante con gli altri, era soprannominato “la voce del padrone”». Al congresso della Dc del febbraio 1989 si guadagnò gli onori delle cronache e di un neologismo, le “truppe mastellate”, coniato da Giampaolo Pansa per lo zelo con cui organizzò e diresse la claque.

• Nel ’93 tentò lui stesso di fare il segretario della Dc, proponendosi come il simbolo del rinnovamento. «Più che il nuovo che avanza, è l’avanzo del vecchio», commentò il suo compagno di partito Hubert Corsi.

• «A Montecitorio dal ’76 (fino al 2008, quando non si è ricandidato, nonostante l’offerta di un posto da capolista nelle liste del Psi – ndr), si è segnalato, come legislatore, per tre idee. Ha proposto di introdurre la settimana corta nelle scuole per consentire agli studenti e ai loro genitori di godersi un lungo fine settimana. Ha suggerito di far suonare l’inno nazionale all’avvio di ogni partita di calcio non solo come antidoto alle violenze negli stadi ma anche per dare solennità agli incontri. E ha auspicato l’istituzione di un tribunale speciale per i giornalisti sfrontati con i potenti. Nessuna di queste idee è stata presa sul serio» (Guido Quaranta).

• Nel ’98 raccolse l’appello dell’ex presidente Francesco Cossiga, si staccò dal Ccd e diede vita ai Cristiano democratici per la Repubblica, presto confluiti nell’Udr (di cui diventò segretario). L’Udr diede la fiducia al governo D’Alema. Dopo circa un anno trasformò il progetto iniziale in Udeur (Unione democratici per l’Europa) lavorando al progetto di un grande centro. Quindi strinse un accordo con l’Ulivo e si presentò col centrosinistra («un centro-sinistra scritto col trattino, anzi col trattone») alle regionali del 2000. • «Incarnazione del centro del centro del centrosinistra, che però, all’occorrenza, potrebbe trasformarsi nel centro del centro del centrodestra» (Antonio Padellaro). Contrario al referendum sulla legge elettorale (che avrebbe cancellato la sua Udeur, ferma all’1,5 per cento), minacciò più volte di uscire dal governo e di costringere il Paese al voto anticipato per evitarlo. Salvo poi tornare sui suoi passi dichiarando l’intenzione di rifondare un partito cattolico di centro insieme a Casini.

• Fu l’unico ministro a non votare il disegno di legge sui Dico varato dal governo. E in una puntata di Anno zero dedicata proprio ai Dico, provocato da una vignetta di Vauro, per protesta se ne andò dallo studio in diretta tv (il conduttore Michele Santoro lo attaccò, Vauro da allora in poi lo soprannominò “madre Mastella di Calcutta”). Nel maggio 2007 fu uno dei due ministri che parteciparono al Family Day (l’altro era Beppe Fioroni).

• Sull’esperienza nel Prodi II: «L’indulto: nasce dall’accordo tra i grandi partiti, e l’hanno gettato addosso a me. Il volo di Stato (per andare al Gp di Monza del settembre 2007, ci fu anche un’inchiesta per abuso d’ufficio poi archiviata, ndr): avevo chiesto il permesso alla presidenza del Consiglio! Che fastidio dava mio figlio su un aereo che tiene cento persone! Vallettopoli: una sera mi telefona un cronista del Secolo XIX e mi chiede se sono io il politico in barca con due donne e un trans. Passi per le donne, ma il trans! Che schifo! Incontro per caso al Bolognese Lele Mora, lo saluto, e la Guardia di finanza fa irruzione al ristorante per sapere se mi ha pagato il conto! Compro la casa a Roma che affitto da 33 anni, e mi massacrano. Vado al Columbus Day, e trovo contestatori anche lì. Una manovra di avvolgimento: Santoro, Travaglio, l’Espresso, Grillo... Sono stato il loro Mamurio Veturio, il personaggio che nell’antica Roma veniva vestito di pelli e cacciato a bastonate, per purificare l’intera comunità».

• Al momento dell’approvazione dell’indulto, nel luglio 2006, Mastella manifestò comunque commozione ed esultanza, ricordando il forte appello in questa direzione di Giovanni Paolo II a Camere riunite («ci benedice dal cielo», disse). L’indulto (provvedimento di clemenza che estingue o diminuisce la pena senza cancellare il reato) fu deciso soprattutto per alleggerire la situazione insostenibile delle carceri: oltre 60 mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43 mila. Passò con il consenso dei due terzi del Parlamento (indispensabili per questo tipo di legge), vale a dire anche con i voti di Forza Italia e Udc, che pretesero peraltro che fossero inclusi nel perdono i reati finanziari. Nel governo Di Pietro votò contro, e fu la prima grande frattura con il Guardasigilli. Qualche mese più tardi anche il ministro dell’Interno Amato si disse pentito. Oltre 24 mila persone risultarono beneficate, i reati registrarono un aumento, molti tornarono in carcere. Un anno dopo i detenuti erano già 47 mila.

• Nell’ottobre 2007 il pm di Catanzaro Luigi De Magistris fece sapere di aver messo Mastella sotto inchiesta, insieme al premier Prodi, per abuso d’ufficio, finanziamento illecito ai partiti, concorso in truffa nell’ambito di finanziamenti europei e nazionali. La decisione del procuratore capo di Catanzaro di avocare a sé il fascicolo scatenò un duro scontro con Di Pietro, che accusò Mastella di interferenza nel lavoro del magistrato (già sotto inchiesta del Csm per volere del Guardasigilli).

• Il 16 gennaio 2008 il terremoto giudiziario che coinvolge gran parte della famiglia e l’Udeur campana. Mastella è indagato per concussione, falso e concorso esterno in associazione per delinquere. La moglie Alessandrina Lonardo (Ceppaloni 9 marzo 1953), presidente del consiglio regionale della Campania, viene messa agli arresti domiciliari (venendolo a sapere dalla tv) con l’accusa di tentata concussione nei confronti del direttore generale dell’Azienda ospedaliera Sant’Anna e Sebastiano di Caserta, Luigi Annunziata. Arresti domiciliari anche per il sindaco di Benevento Fausto Pepe e due assessori e due consiglieri regionali, tutti fedelissimi di Mastella. Fra i quattro finiti in carcere c’è poi il consuocero, Carlo Camilleri. L’inchiesta è della procura di Santa Maria Capua Vetere: «Dallo scenario disegnato nell’ordinanza del gip - che parla di “un vero e proprio sistema illecito che lascia francamente basiti per i metodi sfacciatamente irregolari con cui veniva esercitato” - l’Udeur in Campania appare più che un partito politico, una lobby dedita a occupare posti di potere» (Fulvio Bufi).

• La signora Mastella sulla vicenda giudiziaria che l’ha vista protagonista (intervistata da Maria Corbi): «Io non ho mai raccomandato nessuno. Vedo messo in discussione tutto il lavoro che ho fatto in questi anni per due medici che non ho mai raccomandato. Peraltro non mi pare che la raccomandazione sia un reato e in ogni caso chi è senza peccato scagli la prima pietra». E la storia di Annunziata che per lei, da intercettazione, sarebbe “un uomo morto”? «Significava che con quella persona non voglio personalmente averci più nulla a che fare».

• «“Nella buona e nella cattiva sorte”: non poteva che andare così, la love story di Clemente & Alessandrina, sancita quando lui diede a lei il primo bacio sulla spiaggia newyorkese di Oyster Bay, Long Island. Insieme al catechismo, insieme nella gioventù cattolica, insieme all’altare, insieme nella scalata al potere, insieme nei guai giudiziari. Roba da fotoromanzi d’altri tempi. Quelli in cui lui dice a lei: “Salvati! Sono perduto!” E lei: “Mai! Piuttosto morta!”» (Gian Antonio Stella).

• Gli arresti domiciliari per la moglie, che venne a saperlo dalla tv, furono forse la goccia che fece traboccare il vaso. «Per non dimettersi da Guardasigilli, con conseguente crisi di governo, il segretario dell’Udeur aveva chiesto la solidarietà del centrosinistra al completo. Il premier Romano Prodi e il ds Max D’Alema erano dispostissimi a prestarla. Non però Antonio Di Pietro, che lo detesta. Era il pomeriggio di martedì 22 gennaio 2008. L’indomani il governo andava incontro a un altro problema: il voto sul ministro Alfonso Pecoraron Scanio che il centrodestra voleva sfiduciare. Clemente minacciò: “Se non date la solidarietà a me, l’Udeur non darà la fiducia a lui”. Come dire, se anche non mi dimetto, il governo cade lo stesso. Era un buon motivo di pressione su Di Pietro che Prodi poteva fare valere. Ci si stava lavorando, quando dal Sannio, feudo mastelliano, arriva a Clemente la drammatica telefonata dei suoi: “Cleme’ statt’ accuorte, oltre ad arrestare tua moglie e Pellegrino, il tuo consuocero, i giudici stanno intercettando i cellulari dei tuoi figli e di tua nuora”. Bianco in volto e fremente, il guardasigilli è sbottato: “È un assedio. Vogliono la nostra ecatombe. Vaffan’ tutti quanti” e si è dimesso all’istante trascinando con sé l’intero gabinetto. La magistratura e i suoi metodi avevano fatto il colpo grosso. A questo punto, indette le elezioni, Clemente aveva ancora carte da giocare. Ma le ha buttate tutte, in un crescendo di cupio dissolvi. Per salvare sé e l’Udeur, ha iniziato il giro delle sette chiese. Incontra per primo il Cav che lo accoglie con benevolenza e gli promette l’elezione di un numero di parlamentari sufficiente a fare sopravvivere il suo partito. Ma, stretto il patto tra loro, l’altro big del Pdl, Gianfranco Fini, s’impanca e lo boccia. Un provvidenziale sondaggio fa sapere che l’ingresso di Mastella procurerebbe la perdita di 10 punti al centrodestra. “Mi spiace, non posso più” gli spiega il Cav. Clemente comincia a sentirsi in braghe di tela, ma ci riprova con gli ex dc sparsi ai quattro venti. “Siamo gente di parrocchia, ci capiremo” si dà coraggio. E va da Pier Ferdinando Casini nel momento peggiore. Costui era a sua volta umiliato e offeso per essere stato accolto con condiscendenza nella Rosa bianca, il neopartito dei suoi due transfughi, Bruno Tabacci e Mario Baccini. Nervosetto assai, Pierferdy gli risponde picche. Il povero Clemente entra allora nell’idea di sciogliere l’Udeur» (Giancarlo Perna).

• Nell’aprile 2008 il Gip di Catanzaro ha archiviato la posizione di Clemente Mastella, indagato per abuso d’ufficio dal pm Luigi de Magistris nell’ambito dell’inchiesta Why not sulle presunte frodi milionarie ai danni dell’Unione europea, perché mancavano i presupposti per l’iscrizione nel registro degli indagati: «Contento? Intanto mi hanno ammazzato politicamente. Chi mi ripagherà adesso?».

• Nel marzo 2011 è stato rinviato a giudizio, assieme alla moglie Sandra Lonardo, per truffa e appropriazione indebita (per l’acquisizione di due appartamenti a Roma di proprietà dell’Udeur e della testata giornalistica Il Campanile) e per abuso d’ufficio (per l’assegnazione di incarichi da parte dell’Arpac, l’agenzia regionale di protezione ambiente).

• Nell’aprile 2014 rinviato a giudizio dalla procura di Napoli per associazione a delinquere insieme alla moglie e a 17 ex dirigenti dell’Udeur. Secondo l’accusa, l’attività dei vertici dell’Udeur in Campania era finalizzata «alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro la pubblica amministrazione, e soprattutto all’acquisizione del controllo delle attività pubbliche di concorso per il reclutamento di personale e gare pubbliche per appalti e acquisizioni di beni e servizi bandite da Enti territoriali campani, Aziende sanitarie e Agenzie regionali, attraverso la realizzazione di numerosi reati».

• Nel 2010 ha sciolto l’Udeur e dato vita al movimento Popolari per il Sud, che «intende colmare il vuoto politico nel sud a livello locale, confermando al contempo la strategica alleanza con il Pdl».

• Un debole per le citazioni colte che gli ha causato qualche gaffe, da ultimo nel gennaio del 2008 quando, durante il discorso in parlamento con cui rassegnava le sue dimissioni da ministro, attribuì al poeta cileno Pablo Neruda versi della scrittrice brasiliana Martha Medeiros («Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine» ecc.).

• I tre figli si chiamano Elio (nel 2008 protagonista di uno scontro con la Iena Alessandro Sortino su chi fosse più raccomandato), Pellegrino (protagonista il 29 luglio 2006 di uno storico matrimonio con 600 invitati, nello stesso periodo fu tirato in ballo nell’inchiesta sulla Gea, vicenda alla quale risultò peraltro del tutto estraneo, vedi Alessandro Moggi), Sasha (bielorussa adottata quando aveva 8 anni).

GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 21 giugno 2016

“Siamo tutti Mastella”: di Marco Travaglio. (di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Ieri, tra le varie telefonate di strani “colleghi” a caccia di un mio commento, anzi di un mio pentimento per l’assoluzione di Mastella, come se l’avessi indagato e rinviato a giudizio io, mi chiama uno dei miei avvocati. Mi racconta di un processo a mio carico per diffamazione a proposito di un mio trafiletto del lontano 2010 (una giornalista del Tg1 che aveva diffuso dati imprecisi sul numero delle intercettazioni), ancora in udienza preliminare. E mi chiede elementi per dimostrare la fondatezza di ciò che scrissi sette anni fa. Per fortuna ho un buon archivio e riesco a trovare i dati necessari a difendermi. In 34 anni di carriera ho subìto quasi 200 processi (e non so quante indagini: molte querele vengono archiviate all’insaputa del querelato) per diffamazione e, a parte una multa di mille euro (a Previti!), sono sempre stato assolto. Dunque dovrei strillare ogni giorno alla persecuzione giudiziaria, alla gogna mediatica, al giustizialismo a tutto l’armamentario del finto garantismo italiota – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 14 settembre 2017, dal titolo “Siamo tutti Mastella”. Naturalmente me ne sto zitto, mi difendo nei processi, spendo un capitale in avvocati (che devo pagarmi anche quando le querele vengono archiviate, grazie ai nostri legislatori “garantisti”) e mi faccio una cultura in diritto e procedura penali. Per esempio, ho imparato a distinguere tra fatti e reati: i processi per diffamazione non devono accertare se ho davvero scritto una certa cosa (che è lì stampata, a disposizione di chiunque voglia valutarla), ma se quella cosa sia o meno diffamatoria. E a quel punto parte il terno al lotto, a seconda del giudice, nulla essendo più aleatorio e soggettivo di concetti come la “continenza”, il diritto di satira o di critica (se fai una battuta, devi sperare che il giudice la capisca). Un’altra cosa che ho imparato è che la legittimità di un’indagine non dipende dalla sentenza: altrimenti 199 delle 200 inchieste a mio carico sarebbero state infondate solo perché seguite da altrettante assoluzioni, e io dovrei domandarmi cosa ho fatto di male per stare sulle palle a decine di Procure. Le indagini nascono da una notizia di reato: una querela, una denuncia, un’inchiesta della polizia giudiziaria, un’iniziativa del pm, un articolo di giornale, un’inchiesta tv. Quando le aprono, i pm non sanno se il reato c’è né chi l’ha commesso: indagano apposta per scoprirlo. Se poi pensano di avere trovato il reato e il colpevole, chiedono il rinvio a giudizio al gup che, se ritiene che esistano elementi sufficienti per un processo, lo dispone. Accade ogni giorno a migliaia d’italiani e nel 2008 capitò anche a Clemente Mastella e alla moglie Sandra Lonardo. Lui era ministro della Giustizia del governo Prodi, lei presidente del Consiglio regionale della Campania. La Procura di Santa Maria Capua Vetere li indagò (la signora finì pure ai domiciliari) insieme allo stato maggiore dell’Udeur campana, in base a intercettazioni e testimonianze sulla presunta gestione clientelare di cariche pubbliche (Asi e Asl) e appalti (Arpac). Mastella, furibondo col premier e la maggioranza, a suo dire non abbastanza solidali, si dimise da Guardasigilli e poi ritirò l’Udeur dal centrosinistra, tornando al centrodestra e facendo cadere il governo. L’inchiesta passò per competenza alla Procura di Napoli, che la biforcò in due filoni: uno minore (Asi e Asl: concussione e abuso d’ufficio), approdato l’altroieri all’assoluzione di tutti gli imputati; l’altro più grave (Arpac: presunti falsi, concussioni, turbative d’asta, abusi e un’associazione a delinquere prima confermata e poi bocciata dalla Cassazione), ancora in dibattimento. Dunque è presto per dire che l’inchiesta del 2008 fosse basata sul nulla. Sia perché manca la sentenza principale, sia perché il dispositivo di quella appena emessa non esclude che i fatti esistessero. Mastella era accusato di aver concusso l’allora governatore Bassolino per costringerlo a nominare un amico all’Asi di Benevento: il pm ha riformulato la concussione in induzione indebita (perché nel 2012 la legge Severino ha modificato e in parte svuotato il primo reato), che poi il Tribunale ha derubricato in abuso d’ufficio, salvo poi concludere sorprendentemente che “il fatto non costituisce reato” (ma allora perché dire che era un abuso? Lo scopriremo dalle motivazioni). La signora Mastella era accusata di tentata concussione a Luigi Annunziata, il manager dell’ospedale di Caserta (“per me è un uomo morto”) che resisteva a presunte pressioni clientelari Udeur: anche quel fatto parrebbe accertato, anche se per i giudici “non è previsto dalla legge come reato” (per la Severino o per cosa? Lo sapremo dalle motivazioni). […]

Mastella: Travaglio condannato a risarcimento da 10mila euro, scrive il 19 maggio 2014 "Editoria TV". Il Tribunale di Benevento ha condannato il giornalista Marco Travaglio ed “Il Fatto Quotidiano” al risarcimento in favore di Clemente Mastella di 10mila euro e l’editore alla pubblicazione della sentenza su tre quotidiani nazionali. I fatti risalgono al 23 novembre 2010 allorquando Travaglio su “Il Fatto Quotidiano”, scrisse un articolo dal titolo: “Salvate il soldato Mastella”, articolo che l’allora segretario nazionale dell’Udeur, ritenne riportasse notizie non veritiere e per questo lo querelò. Alla richiesta di commentare l’esito della sentenza, Mastella ha risposto con un secco “no comment” salvo poi affidare, più tardi, ad un comunicato il suo pensiero: “Poco alla volta la verità si fa strada. Dopo l’assoluzione piena di alcuni giorni fa, oggi un altro giudice mi dà ragione, riconoscendo la diffamazione nei miei confronti. Una ragione in più per guardare avanti con serenità e determinazione”.

I “Due stupri due misure” di Travaglio: ma qualcuno gli ha mai spiegato il Codice Penale? Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie e salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando di raccontare quelli che perde…scrive Antonello de Gennaro il 12 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". A volte mi chiedo se Marco Travaglio abbia veramente il coraggio di credere nelle sue teorie astruse. Travaglio come ben noto ha una sua personalissima visione delle cose, che in qualcosa mi ricorda l' “affarismo” giornalistico editoriale di Vittorio Feltri, che chiede agli editori la percentuale sulle copie vendute in edicola. Questa è la seconda volta che mi tocca giornalisticamente occuparmi di lui. Il “Marchino” ha passato un’intera vita da “gregario”, ad acquisire e fotocopiare atti processuali, intercettazioni, interrogatori ecc. necessari a confezionare i suoi libri enciclopedici, firmando praticamente quasi tutti i suoi libri con il collega Peter Gomez, direttore del Fatto Quotidiano.it.   Travaglio è diventato ben noto a tutti negli ultimi anni solo e soltanto grazie alla visibilità televisiva offertagli da Michele Santoro, che stato il vero responsabile dell' “esplosione” dell’arroganza travagliana, ma intelligentemente negli ultimi tempi Santoro ha interrotto i contatti, uscendosene persino dagli accordi societari con il Fatto raggiunti tempo addietro. Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie per i suoi libri, e onnipresenza nei salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando chiaramente di raccontare quelli che perde…come per esempio quello davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo. Oggi Travaglio (insieme al suo fedele “scudiero” Marco Lillo), non sa più a che santo votarsi dopo che le procure di Milano e Roma (a cui si è aggiunto anche “last minute” quella di Napoli) hanno chiuso i rubinetti delle soffiate, che nel codice penale si chiamano “atti d’indagine” che sono notoriamente coperti dal segreto istruttorio, previsto dal Codice Penale, la cui pubblicazione è un reato. Quello stesso Codice Penale che il suo compagno di spiaggia, l’ex-pm Ingroia deve avergli ha inculcato non completamente durante le loro vacanze in spiaggia sotto lo stesso ombrellone. Incredibilmente ieri mattina il “Marchino” ha avuto la sfacciataggine di sostenere questa sua personalissima impressione e cioè “che esistano due codici penali, procedurali, informativi, politici ed etici: uno per i criminali “comuni”, l’altro per i colletti bianchi. L’affare si complica – aggiunge Travaglio – quando lo stesso orrendo crimine – nel nostro caso lo stupro – sono accusati di averlo commesso persone di diverso status sociale: prima gli ultimi della graduatoria, cioè un gruppo di immigrati a Rimini; poi due carabinieri in uniforme a Firenze”. Travaglio si lamenta sul fronte giudiziario, scrivendo e sostenendo che “i quattro immigrati di Rimini finiscono in carcere, mentre i due carabinieri di Firenze restano a piede libero (nemmeno ai domiciliari)”. Eppure, per i primi come per i secondi, è arduo sostenere che ricorrano le esigenze cautelari previste dalle rigidissime leggi italiane per poterli arrestare prima del processo (leggi scritte apposta dai politici per non far arrestare nessun colletto bianco, dunque nessun criminale di qualunque specie, ceto e censo): non possono concretamente inquinare le prove (ormai affidate all’esame del Dna, a video di telecamere o Iphone, al racconto delle vittime e dei testimoni); né sono sul punto di scappare (il pericolo di fuga dev’essere concreto e dimostrabile, tipo col biglietto aereo già comprato); né, essendo indagati coram populo per stupro, è prevedibile che si dedicheranno ad altri stupri. Ma chi andrà mai a invocare il “garantismo” o a denunciare un caso di “manette facili” per quattro “stranieri”? Quindi, anche per tacitare l’opinione pubblica e i politici pronti ad aizzarla, non si va tanto per il sottile e si butta via la chiave.” Mister “simpatia” made in Piemonte, sostiene che “per i carabinieri è diverso, anche se dovrebbe essere uguale: il caso è già di per sé abbastanza imbarazzante per l’Arma e per l’Italia (le due vittime sono americane), figurarsi la scena di due paia di manette sulla divisa della Benemerita. Eppure gli immigrati di Rimini hanno ammesso più dei Carabinieri di Firenze”. Niente di più FALSO. Gli immigrati di Rimini arrestati, in realtà non hanno ammesso proprio niente!

Sarebbe il caso che qualche bravo avvocato, ma uno veramente bravo e competente, o qualche magistrato serio (e ce ne sono!) e soprattutto indipendente dalle correnti politicizzate della magistratura, gli spiegasse qualche differenza. Mi permetto di provarci io umilmente. Travaglio dimentica qualche particolare: gli immigrati hanno violentato e stuprato nel vero senso della parola una povera ragazza polacca (picchiando il suo fidanzato) ed una trans peruviana. I due Carabinieri di Firenze, non hanno picchiato e violentato nessuno. Hanno solo approfittato dello stato alcolico delle due studentesse universitarie, abusandone sessualmente, ed offeso la divisa che indossano e quindi tutti i loro colleghi che in Italia garantiscono la legalità rischiando la vita per pochi soldi. Il che sicuramente costituisce un fatto molto grave e merita la sanzione penale e disciplinare che subiranno a breve. Ma da qui a richiedere le manette per i Carabinieri di Firenze ponendoli sullo stesso livello del branco di stupratori di Rimini passa un abisso! Travaglio diventa all’improvviso “garantista” sostenendo che nessuno si sogna di definire i quattro immigrati di Rimini dei “presunti stupratori” sostenendo che “se poi, puta caso, si scopre che uno dei quattro non ha stuprato nessuno”, chi se ne frega. I due carabinieri invece, essendo italiani e usi a obbedir tacendo, hanno almeno diritto alla qualifica “presunti stupratori”. Non contento attacca il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e la ministra della difesa Roberta Pinotti, sostenendo che “usano parole durissime” e, nel dubbio, li sospendono dal servizio in via “precauzionale” ed aggiunge “Giusto: nessuno può indossare la divisa di tutore della legge col sospetto di averla così orrendamente violata. Dice Del Sette, senz’attendere la sentenza definitiva, né quella provvisoria, né il rinvio a giudizio, né la richiesta del pm, “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità. Se non lo fa, tradisce una scelta di servizio”. Parole sante. Ma siccome “il Marchino” non ha simpatia per questo Governo che ha osteggiato sin dal suo primo minuto di vita , sostiene che “ad adottare il provvedimento sono un governo che non sospende quattro suoi membri indagati o imputati per gravi reati; e un comandante (Del Sette, appunto), indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento agli inquisiti dello scandalo Consip, cioè per aver rovinato l’indagine sulle tangenti per truccare l’appalto più grande d’Europa, che il Governo non sospende, anzi conferma“. Probabilmente al “Marchino” non deve essere ancora andato giù il fatto che il suo giornale non riesce ad avere sottobanco assolutamente nulla dai Carabinieri, dimenticando che nel frattempo sotto indagine (ed è ben più di una) vi è un ufficiale del NOE responsabile di far girare troppe “balle” investigative e troppe carte intorno alla “compagnia di giro” del Fatto Quotidiano. Secondo Travaglio “la fondatezza delle accuse a Del Sette è pari a quella delle accuse ai due carabinieri: la parola di due testimoni (gli ex dirigenti Consip Ferrara e Marroni) contro la sua. Certo, il favoreggiamento non è lo stupro: ma si può seriamente sostenere che un appuntato e un carabiniere scelto accusati di stupro infanghino l’Arma più del comandante generale accusato di spifferare segreti agli indagati di un mega-scandalo di corruzione?”. Marchino scrive dall’alto della sua autorefenziale superbia giornalistica che se “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità”, questo dovrebbe valere tanto per gli ultimi anelli della catena quanto, a maggior ragione, per il primo. Che ci fa ancora Del Sette al vertice dell’Arma? Che ci fa il generale Emanuele Saltalamacchia, indagato per gli stessi reati, al comando dei Carabinieri toscani (diretto superiore dei due presunti stupratori)? E che ci fa Luca Lotti, indagato per gli stessi reati, al ministero dello Sport?. In pratica secondo Travaglio, se uno viene indagato dovrebbe essere rimosso dalla sua poltrona. Ma allora di conseguenza anche lui stesso dovrebbe lasciare quella di direttore del suo giornale. Qualcuno dei suoi giornalisti dovrebbe spiegare e raccontare al direttore del “Fatto” che nella vicenda Consip Alfredo Romeo ha vinto il suo ricorso dinnanzi al Tribunale del Riesame e persino in Cassazione, ed a suo carico non sono state trovate prove di corruzione e tangenti ed infatti sono stati costretti a restituire ad Alfredo Romeo la proprietà e gestione delle sue aziende. Così come Travaglio dovrebbe chiedere scusa alla famiglia Renzi per aver reiteratamente diffamato Matteo Renzi, suo padre ed il ministro Luca Lotti, accusandoli (senza alcuna prova concreta e tangibile) di reati che non hanno mai commesso. Anzi come i fatti hanno dimostrato, hanno solo subito!

Ma alla fine esce la vera motivazione di questo editoriale a dir poco imbarazzante. Travaglio scrive che “Sugli stupri di Rimini e Firenze, tv e giornali hanno pubblicato i verbali, fin nei minimi e più raccapriccianti dettagli, degli indagati e addirittura delle vittime (che, trattandosi di testimonianze, sono coperte dal segreto), e i pm e gli avvocati ne hanno diffusamente parlato in interviste e conferenze stampa. (Falso! n.d.a) Secondo noi, è giusto così, visto l’interesse pubblico delle notizie. Peccato che le stesse regole non valgano per i politici e i potenti in genere: noi, ad esempio, per molto meno – notizie e intercettazioni segrete su Consip che infastidivano la Renzi Family –siamo stati perquisiti dalla Procura di Napoli, mentre quella di Roma indagava il pm Woodcock e la sua compagna” (cioè Federica Sciarelli, giornalista RAI notoriamente molto “vicina” alla compagnia di giro… del Fatto Quotidiano). Peccato che il Travaglio ed il Fatto Quotidiano non si soffermino su qualcos’altro.  I pm nell’interrogatorio agli ufficiali del NOE, il colonnello Sessa ed il capitano Scafarto. Hanno chiesto chiarimenti sul filone che riguarda la fuga di notizie sull’inchiesta e che vede indagati per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell’arma Tullio Del Sette e quello della regione Toscana Emanuele Saltalamacchia.  Il colonnello Sessa del NOE secondo i magistrati avrebbe mentito sulle date. In sostanza, Sessa avrebbe avvertito con largo anticipo gli alti ufficiali delle indagini in corso, cosa che avrebbe permesso la fuga di notizie verso il ministro Lotti e, da questi, verso Tiziano Renzi. Le conversazioni Whatsapp trovate sul cellulare del capitano Scafarto dimostrano che lui avrebbe informato il comandante del Noe, Generale Sergio Pascali, in estate, mentre lui ha deposto di averlo fatto solo dopo il 6 novembre.  I magistrati hanno interrogato il capitano (ora maggiore) Scafarto al quale hanno chiesto chiarimenti sul suo ultimo interrogatorio, durante il quale aveva chiamato in causa il sostituto procuratore di Napoli, Henry John Woodcock, anche lui titolare di un filone di inchiesta su Consip. “Fu lui a dirmi di fare un apposito capitolo sul coinvolgimento dei servizi segreti”, aveva messo a verbale Scafarto.  La “storia” dei Servizi era quindi una bufala. Ma Travaglio quando vuole dimentica (o vuole dimenticare)!

Il suo vice direttore Lillo ha raccontato questo particolare a proposito della vicenda Consip: «Il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi ha svelato per primo oggi l’indagine per rivelazione di segreto su Woodcock per l’inchiesta Consip. Io lo conosco bene. Mi ha incontrato proprio negli uffici della Procura di Roma una ventina di minuti prima dell’uscita del suo scoop. Né lui né l’Ansa che ha ripreso e ampliato la notizia aggiungendo il particolare di Federica Sciarelli indagata hanno ritenuto utile chiedere la mia versione su questa notizia. Dopo l’uscita del pezzo sul Corriere.it ho chiamato il collega per dirgli: “Giovanni, scusa perché quando mi hai incontrato non mi hai chiesto la mia versione come avresti fatto con un indagato per fuga di notizie qualsiasi come Luca Lotti?”. La risposta è stata: “Perché non ho messo il tuo nome e tu non sei una notizia”. Gli ho detto: “Hai messo la testata e tutti sanno che sono io. E poi scusa, sono un collega. Mi conosci. Ti avrei potuto spiegare come sono andate le cosee avresti fatto un pezzo più completo per il tuo lettore”. Mi ha risposto che gli avrei potuto mentire e quindi non era interessato alla mia versione». Un comportamento corretto quello di Bianconi, che sorprende Marco Lillo ed i suoi colleghi. Perchè? Semplice. Al Fatto Quotidiano non si preoccupano di pubblicare notizie inesatte o tendenziose, ed hanno una certa “allergia” ad autorettificarsi. Il “Marchino” così conclude il suo editoriale: “Dobbiamo dedurne che le fughe di notizie sono lecite per gli stupri e proibite per le mazzette? E dove sta scritto? Nel Codice del Marchese del Grillo?”. Travaglio purtroppo però non spiega ai suoi esigui lettori, che sono crollati con il suo arrivo alla direzione del Fatto Quotidiano, al posto dell’ottimo Antonio Padellaro (rimpianto dalla stragrande maggioranza dei giornalisti “fondatori” del giornale) quali sarebbero “le fughe di notizie sugli stupri”. Quelle sulla vicenda Consip invece lui le conosce molto bene…. E conosce molto bene i responsabili che hanno violato la Legge ed il Codice Penale. Povero “Marchino” Travaglio che gli tocca fare pur di vendere qualche copia in più del giornale e dei libri editi dalla loro casa editrice per far quadrare i conti...!

Per una più ampia valutazione del lettore, segnaliamo alcuni “precedenti” giudiziari sul giornalismo … di Marco Travaglio:

• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.

•  Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel Gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco Travaglio aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato – vedremo – caduto in prescrizione.

•  Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come “personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici“. «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

•  Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo sarebbe pendente in Cassazione.

•  Nell’ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

•  Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.

•  Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.

•  Quindi la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: Travaglio beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico “copia & incolla”, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu “regista” di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo.

L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In italiano corrente e più chiaro significa che Travaglio l’aveva fatto apposta, cioè aveva diffamato ben sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito… (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha raccontato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizia sull’esito. Secondo voi, se sarà negativo Travaglio nè darà notizia? Abbiamo seri dubbi …

“Ciliegina sulla torta”. La Corte Europea dei Diritti Umani. I tribunali italiani non hanno violato il diritto alla libertà d’espressione di Marco Travaglio quando in primo e secondo grado, nel 2008 e 2010, l’hanno condannato per aver diffamato Cesare Previti nell’articolo ‘Patto scellerato tra mafia e Forza Italia’ pubblicato nel 2002 sull’Espresso. L’ha stabilito la Corte europea dei diritti umani dichiarando inammissibile il ricorso presentato dal giornalista nel 2014. Secondo i giudici di Strasburgo i tribunali italiani hanno ben bilanciato i diritti delle parti in causa, da un lato quello di Travaglio alla libertà d’espressione e dall’altro quello di Cesare Previti (che nella decisione odierna è indicato solo con l’iniziale P.), al rispetto della vita privata. I togati europei hanno quindi dato ragione ai colleghi italiani che hanno condannato Travaglio per aver pubblicato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. La Corte osserva “che, come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. La Corte di Strasburgo ha quindi ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità…si possono definire solo in un modo: menzogne. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del “taglia e cuci”, non è un fatto alternativo: è una non verità. E per fortuna c’è un giudice a Strasburgo. Ma tutto questo “Marchino” Travaglio evidentemente non ama ricordarlo, figuriamoci scriverlo!

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero, ma non per tutti…Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e “salvarli”. Intercettazioni che ti segnalo, solo il quotidiano che dirigo, ha pubblicato “integralmente”. Hai detto qualche inesattezza. Forse qualcuna di troppo. Innanzitutto il giornalista dell’emittente Blustar TV, che hai citato e fatto passare come un “eroe-vittima”, in realtà non ha mai fatto un’inchiesta giornalistica sullo stabilimento siderurgico, bensì ha solo rivolto una domanda scomoda ad Emilio Riva al termine di un convegno, a confronto della quale,  credimi, le domande fatte ai malcapitati dagli inviati di Striscia la Notizia e Le Iene nei loro servizi,  potrebbero tranquillamente concorrere ed aspirare a vincere il “Premio Pulitzer“  E poi, caro Travaglio, quella televisione cioè Blustar TV, che sta per chiudere,  la pubblicità dall’ ILVA la incassava anche lei ! Le domande “scomode” di quel giornalista a Riva sono arrivate solo, guarda caso…quando i rubinetti della pubblicità si erano chiusi da tempo! Hai paragonato ingiustamente ed erroneamente l’attuale  Sindaco di Taranto Ippazio Stefàno ai suoi predecessori Giancarlo Cito  e Rossana Di Bello, senza sapere che a differenza dei degli altri due, l’attuale primo cittadino di Taranto, al suo secondo mandato consecutivo, è stato eletto con i voti di una sua lista civica, senza della quale il centrosinistra non avrebbe mai governato la città di Taranto, sindaco che gestisce ed amministra la città in “dissesto economico” finanziario da circa 8 anni, dopo quanto ha ricevuto in “eredità”…dal precedente sindaco di Forza Italia Di Bello. Hai ha detto erroneamente che il dissesto di Taranto ammontava a 900mila euro, dimenticando qualche “zero”. Magari fossero stati solo così pochi! In realtà il “buco” era di 900 milioni di euro!

Se ti avessero informato e documentato meglio, caro Travaglio, invece di ironizzare sulla pistola alla cinta del Sindaco, avresti appreso delle pesanti minacce ricevute dal primo cittadino di Taranto, persino nel suo studio a Palazzo di Città, ad opera di appartenenti alla criminalità organizzata, la quale grazie a dei consiglieri comunali collusi silenziosamente si era infiltrata anche all’interno dell’amministrazione comunale (mi riferisco all’ “operazione Alias” della DDA di Lecce). Paragonandolo al tuo amico ed ex pm Ingroia che se ne andava girando in lungo e largo per l’Italia con la “scorta” di Stato, almeno il sindaco di Taranto non è costato nulla al contribuente, e la sua pistola è rimasta sempre al suo posto. Caro Travaglio ti anticipo subito un possibile dubbio. Non sono un elettore, simpatizzante o apostolo, nè tantomeno amico o parente dell’attuale Sindaco di Taranto, ma sull’ onestà di Ippazio Stefàno non sono il solo a sostenerla. Ti informo che oltre al sottoscritto c’è “qualcuno” come il Procuratore capo della repubblica di Torino, Armando Spataro (tarantino) che dovresti ben conoscere, il quale essendo persona seria, coerente ed attendibile, sono sicuro sarà pronto a ripetere quello che disse al sottoscritto: “Sull’onestà di Ippazio Stefàno sono pronto a mettere la mano sul fuoco”. Non ti ho sentito dire neanche una sola parola sui tuoi “amici” “grillini”, che difendi spesso e volentieri in televisione e nei tuoi articoli. Se ti fossi informato bene, avresti scoperto che i due “cittadini” eletti in Parlamento a Taranto del M5S, sono stati i primi dopo qualche mese dalla loro elezione ad abbandonare il movimento di Grillo e Casaleggio. Rinunciare allo stipendio “pieno” da parlamentare è cosa dura ed ardua. Soprattutto per uno come Alessandro Furnari (ex disoccupato) ed una come l’ex-cittadina-pentastellata-deputata Vincenza Labriola la quale, due anni prima si era candidata alle elezioni comunali per il M5S, ricevendo dal “popolo grillino” e dai cittadini di Taranto un grande…consenso: la bellezza di 1 voto. Forse il suo! Per avere traccia della loro attività parlamentare, e conoscere il loro impegno per Taranto, credo che sia consigliabile alla nostra brava collega Federica Sciarelli conduttrice di “Chi l’ha visto”. Chissà se ci riesce …Hai raccontato di intercettazioni, avvenute realmente, fra gli uomini dell’ILVA e la stessa famiglia Riva, che si intrattenevano telefonicamente con non pochi politici pugliesi, da destra a sinistra, compreso il neo (ma già ex) deputato Ludovico Vico. Hai accusato il Pd di averlo fatto rientrare in Parlamento. Peccato che (purtroppo) gli spettasse di diritto in quanto primo dei non eletti nel collegio jonico-salentino alle ultime elezioni politiche. O forse bisognava fare una “legge ad personam” per impedirglielo?  Tutta roba vecchia, riciclata, caro Travaglio, non hai rivelato nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato (con audio) dai colleghi del quotidiano La Repubblica, e che noi umili cronisti di provincia del Corriere del Giorno, abbiamo approfondito con l’ulteriore pubblicazione integrale online delle intercettazioni più salienti. Eppure tutto questo, il vostro giovane collaboratore locale Francesco Casula poteva raccontartelo….ma forse era troppo impegnato nelle sue conversazioni nell’ufficio dove lavora a Taranto,  e cioè un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione Puglia (dove viene retribuito quindi con soldi pubblici) in cui il giovane collega lavora insieme alla figlia dell’ex-presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido (PD – area CISL) un politico arrestato a suo tempo anch’egli  per l’ inchiesta “Ambiente Svenduto“… Chissà !!! ??? Hai citato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio ed i suoi magistrati, come se fossero stato loro gli artefici con una propria azione “autonoma” a far decollare l’inchiesta giudiziaria sull’ ILVA. Ed anche in questo caso… in realtà non è andata proprio così perchè l’inchiesta “Ambiente Svenduto” è nata grazie a degli esposti e denunce di associazioni ambientaliste tarantine, e proprio del sindaco Ippazio Stefàno, esposti e denunce che non potevano essere dimenticate nei cassetti, come invece accade tuttora per molti altri casi. Hai dimenticato caro Travaglio di ricordare che a Taranto un pubblico ministero è stato arrestato e condannato a 15 anni …, e ti è sfuggito che un giudice del Tribunale civile di Taranto è stato arrestato anch’egli mentre intascava una “mazzetta”. Se vuoi gli atti, te li mando tutti.  Completi. Hai dimenticato anche qualcos’altro. E cioè qualcosa che non poteva e non doveva sfuggire alla tua nota competenza in materia giudiziaria. Anche perchè il quotidiano che ora dirigi ne aveva parlato. La Procura di Taranto aveva realizzato (solo sulla carta) uno dei sequestri più grossi della storia giudiziaria italiana, nei confronti della famiglia Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta ILVA. Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta appunto della procura tarantina, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro senza peraltro mai trovarli ed identificarli! Quindi un sequestro “fittizio”, rimasto solo sulla carta. E guarda caso, proprio in merito a questo “strombazzato” grande sequestro…  la Corte di Cassazione ha stabilito che i beni posti sotto sequestro della holding Riva Fire, società proprietaria di ILVA spa, su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore capo  Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani,  non andavano confiscati motivo per cui ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro, che era stato confermato nel giugno 2014 anche dal Tribunale del riesame di Taranto. Il che vuol dire come puoi ben capire da solo, che sui Riva a Palazzo di Giustizia di Taranto, avevano “toppato” tutti! In ordine: la Procura della Republica, l’ufficio del GIP, ed il Tribunale del Riesame. Altro che complimenti! Per fortuna ci ha pensato la Procura di Milano (procedendo per reati di natura fiscale), grazie alla preziosa cooperazione che intercorre sui reati finanziari fra la Banca d’ Italia, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza che hanno scovato un rientro fittizio (cioè mai effettuato) dall’estero in Italia di capitali della famiglia Riva, operazione camuffata come “scudata” del valore di 1miliardo e 200 milioni di euro a cui stanno per aggiungersene altri 3-400 come ha annunciato in audizione al Senato il procuratore aggiunto milanese Francesco Greco, che sono in pratica i soldi che la gestione commissariale dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ha richiesto ed ottenuto (ma non ancora sui conti bancari)  in utilizzo dal Gip del tribunale di Milano, previa tutta una serie di garanzie legali a posteriori, in quanto il contenzioso giudiziario fra Adriano Riva (il fratello e “patron” del Gruppo, Emilio è deceduto diversi mesi fa) e lo Stato non si ancora concluso, neanche in primo grado. In compenso, sei stato molto bravo a spiegare con chiarezza gli effetti reali e vergognosi (mi trovi d’accordo con te al 100%) dei vari “decreti Salva Ilva”. Permettimi di provocarti: a quando una bella inchiesta del Fatto Quotidiano su quello che accade dietro le quinte di Taranto, possibilmente coordinata dall’ottimo Marco Lillo per evitare cattive figure? Ci farebbe piacere non dover restare i soli dover scoperchiare i “tombini” di questa città, che per tua conoscenza è ILVA-dipendente a 360°. Concludendo caro Travaglio, pur riconoscendoti delle innate capacità giornalistiche e narrative, e stimandoti personalmente, questa volta te lo confesso mi hai deluso. Hai dimenticato di farti qualche domanda molto importante come questa: “Come mai al “referendum sull’ inquinamento ambientale “a Taranto hanno aderito e votato solo 20 mila tarantini?”  su circa 200mila elettori. Oppure come questa: “Ma gli altri 180mila tarantini che non sono andati a votare al referendum, dov’erano?”. Eppure sarebbe stato facile chiederglielo. Ieri sera caro Travaglio, li avevi più o meno tutti di fronte al tuo palco …. Domande serie, caro collega Travaglio, non le fotocopie di “seconda mano” che ti hanno passato.

La storia del giudice che decise di morire da innocente, scrive il 13 Settembre 2017 "Il Dubbio". Il procuratore di Catanzaro Pietro D’Amico fu coinvolto nell’inchiesta “Why not?” di De Magistris. Ne uscì pulito ma qualcosa si ruppe. È una storia sconcertante. Una di quelle storie che lasciano l’amaro in bocca; è la storia è quella di un giudice, il Procuratore Generale di Catanzaro Pietro D’Amico. Comincia quasi dieci anni fa, nel 2008. L’alto magistrato si trova coinvolto in un’inchiesta che a suo tempo fece scalpore: quella “Why not?”, condotta dall’allora procuratore Luigi De Magistris. Accuse che col tempo si rivelano completamente infondate. La riabilitazione è netta, chiara; solo sospetti, tutto viene archiviato; ma D’Amico esce da questa vicenda profondamente scosso: il solo fatto che si sia potuto dubitare del suo corretto agire, lo getta in uno stato di profondo sconforto. L’uomo, all’apparenza, è quello di sempre: sorridente, solare. Ma evidentemente qualcosa “dentro” si è rotto. Congiunti, amici, sanno di questo “disagio”, ma non ne sospettano la profondità, la gravità di questa ferita che non riesce a rimarginarsi. Il 27 aprile 2010 D’Amico scrive a un amico, Edoardo Anselmi: «C’è poco da capire: in una situazione come la mia, io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale». Già: perché al magistrato, nel frattempo, è stato diagnosticato un tumore. D’Amico matura la convinzione che è meglio farla finita con “la dolce morte” da praticare là dove è consentito: in Svizzera; meglio scegliere come e quando, piuttosto di una lunga, lenta, dolorosa agonia senza scopo e speranza. «Sto pensando», scrive, «a qualcosa di indicibile, e che nessuno può immaginare. Vado in Svizzera poiché là é chi provvederà nel caso come il mio». Trascorrono così quasi due anni: D’Amico sembra determinatissimo nel suo proposito. Alla fine ottiene la documentazione necessaria: certificati che affermano l’esistenza di patologie che rendono possibile, in base alla legge elvetica il cosiddetto “suicidio assistito”. Nell’aprile del 2013, a Basilea, presso il centro “Life Circle- Eternal Spirit”, la vicenda si conclude: D’Amico trova la sua pace. L’inquietante storia, invece, comincia ora. Perché la famiglia, che nulla sa dei propositi di D’Amico, viene freddamente avvertita con una telefonata dell’avvenuto decesso; cerca di capire cosa è accaduto: chiede, e ottiene, che sia effettuata l’autopsia. Colpo di scena: D’Amico non era affatto malato di tumore, come forse credeva. Depresso, sì, per le ragioni che abbiamo detto. Ma l’autopsia, e approfonditi esami di laboratorio escludono l’esistenza di quella grave e patologia dichiarata da alcuni medici italiani, e asseverata da medici svizzeri. Clamoroso errore, diagnosi errate, che spingono D’Amico, già psicologicamente provato, a convincersi che l’unico modo per chiudere con dignità la propria esistenza, è quello di ricorrere al suicidio assistito? O, peggio: i documenti sono stati falsificati ad arte, per poter appunto accedere alla clinica svizzera e suicidarsi? E’ quello che invano la famiglia di D’Amico chiede da anni di sapere. La magistratura italiana, ripetutamente investita del caso, al momento non ha intrapreso particolari iniziative per accertare i fatti; e comunque la famiglia nulla sa. Come mai? Perché? Di questa sconcertante abbiamo trattato ne “La Nuda Verità”, la trasmissione che conduco assieme a Massimiliano Coccia, ogni domenica alle 19.30 su “Radio Radicale”. A “La Nuda Verità” abbiamo ospitato Francesca, la figlia del magistrato. Ha ripercorso con noi tutte le tappe della vicenda. Ha denunciato come al padre siano state diagnosticate patologie inesistenti, redatti certificati medici falsi; e rivendica il diritto di sapere come sono andate davvero le cose: «Mi chiamarono dalla Svizzera e mi dissero che mio padre era morto. Io cadevo dalle nuvole: ero convinta che fosse un errore, una omonimia… Invece era tutto tragicamente vero». Francesca non contesta l’aspirazione alla dolce morte, dice di rispettare la scelta di suo padre. Però ne fa un problema di deontologia: «Possibile che sia arrivato in Svizzera con due documenti sulle sue condizioni di salute e che nessuno abbia fatto accertamenti per capire, confermare, accertare? Quale medico si può arrogare il diritto di disporre della vita altrui? Voglio andare fino in fondo a questa faccenda, per capire come sono andate esattamente le cose e se sono stati commessi errori». Sullo sfondo di questa inquietante vicenda, i dilemmi e gli ineludibili interrogativi di sempre che lacerano le coscienze, quelle laiche come quelle dei credenti: come e quando si ha diritto di interrompere la propria vita? La depressione, pur nel suo stato profondo, va compresa tra le patologie che possono rendere possibile la “dolce morte”? Chi può stabilire quando il cosiddetto “mal di vivere” è incurabile? Fino a che punto il volere del soggetto va assecondato, e non si deve invece cercare di offrirgli alternative? Insomma: quali i limiti, e quali i diritti; come esercitarli, e fino a che punto esercitare la propria autodeterminazione? Ecco, al di là del caso specifico che abbiamo affrontato, l’essenza delle questioni. Che non vanno negate, e che bisogna, al contrario, cercare di “governare”. * Presidente Istituto Luca Coscioni

Che resta del pool di Mani pulite? Anche Di Pietro si dissocia, scrive Valter Vecellio il 12 Settembre 2017 su "Il Dubbio". «Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite con cui si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, che era la corruzione e ce n’era tanta, ma anche le idee». Aggiunge: «Ho fatto politica basandola sulla paura e ne ho pagato le conseguenze». In principio, fu Diego Marmo: il pubblico ministero del “venerdì nero della camorra”, la vicenda in cui si vollero impigliare Enzo Tortora e Franco Califano (tra gli altri, che una moltitudine di altri dimenticati furono, poi, gli assolti). Implacabile, e impagabile, quel suo «ma lo sapete che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più emergevano quelle della sua colpevolezza?». Come poi è finita, lo sappiamo bene. Con molti anni di ritardo, intervistato da Il Garantista e ormai in pensione, Marmo riconosce il clamoroso abbaglio. Errore che non può dirsi, propriamente, un errore; per dirla con Manzoni: era un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano. Senza l’intervento di Marco Pannella, dei radicali, di Leonardo Sciascia e pochissimi altri, chissà quando e come quell’errore/ orrore lo si sarebbe visto, riconosciuto. Chissà quando e come si sarebbe visto e riconosciuto lo strame che si faceva di quelle regole ammesse anche da coloro che le trasgredivano; sempre con Manzoni: «È un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può essere forzatamente vittime, ma non autori». Aveva la vista lunga, il Grande Lombardo; e quanto sono attuali I promessi sposi e La storia della colonna infame, a saperli leggere; soprattutto a volerli leggere.

È poi la volta di Gherardo Colombo, uno dei “moschettieri” del milanese pool di “Mani Pulite”. Con libri, interventi, articoli, da qualche tempo ripensa la funzione della pena, l’amministrare la giustizia, il potere che detiene chi si assume questo compito. Coltiva il benefico tarlo del dubbio. Forse il Colombo di “oggi” albergava anche “ieri”, nel Colombo che indossava la toga del magistrato: il Colombo uno e il Colombo due convivevano. Confesso che allora non ho colto questa dualità. Chissà: forse era una convivenza tormentata, tormentosa. Come nella pirandelliana “Signora Morli una e due” Colombo era scisso: autentico il primo, sincero il secondo. Solo che “ieri”, con la toga sulle spalle, il Colombo di “uno” sovrastava il Colombo “due”; ora che quella toga è dismessa, i ruoli si sono invertiti.

La popolare saggezza ricorda che non è dato il due senza il tre; puntuale ecco il terzo, più villico, ripensamento (ravvedimento sarebbe dire troppo ardito). Nientemeno che Antonio Di Pietro, il dottor “che c’azzecca? “. Si confida a L’aria che tira d’estate su La7: «Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite con cui si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, che era la corruzione e ce n’era tanta, ma anche le idee». Aggiunge: «Ho fatto politica basandola sulla paura e ne ho pagato le conseguenze». Quali conseguenze magari un giorno ci verrà chiarito. Per ora basta quello che ha sillabato: «Ho costruito la mia politica sulla paura delle manette, sul concetto che erano tutti criminali». Frasi dal sen fuggite, nella foga di un intervento? No. Con Paolo Vites de Il Sussidiario, Di Pietro integra il ragionamento; dice di aver fatto il suo dovere di magistrato, «anche l’inchiesta Mani Pulite non la rinnego, rifarei oggi tutto quanto feci allora». Riconosce però che da «quell’inchiesta si è creato un vuoto, non solo un vuoto di figure politiche, ma dell’idea stessa della ricostruzione della politica. L’inchiesta era doverosa, ma chi voleva fare o restare in politica doveva costruire una idea politica. Invece si è cercato il consenso sul piano individuale, sul personalismo. Sono nati i Bossi, i Berlusconi, i Di Pietro, i Salvini, i Renzi. Persone che basano il loro consenso su chi urla più forte. Io sono stato uno di quelli. Ho peccato di personalismo, senza creare un’idea politica».

A questo punto – lo si dice per celia – verrà un giorno in cui anche un Piercamillo Davigo, un Nicola Gratteri, faranno analoghe capriole? No. Tutto fa pensare che quel giorno non verrà; almeno loro manterranno le ben note posizioni di sempre. Per tornare a Di Pietro: «Tra i tanti effetti di Mani Pulite c’è stato anche l’effetto emulazione, sono nati i magistrati dipietristi. È uno dei rischi che la magistratura deve evitare. La magistratura fa lo stesso lavoro che fa il becchino. Il becchino interviene quando c’è il morto, la magistratura deve intervenire quando c’è il reato, la magistratura invece che vuole sapere se c’è il reato è una magistratura pericolosa, perché con le indagini esplorative si crea il delinquente prima che ci siano le prove». Si potrà ricavare, da queste parole, da questi riconoscimenti, motivo per dire: meglio tardi che mai; e aggiungere che il tempo si conferma galantuomo. No. Il detto in questo caso non può e non deve valere quando galantuomini finiscono impigliati, e spesso stritolati, nelle tenaglie della giustizia. Il problema, che non può essere eluso, il nodo che va sciolto, è che le persone cui viene attribuito il potere di giudicare i propri simili non possono e non devono vivere come potere questo potere. Può apparire paradossale; ma come diceva Sciascia, «la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio». La crisi in cui versa l’amministrazione della giustizia in Italia deriva «principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio». In mancanza di questo, anche il riconoscimento più sincero e sofferto, è inutile, vano. Una consolazione che nulla consola; un ripensamento che niente mette in discussione.

Dell’Utri, i Br e i bambini in carcere, scrive Piero Sansonetti il 15 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Quasi 57mila persone passano il ferragosto in carcere, la cosa non interessa molti. Giornali, intellettuali e politici son tutti presi dalla smania di buttar la chiave. Oggi è ferragosto e gli italiani sono quasi tutti in vacanza. I ricchi in luoghi di lusso, i mezzo- borghesi un po’ intruppati, i poveri a casa loro, alcuni allegri, alcuni tristi. Poi ci sono 56 mila e 766 persone che non sono in vacanza. Sono in carcere. Di loro, a parte gli addetti ai lavori e gli amici radicali ( e qualche volta il papa), non si occupa nessuno. Loro passano un ferragosto di dolore, come tutti gli altri giorni dell’anno, aggravato dalle sofferenze a volte insopportabili del caldo. Pigiati nelle celle, perché le celle sono piccole e ospitano molti detenuti, spesso molti di più di quelli che possono contenere. Tra questi quasi 57 mila nostri fratelli disgraziati, ce ne sono 730 che sono rinchiusi in regime di 41 bis. Cosa vuol dire? Semplicemente vuol dire “carcere duro”, una espressione che dopo la caduta del fascismo era stata cancellata dal nostro linguaggio, ed è tornata prepotentemente negli anni 90. Queste 730 persone, delle quali circa 100 sono in attesa di giudizio, non possono ricever visite se non una al mese e da dietro una vetrata, vivono isolati 24 ore su 24, senza tv, senza radio, non possono cucinare, non possono lavorare, non hanno l’ora d’aria con gli altri detenuti. Dell’Utri, i brigatisti, i bimbi in cella. Una cosa li unisce: sono persone…Una specie di Cajenna. E siccome sono quasi tutti accusati di essere mafiosi, è quasi impossibile immaginare che qualcuno, nel mondo per bene, abbia una parola gentile, o persino un nascosto pensiero affettuoso nei loro confronti. Eppure sono persone. Persone come tutti noi. La maggior parte di loro è colpevole di vari e talvolta efferatissimi delitti, alcuni invece – forse pochi – sono vittime di errori giudiziari, più frequenti di quel che si crede, in Italia. Tutti, però, sono persone. Tra le altre persone che passeranno in carcere il ferragosto ci sono anche 64 bambini. Per fortuna solo 64. Ma non sono pochissimi 64 bambini di meno di tre anni. In cella, con la loro mamma, qualcuno anche col fratello o con la sorellina. La maggior parte di questi bambini è straniero: 40 stranieri contro 24 italiani. Eppure, sebbene la maggioranza sia straniera, questa massa di bambini sicuramente riuscirà, più dei mafiosi, a strappare qualche buon sentimento, forse un sorriso, forse una parola di pietà, anche nel mondo perbene. Con i bambini ci sono 50 mamme. Più della metà straniere. Molte rom, o senza fissa dimora. In genere non scontano pene lunghissime, pochi anni o qualche mese. Ma sono recidive. Piccoli furti, borseggi, qualche truffa. Recidive e dunque niente scarcerazione. Ci sono anche delle persone famose in carcere. Generalmente le persone famose non suscitano nessuna simpatia. Spesso stimolano i sentimenti della rivalsa e della vendetta. “Hai avuto una vita agiata, sei stato potente? Ah ah: ora paghi, soffri maledetto”. E spesso questo senso di rivalsa e di vendetta non è nemmeno un sentimento che si nasconde, del quale ci si vergogna. Anzi lo si esterna con soddisfazione, si grida forte. Poi magari si va anche a messa, dopo.

Tra le persone famose ne ricordo tre, perché conosco bene la loro vicenda giudiziaria. Un medico, un senatore ed un ex senatore. Il medico si chiama Pier Paolo Brega Massone, è in cella da nove anni. Lo accusano di cose orribili, di avere operato pazienti che sapeva inoperabili, e di averli uccisi, per prendere qualche rimborso. Lo hanno imputato per quattro omicidi volontari e condannato all’ergastolo. Sebbene in sede civile fosse stato assolto, e dunque qualche dubbio sulla sua colpevolezza fosse evidente. La Corte d’appello, di fronte a una perizia del Pm che diceva “colpevole” e una perizia della difesa che diceva “innocente”, si è rifiutata di nominare un perito indipendente e ha creduto al Pm. Brega Massone chiedeva solo quello: un perito indipendente. Lui si è sempre dichiarato del tutto innocente, e molti medici, esperti, dicono che ha ragione. Ora la Cassazione ha stabilito che sulla base delle prove raccolte non può certo trattarsi di omicidi volontari. Sono eventualmente omicidi colposi. Niente ergastolo, bisogna ricalcolare la pena. C’è tempo, c’è tempo, hanno risposto i magistrati. E lui sta i carcere. Tra poco fa dieci anni. La moglie cerca di tirare avanti, lavoricchiando, con una bambina di 13 anni, perché il marito non produce più reddito, bisogna assisterlo in prigione, pagare gli avvocati…

Il secondo caso è quello che conoscete tutti. L’ex senatore Marcello dell’Utri. E’ in prigione da quasi tre anni. E’ accusato di un reato che non è scritto nel codice penale: concorso esterno in associazione mafiosa. Una specie di offesa al vocabolario e alla sintassi. La Corte europea ha stabilito che quel reato, seppure esiste, esiste dal 1994. I fatti imputati a dell’Utri sono degli anni 80. E’ chiaro che deve uscire. Perché non esce? La “compagnia dell’antimafia” non vuole, e talvolta i magistrati subiscono la pressione della “compagnia antimafia”. E poi dell’Utri è molto amico di Berlusconi, e se non si può mettere dentro Berlusconi si tiene in prigione, finché si può, un suo amico. Siccome non c’è il reato, tecnicamente Dell’Utri è un prigioniero politico.

Poi c’è il giovane senatore Caridi, del quale abbiamo parlato nei giorni scorsi. E accusato di associazione mafiosa. Prove? No non ce n’è. Ci sono alcune dichiarazioni dei pentiti di una decina d’anni fa. Dichiarazioni già considerate non attendibili dai giudici di allora, ma poi, si sa, i tempi cambiano. Uno di questi pentiti ha dichiarato di aver assistito a un incontro segreto tra Caridi e un certo boss mafioso nel 2007. Sarebbe la prova regina della colpa del senatore. Poi si è saputo che nel 2007 ‘ sto boss mafioso era al 41 bis. Non poteva incontrare proprio nessuno, tantomeno di nascosto. Però non è stato cancellato il pentito è stata corretta la data…

Cosa c’entra quel cuore di pietra di Dell’Utri coi bambini di tre anni? C’entra, perchè sono persone: nello stessissimo modo sono persone. E dovrebbero interessarci. Invece all’opinione pubblica sembra interessare solo che le carceri siano piene. Sempre più spesso si sente dire, anche da persone responsabili, importanti: «Buttate la chiave!» Recentemente due giornali nazionali di grande prestigio hanno protestato. Una volta perché un boss era stato portato a casa per 12 ore a vedere la mamma ammalata. E poi si è saputo che non era neanche vero. Un’altra volta, pochi giorni fa, perché Carminati (che non è più al 41 bis perché è stato assolto dal reato mafioso), adesso può spassarsela all’ora d’aria, può cucinare in cella, incontrare i parenti una volta a settimana per un’ora filata…C’è un verso famoso di una canzone di Fabrizio de André che dice così: «tante le grinte, le ghigne i musi, vagli a spiegare che è primavera… e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera». Già, proprio così. Se vengono a sapere che ora Carminati può cucinarsi un uovo sodo fremono come bestie. E siccome abbiamo citato De André torniamo agli anni d’oro di De André, tra i settanta e i novanta. In quegli anni in Italia il tasso di criminalità era molto, molto più alto di ora. C’era il terrorismo, la mafia uccideva quasi tutti i giorni. Erano di più i furti, le rapine, le aggressioni. Le città non erano molto sicure, perché la violenza era alta. Beh, sapete quanti erano i detenuti, in quegli anni? Ho dato un’occhiata agli annuari Istat. Nel 1976, che è l’anno nel quale esplode il terrorismo, i detenuti erano 53,2 ogni 100.000 abitanti. Oggi invece sono 107, 4 ogni centomila abitanti. Un po’ più del doppio. Nel 1992, dopo più di un decennio di terrorismo scatenato e mentre era in pieno svolgimento la durissima iniziativa mafiosa, e cioè l’attacco frontale allo Stato deciso dai corleonesi, i detenuti erano 35.000, più o meno a parità di popolazione. 21 mila meno di oggi. Se volete qualche altra cifra dell’Istat posso dirvi che della attuale popolazione carceraria circa il 35 per cento è in prigione senza condanna definiva e circa il 20 per cento è in prigione senza aver ricevuto nessuna condanna, neanche di primo grado.

Qualunque manuale di sociologia ci spiega che con l’avanzare della civiltà le carceri si svuotano, piano piano. Le pene diventano sempre meno severe, crescono le misure alternative. Da noi no: è una corsa a far diventare le pene sempre più pesanti. Il numero dei carcerati è tornato quello degli anni trenta, durante il fascismo. I trattamenti si sono inferociti. Il 41 bis è un obbrobrio giuridico. Ed è un obbrobrio anche l’ergastolo ostativo, cioè la prigione a vita senza possibilità di una scarcerazione anticipata, senza un permesso premio, niente. E a me sembra un obbrobrio anche la situazione di circa 30 ex brigatisti rossi che sono stati dimenticati in carcere, chi da trentacinque chi da quarant’anni. Non usciranno mai. Serve a qualcuno?

In questi giorni stiamo pubblicando, a puntate, il trattato di Cesare Beccaria sui delitti e le pene. Nelle prime righe spiega come ogni pena non necessaria sia espressione della tirannia. Diceva proprio così, nel settecento, Beccaria: tirannia. Sono passati due secoli e mezzo, ma mica lo abbiamo capito…

Valentina Angela Stella, giornalista de "Il Dubbio": "Della attuale popolazione carceraria circa il 35 per cento è in prigione senza condanna definiva e circa il 20 per cento è in prigione senza aver ricevuto nessuna condanna, neanche di primo grado".

Amanda Knox: “Io, colpita e molestata dalla giustizia italiana”, scrive il 13 Agosto 2017 "Il Dubbio". La ragazza assolta per l’omicidio di Meredith Kercher torna a parlare: “L’aiuto di Trump mi danneggiò”. “Ringrazio Trump per avermi sostenunto, ma il suo aiuto avrebbe potuto danneggiarmi”. Amanda Knox, la ragazza di Seattle assolta per l’omicidio di Meredith Kercher dopo una lunghissima battaglia giudiziaria, torna a parlare della sua vicenda. Lo fa con una lunga intervista a “Rolling Stones” e punta dritto contro Donald Trump che la difese, certo, ma la sua non è “sembrata una difesa ma una sorta di bullismo, di arroganza da parte degli americani nei confronti degli italiani. Come se gli americani si sentissero in diritto di dire agli italiani cosa fare”. Dunque, ammette Amanda: “Avrei preferito che Trump avesse agito con maggiore prudenza”. Ma il giudizio di Amanda nei confronti dei magistrati italiani è durissimo: “Ho denunciato il fatto di avermi negato il diritto di avere un avvocato, di avermi colpita durante gli interrogatori”, racconta Amanda, che poi rincara la dose: “Mi interrogarono per oltre 53 ore in cinque giorni. Il risultato fu che l’interrogatorio finì nel modo sbagliato che tutti abbiamo visto. Non mi lasciavano uscire senza che affermassi qualcosa che includesse il nome di qualcuno. Questa cosa insana di estorcere false confessioni è molto comune. Non c’è alcun bisogno di colpire le persone o di molestarle verbalmente e psicologicamente. C’è un motivo se tutto ciò è definito illegale. Ero una ragazza di 20 anni senza precedenti con la giustizia e con un livello di italiano pari a quello di un bambino di 10 anni”. Poi le accuse a Guede, l’unico riconosciuto colpevole dai giudici: “Non voglio incontrare mai più quella persona, quello che ha fatto è stato terribile, ma so che chiamandolo cattivo non capirò mai perché lo ha fatto. Ho compreso il pubblico ministero, Giuliano Mignini: per quanto le sue idee fossero folli, almeno ho capito da dove venissero fuori. Ho capito che aveva motivi nobili e che in fondo ha a cuore le persone. Ho capito perché e come de-umanizza le persone e come lo ha fatto con me. Ma non ho ancora capito Guede. Non ce l’ho con lui, ma mi spaventa.”

 “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, scrive Vincenzo Vitale il 10 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Da oggi, tutti i giorni, pubblichiamo a puntate «Dei delitti e delle pene», il capolavoro di Cesare Beccaria che cambiò la storia del diritto occidentale. Da oggi, tutti i giorni, pubblichiamo a puntate «Dei delitti e delle pene», il capolavoro di Cesare Beccaria che cambiò la storia del diritto occidentale. Cesare Bonesana Beccaria, Marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nasce al centro di Milano, in via Brera, il 15 marzo 1738. Suddito quindi dell’impero asburgico, studia dai gesuiti e si laurea a vent’anni a Pavia in Giurisprudenza e, pur di sposare Teresa Blasco, rompe con la famiglia. Il celebre pamphlet di cui Beccaria è autore – Dei delitti e delle pene – che si presenta qui, rappresenta probabilmente il frutto più maturo di quell’illuminismo giuridico e sociale lombardo che si era raccolto attorno alla Accademia dei Pugni e alla celebre rivista Il Caffè. Accademia e rivista che ebbero vita breve di qualche anno appena, ma che comunque riuscirono a segnare in modo incisivo uno snodo fondamentale della cultura giuridica e politica europea della metà del settecento, quello che non a caso è stato definito da molti e attenti studiosi il secolo riformatore. Il celebre libello va letto e inquadrato dunque all’interno di questa cornice culturale che trasse il suo primo alimento dall’illuminismo francese, anche se bisogna sempre rifuggire dagli schematismi eccessivi e pervasivi: per esempio, come è noto, l’illuminismo europeo non fu certo soltanto di matrice francese (basti pensare a Kant, il quale peraltro nella Metafisica dei Costumi criticò aspramente Beccaria), come, del resto, il romanticismo non fu soltanto tedesco (basti pensare a Rostand). Rimane il fatto comunque che Beccaria era affascinato da Rousseau, da d’Alembert, da d’Holbach, da Diderot, al punto da mostrare nei confronti di codesti esponenti della filosofia dei lumi una sorta di timore reverenziale che si trasformò poi – quando divenuto celebre si recò a Parigi con Alessandro e Pietro Verri, da loro medesimi invitato – in una strana nevrosi, ragion per cui repentinamente fece ritorno a Milano. E tanto immotivatamente, da suscitare lo sconcerto dei suoi illustri ospiti oltre che il malumore dei Verri, i quali evidentemente immaginavano per l’illustre amico ben altri trionfi nei salotti parigini che invece non ci furono mai. Eppure, di quei trionfi ci sarebbe stata ragione in quanto la riflessione di Beccaria, pubblicata all’inizio del 1764, inaugura una nuova pagina nel diritto penale europeo: quella del contrattualismo di matrice utilitaristica che fa da argine al potere assoluto del monarca. In qualche modo rivoluzionario e pericoloso per il potere asburgico dunque il libro di Beccaria, tanto che la censura se ne accorse e ne arginò in parte gli effetti (sottovalutandoli), vietandone la pubblica vendita tranne che “per la gente dotata di giudizio”: una sorta di censura di seconda categoria, quasi inutile in punto di fatto. Si è detto contrattualismo: ed infatti la visione di Beccaria si inserisce nel solco di quelle correnti culturali (si pensi a Rousseau o a Bentham) che vedono nello Stato il risultato di un contratto sociale, stipulato fra i sudditi che cedono al Sovrano pezzi della loro libertà in cambio della sicurezza interna ed esterna. In quanto tale, il contrattualismo si oppone all’organicismo, visione tradizionale della filosofia politica, in virtù della quale lo Stato possiede una sua autonoma fisionomia che va come tale conosciuta e riconosciuta: esso è appunto organico. E si è detto anche utilitarismo, per significare che i patti che da quel contratto scaturiscono sono razionali, in quanto utili sia ai singoli, sia alla collettività ed al monarca stesso, ben più di quanto possa esserlo il potere dispoticamente esercitato dal Sovrano assoluto. Insomma, la Sovranità, per essere utile, deve essere razionale e per essere razionale deve nascere da un patto fra sudditi e Sovrano, un patto chiaro e da tutti comprensibile e soprattutto da tutti accettabile. Da qui, ovviamente, la necessaria moderazione delle pene e la contrarietà alla pena di morte, in quanto le pene estreme sono non utili perché irrazionali. Idee, come si vede, per noi ben note, anche se oggi da riscoprire perché poco praticate; e questo rende addirittura necessaria la pubblicazione di Beccaria alla quale ci si accinge. Idee nuovissime a quel tempo, tanto che Caterina II di Russia gli offrì la presidenza di una commissione per la riforma del codice penale largamente ispirata al suo pensiero, che però egli – come sempre incerto e restio ad assumere ruoli di primo piano – finì col rifiutare. Beccaria finì i suoi giorni in modo quasi oscuro, nominato burocrate presso il Supremo Consiglio di Economia. Le sue pagine invece gli sopravvissero e intrisero molte delle riforme europee del codice penale e di procedura penale, benchè pesantemente osteggiate da alcuni ecclesiastici: Padre Ferdinando Facchinei si scagliò contro violentemente, ma Padre Frisi le apprezzava e diffondeva. Oggi tuttavia vanno ricordate a coloro che sembrano averle dimenticate. E non sono pochi.

DEI DELITTI E DELLE PENE. A CHI LEGGE. Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono uno scolo de’ secoli i piú barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a’ direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui è scritta quest’opera è un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l’autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo con un non fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n’esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e de’ suoi legislatori. Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest’opera, scopo che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se piú che la forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l’umanità la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d’interrompere per un momento i miei ragionamenti agl’illuminati lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle calunnie della maligna invidia. Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell’ultima non è l’escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtú in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque tre distinte classi di virtú e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall’una risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell’Essere supremo. Dunque l’idea della virtú politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtú naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtú religiosa è sempre una costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata. Sarebbe dunque un errore l’attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l’imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto istesso. La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione fra l’azione e lo stato vario della società, può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione, né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. Sí tosto che questi principii essenzialmente distinti vengano confusi, non v’è piú speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a’ teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto può mai pregiudicare all’altro, poiché ognun vede quanto la virtú puramente politica debba cedere alla immutabile virtú emanata da Dio. Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtú o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl’interessi dell’umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.

INTRODUZIONE. Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l’interesse de’ quali è di opporsi alle piú provide leggi che per natura rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall’altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piú essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all’estremo, non s’inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le piú palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, piú per tradizione che per esame. Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità de’ mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch’ebbe il coraggio dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità. Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all’aspetto delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra d’industria la piú umana e la piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l’irregolarità delle procedure criminali, parte di legislazione cosí principale e cosí trascurata in quasi tutta l’Europa, pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di piú secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d’una prigione, aumentati dal piú crudele carnefice dei miseri, l’incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che guidano le opinioni delle menti umane. L’immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia. L’indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce luminose di questo grand’uomo, ma gli uomini pensatori, pe’ quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com’esso, i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità!

Distinguere tra reato e peccato, scrive Vincenzo Vitale l'11 Agosto 2017, su "Il Dubbio". Probabilmente, il merito più significativo di Beccaria è quello di aver distinto in modo netto e inequivocabile fra peccato e reato, cosa che oggi sembra semplice affermare, mentre non lo era affatto due secoli e mezzo fa. L’ordine del mondo, per Beccaria, è retto da sistemi diversi – quello religioso e quello civile – che non debbono assolutamente intersecarsi l’un l’altro: il potere politico deve interessarsi soltanto dei reati, mai, per dir così, dell’anima del reo, territorio riservato alla religione. Ne viene che, quando si commettono reati, per Beccaria occorrono quelli che egli definisce in modo alquanto sibillino “motivi sensibili”, capaci di distogliere dalla commissione di illeciti penali, e che altro non sono se non “le pene stabilite contro gli infrattori delle leggi”. Beccaria spiega subito che si tratta di motivi “sensibili”, in quanto “percuotono i sensi”, vale a dire che sono percepibili in modo diretto sulla pelle di coloro che ne siano i destinatari. Seguendo Montesquieu, la pena è legittima soltanto se assolutamente necessaria: altrimenti è tirannica. Beccaria parla ovviamente di diritto di punire da parte del Sovrano, evitando di fare un passo in più, come poi avrebbe fatto Kant, il quale teorizza invece un autentico “dovere di punire” da parte dello Stato: eppure il suo discorso avrebbe condotto di filato proprio a questo esito, vale a dire a riconoscere come il potere sovrano stesso sia al servizio delle leggi, invece che esserne padrone: e se ne è al servizio, il Sovrano non tanto ha il diritto di punire, quanto il dovere. Ma Beccaria non giunge a tanto, preferendo invece sottolineare come le pene siano dovute per giustizia e come questa debba intendersi in senso formale e giuridico, quale il vincolo capace di tenere insieme tutti gli interessi particolari e mai in senso fattuale – quale semplice forza fisica – o in senso teologico – ove pene e ricompense sono dispensate da Dio. Ovviamente, l’irrogazione delle pene ha delle conseguenze importanti. La prima è quello che oggi chiamiamo il principio di legalità: le pene possono essere stabilite soltanto dalla legge, mai da altri, neppure dalla volontà del Sovrano. E’ certo difficile comprenderlo in pieno, ma affermare due secoli e mezzo fa che il Sovrano non gode del potere di stabilire le pene, doveva sembrare un atto quasi rivoluzionario. La seconda conseguenza sta nel principio di giurisdizione e di separazione dei poteri: dal momento che il Sovrano è parte stipulante del contratto sociale, non può egli medesimo giudicare gli imputati dei reati – essendo ogni cittadino, anche imputato, l’altra parte stipulante dello stesso contratto – ma occorre un soggetto terzo ed imparziale: il magistrato. La terza conseguenza è che le pene, per non tralignare in pure e semplici sopraffazioni, non debbono mai essere atroci, termine che Beccaria usa per significare una loro speciale carica afflittiva. Ma il capitolo certo più interessante è quello in cui Beccaria affronta il problema della interpretazione della legge e della sua possibile oscurità. E qui Beccaria si mostra fino in fondo figlio dell’illuminismo giuridico che egli ha tanto contribuito a diffondere e dei suoi ineliminabili limiti. Infatti, egli propone, allo scopo di esorcizzare lo spettro della pluralità delle interpretazioni possibili della legge, che apre la porta ad ogni anarchia interpretativa, il tradizionale schema sillogistico: la premessa maggiore sta nella legge; la minore nel fatto commesso; la conclusione nella condanna o nella assoluzione. Beccaria riprende qui la ben nota teoria di Montesquieu del giudice che si limita ad essere “bouche de la lois”, vale a dire semplice cinghia di trasmissione, del tutto neutra, di una volontà che è e rimane soltanto del Sovrano. E ciò – lo si ribadisce – per esorcizzare il pericolo delle molteplici interpretazioni a volte confliggenti. Ma si tratta di una costruzione irreale e perniciosa, anche se ovviamente Beccaria, immerso nella cultura giuridica del suo tempo, non poteva immaginarlo. Irreale, in quanto ogni magistrato, interpretando le formule della legge, non può certo diventare un meccanismo automatizzato, ma reca con se un tesoro di conoscenze, di esperienze, di premesse che inevitabilmente influiscono sul suo operato. Perniciosa, in quanto ignorare la realtà equivale a divenirne schiavi. Come ha invece mostrato a sufficienza tutta la lezione ermeneutica che a partire da Gadamer – ma anche oltre Gadamer: si pensi a Pareyson, a Betti, a Mathieu – si è occupata del tema, ogni interprete muove da una pre- comprensione del testo da comprendere; e il bello è che non può evitarlo, dovendo soltanto esserne consapevole.

Il problema allora non è fare del giudice ciò che egli mai potrà essere – una sorta di macchina automatica che, sfornando sentenze, si illuda e illuda di trasmettere fedelmente la volontà del legislatore – ma far si che la necessaria pre-comprensione da cui egli muove sia trasparente, conoscibile e non frutto di follia argomentativa o conoscitiva. Certo, non facile, ma unica strada realisticamente percorribile Quanto poi alla oscurità dei testi di legge e alla loro scarsa comprensibilità, meno male che Beccaria non può leggere le odierne leggi italiane, zeppe di errori di grammatica, di contorsionismi argomentativi, di litoti, di punteggiature approssimative: ne morrebbe di nuovo.

CAPITOLO PRIMO ORIGINE DELLE PENE. Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de’ motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.

CAPITOLO SECONDO DIRITTO DI PUNIRE. Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo. Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo. La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú s’incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni. Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.

CAPITOLO TERZO CONSEGUENZE. La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato ( che è parte di società) può con giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino. La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari. La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l’effetto d’una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo.

CAPITOLO QUARTO INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI. Quarta conseguenza. Nemmeno l’autorità d’interpetrare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri che la cura d’ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell’attuale risultato della volontà di tutti; le ricevono non come obbligazioni d’un antico giuramento, nullo, perché legava volontà non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso giuramento, che le volontà riunite dei viventi sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli necessari per frenare e reggere l’intestino fermento degl’interessi particolari. Quest’è la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre della legge? Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi? In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza. Non v’è cosa piú pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari, piú percosse da un piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto piú sono complicate, tanto piú numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll’offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de’ miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell’attuale fermento degli umori d’un giudice, che prende per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpetrazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl’inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresí che acquisteranno uno spirito d’indipendenza, ma non già scuotitore delle leggi e ricalcitrante a’ supremi magistrati, bensí a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú la debolezza di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro che si sono fatto un diritto di trasmettere agl’inferiori i colpi della tirannia che hanno ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura.

CAPITOLO QUINTO OSCURITÀ DELLE LEGGI. Se l’interpetrazione delle leggi è un male, egli è evidente esserne un altro l’oscurità che strascina seco necessariamente l’interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli uomini, riflettendo esser questo l’inveterato costume di buona parte della colta ed illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni. Una conseguenza di quest’ultime riflessioni è che senza la scrittura una società non prenderà mai una forma fissa di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le leggi, inalterabili se non dalla volontà generale, non si corrompano passando per la folla degl’interessi privati. L’esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la probabilità e la certezza delle tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza inevitabile del tempo e delle passioni? Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l’atrocità de’ delitti che facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero le piú dolci virtú, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani. Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica semplicità e buona fede: l’umanità gemente sotto l’implacabile superstizione, l’avarizia, l’ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni dell’oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità evangelica lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sono l’opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto.

Le pene sproporzionate danneggiano la società, scrive Vincenzo Vitale il 12 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Naturalmente, un principio fondamentale della razionalità giuridica, non rinunciabile, risiede nella proporzione fra la gravità del delitto commesso e la pena prevista per lo stesso. Si badi. Compatibilmente alla impostazione utilitaristica tipica di Beccaria, tale proporzione non risponde ad alcuna esigenza di carattere metafisico, nel senso della sostanza essenziale delle cose, ponendosi invece nell’ottica del tutto illuministica della necessità di opporre al peso gravitazionale del delitto, un contrappeso di segno eguale e contrario, ma in ogni caso non eccessivo rispetto al primo. Beccaria, non estraneo ad una cultura matematizzante tipica del settecento, ama infatti ricorrere ad un lessico di tipo fisicogeometrico per far meglio intendere e spiegare i propri assunti teorici: ecco dunque l’uso del paragone con la gravitazione dei corpi. Si capisce bene la prospettiva da cui muove Beccaria, considerando la chiusa del capitoletto in questione, laddove egli nota che se la medesima pena fosse comminata per delitti che siano di gravità diseguale, “gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commetter il maggior delitto, se con esso vi troveranno unito un maggior vantaggio”. Insomma, la eventuale sproporzione delle pene non tanto si profila come intrinsecamente ingiusta – cosa che a Beccaria importava poco – quanto si palesa come inutile, anzi perfino disutile, contraria alla compagine sociale e al suo mantenimento. Come fare allora a rendere davvero le pene proporzionate al delitto commesso? Beccaria scarta decisamente i criteri allora più diffusi fra i criminalisti. Non la semplice dignità della persona offesa può costituire misura della pena: se così fosse, si giungerebbe all’assurdo di punire con più severità, per esempio, la blasfemia, in quanto offensiva della divinità, che non l’omicidio, offensivo della vita umana. Non la gravità del peccato commesso, che è intrinseco per molti aspetti al delitto contestato: se così fosse, infatti, si appiattirebbe ogni delitto sul dato strettamente teologico che invece deve rimanere completamente escluso dalla politica penale e criminale, rispondendo ad una logica autonoma e indipendente. E neppure può esserlo l’intenzione del reo: se così fosse infatti, per un verso, sarebbe necessario disporre una legge apposita per ogni uomo, vale a dire una previsione specifica per ogni intenzione, cosa evidentemente impossibile; per altro verso, non va ignorato – si noti qui l’attento realismo del giurista milanese – che uomini con la più prava delle intenzioni finirono col giovare molto alla società, mentre uomini dotati della migliore intenzione la danneggiarono moltissimo. Unico criterio di commisurazione delle pene per Beccaria non può essere allora che il danno “fatto alla nazione”. Per nazione Beccaria intende naturalmente la compagine sociale. Va notato come Beccaria qui sia stato in grado di indicare – e forse questo è un altro dei suoi più significativi meriti – il criterio del danno prodotto quale unico criterio accettabile per mantenere la proporzione fra pene e delitti, fondando in tal modo – ed essendone l’illustre precursore – la teoria del danno e del bene giuridico protetto dalla norma, quale premessa culturale necessaria a tutta quella ricca dottrina che – sia in campo penalistico che civilistico – costituisce la lezione giuridica fondamentale della nostra epoca. Ogni giurista infatti sa bene che la giurisprudenza e la dottrina negli ultimi decenni non hanno fatto altro che affaticarsi incessantemente alla ricerca di nuove e sempre più precise configurazioni del danno risarcibile – in sede civilistica – e punibile – in sede penalistica, per la miglior tutela della parte lesa: ebbene, la genesi di tanta qualità giuridica va ritrovata fra queste pagine, fra queste idee. E’ poi ovvio che la diversa commisurazione delle pene trae seco la necessità di distinguere come logica premessa i delitti secondo la loro gravità. I più gravi, per Beccaria, sono quelli tradizionalmente chiamati di “lesa maestà”: sono quelli che attentano direttamente alla società, avendo di mira la sua totale distruzione. Pensiamo oggi alla strage, al terrorismo, all’attentato agli organi costituzionali dello Stato… Poi ci sono i delitti che ledono le sfere giuridiche dei privati, i loro beni, i loro interessi, le loro legittime aspettative. Tuttavia, l’aspetto più interessante sta nel fatto che Beccaria afferma qui senza alcuna timidezza un vero dogma del diritto penale che oggi informa di se la legislazione di ogni autentico Stato di diritto: è permesso ad ogni cittadino fare ciò che non è espressamente vietato. In atre parole, Beccaria apre qui – e lo tiene ben fermo – l’ombrello della libertà e lo apre proprio al riparo di quelle leggi di cui ha precedentemente difeso l’esistenza e la indefettibile funzione. Nulla di più esemplare come lezione di diritto: la libertà nasce e si fonda sulle leggi, non contro o senza di esse; e le leggi devono esser tali da far nascere e sviluppare la pianta della libertà: altrimenti sarebbero solo espressione di tirannia.

CAPITOLO VI PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE. Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú aumentando. Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio. Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni. Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; piú attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtú, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della morale geografia. Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio.

CAPITOLO VII ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE. Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore. Lintenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene. Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa. Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col punire.

CAPITOLO VIII DIVISIONE DEI DELITTI. Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d’ogni nazione e d’ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d’autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per violente impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però che può essere somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l’ordine ci condurrebbe ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile natura di essi per le diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principii piú generali e gli errori piú funesti e comuni per disingannare sí quelli che per un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre l’anarchia, come coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolarità. Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell’onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi delitti, perché piú dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee piú chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a’ delitti di differente natura, e rendere cosí gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività e sono diversamente circonscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa interpetrazione, che è per l’ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall’eterna verità fu con immutabili rapporti distinto. Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene piú considerabili stabilita dalle leggi.

L’opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall’azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebb’essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell’azione universale su tutte le cose che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtú che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi può soffrire un’esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini sono uno de’ maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l’influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto del piú forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.

«La pena deve essere la meno tormentosa possibile», scrive Vincenzo Vitale il 15 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Pubblichiamo a puntate il capolavoro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle Pene”. Un’opera che propone un’idea del diritto un po’ più moderna dell’idea che prevale oggi. Il testo è preceduto da un commento di Vincenzo Vitale. È giunto il momento ormai per Beccaria di scendere più nel particolare, cercando di esaminare alcune figure particolari di comportamenti illeciti. Il primo è il caso dell’offesa recata all’onore, che oggi diremmo piuttosto reputazione, occasionando insomma quelli che potremmo chiamare, con terminologia moderna, i reati di opinione. Da tempo è noto che esiste una forte tendenza a depenalizzare i reati d’opinione in Italia, che tuttavia si è scontrata – ed è risultata fino ad oggi perdente – con l’opposta teoria che invece vuole a tutti i costi mantenerne la rilevanza penale: e da molti forse a ragione si pensa che dietro quest’ultima opinione si possa celare un qualche interesse personale sensibile ai risarcimenti a volte cospicui che ne possano derivare. Beccaria non lascia di far trapelare in modo chiaro il suo fastidio per questo genere di illecito penale ed in ciò si può forse scorgere una netta influenza della lezione di Rousseau, il cui problema capitale filosoficamente sintetizzato, come è noto, era “far riapparire l’essere al di là dell’apparire”. Beccaria denuncia ironicamente come purtroppo molti mettano questo onore – inteso come “i suffragi degli uomini” quale condizione stessa della propria esistenza. Le violazioni dell’onore danno origine ai duelli, reato fra i più odiosi, in quanto originati dalla “anarchia delle leggi” e abituali fra gli aristocratici – e non fra la plebe – in quanto son proprio costoro a guardarsi con “sospetto e gelosia”, i quali appunto esigono che l’offesa all’onore sia lavata col sangue del duello. E’ appena il caso di rilevare la per nulla scontata franchezza del giurista milanese nel denunciare i vizi della classe alla quale egli medesimo apparteneva, oltre che la fermezza nel vedere come reato un comportamento che a metà del settecento era giudicato lecito e perfino doveroso, quale il duello. Beccaria precorreva i tempi: e di molto. Dal punto di vista della filosofia della pena, Beccaria si colloca nella prospettiva che oggi chiameremmo della prevenzione speciale o anche generale, in quanto ritiene che lo scopo della stessa sia duplice: da un lato, scoraggiare il colpevole dalla commissione di altri reati; dall’altro, scoraggiare in genere la collettività dal commetterne. Da ciò discende che la pena deve essere “durevole” negli animi degli uomini e la meno “tormentosa” per il corpo. Kant avrebbe tuonato contro questa impostazione filosofica, perché contraria all’imperativo etico categorico, sfociando nel rischio che il fine preventivo possa fare del singolo colpevole un mezzo per impressionare gli altri soggetti della collettività, e non già – come invece predicava il filosofo di Konigsberg – un fine in se. Ma per Beccaria – e per noi – va bene così. Passando poi all’esame della testimonianza, transitando cioè dal codice penale a quello di procedura penale, Beccaria afferma un principio giuridico basilare, ma spesso dimenticato anche oggi, con enormi danni alla amministrazione della giustizia e a coloro che ne ricevono effetti negativi spesso irreparabili. Egli afferma infatti che se un testimone afferma e uno nega l’accusa, questa deve ritenersi non provata perché le testimonianze opposte si elidono reciprocamente e perché comunque deve prevalere la presunzione di innocenza. Molti sedicenti giuristi di oggi dovrebbero leggere e meditare queste pagine. Ancora. Esaminando le prove e la logica relativa alla loro valutazione, Beccaria dovrebbe vedere fra i propri attenti lettori anche molti giuristi della nostra epoca. Citiamo solo un esempio. Sostiene Beccaria che se le prove di un certo fatto si sostengono fra di loro, allora quanto più numerose sono codeste prove, tanto minore è la probabilità del fatto, perché le censure che si posson muovere alle precedenti colpiscono anche le seguenti; e ancora che se le prove di un certo fatto dipendono da una sola, il numero delle prove non aumenta la probabilità del fatto, perché il loro valore si risolve in quello della sola prova da cui dipendono. Insomma, un esempio perfetto di logica giudiziaria che sarebbe bene far studiare agli studenti di Giurisprudenza, troppo presi purtroppo dall’informatica – vale a dire dal mezzo di comunicazione – per preoccuparsi del diritto e della giustizia – vale a dire dei contenuti di quel mezzo, che poi son la sola cosa che davvero conti. Terribili poi le critiche da Beccaria riservate alla delazione, vale a dire alle accuse segrete e immuni da responsabilità. Esse infatti aprono la strada alla calunnia dalla quale è molto difficile difendersi proprio in quanto segreta. Ne viene che nessuna accusa – neppure la più grave – giustifica la delazione e che perciò l’accusa dovrà sempre essere pubblica, mai segreta, indipendentemente dalla forma dello Stato e della Costituzione. Infine al calunniatore dovrà irrogarsi la medesima pena che toccherebbe a colui che fu ingiustamente accusato. Come si vede, una bella e concreta lezione di civiltà giuridica, che oggi purtroppo per molti aspetti pare dimenticata.

DEI DELITTI E DELLE PENE. CAPITOLO IX DELL’ONORE. V’è una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose custodi piú d’ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun cittadino, e le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce l’opinione. Questa parola onore è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con piú distinta cognizione presenti che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse secondo che i venti delle passioni le sospingono e l’ignoranza guidata le riceve e le trasmette! Ma sparirà l’apparente paradosso se si consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, cosí la troppa vicinanza delle idee morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che le compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito geometrico che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilità. E scemerà del tutto la maraviglia nell’indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà non esservi per avventura bisogno di tanto apparato di morale, né di tanti legami per render gli uomini felici e sicuri. Quest’onore dunque è una di quelle idee complesse che sono un aggregato non solo d’idee semplici, ma d’idee parimente complicate, che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora escludono alcuni de’ diversi elementi che le compongono; né conservano che alcune poche idee comuni, come piú quantità complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell’onore è necessario gettar rapidamente un colpo d’occhio sulla formazione delle società. Le prime leggi e i primi magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della società, e questo fine primario si è sempre conservato, realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori; ma l’avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso gli altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori all’attuale potere di ciascuno. Da quest’epoca cominciò il dispotismo della opinione, che era l’unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E l’opinione è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo in credito l’apparenza della virtú al di sopra della virtú stessa, che fa diventar missionario anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto del comune livello. Quindi se l’ambizioso gli conquista come utili, se il vano va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l’uomo d’onore esigerli come necessari. Quest’onore è una condizione che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza. Nato dopo la formazione della società, non poté esser messo nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino. Quindi e nell’estrema libertà politica e nella estrema dipendenza spariscono le idee dell’onore, o si confondono perfettamente con altre: perché nella prima il dispotismo delle leggi rende inutile la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perché il dispotismo degli uomini, annullando l’esistenza civile, gli riduce ad una precaria e momentanea personalità. L’onore è dunque uno dei principii fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse sono quello che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed un ricordo al padrone dell’antica uguaglianza.

CAPITOLO X DEI DUELLI. Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero i duelli privati, ch’ebbero appunto la loro origine nell’anarchia delle leggi. Si pretendono sconosciuti all’antichità, forse perché gli antichi non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici; forse perché il duello era uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d’esser creduti e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono piú che la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l’uomo d’onore si prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio degl’insulti e dell’infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per qual motivo il minuto popolo non duella per lo piú come i grandi? Non solo perché è disarmato, ma perché la necessità degli altrui suffragi è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo piú elevati, si guardano con maggior sospetto e gelosia. Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto, cioè che il miglior metodo di prevenire questo delitto è di punire l’aggressore, cioè chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè l’opinione, ed ha dovuto mostrare a’ suoi concittadini ch’egli teme le sole leggi e non gli uomini.

CAPITOLO XI DELLA TRANQUILLITA’ PUBBLICA. Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete de’ cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al commercio ed al passeggio de’ cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e piú dall’oscuro e misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una gran massa d’uomini. La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città, i semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei tempii protetti dall’autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere gl’interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano della police; ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a quest’assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in qualche governo, ciò nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla natura di governo bene organizzato. L’incertezza della propria sorte ha sacrificate piú vittime all’oscura tirannia che non la pubblica e solenne crudeltà. Essa rivolta gli animi piú che non gli avvilisce. Il vero tiranno comincia sempre dal regnare sull’opinione, che previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nell’ignoranza del pericolo. Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte è ella una pena veramente utile e necessaria p er la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt’i tempi? Qual influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson resistere. Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato il primo all’Italia con qualche maggior evidenza ciò che altre nazioni hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini.

CAPITOLO XII FINE DELLE PENE. Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.

CAPITOLO XIII DEI TESTIMONI. Egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione. il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, può essere testimonio. La vera misura della di lui credibilità non è che l’interesse ch’egli ha di dire o non dire il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile l’applicazione degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente la nota d’infamia negl’infami quando non abbiano alcun interesse di mentire. La credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione dell’odio, o dell’amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui e il reo. Piú d’un testimonio è necessario, perché fintanto che uno asserisce e l’altro nega niente v’è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d’essere creduto innocente. La credibilità di un testimonio diviene tanto sensibilmente minore quanto piú cresce l’atrocità di un delitto o l’inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le azioni gratuitamente crudeli. Egli è piú probabile che piú uomini mentiscano nella prima accusa, perché è piú facile che si combini in piú uomini o l’illusione dell’ignoranza o l’odio persecutore di quello che un uomo eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perché l’uomo non è crudele che a proporzione del proprio interesse, dell’odio o del timore concepito. Non v’è propriamente alcun sentimento superfluo nell’uomo; egli è sempre proporzionale al risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità di un testimonio può essere alcuna volta sminuita, quand’egli sia membro d’alcuna società privata di cui gli usi e le massime siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le altrui passioni. Finalmente è quasi nulla la credibilità del testimonio quando si faccia delle parole un delitto, poiché il tuono, il gesto, tutto ciò che precede e ciò che siegue le differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse parole, alterano e modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile il ripeterle quali precisamente furon dette. Di piú, le azioni violenti e fuori dell’uso ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di sé nella moltitudine delle circostanze e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che nella memoria per lo piú infedele e spesso sedotta degli ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga piú facile una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo, poiché di queste, quanto maggior numero di circostanze si adducono in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per giustificarsi.

CAPITOLO XIV INDIZI, E FORME DI GIUDIZI. Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza degl’indizi di un reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l’una dall’altra, cioè quando gl’indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori prove si adducono tanto è minore la probabilità del fatto, perché i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta né sminuisce la probabilità del fatto, perché tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono. Quando le prove sono indipendenti l’una dall’altra, cioè quando gli indizi si provano d’altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si adducono, tanto piú cresce la probabilità del fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull’altra. Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è dunque quella che determina ogni uomo nelle operazioni piú importanti della vita. Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette. Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare è possibile che uno non sia reo, per l’unione loro nel medesimo soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere divengono perfette. Ma questa morale certezza di prove è piú facile il sentirla che l’esattamente definirla. Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla scelta, perché in questo caso è piú sicura l’ignoranza che giudica per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le leggi siano chiare e precise l’officio di un giudice non consiste in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicarne dal risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato da’ suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai suoi pari, perché, dove si tratta della libertà e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la disuguaglianza; e quella superiorità con cui l’uomo fortunato guarda l’infelice, e quello sdegno con cui l’inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo giudizio. Ma quando il delitto sia un’offesa di un terzo, allora i giudici dovrebbono essere metà pari del reo, metà pari dell’offeso; cosí, essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli è ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli senza contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo si condanni da se stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento delle società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accennerò altri dettagli e cautele che richiedono simili instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto.

CAPITOLO XV ACCUSE SEGRETE. Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della constituzione, sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti, e, coll’uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta e con disordine divorati, gli consolano d’esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl’intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo gl’incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi tributi l’amore e le benedizioni di tutti i ceti d’uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle capanne la pace, la sicurezza e l’industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita degli stati? Chi può difendersi dalla calunnia quand’ella è armata dal piú forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno? Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la forza, e l’opinione piú efficace di essa, teme d’ogni cittadino? L’indennità dell’accusatore? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi piú forti del sovrano! L’infamia del delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità dell’esempio, cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che può credersi l’estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato dell’universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi. È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de’ cittadini, che nella monarchia, dove questo sentimento è debolissimo per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento il destinare de’ commissari, che in nome pubblico accusino gl’infrattori delle leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe all’accusato.

«La tortura questo infame metodo di indagine», scrive Vincenzo Vitale il 17 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Pubblichiamo a puntate il capolavoro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle Pene”. Un’opera che propone un’idea del diritto un po’ più moderna dell’idea che prevale oggi. Il testo è preceduto da un commento di Vincenzo Vitale. Siamo così giunti finalmente al tema più scottante e che più di ogni altro ha fatto discutere in passato i criminalisti, fino a diventare un paradigma di riferimento obbligato per saggiare il tasso di giuridicità di un ordinamento: la tortura. Beccaria si preoccupa di chiarire immediatamente con logica inoppugnabile i termini reali del problema: o il delitto è certo oppure è incerto; se è certo, la tortura è del tutto inutile in quanto la confessione del reo è superflua; se invece è incerto, la tortura è indebita, in quanto sarebbe applicata ad un innocente, quale deve essere considerato l’accusato fino alla prova definitiva e inoppugnabile della sua colpevolezza. Non so fino a che punto ci si renda conto della preziosa posizione di Beccaria in ordine alla presunzione di innocenza, difesa e razionalmente affermata oltre due secoli e mezzo or sono, quando nessuno neppure ne parlava o la ipotizzava, presunzione che oggi purtroppo a volte viene dimenticata o messa fra parentesi. Per questo, Beccaria insiste che nessuno può chiamarsi reo fino a quando la sua colpevolezza sia accertata attraverso la sentenza del giudice. Per il giurista milanese, nessuno dei motivi che vengono tradizionalmente offerti per giustificare la tortura – atterrire gli uomini, purgare l’infamia ecc. – regge ad una seria critica. A ben vedere, secondo Beccaria la tortura è equiparabile alle celebri prove legali in uso nel medioevo, quali la prova del fuoco, quella dell’acqua bollente, insomma ai cosiddetti giudizi di Dio e di questi soffre tutta la irrazionalità giuridica e la casualità...Secondo la retta ragione, la sola differenza fra le prove barbaricamente legali e la tortura risiede nel fatto che mentre nelle prime l’esito dipende da fattori estrinseci e del tutto eventuali, in questa l’esito dipende in buona parte dalla volontà dell’accusato. E’ pur vero – nota ancora il giurista – che la confessione fatta durante la tortura necessita, per essere valida, della conferma sotto giuramento fatta in un momento successivo, ma è anche vero che, assurdamente, in molti Stati se l’accusato non conferma quanto in precedenza dichiarato sotto tortura, verrà di nuovo sottoposto ai tormenti ( in certi Stati solo per tre volte, in altri a discrezione del giudice): insomma, un cane che si morde la coda, non se ne esce più. Ma la vera argomentazione che rivela la assurdità della tortura sta nel fatto che l’innocente si trova in una posizione di svantaggio rispetto al colpevole. Se infatti, viene torturato l’innocente, questi o confessa – per far cessare il tormento – ciò che non ha fatto e allora sarà condannato; oppure, non confessando, viene assolto e allora avrà patito ingiustamente una enorme sofferenza. Se invece viene torturato il colpevole, se questi stoicamente sa resistere al dolore, verrà assolto. Ne viene che mentre l’innocente avrà sempre perso qualcosa, il colpevole è messo in grado di guadagnare la propria impunità. Nell’ambito di questa cornice giudiziaria, il giudice non è più un terzo imparziale, ma diviene “nemico del reo”, afferma in modo preciso Beccaria, non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto attraverso la tortura. E qui, Beccaria alza il tono del discorso attingendo compiutamente luoghi che oggi potremmo definire propri di una teoria generale del processo penale. Infatti, egli distingue fra un processo penale offensivo, dove per essere dichiarati innocenti, bisogna prima esser detti rei, e perciò anche essere sottoposti alla tortura; e un processo penale informativo, dove invece prevale la ricerca imparziale del fatto da chiunque commesso. In Europa, a metà del settecento, il secondo era sconosciuto, mentre il primo era l’unico concretamente sperimentato: oggi, usando il linguaggio dei giuristi contemporanei, diremmo che il processo inquisitorio deve lasciar spazio a quello accusatorio. Oggi. Ma a metà del settecento era pericoloso affermare quelle che sembrano ovvie verità. Beccaria conclude questa sezione della sua opera, criticando l’uso di far giurare gli accusati – come oggi avviene ancora purtroppo in America. E ciò sia per motivi pratici, perchè mai il giuramento potrà spingere l’accusato a dichiararsi colpevole, sia che questi lo sia davvero, o anche se non lo sia; inoltre, l’uso del giuramento mescola quei due piani che per Beccaria devono restare sempre distinti, quello divino e quello umano. C’è bisogno di aggiungere altro?

CAPITOLO XVI DELLA TORTURA. Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, è non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per piú d’un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtú. Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine, che la tirannia dell’uso esercita su i rei e sugl’innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v’è rimedio, non può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell’impunità. S’egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtú, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate. Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, purghi l’infamia, che è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l’infamia è forse un corpo misto impuro? Non è difficile il rimontare all’origine di questa ridicola legge, perché gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira eterna del grand’Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora l’infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile che è l’infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi piú sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d’ignoranza, cosí ad essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni e ne fa le piú assurde e lontane applicazioni. Ma l’infamia è un sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l’infamia dando l’infamia. Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il timore della pena, l’incertezza del giudizio, l’apparato e la maestà del giudice, l’ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl’innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contradizione e l’innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell’animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall’imminente pericolo. Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte dell’armi, quasi che gli anelli dell’eterna catena, che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell’acqua bollente, è che l’esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È cosí poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l’impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell’acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada piú corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del reo è cosí necessaria come le impressioni del fuoco o dell’acqua. Allora l’innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla. È superfluo di raddoppiare il lume citando gl’innumerabili esempi d’innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l’uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d’un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto. L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisonomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtú e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de’ piú saggi monarchi dell’Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de’ suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene piú d’ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell’uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il piú umano metodo di giudicare. Questa verità è finalmente sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato. Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare. La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa. Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent’altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo. Finalmente la tortura è data ad un accusato per discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici, che è una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l’uomo che accusa se stesso non accusi piú facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli uomini per l’altrui delitto? Non si scuopriranno i complici dall’esame dei testimoni, dall’esame del reo, dalle prove e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell’accusato? I complici per lo piú fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno, l’incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all’esilio e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l’unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.

CAPITOLO XVII DEL FISCO. Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L’oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l’esattore di queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessità dell’esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero, un agente dell’erario fiscale anzi che il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure criminali d’allora, cosí la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz’essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della stabilita, senz’essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s’impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può. Provata l’esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere quest’ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all’avvenire il piú terribile; non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose. Gl’indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla piú felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell’uomo la possibile verificazione di un tale sistema.

CAPITOLO XVIII DEI GIURAMENTI. Una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all’uomo nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che l’uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l’interesse. L’esperienza di tutt’i secoli ha fatto vedere che essi hanno piú d’ogni altra cosa abusato di questo prezioso dono del cielo. E per qual motivo gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati piú saggi l’hanno sovente violata? Troppo deboli, perché troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi che la religione contrappone al tumulto del timore ed all’amor della vita. Gli affari del cielo si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari umani. E perché comprometter gli uni cogli altri? E perché metter l’uomo nella terribile contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che obbliga ad un tal giuramento, comanda o di esser cattivo cristiano o martire. Il giuramento diviene a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa maniera la forza dei sentimenti di religione, unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha fatto vedere l’esperienza, perché ciascun giudice mi può esser testimonio che nessun giuramento ha mai fatto dire la verità ad alcun reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina insensibilmente.

Processi rapidi, diceva Beccaria…250 anni fa, scrive Vincenzo Vitale il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Commento ai capitoli 19, 20, 21, 22, 23 e 24. A questo punto Beccaria non evita di toccare un tasto dolente oggi più di ieri: la durata dei processi. Egli tiene a chiarire subito che se fra il delitto commesso e la pena irrogata attraverso la sentenza trascorre troppo tempo, allora tale pena sarà avvertita come ingiusta e il reo vi si opporrà con ogni moto dell’anima. Inoltre, la carcerazione preventiva va applicata in modo che essa duri il minor tempo possibile e che sia la meno dura possibile, proprio in quanto l’accusato va ritenuto innocente fino a sentenza definitiva. Non si può fare a meno di rilevare come tali preziosi avvertimenti siano ancor oggi assolutamente da ribadire e da tener presenti, per il semplice motivo che sembra che Beccaria non abbia mai scritto queste cose. Chiunque sa infatti che oggi la durata media di un processo penale è abnorme e che la custodia cautelare in carcere viene adoperata con eccessiva spregiudicatezza, nonostante nei convegni e nelle tavole rotonde si predichi il contrario. In certi casi sembra che senza il ricorso alla custodia cautelare non si possano fare i processi: peccato poi se, come accade in questi giorni in alcuni casi agli onori delle cronache, intervenga la Cassazione ad annullare un ordine di custodia emesso sei mesi prima. In buona sostanza, un essere umano viene arrestato preventivamente, rimane in carcere per sei mesi o più e poi la Cassazione gli dice che non potevano arrestarlo per mancanza dei presupposti di legge: e Beccaria? Un illustre sconosciuto! Questo illustre sconosciuto – che sarebbe bene oggi fosse studiato nei corsi universitari invece di perdere tempo con emerite sciocchezze – afferma ancora che i delitti commessi con violenza contro le persone vanno puniti con pene corporali, mentre quelli contro il patrimonio con sanzioni pecuniarie: evidenti ed insormontabili ragioni di simmetria formale impediscono a Beccaria di eliminare del tutto le pene corporali dal proprio orizzonte concettuale, pur limitandole a casi estremi. Molto interessante e testimone della libertà di pensiero di Beccaria è invece il fatto che egli critichi aspramente la possibilità, allora vigente, secondo cui le pene inflitte ai nobili fossero diverse – e assai meno aspre – di quelle inflitte invece al volgo. E’ noto infatti come la pena capitale inflitta ad un plebeo fosse accompagnata sempre da atroci supplizi sia precedenti, sia contestuali: la ruota, il taglio delle mani, il fuoco, ecc.; e basti in proposito por mente a quali atrocità furono sottoposti Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, condannati a morte in quanto untori, e di cui narra Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame. Invece l’esecuzione dei nobili era quanto mai rapida e indolore: una semplice decapitazione che nell’attimo in cui staccava la testa dal collo donava una morte celere e quasi inavvertita. Da qui evidentemente, la grande importanza attribuita alla capacità del boia che, se adeguatamente esercitato e competente, non doveva in alcun modo fallire il primo colpo di scure, perché, in caso contrario, avrebbe causato al condannato intollerabili sofferenze che invece dovevano ad ogni costo essergli evitate. Beccaria denuncia questa disparità come una inaccettabile diseguaglianza, mentre tutti, nobili e plebei, vanno considerati eguali davanti alla legge. E piace pensare – cosa del tutto probabile – che quando i giacobini ghigliottinavano i nemici della rivoluzione – venticinque anni dopo la pubblicazione dell’opera di Beccaria – indistintamente se fossero nobili o plebei, non esitando a farlo anche per il re e la regina, avessero proprio in mente la lezione di Beccaria. Del resto, è stato Hegel a notare – nelle Lezioni di Filosofia della storia – come il senso fenomenologico della ghigliottina sia proprio questo: parificare davanti alla morte tutti gli uomini, senza distinzioni di classi o di condizioni economiche. La ghigliottina insomma è la vera espressione della raggiunta democrazia giacobina. Sotto la lama affilatissima e cieca della ghigliottina non ci son più re o poveri diavoli, perchè essa non distingue nessuno e tutti tratta allo stesso modo, destinandoli ad una morte rapida e pressochè indolore. Strano che se Beccaria influenzò a tal punto i giacobini rivoluzionari, non altrettanto sia riuscito a fare con tanti sedicenti giuristi ed esperti del nostro tempo. Ma certo non è colpa sua.

O i processi sono rapidi o le pene sono ingiuste.

CAPITOLO XIX PRONTEZZA DELLA PENA. Quanto la pena sarà piú pronta e piú vicina al delitto commesso, ella sarà tanto piú giusta e tanto piú utile. Dico piú giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza, che crescono col vigore dell’immaginazione e col sentimento della propria debolezza; piú giusta, perché la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. Il minor tempo dev’esser misurato e dalla necessaria durazione del processo e dall’anzianità di chi prima ha un diritto di esser giudicato. La strettezza della carcere non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti. Il processo medesimo dev’essere finito nel piú breve tempo possibile. Qual piú crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la piú efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili. Ho detto che la prontezza delle pene è piú utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è piú forte e piú durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile. Egli è dimostrato che l’unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica dell’intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto piú gli uomini si allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè quanto piú sono volgari, tanto piú agiscono per le immediate e piú vicine associazioni, trascurando le piú remote e complicate, che non servono che agli uomini fortemente appassionati per l’oggetto a cui tendono, poiché la luce dell’attenzione rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri. Servono parimente alle menti piú elevate, perché hanno acquistata l’abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta, ed hanno la facilità di far contrastare molti sentimenti parziali gli uni cogli altri, talché il risultato, che è l’azione, è meno pericoloso ed incerto. Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l’idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di sempre piú disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d’un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli animi degli spettatori l’orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena. Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre piú l’importante connessione tra ‘ l misfatto e la pena, cioè che questa sia conforme quanto piú si possa alla natura del delitto. Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev’essere tra la spinta al delitto e la ripercussione della pena, cioè che questa allontani e conduca l’animo ad un fine opposto di quello per dove cerca d’incamminarlo la seducente idea dell’infrazione della legge.

CAPITOLO XX VIOLENZE. Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene corporali: né il grande né il ricco debbono poter mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che sotto la tutela delle leggi sono il premio dell’industria, diventano l’alimento della tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa: vedrete allora l’industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili quelle che la legge gli dà in suo favore. Questa scoperta è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega le azioni degl’incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni governi, che hanno tutta l’apparenza di libertà, la tirannia sta nascosta o s’introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e s’ingrandisce. Gli uomini mettono per lo piú gli argini piú sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che gli rode ed apre una tanto piú sicura quanto piú occulta strada al fiume inondatore.

CAPITOLO XXI PENE DEI NOBILI. Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei sia utile in un governo o necessaria nella monarchia, se egli è vero che formi un potere intermedio, che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d’Arabia, e che, quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile o utile nelle società, sia vero altresí che ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl’individui, fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico, perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser debbono le medesime pel primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione sia negli onori sia nelle ricchezze perché sia legittima suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo abbiano detto: chi sarà piú industrioso abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda ne’ suoi successori; ma chi è piú felice o piú onorato speri di piú, ma non tema meno degli altri di violare quei patti coi quali è sopra gli altri sollevato. Egli è vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere umano, ma tali decreti esistono negl’immobili rapporti delle cose, non distruggono quei vantaggi che si suppongono prodotti dalla nobiltà e ne impediscono gl’inconvenienti; rendono formidabili le leggi chiudendo ogni strada all’impunità. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa per la diversità dell’educazione, per l’infamia che spandesi su di un’illustre famiglia, risponderei che la sensibilità del reo non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi è piú favorito; e che l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l’infamia di una famiglia può esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza all’innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili formalità tengon luogo di ragioni al credulo ed ammiratore popolo?

CAPITOLO XXII FURTI. I furti che non hanno unito violenza dovrebbero esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca d’arricchirsi dell’altrui dovrebbe esser impoverito del proprio. Ma come questo non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà ( terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza, ma come le pene pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello de’ delitti e che tolgono il pane agl’innocenti per toglierlo agli scellerati, la pena piú opportuna sarà quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla colla propria e perfetta dipendenza dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma quando il furto sia misto di violenza, la pena dev’essere parimente un misto di corporale e di servile. Altri scrittori prima di me hanno dimostrato l’evidente disordine che nasce dal non distinguere le pene dei furti violenti da quelle dei furti dolosi facendo l’assurda equazione di una grossa somma di denaro colla vita di un uomo; ma non è mai superfluo il ripetere ciò che non è quasi mai stato eseguito. Le macchine politiche conservano piú d’ogni altra il moto concepito e sono le piú lente ad acquistarne un nuovo. Questi sono delitti di differente natura, ed è certissimo anche in politica quell’assioma di matematica, che tralle quantità eterogenee vi è l’infinito che le separa.

CAPITOLO XXIII INFAMIA. Le ingiurie personali e contrarie all’onore, cioè a quella giusta porzione di suffragi che un cittadino ha dritto di esigere dagli altri, debbono essere punite coll’infamia. Quest’infamia è un segno della pubblica disapprovazione che priva il reo de’ pubblici voti, della confidenza della patria e di quella quasi fraternità che la società inspira. Ella non è in arbitrio della legge. Bisogna dunque che l’infamia della legge sia la stessa che quella che nasce dai rapporti delle cose, la stessa che la morale universale, o la particolare dipendente dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni e di quella tal nazione che inspirano. Se l’una è differente dall’altra, o la legge perde la pubblica venerazione, o l’idee della morale e della probità svaniscono, ad onta delle declamazioni che mai non resistono agli esempi. Chi dichiara infami azioni per sé indifferenti sminuisce l’infamia delle azioni che son veramente tali. Le pene d’infamia non debbono essere né troppo frequenti né cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non il primo, perché gli effetti reali e troppo frequenti delle cose d’opinione indeboliscono la forza della opinione medesima, non il secondo, perché l’infamia di molti si risolve nella infamia. Le pene corporali e dolorose non devono darsi a quei delitti che, fondati sull’orgoglio, traggono dal dolore istesso gloria ed alimento, ai quali convengono il ridicolo e l’infamia, pene che frenano l’orgoglio dei fanatici coll’orgoglio degli spettatori e dalla tenacità delle quali appena con lenti ed ostinati sforzi la verità stessa si libera. Cosí forze opponendo a forze ed opinioni ad opinioni il saggio legislatore rompa l’ammirazione e la sorpresa nel popolo cagionata da un falso principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo l’originaria Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la natura invariabile delle cose, che non essendo limitata dal tempo ed operando incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti che da lei si scostano. Non sono le sole arti di gusto e di piacere che hanno per principio universale l’imitazione fedele della natura, ma la politica istessa, almeno la vera e la durevole, è soggetta a questa massima generale, poiché ella non è altro che l’arte di meglio dirigere e di rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini.

CAPITOLO XXIV OZIOSI. Chi turba la tranquillità pubblica, chi non ubbidisce alle leggi, cioè alle condizioni con cui gli uomini si soffrono scambievolmente e si difendono, quegli dev’esser escluso dalla società, cioè dev’essere bandito. Questa è la ragione per cui i saggi governi non soffrono, nel seno del travaglio e dell’industria, quel genere di ozio politico confuso dagli austeri declamatori coll’ozio delle ricchezze accumulate dall’industria, ozio necessario ed utile a misura che la società si dilata e l’amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio politico quello che non contribuisce alla società né col travaglio né colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della vita attiva che è la necessità di custodire o di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno forti, tutta la loro energia. Non è ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle virtú de’ propri antenati, e vende per attuali piaceri il pane e l’esistenza alla industriosa povertà, ch’esercita in pace la tacita guerra d’industria colla opulenza, in vece della incerta e sanguinosa colla forza. E però non l’austera e limitata virtú di alcuni censori, ma le leggi debbono definire qual sia l’ozio da punirsi. Sembra che il bando dovrebbe esser dato a coloro i quali, accusati di un atroce delitto, hanno una grande probabilità, ma non la certezza contro di loro, di esser rei; ma per ciò fare è necessario uno statuto il meno arbitrario e il piú preciso che sia possibile, il quale condanni al bando chi ha messo la nazione nella fatale alternativa o di temerlo o di offenderlo, lasciandogli però il sacro diritto di provare l’innocenza sua. Maggiori dovrebbon essere i motivi contro un nazionale che contro un forestiere, contro un incolpato per la prima volta che contro chi lo fu piú volte.

Una lezione per i nostri legislatori, scrive Vincenzo Vitale il 19 Agosto 2017su "Il Dubbio".  Commento ai capitoli 25, 26 e 27. Una delle pene abituali dell’epoca di Beccaria era il bando, che veniva irrogato a coloro che venivano riconosciuti colpevoli di delitti dotati di particolare disvalore sociale, e che producevano un turbamento della pubblica tranquillità. Si trattava ad una pena simile a quella dell’esilio, tradizionale negli ordinamenti europei del diritto comune e che, a sua volta, traeva ispirazione dall’antichissimo istituto dell’ostracismo, vale a dire da quel referendum al quale erano chiamati i cittadini ateniesi allo scopo, appunto, di bandire dalla città un soggetto considerato indesiderabile. Beccaria non crede alla utilità sociale del bando e, ancor meno, a ciò che inevitabilmente ne era la conseguenza giuridica forse più penalizzante: la confisca dei beni del soggetto bandito. Infatti, tale confisca gli appare inaccettabile per almeno due motivazioni. Innanzitutto, perché finisce col colpire anche soggetti diversi da quello colpito dal bando, vale a dire il coniuge, i figli e in genere i parenti o coloro che avrebbero potuto godere di diritti sui beni confiscati. In secondo luogo, perché, privando costoro dei diritti ereditari sui beni confiscati, ne causa la completa rovina, collocandoli in una situazione di tale disperazione da indurli a commettere eventuali delitti allo scopo di sopravvivere o di vendicarsi del male ricevuto, senza che loro ne avessero commesso alcuno. Insomma, il bando e ancor più la conseguente confisca appaiono a Beccaria del tutto irrazionali e perciò inutili e dannosi alla compagine sociale. Nel tentativo poi di spiegare la cornice concettuale all’interno della quale nasce la propria avversione alle due pene sopra menzionate, Beccaria opera una lunga digressione di carattere non giuridico, ma sociologico o, forse, di filosofia sociale, dagli esiti tutt’altro che disprezzabili, e che testimoniano la versatilità del suo ingegno. In sintesi, Beccaria oppone una concezione angusta e asfittica di società – quella che la vede come la somma di più famiglie – ad una invece ampia e liberante – quella che la vede come l’insieme di molti esseri umani. La differenza non è di poco conto, in quanto se si considerano quali componenti sociali in prima istanza le famiglie, ne verrà che gli individui, prima ancora di essere parte della società, saranno parte della famiglia e perciò saranno sottoposti prima al capo della famiglia e soltanto dopo al potere dello Stato: una concezione familistica della società che Beccaria condanna duramente e senza mezzi termini, quale corrosiva del legame sociale autentico e universale. Per quanto certamente Beccaria nulla potesse sapere di mafia e di simili fenomeni sociali, la sua analisi rimane valida ancor oggi soprattutto in relazione ai legami familistici che, nell’ottica della cultura mafiosa, sono destinati sempre e in ogni caso a prevalere su quelli sociali e perfino a negarli o a combatterli. Beccaria insiste poi molto su una circostanza dettata dallo spirito utilitaristico a cui è improntata tutta la sua opera: la pena produce efficacia intimidatrice maggiore non in ragione della sua crudeltà, ma della sua certezza. Si tratta di una considerazione che il legislatore del nostro tempo dimentica in modo che direi perfino studiato e sistematico. Si pensi alle numerose occasioni in cui, dopo il ripetersi di un certo delitto, il parlamento si affretta ad aumentare la pena per esso prevista dal codice penale: Beccaria ne riderebbe sconsolato. E avrebbe perfettamente ragione. Infatti, mai si è visto che un soggetto si astenga dal delinquere – se ne abbia sufficiente spinta psicologica – per il timore della gravità della pena, se ragionevolmente possa ritenere che di fatto non la sconterà mai. Al contrario, anche una pena relativamente mite è in grado di scoraggiare il futuro delinquente, se questi sia ragionevolmente certo che ne sarà effettivo destinatario. Dal punto di vista della sua gravità, la pena otterrà il suo effetto – conclude il giurista milanese – sol che “il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”; e, fedele al suo spirito matematizzante, aggiunge che in questo eccesso di male “dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe”. Il legislatore del nostro tempo ignora completamente queste osservazioni assai calzanti e dotate di buon senso. E, forse, per indurlo a prestarvi attenzione, bisognerebbe fermasse il suo sguardo sulla conclusione finale di Beccaria il quale sagacemente annota: “Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”. Il nostro parlamento lo ignora.

«Non è la crudeltà delle pene che frena i delitti!».

CAPITOLO XXV BANDO E CONFISCHE. Ma chi è bandito ed escluso per sempre dalla società di cui era membro, dev’egli esser privato dei suoi beni? Una tal questione è suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni è una pena maggiore di quella del bando; vi debbono dunque essere alcuni casi in cui, proporzionatamente a’ delitti, vi sia la perdita di tutto o di parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarà quando il bando intimato dalla legge sia tale che annienti tutt’i rapporti che sono tra la società e un cittadino delinquente; allora muore il cittadino e resta l’uomo, e rispetto al corpo politico deve produrre lo stesso effetto che la morte naturale. Parrebbe dunque che i beni tolti al reo dovessero toccare ai legittimi successori piuttosto che al principe, poiché la morte ed un tal bando sono lo stesso riguardo al corpo politico. Ma non è per questa sottigliezza che oso disapprovare le confische dei beni. Se alcuni hanno sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette ed alle prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene, non però sono sempre giuste, perché per esser tali debbono esser necessarie, ed un’utile ingiustizia non può esser tollerata da quel legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri, sprezzando l’esterminio futuro e le lacrime d’infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo e pongono gl’innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i delitti. Qual piú tristo spettacolo che una famiglia strascinata all’infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirgli, quand’anche vi fossero i mezzi per farlo!

CAPITOLO XXVI DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società. Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto! A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto. Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.

CAPITOLO XXVII DOLCEZZA DELLE PENE. Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del quale debbo affrettarmi. Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtú, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro piú terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di piú per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano piú delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei piú atroci supplicii furon sempre quelli delle piú sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. A misura che i supplicii diventano piú crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di piú è dunque superfluo e perciò tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che conoscono, e non su quelli che ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle quali, nella scala delle pene proporzionata alla scala dei delitti, la pena maggiore sia la schiavitù perpetua, e nell’altra la ruota. Io dico che la prima avrà tanto timore della sua maggior pena quanto la seconda; e se vi è una ragione di trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l’istessa ragione servirebbe per accrescere le pene di quest’ultima, passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti piú lenti e piú studiati, e fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni. Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sí facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’ delitti piú dannosi e piú atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sí nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime. Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte la piú sensibile nel vedere migliaia d’infelici che la miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?

Pena di morte: né utile né necessaria, scrive Vincenzo Vitale il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Siamo così giunti al cuore dei temi affrontati da Beccaria, al punto che potrebbe affermarsi, senza tema di esagerare, che ogni altro argomento da lui espresso tendeva verso questo come scopo ultimo da trattare: la pena di morte. Gli interrogativi sulla pena di morte attraversano tutta la storia del pensiero occidentale, il quale da sempre si è preoccupato di reperire un fondamento teorico ad una pratica che per molti secoli aveva soddisfatto la gestione del potere politico. Non è certo questa la sede per censire le innumerevoli posizioni che sono state al riguardo elaborate, ma un punto fermo va comunque messo: Beccaria non propone alcun argomento teorico o filosofico contro la pena di morte, limitandosi a respingerla per motivazioni di carattere pratico e utilitaristico. Ciò non è senza rilievo per diverse ragioni. Infatti, per un verso, si tratta di argomentazioni che possono essere ritenute valide da chiunque e dovunque, fatto questo particolarmente importante se si pensa che in quel tempo non vi era Stato ove la pena di morte fosse sconosciuta: il primo ad abolirla, come è noto, fu il Granducato di Toscana, per mano di Leopoldo, molto influenzato proprio dalle idee di Beccaria, il 30 novembre 1786. Per altro verso, proporre motivi legati alla non utilità della pena di morte, espelleva in modo determinante dal dibattito ogni argomento di carattere teorico che potesse essere escogitato a favore, restringendo in modo sensibile il territorio del confronto tra i favorevoli e i contrari. Ebbene, Beccaria rigetta la pena di morte essenzialmente con due motivazioni, entrambe molto pratiche. Innanzitutto, perché l’effetto deterrente che molti sostengono essa abbia, inducendo la collettività ad astenersi dal commettere gravi delitti, si fa cogliere come inesistente. Con fine occhio di osservatore delle dinamiche sociali e psicologiche, Beccaria infatti rileva che la pena di morte “con la sua forza, non supplisce alla pronta dimenticanza”, e che essa “non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società”. Il giurista milanese sa bene che ciò che viene più difficilmente dimenticato dagli uomini non è un male grave e puntualmente individuato nel tempo – quale una esecuzione capitale, che appunto egli definisce uno “spettacolo”- ma la visione di un male, pur meno lacerante, ma duraturo nel tempo, tale da generare uno sgomento non transeunte – quale appunto una “perpetua schiavitù”, che oggi diremmo ergastolo ( il quale, non a caso, va abolito oggi proprio in quanto rappresenta una sorta di pena di morte diluita nel tempo). La pena di morte non gode allora in punto di fatto di una reale forza deterrente verso la collettività, non mostra alcuna utilità. Da un secondo punto di vista, Beccaria ritiene assurdo in chiave psicologica e sociale che le stesse leggi dello Strato che puniscono l’omicidio, ne possano poi ordinare un altro allo scopo di sanzionare il primo. Anche da questa prospettiva, la pena di morte mostra tutta la sua inconcludenza e la sua inutilità. Infatti, si palesa del tutto inutile tentare di scoraggiare i sudditi dal commettere gravi reati, utilizzando leggi che, per punirli, legalizzassero proprio il comportamento punito. Si tratta di una insanabile contraddizione che Beccaria non manca di denunciare non tanto in sede teorica, ma di pratica utilità, allo scopo di far intendere ai governanti come sia impossibile proporre un simile schema di pseudo- ragionamento, destinato a fallire in partenza appunto perché autocontraddittorio. Come si è detto, queste idee dilagarono in Europa e, poco alla volta, tutti gli Stati, anche se a volte con grande lentezza, si risolsero ad abolire la pena di morte.  Beccaria, da uomo esperto del mondo, sapeva bene quanta fatica ci sarebbe voluta per giungere a tale esito e, ricorrendo ad una immagine perfino poetica, scrive che “la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano”. Egli non si faceva illusioni e sapeva quante resistenze si sarebbero incontrate lungo la via dell’abolizione delle esecuzioni capitali.  Oggi, se essere europei espone a tante critiche e stigmatizza tante incapacità politiche, tuttavia giustifica un orgoglio: l’Europa è l’unico continente in cui tutti gli Stati – nessuno escluso – hanno abolito la pena di morte. Questa si chiama civiltà: e la dobbiamo a Beccaria.

«La pena di morte non è né utile né necessaria»

CAPITOLO XXVIII DELLA PENA DI MORTE. Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo corregge. Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima. Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle. La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani. Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.

Carcerazione preventiva e il limite della discrezionalità dei giudici, scrive Vincenzo Vitale il 23 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Il commento ai capitoli 29, 30 e 31. Come era naturale, Beccaria non manca poi di occuparsi di aspetti rilevanti della politica criminale non solo del suoi tempo, ma di ogni tempo, compreso il nostro. Così, il primo problema che il giurista milanese si pone è quello della cattura degli accusati dei delitti. E di una cosa egli è assolutamente certo. Il magistrato non può mai e in nessun caso esser designato arbitro dei casi e delle modalità della carcerazione preventiva di un accusato, dovendo invece essere le leggi a determinare come e quando questo possa legittimamente avvenire. In altre parole, Beccaria ritiene che la discrezionalità dei giudici nell’ambito della cattura preventiva dell’accusato debba esser ridotta a zero, dovendosi invece rimettere alle leggi ogni indicazione al riguardo. Ora, abbiamo già visto prima che l’idea che il giudice possa farsi semplice cinghia di trasmissione fra la legge e il fatto da giudicare sia improponibile, anche se Beccaria la ripropone ogni volta con forza, fedele all’insegnamento illuminista del suo tempo: ciò non potrà mai accadere per il semplice motivo che il giudice è un essere umano e, come tale, portatore di una visione del mondo specifica che mai potrà essere messa nel nulla. Tuttavia, l’insistenza di Beccaria in tal senso può rivestire comunque il carattere di una preziosa indicazione utilissima per il nostro tempo, il tempo che vede purtroppo il protagonismo di diversi magistrati far aggio sulle legittime pretese della legge. Anche oggi i giudici – se leggessero le pagine di Beccaria – dovrebbero cercare di limitare al massimo la propria libertà interpretativa, che a volte sfocia nella incomprensibilità dell’arbitrio, per prestare maggiore ascolto alle indicazioni della legge, come risultano dai testi scritti in lingua italiana: insomma, anche alle interpretazioni c’è un limite e questo non va impunemente valicato. A margine – per modo di dire – Beccaria lamenta poi che nel suo tempo nonostante l’accusato possa essere stato assolto da ogni addebito, ciononostante, porti seco una nota “d’infamia”. Lezione molto utile per il nostro tempo, un tempo in cui non basta essere assolti con formula piena per vedersi restituita quella credibilità sociale di cui si era stati ingiustamente spogliati. Ne sanno qualcosa coloro – e non son pochi – che dopo anni di calvario, sono stati riconosciuti del tutto estranei ai fatti contestati, ma che non hanno potuto pubblicizzare l’esito positivo con la stessa forza e capillare diffusione con cui invece fu pubblicizzato il loro arresto o la loro messa in stato d’accusa. Altro tema oggi scottante è quello della prescrizione dei delitti, ma Beccaria lo affronta con la serenità intellettuale che ne dimostra la libertà da ogni asservimento ideologico. Egli suddividendo i delitti in due grandi categorie – quelli più gravi che attaccano la vita e la incolumità e quelli meno gravi che attaccano i beni – difende una prescrizione più lunga per i primi e una più breve per i secondi. Non gli passa neppure per la testa di eliminarla del tutto o di ridurla drasticamente, come invece oggi alcuni Soloni del diritto italiano vorrebbero. Infine, in relazione a particolari delitti considerati di difficile dimostrabilità – quali l’adulterio o l’infanticidio – Beccaria sostiene giustamente che primo onere delle leggi non è punire chi commetta reati, ma cercare di prevenirne la commissione, attraverso un’opera attenta di politica sociale. Quale politica sociale abbiamo oggi in Italia, ammesso ce ne sia una, lasciamo ai commentatori odierni delle vicende politiche individuare. Insomma, da molti versanti, Beccaria parla non soltanto ai suoi contemporanei, ma anche a noi, lanciandoci come un guanto di sfida che sta a noi raccogliere. Il fatto è che in Italia nessuno lo raccoglie, probabilmente perché chi di ragione sa che con Beccaria sarebbe una sfida perduta in partenza. E perciò finge di non sentire e di non sapere.

Chi va in prigione e poi è assolto non può essere infamato per sempre.

CAPITOLO XXIX DELLA CATTURA. Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l’opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi d’imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl’indizi piú forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza d’ogn’altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie l’altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gl’indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d’un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l’offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino; ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de’ quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl’inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d’indizi sempre piú deboli per cattura- re. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assolto non dovrebbe portar seco nota alcuna d’infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è cosí diverso ai tempi nostri l’esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l’opinione degli uomini, prevalga l’idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbon essere. Cosí la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle leggi, combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare toglierebbero l’infamia, la quale è piú attaccata al modo che alla cosa, come tutt’i popolari sentimenti; ed è provato dall’essere le prigionie militari nella comune opinione non cosí infamanti come le forensi. Durano ancora nel popolo, ne’ costumi e nelle leggi, sempre di piú di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri. Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo commettasi un delitto, cioè un’azione contraria alle leggi, possa essere punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cioè sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici sovente contradittori. Alcuni credono parimente che un’azione crudele fatta, per esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l’astratta ragione che chi offende l’umanità merita di avere tutta l’umanità inimica e l’esecrazione universale; quasiché i giudici vindici fossero della sensibilità degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di loro. Il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l’offesa pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una società di cui non era membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della società esiliato ed escluso, ma non punito colle formalità delle leggi vindici dei patti, non della malizia intrinseca delle azioni. Sogliono i rei di delitti piú leggieri esser puniti o nell’oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio, con una lontana e però quasi inutile schiavitù, a nazioni che non hanno offeso. Se gli uomini non s’inducono in un momento a commettere i piú gravi delitti, la pubblica pena di un gran misfatto sarà considerata dalla maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena di delitti piú leggeri, ed a’ quali l’animo è piú vicino, farà un’impressione che, distogliendolo da questi, l’allontani viepiú da quegli. Le pene non devono solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo d’infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza ed all’umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità dell’esempio, come può condonare il risarcimento dell’offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.

CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sí alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata l’utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando cosí della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti. Ma questi tempi non cresceranno nell’esatta proporzione dell’atrocità de’ delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell’esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall’omicidio, e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero de’ motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga minore al numero de’ motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano ne’ loro cuori ma nelle convenzioni della società. La massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve sminuirsi il tempo dell’esame per l’accrescimento della probabilità dell’innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll’atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell’innocenza del reo, deve crescere il tempo dell’esame e, scemandosi il danno dell’impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell’impunità quanto cresce la probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l’innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de’ sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia.

CAPITOLO XXXI DELITTI DI PROVA DIFFICILE. In vista di questi principii strano parrà, a chi non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice delle nazioni, che i delitti o piú atroci o piú oscuri e chimerici, cioè quelli de’ quali l’improbabilità è maggiore, sieno provati dalle conghietture e dalle prove piú deboli ed equivoche; quasiché le leggi e il giudice abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare il delitto; quasiché di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior pericolo quanto la probabilità dell’innocenza supera la probabilità del reato. Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtú, per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che piú si sostengono per l’attività del governo e delle passioni cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la costante bontà delle leggi. In queste le passioni indebolite sembran piú atte a mantenere che a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento. Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo frequenti nella società e difficili a provarsi, e in questi la difficoltà della prova tien luogo della probabilità dell’innocenza, ed il danno dell’impunità essendo tanto meno valutabile quanto la frequenza di questi delitti dipende da principii diversi dal pericolo dell’impunità, il tempo dell’esame e il tempo della prescrizione devono diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono delitti di difficile prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti ammettono le tiranniche presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove ( quasi che un uomo potesse essere semi innocente o semi-reo, cioè semi punibile e semi-assolvibile), dove la tortura esercita il crudele suo impero nella persona dell’accusato, nei testimoni, e persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua freddezza insegnano alcuni dottori che si danno ai giudici per norma e per legge. L’adulterio è un delitto che, considerato politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due cagioni: le leggi variabili degli uomini e quella fortissima attrazione che spinge l’un sesso verso l’altro; simile in molti casi alla gravità motrice dell’universo, perché come essa diminuisce colle distanze, e se l’una modifica tutt’i movimenti de’ corpi, cosí l’altra quasi tutti quelli dell’animo, finché dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo piú prende forza e vigore col crescere degli ostacoli medesimi. Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce della religione direi che vi è ancora un’altra differenza considerabile fra questo e gli altri delitti. Egli nasce dall’abuso di un bisogno costante ed universale a tutta l’umanità, bisogno anteriore, anzi fondatore della società medesima, laddove gli altri delitti distruttori di essa hanno un’origine piú determinata da passioni momentanee che da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e l’uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi che cercassero diminuirne la somma totale, perché il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui bisogni, ma sagge per lo contrario sarebbero quelle che, per dir cosí, seguendo la facile inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento. La fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero ed alla libertà de’ matrimoni. Dove gli ereditari pregiudizi gli reggono, dove la domestica potestà gli combina e gli scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i legami ad onta della morale volgare, il di cui offetti, perdonando alle cagioni. Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha piú sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L’azione di un tal delitto è cosí instantanea e misteriosa, cosí coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno posto, velo necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece di scemarlo, le occasioni cosí facili, le conseguenze cosí equivoche, che è piú in mano del legislatore il prevenirlo che correggerlo. Regola generale: in ogni delitto che, per sua natura, dev’essere il piú delle volte impunito, la pena diviene un incentivo. Ella è proprietà della nostra immaginazione che le difficoltà, se non sono insormontabili o troppo difficili rispetto alla pigrizia d’animo di ciascun uomo, eccitano piú vivamente l’immaginazione ed ingrandiscono l’oggetto, perché elleno sono quasi altrettanti ripari che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di sortire dall’oggetto, e costringendola a scorrere tutt’i rapporti, piú strettamente si attacca alla parte piacevole, a cui piú naturalmente l’animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da cui fugge e si allontana. L’attica venere cosí severamente punita dalle leggi e cosí facilmente sottoposta ai tormenti vincitori dell’innocenza, ha meno il suo fondamento su i bisogni dell’uomo isolato e libero che sulle passioni dell’uomo sociabile e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla sazietà dei piaceri, quanto da quella educazione che comincia per render gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad altri, in quelle case dove si condensa l’ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si consuma inutilmente per l’umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia. L’infanticidio è parimente l’effetto di una inevitabile contradizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virtú. Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo.

Indulgente verso i suicidi e i contrabbandieri, scrive Vincenzo Vitale il 24 Agosto 2017 su "Il Dubbio". l commento ai commenti 32 e 33. Non sembri strano che Beccaria si soffermi anche sul tema del suicidio. Infatti, esso ha sempre interrogato in modo sottile e inquietante la coscienza del giurista, fino a propiziare una vera congerie di opinioni spesso in contrasto fra di loro. E ciò anche dal punto di vista sanzionatorio, cosa che può appunto apparire strana ai nostri occhi, se si pensa che Platone già proponeva che al cadavere di suicida fosse tagliata la mano e che questa fosse seppellita lontano dal corpo (tipo di sanzione simbolica). Invece, per San Tommaso, chi si toglie la vita uccide pur sempre un uomo e perciò merita una sanzione di un qualche tipo. Ovviamente, si pone un problema ulteriore per il tentato suicidio: qui, in astratto, si potrebbe sottoporre a pena il soggetto che abbia tentato di suicidarsi – senza riuscirvi – ma rimane il fatto che l’astratta comminatoria di una sanzione avrebbe l’esito di indurre il soggetto a meglio predisporre i comportamenti autolesionisti, per timore di incorrere nella sanzione in caso di insuccesso. Nessuno in realtà ha mai dubitato – nella storia dell’Occidente – che il suicidio sia un atto illecito, tranne qualche corrente della filosofia stoica o del libertarismo anglosassone; si tratta di capire se e come possa essere sanzionato. In certi casi la sanzione cadeva sui familiari sopravvissuti, attraverso sanzioni civili che incidevano sulla capacità di accedere all’eredità del suicida. Ebbene, Beccaria rigetta questa possibilità, in quanto la sanzione cadrebbe su persone diverse dal suicida e soprattutto – e qui rifulge la sua mentalità tipicamente utilitaristica perché una tale prospettiva sanzionatoria non sarebbe assolutamente in grado di fermare in tempo la mano di chi voglia usare violenza su se stesso. Da notare come anche in questo caso Beccaria metta in campo considerazioni di taglio strettamente utilitaristico, rifuggendo da ogni osservazione di tipo sostanziale, che afferisca cioè all’essenza del fenomeno. Non a caso, egli evita argomentazioni di quest’ultimo genere, dal momento che sa bene come esse in passato abbiano condotto a contrapposizioni sterili e infruttuose, tali da non condurre ad alcun esito condiviso o condivisibile. Una particolare clemenza Beccaria mostra poi per il reato di contrabbando il quale, se pur dannoso per le patrie finanze, non viene quasi mai percepito dai suoi autori nella sua reale consistenza: perciò, per il giurista milanese, le pene per costoro debbono essere diverse da quelle previste per i ladri o addirittura per i sicari. Qui Beccaria ripropone la sua netta avversione per i delitti che attentano direttamente alla incolumità personale o a quella dei beni privati, rispetto a quelli che attentano alle casse dello Stato, ma non si tratta di insensibilità per i beni pubblici: si tratta di effettiva ed immediata lesività dei comportamenti.

L’inutilità di fare dello Stato una prigione.

CAPITOLO XXXII SUICIDIO. Il suicidio è un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può cadere che o su gl’innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non farà alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua, quella è ingiusta e tirannica, perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda li conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza, dolcissimo inganno de’ mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo perché temer si debba che la necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche influenza sugli uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il motivo che tratterrà la mano disperata del suicida? Chiunque si uccide fa un minor male alla società che colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere. Anzi se la forza della società consiste nel numero de’ cittadini, col sottrarre se stesso e darsi ad una vicina nazione fa un doppio danno di quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla società. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso alla nazione il lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun membro di essa. Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi regna l’opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del legislatore, che resiste alle dirette e violente, cosí le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche piú salutari, che sono risguardate piú come un ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i nostri sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle leggi tanto meno ne resterà alle leggi medesime. Da questo principio il saggio dispensatore della pubblica felicità può trarre alcune utili conseguenze, che, esponendole, mi allontanerebbono troppo dal mio soggetto, che è di provare l’inutilità di fare dello stato una prigione. Una tal legge è inutile perché, a meno che scogli inaccessibili o mare innavigabile non dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere tutti i punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi? Chi tutto trasporta non può, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto subito che è commesso non può piú punirsi, e il punirlo prima è punire la volontà degli uomini e non le azioni; egli è un comandare all’intenzione, parte liberissima dell’uomo dall’impero delle umane leggi. Il punire l’assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed inevitabile collusione, che senza tiranneggiare i contratti non può esser tolta, arrenerebbe ogni commercio da nazione a nazione. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l’impedire che si ripari il male fatto alla società col rendere tutte le assenze perpetue. La proibizione stessa di sortire da un paese ne aumenta il desiderio ai nazionali di sortirne, ed è un avvertimento ai forestieri di non introdurvisi. Che dovremo pensare di un governo che non ha altro mezzo per trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime impressioni dell’infanzia alla loro patria, fuori che il timore? La piú sicura maniera di fissare i cittadini nella patria è di aumentare il ben essere relativo di ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo perché la bilancia del commercio sia in nostro favore, cosí è il massimo interesse del sovrano e della nazione che la somma della felicità, paragonata con quella delle nazioni circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i principali elementi di questa felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si addenserebbono in una sola mano. Dove i confini di un paese si aumentano in maggior ragione che non la popolazione di esso, ivi il lusso favorisce il dispotismo, sí perché quanto gli uomini sono piú rari tanto è minore l’industria; e quanto è minore l’industria, è tanto piú grande la dipendenza della povertà dal fasto, ed è tanto piú difficile e men temuta la riunione degli oppressi contro gli oppressori, sí perché le adorazioni, gli uffici, le distinzioni, la sommissione, che rendono piú sensibile la distanza tra il forte e il debole, si ottengono piú facilmente dai pochi che dai molti, essendo gli uomini tanto piú indipendenti quanto meno osservati, e tanto meno osservati quanto maggiore ne è il numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior proporzione che non i confini, il lusso si oppone al dispotismo, perché anima l’industria e l’attività degli uomini, e il bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perché quegli d’ostentazione, che aumentano l’opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi può osservarsi che negli stati vasti e deboli e spopolati, se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso d’ostentazione prevale a quello di comodo; ma negli stati popolati piú che vasti il lusso di comodo fa sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei piaceri del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo di molti, pure comincia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero, talché non impedisce il sentimento della miseria, piú cagionato dal paragone che dalla realità. Ma la sicurezza e la libertà limitata dalle sole leggi sono quelle che formano la base principale di questa felicità, colle quali i piaceri del lusso favoriscono la popolazione, e senza di quelle divengono lo stromento della tirannia. Siccome le fiere piú generose e i liberissimi uccelli si allontanano nelle solitudini e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e ridenti campagne all’uomo insidiatore, cosí gli uomini fuggono i piaceri medesimi quando la tirannia gli distribuisce. Egli è dunque dimostrato che la legge che imprigiona i sudditi nel loro paese è inutile ed ingiusta. Dunque lo sarà parimente la pena del suicidio; e perciò, quantunque sia una colpa che Dio punisce, perché solo può punire anche dopo la morte, non è un delitto avanti gli uomini, perché la pena, in vece di cadere sul reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse che una tal pena può nondimeno ritrarre un uomo determinato dall’uccidersi, io rispondo: che chi tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l’esistenza quaggiù, talché vi preferisce un’infelice eternità, deve essere niente mosso dalla meno efficace e piú lontana considerazione dei figli o dei parenti.

CAPITOLO XXXIII CONTRABBANDI. Il contrabbando è un vero delitto che offende il sovrano e la nazione, ma la di lui pena non dev’essere infamante, perché commesso non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà pene infamanti a’ delitti che non sono reputati tali dagli uomini, scema il sentimento d’infamia per quelli che lo sono. Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano ed a chi assassina un uomo o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell’animo umano, per far nascere i quali fu creduto necessario l’aiuto dei piú sublimi motivi e un tanto apparato di gravi formalità. Questo delitto nasce dalla legge medesima poiché, crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione di fare il contrabbando e la facilità di commetterlo cresce colla circonferenza da custodirsi e colla diminuzione del volume della merce medesima. La pena di perdere e la merce bandita e la roba che l’accompagna è giustissima, ma sarà tanto piú efficace quanto piú piccola sarà la gabella, perché gli uomini non rischiano che a proporzione del vantaggio che l’esito felice dell’impresa produrrebbe. Ma perché mai questo delitto non cagiona infamia al di lui autore, essendo un furto fatto al principe, e per conseguenza alla nazione medesima?

Rispondo che le offese che gli uomini credono non poter essere loro fatte, non l’interessano tanto che basti a produrre la pubblica indegnazione contro di chi le commette. Tale è il contrabbando. Gli uomini su i quali le conseguenze rimote fanno debolissime impressioni, non veggono il danno che può loro accadere per il contrabbando, anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno fatto al principe; non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando, quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il carattere, ed altri mali che posson loro accadere. Principio evidente che ogni essere sensibile non s’interessa che per i mali che conosce. Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi non ha roba da perdere? No: vi sono dei contrabbandi che interessano talmente la natura del tributo, parte cosí essenziale e cosí difficile in una buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione medesima, fino alla servitù; ma prigione e servitù conforme alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia del contrabbandiere di tabacco non dev’essere comune con quella del sicario o del ladro, e i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha voluto defraudare, saranno i piú conformi alla natura delle pene.

Il pentitismo è la manifesta debolezza della legge, scrive Vincenzo Vitale il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il commento ai capitoli 34, 35, 36 e 37. Dove Beccaria si mostra davvero innovatore è nel campo dei reati che oggi chiameremmo di tipo fallimentare, derivanti cioè dall’attività commerciale di un certo soggetto. Beccaria infatti distingue fra il fallito colpevole e quello innocente, vale a dire fra quello che dolosamente abbia frodato i creditori nell’ambito della propria attività e quello che invece sia stato vittima incolpevole di circostanze avverse che ne hanno cagionato l’insolvenza. Il primo va punito in modo proporzionato alla gravità dei fatti commessi, mentre il secondo va invece perfino aiutato dallo Stato, proprio in quanto del tutto incolpevole. Oggi ci sembra la scoperta dell’acqua calda, ma se si pensa che Beccaria scriveva queste cose e diffondeva queste idee oltre due secoli e mezzo fa – quando ancora il debitore veniva incarcerato – allora non sarà difficile comprendere la portata davvero rivoluzionaria delle sue pagine. Del tutto contrario è poi Beccaria alla imposizione di taglie, che oggi stranamente tornano a far capolino di tanto in tanto per iniziativa di qualche associazione privata, allo scopo di scoprire i colpevoli di reati commessi contro un qualche socio. Il giurista milanese osserva che tale tipo di iniziativa è sommamente inutile, in quanto “in vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento”, poiché induce al tradimento, armando la mano dei cittadini contro altri cittadini e mentre punisce un reato, un altro ne propizia. Insomma, una prassi nefasta che produce più danni di quanti vorrebbe evitarne. E finalmente Beccaria tocca il tema della impunità che alcuni Tribunali offrono al complice di un grave delitto che farà il nome dei suoi sodali: oggi diremmo il tema del pentitismo. Ora, pur in presenza di indubitabili vantaggi (scoprire gli autori di gravi reati e prevenirne altri), Beccaria sostiene che gli svantaggi siano di gran lunga più significativi: infatti, sollecitare la delazione, pur fra scellerati, significa da un lato autorizzare il tradimento e, dall’altro, manifestare la debolezza della legge, “che implora l’aiuto di chi l’offende”. Questa posizione dovrebbe essere meditata da quanti – ed oggi non sono pochi – con eccessiva superficialità e spregiudicatezza intendono sempre e comunque far ricorso allo strumento della delazione legalizzata, come si trattasse di una innocente strategia di politica criminale. Beccaria non riesce proprio a tollerare questa impostazione, nonostante sembri quasi che faccia di tutto per autoconvincersi in senso contrario. Ecco perchè così egli conclude sul punto: “Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento e alla dissimulazione”. Beccaria si pone qui degli interrogativi che non sono esclusivamente di carattere etico, ma anche di carattere giuridico, interrogativi che invece i giuristi di oggi in Italia fingono di non conoscere neppure e per i quali non mostrano comunque alcuna sensibilità. Di fatto oggi in Italia nessuno si pone queste domande. Eppure, qualcuno dovrebbe porsele, se non altro perché esse hanno un senso compiuto. Il pentitismo viene di solito difeso con il tipico ragionamento del fine che giustifica i mezzi, di sapore machiavellico. Ora, a parte che un tale concetto non fu mai espresso dal segretario fiorentino, rimane che si tratta di un ragionamento assurdo: si sa quanto lo criticasse Hegel, il quale chiariva che il fine non giustifica mai i mezzi, ma li specifica soltanto. Si prega perciò i Soloni di casa nostra di non usare più questo argomento che è semplicemente inesistente.

Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla con le taglie.

CAPITOLO XXXIV DEI DEBITORI. La buona fede dei contratti, la sicurezza del commercio costringono il legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei debitori falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll’istessa pena che è assegnata ai falsificatori delle monete, poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de’ cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a’ suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per qual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione, privo dell’unico e tristo bene che gli avanza di una nuda libertà, a provare le angosce dei colpevoli, e colla disperazione della probità oppressa a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la tutela di quelle leggi che non era in sua balìa di non offendere, leggi dettate dai potenti per avidità, e dai deboli sofferte per quella speranza che per lo piú scintilla nell’animo umano, la quale ci fa credere gli avvenimenti sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi per noi? Gli uomini abbandonati ai loro sentimenti i piú obvii amano le leggi crudeli, quantunque, soggetti alle medesime, sarebbe dell’interesse di ciascuno che fossero moderate, perché è piú grande il timore di essere offesi che la voglia di offendere. Ritornando all’innocente fallito, dico che se inestinguibile dovrà essere la di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso di sottrarvisi senza il consenso delle parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui industria, la quale dovrebb’esser costretta sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di soddisfare proporzionalmente ai progressi, qual sarà il pretesto legittimo, come la sicurezza del commercio, come la sacra proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi.

Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. Proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. Con quale facilità il provido legislatore potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti colpevoli, e rimediare alle disgrazie dell’innocente industrioso! La pubblica e manifesta registrazione di tutt’i contratti, e la libertà a tutt’i cittadini di consultarne i documenti bene ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti tributi sulla felice mercatura e destinato a soccorrere colle somme opportune l’infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le semplici, le grandi leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d’inni immortali di riconoscenza di generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute. Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle novità s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali.

CAPITOLO XXXV ASILI. Mi restano ancora due questioni da esaminare: l’una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di rendersi fra le nazioni reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non dev’esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve ogni cittadino, come l’ombra segue il corpo. L’impunità e l’asilo non differiscono che di piú e meno, e come l’impressione della pena consiste piú nella sicurezza d’incontrarla che nella forza di essa, gli asili invitano piú ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili è il formare tante piccole sovranità, perché dove non sono leggi che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società. Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fra le nazioni, io non ardirei decidere questa questione finché le leggi piú conformi ai bisogni dell’umanità, le pene piú dolci, ed estinta la dipendenza dall’arbitrio e dall’opinione, non rendano sicura l’innocenza oppressa e la detestata virtú; finché la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre piú unisce gl’interessi del trono e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure dell’Asia, quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli.

CAPITOLO XXXVI DELLA TAGLIA. L’altra questione è se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando il braccio di ciascun cittadino farne un carnefice. O il reo è fuori de’ confini, o al di dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplicio, facendo cosí un’ingiuria ed una usurpazione d’autorità negli altrui dominii, ed autorizza in questa maniera le altre nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di piú, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtú, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di parentela, di amicizia, e coll’altra premia chi gli rompe e chi gli spezza; sempre contradittorio a se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutt’i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre piú tendono a confondersi colla vera politica. Gli artificii, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo piú prevedute, e la sensibilità di tutti rintuzza la sensibilità di ciascuno in particolare. I secoli d’ignoranza medesimi, nei quali la morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono d’instruzione e di sperienza ai secoli illuminati. Ma le leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa cosí necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicità, le nazioni la pace, e l’universo qualche piú lungo intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra.

CAPITOLO XXXVII ATTENTATI, COMPLICI, IMPUNITÀ. Perché le leggi non puniscono l’intenzione, non è però che un delitto che cominci con qualche azione che ne manifesti la volontà di eseguirlo non meriti una pena, benché minore all’esecuzione medesima del delitto. L’importanza di prevenire un attentato autorizza una pena; ma siccome tra l’attentato e l’esecuzione vi può essere un intervallo, cosí la pena maggiore riserbata al delitto consumato può dar luogo al pentimento. Lo stesso dicasi quando siano piú complici di un delitto, e non tutti esecutori immediati, ma per una diversa ragione. Quando piú uomini si uniscono in un rischio, quant’egli sarà piú grande tanto piú cercano che sia uguale per tutti; sarà dunque piú difficile trovare chi si contenti d’esserne l’esecutore, correndo un rischio maggiore degli altri complici. La sola eccezione sarebbe nel caso che all’esecutore fosse fissato un premio; avendo egli allora un compenso per il maggior rischio la pena dovrebbe esser eguale. Tali riflessioni sembreran troppo metafisiche a chi non rifletterà essere utilissimo che le leggi procurino meno motivi di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto. Alcuni tribunali offrono l’impunità a quel complice di grave delitto che paleserà i suoi compagni. Un tale spediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl’inconvenienti sono che la nazione autorizza il tradimento, detestabile ancora fra gli scellerati, perché sono meno fatali ad una nazione i delitti di coraggio che quegli di viltà: perché il primo non è frequente, perché non aspetta che una forza benefica e direttrice che lo faccia conspirare al ben pubblico, e la seconda è piú comune e contagiosa, e sempre piú si concentra in se stessa. Di piú, il tribunale fa vedere la propria incertezza, la debolezza della legge, che implora l’aiuto di chi l’offende. I vantaggi sono il prevenire delitti importanti, e che essendone palesi gli effetti ed occulti gli autori intimoriscono il popolo; di piú, si contribuisce a mostrare che chi manca di fede alle leggi, cioè al pubblico, è probabile che manchi al privato. Sembrerebbemi che una legge generale che promettesse la impunità al complice palesatore di qualunque delitto fosse preferibile ad una speciale dichiarazione in un caso particolare, perché cosí preverrebbe le unioni col reciproco timore che ciascun complice avrebbe di non espor che se medesimo; il tribunale non renderebbe audaci gli scellerati che veggono in un caso particolare chiesto il loro soccorso. Una tal legge però dovrebbe accompagnare l’impunità col bando del delatore… Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento ed alla dissimulazione. Qual esempio alla nazione sarebbe poi se si mancasse all’impunità promessa, e che per dotte cavillazioni si strascinasse al supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all’invito delle leggi! Non sono rari nelle nazioni tali esempi, e perciò rari non sono coloro che non hanno di una nazione altra idea che di una macchina complicata, di cui il piú destro e il piú potente ne muovono a lor talento gli ordigni; freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime tenere e sublimi, eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti piú cari e le passioni piú violente, sí tosto che le veggono utili al loro fine, tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti.

Il divieto di porre domande “suggestive” e l’uso della tortura, scrive Vincenzo Vitale il 26 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Commento ai capitoli 38, 39, 40 e 41. L’etimo di “suggestivo” ci dice che tale aggettivo proviene dal verbo “suggerire”: ecco perché i nostri codici di procedura proibiscono di porre al testimone delle domande suggestive, vale a dire tali da indicare implicitamente, cioè da suggerire, la risposta che si attende di ricevere. Al tempo di Beccaria valeva la medesima regola, perfino ovvia allo scopo di non influenzare le deposizioni dei testimoni in un senso o nell’altro. Sia detto fra parentesi, tale divieto non vale solo per le parti – cioè il pubblico ministero e il difensore – ma vale anche per il giudice, il quale, nel porre una domanda al teste, non può certo suggerire implicitamente la risposta che da lui si attende: la nostra giurisprudenza sul punto arranca, stentando ad ammettere questa lampante verità, quasi che il giudice, per sue misteriose virtù, possa sottrarsi alle normali leggi della razionalità giuridica, e spingersi lecitamente a suggerire al teste la risposta alla propria domanda. Ma la cosa davvero interessante è che Beccaria trae spunto da questa regola procedurale, per tornare a scagliarsi contro la tortura con un argomento ineccepibile. Infatti, egli stigmatizza un ordinamento giuridico che da un lato proibisce le domande suggestive, mentre dall’altro autorizza la tortura: cosa più “suggestivo” del dolore fisico insopportabile? Ecco la stridente contraddizione degli ordinamenti del suo tempo, che egli non manca di rilevare e di censurare. Beccaria non giunge però ad ammettere che l’accusato possa rifiutarsi di rispondere, come invece garantito nei codici di procedura penale dei moderni Stati di diritto, con l’istituzione del “diritto al silenzio” dell’imputato, limitandosi egli a rilevare che nessuna pena ulteriore va all’accusato irrogata nel caso in cui le domande postegli siano inutili, in quanto certa la sua colpevolezza. Anche qui dunque, dominante, la prospettiva utilitaristica. Tace invece, e a ragione, Beccaria su delitti che davano luogo alla pena del rogo; e ne tace perché non di delitti si trattava, ma di peccati e, come è noto, egli distingue nettamente e separa i primi dai secondi, questi ultimi dovendosi lasciare alla competenza di altra autorità. Ma siccome abbiamo visto più volte che Beccaria non tradisce la propria ispirazione utilitarista, non poteva mancare un accenno a quelle che chiama “false idee di utilità”. Tali sono le leggi che sacrificano vantaggi reali a favore di inconvenienti puramente immaginari, quelle che toglierebbero agli uomini “il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega”. Con un pizzico di umorismo che non guasta, Beccaria rende benissimo la sua idea, che forse oggi potremmo definire, forzando un po’, antiproibizionista. Così, Beccaria si dichiara contrario alle leggi che proibiscono di portare armi, in quanto esse disarmeranno soltanto coloro che non sono “inclinati” a portarle, mentre i veri delinquenti che si avvalgono delle armi come normale strumento delle loro malefatte non si lasceranno certamente scoraggiare da una legge che punisce il porto dell’arma, se questa serve per commettere i ben più gravi delitti ai quali si son già preparati. Massima e certa utilità sta dunque, per Beccaria, più che nel punire i delitti, nel prevenirli. Il modo più sicuro per il giurista milanese sta nel fare leggi “chiare e semplici”, tali da poter essere da tutti intese e seguite. Ora, a parte il limite del razionalismo illuminista, di cui anche Beccaria partecipava, in forza del quale basterebbe conoscere la verità delle cose, per seguirla (cosa che non è, perché non sempre la volontà segue la ragione: e basti citare in proposito un celebre distico di Terenzio: “video bona proboque, deteriora sequor”), rimane il fatto incontestabile che in un sistema di leggi scritte, quale il nostro, o esse sono chiare e comprensibili oppure sono inutili. Basti por mente alla situazione italiana di oggi, dove un esasperante ed intricatissimo groviglio di norme e precetti che si rincorrono, si sovrappongono, si escludono vicendevolmente, si presenta come un vero rompicapo per il giurista. E da qui naturalmente una pluralità di interpretazioni, di rimandi, di conflitti: insomma, la incertezza del diritto elevata a fisiologico canone interpretativo. Beccaria ne sarebbe inorridito, bollando buona parte delle nostre leggi vigenti con l’infamante marchio della inutilità.

Per prevenire i delitti servono leggi chiare e semplici.

CAPITOLO XXXVIII INTERROGAZIONI SUGGESTIVE, DEPOSIZIONI. Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che chiamansi suggestive in un processo: quelle cioè secondo i dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere, nelle circostanze d’un delitto: quelle interrogazioni cioè che, avendo un’immediata connessione col delitto, suggeriscono al reo una immediata risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti devono per dir cosí inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una risposta che lo metta al coperto dell’accusa, o forse perché sembra contro la natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé. Qualunque sia di questi due motivi è rimarcabile la contradizione delle leggi che unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocché qual interrogazione piú suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica nella tortura, perché il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole suggerirà la confessione onde liberarsi dal tormento presente piú efficace per allora che non il dolore avvenire. Il secondo motivo è ad evidenza lo stesso, perché se una interrogazione speciale fa contro il diritto di natura confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto piú facilmente: ma gli uomini piú dalla differenza de’ nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli altri abusi della grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari umani, è notabile quello che rende nulla ed inefficace la deposizione di un reo già condannato; egli è morto civilmente, dicono gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non è capace di alcuna azione. Per sostenere questa vana metafora molte vittime si sono sacrificate, e bene spesso si è disputato con seria riflessione se la verità dovesse cedere alle formule giudiciali. Purché le deposizioni di un reo condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia, perché non dovrassi concedere, anche dopo la condanna, e all’estrema miseria del reo e agl’interessi della verità uno spazio congruo, talché adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa giustificar sé od altrui con un nuovo giudizio? Le formalità e le ceremonie sono necessarie nell’amministrazione della giustizia, sí perché niente lasciano all’arbitrio dell’amministratore, sí perché danno idea al popolo di un giudizio non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare, sí perché sugli uomini imitatori e schiavi dell’abitudine fanno piú efficace impressione le sensazioni che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge fissarsi in maniera che nuocano alla verità, la quale, per essere o troppo semplice o troppo composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii il popolo ignorante. Finalmente colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle piú gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano cosí la necessità dell’esempio che devono al pubblico. Non è necessaria questa pena quando sia fuori di dubbio che un tal accusato abbia commesso un tal delitto, talché le interrogazioni siano inutili, nell’istessa maniera che è inutile la confessione del delitto quando altre prove ne giustificano la reità. Quest’ultimo caso è il piú ordinario, perché la sperienza fa vedere che nella maggior parte de’ processi i rei sono negativi.

CAPITOLO XXXIX DI UN GENERE PARTICOLARE DI DELITTI. Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi che io ho ommesso un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand’era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca moltitudine l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell’ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno che il luogo, il secolo e la materia non mi permettono di esaminare la natura di un tal delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno stato, contro l’esempio di molte nazioni; come opinioni, che distano tra di loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo insieme si rischiarano, e soprannotando le vere, le false si sommergono nell’oblio, altre, mal sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autorità e di forza. Troppo lungo sarebbe il provare come, quantunque odioso sembri l’impero della forza sulle menti umane, del quale le sole conquiste sono la dissimulazione, indi l’avvilimento; quantunque sembri contrario allo spirito di mansuetudine e fraternità comandato dalla ragione e dall’autorità che piú veneriamo, pure sia necessario ed indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con riconosciuta autorità lo esercita. Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, de’ quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia.

CAPITOLO XL FALSE IDEE DI UTILITÀ. Una sorgente di errori e d’ingiustizie sono le false idee d’utilità che si formano i legislatori. Falsa idea d’utilità è quella che antepone gl’inconvenienti particolari all’inconveniente generale, quella che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli, che dice alla logica: servi. Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi piú sacre della umanità e le piú importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?

Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale. Falsa idea d’utilità è quella che vorrebbe dare a una moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l’ordine che soffre la materia bruta e inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza e con forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de’ quali brevissima e debole è l’impressione, se una forza d’immaginazione, non ordinaria nella umanità, non supplisce coll’ingrandimento alla lontananza dell’oggetto. Finalmente è falsa idea d’utilità quella che, sacrificando la cosa al nome, divide il ben pubblico dal bene di tutt’i particolari. Vi è una differenza dallo stato di società allo stato di natura, che l’uomo selvaggio non fa danno altrui che quanto basta per far bene a sé stesso, ma l’uomo sociabile è qualche volta mosso dalle male leggi a offender altri senza far bene a sé. Il dispotico getta il timore e l’abbattimento nell’animo de’ suoi schiavi, ma ripercosso ritorna con maggior forza a tormentare il di lui animo. Quanto il timore è piú solitario e domestico tanto è meno pericoloso a chi ne fa lo stromento della sua felicità; ma quanto è piú pubblico ed agita una moltitudine piú grande di uomini tanto è piú facile che vi sia o l’imprudente, o il disperato, o l’audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti piú grati e tanto piú seducenti quanto il rischio dell’intrapresa cade sopra un maggior numero, ed il valore che gl’infelici danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che soffrono. Questa è la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle nuove, che l’odio è un sentimento tanto piú durevole dell’amore, quanto il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti, che indebolisce il secondo.

CAPITOLO XLI COME SI PREVENGANO I DELITTI. È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo piú falsi ed opposti al fine proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti cosí nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtú ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso de’ suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto, ve ne son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle male leggi; e se la probabilità dei delitti è proporzionata al numero dei motivi, l’ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi. Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono piú voluttuosi, piú libertini, piú crudeli degli uomini liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl’interessi della nazione, veggono grandi oggetti, e gl’imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dall’annientamento in cui si veggono; avvezzi all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito de’ loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli determina. Se l’incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà.

La grandiosità e il limite di Beccaria: l’illuminismo, scrive Vincenzo Vitale il 29 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il commento ai capitoli 42, 43, 44, 45, 46 e 47. Siamo così giunti, dopo questa veloce cavalcata, alla conclusione della fatica di Beccaria e questi ne profitta per ribadire alcuni concetti già espressi, ma che egli ritiene particolarmente rilevanti e significativi del suo pensiero.  Insiste così sulla necessità della diffusione del sapere e, sulle tracce di Rousseau, della educazione dei cittadini, certo che quando entrambi saranno consolidati, i delitti saranno quasi depennati dai comportamenti sociali. Ora, che il sapere e la educazione civica debbano essere diffusi e a tutti garantiti è cosa di cui nessuno dubita, ma, come già in precedenza accennato, possiamo esser certi che ciò non basterà affatto a debellare la commissione di delitti. Ribadisco qui che dunque Beccaria, oltre i suoi enormi meriti, incappa nel limite proprio della formazione illuministica del suo tempo, consistente in una sorta di endemico socratismo giuridico sociale, tanto più fragile quanto più autentico. Come è noto, per Socrate, la conoscenza della virtù è la strada maestra per seguirla, tutto risolvendosi appunto nella necessità di vincere l’ignoranza che affligge l’animo umano.  Non è così, come l’esperienza insegna.  In moltissimi casi, non basta conoscere la virtù – morale o sociale – per seguirne le tracce senza esitazioni. Occorre invece, dopo averla conosciuta, volerla seguire in modo deliberato e consapevole. Il razionalismo socratico – che poi è quello medesimo di Beccaria – incorre infatti proprio in questo limite insuperabile: mettere in primo piano la ragione, ma senza far i conti, come invece sembra necessario, con la volontà degli uomini. Se fosse come sostiene Beccaria, basterebbe un’opera massiccia di scolarizzazione sociale per debellare i delitti. Ebbene, in Italia, nel dopoguerra, la percentuale di analfabeti, si è pressocchè azzerata, ma non sembra che i delitti siano diminuiti in modo considerevole; anzi, negli ultimi decenni, essi sono lievitati di numero e di gravità in modo esponenziale.  In altri termini, non basta conoscere la virtù per fare il bene ed evitare il male: bisogna esercitarsi con la volontà, usando rettamente di questa nei casi specifici e concreti. Va da se che in un modello sociale come quello auspicato da Beccaria – dove al massimo sapere corrisponde la quasi scomparsa dei delitti – il potere che normalmente viene riconosciuto quale prerogativa della sovranità, quello di concedere la grazia, va debitamente escluso.  Infatti, egli definisce “felice” la nazione ove la clemenza e il perdono del sovrano divenissero non solo meno necessari, ma addirittura funesti.  Ora, in un modello ideale ciò può anche essere, a patto però che si abbia consapevolezza che appunto si tratti di un modello ideale e non reale.  Molto meno convincente è tale conclusione, se ci si pone davanti alla cruda realtà dei rapporti sociali e dei comportamenti umani. Allora, si vedrà che del potere di concedere la grazia da parte del sovrano nessun ordinamento reale potrà mai fare a meno, per il semplice motivo che mai è possibile rinunciare alla correzione del diritto e della sentenza, mai alla possibilità di rovesciare un verdetto, mai a quella di rimediare ad un errore, mai insomma a quello che Radbruch definiva come “un raggio di luce che penetra nel freddo ed oscuro mondo del diritto”. Preziosa è infine la sintesi finale con cui, prendendo congedo dai lettori, Beccaria ripropone le caratteristiche che la pena deve possedere per non essere tirannica. La pena deve dunque essere pubblica, perché tutti le possano conoscere e valutare; pronta, perchè l’eccessivo trascorrere del tempo dopo la commissione del delitto non ne vanifichi il significato e la portata; necessaria, perché essa non sembri frutto di arbitrio e di dispotismo; minima, perché tutti vedano che di essa non si abusa, ma si usa con la necessaria moderazione; proporzionata, perché, se non lo fosse, la pena medesima commetterebbe grave ingiustizia; dettata dalle leggi, perché non sembri stabilita dai singoli magistrati o dal potere sovrano, ma prevista per tutti in modo imparziale e indifferente.  Tutte dimensioni della pena che per noi oggi suonano come normali ed ovvie, al punto che se ne mancasse soltanto una, grideremmo al misfatto e alla tirannia del potere.  Non così, al tempo di Beccaria; e di questo, nell’accostarsi a queste pagine, dobbiamo sempre mantenere adeguata consapevolezza. Per questa ragione, tutti i popoli europei conserviamo verso queste pagine un enorme debito di riconoscenza, nel duplice senso del ringraziamento e della continua meditazione.  Se Beccaria non avesse illuminato la storia con queste sue coraggiose riflessioni, probabilmente oggi non potremmo esercitare la nostra libertà di cittadini come siamo soliti fare.  Tuttavia, molto del suo insegnamento va sempre riproposto, in quanto ancora non sufficientemente assimilato dal nostro sistema giuridico, come abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo commento.  Molto, ancora e nonostante tutto, va ancora imparato e messo in pratica.  Dopo quasi tre secoli, non credo che Beccaria ne sarebbe contento.

La pena deve essere pubblica, pronta, necessaria, minima, proporzionata e dettata dalle leggi.

CAPITOLO XLII DELLE SCIENZE. Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto piú facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perché non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano divenire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa. Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità, e quando lo furono era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell’uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti piú rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perché la loro indolenza e poca sagacità gli preservava dall’errore. Ma i bisogni si moltiplicavano sempre piú col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque necessarie impressioni piú forti e piú durevoli che gli distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d’insociabilità, che si rendeva sempre piú funesto. Fecero dunque un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico) e che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quegli che osarono sorprendergli e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati, perché non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono da’ popoli selvaggi, questa fu l’epoca della formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario e forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piú straordinari e le grazie piú segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come è proprietà dell’errore di sottodividersi all’infinito, cosí le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l’antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio le opinioni, sono dannose. La seconda è nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla verità, dall’oscurità non conosciuta alla luce. L’urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le verità utili ai molti deboli, l’avvicinamento ed il fermento delle passioni, che si destano in quell’occasione, fanno infiniti mali alla misera umanità. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto all’epoche principali, vi troverà piú volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando, calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che l’opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni de’ monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti? Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero, l’uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtú della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione, ma felicità momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino la probabilità sempre grande di una cattiva elezione.

CAPITOLO XLIII MAGISTRATI. Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d’interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse che alla corruzione. Quanto maggiore è il numero che lo compone tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo dell’intrapresa. Se il sovrano coll’apparecchio e colla pompa, coll’austerità degli editti, col non permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere piú i magistrati che le leggi, essi profitteranno piú di questo timore di quello che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza.

CAPITOLO XLIV RICOMPENSE. Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtú. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dal- le accademie ai discuopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché non i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno altresí le azioni virtuose? La moneta dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore.

CAPITOLO XLV EDUCAZIONE. Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre fino ai piú remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sí morali che fisici che il caso o l’industria presenta ai novelli animi dei giovani, nello spingere alla virtú per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità e dell’inconveniente, e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza.

CAPITOLO XLVI DELLE GRAZIE. Amisura che le pene divengono piú dolci, la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtú che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutt’i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi e dell’atrocità delle condanne. Quest’è la piú bella prerogativa del trono, questo è il piú desiderabile attributo della sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed imponente corredo d’infiniti commentatori, il grave apparato dell’eterne formalità e l’adesione dei piú insinuanti e meno temuti semidot- ti. Ma si consideri che la clemenza è la virtú del legislatore e non dell’esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè la pubblica sicurezza ad un particolare, e che con un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d’impunità. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene de’ particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace quella piccola porzione di felicità che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da quello che è, fa loro godere in quest’angolo dell’universo.

CAPITOLO XLVII CONCLUSIONE. Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione. Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.

Il calvario del maresciallo assolto dall’accusa di mafia e di nuovo sotto processo, scrive Simona Musco il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Per la procura generale che ha chiesto una nuova inchiesta, due indagini per concorso esterno, due archiviazioni e una assoluzione non sono ancora sufficienti. Due indagini per concorso esterno, due archiviazioni e un’assoluzione. Ma il «calvario» giudiziario di Giuseppe La Mastra, maresciallo dei carabinieri ora in servizio al nucleo radiomobile di Palagonia (Ct), è lontano dalla parola fine. A raccontarlo è lui stesso, in un esposto indirizzato al procuratore generale della Cassazione, al Csm e al Presidente della Repubblica e firmato anche dal suo avvocato, Giuseppe Lipera, col quale si chiede a chi di dovere di verificare il comportamento dei magistrati in quello che viene considerato un «inspiegabile accanimento giudiziario». La Mastra, nell’arma dal 1991, negli ultimi 10 anni è stato comandante della stazione di Catenanuova, Comune ad alta intensità delinquenziale. «Ho sempre svolto le mie delicatissime funzioni con il massimo della professionalità, sprezzo del pericolo, dedizione assoluta alla legge e alla magistratura», racconta il maresciallo. Che si sente stretto nella morsa di una giustizia ingiusta, fatta di accuse pesantissime. «L’onta dell’arresto, una lunga e inspiegabile indagine per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, poi sfociata in archiviazione, ed un processo dinanzi al Tribunale di Enna: ecco ciò che è stato riservato ad un servitore dello Stato come me», afferma La Mastra. È un collaboratore di giustizia a tirare in ballo La Mastra, accusandolo di essere vicino al clan Cappello. Una dichiarazione che, a maggio 2012, sfocia in un’indagine della Dda di Caltanissetta per concorso esterno e in una perquisizione al comando dei carabinieri da lui diretto. «Purtroppo la Dda di Caltanissetta non ha fatto chiarezza in tempi ragionevoli: non solo ho dovuto convivere per oltre due anni con questa terribile ed infondata accusa, ma, difficile a credersi, dopo una prima archiviazione, ha dovuto assistere ad una inspiegabile riapertura di indagini, basata su cosa non è stato dato sapere», racconta il maresciallo. Anche la seconda indagine si chiude con un’archiviazione, giungendo alla conclusione che La Mastra non ha mai favorito la mafia. Ma durante la perquisizione vengono trovate nell’armadio destinato ai reperti di reato alcune cartucce ed alcune munizioni. Il comandante viene così arrestato e sospeso dal servizio, finendo a processo davanti al Tribunale di Enna. L’accusa è di aver detenuto illegalmente quelle munizioni e di aver rifiutato atti del suo ufficio in relazione alle stesse. Il processo si è chiuso ad ottobre, con un coro unanime: La Mastra non ha commesso quel reato. Ne è convinto il pm Augusto Rio, che ha chiesto l’assoluzione, e ne sono convinti i giudici, che hanno ritenuto infondata l’accusa. Ma il calvario non è finito. Il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, Fabio D’Anna, ha infatti proposto appello, riaprendo «la mia personalissima quanto immeritata “via crucis” giudiziaria» . La Mastra parla di «stranezze» nell’atto di impugnazione proposto dalla Procura generale di Caltanissetta. «Non è un appello come tutti gli altri», dice il militare. Viene chiesta la rinnovazione dell’istruttoria, ritenendo insufficiente l’attività della Procura di Enna nel processo di primo grado. Dall’accusa di concorso esterno alla fine del processo sono passati intanto cinque anni. «Mi sento un vero e proprio perseguitato – spiega Questo è francamente troppo, specie per un maresciallo dei carabinieri che, per altro, in questi anni, ha dovuto convivere con l’atroce e prematura scomparsa della propria moglie, portata via da una lunga ed invincibile malattia». Nei motivi d’appello, la Procura generale accusa i giudici di primo grado di essersi appiattiti sulle dichiarazioni di La Mastra durante il processo. Il Tribunale ha evidenziato che le munizioni erano nell’armadio destinato ai reperti di reato, punto principale, secondo i giudici, per ritenere la non configurabilità del reato, che escluderebbe la detenzione delle munizioni a titolo personale. Quella stanza, inoltre, durante i giorni in cui La Mastra era assente, era a disposizione degli altri militari, per cui «se solo ci fosse stato un fine illecito non le avrei mai custodite in quell’armadietto ed in quella stanza», ha spiegato lo stesso maresciallo. Che lasciava la chiave in ufficio, allontanandosi spesso a causa della malattia della moglie. «La detenzione delle munizioni da parte del La Mastra non assume i caratteri dell’illegalità – si legge nella motivazione – tale detenzione, infatti, si inquadra nell’esercizio delle funzioni rimesse al La Mastra». Munizioni custodite non a titolo personale «ma per ragioni di ufficio», nella disponibilità di «chiunque avesse avuto titolo per richiederle, visionarle o prelevarle». Non sussiste, per i giudici, nemmeno l’accusa di mancata adozione di atti d’ufficio, dato che nessun accertamento è stato fatto per verificare l’effettiva mancanza di atti giustificativi della detenzione delle cartucce. Inoltre nel corso delle indagini furono man mano rinvenuti tutti gli atti pertinenti a ciascuna arma, con il conseguente dissequestro. Posizione non condivisa dalla procura generale, che invece escluderebbe l’accesso a terzi a quella stanza se non per consultare atti d’ufficio. Per La Mastra si tratta invece di una sorta di «persecuzione giudiziaria», di «fango» che ha portato l’uomo a dubitare delle «ragioni che stanno alla base di tale inspiegabile accanimento». Una vicenda che gli è costata due giorni nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, due mesi di arresti domiciliari a Castel di Iudica e, dopo la scarcerazione, anche il divieto di dimora in Catenanuova. «Questa storia non ci convince – commenta l’avvocato Lipera – probabilmente qualcuno sta tentando di riparare alla brutta figura fatta con le indagini a suo carico. Questa impugnazione non si comprende: non c’è parte civile, c’è un’assoluzione su conforme richiesta del pm. Hanno distrutto la sua vita: la sospensione dal servizio è durata diversi anni, con conseguenze economiche anche rilevanti e il blocco della carriera. Fosse capitato ad un magistrato il processo sarebbe stato molto più veloce. Invece è un carabiniere e deve passare le pene dell’inferno».

W il giudice che mena la moglie, scrive Franco Bechis il 20 giugno 2012 su "Libero Quotidiano”. Cinque dicembre 2009. Lite accesa in una casa di Lecco. Volano parole grosse, qualche urla, forse c'è una colluttazione. Tre marzo 2010: al tribunale di Lecco viene presentata denuncia-querela da parte di un avvocato, Donatella Cianfa. Accusa il marito, Gian Marco Fausto De Vincenzi di violenza privata, maltrattamenti famigliari e lesioni personali dolose. I fatti raccontati sono proprio quelli del 5 dicembre. Atti giudiziari di questo tipo sono piuttosto numerosi nei tribunali italiani. Quella lite però non è da poco: la presunta vittima è un avvocato, il marito che avrebbe commesso violenza, un giudice delle indagini preliminari dello stesso tribunale di Lecco (oggi è giudice monocratico). Il procedimento viene trattato in tempo record. Il 9 marzo la moglie, l'avvocato Cianfa, ritira la denuncia- querela. Il giorno prima aveva trovato un'intesa sulla separazione dal marito e soprattutto sugli alimenti. Il procedimento è destinato a morire, e così sarà: proscioglimento da due accuse, estinzione del reato per la terza grazie alla remissione della querela. Nel frattempo però il fascicolo giudiziario è arrivato al ministero della Giustizia che ha promosso l'azione disciplinare nei confronti del De Vincenzi davanti al Csm. La procura generale della Cassazione sostiene che non c'è materia, essendo intervenuta la remissione della querela. La commissione disciplinare è di diverso avviso, perché quella violenta lite familiare è comunque esistita e può avere leso il prestigio della magistratura. Il capo di imputazione davanti al Csm è assai duro: sostiene che il Gip avrebbe "ripetutamente percosso" la consorte, e che in un'occasione l'avrebbe "sbattuta contro il muro e a terra", causandole lesioni giudicate guaribili in due settimane da un referto medico. In quella occasione per altro il De Vincenzi avrebbe impedito alla moglie di recarsi al pronto soccorso "sottraendole e distruggendole le chiavi della sua auto" e costringendola a "sedersi sul letto accanto a lui per tutta la notte mentre le tratteneva i polsi", dicendole "sei una donna inutile, fai schifo". Le accuse sono tratte dalla stessa querela poi ritirata dalla signora, ma sono approdate il 15 giugno scorso alla disciplinare del Csm. Dove il diretto interessato si è difeso quasi considerandosi vittima e negando qualsiasi impatto sulla propria funzione di magistrato, perché nessuno avrebbe conosciuto la vicenda (finita invece su molti giornali locali e nazionali). "Devo rimarcare", ha spiegato De Vincenzi, " che tutta la vicenda è personale, dolorosissima. Purtroppo sono anni ancora che -diciamo- si trascina questa cosa. Dal punto di vista professionale, di immagine, credo che assolutamente non abbia inciso minimamente non fosse altro perché assolutamente nessuno ne è venuto a conoscenza, è una cosa che è rimasta --da questo punto di vista fortunatamente- in una sfera del tutto privatissima e personale". La vera sorpresa è però venuta da chi doveva sostenere l'accusa, Vincenzo Geraci, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione, che invece ha chiesto l'assoluzione con motivazioni stupefacenti: "Non mi pare che siano emersi degli altri fatti che consentano di dire che ci sia stata una lesione della immagine del magistrato. E' spiegato come il tutto si sia risolto e mantenuto all'interno di un tormentato rapporto di coppia che ha avuto queste disdicevoli manifestazioni come dire anche fisiche e contundenti...". Anche i magistrati dunque hanno diritto alla loro dose di botte familiari. Con la pubblica accusa così è quasi certa l'assoluzione. Anche se tutto è stato rinviato al 22 novembre prossimo per ascoltare un teste (l'ex capo del tribunale di Lecco) prima di sentenziare. E difatti… Csm: lesioni alla moglie, disciplinare assolve giudice.

Lecco, condannati giudice e avvocato: "Ci fu dolo intenzionale". Otto mesi di pena, ecco le motivazioni della sentenza, scrive il 30 luglio 2016 “Il Giorno". Giudice e avvocato sono stati condannati a otto mesi con sospensione della pena. Depositate le motivazioni della condanna a otto mesi di un giudice e avvocatessa lecchese. L’accusa: tentato abuso d’ufficio. I fatti risalgono al 29 settembre 2011 a Lecco e il processo - essendo coinvolto un magistrato - si è tenuto al tribunale di Brescia. Il collegio giudicante, composto da Vittorio Masia come presidente, Maria Chiara Minazzatio e Tiziana Gueli, quest’ultima nel ruolo di giudice estensore, ha condannato, senza le attenuanti generiche, Gian Marco De Vincenzi e Tatiana Balbiani perché «nello svolgimento delle loro funzioni di pubblici ufficiali non agivano con esclusivo riguardo alla cura e interessi della persona del beneficiario e senza tener conto dei suoi bisogni». Di fatto l’avvocatessa ha esercitato un ruolo di amministratrice di sostegno, assegnatole dal giudice De Vincenzi. Nella sentenza si legge: «Il giudice tutelare autorizzava in data 29 settembre 2011 l’acquisto di un immobile, operazione rispetto alla quale vi era un conflitto di interessi con l’amministrata, avente ad oggetto compravendita di un bene gravato da ipoteca». «Così compiendo atti idonei e diretti in modo non equivoco ad arrecare intenzionalmente a B.P. un danno ingiusto, rappresentato dall’eccessivo prezzo del bene e a procurare un ingiusto vantaggio»  Nelle 24 pagine del dispositivo delle sentenza sono stati ricostruiti i fatti, sentiti testimoni e nella valutazione della prova i giudici bresciani scrivono: «L’operato del dottor De Vincenzi rivela il dolo intenzionale del reato insito nel proposito di voler favorire l’amministratrice, avvocato Balbiani». Durante il processo sono emerse delle responsabilità – sulla base delle deposizioni dei testimoni chiave – e il giudice Masia ha accolto la richiesta del sostituto procuratore che chiedeva un anno di pena. Il giudice De Vincenzi e l’avvocatessa Balbiani sono stati condannati entrambi a otto mesi e interdetti dai pubblici uffici per la durata della pena sia il giudice e che l’avvocatessa. I giudici bresciani hanno deciso la sospensione condizionale della pena e «la non menzione della condanna». Dopo la sentenza di primo grado è stato preannunciato il ricorso. 

Dodici anni al 41 bis per una bufala del pentito, scrive Paolo Delgado il 23 luglio 2017 su "Il Dubbio". Poco prima della sentenza di Mafia capitale, erano state annullate le condanne per 9 persone tirate in ballo da Scarantino. Massimo Carminati è da 31 mesi in regime di carcere duro, il famoso art. 41bis al quale possono essere sottoposti non solo i condannati ma anche i sospettati di mafiosità, cioè i detenuti in attesa di giudizio. Dati i capi d’accusa era inevitabile che per il cecato scattasse quell’articolo: non si trattava infatti, secondo l’accusa, di un qualsiasi soldato di mafia ma di un boss a pieno titolo e di prima grandezza: come don Totò Riina o "Sandokan", per intendersi. La sentenza di Roma smantella quell’accusa da ogni punto di vista. Non solo, infatti, Carminati non è stato condannato ai sensi dell’art. 416 bis, quello che riguarda l’associazione mafiosa, ma non è stata riconosciuta neppure l’aggravante del ‘ metodo mafioso’. Per quanto riguarda l’imputato numero 1 del processone è un passaggio cruciale: in assenza di atti di violenza e di conclamate violenza il ‘ metodo mafioso’, nell’impianto accusatorio, era costituito dalla semplice presenza di Massimo Carminati, che comportava di per sé una ‘ riserva di violenza’ tale da giustificare la richiesta di aggravante. Infine è caduto, secondo i giudici della X Sezione del Tribunale di Roma, il nesso materiale con le mafie propriamente dette. I due imputati calabresi accusati di costituire il tramite con le ‘ndrine, Rocco Rotolo e salvatore Ruggiero, sono infatti stati assolti e già scarcerati. In sostanza la sentenza sgombra il campo da ogni accusa di mafia per quanto riguarda sia Carminati che Salvatore Buzzi, anche lui a lungo in regime di 41bis ma passato alcuni mesi alla detenzione normale. Gli avvocati di Carminati hanno già chiesto che venga eliminato il regime di carcere duro ed è probabile, che se non certo, che otterranno il passaggio alla detenzione comune. Del resto l’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con lui. La sentenza ha dunque certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. La vera domanda a questo punto è però se fosse davvero necessario tenere per 31 mesi in condizioni che il Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa assimila alla tortura un detenuto in attesa di giudizio, per il quale dovrebbe cioè valere la presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione. Nel caso di Carminati, essendo fuori discussione il rischio di mantenere contatti con un’organizzazione ormai sgominata così come l’eventualità di un pentimento in- dotto dal carcere duro prima del giudizio, la decisione di mantenerlo in regime di 41bis sembra dipendere essenzialmente dalla necessità di confermare quella ‘ straordinaria caratura criminale’ che era in realtà la pietra angolare dell’impianto accusatorio. Di fatto Carminati è stato tenuto per 31 mesi in un regime che il Consiglio d’Europa assimila alla tortura soprattutto per confermare che era davvero quel pericolosissimo boss mafioso di cui parlava l’accusa. Per sinistra coincidenza, pochi giorni prima, senza che se ne accorgesse nessuno salvo Adriano Sofri e pochissimi altri, il tribunale di Catania aveva annullato le condanne per nove persone già condannate all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, sulla base delle denunce del falso pentito Scarantino. Erano fuori di galera dal 2008, da quando cioè il vero pentito Spatuzza li aveva scagionati, ma solo con la formula interlocutoria della ‘ sospensione della pena’. Prima di quella data, però, avevano passato ben 12 anni nelle condizioni, allora molto più dure di quelle attuali, dettate dal 41bis. E’ opportuno ricordare che le "rivelazioni" di Scarantino, dettategli stando alle sue parole dall’allora capo ella Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi distintosi alla Diaz nella mattanza di Genova e scomparso nel 2002, erano state subito considerate fortemente dubbie, come hanno ricordato sia Ilda Boccassini che Antonio Ingroia. I casi in questione sono particolarmente vistosi, anche se il particolare del 41bis indebito quasi non è citato nei commenti sulla sentenza di Roma e lo scempio siciliano è stato di fatto dimenticato nonostante la sentenza di Catania. Ma di certo non sono casi unici. La decisione di comminare il carcere duro anche ai presunti innocenti rende inevitabili casi come quello di Massimo Carminati. L’eventualità di errori giudiziari, soprattutto in processi che dipendono in buona misura dalle parole dei pentiti, è inevitabile. Ce ne sarebbe a sufficienza per decidersi a riaprire il capitolo 41bis una volta per tutte.

Franco Coppi: “Siamo ancora nel rito inquisitorio E i pm dominano”, Intervista il 22 luglio 2017 de "Il Dubbio". Il professore Franco Coppi non ha dubbi: «Nel 1989 abbiamo adottato il rito accusatorio per superare il codice Rocco e arrivare ad una effettiva parità fra accusa e difesa. La realtà è che il rito che è rimasto inquisitorio». Il professore Franco Coppi, 78 anni ben portati, è sicuramente uno degli avvocati penalisti più famosi d’Italia. Nato a Tripoli in Libia, da oltre 50 anni è protagonista di molti dei processi più importanti del Paese. Storico difensore di Giulio Andreotti, è stato il legale di Silvio Berlusconi nei processi Mediaset e Ruby. Attualmente assiste il ministro dello Sport Luca Lotti accusato di rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’indagine Consip. Ma oltre ai processi “politici”, Coppi ha curato la difesa di Vittorio Emanuele di Savoia, di Francesco Totti, del direttore del Sismi Niccolò Pollari per il sequestro dell’imam Abu Omar e del governatore di Bankitalia Antonio Fazio nel processo Antonveneta. E’ stato anche il legale di Sabrina Misseri nel delitto di Avetrana. «Una tragedia che mi angoscia disse all’indomani della conferma dell’ergastolo per la cugina di Sara Scazzi – sono ossessionato dall’idea di non essere riuscito a dimostrare l’innocenza di quella sventurata». Attualmente il suo nome è in predicato per la Corte Costituzionale. Incarico prestigioso che ha, però, declinato. Come dice chi lo conosce bene, Coppi ha sempre fatto l’avvocato e non ha intenzione adesso di diventare giudice.

Professor Coppi, com’è lo stato della giustizia in Italia?

«La situazione è ormai tragica. Un disastro che riguarda sia il settore penale che quello civile».

Ci parli del penale.

«Nel 1989 abbiamo adottato il rito accusatorio. L’idea di fondo era quella di superare il codice Rocco e di arrivare ad una effettiva parità fra accusa e difesa. La realtà è che questa riforma del processo penale è stata fatta “all’italiana” e adesso abbiamo un rito che sostanzialmente è rimasto inquisitorio, solo con i tempi molto più lunghi».

Può farci un esempio?

«Certo. Nel rito inquisitorio il processo si celebrava sulla base degli elementi raccolti dal pubblico ministero. Con l’attuale rito la prova deve formarsi in dibattimento attraverso il contraddittorio fra accusa e difesa. Bene, con il meccanismo delle contestazioni, ovvero il dare lettura da parte del pm dei verbali delle dichiarazioni rese nelle fase delle indagini preliminari dalla persona che viene sentita nel corso del processo, entra nel fascicolo del dibattimento ciò che ha fatto il pm prima e a prescindere da qualsiasi attività difensiva: materiale che quindi sarà utilizzato dal giudice per la sua decisione pur se la difesa non aveva alcun ruolo in quella fase».

Le contestazioni da parte del pm possono essere fra le cause dell’allungamento dei tempi del processo?

«Le cause sono molteplici. Oggi, ad esempio, si fanno troppi processi. Però, restando alle contestazioni, se prima i processi si celebravano con una o due udienze, adesso ne servono come minimo dieci. Udienze che poi sono diventate lunghissime, proprio perché il pm è solito rileggere tutti i verbali».

Non mi sembra un bel risultato.

«Si. E sul punto è necessario un intervento drastico da parte del legislatore. Che non può pensare di risolvere il problema dello sfascio del sistema giudiziario solo allungando la prescrizione di processi che già adesso durano una vita. Il processo penale deve essere rivisto totalmente».

Normalmente viene data la colpa della lunghezza dei processi agli avvocati….

«Guardi, ho assisto una persona accusata di spaccio di sostanze stupefacenti. I fatti risalgono al 2002. La sentenza, di condanna, di primo grado è del 2009. Nel 2017 è stato fissato l’appello. I giudici, penso provando un senso di vergogna per un processo che si trascinava da 15 anni, riqualificando il fatto, hanno disposto la prescrizione “per la tenuità del fatto”. Un modo elegante per chiudere questo lungo processo».

Parliamo dei giudici e della qualità delle sentenze.

«In cinquanta anni di attività professionale non ho notato grandi differenze. Tranne sull’uso della lingua italiana. Ma quello è un problema complessivo che riguardo la scuola e l’università. Ad esempio è sparito l’uso del pronome. La società è cambiata e, conseguentemente, anche i magistrati sono figli di questo cambiamento. L’altro giorno ero in Cassazione. In un’aula c’erano dei giovani magistrati neo vincitori di concorso in tirocinio. Mentre parlava il procuratore generale, alcuni masticavano le gomme, gesticolando e confabulando fra di loro, altri poi erano completamenti distratti. Non è stato un bel vedere».

Tornado alla sentenza, il Csm sta lavorando a delle linee guida che si fondano sulla sinteticità e completezza dell’atto. Può essere d’aiuto?

«Io sul punto sono alquanto perplesso. Capisco l’esigenza di smaltire l’arretrato ma non credo sia possibile stabilire a priori un numero di pagine per la sentenza. Io ho un profondo amore per la motivazione perché permette di capire il ragionamento fatto dal giudice. Non è possibile, a priori, dare una misura della motivazione che valga per qualunque tipo di processo. Ogni caso richiede, come il sale nelle ricette, un “quanto basta” di motivazione».

La sintesi però è importante.

«Guardi, abbiamo bisogno di giudici “normali”, che focalizzino l’attenzione sul fatto e chi siano calati nelle realtà quotidiana. Contesto, poi, la relazione più volte citata che collega l’inefficienza della giustizia al previo filtro di inammissibilità. La declaratoria di inammissibilità non la migliore la risposta di giustizia per la parte. Dietro quel ricorso c’è una storia, una persona che non capirebbe perché sia stata respinta la sua istanza per un vizio di forma».

«Non rispondete al pm». E lui indaga gli avvocati, scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Indagati per aver suggerito al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’incredibile storia ha come protagonisti due avvocati di Udine, che il 23 giugno hanno visto perquisire i propri studi e le abitazioni perché accusati di infedele patrocinio. Indagati per aver suggerito al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’incredibile storia ha come protagonisti due avvocati di Udine, che il 23 giugno hanno visto perquisire i propri studi e le abitazioni perché accusati di infedele patrocinio. Secondo il pm che ha ottenuto la perquisizione e il sequestro, uno dei due avvocati avrebbe violato la legge suggerendo ad una cliente, accusata di favoreggiamento, di rimanere in silenzio durante un interrogatorio. Un’accusa, secondo il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Udine, «strana e incongrua», dato che quel suggerimento è un diritto previsto dal nostro ordinamento. Ma non solo: l’indagata avrebbe commesso il reato di favoreggiamento a vantaggio del marito, quando il codice penale prevede il vincolo matrimoniale «quale causa di non punibilità». L’altro legale, invece, difensore del marito, è stato tirato in ballo per un altro strano reato: la sua colpa è quella di essersi scambiato informazioni con il collega, comportamento, evidenzia il Coa, previsto dal codice deontologico. Ma ad indignare è stata anche la rilevanza data sulla stampa alla notizia, che sebbene non riportasse i nomi dei due avvocati ha provocato «pregiudizio e nocumento dell’intera categoria professionale». Rilievo che, invece, non è stato dato alla decisione del Riesame, che il 13 luglio ha annullato il provvedimento restituendo il materiale sequestrato, «non essendo ravvisabile il fumus del reato di patrocinio infedele». La linea difensiva seguita non può essere censurata, dice il Tribunale, in quanto «diritto espressamente riconosciuto». Un atto di prepotenza, dunque, anche per quanto riguarda lo scambio di informazioni tra i due avvocati. La vicenda, per il Coa, rappresenta «un concreto pregiudizio all’indipendenza del difensore» e al principio «dell’inviolabilità del diritto alla difesa». Un’interferenza nel rapporto tra difensore e difeso, motivata, forse, dal fatto che la linea della difesa non era evidentemente «suscettibile di condurre all’acquisizione di elementi di prova a sostegno della tesi accusatoria», denuncia il Coa. Che vede nell’atteggiamento della Procura una forma di condizionamento degli avvocati che, non volendo essere incriminati, cambierebbero strategia. Ma il Coa alza la voce: «non fatevi intimorire».

I giudici non siano torri d’avorio. Il diritto ha bisogno di armonia. L’importante memorandum siglato il 15 maggio scorso dalle massime cariche della giustizia, promosso dall’Associazione Italiadecide diretta da Luciano Violante, scrive Sabino Cassese il 19 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Un gruppo di lavoro promosso da Italiadecide, l’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche diretta da Luciano Violante, ha concluso i suoi lavori ponendo le basi per un accordo tra le corti supreme italiane, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e i procuratori generali presso la prima e la terza corte, accordo che è stato poi firmato dai presidenti e dai procuratori generali il 15 maggio scorso. Questo accordo costituisce una pietra miliare nella storia della giustizia italiana. Provo a spiegare perché. Partiamo da lontano. Lo Stato contemporaneo, quello italiano in particolare, non è solo lo Stato hobbesiano che assicura sicurezza e pace all’interno, ma è — come dicono i tedeschi — Jurisdiktionsstaat: in esso i giudici sono onnipresenti, non c’è area immune dalla giurisdizione. Basti pensare alla enorme crescita del numero di sentenze rispetto alla crescita della popolazione, e — procedendo a ritroso — alla quantità di conflitti che finiscono davanti ai giudici, conflitti dovuti anche all’aumento delle aree regolate da leggi. Con la moltiplicazione dei giudizi e delle sentenze, aumenta il pericolo che ogni giudice vada per conto suo, lasciando il cittadino senza quella sicura guida sulla interpretazione e applicazione del diritto che l’ordinamento giuridico dovrebbe garantire. Questo problema è accentuato dalla penetrazione nell’ordine giuridico nazionale di almeno altri due nuovi produttori di norme e di sentenze, l’Unione Europea con la Corte di giustizia europea e il Consiglio d’Europa con la Corte europea dei diritti dell’uomo. Occorre, allora, armonizzare l’operato delle corti, specialmente quelle supreme, stabilire canali di dialogo istituzionalizzato, garantire cooperazione, specialmente tra i giudici che sono al vertice, i tre che ho menzionato all’inizio, che sono i giudici legittimati a eleggere propri componenti nella Corte costituzionale. Ecco, quindi, l’idea del «memorandum», l’accordo firmato il 15 maggio scorso, tra i vertici giudiziari. Un accordo difficile, che ha pochi precedenti. Difficile perché la tradizione culturale italiana considera ciascun giudice una turris eburnea, un polo isolato da tutti gli altri, che decide da solo, in silenzio, senza guardare ad altro che non sia il caso che ha davanti. Per questo motivo, si tratta anche di un accordo che ha pochi precedenti. In Italia, quello illustre del «concordato giurisprudenziale» del 1929, firmato da Mariano D’Amelio, presidente della Cassazione, e da Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, e successivamente ratificato dalle Sezioni unite della Cassazione e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Ma quell’accordo aveva un unico oggetto, la stabilizzazione dei criteri del riparto della giurisdizione tra giudice civile e giudice amministrativo. L’altro precedente non è italiano, ed è l’accordo Skouris-Costa del 2011. Lo firmarono il presidente della Corte di giustizia europea e il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, ed aveva anche esso una portata limitata (all’applicazione della Carta di Nizza e all’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo). L’importanza e la novità del nuovo accordo, quello sottoscritto a maggio, stanno nel fatto che questo è il primo passo per una cooperazione stabile e che esso non ha oggetti pre-definiti, ma si estende su tutta l’area della giurisdizione. Con il nuovo accordo, avremo una attenzione maggiore all’attività delle giurisdizioni superiori che viene chiamata nomofilattica. Queste debbono assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto, garantire indirizzi interpretativi uniformi, in una parola assicurare l’unità dell’ordinamento. Si tratta di «beni» che sono divenuti rari, considerati il moltiplicarsi delle corti, il ricorso sempre più frequente dei cittadini ad esse, ma anche la confusione della nostra legislazione, l’aumento dei produttori di diritto (Unione Europea, Stato, Regioni, ma anche organismi globali), nonché il cosiddetto dualismo giurisdizionale che fa parte della tradizione italiana (come di quella francese), cioè il fatto che vi sono due giudici, uno civile, uno amministrativo. In conclusione, è un gran bene che tre presidenti illuminati e due procuratori generali aperti alle esigenze della collettività, con l’aiuto di una attiva fondazione privata, abbiano posto le premesse perché il modernoÉtat de justice non parli con troppe voci discordanti.

Errori giudiziari e orrori del sistema, scrive il 25 febbraio 2017 Mauro Mellini su "L'Opinione" Si sono succedete negli ultimi giorni le notizie di alcuni spaventosi errori giudiziari. Spaventosi per la banalità degli equivoci in base ai quali dei disgraziati erano stati dichiarati colpevoli. Spaventosi per i lunghissimi periodi di carcerazione sofferti dalle vittime di questi errori. Occorrerebbe aggiungere: spaventosi per la facilità, che tali episodi dimostrano, che la giustizia (cosiddetta) commette crimini del genere. Perché di crimini si tratta. Eppure c’è nell’aria, nella stampa che ce ne dà notizia, un non celato sentimento di “fastidio”, non per questi “incidenti”, ma per il fatto che se ne debba parlare. “L’errore giudiziario non esiste”: non è solo l’etichettatura di una pretesa idolatra di una giustizia autoreferenziale della sua infallibilità. Leggiamo i sapienti e sottili discorsi di qualche esemplare di magistrato “lottatore” e vedremo che quella non è una proposizione astratta di una fantasia letteraria. Del resto è lo stesso Codice penale a restringere i casi di “revisione” (cioè di accertamento dell’ingiustizia di una condanna definitiva) in modo tale da escluderne la possibilità quando tale ingiustizia dipende da un errore. La revisione è ammessa quando “sopravvengano nuove prove” che consentano un diverso giudizio. Ma se un poveraccio è stato condannato con una sentenza demenziale, in base alla prova di un’accusa di omicidio rappresentata dal fatto che un “testimone di giustizia” (denominazione assurda, che qualifica gli altri “di ingiustizia”) lo ha visto volare a cavallo di un asino sul luogo del delitto lanciando scariche elettriche, quella sentenza, se mai fosse “passata in giudicato”, non potrebbe essere oggetto di revisione. C’è poco da scherzare. Ho conosciuto magistrati matti capaci di sentenze del genere. C’è poi la categoria di condanne senza prove, in base a preconcetti, arzigogoli, coglionerie inconcepibili. Se non ci sono prove non ci possono essere “nuove prove”. E, poi, le condanne per reati che sono “inventati” dalla “giurisprudenza”, che è, poi, “imprudenza” nel concepire una “giustizia di lotta”. Se domani s’arrivasse a cancellare la vergogna del “reato giurisprudenziale” (tale riconosciuto e conclamato) di “concorso esterno in associazione mafiosa”, i condannati per quella “bella pensata” dei nostri magistrati non potrebbero adire la via della revisione dei loro processi. Ci sono poi delle “spie” del vizio di “disinvoltura” nel condannare: basti pensare che, quando nel Codice di procedura è stata aggiunta la frase per cui la condanna può essere emessa quando “la colpevolezza” dell’imputato “è provata al di là di ogni ragionevole dubbio”, non è successo assolutamente niente. Non è aumentato il numero delle assoluzioni, non è intervenuto nei processi ancora in grado di appello una falcidia di precedenti condanne in casi assai dubbi. Semplicemente, tutti i dubbi sulla colpevolezza sono divenuti “irragionevoli”. E tira a campà. E allora, cari amici, anche di fronte alle mostruosità emesse in questi giorni non mi pare si possa parlare di “casi” di ingiustizia, di errori, ma di assassinio morale, questo sì. È il sistema che fa dell’errore giudiziario “quello che non può esistere”. E del quale è scandaloso, quindi, lamentarsi. Un’ultima considerazione: l’“Orlando Curioso”, ministro della Giustizia, ha mandato gli ispettori a Torino per un caso di intervenuta prescrizione di un processo, tra l’altro nato male. Non mi risulta che abbia mandato ispettori a rivedere le carte dei cosiddetti “casi” di errori giudiziari. Già, dopo tanto tempo (passato in galera dalle vittime) che c’è da andare a cavillare? Sono cose che capitano. In Italia certamente sì.

Vittorio Emanuele di Savoia assolto: non riciclò denaro sporco con i videopoker, scrive Oggi il 23 settembre 2010. Vittorio Emanuele di Savoia era stato in carcere per una settimana nel 2006. Accusato di riciclare soldi sporchi con i videopoker. Oltre che di altri gravissimi capi d’imputazione. Oggi l’assoluzione piena da parte del gup di Roma «perché il fatto non sussiste». Vittorio Emanuele di Savoia è stato assolto «perché il fatto non sussiste». E con lui anche gli altri cinque imputati nel processo per la vicenda dei nulla osta legati ai videopoker, caso scoperto nel 2006 dalla magistratura di Potenza. Allora il principe finì in carcere per una settimana su iniziativa del pm Henry John Woodcock. La sentenza di proscioglimento è stata pronunciata dal gup di Roma Marina Finiti. Oltre a Vittorio Emanuele, il procedimento riguardava l’imprenditore messinese Rocco Migliardi (definito nel capo di imputazione «soggetto legato alla criminalità organizzata» nonchè gestore di aziende di distribuzione di videogiochi), Nunzio Laganà, suo stretto collaboratore, e poi Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti gli organizzatori di quella che fu subito definita la «holding del malaffare». Secondo l’ipotesi accusatoria, l’associazione per delinquere era dedita anche a operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia. Per questa vicenda Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, fu arrestato il 16 giugno del 2006 e rimase in carcere per una settimana. «L’assoluzione di oggi», commenta uno degli avvocati difensori, «consente di ribadire con maggiore forza che gli arresti eseguiti quattro anni fa si fondavano su accuse inconsistenti».

Il ministro dei Trasporti Claudio Burlando sarà risarcito con 60 milioni dal suo collega di governo Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro, per l’ingiusta detenzione subita nel maggio del ’93 dall’ex sindaco pidiessino per l’affaire del Sottopasso di Caricamento, scrive La Stampa il 12 dicembre 1997. Lo hanno stabilito i giudici della seconda sezione penale della corte d’appello con un’ordinanza che è stata depositata ieri mattina e in cui è stato deciso anche un rimborso di un milione di lire a favore di Burlando per le spese legali. L’uomo politico pidiessino era stato arrestato il 19 maggio del ’93 con l’accusa di truffa aggravata e di abuso d’ufficio. Rimase in carcere per sei giorni e, poi, ottenne gli arresti domiciliari che finirono il 31 maggio. Dopo circa quattro anni ed esattamente il 27 gennaio scorso il giudice dell’udienza preliminare lo assolse con formula piena da tutti e due i reati. Quella sentenza è poi passata “in giudicato” e cioè resa definitiva e irrevocabile il 12 aprile di quest’anno. Dopodiché Burlando ha affidato all’avvocato Giuliano Gallanti attuale presidente dell’Autorità portuale genovese, il compito di richiedere il risarcimento del danno allo Stato e specificamente al ministero del Tesoro. Oltre a Gallanti era associato, nei primi tempi dell’inchiesta, un altro avvocato chiamato poi a importanti cariche istituzionali: Giovanni Maria Flick che quando è divenuto appunto ministro di Grazia e Giustizia ha abbandonato, com’è ovvio, la difesa. I giudici in sostanza dicono che la quantificazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione deve tenere conto del fatto che Burlando quando fu arrestato era sindaco di Genova e dovette dimettersi. Non gli hanno, però, riconosciuto i 100 milioni previsti come massimo perché la “perdita d’immagine è stata prontamente recuperata” dall’ex sindaco diventato ministro, come ha osservato l’avvocato dello Stato Giuseppe Novaresi.

Gigi Sabani. Dal successo alla crisi d’identità. Quel bisogno continuo di sdoppiarsi, scrive Aldo Grasso, Corriere della Sera, 6 settembre 2007. Accusato con Valerio Merola di provini a luci rosse, ma la storia finì in niente: prosciolti senza nemmeno arrivare al processo. Negli arrembanti anni 80 è stato uno dei protagonisti indiscussi della tv italiana: in Rai con «Domenica in» e «Fantastico», a Mediaset con «Premiatissima» e «Ok, il prezzo e giusto» e poi ancora in Rai con «Chi tiriamo in ballo?». Faceva l’imitatore, il suo umorismo era facile e popolare, una risata la strappava sempre. Gigi Sabani è stato uno di quei conduttori davanti a cui si aprivano tutte le porte, cui non mancavano le occasioni per inseguire un successo che pareva senza fine. Poi un bel giorno qualcosa si è rotto. Nell’estate del 1996 finisce in manette in compagnia di Valerio Marola. Ad accusarli è il sostituto procuratore di Biella Alessandro Chionna che, su dichiarazione di Raffaella Zardo, inaugura la prima grande inchiesta di Vallettopoli: si parla di provini a luci rosse, di favori sessuali. Un certa Katia sostiene di essersi intrattenuta sul sofà di Sabani in cambio di una foto con dedica («a spaghettino») e della vaga promessa di una comparsata. Stesse accuse a Merola, diventato subito «Merolone» perché l’interessato non esita a sbandierare le misure del suo corpo contundente. La storia finisce in niente, i due vengono prosciolti senza nemmeno arrivare al processo. Per giunta il pm Chionna si fidanza e poi si sposa con una certa Anita Ceccariglia, finita nell’inchiesta per aver frequentato i due imputati. Ancora recentemente, di fronte allo scandalo della seconda Vallettopoli, Sabani non riusciva a darsi pace: «Quando io e altri fummo sbattuti violentemente in prima pagina, senza certezze sulle eventuali responsabilità, nessuno, a parte pochi, si impegnò per difendere la nostra dignità. «Tagliato fuori dalla tv, sbalzato dal trono, Sabani subì anche la beffa del risarcimento. Tredici giorni di ingiusta detenzione patiti dal presentatore dal 18 giugno all’1 luglio del 1996 gli valsero 24 milioni di lire (più un milione e rotti per le spese processuali). In tribunale avevano fatto i conti della serva: gli arresti domiciliari sono meno «afflittivi» della gattabuia, il contratto con «Sotto a chi tocca» di Canale 5 non era ancora firmato, nel 1997 Sabani ci aveva rimesso «solo» 250 milioni rispetto all’anno precedente e così via.

Probabilmente, 24 milioni Sabani li guadagnava in una o due serate e la Corte d’appello di Roma non aveva tenuto conto che per un presentatore l’immagine è tutto e l’immagine di Sabani aveva subito un brutto colpo. Dal quale, con ogni probabilità, non si è mai più ripreso. Sabani rientra in tv nell’estate del 1998 con un modesto programma di spezzoni televisivi su Rete4, «Io, Napoli e tu» con Katia Noventa, allora fidanzata di Paolo Berlusconi. Sabani si ritrova così a fare gavetta. Tuttavia, e non solo per colpa di Vallettopoli, il conduttore stava vivendo da alcuni anni una crisi di identità tipica degli imitatori; non tutti hanno una personalità così forte da riuscire a superare la loro natura eteronima. Quando Sabani capiva che il pubblico si stava annoiando provava irrefrenabile il bisogno di calarsi nelle vesti di un personaggio più famoso, giusto per cavare un applauso. Ma intanto non era più lui, era continuamente costretto a sdoppiarsi. Sabani era un imitatore. Nato a Roma il 5 ottobre 1952, nel suo quartiere Luigi era già famoso all’età di cinque anni per la sua abilità nell’imitare il rumore inconfondibile della circolare rossa Prenestina, il tram che faceva il giro della capitale. Si fa conoscer dal pubblico a «La corrida», il programma radiofonico dei dilettanti allo sbaraglio presentato da Corrado, imitando Morandi, Reitano, Baglioni e altri. Notato da Gianni Ravera al Festival di Castrocaro, debutta in tv nel 1979 su Raiuno in occasione della manifestazione «La gondola d’oro» di Venezia. Ingaggiato da Pippo Baudo per l’edizione 1979 di «Domenica in», riscuote un grande successo di pubblico, confermato dalle edizioni 1981 e ’82 di «Fantastico» e dal varietà di Canale 5 «Premiatissima» (1983). Nel 1983 gli è affidata la conduzione su Italia 1 di «Ok, il prezzo è giusto». Altri suoi successi: «Stasera mi butto» (1990), «Domenica in», «Il grande gioco dell’oca» (1995), «Re per una notte» (1996), «7 x uno» (1999), «La sai l’ultima?», «I fatti vostri» (2002). A volte dava l’idea di non trovarsi più in questa tv, a volte era la stessa tv a non avere più occhi di riguardo per uno che sapeva, eccome, piacere al pubblico generalista.

Merola: c’è una firma su questa morte. Da quel momento Gigi fu discriminato, scrive P. Br. su "Il Corriere della Sera" il 6 settembre 2007. «Noi viviamo in un Paese dove un magistrato, di cui non voglio pronunciare mai più il nome, prima ti manda in carcere e poi, scoperto da un paparazzo di Novella Duemila, si fa sorprendere in dolce compagnia dell’ex fidanzata dell’uomo che ha appena fatto incarcerare grazie a un’inchiesta inventata e destinata a finire poi nel nulla più assoluto». È arrabbiato Valerio Merola (nella foto, degli anni ’90, con Raffaella Zardo). Gigi Sabani e Valerio Merola. Ad accomunarli quella drammatica inchiesta del pm Alessandro Chionna su una scuola per modelle di Biella. Uno «scandalo» che li aveva portati in carcere nel ’96 per truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione di alcuni giovani modelle in cambio di partecipazione a programmi tv. Poi, un anno dopo, l’archiviazione e il risarcimento economico per quei tredici giorni di ingiusta detenzione. Ieri Merola ha macinato chilometri in auto per precipitarsi dal nord a Roma e rendere omaggio all’amico, in quella casa al Prenestino in cui i due hanno rimuginato più volte sui loro passati guai. «Che vergogna — dice Merola —. Un inutile scandalo, archiviato in ogni sua forma. Non c’è mai stato il processo, siamo stati risarciti per questa ingiustizia. Ma vorrei che qualcuno si facesse un esame di coscienza, perché questa morte per me ha una firma, non credo che sia un evento naturale. Vorrei che stanotte qualcuno non trovasse sonno. C’è un uomo che ha sbagliato clamorosamente e che non ha mai pagato per i suoi errori, e che poi ha addirittura coronato il suo sogno d’amore con l’ex fidanzata di uno dei suoi inquisiti… ». È un fiume in piena Valerio Merola. Più volte usa un termine per ricordare la situazione di Gigi Sabani in questi ultimi dieci anni: isolamento. «Abbiamo continuato a patire la discriminazione — dice —. Anche dopo il risarcimento e l’archiviazione. In Rai e anche in Mediaset quando qualcuno si azzardava a proporre il nostro nome c’era subito chi obiettava: “Loro… meglio di no”. Gigi pativa molto per questi ostracismi e diceva che erano in troppi a scansarlo. Avvertiva questo senso di disagio che pochi amici riuscivano a superare». L’ultima sua sofferenza è fresca, risale a questa estate. Merola ne ha discusso con Sabani, a caldo. «Su Raiuno avevano deciso di replicare “Stasera mi butto”, uno spettacolo di imitatori che era stato anni addietro un successo di Gigi. Quando lui l’ha saputo era tutto contento. Finalmente, pensava. Poi la doccia fredda. Hanno deciso di programmare lo spettacolo sulla prima rete senza degnarsi di invitarlo. “Ma perché mai il direttore di Raiuno non mi ha invitato?” si chiedeva Gigi. “Che gli ho fatto a Fabrizio Del Noce?”. E aggiungeva: “Ci sarei andato anche gratis. E poi parlano del deficit della Rai. Quello era il mio programma. Gliel’avrei rifatto gratis…”. Parliamoci chiaro: pochissimi gli sono stati vicini in questi ultimi anni. E anche tra quei pochi, come Maurizio Costanzo, Gigi diceva che c’erano troppi umori altalenanti. Un invito, poi più niente per parecchio tempo. Un’altra polemica, recente, l’aveva avuta con Fiorello. Gigi ne aveva ridimensionato le capacità, in un’intervista. Capirai. Fiorello gli aveva risposto piuttosto male… ». «Questa è una società dove se vieni macchiato — conclude Merola — la macchia non viene più tolta. E si paga con la vita. E poi se ti risarciscono, non è che ti aiutano a riprendere. No, ti isolano ulteriormente. E se non basta ti rubano anche gli amori…».

13 giorni di carcere, 24 milioni di risarcimento, scrive Il Messaggero il 5 settembre 2007. Nel 1996 con grande clamore Gigi Sabani fu coinvolto, insieme a Valerio Merola e ad altre persone nell’inchiesta del pm Alessandro Chionna su una scuola per modelle, la Celebrità di Biella che nascondeva un intreccio di incontri privati tra le giovani aspiranti e alcuni uomini di spettacolo, con l’obiettivo di ottenere contratti in tivù o al cinema. Truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione di alcune giovani modelle in cambio di partecipazione a programmi televisivi: con queste motivazioni fu arrestato all’alba del 18 giugno 1996 il presentatore Gigi Sabani. A metterlo nei guai, le dichiarazioni dell’allora minorenne Katia Duso, aspirante show-girl, che raccontò al pubblico ministero di essere stata accompagnata nell’estate del ’95 da Ramella Paia a Roma dove avrebbe avuto approcci sessuali con il presentatore, che le avrebbe promesso in cambio di aiutarla nel mondo dello spettacolo. Sabani fu scarcerato il 1 luglio ’96 e presentò denuncia per abuso d’ufficio nei confronti di Chionna (che poi sposò a Roma il 10 maggio ’97 la sua ex-teste nell’inchiesta Anita Ceccariglia, per quattro anni compagna di Gigi Sabani). Il 13 febbraio 1997 la richiesta di archiviazione nei suoi confronti, «la prima notizia bella dopo tanta sofferenza inutile», commentò Sabani. Il gip di Roma, su richiesta del pm Pasquale Lapadura, il 18 febbraio 1997 archiviò il procedimento e Sabani fu risarcito (con 24 milioni di lire) per 13 giorni di ingiusta detenzione.

Processo troppo lungo, Laura Antonelli risarcita, scrive "La Repubblica" il 20 maggio 2006. Nove anni di procedimento e poi l’assoluzione, nove anni che hanno minato la sua salute psichica e per i quali ora il ministero della Giustizia dovrà pagare. L’attrice Laura Antonelli ha vinto la sua causa contro la lentezza della giustizia e ora sarà risarcita con 108 mila euro, oltre agli interessi, per i danni di salute e di immagine patiti a causa della “irragionevole durata del procedimento” a suo carico. Nell’estate del 1991 nella villa dell’attrice, diventata uno dei sex symbol italiani negli anni ’70 per il film Malizia di Samperi, furono trovati 24 grammi di cocaina. Le fasi processuali sulla vicenda durarono nove anni, ma alla fine la Antonelli fu assolta. In questo periodo il crollo psichico dell’attrice fu repentino: da allora infatti vive in solitudine, il corpo irriconoscibile anche a causa di interventi estetici sbagliati. Ora la corte di appello civile di Perugia, presieduta da Sergio Matteini Chiari, ha deciso per il risarcimento. La pronuncia del collegio è arrivata dopo che la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso degli avvocati della Antonelli, Lorenzo Contrada e Dario Martella, aveva giudicato non adeguata la somma di diecimila euro precedentemente assegnata alla Antonelli. “Sono contenta, non me l’aspettavo”, ha commentato l’attrice parlando con i suoi legali. Questi ultimi hanno a loro volta espresso soddisfazione per un provvedimento “che riconosce uno dei risarcimenti più alti mai stabiliti per cause di questo genere” e che costituisce un importante precedente alla luce della cronica lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani. Il dicastero della Giustizia, in base a quanto disposto dai giudici umbri, dovrà pagare anche le spese processuali sostenute dall’attrice e i costi di una consulenza tecnica svolta dal neurologo e psichiatra Francesco Bruno. Quest’ultimo fu interpellato nel 2003 per stabilire se lo stato dell’attrice, all’epoca alle prese con ideazioni deliranti a contenuto mistico e allucinazioni uditive, fosse dovuto all’assunzione di cocaina nel periodo culminato con il suo arresto o se fosse configurabile un nesso di causalità con la durata del processo penale. Lo psichiatra dichiarò che la lunghezza della vicenda giudiziaria aveva “senz’altro influito in modo determinante sulla destabilizzazione psichica dell’Antonelli”. “Il nesso di causalità tra i due eventi – concluse il perito – appare dunque ben confermato sia per i criteri temporali, sia per quelli modali, sia per quelli di efficienza lesiva”.

Roberto Ruggiero. Risarcito l’avvocato per 27 giorni di carcere. E’ l’avvocato opinionista tv di cronaca nera. Scrive l'"Ansa" il 22 febbraio 1992)

Deve tenere conto anche delle sofferenze morali e psicologiche e delle “conseguenze personali e familiari” il giudice chiamato a stabilire la somma di risarcimento per ingiusta detenzione. Di conseguenza una custodia cautelare, pur se limitata nel tempo, può essere riparata con il massimo previsto, cioè cento milioni di lire. Lo stabilisce una sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, con la quale viene respinto il ricorso del ministero del Tesoro. La vicenda ebbe inizio nel 1983, quando Roberto Ruggiero fu arrestato con l’accusa di traffico internazionale di armi. L’uomo subì la custodia cautelare in carcere dal 16 giugno al 13 luglio 1983, per un totale di 27 giorni. In seguito il giudice istruttore di Venezia lo prosciolse e riconobbe il diritto di Ruggiero al risarcimento, che quantificò nella misura massima di cento milioni. Il ministero si è rivolto in Cassazione sostenendo, tra l’altro, che “ai fini della determinazione del quantum non si dovrebbe tener conto delle sofferenze morali e psicologiche”. Ma i giudici della Suprema corte sono stati di diverso avviso e hanno anche escluso che per stabilire la somma di di diverso avviso e hanno anche escluso che per stabilire la somma di riparazione si debba far riferimento ad un “valore al giorno” da far coincidere con una o due volte l’importo della pensione sociale. La Cassazione afferma che la Corte d’appello ha correttamente indicato le modalità di svolgimento della custodia cautelare (caratterizzata da una iniziale fase di isolamento), le conseguenze fisico-psichiche derivate dalla sottrazione della libertà, l’incensuratezza e l’elevata posizione sociale di Ruggiero.

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

Sandro Frisullo, assolto dopo 4 mesi in carcere come tangentista, scrive Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" l'11 febbraio 2014. I giudici della Corte d’appello di Bari hanno scagionato definitivamente il politico del Partito democratico Sandro Frisullo. Dopo essere stato assolto dall’accusa di corruzione, l’ex vicepresidente della giunta regionale della Puglia viene infatti dichiarato innocente anche rispetto alle accuse di associazione per delinquere e abuso d’ufficio. Secondo le indagini della Procura barese, il politico aveva favorito l’imprenditore Gianpaolo Tarantini in cambio di utilità e di incontri con alcune delle escort che frequentavano anche le serate di Silvio Berlusconi. Contestazioni gravi che nel marzo 2010 – quasi un anno dopo le rivelazioni di Patrizia D’Addario sulle feste dell’allora Presidente del consiglio – ne determinarono l’arresto e lo convinsero a dimettersi dopo che una delle ragazze, Terry De Niccolò, aveva raccontato a verbale e pubblicamente gli incontri. L’esito del processo non basta comunque a placare la rabbia e l’amarezza di Frisullo. «Sono stato assolto da tutti i reati per i quali ho subito il carcere e ben quattro mesi di custodia cautelare. Avevo dichiarato fin da subito la mia disponibilità ad essere sentito dalla Procura, e quando ciò è avvenuto (e cioè quattro mesi più tardi, ndr ) ho riferito dei miei comportamenti dicendo sempre la verità ed escludendo in modo categorico qualsiasi dazione di denaro da parte di Tarantini. Ma ‘meritavo’ il carcere e questo a pochi giorni dalla data delle elezioni regionali del 2010. Quella che ho vissuto è stata la più terribile pagina della mia vita. Un vero e proprio calvario. La violenza di un così brutale provvedimento contro la mia persona ha aperto una ferita difficilmente rimarginabile. Il carcere ti spezza la vita. E soltanto l’affetto dei miei famigliari, il sostegno e la stima di tante persone, la costante azione a favore del bene comune e della legalità mi hanno consentito di affrontare una prova così devastante». Frisullo si rammarica per la sua storia personale e politica cancellata da questa vicenda e aggiunge: «Ho avuto subito l’angosciante percezione di essere finito dentro un meccanismo che mi stritolava e che non mi avrebbe lasciato scampo. Un infernale e potente circuito mediatico-giudiziario mi aveva già condannato come un pericoloso tangentista e corrotto, ispiratore di un sodalizio criminale ben collaudato. Si cancellava così la mia storia, quella vera, quando da giovane sindaco avevo denunciato e testimoniato contro una pericolosa cosca contribuendo a smantellarla».

Clelio Darida: “Io, ex ministro e sindaco di Roma, 50 giorni in carcere innocente”, scrive la Repubblica, 28 luglio 1994, 15 aprile 1997, 11 maggio 2017. Clelio Darida è stato uno dei protagonisti della Prima Repubblica. Figura di spicco della corrente della Democrazia Cristiana che faceva capo ad Amintore Fanfani, ha ricoperto tre volte la carica di ministro (delle Poste, della Funzione pubblica e della Giustizia). Ed è stato anche sindaco di Roma dal 1969 al 1976. Nel corso della sua vita di politico fu travolto dall’esperienza di un’ingiusta detenzione: oltre 4 mesi di custodia cautelare da innocente, tra carcere e arresti domiciliari. Il 7 giugno 1993, in piena Tangentopoli, Darida finisce nell’inchiesta sull’Intermetro: accusato dal Pool di Mani Pulite di aver incassato una tangente di 1 miliardo e 750 milioni di lire, da girare alla Dc per i lavori della metropolitana romana, finisce in carcere. In questo modo diventa l’unico ministro della Giustizia a conoscere l’onta di entrare in cella a San Vittore, a Milano, con l’accusa di corruzione aggravata. Vi rimarrà fino alla fine di luglio, 50 giorni in tutto, prima di vedersi concedere gli arresti domiciliari (che dureranno fino al 9 settembre del 1993). Clelio Darida verrà assolto alla fine di luglio 1994 dalla Gip di Roma Adele Rando, dopo che l’inchiesta era passata per competenza alla magistratura capitolina. Il pm, Francesco Misiani, non impugnerà l’ordinanza di assoluzione. “Ho subito una violenza infame ed infamante”, aveva protestato Darida tramite il suo avvocato, Ettore Boschi, a poche ore dall’ordinanza che lo aveva mandato assolto. “Sono rimasto 50 giorni in custodia cautelare in carcere senza che alcun atto istruttore fosse compiuto”, aveva denunciato in Tv su Canale 5. “Quei quasi due mesi di ingiusta detenzione sono stati come uno stupro, indimenticabile e irreparabile”, ripeteva spesso. L’esperienza in carcere fu traumatica. La prima notte Darida l’aveva passata in cella di sicurezza. In seguito, in cella aveva incrociato due detenuti politici degli Anni di Piombo: lo minacciarono di morte, visto che a cavallo degli anni Ottanta era stato proprio lui, da ministro della Giustizia, a varare quell’articolo 90 che aveva cancellato i diritti della riforma penitenziaria. Era quindi stato trasferito in un altro reparto, con i detenuti comuni. “Mai un magistrato è andato a trovarlo né mai abbiamo ricevuto notizia di qualche atto istruttorio” ricordava l’avvocato Boschi. “Solo il 24 giugno arrivò da Roma Francesco Misiani, il pm che nella capitale aveva cominciato a lavorare all’inchiesta Intermetro. Fu corretto e gentile”. Anche Misiani ricorda quell’incontro: “Darida mi disse molto gentilmente che non se la sentiva di rispondere alle domande. Restammo a chiacchierare una mezz’ora. Era molto provato. Mi disse che i primi giorni erano stati i più duri”. Per questioni di sicurezza l’ex potente Dc aveva dovuto rimanere da solo durante l’ora d’aria né aveva potuto frequentare – lui, cattolico fervente – la messa. Finché un giorno in cortile, si era fatto forza e si era presentato ai detenuti comuni: “Sono Darida, chiamatemi Clelio”. Da quel momento in avanti, tutto era filato senza problemi. Anzi, amava ripetere che in cella si erano creati legami di solidarietà molto forti e che la pasta più buona della sua vita gliel’avevano cucinata i suoi compagni di cella. Dopo quell’esperienza, promise a se stesso di battersi per difendere i diritti “di tanti poveri cristi che finiscono in carcere innocenti e di cui nessuno parla”. Per quei giorni in custodia cautelare da innocente (50 in carcere e 73 agli arresti domiciliari), Clelio Darida ottenne la riparazione per ingiusta detenzione dalla IV sezione penale della Corte d’Appello di Roma nell’aprile del 1997: 100 milioni di lire. I giudici riconobbero che quella terribile esperienza provocò a Darida un danno morale e materiale, oltre a gravi prostrazioni psicologiche. A 90 anni compiuti da pochi giorni, Clelio Darida è morto l’11 maggio 2017.

Teatro Petruzzelli, il manager vuole i danni, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 18 Settembre 2007. Dopo essere stato sottoposto per circa 16 anni alle indagini e a vari gradi di processo (uno di primo grado, due di secondo e due pronunce della Cassazione), e soprattutto dopo essere stato assolto in via definitiva dall’accusa di aver ordinato il rogo del teatro Petruzzelli di Bari, l’ex gestore Ferdinando Pinto ha chiesto la liquidazione dei danni subiti per la “non ragionevole durata del processo” cui è stato sottoposto. Una durata “ragionevole” del processo in Italia è fissata in sei anni. Il ricorso – nel quale non si quantifica l’ammontare dei danni “patrimoniali e non” subiti dall’impresario – è stato depositato dal legale di Pinto, avv. Michele Laforgia, alla Corte d’appello di Lecce, competente per territorio a trattare i procedimenti che riguardano la magistratura barese. Nel procedimento si lamentano non solo i danni subiti da Pinto per le lungaggini del procedimento penale, ma anche quelli legati all’accusa di associazione mafiosa che la Procura antimafia di Bari, nonostante il diverso orientamento cautelare della Cassazione emerso dopo l’arresto di Pinto, ha continuato a contestare all’ex gestore, costringendo – secondo la difesa – a subire nel corso degli anni ingenti danni patrimoniali, personali e professionali. Danni che l’impresario ritiene di aver subito anche per l’ingiusta detenzione a cui è stato sottoposto per essere stato arrestato il 7 luglio del ’93 e scarcerato per mancanza dei “gravi indizi di colpevolezza” dal tribunale del riesame di Bari il 23 luglio successivo. Anche per questa vicenda Pinto sta per chiedere un risarcimento dei danni. Il processo per il rogo doloso del Petruzzelli (i cui interni furono distrutti all’alba del 27 ottobre del ’91) è terminato il 15 gennaio 2007 (iniziò il 14 febbraio ’96) con la sentenza della Cassazione che ha spazzato via definitivamente la ricostruzione fatta dalla Procura di Bari: questa accusava Pinto di aver ordinato al clan mafioso dei Capriati (con il quale sarebbe stato indebitato per 600 milioni di lire presi ad usura, circostanza ritenuta non provata dalla Suprema Corte) di incendiare la sua “creatura” per poi lucrare sulla ricostruzione del teatro. Per questi motivi l’ex gestore (il 6 aprile 2001) venne condannato nel primo processo d’appello a 5 anni e 8 mesi di reclusione (due anni in meno della condanna inflitta in primo grado l’8 aprile ’98) per concorso in incendio doloso. Il processo approdò in Cassazione che (il 28 maggio 2002) annullò la sentenza con rinvio e mandò gli atti alla Corte d’appello di Bari che, al termine del processo d’appello bis (14 luglio 2005), mandò assolti tutti gli imputati tranne il presunto incendiario Giuseppe Mesto. Questi, assieme a Francesco Lepore, condannato con sentenza definitiva in un processo stralcio, è stato ritenuto colpevole di aver appiccato materialmente il rogo. Fu infatti proprio per l’intercettazione ambientale di un colloquio tra Mesto e Lepore che gli inquirenti diedero una svolta alle indagini sull’incendio del teatro. Una microspia captò la conversazione nella quale Mesto diceva a Lepore: “Se tu il Petruzzelli non lo facevi, vedi era così?”, e poi continuava: “Madò, non sia mai ci sta qualche microspia, adesso ci devono arrestare”.

Mario Spezi. Giornalista ingiustamente in carcere, scrive l'"Ansa" il 20 novembre 2007. “Quanto vale la libertà personale di un giornalista? E quanto il diritto a svolgere quotidianamente il suo lavoro? Secondo l’Avvocatura di Stato, duecento euro al giorno”. Lo sottolinea il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Lorenzo Del Boca, commentando quanto avvenuto nel caso di Mario Spezi. “Non sembra proprio che lo Stato tenga in grande considerazione il nostro mestiere”, dice Del Boca. “Quando un magistrato cita un giornalista per diffamazione a mezzo stampa – aggiunge – i tribunali decretano risarcimenti per decine di migliaia di euro e, per di più, rendono la decisione immediatamente esecutiva. Se si tratta del contrario cioè di un giudice che sbaglia – e vistosamente, per considerazione della Suprema Corte – perché devono valere criteri così palesemente difformi e umilianti?” Questi i fatti ricordati da Del Boca. “Il 7 aprile 2006 il cronista della Nazione Mario Spezi, da anni impegnato a seguire per il suo giornale le terribili vicende del cosiddetto ‘mostro di Firenze’, viene arrestato con l’accusa di depistaggio delle indagini sull’omicidio di Francesco Narducci, un medico perugino coinvolto nell’inchiesta relativa ai presunti mandanti dei delitti del mostro. Spezi trascorre 23 giorni in carcere: una detenzione definita dalla Corte di Cassazione, nella sentenza di scarcerazione, ‘illegale ed ingiustificata’. Talmente ingiusta da provocare anche l’intervento del Committee to Protect Journalists, di New York, che scrive all’allora premier Berlusconi chiedendo ‘la liberazione di un giornalista incarcerato per aver fatto il suo mestiere meglio di altri, un giornalista coraggioso che non si è lasciato intimidire da accuse e denunce”. Uscito dal carcere, Mario Spezi così commenta la sua prigionia: “Sono stato vittima dell’inquisizione, nessuno mi restituirà questi 23 giorni trascorsi in galera”. E avvia la procedura per il risarcimento per ingiusta detenzione. “Nei giorni scorsi, il 14 novembre, la prima udienza. Ed anche la prima sorpresa. L’Avvocatura di Stato – spiega ancora una nota dell’Ordine – si costituisce contro Mario Spezi ed offre un risarcimento di danni di 4.500 euro. Pari, appunto, a circa 200 euro al giorno. Una decisione davvero singolare, anche perché é raro che l’Avvocato dello Stato si costituisca contro un privato cittadino, in questo caso giornalista. L’ultima parola spetta ovviamente al magistrato che si è riservato di decidere”.

Mario Spezi ha avuto ancora una volta ragione contro la procura di Perugia, scrive Franca Selvatici su "La Repubblica" il  27 ottobre 2006. Il giornalista e scrittore Mario Spezi ha avuto ancora una volta ragione contro la procura di Perugia. Ieri la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero Giuliano Mignini contro la decisione del tribunale del riesame che il 28 aprile scorso aveva rimesso in libertà il giornalista. Spezi era stato arrestato il 7 aprile per calunnia e depistaggio delle indagini sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, che la procura di Perugia ritiene collegata con i delitti del mostro di Firenze e per la quale ha messo sotto inchiesta diverse persone fra cui lo stesso Spezi. Il giornalista era rimasto in carcere 23 giorni, poi il tribunale del riesame aveva annullato in radice la misura cautelare, ritenendo insussistenti gli elementi alla base delle accuse di calunnia e depistaggio. Secondo la procura di Perugia, Spezi sarebbe uno dei mandanti dei delitti del mostro e dell’omicidio di Francesco Narducci, e per tale motivo avrebbe ingaggiato una lotta senza quartiere contro le indagini del pm Mignini e del poliziotto-scrittore Michele Giuttari, fino al punto da seminare falsi indizi a favore della pista sarda. Ma il tribunale del riesame rilevò che Spezi credeva fermamente nella sua fonte, che non gli erano stati trovati oggetti collegabili al mostro, né erano stati acquisiti indizi tali da far supporre che volesse disseminare tracce di reato a carico di un operaio sardo da lui ritenuto responsabile dei delitti. In sostanza i giudici del riesame riconobbero che Spezi cercava prove a favore della sua tesi, e non cercava di costruirne di false. Contro la scarcerazione di Spezi, il pm Mignini si era appellato alla Cassazione. Ma ieri la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché motivato in fatto e non in diritto, come hanno sostenuto gli avvocati di Spezi, Sandro Traversi e Nino Filastò, e anche il procuratore generale. Le conseguenze sono di due tipi. Da un lato il pm Mignini può mandare avanti l’indagine su Spezi. Dall’altro, però, l’ordinanza del riesame diventa definitiva, il che significa che i 23 giorni di detenzione subìti da Spezi sono illegittimi. E a questo punto il giornalista-scrittore ha la ferma intenzione di chiedere il risarcimento per l’ingiusta detenzione.

Giovanni Terzi. Tangenti all’urbanistica, dopo otto anni finisce incubo per assessore Terzi, scrive "Il Corriere della sera" il 3 febbraio 2006. Ci sono voluti otto anni, ma per Giovanni Terzi l’angoscia è finita. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura di Milano contro la sentenza di assoluzione del consigliere comunale azzurro. Terzi era stato arrestato insieme ad altre sei persone per una vicenda di presunte tangenti pagate in relazione a un intervento edilizio a Bresso. “Nel 1998 – racconta Terzi – la Cassazione aveva già stabilito che non dovevano esserci arresti in quanto non c’era né corruzione né falso. Aspettare otto anni per vedere conclusa una simile esperienza credo sia troppo”. Detto questo, il consigliere comunale dice di “avere avuto la fortuna di incontrare giudici coraggiosi che hanno saputo ascoltare la mia tesi difensiva senza pregiudizi”. Il rammarico resta: “In questi anni mio padre per il dolore si è ammalato ed è morto. Purtroppo, non è una mia interpretazione”. Terzi si dice anche “sconcertato” per la candidatura dell’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio: “Mi pare una scelta inopportuna, e anche autolesionista: adesso proprio nessuno potrà più nutrire dubbi sulla politicizzazione di una certa parte della magistratura”. Per l’avvocato di Terzi, Jacopo Pensa, “ogni volta che la vicenda è stata esaminata con animo sgombro da pregiudizi, le sentenze sono state favorevoli. Come in questo caso”.

Arrestato 3 mesi nel 1998. Condannato in Tribunale a 2 anni e mezzo, scrive Luigi Ferrarella su "Il Corriere della Sera" l'1 giugno 2005). Ma ora assolto in Appello, nel merito dall’ accusa più grave e per prescrizione dal resto. Finisce così il processo a Giovanni Terzi, il consigliere comunale milanese di Forza Italia che da assessore all’ Urbanistica di Bresso era accusato di essersi fatto corrompere nel 1997 dagli imprenditori Angelo Igino e Valter Bottani per il progetto di riqualificazione del centro urbano di Bresso. Ieri la seconda Corte d’ Appello (due ex pm, Marcelli e Spina, presieduti da Marta Malacarne), ha rivoluzionato il primo verdetto. La corruzione, che l’accusa individuava in un’asserita «fittizia» consulenza tra i Bottani e l’architetto Michele Ugliola per far arrivare 100 milioni a Terzi, al pari del falso ideologico è liquidata da una secca assoluzione sia di Terzi (difeso da Daniela Mazzocchi) sia dei Bottani «perché il fatto non sussiste» (il paradosso è che Ugliola patteggiò). Assoluzione confermata per Roberto Almagioni (difeso da Francesco Isolabella). E la vettura Chrysler «prestata» dai Bottani a Terzi? Qui i difensori dei Bottani (2 anni in primo grado), Lorenzo Crippa, Alessandro Pistochini ed Ennio Amodio, hanno dimostrato che corretta fu la procedura urbanistica e dovuto l’atto d’ ufficio compiuto da Terzi. L’ auto è così diventata una corruzione impropria susseguente, cioè una sorta di «regalìa» al pubblico ufficiale ma a cose già fatte e regolari, per la quale la legge punisce non i privati (Bottani assolti) ma solo il pubblico ufficiale Terzi, soccorso però dalla prescrizione dopo 7,5 anni: «Credevo nella giustizia – commenta – ma, fosse arrivata prima, avrebbe evitato una morte eccellente: mio padre si è ammalato per questa storia». Pure arrestati nel ‘98, sono assolti anche il segretario comunale di Bresso, Ezio Lopes, e il costruttore Gabriele Sabatini: «non sussiste» l’ipotizzato prezzo di favore su una casa .

L’ultima beffa a Gava: risarcito per l’arresto appena dopo la morte, scrive Stefano Zurlo su Il Giornale 12 agosto 2008. Dicono che il tempo sia galantuomo. Con lui no, è arrivato troppo tardi. Antonio Gava, morto l’8 agosto, era fuori gioco dal marzo ’93 quando contro di lui fu scoccato un avviso di garanzia per camorra. «Un paio di giorni prima della fine – racconta il figlio Angelo – gli ho dato la notizia che i giudici avevano stabilito un risarcimento di circa 200mila euro per l’ingiusta detenzione subita. Ma ormai stava male, malissimo, non so cosa abbia percepito». Duecentomila euro per i sei mesi trascorsi agli arresti domiciliari, fra il settembre 94 e il marzo ’95, schiacciato dall’accusa di aver tramato in modo obliquo con il clan degli Alfieri. La corte d’assise dopo un processo trascinatosi per anni e anni l’aveva assolto; la corte d’assise d’appello a dicembre 2006 aveva confermato il verdetto e la Procura generale di Napoli non se l’era sentita nemmeno di tentare la strada della Cassazione. Morte per impaludamento di un’ipotesi accusatoria nata fra squilli di tromba. «Credo – prosegue il figlio – che quello sia stato il momento più alto per mio padre, dopo la lunga stagione delle umiliazioni e delle accuse più inverosimili». Tredici anni nelle aule di giustizia per ritrovare un posto nella società e un copione simile a quello srotolato per altri big della Dc, a cominciare da Giulio Andreotti: l’avviso di garanzia, modellato sulle tesi della Commissione antimafia di Luciano Violante, una manciata di pentiti pronti a descrivere collusioni e intrecci perversi, un processo evaporato lentamente. Ora, forse, la storia della Dc la scriveranno gli storici. Delle grandi indagini condotte a partire dal 92-93 dai pm più agguerriti d’Italia, resta ben poco. Così come non rimane molto dei chilometrici capi d’accusa costruiti contro Andreotti. «Siamo contenti – riprende Angelo Gava – unicamente del riconoscimento di un principio, anche se a distanza di tanto tempo niente ci può ripagare dell’amarezza che abbiamo dovuto sopportare. Pensi che i magistrati sono arrivati a chiedergli se era vero che fosse ammalato di tumore e lui non sapeva di avere questa malattia. Pensi che fu interrogato a forza dai magistrati, contro il parere dei medici, mentre era ricoverato dopo un infarto in un centro di riabilitazione». Frammenti di quell’Italia che ha combattuto con inusitata ferocia nella prima metà degli anni Novanta la battaglia, pure sacrosanta, per la legalità. «La verità cammina con passo normale, mentre le bugie volano», ha riassunto ai funerali Arnaldo Forlani, un altro big travolto da Mani pulite e finito sul ring di un Di Pietro con la bava alla bocca. Oggi, fra prescrizioni, assoluzioni e sentenze all’italiana da cui ciascuno estrae la sua verità, quel periodo sembra davvero finito. «Ma devo dire – spiega l’avocato Eugenio Cricrì – che le accuse erano davvero inconsistenti, generiche, vaghe. Si faceva riferimento a rapporti con persone che lui nemmeno conosceva. Gava è sparito dalla vita del Paese nel ’93 e non è mai più tornato. Non c’è stato il tempo e poi ormai l’Italia era cambiata». La giustizia ha restituito qualcosa. Prima centosessantamila euro per la lunghezza del procedimento, andato avanti per tredici anni; poi altri duecentomila euro per l’ingiusta detenzione. Ma la contabilità degli euro non basta per capire cosa è successo in Italia quindici anni fa e per descrivere il passaggio traumatico dalla Prima alla Seconda repubblica. La storia dei Gava – non solo l’ex ministro degli Interni Antonio, ma anche il padre Silvio, fra i fondatori del Partito popolare, morto quasi centenario nel ’99 – si chiude così. Antonio Di Pietro prova a congelare la cronaca: «Non era ancora morto – ha scritto sul suo blog – che in molti lo hanno già dichiarato santo, una vittima della stagione del giustizialismo». Quasi a sottolineare che invece, come ha scritto Marco Travaglio, il processo «era doveroso e le accuse concrete e documentate». Cricrì nota però altri sentimenti, anche dalle parti dell’opposizione: «C’è stata la corsa a riabilitarlo anche da parte degli avversari, come se volessero farsi perdonare la durezza, spropositata, del ’93 e del ’94. Le parole di molti esponenti della sinistra mi hanno colpito così come la decisione del sindaco di Castellammare di Stabia, un esponente del Pd, di inviare il gonfalone alle esequie per onorare il concittadino». Enzo Scotti, pure riemerso da una lunga eclissi e da un nugolo di processi, oggi sottosegretario nel governo Berlusconi, parla di Gava come di uno dei giganti della storia democristiana del dopoguerra: «Ha subito insieme ad Andreotti accuse devastanti e le ha sopportate con grande dignità. Mi ha toccato la sua sconvolgente serenità quando l’ho sentito al telefono, il giorno prima della morte. Lo chiamavano il viceré, ma la lotta alla mafia è cominciata quando lui era al Viminale. Sarà la storia a portare via le ombre e i sospetti».

Ravenna, morti sospette in ospedale: assolta l'ex infermiera Daniela Poggiali. L'imputata in primo grado era stata condannata all'ergastolo per l'omicidio di una sua paziente 78enne. Decisiva una nuova perizia. La donna esulta alla lettura della sentenza. Uscita dal carcere ha detto: "Mi riprendo in mano la mia vita", scrive il 7 luglio 2017 "la Repubblica". Dopo quasi tre anni di carcere, è libera. La Corte di assise di appello di Bologna ha assolto, perché il fatto non sussiste, Daniela Poggiali, 45 anni, ex infermiera alla sbarra per l'omicidio di una sua paziente 78enne, Rosa Calderoni, all'ospedale di Lugo, nel ravennate. L'imputata in primo grado fu condannata all'ergastolo a Ravenna perché riconosciuta colpevole di avere iniettato una dose letale di potassio all'anziana. La donna ha accolto la sentenza in suo favore esultando, le sorelle e l'ex compagno sono scoppiati a piangere. I due figli della vittima si erano invece allontanati dall'aula mezz'ora prima della pronuncia per la tensione emotiva accumulata. Poco più tardi, all'uscita per l'ultima volta dal carcere bolognese della Dozza, la donna ha commentato: "Mi hanno dipinto per quello che non sono, e adesso mi riprendo in mano la mia vita". Il caso di Daniela Poggiali era scoppiato il 9 ottobre 2014, quando i carabinieri sono entrati nella sua casa di Giovecca di Lugo per portarla in carcere. Attorno alla donna, sospettata per il decesso di Rosa Calderoni avvenuto l'8 aprile di quello stesso anno, in breve tempo è cresciuta un'indagine giudiziaria che l'ha portata ad essere sospettata di decine di morti nei suoi anni di lavoro.

CONDANNA IN PRIMO GRADO. L'ex infermiera è poi stata condannata all'ergastolo in primo grado per la morte della paziente 78enne. Durante il processo, il magistrato aveva fatto riferimento anche a tutti i furti (70-80 all'anno) verificatisi nel reparto della Poggiali, quello di Medicina, quando lei era in servizio. E soprattutto alle numerose morti sospette sempre in sua presenza (che comunque non rientravano in questo processo). Senza contare, infine, le foto che la ritraggono mentre fa delle smorfie accanto a un'altra paziente appena morta. Quando il presidente della corte d'assise, Corrado Schiaretti, aveva letto il verdetto, la Poggiali aveva abbassato gli occhi e scosso la testa, prima di essere riportata nel carcere di Forlì. La procura aveva chiesto la massima pena più l'isolamento diurno per un anno e mezzo, che è stato invece escluso, come l'aggravante dei motivi abbietti. Alla base della condanna in primo grado invece c'erano sono la premeditazione e l'uso del mezzo venefici. Una donna "fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso", aveva scritto il giudice di Ravenna. Successivamente la Procura di Ravenna le aveva notificato l'avviso di conclusione indagini per il decesso di Massimo Montanari, 95 anni, morto il 12 marzo 2014 nel reparto dove lavorava la donna in circostanze sospette.

ASSOLUZIONE IN APPELLO. A inizio di quest'anno è iniziato il processo di appello a Bologna, sospeso per una nuova perizia, riportata da L'Espresso, richiesta dai giudici per far luce su cosa sia veramente accaduto la mattina di quell'8 aprile di tre anni fa in ospedale. Perizia che è stata decisiva. Ora la procura potrà fare ricorso in Cassazione. Intanto Daniela Poggiali, in carcere da ottobre 2014, è libera e potrà tornare subito a casa. "Questi ribaltamenti processuali ripetuti sono espressione del fatto che in questa fase storica nella giurisprudenza italiana convivono espressioni culturali diverse", il commento dell'avvocato Luca Valgimigli, uno dei due difensori di Daniela Poggiali. Il legale cita, tra gli altri, i controversi casi degli omicidi di Meredith Kercher, uccisa a Perugia l'1 novembre 2007, e di Chiara Poggi, assassinata a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. L'altro difensore, Stefano Dalla Valle, ha parlato di "sentenza importante per il presupposto giuridico forte per il contesto scientifico nel quale è maturata la decisione dei giudici".

"EVITATO ERRORE CLAMOROSO". "Oggi si sono poste le condizioni per evitare un clamoroso errore giudiziario". L'avvocato Guido Magnisi, difensore dell'ex primario di Medicina Interna dell'ospedale di Lugo, Giuseppe Re, commenta così la sentenza di assoluzione per Daniela Poggiali. Il medico, infatti, è in udienza preliminare a Ravenna, imputato "per dolosamente non aver impedito un evento", cioè l'omicidio volontario addebitato a Poggiali, "che si aveva l'obbligo giuridico di impedire", ricorda il difensore. In questi casi, secondo una norma "di rarissima applicazione, non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo". Per l'avvocato Magnisi "già il dato era paradossale, perché non si vede come un soggetto possa impedire un evento omicidiario operato da un altro soggetto senza movente alcuno, non si vede come lo possa impedire, in base a quale obbligo giuridico, e come lo possa prevedere. Ma - prosegue - alla luce della sentenza odierna, l'insussistenza assoluta del fatto omicidio dimostra che la povera Calderoni è, come dimostrato in maniera incontrovertibile dalla perizia, deceduta per morte naturale. Sicché Re oggi sarebbe imputato di omicidio volontario per non aver impedito la morte naturale di una paziente... Credo - conclude - che forse solo a Dio demiurgo e all'Ente supremo si possa chiedere di impedire la morte naturale di una persona".

"Non uccise la paziente" Assolta l'infermiera (che urla di gioia in aula). Era accusata della morte di un'anziana I giudici: «Il fatto non sussiste, subito libera», scrive Andrea Acquarone, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Era entrata quasi di «diritto» nel novero dei mostri. Provocante, sfrontata, irriverente di certo antipatica. Altrettanto censurabile. Non fosse altro per i selfie in cui si ritraeva sghignazzante accanto a una sua anziana paziente appena morta. Un macabro luccichio negli occhi, un sorriso beffardo anche quel 9 ottobre 2014, giorno in cui l'arrestarono con accusa di essere un'assassina seriale. Secondo la Procura aveva ucciso decine di degenti terminali. Rubando persino soldi e preziosi a malati ormai inermi. Un malvagio «angelo» della morte, insomma. E una ladra. Lei è Daniela Poggiali, oggi 46 anni, all'epoca infermiera dell'ospedale «Umberto I» di Lugo, nel Ravennate. Nel marzo 2016 si vide appioppare l'ergastolo. Ma in aula non si erano riuscite a dimostrare altre morti se non quella di una settantottenne, Rosa Calderoni, secondo l'accusa, uccisa con un'iniezione di cloruro di potassio. Una sostanza utilizzata nelle flebo, in quantità ridottissime. Un poco di più e diventa letale. Poi nel giro di qualche giorno, nemmeno un esame autoptico, ne rinviene traccia. Gli investigatori ipotizzarono che la Poggiali, tra il 2012 e il '14, avesse fatto fuori in questo modo «silenzioso» addirittura una novantina di malati. Sospetti, evidentemente, senza prove. E ieri il colpo di scena: i giudici della corte d'appello di Bologna, l'hanno assolta. Ribaltando la sentenza di primo grado «perché il fatto non sussiste». Era presente in aula Daniela, meno altezzosa del solito. E alla fine quasi in lacrime. Stavolta di felicità. «Sì, sì», ha urlato. Si era sempre proclamata innocente, del resto. Solo un'ammissione aveva fatto, a proposito di quelle foto oscene: «Lì ho sbagliato, lo ammetto- disse a giudizio-. Però devo dire un paio di cose: l'iniziativa non è stata mia ma di una collega che le ha scattate. E poi mai avrei immaginato che girassero... Era un cosa privata tra me e lei. Comunque un errore». «Daniela è stata vittima di una serie di pregiudizi che riguardavano alcuni tratti della sua personalità complessi e obiettivamente controversi». Aspetti che però «non avrebbero dovuto legittimare questo contagio collettivo che ha indotto a rinvenire in lei un soggetto potenzialmente criminogeno», commenta adesso, quasi con tono di rimprovero, il suo avvocato Lorenzo Valgimigli. I togati, prosciogliendola, hanno disposto anche l'immediata liberazione della bionda infermiera. «Probabilmente - osserva ancora il legale - questi ribaltamenti processuali sono espressione di un fenomeno culturale all'interno della giurisprudenza italiana dove ci si confronta, appunto, su opzioni culturali diverse che riguardano i diversi standard probatori che occorre conseguire per poter condannare o prosciogliere». Un giorno di gioia per imputata e difesa. Che non è detto, però, duri a lungo. La possibilità che la Procura faccia ricorso contro la sentenza è più che probabile. Nel frattempo Daniela tenterà una nuova vita. Come e dove è difficile da prevedere. Accanto, ha un compagno, che davanti ai giudici l'ha sempre protetta: «È una donna che ama il suo lavoro, sempre flessibile nell'accettare turni disagiati, come per esempio quelli notturni, una che andò a lavorare anche quando fu colpita da una brutta malattia. Quando sarà finita questa storia ci sposeremo», aveva ripetuto alla Corte Luigi Conficconi. Parole proferite un anno fa, prima della condanna. Ora si vedrà. Ben diverso l'umore della famiglia della «non più vittima», Rosa Calderoni. «Il fatto di avere avuto due verdetti diametralmente opposti - spiega l'avvocato di parte civile - lascia un profondo senso di amarezza, incertezza su cosa sia successo. Un malessere molto difficile da metabolizzare».

Infermiera di Lugo, assolta in appello dopo la perizia shock. In primo grado era stata condannata all'ergastolo. Oggi, dopo i dubbi emersi dalla perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta, è arrivata la sentenza, scrive Alessandro Cicognani il 4 luglio 2017 con Aggiornamento del 7 luglio 2017 su "L'Espresso". La Corte di assise di appello di Bologna ha assolto perché il fatto non sussiste Daniela Poggiali, 45 anni, ex infermiera alla sbarra per l'omicidio di una sua paziente 78enne all'ospedale di Lugo, nel ravennate. Da quasi tre anni l’ex infermiera di Lugo Daniela Poggiali guarda la vita scorrerle davanti attraverso le sbarre di una prigione, contando i giorni di una pena senza fine. Da venerdì scorso le cose attorno a un caso giudiziario che ha sconvolto l’Italia sono però mutate drasticamente. La perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta per cui la Poggiali è stata finora condannata (in primo grado) all’ergastolo ha posto per la prima volta un dubbio importantissimo: quella paziente potrebbe essere morta anche per cause naturali. Il caso di Daniela Poggiali scoppia il 9 ottobre del 2014. Sono le sette di sera e fuori il sole sta per tramontare, quando i carabinieri entrano nella sua casa di Giovecca di Lugo, mettendole le manette ai polsi e portandola in carcere. Attorno alla donna, sospettata per il decesso della paziente Rosa Calderoni avvenuto l’8 aprile di quello stesso anno, in breve tempo cresce un’indagine giudiziaria che la porta ad essere sospettata di decine di morti nei suoi anni di lavoro. La vita di Daniela Poggiali si sgretola poco a poco, anche per via di quelle note fotografie nelle quali l’infermiera era ritratta in gesti irrisori al fiano di una donna deceduta. Prima perde il lavoro e poi nel marzo dell’anno scorso, dopo mesi di processo, arriva per lei la sentenza più dura: il carcere a vita per aver ucciso Rosa Calderoni con una dose letale di potassio. Fine pena mai. Il giudice di Ravenna Corrado Schiaretti nelle motivazioni arriverà a descriverla come una donna “fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso”. A inizio di quest’anno è iniziato il processo di appello a Bologna, sospeso per via di una nuova perizia richiesta direttamente dai giudici per far luce su cosa sia veramente accaduto la mattina di quell’otto aprile di tre anni fa in ospedale. Oggi, a oltre un anno da quella condanna e con un nuovo processo ancora tutto da giocare, i tre periti nominati dai giudici hanno detto la loro, mettendo per la prima volta in dubbio l’omicidio. In oltre settanta pagine gli esperti Gilda Caruso, docente di patologia cardiovascolare dell’università di Bari, Mauro Rinaldi e Giancarlo Di Vella, rispettivamente docenti di cardiochirurgia e di medicina legale dell’università di Torino, danno conto dei due mesi di analisi svolte sul caso Poggiali-Calderoni. Ma andiamo per gradi tra le pieghe di un documento che, giovedì e venerdì, sarà sicuramente alla base di una lunga battaglia in aula tra il procuratore generale Luciana Cicerchia e gli avvocati dell’ex infermiera Lorenzo Valgimigli e Stefano Dalla Valle. 

La causa del decesso della paziente. Rosa Calderoni morì per cause naturali? Questa è la prima domanda su cui hanno dovuto dare risposta i periti, secondo cui «in definitiva tutti i riscontri, clinici e laboratoristici, non hanno consentito di identificare una singola causa patologica naturale, a insorgenza acuta, idonea a cagionare, con certezza e alta probabilità, la morte della paziente. Deve osservarsi – aggiungono – che Rosa Calderoni fosse portatrice di un insieme di patologie croniche e che qualunque fattore endogeno o esogeno avrebbe potuto determinarne lo scompenso». Una risposta aperta a più soluzioni dunque, ma che per la prima volta apre le porte anche a una probabile causa naturale per la morte di quella paziente di 78 anni. 

Il potassio come strumento per uccidere. Vi è stata una indebita somministrazione di potassio alla paziente? Una seconda domanda, su cui gli esperti hanno risposto ponendo ancora una volta un dubbio. Stando ai professori il quadro clinico della Calderoni era «solo in parte compatibile con l’iperkaliemia (eccesso di potassio nel sangue ndr) a concentrazioni letali». In primo grado, su questo punto, fu fondamentale la testimonianza della figlia di Rosa Calderoni, che ricordò come la mattina di quell’8 aprile del 2014 l’ultima infermiera a entrare nella stanza di sua madre per somministrarle le cure fu proprio Daniela Poggiali. L’ex infermiera stette all’interno della stanza per 5-10 minuti, ma proprio su questo punto emergono nuovi elementi sottolineati dai periti. La paziente quella mattina aveva infatti due accessi venosi, uno al piede e l’altro alla giugulare. Secondo Carusi, Rinaldi e Di Vella «la somministrazione rapida e letale di potassio sarebbe stata possibile solo dalla giugulare», ma questa «avrebbe dovuto causare l’arresto cardio-respiratorio nelle immediatezze dell’infusione». La Calderoni morì invece 60 minuti dopo. La somministrazione nel piede, ritenuta però impraticabile, al contrario avrebbe causato forti dolori, mai accusati dalla paziente. 

Il dibattito sul metodo Tagliaro. Il potassio è sempre stato, fin dal primo giorno, l’elemento cardine del processo a Daniela Poggiali. Secondo gli inquirenti fu proprio usando l’effetto potenzialmente killer della sostanza che l’infermiera tolse la vita a quella paziente di 78 anni. La conferma, allora, arrivò dall’analisi dell’umor vitreo della donna, nel quale il consulente dell’accusa professor Franco Tagliaro trovò valori «sballati» di potassio a 56 ore dal decesso. Anche i periti dei giudici hanno potuto analizzare il reperto, giungendo però a conclusioni che, ancora una volta, pongono diversi dubbi su tutto il caso. Dopo aver ricordato che sulla concentrazione di potassio influiscono decine di fattori, tra cui età, stato di salute (il diabete mellito, come tra l’altro aveva Rosa Calderoni, può alterare i valori di base), temperatura del corpo e che in letteratura non c’è consenso unanime su quale sia l’equazione più affidabile per il calcolo della presenza di potassio nell’organismo umano, anche per via dell’alto margine di errore, i professori hanno preso atto che «il potassio rinvenuto risulta superiore al valore atteso, ma limitatamente al campione di riferimento e alla metodologia di indagine usata». Ossia il noto metodo Tagliaro più volte contestato dalla difesa.

Il depistaggio sul prelievo di sangue. Un altro punto fondamentale dell’inchiesta, riguardava la nota emogasanalisi delle 9 del mattino di quel tragico 8 aprile eseguita su Rosa Calderoni. Secondo l’accusa quell’esame, che mostrava valori della paziente nella norma, non era veritiero in quanto la Poggiali avrebbe sostituito le sacche di sangue per evitare di essere scoperta. Secondo i periti quel sangue è invece «compatibile con il quadro clinico della paziente». Tradotto: nessun depistaggio.

Le cartelle cliniche. L’ultimo interrogativo posto dai giudici d’appello riguardava invece la presenza in reparto di una paziente sottoposta a cure a base di potassio. Dall’esame delle cartelle cliniche, stando ai tre esperti, in quei giorni una donna era «sottoposta a terapia endovenosa con potassio in pronto soccorso» per una grave ipokaliemia.  Sei quesiti precisi e dettagliati, a cui sono seguiti risposte che, aprendo di fatto le porte a una possibile morte naturale di Rosa Calderoni, hanno portato un dubbio pesantissimo all’interno del processo. E venerdì, giorno decretato per la sentenza di appello, Daniela Poggiali avrà la risposta che attende: conferma della colpevolezza oppure no?

Biografia di Pier Paolo Brega Massone.

• Stradella (Pavia) 18 luglio 1964. Medico. Capo dell’équipe chirurgo-toracica della clinica Santa Rita di Milano, la “clinica degli orrori”. Arrestato il 9 giugno 2008 con l’accusa di omicidio aggravato dalla crudeltà. L’ordinanza del giudice Micaela Curami «lo dipinge più che come un dottore come un procacciatore d’affari. Un business man col camice bianco alla caccia di soldi per il proprio reparto, pronto ad usare il bisturi anche quando non ce n’era bisogno, pur di incrementare i rimborsi da chiedere al sistema sanitario nazionale» (Walter Galbiati ed Emilio Randacio). Scarcerato nel novembre del 2009, tornò in cella nell’aprile 2010, quando la Cassazione rigettò il ricorso del difensore. Condannato a 15 anni e mezzo di carcere dai giudici della Corte d’appello di Milano nel marzo 2012. Nel giugno 2013 la Cassazione annullò la sentenza di secondo grado chiedendo a una nuova sezione della Corte d’appello di Milano di ricalcolare la pena inflitta all’ex chirurgo in quanto alcuni reati contestati erano caduti in prescrizione. Il 6 novembre 2013, nell’appello bis, arrivò la conferma della condanna già inflitta in secondo grado a 15 anni e mezzo di carcere per lesioni ai danni di un’ottantina di pazienti, falso e truffa al servizio sanitario nazionale. «Per l’accusa, l’ex primario avrebbe eseguito interventi inutili e “ritoccato” le cartelle cliniche dei malati allo scopo di gonfiare i rimborsi per le prestazioni da parte della Regione. Ma, in seguito alla decisione della Suprema Corte, e prima dell’appello bis, la procura generale di Milano, ritenendo la sentenza definitiva per la parte in cui non era stata annullata, ha emesso un ordine di carcerazione». Proprio quest’ordine di carcerazione fu contestato dalla difesa in quanto il verdetto non era ancora passato in giudicato. I legali chiesero la revoca del provvedimento restrittivo tramite un «incidente di esecuzione» dichiarato però infondato dalla sezione feriale della Corte d’appello milanese. Quest’ultima decisione fu di nuovo impugnata davanti alla Cassazione che diede ragione ai legali di Brega Massone, bocciando sia l’ordinanza della sezione feriale sia l’ordine di carcerazione (Corriere della Sera 15/1/2014). Così il 14 gennaio 2014 è uscito dal carcere, in attesa che la Cassazione pronunci l’ultima parola dopo il ricorso dei suoi legali all’appello bis.

• È imputato anche in un secondo processo in cui deve rispondere di quattro omicidi e altri casi di lesione.

• «È figlio d’arte. La passione per il bisturi l’ha ereditata dal padre adottivo, uno stimato chirurgo dell’Oltrepò Pavese, molto noto a Stradella e a Broni dove aveva pazienti che gli erano affezionati. Morto il padre, Pier Paolo Brega Massone è diventato il loro punto di riferimento. Se serviva un ricovero, di qualsiasi tipo, il chirurgo era sempre pronto a trovare un letto a Milano. Alla Santa Rita, naturalmente. E sono proprio loro, i pazienti dell’Oltrepò pavese, a difenderlo a spada tratta. “Ci deve essere un errore – dicono in molti – per noi è un bravo medico, la verità verrà a galla”. Pier Paolo Brega Massone, laureato a Pavia, dove ha fatto la specialità in Chirurgia al Policlinico San Matteo, si è costruito una carriera tutta basata su una robusta mole di lavoro. All’Istituto dei tumori di Milano, dove ha lavorato tra il 2000 e il 2003, con contratti da borsista e da collaboratore, e dunque da precario, i colleghi del reparto di chirurgia toracica, parlano di lui come il medico armato di “turbo-bisturi”» (Laura Asnaghi). GIORGIO DELL’ARTI su "Il Corriere della Sera", scheda aggiornata al 22 gennaio 2014

Clinica Santa Rita, 15 anni per Brega Massone nel processo bis. Ergastolo annullato: “Omicidi preterintenzionali”. Il chirurgo della cosiddetta "clinica degli orrori" era stato condannato al carcere a vita nel primo processo poi annullato dalla Cassazione. La Procura generale aveva chiesto comunque il "fine pena mai" ma la richiesta non è stata accolta dalla Corte d'appello di Milano. La moglie del medico scoppia in lacrime: "Ora vediamo la luce, mio marito non è un mostro", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 ottobre 2018. E’ stato condannato a 15 anni di carcere Pier Paolo Brega Massone, l’ex chirurgo toracico della Clinica Santa Rita, nel processo bis davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano, con al centro la morte di 4 pazienti, avvenuta in quella che i giornali chiamarono la “clinica degli orrori”. L’ex braccio destro di Brega Massone, Fabio Presicci, imputato per due dei decessi, è stato condannato a 7 anni e 8 mesi. I giudici hanno riformulato l’accusa per i due in omicidio preterintenzionale, riducendo dunque la pena. A Brega Massone erano già stati inflitti in via definitiva 15 anni e mezzo di carcere per truffa. “Ora vediamo la luce” ha detto la moglie del chirurgo, Barbara Magnani che è scoppiata a piangere dopo la lettura del dispositivo. La Magnani ha aggiunto di non avere creduto che il marito fosse “un mostro” e di non avere mai perso la “speranza nella giustizia” anche se “la paura era fortissima”. “Credo che negli altri Stati europei non esistano pene così severe per i medici – ha aggiunto -, sarebbe il caso che qualcuno ci riflettesse”. Rendendo dichiarazioni spontanee la scorsa udienza, Brega Massone aveva detto: “Mi dispiace per tutto quello che è avvenuto e chiedo scusa a tutte le persone che hanno molto sofferto, non era mia volontà. Ora posso solo chiedere di rivedere la luce, poter essere utile e stare con la mia famiglia”. Oltre ad avere riformulato l’accusa da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale, i giudici hanno escluso l’aggravante del “fine di lucro” e hanno riconosciuto le attenuanti generiche. Il sostituto pg Massimo Gaballo aveva chiesto la conferma dell’ergastolo per Brega Massone e 21 anni di carcere per Presicci per omicidio volontario. Riteneva che le morti contestate erano frutto di “un modus operandi seriale” dell’ex chirurgo e che i “decessi erano altamente probabili” in quanto conseguenza di operazioni “ad alto rischio morte” dei pazienti. A perdere la vita per via delle operazioni condotte da Brega furono Giuseppina Vailati, 82 anni, Maria Luisa Scocchetti, 65 anni, Gustavo Dalto, 89 anni, e Antonio Schiavo, 85 anni. Tutti anziani portati, secondo l’accusa, in sala operatoria senza alcuna giustificazione clinica per interventi “inutili” effettuati al solo fine di “monetizzare” i rimborsi del sistema sanitario nazionale per la clinica convenzionata. Una prima sentenza era stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione. Nel processo principale, infatti, fino all’appello del dicembre 2015, Brega Massone era stato condannato all’ergastolo per l’accusa di omicidio volontario plurimo (e per questo Presicci aveva avuto una pena di 24 anni e 4 mesi). Per i supremi giudici però non erano stati “omicidi dolosi” o comunque che non era motivata in modo sufficiente la volontarietà.

Brega Massone non è più il mostro, annullato l’ergastolo. Brega Massone è stato condannato a 15 anni, mentre Fabio Presicci si è visto ridurre la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi, scrive Simona Musco il 20 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Pierpaolo Brega Massone e Fabio Presicci non entravano in sala operatoria accettando l’eventualità di uccidere i propri pazienti. Lo hanno stabilito ieri i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano, riqualificando il reato a carico dell’ex chirurgo toracico della Clinica Santa Rita e del suo vice da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. I due erano accusati di omicidio volontario in relazione alla morte, rispettivamente, di quattro e due pazienti in sala operatoria. Brega Massone è stato condannato a 15 anni, mentre Presicci si è visto ridurre la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi. A giugno dello scorso anno la Cassazione aveva messo tutto in dubbio, annullando con rinvio la condanna all’ergastolo pronunciata nel primo processo d’appello il 21 dicembre 2015: per i giudici non si può parlare di dolo per le vittime, uccise, secondo i pm, da “interventi inutili”, effettuati solo per “monetizzare” i rimborsi del sistema sanitario nazionale. Un concetto che il procuratore generale Massimo Gaballo ha ribadito anche nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo la conferma dell’ergastolo per Brega Massone e la riduzione da 25 a 21 anni per Presicci, al quale aveva riconosciuto le attenuanti generiche. Secondo Gaballo, c’era una “assoluta carenza di finalità terapeutica degli interventi” finiti al centro dell’inchiesta e gli imputati erano “perfettamente consapevoli di non poter dominare il rischio post operatorio. La morte era una conseguenza prevedibile”. Un’immagine terribile, che è valsa negli anni a Brega Massone la qualifica di “chirurgo killer”. Un ruolo, secondo il suo avvocato, Nicola Madia, che i media «hanno costruito accuratamente», come «un abito su misura, l’abito di un mostro e per questo ha subito un trattamento così severo». L’ex chirurgo toracico, che al momento della lettura della sentenza non era in aula, sarebbe invece soltanto un «fanatico della chirurgia» che avrebbe pagato la sua “ambizione”. Brega Massone sta scontando un’altra condanna definitiva a 15 anni e mezzo per truffa e lesioni nei confronti di un’altra ottantina di pazienti. Accusa, quest’ultima, dalla quale continua a professarsi innocente. La sentenza di ieri ha escluso anche l’aggravante del nesso teleologico, ovvero «la finalità di lucro» degli interventi eseguiti dai medici imputati, condannati a risarcire le parti civili. «Sono felicissimo», ha confidato al telefono alle persone a lui vicine l’ex chirurgo. «È una sentenza che mi emoziona, ora vediamo la luce», ha aggiunto la moglie Barbara Magnani, che ha assistito a tutte le udienze. «Non l’ho mai abbandonato – ha aggiunto, è difficile per me parlare oggi. Non ho mai creduto che fosse un mostro e non ho mai perso la speranza nella giustizia, anche se la paura era fortissima». Assente alla lettura del dispositivo anche Presicci, che è stato radiato dall’albo dei medici e ha già pagato il suo conto con la giustizia. L’ex medico era già stato condannato definitivamente a 8 anni e sei mesi di carcere per un’ottantina di lesioni dolose, pena che ha finito di scontare a settembre. «Mi di- spiace aver fatto soffrire involontariamente delle persone commettendo errori – ha commentato all’Agi -. Non ho mai detto di avere sempre fatto tutto bene, ma non ho mai voluto fare del male ai miei pazienti per carpire la loro fiducia e fargli spendere soldi». Dopo due sentenze che ritenevano dimostrato il dolo, la svolta è arrivata con la decisione dei giudici della Cassazione, secondo cui non c’era nessuna prova che Brega Massone abbia accettato l’eventualità della morte di quei pazienti. L’ex chirurgo era dunque stato condannato al carcere a vita nonostante non fosse stata dimostrata la sua volontà di correre il rischio di uccidere i propri pazienti pur di eseguire quegli interventi inutili e dannosi, solo per ottenere i rimborsi garantiti dal sistema sanitario. Una sentenza con la quale la Cassazione aveva chiesto ad una nuova sezione della Corte d’Assise d’appello di Milano di valutare “la qualificazione giuridica dei reati, in termini di omicidio volontario, anziché di omicidio preterintenzionale”, escludendo a priori l’ipotesi dell’omicidio colposo. Parole, quelle degli ermellini, che obbligavano i giudici di merito a dimostrare «” a sussistenza dell’ulteriore elemento psicologico rappresentato dal dolo omicidiario” in relazione ai quattro decessi avvenuti dopo interventi privi “di giustificazione e legittimazione medico– chirurgica”. I giudici del primo appello si erano quindi limitati a elencare una serie di possibili indicatori del dolo eventuale, eludendo “il nucleo fondamentale del ragionamento probatorio– argomentativo”, ovvero la prova della volontà degli imputati di agire comunque di fronte alla probabilità che i pazienti perdessero la vita a causa di quegli interventi. Tanto da parlare di “inadeguatezza del percorso motivazionale” dei giudici d’appello in relazione a questo punto, dovuta al fatto di aver attribuito “una dirimente capacità dimostrativa” agli elementi indiziari correttamente utilizzati per dimostrare la natura dolosa delle lesioni provocate nel corso dell’attività medico– chirurgica, ma che non possono invece “valere di per sé a integrare la prova (anche) della sussistenza dell’elemento psicologico”. Assente, secondo i giudici dell’appello bis.

Santa Rita, Brega Massone. L’orrore che non c’era. Scrive Emanuele Boffi il 18 luglio 2017 su Tempi. Controinchiesta su un caso che fu dipinto con tinte horror dalla nostra stampa e tv. Alcuni ragionevoli dubbi su carte, perizie e soldi che ci portarono a dipingere il chirurgo Brega Massone come un sadico killer in camice bianco. «Clinica degli orrori. Bisturi assassini. I pirati della sanità. Una strage. Decine di morti. Pazienti torturati. Macelleria. Vivisezione. Horror movie. Sala operatoria a cottimo. Mutilava le donne. Tagliare via seni con noncuranza, come si tira un pezzo di polmone a un gatto». E ancora: «Dottor Morte. Mai più chirurghi come lui. Il primario degli orrori. L’odore dell’odio». Queste sono solo alcune delle espressioni virgolettate o dei titoli apparsi sui giornali per raccontare la vicenda della clinica Santa Rita di Milano e del suo primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone, primo medico in Italia, e probabilmente al mondo, ad essere condannato all’ergastolo nell’esercizio delle sue funzioni. Eppure il 22 giugno la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza sancendo che il chirurgo dovrà essere giudicato da un nuovo collegio di Corte d’Assise d’Appello a Milano, non più con l’accusa di omicidio volontario. Una decisione strabiliante, sia perché la Suprema Corte ha ribaltato la condanna all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti dell’aprile 2014 e la sua conferma in appello nel dicembre 2015, sia perché, per la prima volta, la figura di Brega Massone non è stata associata a quella del sadico killer. “Il Dottor Morte della clinica degli orrori”, insomma, non lo era. In attesa di conoscere le motivazioni, qualche considerazione può essere avanzata, non fosse altro per la mastodontica sproporzione con cui il pronunciamento della Cassazione è stato accolto sui nostri giornali – rapidamente relegato nelle notizie di cronaca – a fronte invece della lunga e martellante campagna mediatica con cui il caso fu trattato anni fa, quando faceva da titolo d’apertura a quotidiani, settimanali e tg serali. Fino ad oggi, infatti, a proposito della “clinica degli orrori” ci è stata raccontata una storia senza sfumature, graniticamente monolitica nella sua narrazione, senza alcuna sbavatura non diremo innocentista, ma nemmeno garantista. Se si escludono alcuni articoli apparsi su La provincia pavese e un editoriale pubblicato il 24 giugno 2008 sul Corriere della Sera a firma di Pierluigi Battista (“L’istinto di colpevolezza”) non esiste all’interno del panorama mediatico italiano alcuna voce che abbia osato discostarsi dal grandguignolesco canovaccio dell’horror movie. O meglio, una voce c’è e c’è stata, e qui le si vuole rendere tributo se non altro come esempio di giornalismo d’inchiesta fattuale e non teorematico, basato su prove e carte e non su opinioni, preoccupato di documentare ogni propria affermazione prima di sottoporla al pubblico giudizio. Certo, con una chiave interpretativa precisa che può essere sempre discussa, ma che certamente ha il merito di motivare ogni propria asserzione senza ricorrere all’ipse dixit o all’emotività. Si tratta di E se il mostro fosse innocente? di Giovanna Baer e Giovanna Cracco (edizioni Paginauno), controinchiesta pubblicata nel febbraio 2012 che – come è intuibile dal titolo – cercava di smontare le accuse rivolte a Brega e alla sue équipe. Dopo la pubblicazione del volume, Giovanna Cracco ha proseguito nella sua indagine pubblicando sul sito della rivista Paginauno quelle che lei definisce le sue “controcronache”, dettagliati resoconti delle udienze svolte in tribunale. Cracco, come forse solo gli avvocati e i magistrati del procedimento, può vantare di aver letto tutte le carte dell’accusa e della difesa, le 1.862 pagine di intercettazioni, tutti gli articoli dedicati alla vicenda. «Un lavoro enorme – spiega a Tempi – che ha richiesto tempo e studio. Un lavoro fortemente osteggiato, tanto che qui a Milano siamo riusciti ad organizzare una sola presentazione e solo grazie all’interessamento di Marco Cappato dei Radicali, e fuori città solo grazie all’appoggio dell’Ordine dei medici di Pavia, da sempre assai critico sulle sentenze del tribunale. Non abbiamo mai ricevuto richieste di smentite né querele, tutto ciò che scriviamo è motivato con documenti che sono riportati nel volume o online. È tutto alla luce del sole. Non ci sono gole profonde, non ci sono fonti riservate, è tutto e solo negli atti pubblici. Se non vi fidate di noi, leggeteli e fatevi un’opinione». Il punto attorno cui ruota tutto il ragionamento di Baer e Cracco è che vi sia un ragionevole dubbio a proposito della colpevolezza del chirurgo e degli altri condannati. Per questo è necessario raccontare la vicenda pur per sommi capi, ma a partire da un aspetto su cui la stampa non si è mai per nulla concentrata, eppure fondamentale: un’indagine della commissione Asl su tredici episodi di tubercolosi segnalati in 18 mesi, a partire dal gennaio 2006, alla clinica Santa Rita. A partire da questa indagine e da una segnalazione anonima giunta in procura su un’ipotetica truffa alla Santa Rita ai danni del Sistema sanitario nazionale a proposito dei rimborsi regionali, furono predisposti il sequestro delle cartelle cliniche (inizialmente, non quelle dell’unità toracica dove operava Brega) e le intercettazioni. In base a questo materiale è stato dato il via al processo che poi si è ramificato in due filoni. Nel primo, si è arrivati a sentenza definitiva e Brega è stato condannato a 15 anni e mezzo di carcere per truffa, falso e per una ottantina di casi di lesioni dolose. Il secondo, quello che ha portato all’ergastolo con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e di lesioni dolose per una quarantina di persone, è quello su cui la Cassazione s’è pronunciata di recente.

Eterna carcerazione preventiva. Nel mezzo della vicenda, Brega è stato licenziato dalla Santa Rita e il suo ricorso al Tar per dimostrare la propria estraneità al “contagio da Tbc” non è mai stato discusso nell’udienza fissata per il 19 giugno 2008. Dieci giorni prima, il 9 giugno 2008, fu arrestato con altre quattordici persone: dodici finirono ai domiciliari, Brega e il suo primo aiuto, Fabio Presicci, al carcere di San Vittore. Il Riesame fece cadere l’accusa di omicidio – che poi è tornata in piedi – ma confermò le ipotesi di lesioni dolose e Brega rimase in custodia cautelare – a parte una parentesi di sei mesi – per cinque anni, un’eternità. Comunque la si pensi, risulta difficile non condividere l’osservazione di Cracco e Baer nel denunciare il ricorso alla carcerazione preventiva come fortemente limitante la libertà dell’imputato che, dalla piccola cella di San Vittore, faticava enormemente a organizzare la propria difesa. Oltretutto, le tre condizioni che per legge ne avrebbero motivato la custodia non parevano sottostare. Quando essa fu predisposta, Brega non poteva inquinare le prove perché già ampiamente acquisite; non poteva reiterare il reato perché, non possedendo una sala operatoria, non poteva effettuare operazioni; aveva dimostrato di non volere fuggire, non avendo mai approfittato, nemmeno nei mesi di libertà, di una tale possibilità.

A Brega non furono mai concessi gli arresti domiciliari. Pier Paolo Brega Massone si è sempre dichiarato innocente. Lo ha fatto dal primo giorno in cui gli sono state mosse le accuse, lo ha ripetuto il giorno in cui è stato condannato all’ergastolo, lo dice oggi: «Non ero un serial killer. La mia priorità è sempre stata quella di dare ai pazienti la sicurezza. Ho sempre agito in scienza e coscienza». A scanso di equivoci, è bene sottolineare che il lavoro di Baer e Cracco arriva a imputare al medico una truffa – ma non delle proporzioni per le quali è stato condannato –, ma a criticare fortemente l’impianto accusatorio relativo all’accusa di lesioni dolose e di omicidio volontario. In particolare, secondo le due autrici, è provato che vi sia stato un raggiro in merito ai passaggi di reparto tra acuti e riabilitazione (una truffa amministrativa, che non riguardava la cura dei pazienti) e in merito alla codifica di alcune cartelle relative ai casi di senologia, ma anche in questo caso, si tratta di falso in cartella e non dell’intervento effettuato sulle pazienti.

Il linguaggio sconveniente. Quando la vicenda lo travolge, Brega è uno stimato chirurgo originario del Pavese che ha al suo attivo circa 1.400 interventi come primo operatore, ossia responsabile in sala operatoria, e 371 pubblicazioni scientifiche di cui 169 con primo nome. L’attenzione della procura si concentra su di lui a partire dalle intercettazioni, in cui, secondo l’accusa, si rintraccia il movente: il denaro. Oggi il sistema è cambiato, ma al tempo molte retribuzioni dei medici erano legate in percentuale (tra il 9 e l’11 per cento) al rimborsi dei drg (il sistema di calcolo della spesa attribuito a ogni diverso tipo di operazione) percepito dalla clinica. Poiché nessuno è mai riuscito a dimostrare che Brega fosse un sadico, l’aspetto economico è importante perché spiega, secondo le sentenze, il motivo per cui Brega era spinto a intervenire il più possibile, aumentando i propri guadagni. In effetti, i medici della Santa Rita, compreso Brega, al telefono discutevano animatamente di soldi in relazione agli interventi, ma, contestano Baer e Cracco, parlarne non significava ammettere che si operava “solo e soltanto” con questo fine, negando quello medico. Il linguaggio utilizzato – e che ovviamente in quei mesi finì su tutti i giornali sapientemente enfatizzato – poteva essere considerato riprovevole moralmente, persino scandaloso, ma non costituiva reato. Poteva indurci a pensare che Brega fosse uno sbruffone pieno di sé, ma questo, se non suffragato da prove, non faceva di lui un criminale seriale.

Mille euro in più al mese. Si tratta poi di dettagliare a quanto effettivamente ammontasse la truffa. In quel periodo sui quotidiani si potevano leggere cifre da capogiro («2,5 milioni») che, però, per quanto riguarda Brega e la sua équipe, erano molto più contenute. A quel tempo, alla Santa Rita così come in molti altri enti lombardi il rapporto tra chirurgo e clinica era strutturato in due parti: sui ricoveri, come detto, al medico spettava il 9 per cento dell’importo dei drg rimborsati dalla Regione; per le degenze in riabilitazione il medico percepiva 10,33 euro per ogni giorno di ricovero del paziente. Fatto salvo quanto già scritto, e cioè che una truffa ci fu nei passaggi da un reparto all’altro, occorre anche andare a fare i conti in tasca a Brega. Secondo quanto calcolato da Baer e Cracco, sulla base di una consulenza tecnica depositata al primo processo, l’équipe dei tre medici – era infatti Brega, con il 9 per cento percepito, a pagare i due aiuti – avrebbe intascato 25.000 euro al lordo delle imposte nel 2005, 39.000 euro nel 2006, 25.000 euro nel 2007. Nella sostanza, le loro cifre non si discostano da quelle che lo stesso Brega ha rivelato ad Annalisa Chirico che lo intervistò per Panorama il 17 luglio 2014 mentre si trovava in carcere, e che si riferivano ai casi contestati in entrambi i processi: «Il pm – disse il dottore – sostiene che, “checché ne dica il mio commercialista”, io avrei incassato 300 mila euro sulla base del fatto che la clinica aveva avuto 3 milioni. Il 9 per cento è pari a 270 mila lordi, da dividere fra i tre componenti dell’équipe. Al netto delle tasse, l’importo percepito da noi tre era di 151 mila euro. Poniamo pure che io in qualità di primario ne prendessi il 65 per cento: la mia retribuzione sarebbe stata di 98 mila euro. Quindi, secondo l’accusa, per guadagnare 1.000 euro in più al mese io avrei deliberatamente rischiato quanto mi è successo. Non è un caso che nelle fasi finali del processo lo stesso pm abbia precisato di non aver quantificato il lucro sostenendo che io avrei effettuato gli interventi più “per megalomania” che per trarne profitto». Il tasto su cui Baer e Cracco battono maggiormente riguarda le perizie dei consulenti dell’accusa e della difesa così come furono presentate nel corso del primo processo. La materia è complessa: stiamo parlando di chirurgia toracica, un campo della medicina ad alta specializzazione ed, inevitabilmente, le parole degli esperti sono fondamentali per formare nei giudici una corretta interpretazione dei fatti. Baer e Cracco insistono sul fatto che il profilo professionale del «grande accusatore» di Brega fosse inadeguato. Si trattava di un dottore con un passato in chirurgia generale, che da dieci anni non entrava in sala operatoria e che, al momento della perizia, svolgeva l’attività di medico di base. Nel suo curriculum non figuravano competenze nel campo della chirurgia toracica né in quello della medicina legale. Fu l’unico dei periti dell’accusa a visionare tutte le 575 cartelle sequestrate e a segnalare ai pm i casi clinici da contestare. Gli altri periti dell’accusa – tutti medici dal curriculum adeguato al compito – basarono i propri pareri a partire dalla sua scrematura delle cartelle cliniche. Il punto, fanno notare Baer e Cracco, è che nessuno di loro visionò le lastre (tac, rx, etc) e la documentazione medica completa, ma solo i referti del radiologo. Inoltre, le valutazioni dei periti dell’accusa furono generalmente molto stringate e poco, a parte un caso, attente a motivare le proprie affermazioni basandosi sulla letteratura scientifica. Nel caso del primo e più importante perito, poi, per i casi relativi alle patologie toraciche non vi sono indicazioni in letteratura, protocolli ospedalieri o linee guida atte a motivare le proprie opinioni.

Chi ha ragione? Al contrario, i periti della difesa, oltre a poter vantare curriculum adeguati e di fama internazionale, forti del fatto di aver visionato tutto il materiale, immagini comprese, giunsero a conclusioni diametralmente opposte. Tuttavia non fu loro sempre consentito proiettare le lastre in udienza, fatto che avrebbe aiutato a comprendere meglio le decisioni prese da Brega e dalla sua équipe in determinate situazioni – anche perché, davanti ad alcune immagini, si è riscontrato in aula l’inesattezza di quanto scritto nel referto. Le consulenze degli specialisti della difesa, inoltre, risultarono molto lunghe e articolate (una supera le 500 pagine), riportando in calce riferimenti a una letteratura scientifica ricca e dettagliata a sostegno delle proprie valutazioni. L’osservatore distaccato potrebbe, a questo punto, conservare ancora qualche perplessità. Chi aveva ragione? Fu anche per questo che gli avvocati di Brega chiesero più volte che fosse disposta una perizia super partes. Il tribunale rifiutò sempre, arrivando a definire, nella sentenza di primo grado, il lavoro dei consulenti della difesa come «infarcito di imprecisioni, omissioni e contraddizioni». Fu in base alla prima sentenza di condanna che una delle vittime, la signora D.P., cinquant’anni, sovrappeso, forte fumatrice, intentò una causa in sede civile contro Brega. Il giudice del nuovo procedimento decise di nominare periti super partes che analizzarono tutta la documentazione medica, le lastre, lo stato di salute della signora dopo l’intervento di Brega. Le conclusioni cui giunsero tali specialisti, in aperto contrasto con quelle del primo processo in cui la donna era risultata vittima, furono che le terapie che le erano state prestate erano «perfettamente appropriate» e che l’intervento cui era stata sottoposta era stato «eseguito a regola d’arte». Oltre al caso D.P., nella vicenda Brega Massone-Santa Rita esiste un altro caso in cui altri specialisti super partes sono stati chiamati ad esprimersi e, anche in questo secondo, le conclusioni sono favorevoli al chirurgo. La domanda di Baer e Cracco è inevitabile: quanti altri casi D.P. esistono? Perché il tribunale non ha voluto disporre una perizia super partes? E perché, anche di fronte a tali pareri, ha comunque condannato Brega? Il dubbio che altri expertise avrebbero dimostrato il buon operato di Brega è lecito e ragionevole.

Legge bavaglio. In tutta questa vicenda un ruolo essenziale lo hanno giocato stampa e tv. L’11 giugno 2008, due giorni dopo i primi arresti, la Santa Rita era già diventata sui quotidiani la «clinica degli orrori» e Brega «il mostro». È la solita storia: sono note solo le ipotesi investigative, ma raramente parole come «presunto» o «sospettato» appaiono accanto ai nomi degli accusati. I termini complessi della chirurgia toracica furono espunti dalle cronache e dai servizi dei tg, dando rilievo solo alle posizioni della procura. Tra l’altro, in quel periodo, in Italia si stava discutendo il ddl Alfano che avrebbe voluto limitare l’abuso e la diffusione delle intercettazioni.

Il caso Santa Rita divenne uno dei cavalli di battaglia dei detrattori della “legge bavaglio”. L’11 giugno 2008 una puntata di Matrix condotta da Enrico Mentana e intitolata “La clinica degli orrori” mandò in onda l’audio di alcune intercettazioni dando adito all’ospite Marco Travaglio di affermare che, senza quelle, «non si sarebbe potuto scoprire che questi [medici] non solo facevano i falsi delle cartelle cliniche ma ammazzavano la gente». Oggi, dopo la sentenza della Cassazione, un finale molto diverso di questa vicenda potrebbe essere scritto (il condizionale è d’obbligo), ma nessun quotidiano o tv sembra più interessato a occuparsi del “mostro” della “clinica degli orrori”. La storia non fa vendere più. E questa è una mesta certezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Quindi il dottore Brega Massone non era un mostro…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 24 giugno 2017 su "Il Dubbio". C’è una donna, sfinita ma tenace, che aspetta una telefonata. Alla fine l’avvocato Titta Madia chiama e comunica: «Niente ergastolo, niente omicidio volontario, tuo marito non passerà in carcere il resto dei giorni, una nuova Corte d’appello dovrà rideterminare la pena». Lei, Barbara, scoppia a piangere, perché si affaccia ancora una volta sulla vertigine in cui è sospesa da 9 lunghi anni: mio marito non è un mostro eppure nessuno ci crede. Lui, Pier Paolo Brega Massone, il dottor Frankestein della cosiddetta clinica degli orrori, è a sua volta sospeso tra due ipotesi, nascoste nelle motivazioni che la Suprema corte depositerà: omicidio colposo o omicidio preterintenzionale. Barbara Magnani è la moglie del mostro. Sarà anche una donna gentile ma quando nelle cronache viene riportata una sua dichiarazione, la si precede sempre con espressioni del tipo “… ebbe il coraggio di dire… ”. Perché la coniuge di un chirurgo toracico che – dicevano fino all’altro ieri le sentenze – opera solo per incassare i rimborsi del sistema sanitario, non merita neppure di piangere l’assenza del marito. Adesso un velo di fiducia nella giustizia si è acceso negli occhi di questa signora. Secondo i familiari delle quattro vittime, Brega Massone «deve pagare tutto». Ma per la sua famiglia, il medico oggi 51enne ha sempre fatto il suo dovere. Ha praticato spesso una tecnica di chirurgia toracica che ha in realtà una funzione diagnostica. Quattro dei pazienti sottoposti a quel tipo di intervento sono deceduti: Giuseppina Vailati, 82 anni, Maria Luisa Scocchetti, 65 anni, Gustavo Dalto, 89 anni e Antonio Schiavo, 85 anni. Secondo la difesa, non furono i ferri del chirurgo ha causare le morti, ma un quadro già in gran parte compromesso, rispetto a cui Brega Massone provò, con gli interventi, a verificare se esisteva una estrema possibilità di recupero. Secondo l’accusa, si trattò di «cose inspiegabili, con «asportazioni di pezzi più o meno grossi di polmone». Stabilire la verità era doveroso. Ma se a dodici anni dai fatti contestati, dopo due distinti procedimenti penali, una condanna della Corte dei conti e due cause di risarcimento civile, se in capo a questo lungo iter, la Cassazione stabilisce che hanno sbagliato sia in primo che in secondo grado, potrà essere legittimo dubitare che la verità stia davvero in quell’appellativo, “mostro”? E questa la vertigine da incubo. Il labirinto in cui sono intrappolati i familiari del medico. Loro, e i loro avvocati, hanno sempre protestato per il fatto che in entrambi i processi penali i collegi giudicanti si siano rifiutati di commissionare perizie d’ufficio. Sono stati ascoltati solo i pareri dei consulenti di parte, accusa e difesa. Mai un tecnico che dovesse rispondere solo al giudice terzo. Un’anomalia. Che potrebbe essere tra le architravi della pronuncia arrivata due giorni fa dalla Suprema corte.

La clinica Santa Rita è un fiore all’occhiello della sanità lombarda. Brega Massone vi lavora come primario del reparto di chirurgia toracica. Il sistema delle strutture private accreditate presso la Regione funziona perfettamente. Ma è anche oggetto di insinuazioni. A metà degli anni 2000, all’epoca dei fatti contestati a Brega Massone, l’amministrazione è presieduta da Roberto Formigoni e il sistema sanitario è considerato sotto il pieno e capillare controllo della componente politica a cui fa capo il governatore, Comunione e liberazione. In un clima segnato da veleni impercettibili, si verificano le drammatiche vicende che costeranno le condanne a Brega Massone. I quattro decessi e gli oltre 100 casi complessivi di operazioni non necessarie, in parte delle quali sarebbe stato rilevato il reato di lesioni, anche gravi. Il 9 giugno 2008 il chirurgo viene arrestato insieme ad altre 13 persone, tra amministratori e medici della Santa Rita. Lui e Fabio Presicci, il suo “braccio destro” (condannato a 25 anni in Appello e anche lui destinatario della sentenza di annullamento della Cassazione), sono gli unici a finire in carcere, gli altri vanno ai domiciliari. I particolari sono immediatamente riportati dai media: mammelle asportate a donne anche giovani nonostante bastasse togliere i noduli, e soprattutto quei numerosi interventi al torace, fatali in cinque casi. Le indagini vanno avanti per 3 anni. Ne verranno fuori due distinti procedimenti a carico del chirurgo originario di Pavia: uno va più spedito, riguarda 83 operazioni «non necessarie», vede il chirurgo imputato per lesioni anche gravi e truffa e arriverà a sentenza definitiva il 26 febbraio 2015. Nell’altro si procede con più lentezza: dopo l’arresto il Tribunale del Riesame fa cadere l’ipotesi di omicidio volontario e i pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano cercano nuove prove, sia per la responsabilità di quelle 4 morti che per altri 45 casi di lesioni. Otterranno il rinvio a giudizio, con l’accusa caduta due giorni fa in Cassazione, nel giugno 2012.

In entrambi i processi si assiste a un’ostinata impuntatura dei collegi giudicanti: no a perizie d’ufficio, basta il contraddittorio tra quelle di parte, che vede fatalmente soccombere i consulenti della difesa. Uno di questi è Massimo Martelli, valentissimo e famoso chirurgo toracico del Forlanini di Roma. Attesta in aula il che il collega si rifà a tecniche diagnostiche d’avanguardia, sperimentate da diversi medici tedeschi. Il riferimento alla Germania, come si vedrà, sarà però fatale. Intanto non basterà a convincere i giudici della correttezza di Brega Massone. In uno dei dibattimenti il presidente del collegio dice con chiarezza che, delle argomentazioni scientifiche proposte, «non si riesce a capire granché». E allora per quale motivo, nonostante la complessità della materia, i magistrati decidono di non farsi assistere da consulenti d’ufficio? È l’effetto del clamore mediatico, che nel frattempo è diventato inevitabilmente assordante. Brega è per tutti il mostro, la Santa Rita, clinica degli orrori, deve cambiare nome in “Istituto clinico Città studi”, come si chiama ancora oggi. I giudici non se la sentono di ostinarsi a verificare in modo eccessivamente puntiglioso una verità già affermata sui giornali. Al punto che in una delle udienze del processo per omicidio, la presidente apostrofa così l’avvocato del chirurgo: «Stiamo facendo un lavoro inutile e mi domando come mai i difensori continuino a sollevare delle eccezioni quando basta andare con un iPad normale e queste telefonate le ascoltiamo. Le hanno riportate tutti i media, ci stiamo prendendo in giro, vogliamo smetterla? La Corte è veramente più che nervosa! Sono tutte opposizioni inutili, non portano da nessuna parte. La Stampa, il Corriere… la Repubblica ha riportato in grassetto le telefonate, in rete c’è l’audio e tutti noi usiamo questi sistemi. Quindi è una presa in giro quella che sta succedendo in quest’aula». Da verbale d’udienza, alla pagina 51. Come dire appunto che la verità era scritta sui giornali e riprodurre le prove in dibattimento era superfluo. Il 15 gennaio 2014, dopo 6 anni, Brega Massone mette piede fuori del penitenziario di Opera: è scarcerato per decorrenza termini, in virtù del protrarsi del giudizio sulle 83 operazioni, dopo che la Cassazione ha chiesto di ricalcolare la pena inflitta in Appello, visto che nel frattempo il reato di truffa è andato in prescrizione. Saranno gli ultimi tre mesi, almeno fino ad oggi, trascorsi a piede libero dal chirurgo: il 9 aprile dello stesso anno Pier Paolo Brega Massone è condannato all’ergastolo nel processo di primo grado per i 4 omicidi ed è arrestato in aula. «C’è pericolo di fuga», secondo il dispositivo della Corte. Si scoprirà poco dopo, nelle motivazioni, che i contatti con i luminari tedeschi erano stati decisivi: alcuni di loro erano stati presentati dalla difesa come periti di parte, e i giudici danno per scontato che potrebbero assicurare ospitalità in Germania al collega italiano fuggiasco. D’altra parte, gli avvocati di Brega Massone hanno inutilmente insistito affinché il collegio nominasse periti d’ufficio.

È la probabile sliding door di tutta la storia. Lo dimostra un fatto riferito con modesta risonanza da gran parte dei media. Oltre ai due procedimenti principali, vengono attivate anche due cause civili per risarcimento danni, da altrettante pazienti che preferiscono non attendere l’esito dei giudizi penali. In questi casi i magistrati si affidano a perizie d’ufficio, a consulenti tecnici da loro stessi nominati, E accertano la correttezza del chirurgo. L’avessero fatto anche i colleghi delle sezioni penali, cosa sarebbe successo? Come sarebbe andata? Chi può escludere con certezza che il chirurgo di Pavia fosse sì uno sbruffone, capace di esprimersi con parole spicce sui pazienti, sulle operazioni e sui relativi rimborsi da mettere a bilancio, ma non per questo si trattasse di un disonesto pronto a usare tecniche d’intervento «inutili»? Non si è avuto il coraggio di sciogliere l’incognita. Che Brega massone fosse un assassino era verità così indubitabile che la psichiatra Chantal Podio, a fine 2014, riferì sconcertata di un suo colloquio in carcere col chirurgo, a suo dire «incapace di ammettere le proprie responsabilità, dunque impermeabile, un muro di gomma». La verità era così indiscutibile che lo scienziata della psiche neppure provava a chiedersi se dietro quella professione d’innocenza ci fosse almeno una parziale verità. I giornali, prima delle sentenze, l’avevano già scritta. E ora, a 9 anni dall’arresto, la Cassazione ci dice che quella verità, almeno in parte, era solo un dogma.

Madia: «La Cassazione deve aver trovato illogico definire Brega Massone un assassino», scrive Valentina Stella il 24 giugno 2017, su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Titta Madia che insieme al collega Luigi Fornari difende il dottor Pier Paolo Brega Massone, in carcere da quasi 9 anni. «Irragionevole credere che Brega Massone fosse un assassino»: è chiaro l’avvocato Titta Madia che insieme al legale Luigi Fornari difende Pier Paolo Brega Massone, il chirurgo ex primario della Santa Rita di Milano.

Avvocato Madia si aspettava questa decisione dei Supremi Giudici? Era ottimista?

«Quando si va in Cassazione è difficile essere ottimisti. Si ha una speranza, perché bisogna tener conto che in Cassazione l’indice di accoglimento dei ricorsi è del 3 per cento».

Quali sono stati i motivi principali – in sintesi – posti alla base del vostro ricorso?

«Sono stati due: Brega Massone era stato condannato per questi interventi chirurgici ritenuti abusivi senza che sia stata fatta mai una perizia».

Una super perizia da voi chiesta più volte.

«Sì, ma ci è stata sempre negata. Il secondo motivo è che ritenere che Brega Massone entrasse in sala operatoria sapendo che era un assassino, e pronto ad uccidere delle persone, era un fatto privo di qualsiasi ragionevolezza».

Adesso in Corte d’Appello si stabilirà se trattasi di omicidio colposo o preterintenzionale?

«I giudici dovranno attenersi alle direttive impartite dalla Cassazione. Quindi avranno la possibilità di fare una valutazione piuttosto limitata in base ai principi espressi dalla Suprema corte».

Pur in assenza delle motivazioni, secondo lei si può fin da ora intuire qual è stato l’iter logico- giuridico che i giudici di Cassazione hanno seguito per giungere a questa decisione?

«È presto, bisogna attendere le motivazioni che saranno molto importanti».

Quali sono state le anomalie più grandi che hanno contraddistinto i vari gradi di giudizio?

«Una campagna mediatica che forse non ha precedenti in Italia, che ha creato un mostro in questa figura di chirurgo che probabilmente era soltanto un chirurgo azzardato, un chirurgo che probabilmente rischiava più degli altri. E intorno a questa figura si è creato il mostro soprattutto attraverso la televisione che ogni anno mandava in onda il processo a Brega Massone, dipingendolo sempre come un mostro».

Si riferisce anche al docufilm L’infiltrato – Operazione clinica degli orrori, andato in onda su Rai 3 nel 2014?

«Si, insieme a tutta la campagna di stampa. Ma Brega Massone non è un mostro, ripeto. Purtroppo, è noto come i mass media si appiattiscano sulla tesi dell’accusa e fanno da megafono alle Procure. Alla tesi dell’accusa e alla tesi dei consulenti dell’accusa che sono i consulenti di una parte e che non sono mai stati verificati con una perizia super partes».

Invece in sede civile la stessa perizia aveva dato ragione a Brega Massone, anche questa è una anomalia.

«Si è purtroppo verificata una serie di gravi anomalie in questo processo, come ho detto prima, a causa di una grossa pressione mediatica e forse anche a causa della magistratura milanese che aveva un desiderio di punire in modo esemplare questo personaggio e questa struttura sanitaria».

Si parla molto di super perizie, penso ad esempio al processo a Massimo Bossetti, riguardo al quale a breve si saprà se verrà concessa. Come mai si è reticenti nel concedere una perizia super partes?

«Perché a volte subentra la paura che l’esito della super perizia possa smentire l’accusa, e la tesi che piace alla gente, al senso comune e ai mass media».

In questo contesto si rende necessaria una separazione delle carriere tra giudici e pm, su cui l’Unione della Camere Penali sta raccogliendo le firme?

«Questa riforma è indispensabile perché l’Italia è l’unico Paese in Europa nel quale il pubblico ministero veste la stessa maglia del giudice».

Come ha accolto il suo cliente questa decisione?

«Il mio cliente è in carcere da ben 8 anni e mezzo, quindi posso raccontare la reazione della moglie che ha avuto un pianto liberatorio».

Forse in Italia c’è un abuso della carcerazione preventiva.

«Ci sono molte cose da riformare ma il nostro è un Paese a parole garantista ma sostanzialmente giustizialista».

Masturbarsi in auto davanti ai minori si può: la Cassazione salva un moldavo, scrive il 23 Giugno 2017 Cristiana Lodi su "Libero Quotidiano”. Il moldavo ha cercato le minorenni per sentirsi ispirato. E una volta che queste sono arrivate davanti ai suoi occhi, lui ha preso a masturbarsi. Una volta lo ha fatto in macchina, un’altra al parco e successivamente si è esibito per strada. Alla luce del giorno. E sempre aspettando le bambine. Segnalato dai passanti. Beccato in flagranza in tutte e tre le occasioni. Denunciato e condannato in primo e secondo grado dalla corte d’Appello di Trieste per atti osceni. Fino a quando la corte di Cassazione (sentenza numero 30798 - Presidente Amoresano - Relatore Gentili) non lo ha assolto. Depenalizzando la sua condotta oscena. Motivo? Il maniaco, quegli atti di autoerotismo deliberato e stimolato dalle minorenni, li ha sì consapevolmente messi in scena davanti alle stesse che (anzi) ha appositamente cercato (come riconoscono i giudici), ma lo merita ugualmente di essere assolto, proprio perché quegli stessi atti li ha consumati al parco. E poi per strada, in macchina e non certo in un luogo (per usare le parole del legislatore) «abitualmente frequentato dalle sue vittime», cioè le minori. Insomma per gli ermellini, che già si erano pronunciati allo stesso modo (nel 2015 e nel 2016) assolvendo altri maniaci sessuali per fatti identici, a fare la differenza è il luogo in cui il depravato si masturba.

I giudici lo spiegano nel linguaggio del codice, tecnico ma eloquente: «nel caso in questione, la condotta dell’uomo, sebbene veda come soggetti passivi delle condotte delle bambine o comunque delle adolescenti, non è stata realizzata, come locus commissi delicti» ossia in un ambito territoriale «abitualmente frequentato da minori «come, invece, impone «il secondo comma dell’articolo 527 c.p., affinché il compimento di atti osceni conservi la sua rilevanza penale». Tradotto: il moldavo si è reiteratamente masturbato sotto gli occhi strabiliati e terrorizzati delle bambine, però questo in fondo non è accaduto davanti a un asilo, una scuola, un oratorio o qualsivoglia luogo frequentato “abitualmente” e “sistematicamente” dalle bambine. Basta e avanza dunque per assolvere il moldavo da ogni colpa. Di più quel «abitualmente» e quel «sistematicamente» per i magistrati supremi che hanno pronunciato il verdetto (fotocopia), non sono termini casuali.

E lorsignori provano a spiegarlo. Scrivono: «anche se la nozione di luogo “abitualmente frequentato da minori”, va tenuta distinta da quella di “prevalentemente frequentato da minori”, essa deve comunque intendersi un luogo connotato da una frequentazione nel senso di una certa sua “elettività e sistematicità”, tale da fare ritenere “abituale”, quindi “attesa” ovvero “prevista” sulla base di una valutazione significativamente probabilistica, la specifica presenza di minori in tale ubicazione». Significa che per i giudici, i luoghi abitualmente frequentati da minori, sarebbero le vicinanze di un edificio scolastico, o i centri di aggregazione giovanile. Poco importa che il maniaco masturbatore (da perfetto predatore sessuale) abbia puntato le sue vittime e si sia messo all’opera soltanto quando le bambine gli sono finite davanti; il luogo in cui egli ha agito non era “sistematicamente” battuto dalle sue stesse vittime. Vittime che non si possono proprio definire “per caso”, se è vero che la strada o il parco (magari attrezzato di giostre scivoli e altalene come la maggior parte dei parchi che si definiscano tali), non sono siti interdetti alle bambine. Ma per i giudici in ermellino, si legge nella sentenza numero 30798 «affinché ricorra il predetto requisito della “abitualità” della frequentazione del luogo da parte dei minori non è sufficiente - laddove non si voglia diluire il concetto sino a farlo sostanzialmente coincidere con quello di luogo aperto o esposto al pubblico, in tal modo trascurando la evidente volontà del legislatore che ha inteso conservare la rilevanza penale solamente a quelle condotte che presentino una potenziale maggiore offensività - che in quello stesso luogo si possa trovare un minore, ma è necessario che, sulla base di una attendibile valutazione statistica, sia “altamente probabile” che il luogo presenti la presenza di più soggetti minori di età». Da qui, l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per il maniaco moldavo, che resterà libero di ripetere i suoi gestacci. Di notte o in pieno giorno, ai giardinetti, in piazza, al supermercato o alle Poste o in chiesa durante la Messa. Insomma liberi di masturbarsi tra la folla, purché le statistiche non dimostrino che la stessa (folla) non sia composta da minorenni. Se gli atti osceni vengono consumati e sbandierati in ogni dove, il massimo che si può rischiare è una multa. Stessa sorte capitata al moldavo, per il quale la Corte ha scritto: «si ordina la trasmissione degli atti al prefetto per l’irrogazione della sanzione amministrativa». Cristiana Lodi

Uccisa nel parcheggio dell’ospedale. «Quel maledetto che ti perseguitava», scrive Giusi Fasano il 22 giugno 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Basta, basta, fermati!». Le urla, disperate, prima di cadere a terra colpita alla gola e al petto. È morta così, nel parcheggio dove stava prendendo la sua auto a fine turno, Ester Pasqualoni. Aveva 53 anni, era responsabile del day hospital oncologico dell’ospedale di Sant’Omero, in provincia di Teramo, madre di due ragazzi di 14 e 16 anni, Nausicaa e Alessio. Erano circa le 16. L’aggressione è stata feroce. «L’hanno sgozzata, uno spettacolo straziante» hanno raccontato i colleghi accorsi attorno al corpo a terra, coperto dal lenzuolo verde. Si cercano testimoni, ma sembra che nessuno abbia visto niente. Qualcuno ha sentito le grida e poi un rumore sordo, come un tonfo. Roberta, titolare del ristorante di fronte, è in lacrime: «Stamattina, come ogni giorno, è venuta a prendere un caffè, era tranquilla e gioiosa. Dietro quel sorriso nascondeva le sue paure». Le sue paure avevano un volto ben definito, quello di un uomo più grande di lei, 65 anni circa, di Martinsicuro, un ex investigatore privato che la perseguitava da oltre dieci anni e che lei aveva conosciuto perché aveva in cura il padre. Solo gli amici più stretti di Ester sapevano. «Se non ti posso avere, prima o poi ti ammazzerò» le aveva detto. Lei quasi si vergognava di quelle persecuzioni e cercava di tenere nascosta la cosa al lavoro anche se, in passato, aveva denunciato quell’uomo che la tormentava con appostamenti, telefonate, messaggi. Si era decisa, raccontano gli amici, quando l’aveva trovato sotto casa di Fabrizio, il compagno scomparso a febbraio di due anni fa per un infarto. Si era decisa a farlo, sottolinea il suo avvocato, Caterina Longo, «con ben due denunce, ma non era servito a niente, erano state archiviate. Lui aveva avuto anche il divieto di avvicinarsi ma poi la misura è stata revocata». Il legale non si dà pace e, sul profilo Facebook, scrive: «Quante volte sedute a ragionare di quell’uomo, quel maledetto che ti perseguitava... e non sono riuscita a risolverti questa cosa... Me lo porterò dentro tutta la vita. Ti voglio bene donna e amica speciale... Ti voglio bene». Sul luogo dell’omicidio arriva il pm Davide Rosati. I carabinieri del reparto operativo di Teramo, coordinati dal comandante Roberto Petroli, cercano un’auto, forse una Peugeot 205 bianca, che alcuni testimoni hanno visto girare più volte intorno all’ospedale prima del delitto e poi allontanarsi subito dopo. Chi ha ucciso Ester è stato fortunato oppure molto bravo: nel parcheggio non ci sono telecamere e all’ora in cui la vittima è stata colpita l’edicola all’ingresso era ancora chiusa. «È morta tra le mie braccia. Una cosa assurda pensare che fosse lei» dice Piergiorgio Casaccia, il medico del pronto soccorso di Sant’Omero intervenuto per primo. Racconta di averla trovata a terra, in una pozza di sangue, e di non aver capito subito che era lei. «Quando sono arrivato non aveva polso, non c’era più nulla da fare». Intorno al corpo segni di colluttazione, due borse, il cellulare. Il manager della Asl, Roberto Fagnano, ricorda le qualità professionali di Ester. «È stata uccisa barbaramente una persona che lavorava per salvare le vite degli altri».

Sant’Omero. Ammazzata a coltellate davanti all’ospedale: morta donna medico. Aggredita e ferita a morte, scrive il 21 Giugno 2017 "Prima da noi". Una dottoressa dell'ospedale di Sant'Omero, Ester Pasqualoni, 53 anni, oncologa, è stata accoltellata davanti all'ospedale. Ricoverata in gravi condizioni, si è appreso, è morta poco dopo. Sul posto sono arrivati subito i carabinieri della Compagnia di Alba Adriatica e i colleghi del Reparto operativo di Teramo che hanno trovato la donna riversa in una pozza di sangue. Fatale, secondo i primissimi accertamenti, un fendente alla gola.  A far scattare l'allarme dopo aver coperto il corpo senza vita, a terra tra due macchine, è stato un altro medico che ha tentato di rianimare la donna senza successo. L’episodio si sarebbe verificato intorno alle 16 quando la donna si stava dirigendo verso la sua auto per tornare presumibilmente a casa. Il suo turno era infatti terminato. Pasqualoni, madre di due figli minorenni, abitava a Roseto e aveva già presentato due denunce per stalking. Non si sa se chi ha agito sia proprio la persona indicata dalla vittima come responsabile di atti persecutori. Pasqualoni veniva descritta dai suoi pazienti come un medico preparato, competente e dalla grande sensibilità e umiltà. Nel giro di meno di 24 ore è il secondo delitto efferato che si registra nella provincia teramana.

Ester Pasqualoni, 53 anni, lascia due figli minori, una ragazza di 15 anni e un ragazzo di 17 anni. Un medico molto amato sia nella professione che a livello umano, come testimoniano i tanti colleghi giunti sul posto e i commenti su Facebook postati sotto i profili dei suoi amici. «Abbiamo idea di chi possa essere l'omicida e lo stiamo cercando», ha riferito un investigatore aggiungendo che «si tratta molto probabilmente di una persona che dava fastidio alla vittima». Verifiche sono in corso in merito a denunce che la donna avrebbe presentato. A dare conferma di quanto stesse accadendo è una sua amica, Caterina Longo. «Aveva presentato due denunce contro il suo stalker, ma erano state entrambe archiviate».

L'uomo, dice Caterina Longo, la perseguitava «da diversi anni, la osservava e seguiva, sempre e dappertutto. Si era intrufolato nella sua vita non sappiamo neanche come, con artifici e raggiri. Non era un suo ex, non avevano niente a che fare, era solo ossessionato da lei». E sempre Caterina su Fb aveva scritto: «Quante volte sedute a ragionare di quell'uomo... quel maledetto che ti perseguitava... e non sono riuscita a risolverti questa cosa.....e me lo porterò dentro tutta la vita.....ti voglio bene». E sotto una valanga di commenti di chi l'ammirava. Ad accorrere per primo subito dopo la tragedia un medico del pronto soccorso che era in servizio: «È morta tra le mie braccia. Una cosa assurda pensare che era Ester», dice Piergiorgio Casaccia, che lì, in quella pozza di sangue non l'aveva riconosciuta. Intorno c'erano evidenti segni di colluttazione, c'erano due borse in terra, il cellulare. Una cosa assurda. Poi c'è stata solo disperazione e pianto. Perché, chi, chi può volere del male a Ester? Una persona che ha aiutato tutti i pazienti, anche di notte. Tra le mie mani ha fatto gli ultimi respiri. Assurdo pensare che era Ester».

 «Sapevamo di questa paura che lei aveva e di quest’uomo che la perseguitava. Spesso si faceva accompagnare al parcheggio perchè lei aveva paura», ha detto ancora Casaccia intervistato da Chi l’ha visto?. «Ero a lavorare al pronto soccorso», ha detto il medico, «ad un certo punto è arrivato un signore a chiedere aiuto perchè c’era una persona a terra in una pozza di sangue. Sono uscito con le mie mani nude, non era proprio vicinissimo. Ho visto una persona a terra in una pozza di sangue che stava esalando gli ultimi respiri. Mi è parso subito chiaro che la persona a terra era stata accoltellata. Ho urlato, ho detto “chiamate subito i carabinieri, questo è un omicidio”. Ho sentito il polso ma non c’era più. Ho coperto il corpo e mi sono assicurato che nessuno inquinasse la scena. Poi sono arrivati i carabinieri e sono andato via». Poi il medico ha raccontato di essere stato contattato dai carabinieri che gli hanno mostrato il tesserino di Ester e solo allora ha realizzato che si trattasse della sua collega. «Io purtroppo non l’ho riconosciuta e quando mi sono accorto della barbarie che è capitata mi sono disperato. Una oncologa così non si trova facilmente in giro, aiutava i pazienti al di fuori del lavoro, lei c’era sempre per tutti. E’ stata colpita con l’intento di uccidere. Non è riuscita a dire nulla. Ha esalato gli ultimi respiri, era già in arresto cardiaco». Il luogo del delitto, il parcheggio dell’ospedale, è un luogo ben in vista soprattutto dalle camere e tutto è accaduto in pieno giorno tra le auto parcheggiate a pettine. Tutti dunque avrebbero potuto vedere. Non ci sono invece telecamere che avrebbero ripreso la scena. 

L’amica Caterina Longo ha poi confermato anche a Chi l’ha visto? che Ester si era recata alla questura di Atri per sporgere querela per stalking ma che subito si è giunti alla archiviazione.  «Era una cosa che aveva tenuta nascosta a tutti», ha raccontato Longo, «“Perchè hai fatto la querela ad Atri?” le domandai, “non volevo che si sapesse in giro per non far preoccupare i figli, il compagno e l’ex marito” mi rispose. Lei era fatta così. Ci teneva alla tranquillità dei suoi familiari e doveva risolversela da sola. Devo dire, però, che è andata in questura, ha denunciato i fatti gravi e di essere perseguitata. Aveva mostrato gli sms, gli aveva dato orari e riprese fatte col cellulare, quell’uomo passava davanti casa, al lavoro, all’angolo della strada: se lo trovava ovunque andasse. Ho poi saputo che sono state fatte perquisizioni anche nella sua abitazione ma nelle videocassette che sono state trovate non c’erano fotogrammi che ritraevano Pasqualoni. La denuncia è stata poi archiviata per difetto di querela ovvero Ester non aveva espresso in maniera esplicita la volontà di denunciarlo». La donna, delusa dall’esito della vicenda, non ha voluto fare una nuova denuncia. “Si stancherà” diceva, non aveva nessun tipo di rapporto con questa persona, non aveva mai dato adito a nulla, mai stata insieme, mai uscita insieme.

Poi l’amica ha racconta anche un altro particolare inquietante. L’uomo denunciato sarebbe stato anche fermato dagli investigatori mentre era in auto nei pressi della scuola dei figli della donna e sorpreso a filmare. «Ester sapeva di questa cosa glielo aveva scritto: aveva tante videocassette nascoste in casa ma non le hanno trovate. Una volta le scrisse: “non le troveranno mai”. Lei ha denunciato, ha avvisato le autorità ma non ha voluto fare la guerra giudiziaria opponendosi all’archiviazione: sperava sempre che si stancasse. Ma non è stato così».

Secondo alcune fonti non confermate l'uomo sarebbe stato rintracciato ieri sera a Martinsicuto e arrestato dai carabinieri. Si tratterebbe di un uomo di più di 60 anni. Non sono arrivate però arrivate conferme dalle forze dell'ordine a questa notizia. Sembrerebbe più realistico invece il recupero dell'auto utilizzata dall'uomo vista allontanarsi dalla scena e descritta da alcuni testimoni. Si tratterebbe della Peugeot di colore bianco che è stata ritrovata proprio a Martinsicuro e all'interno vi sarebbero delle macchie di sangue.

Sistema pro-killer: due denunce archiviate, oncologa uccisa dallo stalker, scrive Lucia Mosca il 21 giugno 2017 su "La Notizia.net". Ci hanno abituati ad un sistema che non funziona. Hanno abbassato il nostro livello culturale. Ci hanno abituati ad un sistema ingiusto, privo di tutele, in cui i cittadini onesti non hanno voce. Ci hanno abituati alla violenza, fisica e psicologica, agli abusi, senza poter in alcun modo alzare la voce. Ci hanno abituati a dover assistere alle pantomime della politica come se si trattasse di un dovere, a cui non ci si può sottrarre. Ci hanno anche abituati al fatto che la vita delle persone oneste non vale più nulla. Ci hanno abituati ad una giustizia che non svolge le proprie reali funzioni. Ogni qual volta si parla di violenza, spesso con vittime di sesso femminile, si susseguono stucchevoli interviste in tv che parlano della rete protettiva tessuta intorno alla donna che deve solo avere la forza di denunciare. Tutto ciò non è assolutamente vero. Ne abbiamo parlato nel corso degli ultimi giorni. Dodici denunce senza che si sia ritenuto opportuno fermare il potenziale assassino. La vittima che descrive persino l’arma con la quale si reciderà la sua esistenza. La giustizia arriva solo a fatto compiuto e dopo la morte per mano del killer. Oggi è accaduto di nuovo, a Sant’Omero. Un’oncologa di 53 anni, Ester Pasqualoni, è stata uccisa nel parcheggio dell’ospedale della Val Vibrata. Lei, che salvava vite, è stata brutalmente uccisa probabilmente per mano di uno stalker, denunciato per ben due volte.  Quindi, ci dicono di denunciare, ci chiedono di esporci. E spesso il coraggio si paga con la vita. In tutto questo, dov’è questo lo Stato, che non tutela i terremotati, che non si cura delle nostre vite, che non ha interesse nel creare un futuro ai nostri giovani, che scappano all’estero per cercare lavoro e rimangono uccisi in attentati terroristici, e che si preoccupa esclusivamente dello Ius Soli e della legge elettorale?  Siamo vittime di un sistema cleptocratico, che si disinteressa del benessere dei cittadini perbene. L’oncologa è stata trovata con la gola tagliata, riversa a terra in una pozza di sangue. Inutili i tentativi di rianimarla.   La vittima, responsabile del day hospital oncologico dell’ospedale di Sant’Omero, nata nel 1964 a Roseto degli Abruzzi (Te) e madre di due figli, aveva concluso il suo turno di lavoro e stava raggiungendo la sua vettura quando è stata aggredita. Questo il post con cui un’amica della vittima ha descritto la situazione subita dalla dottoressa e poi denunciata.  “Quante volte sedute a ragionare di quell’uomo – si legge – quel maledetto che ti perseguitava. E non sono riuscita a risolverti questa cosa, e me lo porterò dentro tutta la vita. Ti voglio bene, donna e amica speciale… Ti voglio bene”. “Aveva presentato – spiega – due denunce, ma erano state entrambe archiviate”. Quell’uomo la perseguitava “da diversi anni”, la “osservava e seguiva, sempre e dappertutto. Si era intrufolato nella sua vita non sappiamo neanche come, con artifici e raggiri. Non era un suo ex, non avevano niente a che fare, era solo ossessionato da lei”. E questa è la nostra giustizia. Quella che ti rende impotente di fronte alla violenza ma che poi, se rubi un’arancia per fame, ti mette dietro le sbarre.

Archiviazione per tenuità del fatto. Reati lievi, da oggi parte l’archiviazione. I giudici potranno archiviare la lite con il vicino o il furto ed evitare che si finisca in aula di tribunale, scrive Mario Valenza, Giovedì 02/04/2015, su "Il Giornale". Da oggi parte la rivoluzione nel sistema giudiziario italiano voluto dal governo Renzi per i reati "minori". I giudici possono bollare la lite con il vicino o il furto ed evitare che si finisca in aula di tribunale. Non c'è solo la bega condominiale o il furtarello per disperazione. Potrà godere della "tenuità del fatto" anche chi è accusato di aver aperto una discarica abusiva o di aver trafficato con rifiuti pericolosi e scarichi industriali. Questioni di grande impatto sociale nelle quali rientrano ancora l'adulterazione di cibi, di medicinali, l'omissione delle misure di sicurezza sul lavoro, la truffa, l'intrusione informatica. E anche la guida in stato di ebbrezza. Senza dimenticare la detenzione sul proprio pc di materiale pedopornografico. Stavolta c’è il plauso dei magistrati: da anni sollecitavano un intervento del genere. Neanche gli avvocati fanno le barricate. Il loro timore, semmai, è che le decisioni dei giudici non siano uniformi per fatti analoghi, influenzate dalla sensibilità personali, dai contesti e persino dai luoghi geografici. Il giudice diventa dominus della decisione. La valutazione dei fatti è rimessa alla sua serenità e al suo equilibrio. Una discrezionalità, secondo alcuni, persino eccessiva. Ecco qui di seguito la lista dei reati compresi nella nuova norma:

- Esercizio abusivo della professione

- Abuso d’ufficio

- Accesso abusivo a sistema informatico o telematico

- Appropriazione indebita

- Arresto illegale

- Attentati alla sicurezza dei trasporti

- Atti osceni

- Commercio o somministrazione di medicinali guasti

- Commercio di sostanze alimentari nocive

- Danneggiamento

- Detenzione di materiale pedopornografico

- Diffamazione

- Frode informatica

- Furto semplice

- Gioco d’azzardo

- Guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti

- Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato

- Ingiuria

- Interruzione di pubblico servizio

- Istigazione a delinquere

- Lesioni personali colpose

- Millantato credito

- Minaccia

- Oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale

- Omissione di soccorso

- Rissa

- Simulazione di reato

- Sostituzione di persona

- Truffa

- Turbata libertà degli incanti

- Violazione di domicilio

- Violenza privata

Addio a tutti i reati più piccoli, saranno archiviati senza processo. La Camera sta per modificare il codice di procedura penale per dire basta ai procedimenti contro i "mini crimini". Così i "fatti di particolare tenuità" come microfurti, liti e ingiurie non saranno più perseguiti: ma la modifica non riguarderà recidivi e delitti gravi, scrive Liana Milella il 22 febbraio 2012 su "La Repubblica". Piccoli reati addio. Archiviati dal giudice senza arrivare al processo. Niente più primo, secondo, terzo grado. Un decreto per dire che non hanno né il peso né il valore per meritare ore di dibattimento. Proprio perché sono piccoli e occasionali reati. Perché hanno un valore economico modesto. Perché possono essere "perdonati". Alla Camera stanno per approvare un nuovo articolo del codice di procedura penale, il 530bis, il "proscioglimento per particolare tenuità del fatto". Il relatore, il pd Lanfranco Tenaglia, fa l'esempio del furto della mela: "Se la rubo in un supermercato è un furto, ma il danno per il proprietario è tenue. Ma se la rubo alla vecchietta che ne ha comprate tre, quel fatto non sarà tenue". La Lega lo ha già battezzato legge "svuota-processi" dopo quella svuota-carceri. Ribatte la pd Donatella Ferranti: "È un articolo rivoluzionario, una pietra miliare sulla via della depenalizzazione". Basta leggere il testo: "Il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento quando, per le modalità della condotta, la sua occasionalità e l'esiguità delle sue conseguenze dannose o pericolose, il fatto è di particolare tenuità". Chi commette reati di frequente è fuori. Fuori rapine, omicidi, sequestri, violenze sessuali. Il giudice archivia e avvisa la parte offesa che può utilizzare il decreto per rivalersi in sede civile.

Furto al supermercato. Di un capo di biancheria, reggiseno, slip, maglietta intima. Forzando e sganciando la placchetta anti-taccheggio. Il ladro viene scoperto e fermato. Il suo, codice alla mano, è un furto aggravato con violenza sulle cose, a stare agli articoli 624 e 625 del codice penale la persona rischia da uno a sei anni. Ma il giudice prende in mano il caso, valuta innanzitutto l'esiguo valore dell'oggetto portato via, poi si documenta e soppesa la personalità e la storia del soggetto che ha commesso il furto. Scopre che si tratta della prima volta. Il suo non è un reato abituale. Decide di archiviare per la "tenuità del fatto".

Assegni trafugati. Un commerciante in difficoltà economiche e strozzato dagli usurai incassa un assegno di cento euro senza andare troppo per il sottile. Lo riutilizza pagando un fornitore. Purtroppo l'assegno arriva da un furto e il commerciante rischia, come ricettatore e in base all'articolo 648 del codice penale, da due a otto anni di reclusione. Ma se davanti al giudice riesce a dimostrare la sua buona fede, rivela le sue difficoltà, documenta che nella sua vita professionale non è mai incorso in un simile incidente, potrà evitare il processo e ottenere un'archiviazione.

I beni pubblici. Telefonate private di due dipendenti da un ministero di Roma. Nel quale è in corso un'inchiesta proprio per evitare questi abusi. Il primo chiama una volta New York perché suo figlio, che vive lì, è gravemente malato. Il secondo telefona ogni giorno, e a lungo, alla fidanzata che vive a Milano. Il codice, all'articolo 314, punisce il peculato dai tre ai dieci anni. La prima persona potrà fruire di un'archiviazione perché il suo è un "piccolo" reato, una sola chiamata e per ragioni gravi. Il secondo andrà incontro al suo processo perché abusa quotidianamente e di nascosto di un bene pubblico.

Lite di condominio. In un appartamento vive una coppia di coniugi. In quello accanto un gruppo di studenti che spesso invitano gli amici e si divertono fino a notte fonda. Un giorno, dopo l'ennesima nottata, scoppia una lite furibonda in cui volano parole grosse e si arriva alle mani. I vicini si allarmano e chiamano la polizia. Scatta una denuncia per minaccia e violenza privata contro i coniugi. Il 612 prevede il carcere fino a un anno e la procedibilità d'ufficio. Passa qualche giorno e i ragazzi chiedono scusa. Il fatto è isolato, occasionale, non ha precedenti. Il giudice archivia pure questo "piccolo" reato.

Armi dimenticate. Un fucile vecchio, ma funzionante, scoperto in soffitta dalla polizia durante un controllo. Ma il proprietario della casa dice di non saperne niente, poi si ricorda che quel fucile era di suo padre, che aveva un regolare porto d'armi e aveva fatto regolare denuncia. Alla sua morte il figlio non si è più ricordato del fucile chiuso in un baule. La sua è detenzione illegale d'armi punibile da uno a otto anni in base alla legge 895 del 1967 poi modificata da quella del 1974, la 497. Rischia l'arresto in flagranza. Ma se dimostrerà la buona fede e proverà d'aver davvero "dimenticato" il fucile lasciandolo inutilizzato, potrà ottenere un'archiviazione.

Guida in stato di ebbrezza. Un giovane manager va a cena a casa di amici che abitano poco lontano da lui. Tre isolati in tutto. Usa l'auto perché sa che rientrerà tardi. Durante la serata beve un paio di bicchieri di vino e un paio di whisky. Al ritorno, quando sta per arrivare sotto casa, viene fermato da una volante che lo sottopone alla prova del palloncino. Che risulta positiva. In base al codice della strada rischia il sequestro dell'auto, la revoca della patente, il processo. Ma se non ha infranto il codice della strada né provocato incidenti e se il fatto è isolato può usufruire dell'archiviazione.

La diffamazione. Il giornalista scrive un articolo su un personaggio pubblico riportando nel suo pezzo una citazione dal pezzo di un suo collega che contiene una ricostruzione, peraltro non smentita, ma giudicata falsa e diffamatoria solo quando essa viene riportata, per citazione, in questo articolo. L'articolo 595 del codice penale sulla diffamazione infligge una pena da sei mesi a tre anni. Ma se il giornalista può dimostrare che riteneva la fonte attendibile, che non aveva un intento persecutorio nei confronti del destinatario dell'articolo, che il suo curriculum professionale è immacolato, il giudice può archiviare la sua posizione.

Ingiuria aggravata. Due colleghi, di fronte ad altri dello stesso ufficio, litigano per il possesso di una scrivania. S'insultano malamente ("Sei un cornuto..." dice uno all'altro, "tua moglie è una grande p..." risponde l'altro), arrivano alle mani, parte un cazzotto che colpisce a un occhio uno dei due. È un caso classico di ingiuria aggravata, punita dal 594 del codice penale con una pena fino a un anno di carcere. Ma se, di fronte ad altri testimoni che possono provare l'autenticità del fatto, i due si riappacificano veramente, il giudice può valutare l'opportunità di un'archiviazione.

PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO. Tenuità del fatto: il vademecum della Cassazione, scrive Carmelo Minnella, Avvocato penalista, il 5 Gennaio 2016.Dopo i primi arresti giurisprudenziali sulla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis c.p. da parte dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 28/2015, la Corte di Cassazione ha iniziato a perimetrare i confini applicativi dell’istituto. Dopo i primi arresti giurisprudenziali sulla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis c.p. da parte dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 28/2015 (vedasi Non punibilità per “tenuità del fatto”: primi orientamenti in  giurisprudenza), la Corte di Cassazione ha iniziato a perimetrare i confini applicativi dell’istituto, secondo il quale, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p., l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Non si applica dinanzi al Giudice di Pace. L’art. 131-bis c.p. si affianca alle analoghe figure per irrilevanza del fatto già presenti nell’ordinamento minorile (art. 27 d.P.R. n. 448/1988) e in quello relativo alla competenza penale del Giudice di Pace (art. 34 d.lgs. n. 274/2000). Proprio prendendo atto della specificità della disciplina configurata nel procedimento penale davanti al giudice di pace, la Suprema Corte ha espressamente escluso che, in tale sede, possa trovare applicazione la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, proprio perché prevista esclusivamente per il procedimento davanti al giudice ordinario (sezione IV, 14 luglio 2015, n. 31920).

“Offensività necessaria” del fatto lieve. Per la Sez. III, 7 luglio 2015, n. 38364, affrontando la questione della offensività in concreto della condotta di coltivazione di piante da sostanza stupefacente, solo dopo il vaglio positivo della offensività della condotta incriminata, è possibile porsi in presenza di un fatto di coltivazione “modesto” la questione della possibile applicabilità dell'istituto di cui all'art. 131-bis c.p., in presenza ovviamente dei relativi presupposti.

Si applica a tutti i reati. Per Sez. IV, 2 novembre 2015, n. 44132, il legislatore, avendo posto l'istituto in parola nel contesto della parte generale del codice penale, ha evidentemente inteso attribuirgli valenza non limitata a alcune fattispecie di reato; pertanto, non appare in dubbio che l'istituto possa e debba trovare applicazione in tutti i reati, anche quelli tradizionalmente indicati come “senza offesa”, tranne le eccezioni legate ai limiti di pena (detentiva superiore a cinque anni) o alle particolari modalità del fatto (crudeltà, sevizie o condotte causative di un danno grave come la morte o lesioni gravi) o del reato (abituale o fatto non occasionale).

La stessa Cassazione ha d'altronde già affermato in passato che la particolare tenuità del fatto, concretizzatasi nella nota causa di improcedibilità di cui all'art. 34, d.lgs. n. 274/2000, trova applicazione anche con riferimento a reati di pericolo astratto o presunto.

Anche quelli a diverse soglie di punibilità. La Suprema Corte ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto al reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b, d.lgs. n. 285/1992, in quanto l’incriminazione definisce la meritevolezza di astratte classe di fatti, laddove l’art. 131-bis c.p. si impegna sul diverso piano del singolo fatto concreto. Sicché che il legislatore abbia utilizzato la tecnica della soglia (come nel caso della guida in stato di ebbrezza alcolica) o meno per selezionare classi di ipotesi che, per essere in maggior grado offensive, impongono il dispiegarsi dell’armamentario penalistico, vi è in ogni caso la necessità di verificare se la manifestazione reale e concreta – il fatto unico ed irripetibile descritto dall’imputazione elevata nei confronti di un determinato soggetto – non presenti rispetto alla cornice astratta un ridottissimo grado di offensività (Sez. IV, 2 novembre 2015, n. 44132; 31 luglio 2015, n. n. 33821).

Che la previsione di più soglie di punibilità sia compatibile con il giudizio di tenuità del fatto considerato, in quanto essa manifesta un giudizio legislativo già ispirato ai principi di sussidiarietà e offensività della tutela penale, ai quali si ispira pure l’istituto descritto dall’art. 131-bis c.p., è stata affermato anche in relazione ai reati tributari (Sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449, anche se Sez. III, con ordinanza del 20 maggio 2015, n. 21014, ha rimesso alle Sezioni Unite (tra le altre) la quaestio se sia possibile l’applicabilità della particolare tenuità del fatto per i reati tributali per i quali è prevista la soglia di punibilità.

In verità gli Ermellini ricordano che le due ipotesi non sono perfettamente coincidenti in quanto nell’art. 186, comma 2, CdS, la progressione dell’offensiva è scandita non soltanto dal passaggio dall’area delle sanzioni amministrative all’area del penalmente rilevante ma dal trascorrere di due fattispecie di reato diversamente punite.

Anche al reato permanente. Per Sez. III, 27 novembre 2015, n. 47039, il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, piuttosto, da una condotta persistente (cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell’offesa e del bene giuridico protetto) e non è quindi riconducibile nell’alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell’art. 131-bis c.p., sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza.

Anche al reato formale di reati. Sempre per Sez. III, n. 47039/2015, essendo il concorso formale tra i reati (violazione di due o più distinte violazioni di legge, pacificamente tra loro concorrenti, stante la diversità del bene giuridico tutelato) caratterizzato da una unicità di azione od omissione, risulta impossibile collocarlo tra le ipotesi di “condotte plurime, abituale e reiterate” menzionate nel terzo comma dell’art. 131-bis c.p., mentre riguardo ai “reati della stessa indole”, il fatto che la disposizione rivolga l’attenzione al soggetto che abbia commesso più reati, va escluso il concorso formale  in quanto l’espressione va riferita all’unica azione od omissione che ha poi comportato la violazione di diverse disposizioni di legge.

Ma non al reato continuato. Invece, nel caso di commissione di più reati uniti dal vincolo della continuazione, Sez. III, 13 luglio 2015, n. 29897, ha affermato che la particolare tenuità del fatto è esclusa in presenza di reato continuato, che ricade tra le ipotesi di “condotta abituale” ostativa al riconoscimento del beneficio.

Sentenza predibattimentale: non opposizione dell’imputato e del P.M.. Per la sentenza di non doversi procedere, prevista dall’art. 469, comma 1-bis c.p.p., perché l’imputato non è punibile ai sensi dell’art.131-bis c.p., presume che l’imputato medesimo e il pubblico ministero non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, rinunciando alla verifica dibattimentale (Sez. III, n. 47039/2015).

Le parti potrebbero infatti avere interesse ad un diverso esito del procedimento. L’imputato potrebbe mirare all’assoluzione nel merito o ad una diversa formula di proscioglimento o mirare alla prescrizione (per sez. III, con la sentenza n. 27055 depositata il 26 giugno 2015, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.), considerato che anche che la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto comporta, quale conseguenza, l’iscrizione del relativo procedimento nel casellario giudiziale.

… la persona offesa non ha alcun veto ma va avvisata. La persona offesa che, diversamente dall’imputato e dal P.M., non ha alcun potere di veto (Sez. IV, n. 31920/2015), mancando una espressa previsione in tal senso, deve essere comunque messa in condizione di scegliere se comparire ed interloquire sulla questione della tenuità e deve ricevere avviso della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, con l’espresso riferimento alla specifica procedura dell’art. 469, comma 1-bis, c.p.p., non potendovi sopperire la notifica del decreto di citazione a giudizio, effettuata quando tale particolare esito del procedimento non è neppure prevedibile (Sez. III, n. 47039/2015).

… appello o ricorso in Cassazione avverso pronuncia sulla tenuità? Se la pronuncia avviene in camera di consiglio, l’unico rimedio esperibile avverso la pronuncia che dichiara l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto è il ricorso per cassazione.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che, indipendentemente dalla qualificazione datane dal giudice, la sentenza pronunciata in pubblica udienza (anche per una causa di improcedibilità dell’azione come la tenuità del fatto o di estinzione del reato), dopo la formalità di verifica della costituzione delle parti, deve considerarsi come sentenza dibattimentale ed è pertanto soggetta ad appello. In questi casi, il ricorso immediato in Cassazione per violazione di legge costituisce, quindi, ricorso per saltum, con la conseguenza che, se il suo accoglimento comporti l’annullamento con rinvio, il giudice del rinvio è individuato in quello che sarebbe competente per l’appello (ancora Sez. III, n. 47039/2015).

Questa la sostanza, poi c’è la prassi.

"Nel dubbio archiviate le inchieste": tribunale intasato dai processi, il consiglio ai pm di Cagliari, scrive Enrico Fresu il 12 Giugno 2017 su "Youtg". Il messaggio ai magistrati cagliaritani è: nel dubbio, archiviate le inchieste penali. Il tribunale di Cagliari è soffocato dai processi e molti – stando alle statistiche del 2016 – si chiudono con un’assoluzione per l’imputato. Per questo l’ex procuratore Gilberto Ganassi ha diramato una circolare tra i pm: portate avanti solo le indagini che hanno buona probabilità di finire con una condanna all’esito del giudizio. Il provvedimento firmato dal procuratore aggiunto risale a marzo, ad aprile è stato comunicato all’Ordine degli avvocati. Intanto a capo della Procura cagliaritana è arrivata Maria Alessandra Pelagatti ma la circolare di Ganassi continua a sortire i suoi effetti. Creando qualche malcontento tra gli avvocati. Perché non ci sono solo i procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione, altre ruberie o spaccio. C’è anche l’altissima incidenza dei processi scaturiti da querele e denunce: sono queste a intasare le aule. E tra vedere e non vedere, il pm deve archiviare. Ganassi nella circolare richiamava due interpretazioni del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Secondo la prima “l’archiviazione deve essere richiesta solo nei casi di inequivoca infondatezza della notizia di reato”. Ossia quando è chiaro, senza ombra di dubbio, che il processo non andrà da nessuna parte. Secondo un’altra tesi c’è “idoneità a sostenere l’accusa in giudizio solo quando gli elementi acquisiti fanno ragionevolmente prevedere che all’esito del giudizio verrà confermata la responsabilità penale dell’imputato”. Il pm quindi deve cercare di capire se l’azione penale porterà con molta probabilità a una condanna, sulla base degli elementi raccolti durante le indagini. Sennò, se quindi ha qualche dubbio, la bilancia della giustizia deve pendere verso l’archiviazione. Il procuratore consigliava così di presentare “richiesta di archiviazione anche nei casi di insufficienza o contraddittorietà della prova non superabili in giudizio”. Fatte salve, è l’inciso, “le specifiche particolarità di ogni singola vicenda”. 

Sicilia, condannata la procura: non fermò in tempo l'uomo che uccise la moglie. Saverio Nolfo era stato denunciato dodici volte dalla moglie alla Procura di Caltagirone. La corte d'Appello: "Inerzia dei magistrati". Condanna a 260mila euro, scrive Manuela Modica il 13 giugno 2017 su “La Repubblica”. “Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”: con queste parole Marianna Manduca si rivolgeva alla procura di Caltagirone, poco prima di essere uccisa dal marito, Saverio Nolfo con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia. Dodici denunce cadute nel vuoto e fattesi particolarmente allarmanti negli ultimi sei mesi di vita. Quei sei mesi in cui i pm la ignorarono: “All’epoca la questione fu considerata alla stregua di una lite familiare”, commenta l’avvocato del padre adottivo dei figli di lei, Alfredo Galasso. La procura di Caltagirone (genericamente il capo dell'ufficio all’epoca dei fatti, Onofrio Lo Re, che nel frattempo è morto) è stata infatti condannata da tre giudici messinesi, due donne e un uomo, della corte d'Appello di Messina. Si tratta della presidente Caterina Mangano, Giovanna Bisignano e Mauro Mirenna, che hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria. L’azione legale di Carmelo Calì, lontano cugino della donna uccisa che ha oggi adottato i tre figli maschi (15, 13 e 12 anni) è iniziata cinque anni fa. Il processo infatti ha dovuto passare un giudizio di ammissibilità, richiesto nel caso di responsabilità dei magistrati. L’ammissibilità della richiesta era stata rifiutata dal tribunale di Messina, poi dalla corte d’Appello fino alla Cassazione che ha bocciato le corti messinesi. Solo dopo la sentenza della corte di Cassazione, dunque, che ha accolto la richiesta dei legali Alfredo Galasso e Licia D’Amico, il processo ha avuto inizio e il 7 giugno il tribunale di Messina ha depositato la sentenza riconoscendo la responsabilità negli ultimi sei mesi di vita di Marianna della magistratura. La donna aveva 35 anni quando fu uccisa da sei coltellate al petto e al torace sferrate dal marito Saverio Nolfo, all’epoca trentasettenne, adesso in carcere, condannato a vent’anni per l’omicidio. Lei era geometra e lavorava presso uno studio privato mentre lui era disoccupato e tossicodipendente. I giudici di Messina hanno riconosciuto il danno patrimoniale derivato dal fatto che i tre figli non hanno più goduto dello stipendio della madre: “Siamo parzialmente soddisfatti, ricorreremo in appello: c’è un danno morale che a Messina non è stato riconosciuto soltanto perché all’epoca la legge sulla responsabilità della magistratura era diversa ma non è un caso che sia stata modificata e che non riguardi più soltanto la limitazione della libertà personale”, ha concluso Galasso.

Denunce a perdere. Marianna Manduca e la condanna civile dei Pubblici Ministeri negligenti. 12 denunce disattese che hanno causato la morte di Marianna per mano del marito. La condanna è per responsabilità civile del Magistrato, fatto eccezionale e dopo traversie, dove a pagare sarà lo Stato e non il Magistrato, in quanto i fatti sono antecedenti all'entrata in vigore della legge sulla responsabilità civile. Lo Stato, comunque, se si si rivarrà sul suo dipendente, sarà rimborsato dall’assicurazione per responsabilità civile che i magistrati hanno stipulato per poche decine di euro annue. Assicurazione valida anche come strumento risarcitorio post riforma. Come dire: Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. 

La condanna non è per omissione d’atti di ufficio.

La condanna non è per omicidio colposo o per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale, in quanto l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (art. 40 c.p.). 

Cari giornali, fate i nomi dei condannati anche se si tratta di due pm di Catania, scrive Vincenzo Vitale il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". Le agenzie di stampa e i giornali di tutta Italia hanno riportato in questi giorni a più riprese la triste vicenda di quella donna – Marianna Manduca – uccisa dal marito, ma che inutilmente aveva denunciato, alla Procura della Repubblica, numerosi precedenti di aggressioni subite dallo stesso. Per tale motivo, i figli della donna uccisa hanno intentato causa allo Stato per ottenere un congruo risarcimento del danno per la negligenza mostrata nel caso in specie da parte di due pubblici ministeri – allora in servizio a Catania o a Caltagirone (le notizie si contraddicono) – i quali, esaminando le denunce della donna, non avevano fatto quanto necessario a dotarla di un opportuno dispositivo di sicurezza che la ponesse al sicuro dalle aggressioni del marito. E dunque, lo Stato dovrà pagare trecentomila euro ai figli e poi si potrà rivalere sui due magistrati riconosciuti responsabili dal Tribunale di Messina per tale inescusabile negligenza. La notizia suscita interesse per due motivi.

Innanzitutto, perché si tratta di una delle rarissime occasioni in cui un Tribunale riconosce la responsabilità di un magistrato (anzi di due magistrati) nell’esercizio della propria funzione: a questi esiti l’opinione pubblica è del tutta non avvezza, al punto che ormai di ricorsi per responsabilità dei giudici se ne propongono in misura sempre decrescente – prossima allo zero – temendo appunto che vengano rigettati, consacrando invece una sorta di originaria infallibilità di costoro.

Invece, da un secondo punto di vista, scandalizza davvero che nessuna agenzia di stampa o fonte giornalistica in tre giorni filati che la notizia esce a ripetizione abbia sentito il normale impulso professionale a fare i nomi di questi due pubblici ministeri: silenzio assoluto! Nessuno, dico nessuno fra gli organi di stampa li ha pubblicati o forse addirittura conosciuti: e questo sarebbe ancor più assurdo.

Ma come è possibile? Come è possibile che chi siano costoro – tanto più se, come pare, uno almeno di loro è ancora in servizio – rimanga avvolto dalla nebbia più fitta? Che si tratti di un segreto di Stato? Che ce lo dicano… E allora delle due l’una. O la stampa si autocensura, evitando di rendere pubblici i nomi dei due pubblici ministeri, per una sorta di timore non confessabile (ma timore di che cosa? Di possibili ritorsioni? Da parte di chi? E perché?); oppure opera in modo sotterraneo, ma ben percepibile dagli addetti ai lavori, una sorta di silenziosa forza intimidatrice, proveniente dal sistema giudiziario nel suo complesso, la quale mette paura a chi sia incaricato per vocazione e per obbligo deontologico – come appunto il giornalista – di dire la verità: in questo caso la verità del nome di questi due pubblici ministeri.

Questa eventualità – se fosse vera – sarebbe ancor più inquietante dell’autocensura. E allora, siccome io non credo né alla prima tesi né alla seconda, chiedo qui formalmente a tutti gli organi di stampa italiani di trattare questi due pubblici ministeri come di solito si trattano in casi del genere i sindaci, gli assessori, i primari di medicina, gli avvocati, gli stessi giornalisti e in genere tutti gli uomini normali: chiedo cioè di fare una buona volta i nomi di questi due innominati. Chi sono? Come si chiamano? Attendo.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando…Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

"In Italia ci sono milioni di vittime della male giustizia". Silvio Berlusconi non poteva evitare di ricordarlo durante l’incontro con il club lombardo di Forza Silvio, riunito a Milano. "Siamo arrivati ad avere magistrati che con troppa leggerezza arrivano a togliere libertà a cittadini italiani - dice Berlusconi - e per questo nella riforma della giustizia che vogliamo realizzare dopo aver vinto le elezioni inseriremo anche l’istituto della cauzione, come accade in America, che sarà graduata a seconda delle possibilità economiche del singolo cittadino. In carcere si dovrebbe andare solo per reati di sangue". Sempre in tema di giustizia, il Cavaliere ha anticipato qualcosa dell’instant book che ha scritto in questi giorni e che verrà distribuito a tutti i club Forza Silvio d'Italia. "Nel libro - ha detto l’ex premier - spiego la magistratura con cui abbiamo a che fare. Che è incontrollata e incontrollabile. Non paga mai anche quando sbaglia. Sono impuniti, godono di un privilegio medioevale. Se ci sono 100 imputati in un processo di solito 50 sono giudicati colpevoli. Ma qual è il risultato se l'imputato è un giudice? la percentuale scende al 4-5%. Ci troviamo in una situazione molto lontana da quella di libertà in cui dovremmo vivere. Nessun italiano può essere sicuro, in queste condizioni dei propri diritti".

Frodi, furti, corruzioni: quando il processo diventa criminogeno, scrive Donatella Stasio il 23 luglio 2013 su "Il Sole 24 ore". A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l'enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L'ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L'ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla "bilancia" un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant'è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l'effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C'è anche «l'utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso - e recente - dei processi previdenziali "finti". «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all'estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell'Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un'altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch'essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l'eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un'integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie "anime morte" della giurisdizione». Va bene Gogol', ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell'impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell'impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali».

L'elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».

Il tribunale di Vicenza, nuovo porto delle nebbie. Prima non si è occupata del caso BpVi, ora dichiara la sua incompetenza territoriale e spedisce gli atti a Milano, che a sua volta ha passato le carte alla Cassazione, scrive Paolo Madron su "Lettera 43" l'8 giugno 2017. La giustizia italiana ha un nuovo porto delle nebbie. No, non è più il tribunale di Roma, in passato famoso per la sua propensione a insabbiare. È quello di Vicenza che, di fronte al disastro della locale Popolare (siccome bisogna essere trasparenti con i lettori, azionista minore di questo giornale) ha girato la testa dall’altra parte. E quando qualcuno dei suoi magistrati pensò invece di non girarla, il tracollo era di là da venire ma già se ne intuiva qualche indizio, si pensò bene di risolvere il problema alla radice trasferendo l’impicciona, visto che era anche una discreta alpinista, nella ridente Cortina. Sto parlando del gip Cecilia Carreri, che nel 2002 respinse la richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Gianni Zonin, per oltre vent’anni incontrastato dominus della banca. Da allora nel tribunale della città del Palladio (il nuovo è un obbrobrio urban paesaggistico che non ha eguali) quello della Popolare di Vicenza è diventato un non luogo a procedere. Fino a due anni fa, quando la Bce squarciò il velo mostrando tutto il marcio che allignava in un istituto che tutti credevano sano e al riparo dai rovesci della crisi. Fu solo allora che, di fronte alla protesta di migliaia di risparmiatori ridotti sul lastrico e all’irrompere del caso Vicenza sul palcoscenico nazionale, la Procura si mosse accusando i vertici dell’istituto di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Ma, come quasi sempre avviene, al suo risveglio i buoi erano già scappati e il danno consumato. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano. Zonin aveva trasferito per tempo tutti i suoi beni a figli e parenti, e sui suoi sodali complici del misfatto non si registra esserci stata una particolare lena nell’indagarli. Almeno fino a quando due sostituti della Procura, meglio tardi che mai, hanno deciso di mettere sotto sequestro 106 milioni di euro chiedendo sei mesi fa al gip di convalidarla. Non a tutti, però, visto che tra coloro oggetto del provvedimento guarda caso non compare incredibilmente il presidente Zonin, ma solo l’ex direttore generale dell’istituto e il suo vice. Ma al danno ora i aggiunge la beffa. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano dove, fino a prova contraria, hanno sede molte importanti istituzioni ma non la Consob e nemmeno la Banca d’Italia. Ovviamente ai colleghi di Milano è bastata una rapida occhiata alle carte per dichiarare a loro volta l’incompetenza. Toccherà quindi alla Cassazione, non si sa bene quando, risolvere l’arcano. Un pasticcio che anche nel porto delle nebbie vicentino deve essere sembrato troppo, visto che il procuratore capo ha pubblicamente denunciato come abnorme la decisione del gip. Piccola nota conclusiva giusto per capire come gira da noi il mondo. Ricorda oggi Repubblica che le indagini aperte sul cda della Vicenza, quando ancora era additata come un modello di banca, per la mancata iscrizione a bilancio di alcuni milioni di minusvalenza furono repentinamente archiviate dall’allora procuratore capo Antonio Fojadelli. Il cui nome, una volta dimessosi dalla magistratura nel 2011, compare tra i consiglieri d’amministrazione della Nordest Merchant, società interamente controllata dalla Popolare di Vicenza.

La Cassazione: «Toto Riina è malato, ha diritto a morire con dignità», scrive il 5 giugno 2017 "Il Dubbio". Apertura dei giudici del Palazzaccio alla scarcerazione del “boss dei boss”: ha 86 anni, è in carcere dal 1993. Valutare nuovamente se sussistano o meno i presupposti per concedere a Totò Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute. È quanto ha disposto la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa nostra, ha annullato con rinvio la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva detto “no” alla concessione di tali benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui Riina versa da tempo. Il giudice bolognese aveva ritenuto che le “pur gravi condizioni di salute del detenuto” non fossero tali da “rendere inefficace qualunque tipo di cure” anche con ricoveri in ospedale a Parma (nel cui penitenziario Riina è recluso al 41 bis) e osservato che non erano stati superati “i limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e il diritto alla salute”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna, invece, metteva in evidenza la “notevole pericolosità” di Riina, in relazione alla quale sussistevano “circostanze eccezionali tali da imporre l’inderogabilità dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione inframuraria”. Oltre all'”altissimo tasso di pericolosità del detenuto”, il giudice ricordava “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale Riina non ha mai manifestato volontà di dissociazione”: per questo, osservava il tribunale bolognese, era “impossibile effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva” del boss, nonostante “l’attuale stato di salute, non essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di mandante”. La prima sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha ritenuto fondato il ricorso, definendo “carente” e “contraddittoria” la decisione del tribunale di sorveglianza, che ha omesso di considerare “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico”: affinchè la pena non si risolva in un “trattamento inumano e degradante”, ricordano i giudici di piazza Cavour, lo “stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto – si legge nella sentenza – avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”. I giudici di Palazzaccio, inoltre, osservano che “ferma restando l’altissima pericolosità” di Riina e “del suo indiscusso spessore criminale”, il tribunale di sorveglianza non “chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale” data la “sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e, del più generale stato di decadimento fisico” del boss. La decisione del giudice bolognese, secondo la Cassazione, non spiega come “si è giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità” imposte dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani “il mantenimento in carcere” di Riina, viste le sue condizioni di salute: la Corte afferma quindi “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto e in relazione al quale il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare deve espressamente motivare”, anche tenuto conto delle “deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma”. Il giudice di merito, dunque, deve “verificare, motivando adeguatamente in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena”. Infatti, le “eccezionali condizioni di pericolosità” per cui negare il differimento pena devono “essere basate su precisi argomenti di fatto – conclude la Cassazione – rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”. Sulla base delle indicazioni e dei principi espressi della Suprema Corte nella sentenza di oggi, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà riesaminare le istanze delle difesa di Riina.

La sentenza della Corte: «Ormai Riina è vecchio e malato. Non è più pericoloso». Secondo i giudici la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale», scrive il 6 giugno 2017 "Il Dubbio". La sentenza che ha dato il via libera alla scarcerazione di Totò Riina è una vera e propria proclamazione del diritto e dei diritti della persona. Tra le pagine firmate da Mariastefania Di Tomassi presidente della prima sezione penale della Cassazione, si legge chiaramente che la permanenza in carcere del vecchio boss nega il diritto alla salute e il senso di umanità della pena. In particolare gli ermellini “contestano” la decisione di respingere la prima richiesta di scarcerazione, avanzata dal legale del boss lo scorso anno, spiegando che nel motivare il diniego, il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva omesso di considerare il «complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». «II provvedimento impugnato – spiega infatti oggi la Cassazione – pur affermando le gravissime condizioni di salute in cui versa l’istante – soggetto di età avanzata, affetto da plurime patologie che interessano vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica – nega la sussistenza dei presupposti normativi richiesti dall’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen. per il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in particolare escludendo, da un lato, l’incompatibilità della detenzione con le condizioni cliniche dell’istante e, dall’altro, il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute». Il Collegio spiega che la decisione di negare la libertà a Riina «è carente e, in alcuni tratti, contraddittoria». Secondo la Cassazione, infatti, «il provvedimento in esame sostiene l’assenza di un’ incompatibilità dell’infermità fisica del ricorrente con la detenzione in carcere, esclusivamente in ragione della trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio della patologia cardiaca di cui quest’ultimo è affetto e dell’ adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati, al fine di prevenire danni maggiori, a mezzo di tempestivi ricoveri del detenuto presso l’Azienda ospedaliera Universitaria di Parma, ex art. 11 legge n. 354 del 1975» Insomma, secondo gli ermellini la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale». «Tale prospettiva di valutazione è parziale e, pertanto, inadeguata a sostenere la ritenuta compatibilità delle condizioni di salute del ricorrente con il regime carcerario. In particolare, il Tribunale omette, nella motivazione adottata, di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico, pure descritte nel provvedimento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, affinchè la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria». 

I mafiosi ed una morte dignitosa. Cassazione: per Riina il diritto alla morte dignitosa. Rischio ricorsi per il 41bis, scrive Roberto Galullo il 5 giugno 2017 su "Il Sole 24 ore". Due boss di Cosa nostra, due valutazioni della Cassazione che rischiano di aprire strade opposte alla carcerazione dura.

Per l’uno, Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016 nel reparto adibito ai detenuti dell'ospedale San Paolo di Milano, il carcere duro non era incompatibile con la sua situazione di salute, ma al contrario era «fondamentale» per farlo sopravvivere.

L'altro, Totò Riina, alla pari di ogni altro detenuto, deve avere il diritto «a morire dignitosamente», a maggior ragione alla luce del fatto che le sue condizioni di salute sono a dir poco precarie. Ragion per cui il Tribunale di sorveglianza competente territorialmente, ha deciso la Cassazione, sarà chiamato a rivalutare la compatibilità o la sussistenza dei presupposti per il differimento della pena, lasciando il 41 bis.

Come se non bastasse si apre ora un varco per decine di reclusi al 41 bis (il carcere duro) che per questioni legate allo stato di salute possono appellarsi al fresco precedente di Riina.

Il 9 giugno 2015 la suprema Corte di Cassazione aveva bocciato il ricorso di “zu Binnu” - nell'ultimo periodo affetto, oltre che da tumore alla prostata, da decadimento cognitivo grave, ipertensione arteriosa, infezione cronica del fegato - perché il carcere duro è «fondamentalmente incentrato sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto». Se avesse lasciato il reparto ospedaliero del San Paolo di Milano per raggiungere un reparto comune, sarebbe stato a «rischio sopravvivenza», per la «promiscuità» e le cure che venivano invece dedicate. Gli avvocati del boss avevano fatto ricorso alla Suprema Corte contro il ricovero nella camera ospedaliera di massima sicurezza chiedendo che fosse spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza dell'ospedale San Paolo.

L'11 luglio 2016, due giorni prima della morte, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto una nuova istanza di differimento pena per Provenzano (vale a dire che la pena va scontata ai domiciliari o in altro luogo di degenza al fine di garantire le cure o consentire una morte dignitosa) dell'avvocato Rosalba Di Gregorio che chiedeva la scarcerazione del boss o la revoca del carcere duro. I «trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale» avrebbero potuto esporlo «qualora non adeguatamente protetto nella persona» e «trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica» ad «eventuali rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» di cui è stato «capo fino al suo arresto». In altre parole non era più lui ad essere un pericolo per gli altri ma lui ad essere potenziale vittima per scopi dichiarati o meno.

Sul profilo malavitoso torna la Cassazione nella decisione che coinvolge Riina, boss ottantaseienne. «Fermo restando lo spessore criminale», afferma infatti, «va verificato se Totò Riina possa ancora considerarsi pericoloso vista l'età avanzata e le gravi condizioni di salute». Si ripropone dunque il quesito che riguardò Provenzano e la contestuale necessità di garantirne la sicurezza pur in una situazione di grave salute fisica. La richiesta, recita la sentenza 27.766 relativa all'udienza del 22 marzo 2017 per Riina, era stata respinta lo scorso anno dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Il Tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l'infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. La stessa che accade per Provenzano. Né più né meno. La Cassazione sottolinea, a tale proposito, che il giudice deve verificare e motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità» da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena». Il collegio ha ritenuto che non emerga dalla decisione del giudice il modo in cui si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Questa decisione apre la strada ad altri ricorsi, anche in ragione della visibilità e del potere di Riina. Ricorsi che non si limiteranno soltanto ai boss in regime di 41 bis ma anche di detenuti comuni, reclusi pur in gravi condizioni di salute psichica o fisica. Molti Tribunali di sorveglianza infatti non concedono frequentemente differimenti pena legati a ragioni di salute anche gravi.

No, non è vero che la Cassazione ha detto di liberare Riina. Cosa c'è dietro la sentenza dei giudici che hanno accolto (in parte) le richieste della difesa del boss mafioso, malato, scrive Massimo Bordin il 5 Giugno 2017 su "Il Foglio". Se martedì mattina qualche giornale dovesse titolare “Vogliono liberare Riina” è bene sapere che ci sarebbe dell’esagerazione. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto a Parma) in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari. I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”. Vuol dire che dovranno scriverla meglio. La Cassazione spiega che la pericolosità da sola non basta come argomento, scrive che esiste per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”. Non si esclude che possa avvenire in carcere ma si chiede di argomentare più analiticamente. Ci sono dei precedenti, l’ultimo è il caso di Provenzano che obiettivamente stava ancora peggio di Riina ma fu lasciato morire in carcere. Prima ancora analoga sorte ebbe Michele Greco detto “il Papa” e ancora prima toccò a quello che di Riina e Provenzano era stato il capo, Luciano Liggio. Erano tutti pluriergastolani e grandi capi. Per i boss di medio calibro il trattamento è stato talvolta diverso. Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti furono mandati a morire a casa loro. Difficilmente sarà così per Riina. La Cassazione ha chiesto solo di rispettare le forme. In fondo esiste per questo.

Un uomo è un uomo…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". La coraggiosa sentenza della Cassazione che attribuisce a Toto Riina il diritto a «morire con dignità» è un colpo al populismo giudiziario e a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti. È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista – e a quella retorica giustizialista – che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato – perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso – equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale.  Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale – e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano – e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo “etico”. Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semiperdonabili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione (generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola “errata”, ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione.

L’ascesa di Riina, così “u Curtu” prese il posto di Liggio, scrive Paolo Delgado il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". È stato un’anomalia feroce e distruttiva. Durante il suo impero, amici e nemici sono morti a migliaia. Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993. Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia. Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno. Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro. A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella. Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”. Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia. Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.

Nel carcere di Riina sono reclusi altri tre novantenni. Non c’è solo Totò “u’ curtu” nel carcere di Parma, scrive Damiano Aliprandi il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Proprio nel carcere di massima sicurezza di Parma dove è detenuto Toto Riina, ci sono altri casi di detenuti al 41 bis affetti di gravi patologie dovuti soprattutto alla loro età avanzata. Almeno tre di loro hanno raggiunto il novantesimo anno di età. Il caso più eclatante riguarda Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il mese scorso – che, come si legge nella cartella clinica, soffre di disturbi cognitivi, deficit della memoria e altre patologie legate all’età. Una situazione che dal momento all’altro potrebbe ulteriormente peggiorare, tant’è vero che gli stessi operatori sanitari del penitenziario hanno espresso parere favorevole per un trasferimento presso una struttura più adeguata. Questa notizia – pubblicata nei giorni scorsi da Il Dubbio – è emersa grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, giunta al tredicesimo giorno dello sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario, per non vanificare il lavoro degli stati generali sull’esecuzione penale: non solo per porre rimedio all’impennata di sovraffollamento, ma anche per umanizzare l’intero sistema penitenziario comprensivo dello stesso 41 bis. Secondo gli ultimi dati, del 24/ 01/ 2017, ci sono 729 detenuti al 41 bis. Nel carcere di Parma vi sono recluse 65 persone al regime di carcerazione dura. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Il 41 bis ha come finalità l’evitare eventuali rapporti all’esterno con la criminalità organizzata, ma come si evince dalla relazione della commissione del Senato, guidata dal senatore Luigi Manconi, esistono regole restrittive che non avrebbero nessun legame con questa esigenza. Ad esempio c’è un isolamento di 22 ore al giorno, è vietato di attaccare fotografie al muro, c’è una limitazione dei capi di biancheria, l’uso del computer per chi studia è consentito a patto che quell’ora venga sottratta dall’ora d’aria. Sempre nel carcere di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ci aveva segnalato che ai detenuti reclusi al 41 bis viene puntata la telecamera direttamente sul water. Una privacy completamente annientata.

I Pm chiedono garantismo (ma soltanto per loro), scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 giugno 2017 su "Il Dubbio". Pronta la delibera che “scagiona” le (poche) toghe che hanno subito provvedimenti disciplinari. Il 99,7% dei magistrati ha una valutazione positiva, un “unicum” nelle democrazie occidentali. Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato, su proposta della Sesta commissione, competente sull’ordinamento giudiziario, una delibera destinata sicuramente a far discutere. In estrema sintesi, i consiglieri chiedono al Ministro della Giustizia di adottare «ogni iniziativa nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di introdurre un’apposita disciplina legislativa che permetta l’estensione anche alle toghe dell’istituto della riabilitazione». Attualmente non è previsto, infatti, nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la ‘ macchia” disciplinare. Nella sostanza questo determina, ad esempio, un handicap nei giudizi comparativi per accedere ai posti direttivi. In primis di procuratore o di presidente di tribunale. «Dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta», si legge nella delibera indirizzata al Ministro Andrea Orlando, si potranno dunque eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna. L’Assemblea del Palazzo dei Marescialli chiede, al momento, di limitare la riabilitazione ai casi di condanne alle sanzioni meno gravi (cioè censura e ammonimento), e di porre quale condizione ostativa la pendenza di procedimenti penali o disciplinari per fatti tali da pregiudicare la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario. Censura e ammonimento, in specie, colpiscono i casi di ritardo nel deposito di una sentenza. Va ricordato che ben il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un “unicum” fra le democrazie occidentali come spesso ricorda il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che pone interrogativi su come vengono effettuate le valutazioni di professionalità. Con questo “colpo di spugna” si aumenterà verosimilmente tale numero. “L’ineccepibilità” della con- dotta richiesta, poi, dovrebbe essere la norma, un prerequisito, per chi esercita la giurisdizione e lo differenzia dalla platea dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Forse sarebbe stato il caso, per ottenere la riabilitazione, di richiedere un qualcosa che vada oltre. E c’è da chiedersi, infine, cosa penseranno i magistrati che si sono sempre comportati in maniera corretta, soprattutto quando vengono comparati i loro profili nell’assegnazione delle tanto ambite carriere direttive.

Totò Riina, scandalo italiano: vive in un centro di eccellenza medico, scrive "Libero Quotidiano" il 7 Giugno 2017. Da circa due anni Totò Riina non di fatto rinchiuso in carcere, ma ricoverato all'ospedale Maggiore di Parma. Il dettaglio non da poco era stato chiarito dal suo avvocato, Luca Cianferoni, durante la trasmissione L'aria che tira su La7, nel pieno del dibattito scatenato dalla sentenza della Cassazione sul diritto a "una morte dignitosa" per i detenuti. In attesa che il tribunale di sorveglianza di Bologna si esprima sull'eventuale scarcerazione, Riina resta in una sorta di stanza segreta della clinica universitaria di Parma, dove è ricoverato dal 5 novembre.  Come riportato da Repubblica, la stanza di Totò 'u Curtu è sostanzialmente una cella blindata, dove l'accesso è consentito solo a medici, infermieri e guardie. Ampia solo cinque metri per cinque, la stanza gode di un affaccio sulla città di Parma. Negli ultimi tempi il bosso avrebbe chiesto una radiolina e un calendario. Una richiesta che non potrà vedere soddisfatta, perché nella cella sono ammesse solo apparecchiature mediche. Il capo di Cosa Nostra è tenuto sotto stretta osservazione dai medici, a causa di diverse patologie che si sono aggravate nel corso degli anni.  Al di là della "morte dignitosa" e del diritto a curarsi e non peggiorare le condizioni in carcere, che è un sacrosanto diritto costituzionale, stona un po' che il boss sia così "coccolato", mentre spesso e volentieri per un cittadino libero qualunque le liste di attesa negli ospedali pubblici sono lunghissime, spesso in edifici fatiscenti. Così come stona un po' che un paziente le cui condizioni "sono ormai gravissime", prenda parte ad ogni tappa processuale (in collegamento video in barella) e sia l'unico degli imputati o teste a non assentarsi mai, a non fermarsi per pranzare o bere. In ogni caso la permanenza di Riina nell'ospedale di Parma non ha turbato la vita della struttura. L'ordine è quello di passare inosservati. Niente militari in divisa, niente mitragliette in vista. Gli spostamenti senza sirene. Adesso il Capo dei capi è in attesa del colloquio con i familiari, previsto una volta al mese. Ma il regime del 41bis vale anche in ospedale. La visita avverrà a un metro di distanza e non saranno permessi contatti fisici. Sarà tutto videoregistrato. Per i magistrati, Totò Riina è ancora in grado di mandare messaggi, è ancora riconosciuto come capo di Cosa Nostra.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" del 6 giugno 2017. Ha 86 anni, è in isolamento dal ’93, ne ha per poco. La Cassazione chiede i domiciliari, il tribunale si oppone in nome del carattere punitivo del carcere. Domanda: anche a Totò Riina va assicurato un «diritto a morire dignitosamente» che equivale a metterlo agli arresti domiliciari? Oppure, nonostante abbia 86 anni e la sua salute sia decisamente malmessa, deve restare in regime di carcere duro per ragioni di pericolosità o di principio? La questione è attuale, perché la Cassazione, a quanto pare, è della prima idea, mentre il tribunale di sorveglianza di Bologna è decisamente della seconda. Cercheremo si spiegare le ragioni di entrambe le parti, magari senza ammorbarvi troppo con le nostre valutazioni in merito. Allora. Riina è in galera dall’inizio del 1993 e dapprima c’era il problema di isolarlo per fargli perdere contatto con le sue truppe in rovina, perciò fu messo in regime di carcere duro 41 bis (la prima versione, la più implacabile e decisamente anticostituzionale) che tra varie vessazioni funzionò alla grande: soprattutto quando restarono operative Pianosa e l’Asinara, carceri talmente orrende da indurre alla collaborazione anche i peggiori mafiosi. Riina era monitorato notte e giorno da una telecamera (anche in bagno) e non distingueva il giorno dalla notte. In pratica vedeva solo la moglie che gli portava notizie dei figli. Poi, allentato giocoforza il 41bis anche su pressione di vari organismi internazionali, Riina potè presenziare a qualche processo dove cercò di fare quello che ha sempre cercato di fare: accreditarsi come capo di una mafia che intanto non esisteva più, svuotata di ogni struttura gerarchico-militare, coi capi e i sottoposti progressivamente tutti in galera, con armi e droga e patrimoni sequestrati, la presa sul territorio allentata, i traffici ceduti a mafie non siciliane. Dì lì in poi, Riina si è progressivamente acquietato e dalle intercettazioni (di cui era consapevole) è emerso una sorta di padre di famiglia con uscite paternalistiche che molti tuttavia si preoccupavano di interpretare o sovrainterpretare. Il processo­ectoplasma sulla “trattativa” è stata l’ultima occasione di Riina di inventarsi un contatto con la realtà degli ultimi 15 anni, coadiuvato da una preistorica “antimafia” (anche giornalistica) molto impegnata a inseguire fantasmi del passato e improbabili link col presente, tipo la panzana che Riina volesse far uccidere il pm Nino Di Matteo (che Riina probabilmente non sapeva neanche chi fosse). L’ultima fase è più o meno l’attuale: Riina è in carcere a Opera, ha 86 anni ed è affetto da duplice neoplasia renale, neurologicamente è discretamente rincoglionito (o «altamente compromesso», se preferite) e non riesce neppure a stare seduto per via di una grave cardiopatia. Insomma, non ne ha per molto. Il suo isolamento è peggiorato dal fatto che nessuno vuole condividere la cella con lui: troppi controlli e cimici, essendo lui ipersorvegliato. Ma Riina, secondo altri, resta sempre Riina. La Direzione antimafia lo considera a tutt’oggi il Capo di Cosa Nostra, benché non esista più Cosa nostra: ma si teme che i corleonesi ­ non è chiaro quali ­ dopo 25 anni possano riorganizzarsi. Per questa ragione il Tribunale di sorveglianza di Bologna, ancora l’anno scorso, respinse ogni richiesta di differimento o concessione degli arresti domiciliari, ed evidenziò «l’altissima pericolosità» e «l’indiscusso spessore criminale», dopodiché osservò pure che non vedeva incompatibilità tra le sue infermità e la detenzione in carcere: tutte le patologie risultavano monitorate, al punto che, quando necessario, era stato ricoverato in ospedale a Parma. Invece la Cassazione, a cui hanno ricorso i legali, è stata di diverso avviso, e ha invitato il Tribunale a ripensarci: ha accolto il ricorso nel marzo scorso, anche se l’abbiamo saputo solo ora. La Suprema corte ha detto che il Tribunale non aveva considerato «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico», poi che un giudice dovrebbe (doveva) motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità» da oltrepassare la «legittima esecuzione di una pena», e che non si capisce come possano essere compatibili la condizione di Riina e la stretta detenzione riservata a un vecchio. Perciò va affermato il suo «diritto di morire dignitosamente», anche perché non si vede che cosa potrebbe comandare, ridotto com’è. Chi ha ragione? In ogni caso, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ci tornerà sopra il 7 luglio prossimo. Dovessimo scommettere, premetteremmo anzitutto che non c’è giurisprudenza che non tenga conto dell’umore del Paese: ed è una fase, questa, in cui molti italiani e parlamentari continuano a pensare che la repressione penale debba avere un carattere punitivo e non rieducativo, come pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione. In carcere si deve andare a star male, questo il sentire comune. Non fu diverso, del resto, per Bernardo Provenzano: la stessa Cassazione riconobbe che fosse affetto da patologie «plurime e gravi di tipo invalidante» ma disse pure che era compatibile con la galera. Il boss morì agli arresti ospedalieri nel luglio dell’anno scorso, sempre al 41 bis.

Vittorio Sgarbi su "Il Giorno" il 7 Giugno 2017: "Totò Riina a casa non è pietà umana, ma giustizia". "se il criminale compie il crimine, lo Stato non può imitarlo, Lo Stato non si vendica, non cerca una corrispondenza tra violenza patita e pena, che non deve andare oltre quei limiti che il criminale ha calpestato". Così, Vittorio Sgarbi oggi nella rubrica quotidiana "Sgarbi Vs Capre" che ha sul quotidiano Il Giorno. Scrive, Sgarbi, a proposito della pronuncia della Cassazione sulla carcerazione del boss mafioso Totò Riina, che ha scatenato reazioni indignate pressochè ovunque, tanto da parte dei cittadini che da parte della politica. "Chi cerca la vendetta - prosegue - è come lui. Lo Stato, come non uccide, non umilia. E non è pietà cristiana. E' giustizia".

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 7 Giugno 2017: Riina in carcere, i brigatisti rossi a spasso da anni. La polemica del giorno esalta la faziosità che serpeggia in Italia. Secondo la Cassazione, Totò Riina, condannato all'ergastolo per una serie di omicidi mafiosi, potrebbe uscire dal carcere di Opera dove è blindato in regime di 41 bis e sottoposto a torture quotidiane, come ha dimostrato Melania Rizzoli nell' articolo pubblicato ieri su Libero. Il boss è dietro le sbarre da oltre due decenni, ha 86 anni, non ha molto da vivere perché soffre di svariate malattie, cardiache e tumorali. Tenerlo in galera non è un atto di giustizia, bensì di gratuita crudeltà dato che egli non è in grado di fare male a una mosca, essendo ridotto a uno straccio. I soliti cattivoni (politici e commentatori di pronto intervento) sono indignati all' idea che il detenuto venga spedito a casa sua in barella, preferiscono che costui patisca in cella pur essendo in stato preagonico. Sono duri e puri? Nossignori, sono ignoranti, non conoscono in che cosa consista il 41 bis e non hanno letto nemmeno una pagina di Cesare Beccaria (consigliamo a tutti di ripassarne il testo famoso, Dei delitti e delle pene). Altrimenti saprebbero che la prigione riservata ai criminali organizzati è una vergogna nazionale, per eliminare la quale nessuno muove un dito. Trattasi di isolamento perenne, un'ora di aria al dì, telecamere e luci sempre accese inquadrano anche il water e chi lo usa. La sorveglianza spietata è prevista 24 ore. Guantanamo, al confronto delle nostre strutture dedicate ai farabutti incalliti, è un ameno villaggio turistico. Fantastico. Il Parlamento è in procinto di approvare il reato di tortura da contestare ai poliziotti che eventualmente ricorrano ai muscoli per arrestare un delinquente. Però i deputati e i senatori consentono alle istituzioni di sottoporre a supplizi gli "ospiti" del succitato 41 bis. Non solo, non pensano neanche ad abolire le cosiddette pene accessorie. Esempio. Bossetti si è beccato l'ergastolo, che tuttavia non bastava: gli hanno aggiunto per sovrammercato un paio d' anni di isolamento. Mancavano due calci quotidiani nel didietro. Altro che culla del diritto, siamo la tomba della civiltà. Torniamo a Riina. Lo hanno spacciato per capo dell'onorata società, lui analfabeta tenne in scacco per venti anni e passa carabinieri e agenti, i quali lo cercarono dovunque, in qualsiasi angolo della Sicilia tranne che nella sua abitazione nel centro di Palermo, e qui fu poi scovato. Vengono dei sospetti: o fingevano di dargli la caccia, oppure erano un po' storditi. Altra spiegazione non esiste. Se il comandante supremo della mafia era davvero Totò, un nano capace a malapena di firmare, ci domandiamo con inquietudine per quale motivo gli intelligentoni della sicurezza non lo acchiapparono prima che ne combinasse di cotte e di crude. Un mistero ancora da svelare. Adesso che il nano è uno zombi, gli inflessibili giustizialisti insistono: fatelo marcire nella tomba di cemento che lo rinchiude. Deve patire. Essi agirono diversamente con i bastardi delle Brigate rosse che fecero più vittime del morbillo. Non ne è rimasto uno sotto chiave. Tutti liberi e belli, uno è entrato a Montecitorio, alcuni insegnano (quali materie si ignora) addirittura all' università, scrivono brutti libri, concionano in centinaia di conferenze pubbliche. Pluriassassini come Viscardi di Prima linea sono stati scarcerati subito, restituiti al consorzio umano quasi che fossero dei ladruncoli di ortaggi. In effetti ci sono assassini e assassini, quelli politici, via dalle pazze carceri medievali: meritano la riabilitazione di fatto; quelli mafiosi, Riina docet, benché la vecchiaia e la malattia li abbiano stritolati, rimangano all' inferno a tribolare finché non avranno tirato le cuoia. Se questa è giustizia, ci sputiamo sopra.

"Lucido, determinato e non pentito. Il mio incontro con Totò Riina nel carcere di massima sicurezza". Melania Rizzoli, medico e scrittrice, ha visto e visitato il capo di Cosa Nostra. "Mandarlo a casa? Esistono centri medici carcerari che possono curare i suoi problemi di salute". Intervista di Cristiano Sanna del 6 giugno 2017 su "Tiscali notizie". Il capo dei capi sta male. Molto: neoplasia ad entrambi i reni. Ha 87 anni, è sottoposto al regime di isolamento carcerario più duro, il 41bis, dal 1993. Nelle ultime ore non si discute che di lui, dopo la decisione della Cassazione di accogliere la richiesta di mandarlo ai domiciliari per permettergli di affrontare la morte in mezzo ai familiari. Una morte dignitosa, si direbbe. Ma cosa si intende per morte dignitosa quando il protagonista della richiesta è l'uomo che ha insanguinato e terrorizzato l'Italia, quello delle bombe, dei giudici fatti saltare per aria, delle crudeli esecuzioni, della strage di Capaci, dei bambini fatti sciogliere nell'acido, delle minacce di morte violenta all'attuale pm Antimafia, Di Matteo? Dove si ferma il concetto di giustizia e comincia quello di vendetta e di accanimento nei confronti di un super criminale? Melania Rizzoli, giornalista, scrittrice, medico e politico, sei anni fa ha incontrato Totò Riina nel braccio di massima sicurezza del carcere di Opera.

Melania, tu hai raccolto le storie dei carcerati celebri e delle loro condizioni di salute in un libro.

"Sì, tra gli altri raccontai anche di Provenzano, morto in carcere, in regime di isolamento, lo scorso luglio. Quando lo incontrai era incapace di intendere e di volere. Ho visitato i centri di detenzione perché facevo parte della Commissione sanità, occupandomi dei casi di malati incompatibili con il regime detentivo: come quelli affetti da sclerosi multipla, ad esempio".

Nel 2011 ad Opera incontri Totò un Riina lucido, integro, cosciente della sua condizione di carcerato.

"Rimasi colpita: dopo tanti anni di detenzione al 41bis, che è un regime spaventoso, perché sei sempre sotto terra, isolato, non hai giornali, aveva perfino il telecomando della tv bloccato, poteva solo cambiare canale e il televisore si accendeva a orari prestabiliti, trovai un uomo fiero. Orgoglioso, di spirito elevato, Riina pareva detenuto da massimo tre mesi. Sapeva di avere una storia di potere alle sue spalle e probabilmente nel suo presente. L'ho visitato come medico, l'ho stimolato a scrivere ma si rifiutò. Nun sacciu scrivere, rispose, mai lo farei. Io volevo che lasciasse una testimonianza della sua storia criminale. Lui disse: se casomai finissi in un libro di storia mai lascerei una testimonianza di me".

Perché? Riina si percepisce più grande di quanto possano raccontare gli altri?

"Io ho avuto l'impressione che non volesse condividere la sua storia con quella della reclusione".

Dunque una specie di scissione fra l'uomo siciliano privato e il capo dei capi che ha commesso stragi e violenze di ogni genere.

"Esatto, ho avuto l'impressione che fosse tornato in libertà avrebbe ricominciato la sua storia criminale senza problema".

Quindi la posizione dell'Antimafia che continua a considerarlo il perno di tutta la storia mafiosa ancora in movimento nel nostro Paese, non è semplice allarmismo.

"Riina è in regime 41bis aggravato, se la magistratura ha deciso di tenerlo in queste condizioni ne ha tutte le ragioni. Io sono un medico, ho seguito tanti terminali, ritengo che quando una persona affronta il momento più fragile e terribile della sua vita, la morte, abbia diritto di farlo in modo dignitoso. Riina è stato trasferito nel centro medico di Parma, un'eccellenza italiana, dove sono perfettamente in grado di seguirlo". 

Un'assistenza che gli si può dare tenendolo al 41bis o anche spostandolo altrove?

"In questi centri medici ci sono strutture di massima sicurezza, per permettere di assistere malati gravi in isolamento. Non è necessaria la scarcerazione".

Torniamo all'incontro con Riina ad Opera del 2011. In un braccio di massima sicurezza con quattro celle per lato, vuoto. Dentro c'era solo lui.

"Man mano che mi avvicinavo vedevo l'ombra del cancello riflessa sul pavimento del carcere, e si sentiva una musica, l'Ave Maria di Schubert che lui stava seguendo alla tv. Incontravo il personaggio che ha firmato la storia più orribile del nostro Paese. Ancora oggi Sicilia e mafia sono sinonime. L'ex premier Renzi, di fronte all'idea di tenere il G7 in Sicilia, fu sconsigliato di farlo, perché ancora oggi all'estero la Sicilia significa mafia. Riina è responsabile della fama negativa di quella regione".

Lo vedi, gli stringi la mano, lo visiti: a parte i problemi alla tiroide, c'erano già evidenze delle neoplasie ai reni?

"Aveva già problemi renali, prima che io andassi via mi sollecitò perché accelerassi le visite specialistiche. E' un uomo molto intelligente, ci teneva ad essere curato e alla sua salute".

Il rapporto dei boss, pervertito, con la religiosità: Riina disse che leggeva regolarmente la Bibbia. Come adesione alle tradizioni religiose o come passatempo?

"Sia come passatempo sia come conforto. Quando sei in quella condizione di isolamento, solo con te stesso, rinchiuso e impedito in qualsiasi forma di comunicazione, ti resta da pensare. Avrà riflettuto probabilmente sulle sue azione e responsabilità. Mi disse che non pregava ma che la Bibbia la leggeva tutte le sere. Non ha mai voluto dare un'immagine di cambiamento".

Quindi: no scarcerazione, se c'è bisogno di curarlo lo si può fare tenendolo in isolamento carcerario.

"Se non ci fosse la possibilità di curarlo in modo dignitoso direi che bisognerebbe spostarlo da li. Non come è stato fatto per Provenzano. Ma in Italia ci sono centri di eccellenza nelle case circondariali italiane in grado di assistere un detenuto anche condannato al 41bis. Certo non avrà ciò a cui tiene di più, la vicinanza della famiglia. Chi sta in isolamento ha diritto ad una sola visita al mese, per una sola ora. Ma ribadisco: Totò Riina si trova nel centro medico del carcere di Parma, in grado di affrontare qualsiasi emergenza medica e chirurgica". 

«Il mio incontro con Totò Riina in carcere». L’ho conosciuto in cella nel 2011. Era ancora vitale, per niente depresso Parlava in siciliano, faceva il galante. «Qui divento un monachello...», scrive su "Libero Quotidiano" il 6 giugno 2017 Melania Rizzoli. Ho incontrato Totò Riina nel carcere di Opera (Mi) nel 2011, durante una delle mie visite ispettive nei centri di reclusione italiani, che svolgevo in qualità (...) (...) di parlamentare della Commissione Sanitaria della Camera dei Deputati. Il “Capo dei capi” di Cosa Nostra era recluso in regime di 41bis, in isolamento assoluto, dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio del 1993, ma quando me lo sono trovato di fronte ho visto un uomo forte e vitale, per niente depresso, anzi ancora fiero ed orgoglioso, come fosse incarcerato da appena pochi mesi. Avevo chiesto di vederlo per verificare il suo stato di salute, poiché, oltre alle varie patologie dalle quali era affetto, pochi mesi prima era stato colpito da un infarto, era stato curato ed era ancora convalescente. Sapevo che Riina non gradiva le visite di estranei, né tantomeno di parlamentari, che aveva sempre rifiutato di incontrare, per cui io chiesi aiuto al direttore del carcere di Opera, che mi accompagnò da lui nei sotterranei dell’isolamento. E per me fu un’esperienza indimenticabile. Totò “u’ curtu” era rinchiuso da solo in un intero reparto interrato, senza finestre e luce naturale, nel quale c’erano otto celle, quattro per lato, separate da un ampio corridoio, all’ingresso del quale era stato posizionato un metal detector con due agenti di polizia penitenziaria armati, alloggiati in un gabbiotto con quattro monitor, tutti collegati con la cella dell’unico detenuto di quel settore. Avanzando verso quel reparto calcolavo che quello spazio, seppur ampio, non sarebbe stato sufficiente a contenere in piedi tutte le vittime di mafia collegate a lui ed ai suoi sicari. Dopo i controlli di routine ai quali siamo stati sottoposti, io, il collega Renato Farina che si era offerto di accompagnarmi, e lo stesso direttore, questi andò avanti da solo, per informare Riina della nostra visita, avanzando verso la sua ferrata, dalla quale usciva una musica celestiale, l’Ave Maria di Schubert. Riina, senza spegnere il televisore od abbassare il volume, chiese chi volesse incontrarlo, rispose che lui non gradiva vedere nessuno e che non era interessato, esprimendosi in stretto dialetto siciliano, che però io conoscevo bene, avendolo appreso dai miei nonni materni, siciliani anche loro, per cui avanzai d’impeto di fronte a lui presentandomi, ed informandolo sullo scopo della mia visita inaspettata. Naturalmente mi rivolsi a lui nel suo stesso dialetto, cosa che lo colpì molto, e che lo fece sorridere, oltre che autorizzare gli agenti ad aprire il cancello per farmi entrare. «Allora lei mi capisce, s’accomodasse, prego trasisse» furono le sue prime parole, mentre allungava il braccio per porgermi la mano. Io ebbi un attimo di esitazione, ma poi quella stretta inevitabile mi diede un brivido, perché stavo ricambiando il saluto e stringendo la mano di un criminale assassino. Riina era vestito con una camicia bianca, pantaloni e scarpe nere senza stringhe, era sbarbato, e nonostante fosse quasi ottantenne, era brizzolato, pettinato ed ordinato, diritto come una spada, e non aveva l’aria sofferente. Notai subito un suo grosso gozzo tiroideo evidente e sporgente, e quando gli chiesi di visitarlo lui acconsentì, aprendo il collo della camicia, che era stirato, lindo e pulito, fresco di lavanderia. Il direttore si era raccomandato di non accennare nella maniera più assoluta con il detenuto alle sue vicende giudiziarie, per cui parlammo soprattutto del suo stato di salute, della sua situazione cardiaca e degli altri problemi che si evidenziavano dalla sua cartella clinica. Lui si lamentava della difficoltà e della lentezza per ottenere le visite specialistiche che gli spettavano, ma quello che mi colpiva di più era il suo stato d’animo. Riina era spiritoso, a tratti addirittura ironico, e ci teneva a dimostrare che la detenzione non gli pesava, non lo piegava, che la accettava ma non la subiva. «Qui mi stanno facendo diventare un monachello sa, ma io ero tutt’altro...». La sua cella era spoglia come quella dei frati, con un letto a branda, un solo cuscino, un comodino ed uno sgabello tondo di legno scuro vicino ad un piccolo tavolo. Sulle pareti nemmeno un crocifisso o una foto, ma un piccolo armadio senza sportelli con camicie, magliette e biancheria riposte in ordine, con una sola stampella con appesa una giacca blu. «Quando la indosso? Quando vengono gli avvocati, o quando, una volta al mese per un’ora sale su mia moglie. Io la aspetto e la vedo sempre volentieri, e mi faccio trovare ordinato. Perché io ho una buona mugliera lo sa? Le viene sempre da me, tutti i mesi prende la corriera, poi il treno e viene a trovarmi». In regime di 41bis si ha diritto ad una sola visita al mese con un solo familiare a volta e ad una sola telefonata mensile. «Se ho nostalgia della Sicilia? Ma quando mai, non sento nostalgia io, mai. Qui sto bene, mi trattano bene, mangio bene, sempre le stesse cose, ma non mi posso lamentare. E poi ho questi miei due angeli custodi (gli agenti di guardia) con i quali ogni tanto scambio qualche parola.

Il populismo giudiziario stavolta ha perso, scrive Sergio D'Elia il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il commento del segretario di Nessuno tocchi Caino. La sentenza della corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico che non dovrebbero mai albergare in un’aula di giustizia, anche di rango inferiore a quella della Cassazione. Principi e norme come «umanità della pena», «diritto a morire dignitosamente», «attualità della pericolosità sociale», sono raramente rispettati da un giudice quando si tratta di persona che per il suo passato criminale ha rappresentato l’emblema della mostruosità che non può mai svanire, che va alimentato per tutta la vita. In tempi di populismo giudiziario e, ancor più, penale non è accettabile che tali simboli del male assoluto si sciolgano come neve al sole. Totò Riina non può essere un pupazzo di neve con la coppola e la lupara di plastica in un giardino d’inverno che dura solo fino a primavera. Deve rimanere un monumento granitico e indistruttibile in servizio permanente effettivo, insieme a tutti gli altri armamentari speciali ed emergenziali della lotta alla mafia, dal 41 bis al ‘ fine pena mai’ dell’ergastolo ostativo da cui si può uscire in un solo modo: da collaboratori di giustizia o, come si dice, coi piedi davanti. La forza di uno Stato non risiede nella sua ‘ terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a sé stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire e lo stato di diritto, la legge suprema che vieta trattamenti disumani e degradanti, a morire è anche la nostra Costituzione, il senso stesso della pena, che non può essere quello della vendetta nei confronti del più malvagio dei nemici dello Stato. 

Vincenzo Stranieri è grave e la figlia fa lo sciopero della fame, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e la risposta fu: «Lo scopino per 5 minuti al giorno». Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: «Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?». E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. «Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?». Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano “Santi Paolo e Carlo” per ricevere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. «Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano». Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti?

L’avvocata di Provenzano: «Quanti sconosciuti lasciati morire al 41 bis». Intervista di Valentina Stella su "Il Dubbio" del 12 luglio 2017 alla legale Rosalba Di Gregorio che difese il vecchio boss: «Ci sono centinaia di persone in condizioni gravemente malate solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa». Riina, il cosiddetto carcere duro, alla presunta trattativa Stato- mafia. Di questi temi parla l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di numerosi boss come Bernardo Provenzano. «Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa».

Continua a tenere banco la condizione di salute di Riina rispetto ai suoi status di detenuto e imputato. Dello stato di salute di Provenzano non si discusse con lo stesso approfondimento.

«Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato: quando la Suprema corte afferma che bisogna motivare sull’attualità della pericolosità. Sostiene cose talmente ovvie, scontate e conformi al diritto che non ci sarebbe proprio da discuterne, se non per dire che andrebbe applicata a chiunque. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose dal punto di vista sanitario, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa. Vorrei chiedere all’onorevole Bindi perché non è andata a verificare anche le condizioni di salute di Provenzano, quando all’epoca la stampa se ne occupò dopo che sollevammo l’incompatibilità con il 41bis per una persona che era un vegetale. Perché non sono andati a visitarlo quando anche lui era a Parma? Io ho documentato che quando si ritiravano le magliette intime di Provenzano erano intrise di urina perché lì gli cambiavano il pannolone solo due volte al giorno e quindi poi l’urina arrivava dappertutto, fino al collo. Ho fatto fare persino il test del Dna sull’urina perché non si dicesse che non era la sua. Tutto è stato denunciato alla Procura di Parma che naturalmente ha archiviato. Ora l’onorevole Fava della commissione Antimafia dice che le condizioni di Riina non sono paragonabili a quelle di Provenzano: allora deduco che all’epoca la Commissione era in ferie».

L’Antimafia all’epoca era senza dubbio attiva: quale altra spiegazione si può trovare?

«Si scelse di dare una risposta ai familiari delle vittime lasciandolo al 41bis. Ai quali va tutta la mia comprensione, ma i problemi giuridici andrebbero affrontati in quanto tali».

Rita Dalla Chiesa, dice "mio padre non ha avuto una morte dignitosa": perché concederla a Riina?

«Il dolore è comprensibile, la solidarietà è massima, ma ciò non significa che uno Stato di diritto possa abrogare o non applicare le norme perché esiste la sofferenza delle vittime».

La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, al termine della visita a Parma dove ha verificato le condizioni di Riina, ha dato l’impressione di voler anticipare la sentenza del Tribunale di Bologna sul differimento pena.

«È bene precisare che la Commissione è andata nel reparto detenuti 41 bis dell’ospedale Maggiore di Parma. Io invito tutti invece ad andare al carcere per rendersi conto se quello al suo interno è un centro clinico e se non ci dobbiamo vergognare dei nostri cosiddetti centri clinici nei penitenziari. Ma per tornare alla domanda, a me hanno insegnato che siamo in una Nazione in cui il potere giudiziario è indipendente da quello politico. Non credo che i parlamentari dell’Antimafia abbiamo acquisito capacità medico diagnostiche e possano stabilire, con uno sguardo, al posto dei Tribunali, cosa sia giusto per un detenuto. Io non ne faccio un problema per Riina ma per tutti i reclusi. Il 41 bis si lascia ai soggetti pericolosi».

Bindi è certa che Riina sia "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia".

«Per principio lo dice. E così si disse di Provenzano. Bisogna che si mettano d’accordo su chi era il capo dei capi. Se muore anche Riina avremo allora una organizzazione acefala».

Lei ha lanciato un appello ai politici affinché visitino i reparti del 41 bis.

«Più che un appello era una sfida che credo nessuno raccoglierà mai. Per fare una cosa del genere bisogna recarsi lì all’improvviso e visitare tutte le sezioni, non solo quelle che vogliono farti vedere i direttori delle carceri».

Sul 41 bis si sono espresse riserve sia nella relazione di Luigi Manconi sia negli Stati generali dell’esecuzione penale.

«Il problema è la modalità di attuazione del 41 bis, ovvero la vivibilità in termini umani. E che si tratta di un provvedimento emergenziale diventato la norma. Non ci può essere una presunzione della presenza del contatto del detenuto con l’organizzazione criminale. Ci devono essere segnali precisi, per ipotizzare che il recluso stia veicolando ordini all’esterno. I pareri sulla permanenza al 41 bis vengono elaborati dal profilo criminale, dalle vecchie schede, ma c’è gente nel carcere che dopo anni ha fatto percorsi di ravvedimento, di cui nessuno prende atto».

In realtà come ha documentato Ambrogio Crespi nel docufilm Spes contra Spem, prodotto da Nessuno Tocchi Caino, anche persone che hanno commesso 40 omicidi dopo decenni possono riabilitarsi.

«Il problema oggi, e lo ha detto il presidente del Senato Grasso, è che o accedi alla collaborazione oppure si deduce che non vi è stata rivisitazione critica del proprio vissuto. Teoricamente si dovrebbero trasformare tutti in collaboratori di giustizia».

C’è il rischio che non si abbia nulla da dire e che si offrano false informazioni su cui poi però si imbastiscono processi.

«Il problema è a monte: lo Stato non può pretendere di usare il 41 bis per farti pentire».

Al processo Borsellino bis, Vincenzo Scarantino ha mandato al 41 bis per 20 anni degli innocenti.

«Il Borsellino quater ha stabilito che Scarantino è stato indotto a "collaborare". Si può presupporre un mancato vaglio da parte dei magistrati, prima inquirenti poi giudicanti, sul lavoro degli investigatori. Che cosa c’è stata a fare tutta la Procura in questi anni?»

Del processo Borsellino quater si è parlato pochissimo.

«L’agenda rossa di Borsellino non l’ha presa Toto Riina e neppure Graviano, non se ne facevano niente. Se Borsellino avesse annotato “la Mafia mi fa schifo” era una notizia già nota ai mafiosi. Dal processo è emerso l’intervento di terzi un po’ più in alto rispetto a quelli che io considero esecutori del depistaggio, a partire da dirigenti della Polizia, e a qualcuno non fa comodo che si sappia».

Capitolo "trattativa": Mori è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia per non aver catturato Provenzano quando si poteva.

«Non ho letto le carte processuali, ma qualcosa si può dedurre dal fatto che c’è una triplice conformità sull’assoluzione. O buttiamo via i processi o dobbiamo prendere atto di queste sentenze».

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato come inedita la dichiarazione di Graviano secondo cui Pannella nell’ 87 andò in carcere a raccogliere iscrizioni tra i detenuti.

«Da sempre in carcere si trova sostegno per le battaglie garantiste. Non mi pare una notizia che possa scalfire l’immagine del Partito radicale».

Ilaria D'Amico imprigionata in tribunale per 5 ore, lo sfogo contro la giustizia italiana: "Scusate, ora devo andare", scrive il 2 Giugno 2017 “Libero Quotidiano”. Contro i tempi biblici della giustizia italiana, in un'aula di tribunale, tuona anche Ilaria D'Amico. Già, perché la signora del calcio su Sky è rimasta "imprigionata" per quasi 5 ore in tribunale soltanto per confermare le accuse contro il suo ex commercialista, Davide Censi, che l'avrebbe truffata sottraendole 1,2 milioni di euro, destinati al pagamento delle tasse. Cinque ore d'attesa per dire poche parole: "Confermo quanto ho già dichiarato nel luglio 2016". Dunque, la D'Amico ha aggiunto con tono polemico: "Devo tornare a Milano, ho due figli". Ilaria, compagna di Gianluigi Buffon, ha atteso cinque ore senza mai incrociare lo sguardo dell'ex commercialista, che da par suo si è poi sfogato con i giornalisti presenti: "Non ho fatto nulla, voi dovete sentire tutte le campane". Durissima la replica della D'Amico: "Dico solo che la mia querela è del dicembre del 2013 - polemizza ancora contro i tempi della giustizia -. Ma questo è il paese delle sòle. Lunga vita alle sòle. Rimango a bocca aperta, ma non è che lo scopra oggi".

I giudici la zavorra dell'Italia: piangono e intanto ci fottono, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano" il 3 Giugno 2017. La Giustizia è il problema di questo Paese. Non è uno dei problemi: è «il» problema che li racchiude tutti, perché è un freno allo sviluppo imprenditoriale e all’attrazione di capitali esteri. È questa la Giustizia che interessa agli indicatori internazionali, non quella intrisa di malanimo sociale di cui vedete cianciare nei talkshow; è questa la zavorra che blocca un Paese in cui, negli ultimi venticinque anni, è cambiato semplicemente tutto tranne la Giustizia e la corresponsabilità della magistratura in questo sfascio: toghe che si atteggiano a vittime del problema e invece ne sono parte. I dati di Bankitalia, che oggi rilanciamo, sono noti a tutti gli osservatori internazionali, ma il parolaio italiano tende ormai a liquidarli come «ritardi della giustizia» quasi che fossero un destino fisiologico, un rumore ambientale, e non un carico che pesa - anche - sulle spalle di esseri umani che rappresentano l’ultima vera casta della Prima Repubblica. I dati dicono che la produttività dei tribunali nei procedimenti civili è calata dal 2014 al 2016 in tutto il territorio nazionale (la produttività è data dal rapporto tra il numero di procedimenti definiti e i giudici che se ne occupano) e spiegano che, tanto per cambiare, al Sud va nettamente peggio che al Centro Nord. Non solo: dicono che «i divari non dipendono da carenze di organico dei giudici e del personale amministrativo» (non fosse chiaro) e che questo «potrebbe dipendere da aspetti organizzativi», che è un modo gentile per dire che qualcuno lavora poco. Ma guai a dirlo. Ricorderete tutta la lagna perché il governo Renzi cercò di limitare l’unico primato occidentale della nostra magistratura: quello delle ferie. Beh, alla fine ci sono riusciti con complicati magheggi procedurali: le ferie sono più o meno quelle di prima. Anche perché molti lavorano semplicemente quanto vogliono: nessuno li controlla, non timbrano un cartellino, possono lavorare anche da casa. Poi ci sono dei fatti notori a tutti gli addetti ai lavori: tipo i corridoi dei tribunali già deserti il venerdì, le pause dopopranzo alla messicana, le assenze che coincidono spesso con le feste scolastiche, l’avvertenza che il dottore «oggi non c’è» oppure appunto «lavora a casa» o ancora «non è venuto», punto. Senza contare la chiusura estiva dei tribunali (che è una chiusura, non prendiamoci in giro: e infatti la maggioranza degli avvocati è costretta a prendere le ferie nello stesso periodo) che non esiste in nessun altro Paese serio al mondo. Sono problemi, questi? Non sia mai: la solita Associazione magistrati (che in pratica è la Cgil delle toghe) ogni volta provvede a puntualizzare che tutto quel che riguarda i magistrati è sempre sbagliato, anzi è sempre un problema di «risorse» e di «organici», poi certo, di «leggi» e loro interpretazione. La Fondazione Einaudi aveva già evidenziato che non solo l’Italia, sulla giustizia, si classifica in una posizione nettamente inferiore rispetto a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito: ma pure che - rispetto agli altri Paesi - non è nemmeno riuscita a difendere la sua posizione, passando dal 39° posto del 2012 al 42° del 2015. Altri dati (The European House-Ambrosetti) hanno spiegato che ogni anno perdiamo l’1,3% del Pil a causa della malagiustizia: fanno 22 miliardi di euro. Anche Mario Draghi ha riconosciuto che il Paese ha smesso di crescere anche per la lentezza della giustizia civile: «La durata dei processi ordinari di primo grado supera i mille giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale», disse da governatore della Banca d’Italia. Traduzione: è arduo che una banca possa finanziare una piccola azienda - magari poco conosciuta, come tutte le piccole aziende - senza una un sistema giudiziario che dia affidamento e che garantisca sentenze in tempi ragionevoli. Del resto negli anni Ottanta, secondo l’Istat, una procedura fallimentare durava in media quattro anni, ora dura più di nove. Problema di risorse, dicono i magistrati, come no: ma a parte che le toghe italiane hanno stipendi tra i più alti del mondo (qualcuno dice i i più alti), lo Stato italiano per la giustizia spende circa 70 euro per abitante (dati del Consiglio d’Europa) quando la Francia ne spende 58 a parità di giudici e cancellieri. Gli addetti ai lavori queste cose le sanno tutte, politici compresi: ma non c’è governo - anche perché i governi sono sempre d’emergenza, per definizione - che non giudichi la questione strutturale della giustizia come troppo rognosa per affrontarla come meriterebbe. E poi porta male: la giustizia i governi li fa cadere, altroché. Per il resto ci siamo abituati a considerare la giustizia come una variante del palinsesto mediatico: si è adeguata ai tempi che corrono, spettacolarizzata, la celebrità di un caso aumenta gli sforzi per risolverlo (a discapito di altri) e le indagini con rilevanza mediatica sfociano spesso in pene sproporzionate. Da qualche mese le Cemere Penali raccolgono firme per introdurre una vera separazione delle carriere dei magistrati: ci fosse un giornale che lo scrive. Anche il centrodestra ormai è fermo: Silvio Berlusconi ha cercato di cambiare le cose, ma l’ha fatto male - sicuramente - e l’ha fatto per ragioni prima personali e solo dopo pubbliche, ma almeno ci ha provato. Mentre il Pd, per lustri interi, ha finto che i problemi della giustizia fossero il falso in bilancio e il conflitto d’interessi di Berlusconi: difendendo anche la magistratura più indifendibile pur di non regalare vittorie all’avversario. I governi Renzi e Gentiloni sull’intoccabile Giustizia non hanno voluto grane (al solito) e il fiato su collo dei pitecantropi grillini, a oggi, contribuisce a una politica che sulla giustizia fa il pesce in barile: come se la definitiva affermazione del populismo penale, in Italia, fosse un mero accidente atmosferico, anzi, una colpa della «casta» che peraltro ha nella magistratura la sua vera e fossilizzata regina. Ma non l’hanno capito, i grillini. Trent’anni che ne parliamo, e ora vogliono candidare Davigo. Filippo Facci

Cittadini e magistrati. Di chi sono i tribunali? Scrive il 20 maggio 2017 Francesco Petrelli, Segretario Unione Camere Penali Italiane. Non tutti sanno che ne suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituita da “sampietrini”, i cubetti di porfido caratteristici delle strade e piazze romane. Una scelta questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia, non è un luogo separato dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione. Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata ed autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del “foro” aperto alla città ed anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia ed il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei “giudici”, che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere. Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo dal diniego apposto da alcuni importanti magistrati di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.  A Firenze in particolare, la presidente della corte d’appello ed il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso Tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano i loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni. Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie, edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale. E’ bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo di legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del “Tribunale Supremo”, in un aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale. In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella “colleganza” tra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’organo giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente ad ignari cittadini , fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.

Torino, cade dalla moto per una buca. Il pm vuole archiviare: "Se piove lo scooter si lascia a casa". Una buca nell'asfalto: in caso di pioggia ancora più insidiosa. Secondo il magistrato non c'è nesso causale tra il fondo stradale sconnesso e la caduta, ma soprattutto meglio la prudenza se le condizioni meteo non sono favorevoli, scrive "La Repubblica" l'8 aprile 2017. La pioggia da sola avrebbe dovuto convince lo scooterista a lasciare in garage la moto. Tra la buca in strada e le lesioni provocate dalla caduta rovinosa di un uomo di 37 anni, il 16 giugno del 2015 nel quartiere Vanchiglietta a Torino, non c'è "un nesso causale". E' quanto scrive il pm Vincenzo Pacileo nella richiesta di archiviazione alla denuncia presentata da un motociclista di Giaveno che era finito con la ruota anteriore del suo scooter in una buca tra via Nievo e via Ravina nel mezzo di un temporale. Il motociclista "ha ugualmente voluto proseguire", nonostante la pioggia battente "condizioni di tempo che già di per sé avrebbero sconsigliato di viaggiare in scooter", scrive ancora il magistrato che ha chiesto di archiviare la pratica senza farla arrivare in un'aula di tribunale. La prudenza, insomma -  sembra dire la procura -  comincia ancora prima di mettersi in strada, guardando le previsioni del tempo e se il clima sembra brutto è meglio scegliere un mezzo più adeguato alle circostanze. O comunque andate pure in moto, se vi pare, ma ve ne assumete la piena responsabilità e se le strade sono piene di buche il problema è solo vostro che sfidate il maltempo. E soprattutto poi non lamentatevi pretendendo ragioni e risarcimenti in nome della legge. Per giunta, prosegue il pm, la denuncia dello scooterista è sempre rimasta a carico di ignoti "non essendo stato possibile identificare l'eventuale responsabile". Ma per il legale del motociclista il responsabile c'è ed è da cercare tra chi aveva la responsabilità della manutenzione di quella strada. Ora l'avvocato dello scooterista ha depositato l'opposizione alla richiesta di archiviazione chiedendo nuove indagini.

Si fa la piega nel suo salone: parrucchiera multata. Accusata di evasione, sanzione di 500 euro. L'ultima follia di uno Stato forte solo coi deboli, scrive Riccardo Pelliccetti, Lunedì 10/04/2017, su "Il Giornale". Ormai si sfiora il ridicolo. È vero che l'Italia sia la patria del melodramma, ma certi episodi di rigidità mentale e di pedissequa osservanza delle norme, peraltro assurde, hanno i contorni grotteschi. Stiamo parlando del Stato, naturalmente, e dei blitz della Guardia di Finanza, che è costretta a fare cassa su mandato del fisco. Oramai abbiamo perduto il conto di tutte le multe scaturite dalla fantasia della burocrazia e comminate con zelo dagli agenti che devono compiacere un moloch vorace. Si potrebbe scriverne un libro. Ma ci limitiamo a raccontare l'ultimo caso in ordine di tempo, accaduto a Lecco a una parrucchiera. La signora Mara Lucci, titolare di un salone, è stata sanzionata dalla Guardia di Finanza per essersi fatta la piega nel proprio esercizio senza emettere lo scontrino. Non stiamo scherzando. Se voi avete un'attività commerciale, per esempio un bar, una pasticceria, una salumeria eccetera non potete assolutamente permettervi di bere un caffè, mangiare una pastina oppure un panino col prosciutto anche se appartengono a voi. Il motivo? La normativa sull'autoconsumo che impone, anche al titolare dell'attività, di emettere la fattura o lo scontrino fiscale. Non sappiamo cosa passasse per la testa del creativo legislatore quando ha avuto la brillante ideona, ma sta di fatto che questa è la sconsolante realtà. A questo punto, pensiamo che per qualsiasi pubblico esercente sia più conveniente andare a prendere un caffè, una pasta o un panino dalla concorrenza e non nel proprio esercizio perché, a conti fatti, gli costerebbe meno che autoemettere lo scontrino. La parrucchiera di Lecco, probabilmente ignara di questa vessazione di Stato, ha pensato di farsi la piega nei tempi morti dell'attività, fra una cliente e l'altra. E, senza rendersene conto, è diventata un pericoloso evasore fiscale, tanto da ricevere dai solerti finanzieri una multa di 500 euro. Quando le hanno contestato la violazione, ha pensato a uno scherzo, ma i toni degli agenti l'hanno subito stroncata, facendola sentire una disonesta. La signora Lucci è scoppiata in lacrime e ha invocato inutilmente il buon senso. Il buon senso? È un termine bandito nei dizionari dello Stato italiano, la cui voracità ha ormai raggiunto livelli insostenibili. Quello che sembra un caso di cronaca locale è invece il paradigma di un Paese intero, dove il cittadino è un suddito che deve piegarsi ogni qualvolta un burocrate, da Roma o Bruxelles, imponga norme incomprensibili, contradditorie, in antitesi con il buon senso. Una tirannia subdola e vendicativa. Sembra di vivere in un romanzo di Orwell. E così lo Stato despota, che ci impone di giustificare come spendiamo i nostri soldi quando dovrebbe essere lui a spiegare come spende i nostri, invece di andare a caccia di grandi evasori, di coloro che sfruttano il lavoro nero minacciando la previdenza pubblica, dei possessori di grandi patrimoni al di là dei confini, spreme i cittadini-sudditi. E se la prende con una parrucchiera di Lecco o con un barista di Albisola Superiore, che si è bevuto un caffè nel proprio bar, costatogli 500 euro; perseguita un cafè restaurant di Carpi perché il titolare ha evaso 95 centesimi non emettendo scontrini e lo bastona con una multa di 2.400 euro; sanziona pesantemente un imprenditore di San Donà di Piave perché ha scaricato con il carrello elevatore, che non ha la targa, un camion a un metro dall'azienda e non dentro la sua proprietà. Insomma, smettiamola di definire ipocritamente questi episodi come «lotta all'evasione», questa si chiama semplicemente persecuzione fiscale.

Alle mamme che spalmano marmellata 1.032 euro di multa. Scatta la colletta. Accade a Lallio (Bergamo), dove l’Associazione Genitori ha organizzato una marcia non competitiva. Solo il gestore di un chiosco poteva distribuire cibo, ma l’hanno fatto anche le mamme: «Una leggerezza». E un consigliere di minoranza le ha segnalate al Comune, scrive Armando Di Landro l'8 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Nell’Italia dei parcheggi in doppia fila troppo spesso tollerati e dei favori oltre le regole su cui troppe volte si chiude un occhio, accade anche questo: una multa da 1.032 euro a un gruppo di mamme colpevoli di aver spalmato marmellata sulle fette biscottate per i bambini, durante una marcia non competitiva. Colte con le mani nella marmellata, già, le battute potrebbero sprecarsi, ma stavolta è la sanzione a suonare assurda. Oltre che vera. A settembre l’Associazione Genitori di Lallio, paese alle porte di Bergamo, organizza la «Funny A.Ge. Run», attorno al paese. Per poter somministrare bevande il gruppo chiede un aiuto al gestore del chiosco di un parco del paese, il parco dei Gelsi, che ha già le sue licenze. Sulla carta solo lui potrebbe distribuire bibite e cibo per chi partecipa alla marcia. «Poi però quella mattina, quando abbiamo visto che la partecipazione era alta, ci siamo rimboccate le maniche e abbiamo iniziato anche noi mamme a spalmare marmellata sulle fette biscottate, soprattutto per i più piccoli, senza verificare che lo facesse solo la persona preposta — racconta Marzia Cugini, presidente dell’A.Ge. —. È stata solo una leggerezza, non avremmo mai immaginato quel che è accaduto dopo». Manifestazione ben riuscita, tutto a posto? Solo in apparenza. A novembre l’associazione riceve una comunicazione dagli uffici comunali in merito a «un’indagine amministrativa». E a fine marzo arriva una multa che sembra uno scherzo, ma non lo è, come ha segnalato il settimanale Bergamopost: 1.032 euro, è la sanzione amministrativa che l’Associazione deve pagare. Il tutto dopo una serie di controlli e accertamenti dell’ufficio tecnico iniziati su segnalazione di un consigliere comunale di minoranza, Giacomo Lodovici, della lista «Un paese in Comune Lai-Lallio». Di «comune» c’è ben poco, in questa storia: un gruppo di mamme arrabbiate da una parte, un consigliere d’opposizione dall’altra, che ritiene di aver fatto il suo dovere. Il paese bergamasco si indigna: alla festa degli Alpini sono state messe in vendita, nemmeno troppo provocatoriamente, fette biscottate con marmellata, per aiutare l’Age a pagare la multa. Lo stesso ha fatto la pasticceria caffetteria del paese «Peccati di gola», mettendo a disposizione per l’associazione un salvadanaio dove lasciare le offerte. Esempio seguito da un altro locale pubblico, che preferisce non comparire. Mentre un’azienda del paese ha promesso un contributo di 25 euro per coprire la multa a ogni coppia che sponsorizzerà i suoi prodotti. «Io ho segnalato qualcosa e qualcuno è stato multato, sono io ad aver sbagliato? — chiede il consigliere d’opposizione Lodovici —. Io gradirei che la presidente dell’associazione e il Comune rendessero pubblica la contestazione degli uffici, per far capire meglio quanto accaduto». «La manifestazione aveva tutte le autorizzazioni del caso ed è stata anche molto partecipata — replica il sindaco Massimo Mastromattei —. L’unico difetto dei volontari, e lo dico ironicamente ma anche con amarezza, è che si danno un gran da fare. Dopodiché c’è un certo divario tra il buon senso e le norme. Il caso si è cristallizzato nel momento in cui in Comune è arrivata la segnalazione del consigliere di minoranza: gli uffici hanno dovuto accertare e agire, non potevano fare altrimenti». Il sindaco non lo dice chiaramente ma il messaggio è piuttosto semplice: senza esposto si sarebbe potuto chiudere un occhio. E le mamme? Nel pomeriggio di oggi, sabato 8 aprile, la presidente dell’associazione ha dato l’annuncio soddisfatta, dopo l’amarezza: «Posso dire finalmente che il grande cuore di Lallio ci ha permesso di coprire la cifra della sanzione, ce l’abbiamo fatta. Ci hanno aiutato più associazioni, tra cui gli Alpini, più bar del paese, semplici cittadini che ci hanno portato i soldi in contanti o hanno fatto un bonifico. Com’è accaduto in altri casi, ad esempio quando ci avevano rubato un defibrillatore, anche in questo caso la catena di solidarietà ha funzionato. È bastata una settimana, o poco più».

«La moglie è posseduta»: per i giudici la colpa del divorzio è del demonio. Sentenza a Milano in una causa di separazione: «Eventi inspiegabili anche per i medici e gli esorcisti». E il Tribunale scrive «La signora non agisce consapevolmente, è agìta», scrive Luigi Ferrarella il 6 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Il Diavolo esiste davvero. Parola del Tribunale civile di Milano. Che in una causa di separazione, pur riconoscendo che il marito avesse ragione nel lamentare l’insostenibilità di un matrimonio sconvolto dagli inspiegabili comportamenti ossessivi della moglie da lui ascritti a possessione demoniaca, in sentenza non ha ritenuto di poter addebitare la colpa della separazione alla moglie: perché costei, a detta dei medici priva di patologie che possano giustificare quei fenomeni, «non agisce consapevolmente» ma «altrettanto chiaramente è “agita”». Se viene voglia di sorridere, passa subito a leggere la motivazione della sentenza depositata dai giudici della IX sezione civile. In partenza sembra una causa di separazione come tante, moglie e marito al capolinea con due figli. Il marito domanda che l’addebito della separazione sia posto a carico della moglie per l’«ossessione religiosa» scatenatale dal 2007 da «devastanti comportamenti compulsivi» ascrivibili «a possessione demoniaca».

E l’istruttoria raccoglie prove che in effetti «hanno sostanzialmente confermato la veridicità materiale» dei «fenomeni inspiegabili» narrati dal marito (anch’egli «fervente fedele» in chiesa) e confermati da molti fedeli, dal parroco, da un frate cappuccino: ecco la signora che cade vittima di improvvisi irrigidimenti o convulsioni corporee «che richiedono l’intervento di terze persone in funzione contenitiva», striscia e si scuote sul pavimento della chiesa, pur essendo di esile corporatura solleva con una sola mano una pesante panca e la scaglia contro l’altare, appare sollevarsi in aria per poi ricadere con «proiezioni paraboliche» a notevole distanza. Lei stessa, ascoltata dai giudici, sussurra solo di «non gradire parlare» di questi eventi sottoposti anche a «un monsignore esorcista della Diocesi di Milano». Anche sua sorella «conferma pudicamente che dal 2007» la familiare «aveva cominciato a stare male, un male che generava “fenomeni esterni e non dipendenti dalla sua volontà”, di cui» nessuno «sapeva dire la natura». E un frate cappuccino si dice «impressionato dai fenomeni “poltergeist”» che «si verificavano sotto i suoi occhi» nella signora, «seguita per diversi anni da sacerdoti investiti ufficialmente della funzione di esorcista».

Il Tribunale - lo si percepisce nell’imbarazzo della motivazione - non sa come uscirne. Negli atti trova «tutte testimonianze che convergono nel confermare comportamenti parossistici della signora», «eventi singolari», «fenomeni inspiegabili» anche «da un clinico medico» che ha sottoposto la donna a «una accurata valutazione psichiatrica», sottoponendola ai vari test scientifici per poi concludere che «la signora non risulta affetta da alcuna conclamata patologia tale da poter spiegare i fenomeni». E tuttavia i giudici scrivono che «la separazione non può essere addebitata alla moglie perché difetta il requisito della imputabilità soggettiva di questi comportamenti» nei quali non esprime una volontà, ma nemmeno simula, e neppure è pazza: «Non agisce consapevolmente», ma «altrettanto chiaramente ella è “agìta”». E «i tormenti» e gli «inspiegabili fenomeni subìti dalla signora sono la causa e non la conseguenza del suo atteggiamento di esasperata spiritualizzazione», attraverso il quale «fa quello che può per guarire». La separazione è così dichiarata dai giudici in via ordinaria, senza «addebito» per alcuno dei coniugi: al marito andrà la casa, alla moglie un assegno di mantenimento.

Giudici, un italiano su due non si fida. Dati ribaltati rispetto a Mani Pulite. Nel ‘94, secondo l’Ispo, la fiducia nei confronti dei magistrati arriva a toccare il 70 per cento. Venticinque anni dopo la realtà è capovolta: secondo il sondaggio Swg, il 69 per cento degli italiani pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici», scrive Goffredo Buccini il 21 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse la caduta comincia con un colpo di teatro: la mossa a effetto con cui Antonio Di Pietro, il 6 dicembre 1994, si sfila la toga dopo la requisitoria Enimont, iniziando un’inarrestabile marcia d’avvicinamento alla politica. Nei due anni precedenti il pm simbolo di Mani Pulite arriva, secondo la Doxa, a guadagnarsi la fiducia dell’83 per cento degli italiani. E ancora quell’anno, il ’94, sette italiani su dieci, secondo l’Ispo, si fidano dei magistrati, convinti che non abbiano fini politici. La realtà che un quarto di secolo dopo fotografa l’ultimo sondaggio Swg (fra il 13 e il 15 marzo, su un campione di 1.500 cittadini) è assai diversa. Due italiani su tre non credono nel sistema giudiziario, uno su due ha poca o nessuna fiducia nei giudici. E, soprattutto, la stragrande maggioranza (il 69 per cento, percentuale quasi identica ma rovesciata rispetto al ’94) pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici». Il 72 per cento trova «inopportuno» che un magistrato si candidi e il 62 per cento è contrario alle «porte girevoli», ovvero al rientro nei ranghi togati dopo un mandato elettorale. Mondi distanti. Il sondaggio, commissionato dall’associazione «Fino a prova contraria», è stato presentato ieri con l’introduzione dell’ex ministro Paola Severino e l’intervento di Giovanni Legnini. Il vicepresidente del Csm da sempre teorizza distanza tra i due mondi: per evitare «sia in fase di accesso che di reingresso che l’indipendenza della magistratura possa essere messa in discussione dalla militanza a qualunque titolo», spiegò nell’illustrare la stretta in materia del plenum del Csm più d’un anno fa. Naturalmente non c’è solo questo nel grande freddo che pare calato tra gli italiani e i loro giudici. Come è improprio imputarlo al cambio di casacca — da arbitro a giocatore — di un singolo, si chiami pure Di Pietro. Ma la percezione muta. E non pare possa attribuirsi a una svolta garantista dell’opinione pubblica se l’80 per cento continua, sia pur con diversi gradi di convinzione, a ritenere utile la carcerazione preventiva e il 74 per cento invoca mano libera per i magistrati nelle intercettazioni (uno su due è però contrario a pubblicarle sui giornali). Dubbi sul processo. La sfiducia sta, insomma, nell’istituzione, non più percepita come «altro» dalla politica. S’annida tra infelici esperienze quotidiane e distorsioni mediatiche. Quei sei italiani su dieci con poca o nessuna fiducia nel sistema si lagnano soprattutto dell’iter processuale: insomma di quel meccanismo farraginoso che, specie nel campo del civile, trasforma in una vera lotteria ogni causa. Ne deriva, fortissima, l’esigenza di una riforma del sistema, urgente per il 43, importante per il 41 per cento. Quasi sette su dieci invocano un «cambio radicale», a rammentarci pure quanto la riforma Vassalli del 1989 abbia lasciato, in fondo, a metà del guado il processo penale con rito accusatorio: un processo di parti, dunque, in cui il pm resta tuttavia ben al di sopra delle altre parti. Lo scoppio di Tangentopoli, tre anni dopo, non è forse del tutto estraneo a quest’impasse. È un Paese sconcertato. Dai troppi epigoni di Di Pietro, forse, e certo dalle tante invasioni di campo: come si coglie nei sondaggi degli ultimi vent’anni, con la fiducia nei magistrati che cala a picco tra gli elettori del centrodestra per effetto dei processi a Berlusconi, flette poi tra i supporter dell’Unione di Prodi quando i pm si concentrano sul fronte progressista, torna a salire nel centrosinistra tra il 2009 e il 2010, coi berlusconiani di nuovo al governo e nel mirino. Pm come goleador. Questo moto pendolare del consenso, da uno schieramento all’altro, disegna l’incrinarsi di un rapporto. Ora gli italiani non si fidano ma tifano, si sceglie un pm come un goleador della propria squadra. Il tempo del consenso bipartisan è passato, il patrimonio di credibilità che accompagnò i pm di Milano nella primavera del ’92 è dissipato per sempre. E la campana suona anche per noi giornalisti. Quasi un italiano su due ci chiede «più cautela» nel rivelare notizie riguardo persone sulle quali le indagini non sono ancora concluse. Il 48 per cento vorrebbe che se ne «valutassero le conseguenze». Una massima pericolosa se si fa filtro di convenienza politica, ineccepibile se diventa garanzia di umanità.

Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016. Uno studio dell'Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l'11% degli articoli racconta come va a finire un processo, scrive Maurizio Tortorella il 15 dicembre 2016 su Panorama. È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l'esito positivo per l'indagato o l'imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un'associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c'è dubbio che "l'omesso aggiornamento mediante inserimento dell'esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l'immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall'evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato. 

Devastare le città non è reato Assolto un altro antagonista. Alla vigilia delle proteste di Roma cade l'accusa principale contro il leader No Expo per i danni del 1° maggio a Milano, scrive Luca Fazzo, Sabato 25/03/2017, su "Il Giornale".  Alla lettura della sentenza gli imputati si abbracciano in aula, increduli. E allo stesso modo potrebbero festeggiare i loro compagni di fede che oggi si preparano a calare su Roma per urlare la loro rabbia contro le celebrazioni dei Trattati di Roma, perché la sentenza pronunciata ieri dalla Corte d'appello di Milano sancisce l'inerzia dello Stato davanti alle violenze di piazza: violenze annunciate e micidiali come quelle che il Primo Maggio 2015 rovinarono l'inaugurazione di Expo, e come quelle che - secondo l'allarme del Viminale - frange antagoniste apparecchiano per la giornata di oggi nella Capitale. A quasi due anni di distanza dal giorno di fuoco inflitto a Milano dai no Expo, con le forze dell'ordine attaccate a freddo e una lista interminabile di auto, negozi, banche e vetrine incendiate e distrutte, la Corte d'appello milanese annulla l'unica condanna per devastazione inflitta in primo grado. Già era quasi grottesco che delle centinaia di incappucciati del Primo Maggio ne fosse stato condannato solo uno. Ora anche quell'uno - Andrea Casieri, 38 anni, militante di un centro sociale milanese - viene salvato dai giudici d'appello: la devastazione sparisce, i tre anni e otto mesi inflitti in primo grado si riducono a due anni e quattro mesi per resistenza e travisamento, la prospettiva di finire davvero in carcere a scontare la pena svanisce nel nulla. Casieri raggiunge gli altri tre imputati nella certezza dell'impunità. Tripudio in aula. Nel dispositivo letto dal giudice Guido Piffer, Casieri viene assolto «per non avere commesso il fatto». Significa che la devastazione vi fu (e sarebbe difficile negarlo, di fronte a immagini che fecero il giro del mondo) ma che il giovanotto non ne risponde. Come e più dei giudici di primo grado, la Corte d'appello spezzetta l'analisi dei fatti, si ferma al singolo gesto del singolo incappucciato: una scelta che nel suo ricorso contro le assoluzioni dei compagni di Casieri il pm Piero Basilone aveva definito «illogica» e «inaccettabile», perché in una guerriglia pianificata come fu il Primo Maggio «l'agire di ciascun imputato nel medesimo contesto criminoso ha generato i gravi fatti di devastazione: e ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione». Ad Andrea Casieri, peraltro, la sentenza di primo grado attribuiva ruoli diretti e addirittura di comando tra i black bloc protagonisti delle violenze: «Le foto consentono di apprezzare come Casieri sia stabilmente posizionato nel gruppo di appartenenti al blocco nero, anche armati di bastone (...) l'azione di Casieri si segnala come quello di coordinamento/direzione di persone partecipanti agli attacchi»: è lui, scrisse il giudice, che fa segno di avanzare, lui a «presidiare l'avanzamento di un contingente in attacco», lui a «dirigere il formarsi di un altro contingente armato di bastoni e dotato di caschi». Bisognerà attendere le motivazioni per capire come, di fronte a simili comportamenti, la Corte abbia deciso di graziare l'unico condannato. Resta il fatto che il bilancio giudiziario della peggiore giornata vissuta da Milano è un nulla di fatto. In diretta, durante gli scontri, le forze dell'ordine scelsero (su ordine del governo) di non intervenire, anche quando sarebbe stato agevole farlo, lasciando di fatto mano libera ai violenti. «Li identificheremo, li processeremo e li puniremo», venne garantito all'epoca. Sono stati identificati e processati: ma nessuno è stato punito. A rispondere di devastazione restano solo cinque anarchici greci: che se ne stanno tranquilli a casa loro, dopo che Atene ha rifiutato la loro estradizione.

Il procuratore assolve gli scafisti: «Sono migranti come gli altri», scrive Simona Musco su "Il Dubbio" il 24 marzo 2017. Secondo Carmelo Zuccaro, capo dei Pm di Catania, chi guida i barconi viene scelto tra gli stessi rifugiati: «Gli danno in mano una bussola, un telefono satellitare e una rotta da seguire». Inutile prendersela con gli scafisti: sono migranti disperati come gli altri, scelti a caso al momento della partenza. A dirlo, davanti al comitato Schengen a Palazzo San Macuto, è stato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Una consapevolezza nata da un’indagine conoscitiva effettuata sui flussi migratori volta a fare chiarezza sul ruolo delle organizzazioni non governative nell’ambito del salvataggio in mare. Dall’indagine, è stato spiegato nel corso dell’audizione, sono emerse ipotesi di collaborazione “eccessiva” tra ong e trafficanti di uomini durante i viaggi della speranza. Accuse che sarebbero già state prospettate in due rapporti di Frontex, con riferimento alla rotta migratoria dalla Libia all’Italia. In uno dei rapporti si leggerebbe che i migranti irregolari provenienti dal nord Africa avrebbero ricevuto indicazioni chiare alla partenza sul tragitto da seguire per raggiungere le imbarcazioni della Ong. Una presenza, quella delle organizzazioni non governative, che non ha diminuito il numero di morti in mare. «Quelli che riusciamo a prendere sono soltanto gli scafisti ma questi scafisti non sono né più né meno che migranti individuati a caso», ha spiegato Zuccaro. Le indicazioni fornite ai magistrati, dunque sono chiare: «Ho detto loro che non si doveva più richiedere misura cautelare nei loro confronti perché la gravità della condotta a loro ascrivibile non era tale da giustificare la misura, essendo da giudicare come migranti a tutti gli effetti. Registriamo così una sorta di scacco che la presenza di queste ong provoca nelle attività di contrasto nel fenomeno degli organizzatori del traffico». Una visione illuminata che svuota le carceri da quelli che finiscono per essere vittime due volte. Zuccaro ha spiegato come i barconi utilizzati dai migranti siano sempre più inadeguati al loro scopo, così come inidonee sono le persone che si mettono alla guida degli stessi. «Ormai non sono più persone che appartengono, seppur a livello basso, all’organizzazione del traffico, ma persone scelte all’ultimo momento tra gli stessi migranti, a cui viene data in mano una bussola e un telefono satellitare e a cui si dice di seguire una determinata rotta che tanto prima o poi li verrà a soccorrere una ong. Ma per quanto queste organizzazioni possano essere numerose – ha aggiunto Zuccaro – non riescono a coprire tutto l’intenso traffico che parte dalle coste della Liba. Cosa comporta per quanto riguarda l’attività giudiziaria? La possibilità di intercettare i cosiddetti facilitatori, che accompagnavano le imbarcazioni nei primi tratti, ce la possiamo dimenticare, perché queste ong hanno fatto venir meno questa esigenza». Le indagini puntano a comprendere i canali di finanziamento di queste organizzazioni, in molti casi ingrassate con il 5 per mille. Sono 13 le navi di ong attive nel Canale di Sicilia e nei primi mesi del 2017, a Catania, il 50% dei migranti soccorsi è arrivato a bordo di quelle. Zuccaro ha anche evidenziato, nel corso dell’audizione, «fenomeni di radicalizzazione al terrorismo» registrati tra i migranti finiti in carcere. «Ci giungono segnalazioni molto concrete – ha spiegato – di fenomeni di reclutamento, di radicalizzazione che vedono come promotori alcuni dei migranti che sono stati arrestati per avere commesso degli illeciti e che a loro volta tentano di fare proselitismo nelle carceri. E nei due istituti di Catania abbiamo riscontri su questo». Fenomeni di radicalizzazione si sarebbero registrati anche in alcuni centri in cui è vivo il fenomeno del ‘ caporalato”, nei campi e nelle serre dove i migranti entrano in contatto con soggetti che poi sono risultati più o meno collegati con organizzazioni terroristiche. Il sospetto è che parte dei soldi derivanti dal traffico di clandestini finisca nelle mani di gruppi militari o paramilitari. «Non si possono escludere anche organizzazioni che siano collegate con il mondo del terrorismo – ha spiegato -. La mafia non è interessata direttamente dal traffico di migranti, se non indirettamente e in maniera marginale nel caporalato, perché agisce dove ci sono i grandi flussi finanziari, come quelli per i centri di accoglienza e assistenza. Le organizzazioni criminali hanno grosso interesse a potere intercettare il flusso di denaro abbastanza cospicuo che riguarda i centri di accoglienza». Come il Cara di Mineo, dove la criminalità «ha preteso l’utilizzo d’imprese a lei vicine o collegate per ottenere appalti da parte delle cooperative che gestiscono il Centro accoglienza richiedenti asilo».

Treviso, giudice inseguito in auto: "Io mi armo, lo Stato non c'è". Lettera aperta ai quotidiani Finegil del magistrato Angelo Mascolo: "Avevo superato un'auto e me la sono trovata dietro che mi abbagliava. Finché ho incontrato una pattuglia dei carabinieri. E i miei inseguitori hanno detto che volevano solo esprimermi critiche per la guida. Cosa sarebbe successo se mi avessero aggredito e io, armato come è mio diritto, avessi sparato? Troppe leggine tutelano simili gentiluomini", scrive Paolo Gallori il 24 marzo 2017 su "La Repubblica". Se un giudice irrompe a livello personale nel dibattito che divide la Nazione tra chi invoca il diritto di armarsi per difendersi e chi invece crede fermamente che l'uso della forza debba restare monopolio dello Stato, la sua opinione pesa. E se lo stesso giudice si schiera con il primo, proprio in quel Nordest dove esercita e dove il tema è rovente, il peso di quella opinione diventa incalcolabile. Perché destinato a spaccare il fronte di coloro ai quali proprio lo Stato demanda l'amministrazione delle sue prerogative chiedendo loro fedeltà e distacco rispetto ai tumulti dell'anima del comune cittadino. Ma è proprio l'esperienza da comune cittadino che si sente in pericolo e scopre di non sentirsi protetto dallo Stato che ha indotto il togato trevigiano Angelo Mascolo a lanciare la sfida. Pubblicamente, con una lettera aperta indirizzata ai quotidiani veneti del gruppo Finegil in cui racconta dell'incubo personale vissuto non tra le pareti domestiche ma in auto, l'abitacolo come unica barriera protettiva dalla violenza della strada e l'acceleratore come unica ancora a cui aggrapparsi per sfuggire al male. Per tenersi a distanza dai fari abbaglianti di un inseguitore senza volto, che ti bracca e ti sfinisce. Come in Duel, il film di debutto di Steven Spielberg. Se nella pellicola l'automobilista corre su strade aride e deserte senza trovare un'anima che corra in suo aiuto, il giudice Mascolo si imbatte invece in una pattuglia dei carabinieri. Ma il finale della storia non è quello che l'inseguito si aspetta. E allora il giudice rompe gli indugi e annuncia: "D'ora in poi sarò armato". Nella lettera Mascolo fa riferimento a un episodio accadutogli qualche sera fa. Aveva sorpassato un'auto di grossa cilindrata e una volta davanti si era ritrovato la maschera aggressiva della vettura incollata dietro e raffiche di abbaglianti ad accecarlo rimbalzando sui suoi occhi dallo specchietto retrovisore. Situazione anche piuttosto familiare agli automobilisti delle grandi città, dove sulle strade accanto alle auto corrono gli stress, i malumori, l'aggressività repressa di chi è al volante. Ma dove il coatto confronto con un "altro" senza identità risveglia anche paure e insicurezze addormentate tra le pieghe più profonde dell'inconscio. Uno di quei momenti in cui ci si ritrova a sperimentare una legge della giungla con cui l'umanità si è illusa di aver chiuso con il contratto sociale. Il giudice è immerso in quello che percepisce come un confronto diretto e dalle conseguenze imprevedibili con un improvviso nemico, quando esce dalla giungla e torna nella civiltà, rappresentata dalla pattuglia di carabinieri. Di fronte alle divise, i selvaggi e aggressivi inseguitori tornano cittadini, ritrovano l'uso della parola. E si spiegano: Mascolo era stato "seguito" per "esprimere critiche sul suo modo di guidare". A freddo, il giudice si fa delle domande. E si dà le sue risposte, arrivando alla fine a dubitare del senso del suo stesso lavoro. "Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d'ora in poi, che sarebbe successo se, senza l'intervento dei carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare?". E aggiunge: "Se avessi sparato, avrei subito l'iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente - ed è qui il grave errore - tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti". Il problema della legittima difesa "è un problema di secondo grado - accusa Mascolo - come quello di asciugare l'acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature. E cioè: lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorazzano impunemente delinquenti di tutti i colori". Per il giudice, "la severità nei confronti di questi gentiluomini è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma che lavoro a fare?".

"Lo Stato non c'è, voglio un'arma". Lo sfogo del giudice terrorizzato, scrive il 25 marzo 2017 Alessandro Gonzato su "Libero Quotidiano". Che in Italia la questione della legittima difesa sia molto sentita non è una novità. Ma non avevamo mai sentito un magistrato affermare pubblicamente - e con una simile veemenza - di volersi armare per difendersi dai delinquenti, «perché lo Stato ha perso completamente il controllo del territorio». Il giudice Angelo Mascolo, componente dell'ufficio dei gip del tribunale di Treviso, ha inviato una lettera ad alcuni quotidiani veneti per denunciare il clima di insicurezza che ci attanaglia. Ha preso spunto da un episodio capitatogli qualche sera fa quando, sorpassata un'auto, il conducente (che viaggiava con un passeggero) ha cominciato a inseguirlo a colpi di abbaglianti. Il giudice, qualche minuto dopo, ha incrociato una pattuglia dei carabinieri, ha segnalato gli inseguitori che, fermati, si sono giustificati dicendo che volevano solo esprimere le proprie rimostranze sul modo di guidare del magistrato. Il quale nella lettera si chiede: «Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d' ora in poi, cosa sarebbe successo se, senza l'intervento dei carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare? Se avessi sparato», continua Mascolo, «avrei subito l'iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente, ed è qui il grave errore, tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti». Il magistrato si è poi soffermato sulle conseguenze economiche di una sua eventuale reazione: «Sarei andato incontro quantomeno alla rovina per le spese dell'avvocato». In Italia, secondo il giudice del tribunale di Treviso, «scorrazzano a qualunque latitudine delinquenti di tutti i colori, nonostante gli sforzi eroici di poliziotti anziani, mal pagati e meno ancora motivati dallo scarso rigore della magistratura». Mascolo prosegue puntando il dito contro «le leggi» che spesso tutelano i criminali «e che talvolta ti fanno pensare: ma cosa lavoro a fare? Il lavoro di un giudice penale oggi è paragonabile a quello del soldato al quale, per tenerlo calmo, fanno scavare un buco per poi riempirlo». Va detto che Mascolo non è nuovo a uscite di un certo tipo. Lo scorso luglio, dopo aver scarcerato un imprenditore e due finanzieri accusati di corruzione, in un'intervista aveva derubricato a «regalino» due orologi consegnati a chi doveva effettuare l'ispezione. «Non ho visto nessun elemento da cui si desuma la corruzione» aveva detto, motivando la sua decisione. «Può essere benissimo che questo qui, grato del fatto che non ci sono stati problemi, abbia fatto un regalo di sua volontà. Sono cose che sfuggono alla mente, ci sono reazioni psicologiche che non sono controllabili e che non sono comprensibili». Ma torniamo alla lettera del giudice e alle reazioni che ha suscitato. «Sono contento che anche tra la magistratura comincino a sentirsi voci autonome» dice a Libero Matteo Salvini. «Per molti versi, in Italia, la magistratura è un problema. Io non ho il porto d' armi, però chi ce l'ha deve potersi difendere senza essere perseguitato. Se avessi detto io le stesse cose che ha detto il giudice sarei finito probabilmente sotto processo: sono contento che le abbia dette un magistrato e sarei felice di prendermi un caffè con lui». Va però ricordato che poco più di un anno fa la Lega si era scagliata contro lo stesso giudice reo, secondo il Carroccio, di aver liberato tre immigrati presunti complici di un rapinatore. Questa volta no: il magistrato e i leghisti la pensano allo stesso modo. «Sono d' accordo col giudice Mascolo» afferma il governatore del Veneto Luca Zaia. «Aggiungo che è urgente rivedere e ampliare al massimo il concetto di legittima difesa. E i carabinieri, la polizia e la guardia di finanza devono poter scendere in strada con il codice penale, non con il libro del galateo».

"Non urla e non piange": violentatore assolto Torino diventa porto delle nebbie sugli stupri. Terzo caso in poche settimane sotto la Mole: vittime non credute o reati prescritti, scrive Luca Fazzo, Giovedì 23/03/2017, su "Il Giornale". Torino, di nuovo Torino: nelle cronache giudiziarie dei processi per stupro le sentenze che arrivano dal capoluogo piemontese hanno avuto spesso negli ultimi mesi la prima pagina dei giornali; e ogni volta si è trattato di vicende in grado di suscitare dubbi sull'operato dei magistrati chiamati a processare i responsabili di crimini odiosi. Al punto da rendere inevitabile chiedersi se esista un «caso Torino», una sorta di buco nero nella macchina della giustizia che all'ombra della Mole offre ai violentatori la scappatoia verso l'impunità. L'ultimo caso viene alla luce ieri, quando un articolo del Corriere rende note le motivazioni con cui il tribunale torinese ha assolto un infermiere accusato dello stupro di una collega, e hanno proposto alla Procura di incriminare per calunnia la presunta vittima. A rendere inattendibile la versione della donna sarebbe il fatto che durante l'aggressione non avrebbe cercato di difendersi e nemmeno gridato. «Non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», scrivono i giudici. Non lamenta dolori, non fa neanche un test di gravidanza, e anche questo convince la corte che menta. Eppure altre sentenze di altri tribunali si guardano bene dal pretendere dalle vittime comportamenti logici e lineari durante e dopo l'aggressione. L'assoluzione dell'infermiere arriva a poche settimane di distanza da altre due notizie torinesi sullo stesso tema: e che sollevano entrambe l'aspetto dei tempi biblici che a Torino permettono a due violentatori di farla franca. Il 21 febbraio si era scoperto che uno stupratore di bambini era tornato libero, dopo essere stato condannato in primo grado a dodici anni di carcere, per il semplice motivo che in dieci anni la Corte d'appello torinese non era riuscita a fissare l'esame del suo ricorso, provocando così la prescrizione del reato. Una manciata di giorni dopo, il 3 marzo, storiaccia simile: un patrigno che stuprava la figlia della sua compagna se la cava in Cassazione con tre anni e mezzo di condanna perché gli altri capi d'accusa sono prescritti grazie alla Corte d'appello torinese ha impiegato otto anni a fare il suo lavoro. Intanto lo stupratore se n'è tornato a casa sua, in Perù, donde difficilmente verrà mai estradato; e a rendere tutto più tragico c'è il fatto che la vittima non conoscerà mai l'esito del processo perché si è ammazzata lanciandosi dalla finestra. Sui giudici che hanno lasciato prescrivere il primo caso il ministro della Giustizia ha disposto una inchiesta interna, ma il timore è che il problema sia più vasto, ovvero una sottovalutazione della gravità di questi crimini e della necessità di reprimerli severamente e rapidamente. Il Giornale ha parlato di numerosi casi di processi per stupro persi per anni nelle nebbie torinesi. E anche altre fonti confermano che - almeno fino a tempi recenti - a Torino nessuno si era mai preso la briga di garantire una corsia preferenziale ai processi per stupro, che finivano a bagnomaria nel minestrone dei furti e delle bancarotte, delle truffe e dei piccoli spacci di droga: perché indicare delle priorità vuol dire anche prendersi responsabilità e correre dei rischi. Ora l'aria sta cambiando: «Sono reati su cui indagare è delicato e complesso - dice il procuratore torinese Armando Spataro - ma i pm che qui se ne occupano lavorano tanto e bene. E col nuovo presidente del tribunale abbiamo stilato un programma che prende di petto queste esigenze». 

Un convegno a Milano per parlare di malagiustizia all’italiana. Dal settimanale Radar del 9 marzo 2017. Basta un piccolo errore, una semplice superficialità, una svista o un cavillo, e qualunque persona può finire nel tritacarne di un sistema giustizia che, come un meccanismo che si inceppa, improvvisamente inizia a lavorare male. E succede così che la vita di quella persona, e la sua salute mentale, subiscono dei danni gravi e sono compromesse per sempre. Quante sono le cosiddette vittime della malagiustizia penale, civile, amministrativa e tributaria in Italia? E come si può fare se si ritiene di stare subendo un errore giudiziario? A Milano dal 2012 è nata un’associazione che si chiama Aivm. L’ha fondata Mario Caizzone, un commercialista siciliano che da trent’anni lavora a Milano e che, sulla sua pelle, ha sperimentato il tormento e la pena di essere accusato ingiustamente. Finì dentro un’inchiesta avviata dalla Procura di Milano nel 1993 quando venne ritenuto responsabile del fallimento della società Imprenori spa: peccato che Caizzone non aveva mai ricoperto in quella società nessuna carica.

“Il mio processo è durato 21 anni – racconta – e soltanto dopo 21 anni sono stato finalmente assolto”. In questo tempo lunghissimo ci sono stati per lui arresti domiciliari, finanzieri che non lo hanno mai ascoltato (lui lo ha raccontato, col risultato che poi è stato rinviato a giudizio per calunnia per poi, dopo il processo nel pro- cesso, essere assolto), amici che lo hanno abbandonato, carte su carte, solitudine e sofferenza interiore. Ancora adesso, quando lo racconta, gli viene da piangere. Gli hanno rovinato così tanto la vita che l’associazione l’ha fondata lui. Con l’obiettivo di aiutare tutti quelli che sono vittime di sbagli. E le storie sono tante.

Tanto per fare un esempio, Mario Caizzone racconta che l’associazione ha provato a fare un sondaggio tra i parlamentati italiani. La domanda era: chi è vittima di un errore giudiziario a chi può rivolgersi? Le risposte da sole fanno capire più di ogni altro commento. Al primo posto: al Padre Eterno. Al secondo posto: al Papa. Al terzo: al Presidente della Repubblica. Al quarto: al Consiglio superiore della magistratura. Al quinto posto: Al consiglio giudiziario presso la Corte d’appello. Nessuna di queste cinque risposte è risolutiva. Chi cade vittima della malagiustizia si può ritenere in un modo e basta: una persona che resterà sola.

Elisa Fasolin è la segretaria della Aivm: “A Milano abbiamo uno sportello in piazza Luigi di Savoia in cui riceviamo le persone e anche un centro di ascolto telefonico allo 02.66715134. Dal 2012 ci sono arrivate 5mila richieste di aiuto. La nostra associazione è tutta composta sol-tanto da volontari: ci sono studenti di giurisprudenza che si fanno le ossa ma anche legali professionisti. Analizziamo tutte le carte che ci vengono fornite, dalla prima all’ultima, e valutiamo se sussiste una base per parlare di malagiustizia. Di quelle 5mila richieste, ne abbiamo portate avanti 3mila. Cosa facciamo? Procediamo per chiedere una revisione del processo”.

Dentro al sito internet aivm.it ci sono le opinioni di parlamentari, esperti, giornalisti che spiegano quali sono le cause secondo loro della malagiustizia. Qui vi riportiamo per fare un esempio quella di Piero Colaprico, firma storica di Repubblica: “Tra le cause, temo che ci sia un intreccio tra la mancanza di professionalità e la mancanza di empatia, in primis da parte di avvocati, che illudono e imbrogliano il cliente, dandogli sempre e comunque ragione, e poi da parte di magistrati, che vedono talvolta numeri e seccature dove ci sono persone e storie”.

Le storie sono tantissime. C’è quella di don Marco Doppido, 47 anni, di Zidibo San Giacomo. “Andavo in bicicletta, c’era un tombino rotto, sono caduto e mi sono rotto una clavicola”, racconta. Il giovane parroco decide di chiedere il risarcimento al comune ma ha un avvocato che lo consiglia male. Succede che una perizia del Tribunale gli dà ragione (quel tombino era pericoloso), ma il giudice, non si sa perché, gli dà torto. Gli arriva il conto delle spese del processo: 8mila euro che deve pagare lui. “Il mio avvocato mi ha detto di pagare e l’ho fatto”. Cornuto e mazziato.

C’è il caso di Giuseppe Casto, di Lecce, che nel 1996 per- de il padre, investito e ucciso da un pirata della strada. Lui e la famiglia si affidano ad un avvocato per chiedere il risarcimento: il legale alla fine chiede una parcella di 160mila euro. Giuseppe li paga. Solo alla fine scopre che l’avvocato si era intascato anche i soldi dell’assicurazione. “Siccome non pagavo, hanno anche pignorato la pensione di mia madre. Alla fine me ne sono andato dall’Italia”.

La faccenda è aggravata da ulteriori due fattori: sui social “si è per sempre”. Sempre più avvocati chiedono l’applicazione del diritto all’oblio perché spesso, quasi sempre, su internet restano articoli datati anche dieci o vent’anni, quando magari una persona ha terminato il processo con l’assoluzione. Ma il problema è a monte: i giornalisti dovrebbero imparare a usare di più il condizionale, quanto meno finché non sono sicuri della colpevolezza di una persona. C’è differenza tra “preso il boss” e “preso il presunto boss”. Ricordiamoci che nessuno è colpevole finché non lo stabilisce una sentenza e in questo Paese esiste la presunzione di innocenza.

Deborah Nasti, avvocato civilista volontaria dell’associazione, aggiunge poi un altro tassello: “In Italia ci sono 250mila avvocati, in Francia ce ne sono 50mila. Un numero così alto, e l’ha detto il magistrato Piercamillo Davigo, è uno dei motivi per cui ci sono così tante cause in Italia.

Al posto di spingere le persone alla conciliazione civile (ndr la conciliazione è il procedimento attraverso il quale due parti in contrasto raggiungono un accordo amichevole con l’aiuto di un terzo), gli avvocati spingono i loro clienti a fare causa. E poi c’è il fenomeno dei cosiddetti avogati, cioè quelli che la laurea in giurisprudenza se la vanno a prendere in Spagna perché è più facile e poi vengono ad esercitare in Italia, peggiorando questo problema”.

Don Virgilio Balducchi è ispettore e cappellano delle carceri. Ha passato la vita a stare dalla parte dei detenuti: “In carcere non ci sono solo colpevoli ma ci finiscono anche innocenti. Uno dei primi che ho incontrato era un pregiudicato che non voleva ammettere di aver commesso un certo reato che gli veniva attribuito. Diceva: io quella cosa non l’ho fatta! Si è fatto quattro anni in più ma alla fine è uscito innocente. Purtroppo la giustizia cerca quasi sempre un colpevole a cui addossare la colpa”. Il cappellano ricorda due frasi dette da Papa Francesco: “State attenti a non incitare alla violenza”, e “Attenzione al populismo penale: non fate processi sui giornali”. Don Virgilio poi ricorda una cosa: “Giustizia non è punire il colpevole ma riconciliare una situazione. Altrimenti è vendetta”. Il carcere in effetti servirebbe a questo: in teoria dovrebbe essere un modo per far pagare una colpa riuscendo però a redimere la persona che ha sbagliato, restituendola alla società consapevole del suo errore e in grado di non sbagliare più.

Marta Russo, 20 anni fa il «delitto della Sapienza»: la dinamica, i testimoni, la condanna di Scattone e Ferraro. Scrive Angela Geraci il 2 maggio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Marta Russo è una studentessa romana di Giurisprudenza ed ex campionessa juniores di scherma. Ha 22 anni quando la mattina del 9 maggio del 1997, alle 11,42, viene colpita da un proiettile alla nuca mentre cammina con un’amica in un vialetto all’interno dell’Università La Sapienza, a Roma. Il colpo entra da sotto l’orecchio sinistro e le condizioni della ragazza appaiono subito molto gravi. I testimoni raccontano che nessuno si è avvicinato a Marta prima dello sparo: il colpo è partito da lontano. Molti studenti - come riporta uno dei primi lanci dell’agenzia Ansa di quel giorno - «dicono di aver sentito una sorta di “tonfo sordo” che farebbe pensare che sia stato utilizzato un silenziatore». L’amica di Marta Russo, Iolanda Ricci, dirà di aver pensato inizialmente a un malore. Buio fitto sul movente. È l’inizio di una vicenda giudiziaria lunga e molto complicata, un rompicapo per investigatori e magistrati che appassiona giornali e opinione pubblica.

La scena del crimine, il cortile dell’Università. Negli investigatori si fa subito strada il convincimento che il proiettile che ha colpito Marta sia partito dai bagni a piano terra della facoltà di Statistica. Le indagini si concentrano anche sulla ditta che si occupa delle pulizie nell’ateneo.

Marta Russo viene dichiarata morta dopo cinque giorni di agonia: alle 22 del 13 maggio 1997. I genitori Donato e Aureliana donano gli organi della ragazza, così come lei voleva. Il proiettile che ha ucciso Marta, frantumandosi in undici schegge, è un calibro 22 del peso di 2,6 grammi.

Ai funerali di Marta Russo, il 16 maggio 1997, partecipano migliaia di persone (tra cui anche Romano Prodi, Walter Veltroni, Luciano Violante, il ministro Luigi Berlinguer).

Il lavoro degli investigatori (un pool di 80 persone) continua e c’è un significativo passo avanti: il 19 maggio vengono trovate tracce compatibili con polvere da sparo sul davanzale della finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto della facoltà di Scienze Politiche. Tutte le persone che lavorano nell’Istituto - docenti, assistenti e personale amministrativo - vengono interrogate. In foto un momento della ricostruzione degli inquirenti, nel 1998.

Il 12 giugno 1997 c’è il primo arresto: si tratta del professore Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto. Il docente finisce ai domiciliari con l’accusa di favoreggiamento perché secondo l’accusa avrebbe chiesto a chi era presente negli uffici quel 9 maggio di tenere la bocca chiusa. Una settimana dopo tornerà libero e due anni dopo, il 1° giugno 1999, sarà assolto in primo grado.

A portare all’arresto del professor Romano è stata la testimonianza di una sua assistente, Maria Chiara Lipari. La ragazza fa anche i nomi di chi era presente quel giorno nell’Istituto di Filosofia del diritto (e dice anche di ricordare che c’era «un’atmosfera strana»): Gabriella Alletto, 45enne, segretaria; il ricercatore Salvatore Ferraro, 30 anni; l’assistente Giovanni Scattone, 29; l’usciere Francesco Liparota, 35 anni. In foto Maria Chiara Lipari nel 2000.

Il 14 giugno 1997, a tarda sera, vengono arrestati Giovanni Scattone (in foto lo scatto segnaletico della polizia), Salvatore Ferraro e Francesco Liparota: l’accusa è concorso in omicidio volontario.

Francesco Liparota. L’usciere dice di essere stato nell’aula 6 la mattina del delitto e di aver visto Scattone sparare e mettere la pistola nella cartelletta di Ferraro. Poi ritratta tutto spiegando di aver avuto paura e di essersi sentito sotto pressione. Sarà rinviato a giudizio e l’accusa chiederà per lui una condanna a 5 anni e 9 mesi ma verrà assolto in primo grado. Condannato a 4 anni per favoreggiamento nel primo processo di appello nel 2001; condannato a 2 anni (sempre per favoreggiamento) nell’appello bis del 2002 e infine assolto definitivamente nel 2003.

Scattone e Ferraro si dicono fin da subito totalmente innocenti ed estranei alla vicenda. Il processo inizia il 20 aprile del 1998 nell’aula bunker del Foro italico di Roma. Va in scena il balletto delle dichiarazioni dell’importante - e controversa - super testimone: la segretaria Gabriella Alletto (in foto ai tempi del processo di primo grado). Secondo gli inquirenti c’era anche lei nell’aula 6 quel 9 maggio insieme a Liparota, Scattone e Ferraro. La 45enne a lungo nega di essere stata lì, poi dichiara invece di aver visto i due assistenti: «Scattone era nell’aula 6 e aveva una pistola in mano» mentre Ferraro «era scostato dalla finestra, non poteva vedere quello che succedeva di sotto». Dirà di aver cambiato versione perché sottoposta a pressioni da parte di inquirenti e magistrati. Grandi polemiche scoppiano quando viene reso pubblico il video di un vecchio interrogatorio in cui la Alletto giurava di non aver visto nulla. Alla fine sarà rinviata a giudizio per favoreggiamento e condannata in primo grado a un mese di reclusione.

La sentenza di primo grado arriva il 1° giugno del 1999, dopo 70 udienze: Giovanni Scattone viene condannato a 7 anni di reclusione per omicidio colposo mentre a Salvatore Ferraro sono inflitti 4 anni per favoreggiamento personale. I due - per cui l’accusa aveva chiesto 18 anni per omicidio volontario ipotizzando «uno scellerato gioco criminale» alla base del delitto - vengono scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Assolti Liparota e il professor Romano. In foto Scattone e Ferraro, che fin da subito si sono detti innocenti e continueranno a farlo sempre, il giorno della sentenza.

Al primo processo d’appello che inizia il 3 maggio del 2000, il procuratore generale Luciano Infelisi chiede 22 anni per Scattone, 16 per Ferraro e 4 per Liparota. La sentenza di appello arriva il 7 febbraio e aumenta le pene per gli assistenti: 8 anni a Scattone, 6 a Ferraro. Liparota, assolto in primo grado, viene condannato a 4 anni per favoreggiamento. Ma la Cassazione, il 6 dicembre 2001, decide che il processo è tutto da rifare perché alcune prove sono «illogiche e contraddittorie» e le testimonianze della Alletto e di Lipari sono considerate inattendibili.

Il secondo processo di appello inizia il 15 ottobre 2002. La sentenza arriva il 30 novembre 2002: Giovanni Scattone viene condannato a 6 anni, Salvatore Ferraro a 4 anni e Francesco Liparota a 2 anni.

L’ultimo atto giudiziario del «delitto della Sapienza» arriva il 15 dicembre 2013: la Cassazione condanna definitivamente Scattone a 5 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio colposo; Ferraro a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento; e assolve Liparota. La sera stessa Giovanni Scattone viene portato in cella mentre con il carcere preventivo Ferraro ha già scontato la sua pena. La Cassazione decide di cancellare per lui l’interdizione all’insegnamento dato che è ritenuto colpevole di omicidio non volontario. Esce da Rebibbia il 2 aprile 2004 quando viene affidato in prova ai servizi sociali: in tutto ha trascorso in carcere 2 anni e 4 mesi. L’arma del delitto non è mai stata trovata. Scattone continua a dichiararsi innocente e nel 2007, a dieci anni dalla morte di Marta Russo, scrive un lungo articolo su L’Europeo: «Il delitto dell’università rappresenta uno dei più clamorosi errori giudiziari degli ultimi anni - scrive adombrando l’ipotesi di una pista terroristica e ricordando che il 9 maggio è l’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro - In realtà nessuna delle domande più ovvie («Chi è stato? Da dove? Perché?») ha ricevuto a tutt’oggi una risposta minimamente plausibile». Nel 2001 ha sposato Cinzia Giorgio, ragazza che si era innamorata di lui durante il processo e gli aveva scritto lettere quando lui era in galera. Nel 2015 si è tornato a parlare di lui quando ha ottenuto una cattedra alle superiori.

Nel 2011 il tribunale di Roma ha condannato Ferraro e Scattone a risarcire i familiari di Marta con circa un milione di euro. Ferraro è stato anche condannato a versare alla Sapienza 28mila euro come risarcimento per i danni d’immagine.

La famiglia I Russo. Il padre Donato, Tiziana, sorella di Marta, e la moglie Aureliana. Tiziana dichiarerà anni dopo: «Marta è morta. È stata uccisa da una pallottola. C’è la sua tomba, ci sono i suoi ricordi, c’è la sua figura in tante iniziative pubbliche. Ma ad ucciderla è stato Giovanni Scattone con la complicità di Salvatore Ferraro. Questa è la verità. Storica e processuale. Una verità grande come la memoria di una studentessa, assassinata per gioco all’università».

Il Prof. Giovanni Scattone rinuncia alla cattedra e diventa Giovanni L’Assassino. Fuori dal Coro, scrive Fabio Cammalleri il 10 Settembre 2015 su "La Voce di New York". La vicenda di Giovanni Scattone, condannato per l’omicidio di Marta Russo, la studentessa di 19 anni uccisa alla Sapienza il 9 Maggio 1997, e dissuaso da una “moral suasion collettiva” a rinunciare al ruolo di insegnante, pur avendo espiato la pena, pur riabilitato, ci dice, una volta di più, che in Italia la barbarie giuridica è preminente: oggi, dopo il processo, ieri, nel processo. Giovanni Scattone, Professore di ruolo (la nomenclatura aggiornata forse è diversa, ma ci siamo capiti), ha rinunciato alla cattedra dell’istituto professionale in cui avrebbe dovuto insegnare. Condannato per omicidio colposo nei confronti di Marta Russo, da qualche giorno era stato investito da ogni sorta di critica indiretta. Critiche allusive: certo, ha scontato la pena, però si può far insegnare psicologia a un assassino? Critiche velate: certo, era stato riabilitato, però ‘almeno’ l’interdizione dai pubblici uffici? Critiche ricattatorie: certo, era tra i legittimi destinatari della Legge di assegnazione definitiva delle cattedre, però chi è incensurato e rimane fuori? Per quanto indirette, evidentemente hanno fatta breccia nella coscienza assente di Giovanni Scattone “l’Assassino”; il quale ha così motivato la rinuncia: “se la coscienza mi dice, come mi ha sempre detto, di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati”. Non male, per una coscienza inesistente. Sì, perchè, Giovanni Scattone ha capito di essere non più un uomo, più o meno cosciente, ma semplicemente, irreversibilmente, un assassino: e con la certezza che solo il nostro magnifico Processo Penale e il nostro esemplare Ordine Giudiziario possono assicurare. Giovanni L’Assassino, pronto per la leggenda nera, come Ivàn Il Terribile, Jack Lo Squartatore e via così. Giustizia è fatta. Quasi, in verità: perchè, a voler essere precisi, misura per misura: sicchè un bel suicidio sarebbe l’ideale. Ma, dobbiamo pur sempre fingere di essere una comunità civile (una specie di Duca Vincenzo Collettivo), che deve saper distinguere Amos da un cannibale, come auspicherebbe Leo Strauss; perciò, titoli di coda ed happy end: è solo una scelta di “buon senso”, di “opportunità”, non imposta (mai sia) e tuttavia benvenuta. Ipocriti: fino alle midolla e oltre. Ma la vicenda ultima di Giovanni Scattone ci permette di tornare brevemente alla penultima, cioè al suo processo, alla sua condanna. Anzi, ai cinque processi. Perchè tanto limpide erano le prove, tanto certi erano i fatti, che alla condanna si è arrivati per consunzione. Ma non tornerò alla sentenza di condanna per la quale un Procuratore Generale di Cassazione, chiedendone l’annullamento, volle dire: “Ci sono pagine che in uno Stato di diritto non vorrei mai leggere”; precisando che bisognava “gettare alle ortiche le dichiarazioni della Alletto e di Maria Chiara Lipari”, cioè dei testimoni (diciamo) posti al centro dell’accusa; nè vorrò tornare al videotape in cui proprio la testimone Alletto crollava in lacrime, scongiurando di non essere costretta a mentire contro gli indagati; o al “la prenderemo per omicida”, graziosamente sillabatole da un pubblico ministero, per sospingerla vieppiù verso la verità (e poi titolo di un libro); nè alle quindici traiettorie ipotizzate, fra piano terreno e primo piano, da cui poi si trascelse la famosa Aula n. 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto, sul cui davanzale, però, si rinvennero solo reperti pulviscolari, a “forte possibilità” di provenire da inquinamento atmosferico e non da polvere da sparo; nè sulla postura della vittima che, se fosse stata colpita dall’Aula 6, avrebbe dovuto tenere il capo chinato verso terra e verso sinistra, come cercando qualcosa (postura mai allusa da qualcuno), e non ritto e in avanti, come quando si cammina: ma così l’unica traiettoria possibile sarebbe dovuta provenire dal primo piano (bagno dei disabili di Statistica), dove mai Scattone potè dirsi fosse stato; e non voglio riandare nemmeno alla genesi delle testimonianze -Maria Chiara Lipari che, dicendo di essere entrata nell’Aula 6 ma di non aver visto Scattone, si sente rispondere dai pubblici ministeri che allora l’indiziata è lei; così indica altre persone, fra le quali la suddetta Alletto, che nega, e allora è lei l’indiziata, costretta alla performace del videotape; no, non tornerò a cose così. E manco a dirlo, tutti, CSM, ANM, stipendi e pensioni, sono rimasti dov’erano. Non occorre tornarci: perchè sono materiali sicuri e inossidabili, che verranno utili al tempo in cui in Italia si costruirà una giusta Colonna Infame. Invece vorrei solo soffermarmi su una curiosità. Fu così equo e “diritto” quel processo, che qualcuno volle persino supporre una sorta di condanna “strategica”. Il Prof. Alberto Beretta Anguissola sostenne che la prima condanna (quella che pose le basi, per così dire) avrebbe inteso salvare i pubblici ministeri dai pasticci: giacchè, essendo contemporaneamente impegnati nelle indagini per l’omicidio del Prof. D’Antona, una clamorosa assoluzione li avrebbe indeboliti. L’estensore della sentenza di condanna, il Dott. De Cataldo, noto scrittore di provvedimenti giudiziari e di romanzi, lo citò per danni: ma non si è mai saputo da dove mai il Prof. Beretta Anguissola avesse cavato simile ipotesi, perchè alla citazione l’attore rinunciò. Il Dott. De Cataldo in uno dei suoi libri (In Giustizia, questo, una sorta di memoire) lepidamente liquidò l’ipotesi sul registro dell’assurdo: proponeva una teorica conversazione telefonica fra un ministro X o un Senatore Y, che più o meno dettavano l’immonda strategia. Assurdo, ovviamente. Sebbene, solo immaginare che l’innocenza di un imputato possa divenire oggetto di raccomandazione, come un voto di matematica o un appuntamento per la TAC, fa correre al passaporto. Che il Prof. Anguissola, studioso di Marcel Proust, non pensasse al telefono? Ma a les intermittences du coeur, al palpitante moto verso la giustizia? Alla sfuggente, misteriosa ma necessaria vastità dell’onere interpretativo, per cui, con una pistola a canna lunga ma anche corta, silenziata ma anche no, arrugginita ma da troppo per essere quella, e che nessuno ha mai trovato, un giorno, Giovanni Scattone, per gioco, per sperimentare il delitto perfetto (e, a questo punto, proprio del buon Raskol’nikov dovremmo scordarci?), o per nessun motivo, divenne Giovanni l’Assassino? E Marta Russo?  E che c’entra, Marta Russo?

Il caso Marta Russo, la finestra dell’orrore e una sentenza irrisolta. Pressioni e falle dell’inchiesta Così si è arrivati alla condanna per omicidio colposo, scrive Goffredo Buccini l'11 settembre 2015 su "Il Corriere della Sera". La finestra di Marta, ormai, quasi si confonde tra le altre, anonime, del primo piano, sul retro di Giurisprudenza. La vecchia serranda di legno marrone abbassata a metà, le doghe ingrigite della tenda, il condizionatore spostato sotto il davanzale rispetto alle foto di diciott’anni fa. Da quella finestra, alle 11 e 42 del 9 maggio 1997, partì il proiettile calibro 22 che stroncò la vita di Marta Russo, a quindici metri di distanza, lì in mezzo al vialetto, dove è stata piantata una magnolia dai genitori. E a quella finestra è rimasta incatenata la vita del colpevole, Giovanni Scattone, ben oltre la condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. Nell’aula 6 del dipartimento di Filosofia del diritto, da dove Scattone, secondo la sentenza, ha sparato, ora ci tengono i seminari. Chiedo: non fa impressione? «Ma lei quanti crede che lo sappiano?», mi risponde sorridendo Andrea, classe 1988, quarta elementare diciott’anni fa, sbucando dalla porta del collettivo studentesco: «Lo sappiamo io e pochi altri». Delitto e processo sono rimasti imprigionati come Scattone, appesi a quella finestra dell’orrore, dentro una bolla di non detto che a quel tempo la gente ha tuttavia percepito, è diventata narrazione popolare ed è stata la dannazione successiva dell’ex assistente della Sapienza, la sua pena accessoria e impronunciabile che ancora oggi lo costringe a rinunciare a una cattedra. Andrea ha appena due anni meno di Scattone allora, ma pare un ragazzo, come molti di una generazione consegnata dalla precarietà a un’infinita adolescenza. Fisico da rugby, barbetta, garantismo tenace: «L’hanno condannato per omicidio colposo, no?, mica è un pedofilo. Mica gli hanno dato interdizioni. Io dico, basta, rispettiamo le sentenze: perché non dovrebbe insegnare?». Ma il punto sta proprio là, per molti: nel percorso della sentenza e nel non detto. Per capirlo occorre un esempio astratto: se il professor X, né ubriaco né drogato, ammazza un passante con la macchina in un malaugurato incidente stradale e viene condannato per omicidio colposo, a quanti salterebbe in mente di impedirgli poi di tornare in cattedra? E allora dov’è la differenza con la condanna per omicidio colposo inflitta a Scattone? Proviamo a dirlo senza girarci attorno, scusandoci in premessa perché le sentenze, come ci ricorda Andrea, si rispettano. A quel colpo partito per sbaglio, maneggiando incautamente una pistola poi mai più ritrovata, senza immaginare che fosse carica, col braccio teso fuori dal davanzale della maledetta finestra, beh, non ci hanno mai creduto in tanti. Men che meno la pubblica accusa che, al tempo, ha insistito a chiedere 18 anni per omicidio volontario, costruendo un’ipotesi di scuola. Si chiama dolo eventuale: Scattone e il suo amico inseparabile, Salvatore Ferraro, secondo alcuni vera mente della coppia, sedotti da Nietzsche e dal superomismo decidono per gioco, sfregio o chissà quale bizza della mente l’azzardo di quello sparo tra la folla di studenti che passa sotto la finestra, ben consapevoli di poter colpire qualcuno e accettando l’evento (da qui il dolo).

E’ una tesi sostenibile? Forse sì, forse no, ma è l’unica, in totale assenza di qualunque altro movente. Mancano troppe cose nella pessima inchiesta che, sotto l’enorme pressione dell’opinione pubblica, la Procura di Roma mette in piedi allora. I testi sono tutti alquanto ballerini e vengono sollecitati a parlare con metodi non sempre amichevoli (famoso resta il video-choc di un interrogatorio dell’accusatrice chiave, Gabriella Alletto). Le perizie sono così contrastanti da lasciare aperta l’ipotesi alternativa di un colpo partito da un’altra finestra, in un bagno dell’istituto di Statistica, un piano sotto Giurisprudenza, e sotto Scattone e Ferraro (contro il quale, giova ricordarlo, resterà in piedi solo il favoreggiamento). Ciò nonostante, certo, si potrebbero condannare Scattone e Ferraro per l’omicidio odioso di una ragazzina che tutti vediamo figlia nostra. Oppure assolverli, perché mancano prove sicure. I giudici, che sono pur sempre umani, non se la sentono di prendere nessuna delle due strade più estreme e imboccano il vicolo stretto della condanna «dimezzata», con la tesi assai faticosa di uno sparo per errore. In fondo, una soluzione all’italiana che porta con sé italianissimi paradossi. Comprensibilmente la famiglia di Marta, sentendosi risarcita solo in piccola parte, continua a stare addosso al colpevole, anno dopo anno, chiedendone almeno contrizione e pentimento: ma Scattone continua a proclamarsi innocente, dunque, non può chiedere perdono. Come capita sovente in Italia, dove non arriva la giustizia arrivano l’ostracismo e la disumanizzazione del reo. La logica di molti genitori in queste ore («non voglio che un assassino faccia lezione a mio figlio») scavalca del tutto la sentenza e torna a pescare in quell’abisso di non detto dove guardiamo smarriti. L’idea stessa della riabilitazione implica un’etichetta che Scattone rifiuta. E’ un perfetto rompicapo etico e giudiziario. Nel quale, tuttavia, non bisogna dimenticare le vere vittime, i familiari di Marta, unici detentori di un diritto, per così dire, all’eterno rancore. Noi possiamo solo sperare che trovino pace. E, per quanti ci riescono, provare a restituire un’ipotesi di umanità anche a chi (forse) l’umanità se l’è negata un giorno giocando a fare Dio affacciato alla finestra. 

Si riapre il caso Marta Russo. Contraddizioni, testi e buchi nell’indagine: nel libro di Vittorio Pezzuto il confronto tra le ipotesi investigative. Analizzate le dichiarazioni che hanno portato alla condanna di Scattone e Ferraro, scrive Dimitri Buffa su “Il Tempo" l'1 Maggio 2017. Un omicidio senza movente e senza l'arma del delitto. Ma con due persone condannate in via definitiva. A dieci anni dall'omicidio di Marta Russo (9 maggio 1997) arriva un libro, molto accurato e preciso, che potrebbe contribuire a far riaprire il caso. Lo ha scritto Vittorio Pezzuto, che se l’è dovuto pubblicare da solo, tanta la pavidità delle case editrici in Italia nell'affrontare casi scomodi. In esso si ripercorrono quelle drammatiche settimane successive all'inspiegabile omicidio all'interno dell'Università La Sapienza a Roma per il quale furono condannati gli ex assistenti della cattedra di filosofia del diritto Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Nel libro, specie nella parte iniziale, ci si sofferma a lungo sulle possibili piste alternative abbandonate inspiegabilmente dagli investigatori. A partire da quella degli addetti di una ditta di pulizie che avevano l'incredibile hobby del tiro a segno e che possedevano pistole modificate o modificabili anche all'interno dei locali a loro disposizione dentro l'Università̀. Per tacere di quella, inquietante, di un altro personaggio strano, che deteneva un arsenale a casa e che frequentava anche lui la Sapienza, dilettandosi al tiro a segno con armi ottenute con falsi certificati di lavoro. Cosa per la quale poi patteggiò la condanna a un anno di reclusione sia pure uscendo dall'inchiesta. I due malcapitati, di cui Pezzuto in un capitolo ad hoc, il quinto, rievoca anche la criminalizzazione mediatica («Costruire due mostri»), vennero dopo un tortuoso iter processuale condannati a cinque anni e quattro mesi (Scattone) e a 4 anni e due mesi (Ferraro). Il tutto dopo che il 6 dicembre 2001, la prima sezione penale della Corte di Cassazione, su richiesta conforme del Procuratore Generale Vincenzo Geraci (il quale definì «basi di sabbia» le testimonianze di Gabriella Alletto e di Maria Chiara Lipari, aggiungendo che erano da «gettare alle ortiche») aveva annullato le condanne di primo e secondo grado. La Cassazione stigmatizzò i metodi degli inquirenti.

Marta Russo: delitto a La Sapienza 20 anni dopo. Genesi di un libro rifiutato. La controinchiesta scottante sul delitto a La Sapienza sarà in vendita su Amazon. La firma Vittorio Pezzuto, scrive Patrizio J. Macci il 10 aprile 2017 su "Affari Italiani". Venti rifiuti sommari, decine di mail che hanno solcato il web con motivazioni di una banalità sconcertante, risposte scompiscianti, rinvii e palleggiamenti. “MARTA RUSSO - Di sicuro c’è solo che è morta”, la corposa e documentissima contro-inchiesta scritta dal giornalista Vittorio Pezzuto in occasione del ventennale del celebre omicidio a "La Sapienza" (9 maggio 1997), sembrava destinata a non trovare alcuno spazio in libreria. Sarà invece proposta dal più grande editore internazionale dal 19 aprile: parliamo di Jeff Bezos, patron di Amazon. Basterà collegarsi allo store del sito e con un semplice clic acquistarne una copia, in versione sia cartacea sia e-book.

Un libro che per tutti non s'aveva da pubblicare. Intanto vi proponiamo un piccolo campionario delle motivazioni con le quali è stato di volta in volta rifiutato: uno "sciocchezzaio" che ci aiuta a comprendere lo stato attuale dell'editoria italiana e soprattutto le ragioni della sua profonda crisi.

FRASI FATTE, FRASI DETTE

"Guardi, a noi questa storia interessa moltissimo e il suo lavoro di ricerca storica è stato veramente enorme”.

"Bene, mi fa piacere sentirlo."

"Però vede, lo stile del libro è troppo enfatico, ricorre a volte a frasi fatte e appare talmente schierato a favore dagli accusati che il lettore è spinto a parteggiare per il lavoro dei magistrati."

"Addirittura."

"Intendiamoci, consideriamo questa vicenda giudiziaria una vera schifezza però così non va. Che ne dice di mandarci fra qualche mese un proposal...".

"...un che? Intende una proposta?"

"Sì, insomma... La proposta di un capitolo asciugato con stile più asettico, più idoneo allo stile della nostra casa editrice. Se riscrive il libro in questo modo può darsi che poi il nostro consiglio di amministrazione si decida nel tempo alla sua pubblicazione."

"Grazie, ci penso su e le farò sapere."

CI VORREBBE UNA SPONSORIZZAZIONE

"Buonasera, mi chiamo Vittorio Pezzuto e..."

"Sì certo, la conosco. Dica."

"Volevo proporle la pubblicazione di un libro-inchiesta sul caso Marta Russo. A maggio cade il ventennale dell'omicidio e poiché siete una casa editrice specializzata in saggi di cultura liberale..."

"... Mhh. Un libro del genere però non si ripaga solo col mercato. Occorrerebbe un sostegno, uno sponsor all'edizione..."

"Addirittura?"

"Eh sì. Il problema è che su questi temi c'è una forte concorrenza del web..."

"Del web?! Veramente la Rete è spesso sinonimo di insulti, approssimazione, fonti incerte..."

"Guardi, se proprio insiste può mandarmi una scheda dell'opera e nel caso le faccio sapere."

"Faccio prima a mandarle, per sua cultura personale, l'intero volume. Sono circa 500 pagine..."

"... Ah, una cosa corposa."

"Beh, sì. È un libro, mica un tweet."

L’EDITORE DI QUALITÀ

"Guardi Pezzuto, diamo per scontato che il suo libro sul caso Marta Russo sia un capolavoro. Per quale motivo però dovremmo pubblicarlo?"

"Forse proprio perché, come dice lei, si tratta di un capolavoro."

"Ehh, fosse così semplice..."

L’EDITORE “MILANESE”

"Buongiorno, mi chiamo Vittorio Pezzuto e ho avuto il suo numero da (...). La chiamo perché, dopo aver scritto qualche anno fa la biografia di Enzo Tortora, ho appena ultimato un'accurata contro-inchiesta sul caso Marta Russo in occasione del prossimo ventennale di questo omicidio che tanto ha diviso l'opinione pubblica. Mi rivolgo alla sua casa editrice perché mi dicono essere seria ma soprattutto perché da molti anni pubblica libri coraggiosi di denuncia...".

"Guardi, a parte queste note di colore che non interessano nessuno..."

"Sì?"

"...Io la inviterei a recarsi ogni tanto in libreria per vedere cosa viene pubblicato. Scoprirà che la storia che propone è molto vecchia”.

"Veramente in libreria mi capita di andarci, e vi scopro sempre nuovi libri sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, per non parlare di nuovi tomi sulle Brigate Rosse, sulla morte di Pasolini, sul caso Moro...".

"Io la inviterei a non accostare il caso Moro a un banale episodio di cronaca nera che non ha avuto alcun risvolto politico e giudiziario!".

“Ma veramente...".

Riprendono le recensioni di Giuditta’s files. Quest’oggi ci occupiamo di “Marta Russo – Di sicuro c’è solo che è morta”, di Vittorio Pezzuto (2017, Amazon), scrive Daniele Capezzone Martedì 2 maggio 2017 su "Affari italiani”. Doppia doverosa premessa. La prima: Vittorio Pezzuto è un caro amico, ne ho a lungo condiviso l’impegno civile e politico, ne ho apprezzato l’opera giornalistica, e soprattutto ho ammirato quel vero capolavoro (non a caso, pluri-saccheggiato da presunti grandi raccontatori e narratori televisivi) che è stato il libro Applausi e sputi, la più documentata e straziante analisi della vicenda giudiziaria, politica e umana di Enzo Tortora. La seconda: sono da sempre convinto dell’innocenza di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, riconosciuti invece colpevoli dalla giustizia italiana, a seguito del caso di Marta Russo, la studentessa uccisa il 9 maggio del 1997 nei vialetti dell’Università La Sapienza di Roma. Ma mettete da parte questi miei pre-giudizi, e (davvero: è un invito e insieme un “volantinaggio”) leggete l’ultima fatica di Pezzuto, frutto di cinque anni di lavoro. Si tratta di una monumentale controinchiesta, che in un paese normale avrebbe già gettato le basi per la riapertura anche giudiziaria del caso. Pezzuto ha scelto come titolo il famoso incipit dell’articolo che il grande Tommaso Besozzi scrisse su L’Europeo sulla morte del bandito Giuliano (“Di sicuro c’è solo che è morto”): ecco, per la povera Marta Russo, vale qualcosa di molto simile. E’ un viaggio terrificante (ma insieme illuminante) non solo nella giustizia italiana, ma anche in una politica chiacchierona (già allora, ansiosa di dichiarazioni fini a se stesse, di presenzialismo inconsistente, di banalità, e ovviamente di giustizialismo anche da parte di chi – in altri contesti – predicava garantismo), di un giornalismo manettaro e superficiale (rileggere la brutalità e la faciloneria di certi giudizi illumina le caratteristiche di alcune “grandi firme”: per il presente e per il futuro, non solo per il passato), e anche di un’editoria priva di coraggio che ha a lungo rifiutato la pubblicazione del libro, e con patetiche scuse ha declinato la proposta di Pezzuto (pur reduce da un indiscusso successo editoriale!), fino alla scelta liberatoria di pubblicare il volume su Amazon.

Il libro si raccomanda da sé, e merita successo per varie ragioni:

-un certosino lavoro di classificazione e riordino di un materiale enorme e magmatico; 

-la cura chirurgica nel recuperare i peggiori misfatti di "giornalisti" e "opinionisti", rendendone bene il misto di sensazionalismo, improvvisazione, sciacallaggio: Pezzuto li definisce bene "turisti del mistero";

-la denuncia forte di una "giustizia" descritta da un’agghiacciante considerazione di Ferraro, all’epoca avviato alla carriera universitaria ("ho insegnato qualcosa che non esiste");

-la scelta di citazioni davvero appropriate di Longanesi per punteggiare il tema di ciascun capitolo;

-il modo in cui Pezzuto spiega il meccanismo di "costruzione dei mostri”, con la dignità, il decoro personale, il riserbo e il self-restraint dei due accusati che si tramutano in altrettanti capi d'accusa aggiuntivi ai loro danni.

Non dimentichiamo che si tratta forse del primo caso recente di processo mediatico. O comunque, se non del primo caso, del caso che ha indubbiamente aperto una nuova fase: con intere trasmissioni televisive e mesi di “inchieste” giornalistiche ossessivamente dedicate alla questione, tutte o quasi in ottica colpevolista a prescindere, e un dispiegamento di mezzi mediatici senza precedenti.

Aggiungo tre elementi assolutamente non scontati, vista la gran mole del lavoro:

-una scrittura sempre curatissima, con un registro che resta limpido e pulito lungo tutto il saggio;

-una ammirevole "empatia" nei confronti di tutte le figure deboli e colpite (a partire dalla vittima, ovviamente), delle quali l’autore rende molto bene il punto di vista;

-il fatto che, pur dinanzi a una cavalcata così lunga e carica di dettagli, Pezzuto riesca a mantenere l'attenzione del lettore vivissima fino alla fine. 

Nonostante tanti boicottaggi, questo libro merita di essere letto, compreso e meditato a lungo. Anzi, quei boicottaggi offrono una ragione di più per apprezzarlo. Alla fine della lettura, resta solo un …problema: sentirsi sicuri e a proprio agio in questa Italia. Daniele Capezzone

Marta Russo: in un libro una nuova ipotesi sulla morte. A 20 anni dall'uccisione della studentessa romana, un saggio di Vittorio Pezzuto lancia un'inquietante ipotesi: l'omicidio potrebbe essere stato causato da uno scambio di persona, scrive Maurizio Tortorella il 3 maggio 2017 su Panorama. La mattina del 9 maggio 1997, a Roma, poco prima di mezzogiorno una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo, appena 22 anni, mentre sta passeggiando in un viale dell’Università “La Sapienza”. La sua morte, avvenuta quattro giorni dopo, desta grande clamore in tutta Italia. Chi ha ucciso la ragazza, e perché? Gli inquirenti si convincono presto che a sparare sia stato Giovanni Scattone, un dottorando in giurisprudenza, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Il loro movente? Nessuno. Paradossalmente, però, è proprio l’assenza di un movente a inchiodarli. Ad accusarli sono testimonianze controverse e una particella di bario e antimonio trovata sulla finestra dell’aula 6 dell’Istituto di filosofia del diritto. Esattamente a 20 anni di distanza, il caso Marta Russo resta però una storia quasi incredibile, oscura e sfuggente ma anche rivelatrice di un certo tipo di magistratura e di un certo tipo di giornalismo. Se ne occupa ora Vittorio Pezzuto, giornalista e autore di altri libri di denuncia, in un ponderoso saggio analitico. Il libro ha un titolo che riecheggia l’attacco di un famoso articolo di Tommaso Besozzi, mitico inviato di nera, spedito dal settimanale Europeo sulle tracce dei veri assassini del bandito Salvatore Giuliano: Marta Russo: di sicuro c’è solo che è morta (664 pagine, disponibile su Amazon dal 19 aprile, in versione sia cartacea, a 16 euro, sia e-book a 7.99 euro). Scritto con lo stile di un legal thriller e basato su una mole imponente di documenti, il saggio ripropone per la prima volta le fasi dell’inchiesta e i diversi colpi di scena nei diversi gradi del processo che nel 2003 portarono alla condanna dei due giovani, che sempre si sono proclamati innocenti. Ma soprattutto, sia pure vent’anni dopo l’omicidio della povera Marta Russo, arriva a una conclusione sconvolgente su un caso che per larga parte dell’opinione pubblica resta ancora inspiegabile. Studiando gli otto faldoni contenenti i documenti dell’inchiesta e del processo (interrogatori, perizie balistiche, intercettazioni ambientali e telefoniche, trascrizioni delle udienze in Corte d’assise), tutti i lanci dell'agenzia Ansa sul caso dal 1997 al 2015 nonché circa 8 mila articoli ed editoriali apparsi sui maggiori quotidiani e periodici, Pezzuto (che in passato ha scritto per Sperling&Kupfer di Applausi e sputi, una biografia “definitiva” e controcorrente di Enzo Tortora), è convinto che la verità processuale sia del tutto lontana dalla verità fattuale. Pezzuto, però, non si limita a mettere uno accanto all'altro i mille dubbi sul verdetto che nel 2003 ha visto Scattone e Ferraro condannati a pene peraltro miti e di per sé apparentemente irragionevoli per un omicidio, sia pure colposo: 5 anni e 4 mesi di reclusione per Scattone (cui è stata addirittura accordata la riabilitazione penale e accordato il diritto a insegnare); 4 anni e 2 mesi per Ferraro. La sua è di fatto un'inchiesta parallela e diversa rispetto a quella compiuta in primo grado dall'allora procuratore aggiunto di Roma, Italo Ormanni, e dal sostituto Carlo Lasperanza. Pezzuto infatti pare convinto di avere trovato, se non le potenziali prove di uno scambio di persona, quanto meno una serie di indizi concentrici: a morire, 20 anni fa, a Roma, avrebbe forse dovuto essere una ragazza messinese di 26 anni, iscritta al terzo anno fuori corso di Giurisprudenza alla Sapienza. "Sarebbe sarebbe stata lei e non Marta Russo il vero bersaglio di quel maledetto colpo di pistola", scrive Pezzuto nel libro. Del resto, le due ragazze potevano essere confuse: stessa lunghezza e colore dei capelli, stessa carnagione chiara, stesso sguardo, altezza e corporatura molto simili. E il movente? Qualcosa di assai più credibile di uno sparo a caso: la mafia. Scrive Pezzuto: "I sicari sarebbero giunti dal Sud per attuare una vendetta trasversale contro suo padre, un imprenditore che aveva denunciato per estorsione e usura i criminali mafiosi che gli avevano tolto fino all’ultima lira e che si erano impossessati dei suoi due supermercati". Il fatto più inquietante è che la ragazza segnala quasi subito i suoi sospetti all'autorità giudiziaria, e viene sentita il 1° luglio 1997. I due pubblici ministeri romani che seguono il caso, però, non si convincono della tesi. Così la ragazza e suo padre si rivolgono anche al sostituto Carmelo Petralia, alla Procura di Messina. "I boss ci hanno rintracciato anche a Roma" gli dicono. "Per l’agguato potrebbero aver scelto l’Università dove quasi ogni giorno io percorrevo lo stesso tragitto fatto da Marta". Il verbale però viene inoltrato alla Procura di Roma perché competente sul caso e viene archiviato. Non basta. Perché c'è addirittura una seconda pista alternativa: in questo caso si tratta di una giovane di Frosinone, studentessa alla Sapienza di Roma e a sua volta assai simile a Marta Russo, il cui padre aveva presentato denunce ed esposti contro una serie di personaggi in qualche modo "pericolosi" della città, tanto da avere ricevuto numerose minacce. "La nostra è una pena che non finirà mai" ha dichiarato con amarezza Donato Russo il 29 gennaio 2007, alla cerimonia di inaugurazione della nuova tomba monumentale che da allora raccoglie i resti della figlia, al cimitero del Verano. Sulla lapide, scrive Pezzuto, c'è la foto di Marta, quella che abbiamo imparato a conoscere: "Un volto dai tratti regolari, coi capelli biondi lisci scriminati al centro, la promessa di un sorriso disegnata da labbra rosse e sottili. E occhi chiari, profondi e quieti, che continuano a interrogarci sulle ragioni misteriose del suo assassinio. Ancora oggi non riusciamo a risponderle. Sappiamo soltanto che purtroppo, in tutta questa storia, di sicuro c’è solo che è morta".

Marta Russo, quel pasticciaccio brutto diventato tabù, scrive il 6 Maggio 2017 "Il Dubbio". “Di sicuro c’è solo che è morta”. Il titolo è già un pugno in faccia. Ma è anche il primo brivido dello strepitoso legal thriller scritto da Vittorio Pezzuto sul delitto di vent’anni fa. Nessun editore ha voluto pubblicarlo: “Abbiamo paura”, dicevano. Ci ha pensato direttamente l’autore, grazie ad Amazon. Ve ne offriamo due estratti. La mattina del 9 maggio 1997 una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo mentre sta passeggiando in un viale dell’Università “La Sapienza”. La sua morte, avvenuta quattro giorni dopo, desta un enorme clamore in tutta Italia. Chi l’ha uccisa, e perché? Ben presto gli inquirenti si convinceranno che a sparare sia stato il dottorando Giovanni Scattone, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Il loro movente? L’assenza di un movente. Ad accusarli vi sono testimonianze controverse e una particella di bario e antimonio trovata sulla finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia di diritto. Una storia incredibile, oscura e sfuggente ma anche rivelatrice di un certo tipo di Italia, di un certo tipo di magistratura, di un certo tipo di Università, di un certo tipo di giornalismo. Scritto con lo stile avvincente di un legal thriller e avvalendosi di una documentazione imponente, questo nuovo saggio di Vittorio Pezzuto Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta (già autore della biografia di Enzo Tortora Applausi e sputi, Sperling& Kupfer) ripropone per la prima volta le fasi dell’inchiesta e i diversi colpi di scena nei diversi gradi del processo che portarono alla condanna dei due giovani. Ma soprattutto, vent’anni dopo quell’omicidio, arriva a una conclusione sconvolgente su un caso che per larga parte dell’opinione pubblica resta ancora inspiegabile. Dopo che per un anno e mezzo tutti i maggiori editori italiani hanno rifiutato di pubblicarlo («Questa storia non interessa più nessuno», «Non avrebbe un mercato», «Il libro ci piace molto ma abbiamo paura di essere citati dai magistrati» ), Pezzuto ha deciso così di autopubblicarlo e di metterlo in vendita direttamente su Amazon ( 664 pagine, versione cartacea 16 euro, e- book 7.99 euro). Pubblichiamo due estratti. Dal capitolo 4 (“Da La Sapienza a Regina Coeli”) e dal capitolo 14 (“Microscopio e cronometri”).

Dal Capitolo 4 – DA “LA SAPIENZA A REGINA COELI”. Due catture nella notte. Con incredibile rapidità, il gip Muntoni decide di firmare le ordinanze di custodia cautelare contro Scattone e Ferraro mentre l’interrogatorio di Gabriella Alletto è ancora in corso. Una soluzione che costringerà quest’ultima a mantenere le sue accuse, se non altro per evitare un’incriminazione per calunnia. Le sue tardive rivelazioni hanno infatti il pregio di inserire sulla scena del delitto quel quarto uomo di cui i magistrati sono da tempo sicuri ma che nemmeno la volenterosa Lipari aveva confermato esistesse. A uccidere Marta Russo sarebbe quindi stato Giovanni Scattone, mentre una frase dell’impiegata («Se non ricordo male, subito dopo lo sparo si chinò a terra all’interno della finestra dopo aver rilasciato la tenda») li convince che abbia avuto anche la freddezza di raccogliere il bossolo. L’amico e collega Ferraro si è limitato a fargli da complice, portando via la pistola nella sua borsa. Per gli inquirenti si tratta davvero di un colpo di fortuna. Ferraro è infatti mancino e quindi non avrebbe potuto rivolgere l’arma in direzione di Marta perché impedito nel movimento della mano dal cassone del condizionatore d’aria alla sinistra della finestra. E non avendo mai sparato in vita sua, l’imputazione a suo carico avrebbe potuto essere solo di omicidio colposo. Con Scattone invece le cose cambiano: a differenza dell’amico ha fatto il servizio militare come carabiniere ausiliario e pertanto ha già usato armi. L’accusa quindi può restare quella di omicidio volontario. Le volanti della polizia partono subito alla ricerca dei due giovani collaboratori del professor Carcaterra. Scattone viene rintracciato intorno alle 23 mentre sta cenando con alcuni amici in un ristorante all’aperto nei pressi del Foro Italico. Un ispettore e altri due agenti in borghese gli chiedono di seguirlo in Questura. Il giovane è disorientato. Intuisce subito che si tratta dell’indagine sull’omicidio di Marta Russo ma a dire il vero non è molto aggiornato sui suoi sviluppi: mancano un paio di giorni all’esame finale nazionale per il dottorato di ricerca e in quel periodo trascorre gran parte della settimana a Napoli, dove segue un corso di perfezionamento in Filosofia del diritto con frequenza obbligatoria. Gli agenti della Squadra mobile lo trattengono negli uffici di via San Vitale fino alle prime luci dell’alba. Foto segnaletiche, impronte digitali e un interrogatorio serrato senza l’assistenza di un avvocato. Dopo avergli dato da leggere l’ordinanza di custodia cautelare, il capo della Squadra mobile D’Angelo e il suo vice Intini alternano minacce e blandizie. Vogliono che ammetta subito che il colpo gli è partito per caso («Altrimenti ti farai almeno 24 anni!») e riveli il luogo esatto da cui ha fatto fuoco. Gli agenti sono stanchi e innervositi. «Che fine ha fatto la pistola?» gli urlano addosso. «Quale pistola?» risponde sempre più sconcertato Scattone. È allora che s’incazzano, che iniziano a strattonarlo violentemente, facendo però attenzione a non provocargli tracce o ferite riscontrabili. Scattone nega con fermezza ogni addebito. I funzionari a quel punto si allontanano, lasciandolo in compagnia di un agente che gli spiega: «Sono in riunione per decidere il da farsi». Sono le cinque del mattino quando una volante lo trasferisce nel carcere di Regina Coeli. Rinchiuso in una cella di isolamento vicino all’infermeria, gli resta solo l’eco delle ultime parole degli agenti: «Se confessi resti dentro al massimo due giorni, giusto il tempo di sostenere l’interrogatorio di garanzia del gip. Pensaci bene…». Anche Salvatore Ferraro viene arrestato quando ancora si sta asciugando l’inchiostro della firma della Alletto in calce alla sua ultima deposizione. Quattro agenti alti, corpulenti e nervosi entrano a casa sua mentre in boxer e t- shirt sta suonando con la sua chitarra acustica un vecchio blues di Robert Johnson. Si tratta di Me and the Devil Blues, parla del diavolo che all’improvviso bussa alla porta. Un brano decisamente azzeccato. «Ci segua». «Per caso mi state arrestando?». «Assolutamente no». Un’ora dopo l’assistente universitario si trova in una stanza della Digos, con le manette ai polsi e ancora convinto che si tratti di una messinscena per verificare l’attendibilità delle sue deposizioni precedenti. Tant’è vero che una mezza dozzina di investigatori, tra funzionari e semplici agenti, si avvicendano davanti alla sua poltrona chiedendogli se abbia detto davvero tutto quello che sa. Col trascorrere del tempo il loro atteggiamento cambia e l’atmosfera, all’inizio piuttosto rilassata, s’indurisce in sguardi e movenze imbottiti di tensione e stanchezza. Quando Ferraro conferma per l’ennesima volta di non sapere nulla del delitto, Belfiore sbuffa spazientito e sbatte il pugno sul tavolo: «Parla o finisci in galera!» A quel punto Intini gli consegna l’ordinanza di custodia cautelare. Ferraro la legge velocemente e strabuzza gli occhi. «Dai, parla! Dicci che è stato Scattone e stasera te ne vai a casa!» insistono quelli. «Non posso dirlo, non sono stato testimone di nulla!». «E allora sei solo un gran pezzo di merda!». «Ve lo ripeto, io con l’assassino di questa ragazza non c’entro nulla!». Ferraro sorride con amarezza. Cerca di astrarsi dalla situazione. Per mantenere il controllo dei nervi fissa una fotografia di Rossano Calabro, appiccicata alla parete più lontana, che lo riporta ai luoghi della sua infanzia. Intanto gli agenti lo braccano con sorrisi maliziosi e voci di volta in volta suadenti, minacciose, beffarde. «Dicci che a Scattone è partito un colpo per sbaglio, e te ne vai a casa a dormire in santa pace!». Lui però rifiuta l’accomodamento, la disonesta logica del “mors tua vita mea” gli ha sempre fatto ribrezzo. Non ha quasi più parole, e non vuole certo sprecarle accusando Scattone solo per far finire al più presto quest’incubo. Scuote la testa, chiude gli occhi, dondola nel buio. Il suo respiro si sta accartocciando, sopraffatto dalla sensazione quasi materiale di una forza avvolgente che lo sta schiacciando. «Bene, ebbravo lo stronzo!…», «Finirai a marcire in galera!», «Questa è la fine della sua brillante carriera, dottor Ferraro!» gli urlano a pochi centimetri. Lui allora riapre gli occhi: «Con una coscienza pulita sarà facile ricominciarne un’altra».

23 SECONDI E UN MANICHINO CHE MANCA. Quando il dibattimento è ormai alle battute finali, ecco rifarsi strada un’ipotesi clamorosa: l’ora ufficiale del delitto non sarebbe quella giusta. Un tabulato Telecom, ottenuto a suo tempo dalle difese e poi richiesto dalla Corte alla Procura, certifica infatti che la telefonata che quella mattina Iolanda Ricci ha fatto al fidanzato da una cabina telefonica dell’Università è terminata alle 11,39 e 1 secondo (anche se lei, nei verbali e al processo, l’aveva sempre collocata intorno alle 11,30). Come si ricorderà, in udienza ha raccontato che immediatamente dopo aver abbassato la cornetta è stata raggiunta da Marta, insieme alla quale si è incamminata in direzione dell’uscita su viale Regina Elena, sotto il tunnel della Facoltà di Giurisprudenza, per andare a seguire una lezione di Storia economica in via del Castro Laurenziano. Da quella cabina, per raggiungere a piedi il punto del vialetto in cui l’amica è stata colpita, si impiegano al massimo sessanta secondi. Marta quindi non sarebbe stata uccisa alle 11,42 ma – secondo più, secondo meno – due minuti prima. Un dettaglio che cambierebbe tutto. Se il colpo è stato esploso alle 11,40 come ha fatto allora Maria Chiara Lipari a sentire (lo ha confermato in udienza) un «tonfo sordo» alle 11,44 mentre era in procinto di entrare nell’aula 6? E perché la Alletto ha ripetuto più volte che la dottoranda fece il suo ingresso «nell’immediatezza dello sparo, forse dopo una trentina di secondi, massimo un minuto»? Qualcosa evidentemente non quadra. «Qui non siamo più nel campo delle opinioni» osserva la difesa di Ferraro. «Si tratta di numeri, di cose esatte. E una discrepanza del genere, a nostro giudizio, rende del tutto inattendibile non solo il racconto della Lipari ma tutto il resto della ricostruzione». (…) Alla Procura di Roma va però almeno riconosciuta una ferrea coerenza: alla Lipari hanno sempre voluto credere, adoperandosi fattivamente per favorire l’incessante work in progress della sua memoria. Un calvario doloroso della mente («dall’ano proprio del cervello», come aveva riconosciuto lei stessa) che merita la pena – sì, la pena – di essere ricordato per sommi capi. Interrogata il 21 maggio 1997 nel Commissariato dell’Università, dapprima sostiene che durante il primo tentativo di telefonata al padre, mentre girava le spalle alla stanza, le è parso che non vi fosse nessuno. L’interrogatorio viene improvvisamente sospeso per «accertamenti tecnici» e ripreso in tarda serata. Solo allora dice «di non essere sicura» della presenza di qualche altro suo collega nell’aula, quindi aggiunge che «mi sembra di ricordare che qualcuno sia uscito frettolosamente.». A dirla tutta, adesso che ci riflette meglio, «mentre stavo con la cornetta in mano, questo signore ha aperto dall’interno la porta e, passandomi accanto, nell’uscire mi ha salutato bofonchiando qualcosa». Racconta poi di non aver avuto «la sensazione del vuoto» nella stanza anche se non sa precisare quante e quali persone vi fossero («comunque non donne»). Fa un primo nome: «Forse era presente il mio collega Andrea Simari», che risulterà invece assente. Non ha comunque sentito «alcun rumore che possa somigliare ad uno sparo.» A notte fonda, dopo altre cinque ore di interrogatorio in Questura, dichiara «di non aver visto nessuno vicino alla finestra» ma «due o forse tre persone, due certamente di sesso maschile e una probabilmente di sesso femminile» spostate verso il centro della stanza e «che parlottavano tra loro». Entrando nella stanza ha avuto comunque la «sensazione netta» di una «forte tensione nell’aria». Butta giù altri nomi: quelli di Francesco Liparota, di Gabriella Alletto («Quello che ricordo è un interrogativo che mi è passato nel cervello come un lampo in quel momento e cioè: “Che ci fa Gabriella qua? ”») e infine dell’assistente Massimo Mancini ( del quale ha udito il «suono della voce, ma questo a livello subliminale senza averne quindi altra possibilità di precisione» ). Sfortuna vuole che però anche quest’ultimo risulterà assente, circostanza che la costringe a precisare in seguito che il suo nome gli è stato suggerito da un funzionario di polizia mentre lei «non ci pensava affatto». Nella notte tra il 26 e il 27 maggio dichiara invece di aver visto tre individui, due al centro della stanza e uno vicino alla finestra che poi l’ha salutata uscendo. Gli investigatori le fanno allora il nome di Ferraro ma lei si rifiuta di confermarlo dal momento che quella persona non l’ha vista in faccia. Intercettata poco dopo al telefono col padre, sostiene però di avere finalmente ottenuto il suo «ricordo visivo»: non ne è ancora certa ma quell’uomo ha proprio «la sensazione di averlo visto in facci». E poi aggiunge: «Ma se fosse quel calabrese, quel calabrese ci ha… Veramente ci può avere proprio degli amici con le armi, in casa in Calabria proprio sotto al cuscino… ». Il 19 giugno, quando ormai Scattone e Ferraro sono stati arrestati grazie alle parole della Alletto (la cui testimonianza combacia finalmente con i suoi “ricordi”), precisa di aver avuto «la sensazione netta» che nella stanza vi fossero più persone, forse quattro. La sera dell’8 agosto, tre mesi dopo il delitto, si reca infine negli uffici della Polaria dell’aeroporto di Fiumicino. Sta partendo per le vacanze e vuole a mettere a verbale altri particolari «di cui, adesso, ho un ricordo preciso»: prima di entrare nell’aula 6 ha sentito «un rumore sordo, un tonfo» e adesso rammenta «con precisione» la figura di Ferraro nella Sala assistenti («In particolare ho focalizzato l’espressione del suo volto» ). Non appena l’ha vista questi si è voltato di scatto verso la finestra, l’ha salutata impallidito ed è uscito dalla stanza insieme a un’altra persona. Chi? «L’impressione è che si tratti di Scattone». Lo stesso che, vedi tu a volte il caso, era stato arrestato nella notte del 14 giugno come omicida e le cui foto riempivano da un pezzo tutti i giornali. La Procura è soddisfatta. Per sparare da quella finestra in direzione della vittima bisognava usare la destra. Non poteva essere stato Ferraro perché non sa sparare ed è pure mancino. Lui invece è destro e ha fatto il servizio militare nell’Arma dei carabinieri. Tutto combacia, quindi. Ben fatto, Maria Chiara! Il suo accidentato percorso di ricostruzione mnemonica può dirsi ora finalmente concluso. Per apprezzarne al meglio le dinamiche ne verrà mostrata al processo una tappa significativa. Si tratta di un video di 17 minuti registrato la sera del 26 maggio 1997 in occasione di un sopralluogo che la Lipari e gli inquirenti hanno effettuato presso la Sala assistenti. L’audio è pessimo. Dalle immagini si evince comunque lo sforzo evidente della ragazza, che con espressione corrucciata parla più volte di «lampi», riferendosi a quei brani di memoria che tenta di richiamare nella sua mente con l’aiuto del procuratore aggiunto Italo Ormanni. Questi sollecita la sua preziosa testimone, invitandola più volte a «cercare di focalizzare» i suoi ricordi. La ragazza allora mima i movimenti che avrebbe compiuto quella mattina, chiude gli occhi e porta le mani alle tempie, si tormenta i capelli, balbetta, pronuncia frasi sconnesse mentre sul suo volto si alternano preoccupazione e concentrazione: «Un maschio forse là…», dice indicando il lato destro dell’aula. «Non so, forse si sono mossi, forse…» spiega al capo della Squadra mobile Nicolò D’Angelo e al commissario Francesca Monaldi che intanto fanno posizionare dei manichini in base alle sue indicazioni. Alla fine la telecamera ne inquadra due al centro della stanza (rappresentano Liparota e la Alletto) e un terzo poco lontano dalla finestra: è Salvatore Ferraro, di cui però non ha ancora fatto il nome. In questo presepio manca ancora la sagoma del personaggio più importante, l’omicida Scattone. Ma come abbiamo visto, è solo questione di tempo.

«Mio figlio curò zu Binnu per questo fu ucciso», scrive Errico Novi il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La madre di Attilio Manca contro la pronuncia che afferma la morte per overdose dell’urologo. Lunedì scorso la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che la morte del dottor Attilio Manca fu procurata da Monica “Monique” Mileti, la donna che gli procurò due dosi fatali di eroina. Una sentenza che esclude la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Provenzano. Ma la madre del medico non si arrende: «Un pentito attendibile ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano». Certo qualche iperbole scoraggia. Ad esempio le parole con cui Antonio Ingroia grida la sua verità: “Attilio Manca è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo”. Eppure la storia di questo giovane e brillante medico trovato morto, per overdose secondo i giudici, a 34 anni il 12 febbraio 2004, lascia ancora qualche zona d’ombra. Lunedì scorso, alla vigilia di Ferragosto, la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che Monica “Monique” Mileti procurò a Manca le due dosi fatali di eroina. La 58enne è stata dunque condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado. Con la verità giudiziaria affermata dal magistrato, per l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, verrebbe esclusa la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Bernardo Provenzano. Ma oltre a Ingroia, avvocato della famiglia Manca insieme con il collega Fabio Repici, è la madre del medico, Angela, a non arrendersi: “Il pentito barcellonese Carmelo D’ Amico”, ha scritto la donna su facebook, “ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano: è molto attendibile e tutto quello che ha detto fino ad oggi è stato regolarmente verificato. Che motivo avrebbe a mentire sull’omicidio di Attilio? ”. Secondo la famiglia, l’urologo sarebbe stato ucciso, e la sua morte mascherata da overdose, pochi mesi dopo aver visitato, e forse operato alla prostata, il boss mafioso a Marsiglia. Ipotesi che sarebbe suffragata da una telefonata fatta a casa dal figlio proprio nell’autunno del 2003, in cui spiegò di trovarsi in Costa azzurra per ragioni professionali. Poi, la dichiarazione di D’Amico. E ancora, il fatto che mai in famiglia si era potuto solo sospettare della tossicodipendenza di Attilio. Diverse anomalie nella stanza della casa di Manca a Viterbo in cui il corpo fu ritrovato: per esempio il fatto che i buchi attraverso i quali sarebbe stata iniettata la droga erano nel braccio sinistro, nonostante Attilio fosse mancino. Le tumefazioni al labbro, il fatto che nel bagno fossero state trovate impronte di Ugo Manca, cugino e teste chiave sia rispetto al fatto che l’urologo fosse da anni un “consumatore anomalo” di eroina (non ne veniva intralciato nella sua attività clinica, che svolgeva all’ospedale Belcolle di Viterbo) sia dei rapporti ormai ultradecennali tra lo stesso medico e la spacciatrice da poco condannata. Nelle motivazioni, la giudice Mattei nota come “l’istruttoria non si è limitata a esaminare le prove a carico dell’imputata in relazione al reato di spaccio, ma ha avuto a oggetto una serie di elementi apparentemente non direttamente riferibili al reato contestato che, tuttavia, si è ritenuto opportuno prendere in esame per valutare, infine escludendola, la possibilità di individuare cause alternative alla morte di Manca”. La giudice scrive anche che “altre ipotesi sono estranee all’attuale vicenda processuale”. Come pure che “non esiste una prova diretta della cessione dello stupefacente da Mileti a Manca nei giorni immediatamente precedenti il decesso”. C’è però “una serie di elementi” che “inducono a ritenere” come “l’autrice della cessione fatale sia stata l’imputata”. Soprattutto i “plurimi contatti (telefonici, nda) nei giorni immediatamente precedenti” la morte del medico. Ingroia parla di “ingiustizia”. La pronuncia con cui il Tribunale accoglie la tesi della morte da eroina e dunque nega quella dell’omicidio mascherato da overdose si basa sulle “stesse ricostruzioni lacunose e le stesse considerazioni infondate sostenute dalla Procura, lo stesso incredibile capovolgimento della realtà, la stessa ignobile calunnia verso una persona perbene, un giovane e stimato chirurgo spacciato come un tossicodipendente”. E poi c’è quel grido di dolore della madre Angela. Sull’ipotesi mafiosa la Procura di Roma è prossima all’archiviazione. Difficile che l’esposto alla Procura nazionale antimafia possa modificare le scelte di Piazzale Clodio. Ma un interrogativo continua ad agitarsi: le due verità in conflitto, tragedia personale e manipolazione criminale, potrebbero essere intrecciate? Possibile che proprio averle considerate alternative tra loro impedisca di cercare ancora la verità?

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

Per uscire fuori dall'incubo giudiziario si ha bisogno di una forte dose di culo (inteso come fortuna). Essere innocenti non è essenziale. Il malcapitato che incappa nell'amo della giustizia, si dibatte come un pesce, ma il malcapitato più si muove (a rivendicare la sua innocenza), più l'amo si infilza nella bocca. Il sistema è programmato a produrre risultati, per giustificare il suo costo, ed il conto si presenta in fascicoli chiusi, non in rei condannati. La riparazione del nocumento (danno che altera o interrompe la funzionalità o l'efficacia di un fatto naturale) è quasi impossibile che si compia. Per corporativismo delle toghe giudiziarie, ossia per viltà delle toghe forensi, perchè è difficile trovare qualcuno di loro che abbia il coraggio di additare un magistrato come reo di un errore eclatante e chiederne conto, inimicandosi tutta la categoria del foro locale e suscitando il biasimo dei colleghi, che temono ritorsioni.

È necessario precisare e distinguere i casi di riparazione per ingiusta detenzione da quelli di riparazione derivante da errore giudiziario. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione instaurato (a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna) in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. In questa sezione ci occuperemo del caso di riparazione per ingiusta detenzione.

Secondo quanto disposto (artt. 314 e 315 c.p.p.) all'imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, diritto che è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.). Rilevanti novità In materia sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta "Legge Carotti". In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire ad un miliardo (oggi € 516.456,90), ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi. Il presupposto del diritto ad ottenere l'equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nella ingiustizia formale della custodia cautelare subita.

L'ingiustizia sostanziale è prevista dall'art. 314, comma 1, c.p.p. e ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. E' importante tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell'art. 314 c.p.p., alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione. L'ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell'art. 314 c.p.p. e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna. La domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione (315 c.p.p.- 102 norme di attuazione cpp) deve essere presentata (a pena di inammissibilità) entro due anni dal giorno in cui la sentenza di assoluzione o condanna è diventata definitiva, presso la cancelleria della Corte di Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento. Nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte di Appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato; sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio. E' obbligatoria l'assistenza di un legale munito di procura speciale e la parte che si trovi nelle condizioni di reddito previste dalla legge può chiedere il patrocinio a spese dello Stato. Nel caso di decesso della persona che ha subito l'ingiusta detenzione possono richiederne la riparazione: il coniuge, i discendenti e gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta. La riparazione per ingiusta detenzione deve essere estesa alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel merito. Tutti coloro che sono stati licenziati dal posto di lavoro che occupavano prima della custodia cautelare e per tale causa, hanno diritto di essere reintegrati nel posto di lavoro se viene pronunciata a favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero ne viene disposta l'archiviazione. Vale la pena ricordare che La Corte di Giustizia di Strasburgo (sentenza 9 giugno 2005 ricorso 42644/02) ha richiesto una modifica dell'art. 314 c.p.p. che ammette l'indennizzo per ingiusta detenzione solo se l'imputato è assolto, se è disposta l'archiviazione del caso o il non luogo a procedere o se, in caso di condanna, la custodia cautelare è stata disposta in assenza di gravi indizi di colpevolezza o per reati per i quali la legge stabilisce una reclusione superiore a tre anni. Per la Corte si tratta di previsioni restrittive perché l'art 5 comma 5 della convenzione prevede in ogni caso di illegittima restrizione il diritto ad una riparazione.

L'interessato deve presentare in cancelleria (Corte d'Appello – Cancellerie Penali): 

la domanda di riparazione del danno per ingiusta detenzione da lui sottoscritta, eccetto il caso di procura speciale. Oltre all'originale devono essere presentate 2 copie dell'istanza;

la sentenza di assoluzione con l'attestazione di irrevocabilità;

il certificato dei carichi pendenti;

le dichiarazioni rese al Giudice Indagini Preliminari (G.I.P.) o al Pubblico Ministero (P.M.);

fotocopia del documento di riconoscimento e codice fiscale.

Nel caso di arresti domiciliari deve essere depositato anche:

il provvedimento di concessione degli arresti domiciliari e l'ordine di scarcerazione;

la posizione giuridica, da richiedere all'ultimo carcere di detenzione previa autorizzazione della Corte di Appello;

gli atti del procedimento da cui si evince che il ricorrente non ha concorso a dar causa alla sua carcerazione per dolo o colpa grave.

Tutti i documenti a corredo dell'istanza possono essere depositati in carta semplice e per la loro richiesta non è dovuto alcun diritto di cancelleria. Ogni comunicazione o richiesta in merito al pagamento della somma dovrà essere indirizzata a: "Ministero dell'Economia e delle Finanze – dipartimento dell'Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi del Tesoro – Serv. Centr. Per gli AA. GG. e la Qualità dei Processi e dell'Organizzazione – responsabile sig.ra Lofaro -via Casilina, -00182 Roma". Ufficio XIV 06-47615451 fax 06-47615155

Utopia, invece è riconoscersi il danno per INGIUSTA IMPUTAZIONE.

«Sì, sei innocente ma ora le spese te le paghi da solo», scrive il Aprile 2017 "Il Dubbio". Una nuova legge in discussione prevede un rimborso di appena 5mila euro per l’imputato innocente. Il disegno di legge n.2153 in materia di rimborso delle spese di giudizio, presentato lo scorso anno in Commissione giustizia dal senatore Gabriele Albertini (Ap), era composto da un solo articolo. Un articolo che introduceva un principio di “equità e di giustizia” nell’ordinamento e che era in grado di rivoluzionare in radice il sistema giustizia del Paese. All’articolo 530 del codice di procedura penale (sentenza di assoluzione) era previsto che fosse inserito il comma 2bis: «Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate (…) Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale». Tecnicamente la disposizione prende il nome di “ingiusta imputazione”. Attualmente, quando l’imputato viene riconosciuto innocente, le spese legali affrontate per difendersi restano comunque a suo carico. L’unico tipo di risarcimento previsto è quello nei casi di “ingiusta detenzione”. Quando, cioè, sottoposto inizialmente alla misura della custodia cautelare, l’imputato è stato al temine del processo assolto. Oltre all’aspetto economico, le traversie giudiziarie, va ricordato, hanno pesanti ricadute sul quelle che sono le condizioni morali e familiari. La modifica legislativa in questione, dunque, avrebbe introdotto una norma di civiltà giuridica a tutela del cittadino nel suo complesso, “responsabilizzando” di fatto anche il pubblico ministero. Il disegno di legge Albertini riscosse un grandissimo consenso bipartisan, con ben 194 senatori che lo sottoscrissero immediatamente. A memoria è difficile trovare nella storia del Parlamento italiano una proposta di legge condivisa da una maggioranza così ampia. La disposizione sul rimborso delle spese legali, per altro, è in vigore, pur con qualche differenza, in 30 paesi europei. Particolare questo non da poco. In alcuni paesi la cifra da rimborsare viene valutata di volta in volta dal giudice, in altri, come ad esempio la Gran Bretagna, il rimborso attiene all’intera parcella del legale. La discussione del disegno di legge 2153 in questi mesi si è, però, scontrata con un problema di carattere strettamente economico. Non ci sarebbe, infatti, la necessaria copertura. Per capire meglio quanto davvero sarebbe costata la norma, il senatore Giacomo Caliendo di Forza Italia, che in Commissione è il relatore della legge, ha provato anche a cercare dati certi sul numero delle assoluzioni piene negli ultimi anni. Ma oltre all’aspetto economico è subentrato un problema di natura “tecnica” che ha impedito alla legge di vedere la luce nella sua formulazione originaria: l’unificazione della proposta Albertini con quella di Maurizio Buccarella (M5s), il ddl 2259, che propone la sola deducibilità fiscale delle spese legali, ma non oltre i 5 mila euro. Un obolo, considerati quelli che sono i costi della difesa penale. Il testo unificato, sul quale c’è tempo fino al 26 aprile per presentare gli emendamenti, stabilisce che si possa chiedere la detrazione al massimo di 10.500 euro in tre anni. Stop, quindi, al rimborso integrale come voleva Albertini. La maggioranza, che prevede di stanziare 12 milioni nel 2016 e 25 dal 2017, obietta che una copertura finanziaria più ampia sia impossibile da trovare di questi tempi. Strano perché per le indagini i budget a disposizione delle Procure sono “no limits”. Tanto per fare qualche esempio, solo per le intercettazioni telefoniche, le Procure italiane hanno speso nel 2014 la cifra monstre di 250 milioni di euro. Albertini, comunque, non ci sta a che il suo testo sia “annacquato” e ha già annunciato battaglia: «Presenterò un emendamento che alzi almeno a 100 mila euro la detrazione fiscale e preveda il rimborso totale per gli incapienti».

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA. Scrive Roberto Paciucci su "Fino a Prova Contraria". Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero.  Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare. La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.

La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.

La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.

Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.

Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).

All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:

Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;

Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;

Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;

Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;

Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;

Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;

Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;

Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;

Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;

Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;

L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.

Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.

È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea. Roberto Paciucci

In cella per errore, nessun risarcimento. Ogni anno su 7mila richieste solo una minima parte viene accolta. Gli indennizzi solo per mille detenuti. E così un articolo del codice di procedura penale finisce sotto accusa, scrive Alessandro Belardetti il 7 marzo 2017 su "Il Quotidiano.net". Un esercito tradito dalla giustizia. Sono circa 6mila all’anno le persone assolte in Italia che non ricevono l’indennizzo dopo aver subito una custodia cautelare ingiusta (in carcere o ai domiciliari). Tra loro c’è Raffaele Sollecito, accusato e detenuto quattro anni per il delitto di Meredith Kercher, poi assolto in Cassazione. L’anno scorso sono state 1.001 le ordinanze di pagamenti per riparazioni a ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, pari a 42.082.096 euro. Dunque, uno su sette riceve l’indennizzo, stabilito da un tariffario governativo: 250 euro per ogni giorno in carcere, 125 euro per i domiciliari, con un massimo di 516mila euro (mentre per gli errori giudiziari non c’è limite al risarcimento). «Ma l’entità dell’indennizzo dev’essere proporzionata alle conseguenze personali e familiari dell’imputato – spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’Associazione nazionale vittime di errori giudiziari –: non può bastare un quantum al giorno perché ci sono, per esempio, danni come la perdita di guadagni dal fallimento dell’azienda di un imprenditore incarcerato». I Giudici d’appello di Firenze nel caso Mez, sopraggiungendo l’assoluzione di Sollecito, hanno ammesso la sua ingiusta detenzione «ma lui ha concorso a causarla con la propria condotta dolosa o colposa». Comma uno dell’articolo 314 del codice di procedura penale: se un imputato provoca la propria ingiusta detenzione, non ha diritto all’indennizzo. «È un paracadute dello Stato, che lo usa a piacimento – prosegue il 41enne Magno –. A livello costituzionale così appare più importante l’essersi, per esempio, avvalso della facoltà di non rispondere durante un interrogatorio nelle indagini, che l’essere stato assolto con formula piena. Abbiamo proposto una modifica alla legge chiedendo di cambiare l’articolo 315. Ora il soggetto assolto ha due anni per chiedere l’indennizzo, ma è un trucco: questo fa prescrivere l’errore del giudice. Un limite che va cancellato». Il giurista Giuseppe Di Federico, ex membro laico del Csm, aggiunge: «È ridicolo che si allunghi la prescrizione per le attività commesse dai cittadini e si tengano strette quelle dei giudici. Quando uno ha subito un’ingiusta detenzione l’indennizzo deve essere automatico. Rovistare nei comportamenti degli imputati per non dargli i soldi non è giusto, le loro condotte non possono giustificare la mancanza di capacità professionale nei magistrati». I distretti in cui vengono rimborsati gli indennizzi maggiori per gli errori dei magistrati sono al Sud e Centro Italia: Napoli, Catanzaro, Bari, Catania, Roma le maglie nere. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sono 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. «Un fenomeno patologico, ma non c’è solo un colpevole: si va dalla polizia giudiziaria che crede in una pista e non batte le altre, al pm che perseguita gli indagati, fino agli avvocati che non fanno il proprio dovere. La giustizia è una bilancia, ma questi numeri gridano vendetta», analizza l’avvocato chietino. Proprio gli avvocati, però, vengono accusati di fare super guadagni con questi casi: «Nessun business, la nostra associazione è composta anche da giudici, periti, giornalisti e politici». Dal 1992 il ministero dell’Economia e Finanze ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25mila vittime di ingiusta detenzione, ma negli ultimi anni i risarcimenti sono calati: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47, mentre nel 2004 furono 56. «Se lo Stato deve indennizzare un’ingiusta detenzione prova imbarazzo – conclude Magno – e i soldi per i risarcimenti si trovano a fatica. Il fatto che sia la Corte d’appello dello stesso distretto che ha sbagliato il giudizio ad accogliere o rigettare l’indennizzo, limita la disponibilità del magistrato a riconoscere un errore».

Raffaele Sollecito: «Ho denunciato i miei giudici». Intervista di Valentina Stella il 16 Aprile 2017 su “Il Dubbio”. Raffaele Sollecito non molla e chiede allo Stato tre cose: capire perché la sua vita è stata stravolta dalla macchina giudiziaria, essere risarcito per aver trascorso da innocente 4 anni in carcere, e condannare civilmente i magistrati che lo hanno punito ingiustamente. La storia di questo ragazzo, dalla voce e dell’atteggiamento mite, e che può essere riassunta da questa frase che apre il suo sito The long path through injustice (il lungo percorso attraverso l’ingiustizia), è quella di un giovane uomo che ancora non si è risvegliato completamente dall’incubo che lo ha segnato quando aveva solo 23 anni, che aveva da poco perso la madre e che stava per laurearsi. Il suo futuro è incerto, tra il nuovo lavoro a Parma e l’esito delle sue iniziative giudiziarie contro lo Stato. Tuttavia sull’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, uccisa nel 2007 a Perugia, esistono due certezze: la prima è che per quel brutale assassinio c’è un solo colpevole, l’ivoriano Rudi Guede, condannato in via definitiva con il rito abbreviato a 16 anni di reclusione. La seconda è che per il delitto sono stati assolti per non aver commesso il fatto, dopo ben 5 gradi di giudizio, Raffaele Sollecito e Amanda Knox. A mettere un punto alla vicenda giudiziaria dei due ex fidanzati, che al momento dei fatti si conoscevano da appena una settimana, ci ha pensato la Cassazione il 27 marzo 2015 con una sentenza di cui è bene sottolineare un estratto riguardo le indagini: un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante di clamorose defaillances o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine. Ora però si apre un altro capitolo: Raffaele Sollecito chiede, appunto, i danni allo Stato. Il primo tentativo per il risarcimento per ingiustizia detenzione è stato respinto, ma gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori hanno annunciato il ricorso in Cassazione. Intanto si è aperto da poco l’altro filone: l’ingegnere informatico, assistito dagli avvocati Antonio e Valerio Ciccariello, ha deciso di fare causa ad alcuni magistrati, chiedendo tre milioni di euro in virtù della legge sulla responsabilità civile dei togati che prevede cause “per dolo o colpa grave”.

Perché hai deciso di fare causa ai giudici? Quali sono, a vostro parere, le colpe gravi?

«Si tratta di tutte le mancanze interpretative che ci sono state in questi anni. Ad esempio è cambiato il movente da un giudizio all’altro, la prova sul Dna è stata travisata più volte, il materiale probatorio è stato interpretato in maniera differente da un giudice all’altro, addirittura diversi magistrati hanno diciamo – disatteso le regole pur di dimostrare l’indimostrabile. Oltretutto questi errori vengono in una certa maniera stigmatizzati e riassunti dalla Corte di Cassazione che mi ha assolto».

La persona che forse più di tutte ha segnato il tuo destino è stato il pm Giuliano Mignini.

«Lui ha condotto le indagini e mi ha accusato, ma alcuni giudici mi hanno dichiarato ingiustamente colpevole e hanno messo l’ultima parola. È vero comunque che Mignini è stato sanzionato dal Csm per avermi vietato di conferire con il mio avvocato in fase preliminare, e questa la considero una grave lesione dei miei diritti di difesa».

La Corte d’appello di Firenze ha respinto invece l’istanza per il risarcimento per ingiusta detenzione a causa della tua condotta dolosa o gravemente colposa. Percepisci un pregiudizio da parte della magistratura nei tuoi confronti o sei fiducioso sull’esito del risarcimento e della causa ai magistrati?

«La magistratura è fatta di tante teste diverse. Di fatto la sentenza della Corte di appello di Firenze non ha fatto altro che condannarmi un’altra volta, perché hanno completamente distorto e disatteso tutte le risultanze probatorie che sono intervenute durante questi anni, non prendendo minimamente in considerazione tutto quello che è emerso durante le udienze. Hanno reinterpretato tutto il caso, piazzandomi addirittura sulla scena del crimine. Tra virgolette è come se mi avessero detto “Sollecito ti è andata bene tutto sommato, però ora stai zitto”. Si sono comportati in maniera indecente».

Contro di te c’è una sorta di accanimento?

«Forse risulto loro antipatico, forse non piaccio perché sottolineo i loro errori; d’altronde hanno totalmente stravolto e distrutto la mia esistenza, per questo non capisco perché dovrei essere magnanimo nei loro confronti o rimanere zitto nell’angolo e dire “no, per favore non fatemi più del male”. Hanno la colpa di aver perseguitato per anni degli innocenti. Perciò, quantomeno, credo che possa chiedere delle spiegazioni allo Stato di tutta questa vicenda. E vorrei una risposta chiara».

Ora come va la tua vita a Parma?

«Mi sono trasferito da un mese per una nuova opportunità lavorativa. Sono stato accolto decisamente bene: molte persone mi hanno dato il benvenuto e mi hanno trattato con rispetto. La cosa più importante è il lavoro e spero di riuscire a far fronte ai grossi debiti nei quali mi ha lasciato questa giustizia».

Sollecito: «Ridatemi la mia vita». L'ingegnere informatico, assolto per l'omicidio di Meredith Kercher, ha fatto causa a nove giudici per aver travisato fatti, circostanze e prove sul caso Kercher. Ci ha spiegato come sta ricominciando a vivere, con un nuovo lavoro, a Parma. Intervista di Monica Coviello del 12 aprile 2017 su "Vanityfair.it". «Nessuno mi restituirà il tempo che ho perso. Non c’è cifra che possa risarcire dieci anni di vita rubati». Ma Raffaele Sollecito, 33 anni, assolto per l’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa di 22 anni uccisa la sera del primo novembre del 2007 a Perugia, dove era in Erasmus, un risarcimento l’ha chiesto. Circa tre milioni di euro. Ha citato in giudizio, in base alla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, nove tra pubblici ministeri, procuratori generali, giudici delle indagini preliminari e giudici di corte d’assise e corte d’assise d’appello, per aver travisato fatti, circostanze e prove sul caso Kercher.

«Il calcolo della somma è stato fatto a tavolino dai miei avvocati – ci spiega Sollecito – considerando gli anni passati in carcere, l’iter giudiziario, l’entità dei travisamenti. Quei soldi li userei per me, per riprendermi la mia vita, e per fare opere di bene, ma anche per ripianare i debiti di cui ho dovuto coprirmi durante quegli anni di inferno. Poi, vorrei che venisse chiarita la posizione dei giudici. Ma ne parleremo, eventualmente, tra qualche anno».

Dopo tutti quegli anni passati tra carcere e processi, ha ancora intenzione di tornare in tribunale?

«Ci sono ancora, in tribunale, e non per mia volontà. Sono stato querelato dal sostituto procuratore della Repubblica di Perugia Giuliano Mignini per vilipendio e calunnia, per le affermazioni contenute nel mio libro “Honor bound”, pubblicato negli Stati Uniti. Sono altri che vogliono tenermi sotto processo».

Lei ha trascorso quattro anni in carcere.

«Sono stati tragici e tristi. Ho trascorso sei mesi in isolamento e 3 e mezzo in massima sicurezza a Terni, mentre vedevo affondare la mia vita».

Che cosa le hanno insegnato questi anni?

«A essere meno pauroso. Poi, la detenzione mi ha fatto conoscere un mondo che ignoravo: ho capito che la carcerazione, nelle modalità italiane, non ha senso. Si passano 22 ore, almeno, in una cella di 2 metri per 3, e le altre due in una più grande, che si chiama “passeggio”. Gli effetti si possono immaginare.  Chi è colpevole dovrebbe avere la chance di potersi riabilitare, e chi è in attesa di giudizio non dovrebbe finire dietro le sbarre».

Può esserci il pericolo che fugga.

«Ma no: bisognerebbe cambiare identità, e per farlo sono necessari investimenti esosi che forse solo i mafiosi potrebbero permettersi. Chi è in attesa di giudizio, al massimo, potrebbe essere affidato a una comunità: il carcere è una pena estremamente pesante. E la gente non tiene conto che a tutti potrebbe capitare, prima o poi, di finire in giudizio per qualcosa che non hanno fatto».

Ha stretto amicizie in carcere?

«Sì, certo. Ero un po’ la mascotte, lì dentro. In mezzo a tante persone con una vita disastrata, ero l’unico studente, per di più di ingegneria, e di famiglia buona. Ero un pesce fuori dall’acqua, e facevo un po’ tenerezza a tutti».

Quanto è presente il ricordo del carcere nella sua vita quotidiana?

«Più che altro, sono costretto tutti i giorni a fare i conti con questa vicenda, che continua ad avere spazio. Sono ancora costretto a giustificarmi, a spenderci energie. I gossip e i dubbi sulla mia persona mi danno tanto dolore».

La gente continua a guardarla con sospetto?

«Purtroppo capita: per strada una ragazza, quando mi ha visto, ha cominciato a piangere spaventata. Ma se lo fanno, è solo perché tutta la vicenda è stata raccontata in un modo fuorviante sui giornali e in tribunale. La gente comune si è informata seguendo i media, non leggendo le carte del processo. Non sono io che faccio paura: è l’immagine che hanno dato di me che fa schifo. Pensi anche a tutte le accuse mosse verso mio padre».

Quali?

«Hanno detto che era un mafioso. Invece è un medico, che non ha avuto nemmeno la possibilità di pagare tutte le spese di questo processo: abbiamo dovuto vendere le proprietà di mia mamma, siamo sommersi dai debiti. Le chiacchiere sono state alimentate dai tribunali e dai giornalisti, ed è da loro che pretendo spiegazioni. Io non ne posso più di darne».

Ora vive a Parma.

«Sono qui da meno di un mese e mezzo, grazie agli amici che mi hanno dato questa opportunità. Lavoro come ingegnere informatico per un’azienda, Memories IT Company, e ho creato insieme ai colleghi un portale di servizi. Vivo in una stanza in cui mi ospita un amico. Ma mi trovo bene: la gente mi ha accolto con affetto. Se il lavoro andrà bene, rimarrò qua: mi piacerebbe».

Ripensa spesso al periodo della morte di Meredith?

«Sono totalmente estraneo ai fatti e mi sono scocciato di ripensarci. Ma vengo invitato a diversi convegni sul caso, quindi devo tornarci spesso. Quando ci rifletto, mi viene da piangere pensando ad anni che non potrò più vivere, che erano bellissimi e che non torneranno».

Sente ancora Amanda?

«Pochissimo: ognuno ha la sua vita, siamo presi da altri pensieri. Ma Amanda l’ho conosciuta cinque giorni prima di quella vicenda: per me Perugia è altro».

Ha mai fatto visita a Rudy Guede? 

«Non ci sarebbe motivo di andare a trovarlo: non lo conosco. La sua posizione è chiara: il suo Dna è stato ritrovato sulla scena del crimine e lui ha tentato di alimentare ombre e dubbi su di Amanda e me, anche se sa che siamo innocenti».

È stata fatta giustizia per Meredith?

«A mio parere sì: secondo me non è stato un omicidio compiuto da più persone».

Ha contatti con la sua famiglia?

«Mi hanno ignorato durante questi anni: non li ho mai sentiti. Ho tentato qualche volta di avere un dialogo con loro, ma ho trovato solo dei muri».

Giustizia carogna. Errori giudiziari e controversi indennizzi per l'ingiusta detenzione.

Raffaele Sollecito e Giuseppe Gulotta. Quando la giustizia è strabica, permalosa e vendicativa.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano della malagiustizia e della ingiustizia, in generale, e del delitto di Perugia, in particolare.

Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane.

Raffaele Sollecito, in seguito alla sua definitiva assoluzione, ha deciso di chiedere solo l’indennizzo per ingiusta detenzione, scartando l’idea di chiedere anche il risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati, consigliato dalla magnanimità ed accondiscendenza dei suoi legali verso i magistrati di Perugia.

"Nelle prossime settimane valuteremo eventuali istanze relative all'ingiusta detenzione". Lo ha detto uno dei legali di Raffaele Sollecito all’Agi il 30 marzo 2015, Giulia Bongiorno, spiegando che eventuali azioni di "risarcimento e responsabilità civile non saranno alimentati da sentimenti di vendetta che non sono presenti nell'animo di Sollecito". Quanto alla responsabilità civile dei magistrati inquirenti, "quello della responsabilità civile dei magistrati è un istituto serio che non va esercitato con spirito di vendetta – ha aggiunto il legale - e allo stato non ci sono iniziative di questo genere".

Ciononostante la bontà d’animo di Raffaele Sollecito viene presa a pesci in faccia.

Raffaele Sollecito non deve essere risarcito per i quasi quattro anni di ingiusta detenzione subiti dopo essere stato coinvolto nell’indagine l’omicidio di Meredith Kercher, delitto per il quale è stato definitivamente assolto insieme ad Amanda Knox. A stabilirlo è stata la Corte d’appello di Firenze l’11 febbraio 2017 che ha respinto la richiesta di indennizzo ritenendo che il giovane abbia «concorso a causarla» rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere». Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e poi assolto per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, aveva chiesto 516mila euro di indennizzo per i 4 anni dietro le sbarre.

Alla richiesta di risarcimento si erano opposti la procura generale di Firenze e il ministero delle Finanze. Nella richiesta di risarcimento i legali di Sollecito avevano richiamato la motivazione della sentenza della Cassazione nelle pagine in cui venivano criticate le indagini secondo la Suprema Corte mal condotte dagli inquirenti e dalla procura di Perugia. In primo grado, nel 2009, Raffaele Sollecito e l’americana Amanda Knox erano stati condannati dalla Corte d’Assise di Perugia a 25 anni e 26 anni di carcere per omicidio. Nel 2011 vennero poi assolti e scarcerati dalla Corte d’Assise d’appello dal reato di omicidio (alla Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia). Nel 2013 la Corte di Cassazione annullò poi l’assoluzione e rinviò gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze che condannò (2014) Sollecito a 25 anni e Knox a 28 anni e 6 mesi. Infine, il 27 marzo 2015, il verdetto assolutorio della Cassazione.

Prima dei commenti ci sono i numeri. Sconcertanti, scrive Alessandro Fulloni il 31 12 2016 su "Il Corriere della Sera”. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione.

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che dà conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

Ma veniamo al caso "Sollecito".

I rischi della difesa, scrive Ugo Ruffolo il 12 febbraio 2017 su"Quotidiano.net". La decisione sembra salomonica: Sollecito, assolto per il rotto della cuffia, viene liberato ma non risarcito per la ingiusta pregressa detenzione. Quattro anni, per i quali chiede 500.000 euro. Sollecito dovrebbe ringraziare il cielo di essere libero e non forzare la mano, per non fare impazzire i colpevolisti. Ma Salomone non abita nei codici. I quali sarebbero un sistema binario. O tutto, o niente. Se sei assolto, non importa come, la ingiusta detenzione ti deve essere risarcita. C’è però l’articolo 314 del c.p.c., il quale prevede una sorta di concorso di colpa del danneggiato, che neutralizzerebbe la sua pretesa al risarcimento. Come dire: se sei assolto, ma per difenderti hai mentito o ti sei contraddetto, allora sei tu ad aver depistato polizia e giudici, o ad aver complicato il loro lavoro. Se ti hanno prima condannato e poi assolto, e dunque se hai fatto quattro anni di carcere ingiustamente, la colpa è anche tua; e questo ti impedirebbe di chiedere il risarcimento (come dire: un po’ te la sei voluta). Sembrerebbe giusto, almeno in linea di principio. Ma sorge il problema che, assolto in penale l’imputato, in sede civile viene processata la sua linea difensiva, ai fini di accordargli o meno risarcimento da ingiusta detenzione. In altri termini ciascuno è libero di difendersi come crede, anche depistando o mentendo (potrebbe essere talora funzionale alla difesa nel caso concreto). Ma chi sceglie questa linea si espone al rischio di vedersi poi rifiutato il risarcimento. È quanto obbietta a Sollecito l’ordinanza della Corte d’Appello, ricostruendo quella storia processuale come costellata di depistaggi, imprecisioni, contraddizioni e menzogne. Che talora Sollecito aveva ammesso, giustificandosi con l’essere stato, al tempo, “confuso”. I suoi avvocati annunciano ricorso in Cassazione, per contestare come erronea quella ricostruzione processuale. Dovrebbero avere, credo, scarsa possibilità di vittoria. Salomone, così, rientrerebbe dalla finestra ed i colpevolisti eviterebbero di impazzire. Ma quel che turba, è un processo che si riavvolta su se stesso, cannibalizzandosi: processo del processo del processo (e anche, processo nel processo nel processo). Come riflesso fra due specchi all’infinito. 

Sollecito, no ai risarcimenti. Non è abbastanza innocente. La Corte d'appello di Firenze nega 500mila euro per 4 anni di cella: «Troppi silenzi e menzogne», scrive Annalisa Chirico, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Per la giustizia italiana puoi essere innocente e, a un tempo, colpevole. La Corte d'appello di Firenze ha rigettato la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Raffaele Sollecito. Il dispositivo, pubblicato dal sito web finoaprovacontraria.it, s'inserisce nel solco della cosiddetta giurisprudenza sul concorso di colpa. In sostanza, il cittadino che, ancorché assolto, abbia contribuito con dolo o colpa grave a indurre in errore inquirenti e magistrati, vede ridimensionato il proprio diritto a ottenere un risarcimento per la detenzione ingiustamente inflitta. Nel caso di Sollecito, quattro anni di carcere e un'assoluzione definitiva, questo diritto si annulla, si polverizza, nessun risarcimento, non un euro, niente. Per i giudici della terza sezione penale, «le dichiarazioni contraddittorie o false e i successivi mancati chiarimenti» da parte del giovane laureatosi ingegnere dietro le sbarre avrebbero contribuito all'applicazione e al mantenimento della misura cautelare. Ma quali sarebbero le dichiarazioni «menzognere»? «Io non mi sono mai sottratto agli interrogatori - commenta al Giornale il protagonista, suo malgrado, dell'ennesimo colpo di scena in un'odissea giudiziaria durata quasi dieci anni Ho letto la decisione, sono sbigottito. Avverto l'eco della sentenza di condanna, forse sono affezionati agli errori giudiziari». Sollecito è scosso, non se l'aspettava. «Credevo di aver vissuto le pagine più nere della giustizia italiana. Devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata». Nelle ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, la studentessa inglese barbaramente uccisa nell'appartamento di via della Pergola nel 2007, Sollecito risponde alle domande di chi indaga, cerca di ricostruire nel dettaglio gli spostamenti suoi e di Amanda, la ragazza americana che frequenta da una settimana, prova a fissare gli orari di ingresso e uscita dal suo appartamento perugino, se Amanda si sia mai assentata nel corso della notte, se il padre gli abbia telefonato dalla Puglia verso l'ora di cena o prima di andare a dormire, Raffaele non si sottrae ma fatica a ricordare con esattezza, si contraddice, giustifica l'imprecisione ammettendo di aver fumato qualche canna come fanno gli universitari di mezzo mondo, nel corso dell'interrogatorio di garanzia dinanzi al gip dichiara: «Ho detto delle cazzate perché io ero agitato, ero spaventato e avevo paura. Posso dire che io non ricordo esattamente quando Amanda è uscita, se è uscita non ricordo». Ma c'è di più. Nell'ordinanza di 12 pagine, si legge che il silenzio mantenuto dall'indagato dopo l'interrogatorio di garanzia Sollecito fu tenuto per sei mesi in isolamento avrebbe contribuito a indurre in errore i giudici. In altre parole, l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di un'innocenza a metà: Sollecito è ancora sotto processo. Per spazzare via ogni dubbio, si afferma che la stessa sentenza di assoluzione emessa dalla Cassazione avrebbe rinvenuto «un elemento di forte sospetto a carico del Sollecito» a causa delle dichiarazioni contraddittorie. Non vi è traccia invece delle censure espresse dai supremi giudici sull'operato dei pm: «clamorose défaillance o amnesie investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine», scrivono gli ermellini. Per l'omicidio della Kercher un cittadino ivoriano sconta una condanna definitiva a sedici anni di carcere. Ormai la cultura del sospetto ha inghiottito quella del diritto, è la stessa che fa dire candidamente al presidente dell'Anm Davigo che pure gli innocenti sono colpevoli.

Innocenti di serie B, scrive Claudio Romiti il 14 febbraio 2017 su “L’Opinione. Destando un certo scalpore, soprattutto tra quei cittadini avvertiti che credono in una visione garantista della giustizia, la Corte d’Appello di Firenze ha negato qualunque risarcimento a Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione. Quattro interminabili anni passati dietro le sbarre che, per una persona vittima di una ricostruzione dei fatti a dir poco surreale, devono essere sembrati un inferno. Così come un inferno, che in alcuni aspetti continua a sussistere per il giovane ingegnere informatico pugliese, è stato il lunghissimo iter processuale, fortemente inquinato da un forte pregiudizio mediatico che ancora oggi fa sentire i suoi effetti presso una parte dell’opinione pubblica disposta a bersi qualunque pozione colpevolista. In estrema sintesi i giudici di Firenze hanno stabilito, bontà loro, che il comportamento iniziale del Sollecito, considerato eccessivamente ambiguo e, in alcuni casi, menzognero, avrebbe indotto gli inquirenti perugini in errore, convincendo questi ultimi - aggiungo io - a mettere in piedi un castello di accuse fondato sul nulla, visto che nella stanza del delitto non furono ritrovate tracce dei due fidanzatini dell’epoca, contrariamente alle decine e decine di evidenze schiaccianti a carico di Rudy Guede. Quest’ultimo, considerato ancora oggi da molti analfabeti funzionali di questo disgraziato Paese solo un capro espiatorio dell’atroce delitto di Perugia, vittima dei soliti poteri forti capitanati dalla Cia, fino a coinvolgere la longa manus di Donald Trump, il quale in passato si era interessato del caso.

Sta di fatto che Raffaele Sollecito, pur essendo scampato ad uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia italiana, viene considerato oggi, negandogli alcun risarcimento, un innocente dimezzato. Un mezzo colpevole che avrebbe cagionato le sue disgrazie per non aver fornito in modo chiaro le ragioni della sua innocenza. Tant’è che persino il silenzio mantenuto dall’imputato dopo l’interrogatorio di garanzia, come sottolinea Annalisa Chirico sul “Il Giornale”, avrebbe indotto i giudici nell’errore. “In altre parole - commenta la stessa Chirico - l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di una innocenza a metà”. E se la decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande degli inquirenti viene valutata in questo modo, ciò significa che nelle nostre aule giudiziarie ancora aleggia quell’idea molto medievale dell’inversione della prova. In un evoluto sistema giudiziario, al contrario, spetta sempre all’accusa dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di qualunque imputato. E se questo non accade, proprio perché siamo tutti innocenti fino a prova contraria, le conseguenze fisiche, morali e finanziarie di una accusa caduta nel nulla non possono ricadere sulla testa di chi l’ha pesantemente subìta. Da questo punto di vista, dopo l’annuncio del ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, dobbiamo sempre sperare, al pari del mugnaio di Potsdam, che ci sia sempre un giudice a Berlino.

Ma quale è il comportamento contestato a Raffaele Sollecito?

Si legge il 11 Febbraio 2017 su “Il Tempo”. "Credevo di aver vissuto le pagine più nere della Giustizia Italiana, ma nonostante la Cassazione mi ha dichiarato innocente, devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata. Ripeto, la Cassazione aveva sottolineato l'esistenza di gravissime omissioni in questo processo e di defaillance investigative". Così Sollecito - assolto dall'accusa di aver partecipato all'omicidio di Meredith Kercher - commenta sul suo profilo Facebook. "Riprendono in toto la sentenza di condanna di Firenze, piena di errori fattuali ingiustificabili - scrive ancora Sollecito - Adesso questi giudici non tengono minimamente conto di sentenze in cui è acclarato il clima di violenza durante gli interrogatori. Non mi sono mai sottratto ad un interrogatorio e dire che non mi hanno ascoltato è soltanto una scusa, visto che ho fatto mille dichiarazioni spontanee". Per l'avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, la decisione della Corte d'appello di Firenze «si caratterizza per una serie consistente di errori. Basterebbe pensare che esclude il diritto al risarcimento sulla base delle dichiarazioni che avrebbe reso Sollecito e dimentica che esistono delle sentenze in cui è stato attestato che addirittura, nell'ambito della questura, furono fatte pressioni e violenze alla Knox e Sollecito proprio nel momento in cui rendevano queste dichiarazioni». «Non c'è un solo cenno sulla situazione in questura - aggiunge il legale - Inoltre, l'ordinanza dimentica che le dichiarazioni non possono in nessun modo aver inciso sull'ingiusta detenzione perché non sono state citate come decisive nei provvedimenti restrittivi in cui si faceva invece riferimento ad altri elementi. Infine, in sede di dibattimentale, Sollecito non ha reso alcun esame quindi non si vede come le sue dichiarazioni possano aver causato il diniego di libertà in quella fase. È una sentenza - conclude il legale - che verrà immediatamente impugnata in Cassazione».

Insomma, la Corte di Appello di Firenze, volutamente e corporativamente non ha tenuto conto del clima di violenza e coercizione psicologica che sollecito ha subito nelle fasi in cui gli si contesta un atteggiamento omissivo e non collaborativo.

In ogni modo. Se a Firenze a Sollecito si contesta un comportamento in cui abbia «concorso a causarla» (l'illegittima detenzione), rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere», come se non fosse nel suo sacrosanto diritto di difesa farlo, ancor più motivato, plausibile e condivisibile sarebbe stato il diniego alla richiesta dell'indennizzo di fronte ad una vera e propria confessione.

Invece si dimostra che in Italia chi esercita impropriamente un potere, pur essendo solo un Ordine Giudiziario, ha sempre l'ultima parola per rivalersi da fallimenti pregressi.

Giuseppe Gulotta, risarcito con 6,5 milioni di euro dopo 22 anni in carcere da innocente. Il muratore di Certaldo (Firenze) è stato condannato nel 1976 per duplice omicidio e assolto nel 2012. La Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto l'indennizzo. L'avvocato aveva chiesto 56 milioni di euro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 14 aprile 2016. Sei milioni e mezzo di euro di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. La corte d’appello di Reggio Calabria ha stabilito l’indennizzo per Giuseppe Gulotta, il muratore di Certaldo (Firenze) accusato di aver ucciso due carabinieri e poi assolto nel 2012. La richiesta di Gulotta, attraverso il legale Pardo Cellini, ammontava a 56 milioni di euro. “Stiamo valutando un ricorso in Cassazione”, ha spiegato l’avvocato. “Se da un lato siamo soddisfatti perché con la decisione dei giudici di Reggio Calabria finisce questo lungo percorso, dall’altro non ci soddisfa che sia stato riconosciuto un indennizzo e non un risarcimento”. “Per trentasei anni sono stato un assassino”, aveva raccontato in un libro del 2013 lo stesso Gulotta, “dopo che mi hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandomi una pistola in faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere”. Nel 1976, a 18 anni, Gulotta fu condannato per il duplice omicidio di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in provincia di Trapani.

In carcere in Toscana da innocente, crea una fondazione per le vittime degli errori giudiziari. Giuseppe Gulotta fu condannato per l'omicidio di due carabinieri. Dopo 40 anni ha ricevuto i 6,5 milioni di indennizzo dallo Stato, scrive Franca Selvatici il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". È arrivato finalmente l'indennizzo dello Stato per Giuseppe Gulotta e per la sua vita devastata da un tragico errore giudiziario. In tutto 6 milioni e mezzo di euro, che dopo anni di carcere, di disperazione e di difficoltà economiche permetteranno all'ex ergastolano, accusato ingiustamente dell'atroce esecuzione di due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 nella piccola caserma di Alcamo Marina, di assicurare un po' di agiatezza alla moglie Michela e ai figli e di aiutare chi, come lui, è finito in carcere innocente. Giuseppe Gulotta, nato il 7 agosto 1957, aveva poco più di 18 anni quando finì nel "tritacarne di Stato". Chiamato in causa con altri da un giovane che, dopo essere stato trovato in possesso di armi, fu torturato, costretto a ingoiare acqua, sale e olio di ricino e a subire scosse elettriche ai testicoli, anche lui fu incatenato, circondato da "un branco di lupi", picchiato, insultato, umiliato e torturato, finché - come ha raccontato nel libro Alkamar scritto con Nicola Biondo e pubblicato da Chiarelette - "sporco di sangue, lacrime, bava e pipì" - non ha firmato una confessione che, seppure ritrattata il giorno successivo, gli ha distrutto la vita. Il 13 febbraio 1976 fu arrestato e dopo ben nove processi il 19 settembre 1990 fu condannato definitivamente all'ergastolo. Scarcerato nel 1978 per decorrenza dei termini della custodia cautelare, era stato allontanato dalla Sicilia. I genitori lo mandarono in Toscana, a Certaldo, e qui - fra un processo e l'altro - Giuseppe ha conosciuto Michela, sua moglie, che gli ha dato la forza di resistere nei 15 anni trascorsi in carcere. Nel 2005 ha ottenuto la semilibertà. Sarebbe comunque rimasto un "mostro" assassino se nel 2007 un ex carabiniere non avesse deciso di raccontare le torture a cui aveva assistito. Da allora Giuseppe - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - ha intrapreso l'impervio percorso della revisione del processo. Il 13 febbraio 2016 - esattamente 40 anni dopo il suo arresto - è stato riconosciuto innocente e assolto con formula piena dalla corte di appello di Reggio Calabria. Quattro anni più tardi, il 12 aprile 2016, dopo altre estenuanti battaglie gli è stato definitivamente riconosciuto l'indennizzo di 6 milioni e mezzo a titolo di riparazione dell'errore giudiziario. Anche gli altri tre giovani condannati come lui sono usciti assolti dal processo di revisione, incluso Giovanni Mandalà, morto in carcere disperato nel 1998. Per i suoi familiari lo Stato si appresta a versare un indennizzo record, il più alto mai riconosciuto in Italia: 6 milioni e 600 mila euro.

Quella confessione estorta con botte e scariche ai testicoli…scrive Simona Musco il 27 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Il racconto di Giuseppe Gulotta che ha passato 22 anni in carcere da innocente per la strage di Alcamo Marina. «Ho subito tutto senza sapere né come né perché». Ora arriva il risarcimento. Tredici milioni di euro per mettere la parola fine a quello che forse verrà ricordato come il più grande errore giudiziario italiano e che ancora continua a registrare colpi di scena. Tredici milioni da dividere per due famiglie dilaniate per anni e anni da accuse ingiuste, che hanno divorato le vite di tutti i protagonisti. Si tratta di Giovanni Mandalà e Giuseppe Gulotta, due dei protagonisti della strage di Alcamo. Una strage alla quale, in realtà, non hanno mai preso parte. Ma per riconoscerlo hanno dovuto passare decenni dietro le sbarre e affrontare torture e tribunali. Un’innocenza che per Gulotta vale appunto 6 milioni e mezzo di euro, la cifra stabilita per ripagare 22 anni in carcere senza motivo. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima, ad aprile 2016, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito quanto costa l’errore giudiziario che si è consumato sulle sue spalle, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento. «Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare?», ha commentato Gulotta al Dubbio, lo scorso anno, poco dopo la lettura della sentenza. Lo Stato, infatti, ha riconosciuto ad ogni anno della sua vita un valore di 163mila euro. Poco, pochissimo a fronte di come Gulotta ha trascorso quegli anni: dietro le sbarre. Per questo i suoi avvocati, Saro Lauria e Pardo Cellini, avvalendosi di un tecnico, avevano chiesto 56 milioni di euro. «Non è una somma a caso. Questa, forse, è l’ennesima beffa subita in questi 40 anni – ha spiegato -. Speravo in qualcosa di più ma se per lo Stato tutte le mie difficoltà corrispondono a questa cifra rispetterò la sentenza. Però l’amarezza rimane. Alle volte non si trovano le parole per esprimere i sentimenti». La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie ad una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla. Per 22 lunghissimi anni, quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, della caserma di “Alkamar”, in provincia di Trapani. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza. Iniziarono così i 36 anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere, Renato Olino, sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu poi un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione “Gladio”, la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro. L’assoluzione di Gulotta è arrivata il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo il suo arresto. «Ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e, anche se ho ritrattato subito, i giudici non mi hanno creduto – ha raccontato -. Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più».

Ecco come la giustizia in Italia sia strabica. A Firenze il silenzio vale il diniego all’indennizzo; a Reggio Calabria una confessione di colpevolezza vale una elargizione del medesimo.

Indagati e condannati per sbaglio Il risarcimento? Lo tiene lo Stato. Uno preso per corruttore, l'altro 2 anni in cella per droga Indennizzo negato alla 81enne: è scivolata per colpa sua, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale".  C'è l'errore, d'accordo. Ma spesso i guai sono come le ciliegie. Uno tira l'altro. E così l'imputato o più semplicemente la persona che vorrebbe solo giustizia deve strisciare sotto una galleria di umiliazioni, sofferenze, paradossi. Qualche volta la sentenza timbra anche la beffa, dopo aver certificato il danno subito dal malcapitato. Dipende. Il ventaglio delle sorprese è purtroppo sterminato. Torna in mente l'errore giudiziario per eccellenza, quello di Daniele Barillà, il piccolo imprenditore brianzolo arrestato sulla tangenziale di Milano il 13 febbraio 1992, nei giorni in cui il motore di Mani pulite scalda i motori. Barillà non c'entra niente con Tangentopoli, lui dovrebbe essere, e invece non è, un trafficante di droga. Ma il gip che lo interroga, Italo Ghitti, è lo stesso che firmerà nei mesi seguenti centinaia di arresti per i colletti bianchi dei partiti. E Ghitti si sorprende perché l'indagato, ammanettato secondo lui con le mani nel sacco, resiste e si ostina a proclamarsi innocente. «Se lei non confessa - è la profezia - si beccherà vent'anni». Previsione quasi azzeccata, perché l'artigiano viene condannato a 18 anni, ridotti poi a 15 in appello e confermati in cassazione. Lui, per tirarsi fuori da quel disastro, racconterebbe pure quello che non ha fatto, ma il problema è che non sa cosa confessare. Come Crainquebille, il verduraio uscito dalla penna di Anatole France che racconterebbe volentieri il proprio peccato alle forze dell'ordine se solo sapesse qual è. La storia di Barillà si trascina per sette anni mezzo, fino alla svolta nel 1999, come una somma di equivoci: il suo silenzio colmo di angoscia viene scambiato, anche nei verdetti, per lo spessore criminale di un boss incallito. E quei testimoni, amici e parenti, che gli hanno garantito l'alibi narrando per filo e per segno cosa ha fatto, e dove era nelle ore decisive del 13 febbraio 1992, vengono incriminati e rischiano di essere processati a loro volta. L'errore chiama errore. A volte invece si mischia alla prepotenza. Enrico Maria Grecchi, altro nome sconosciuto al grande pubblico e lontano dai riflettori, si fa 654 giorni di cella per traffico di stupefacenti, prima di essere assolto in appello e secondo grado. Con la banda di malfattori lui non c'entra niente. Potrebbe bastare, ma la giustizia si prende la rivincita alleandosi con la burocrazia più ottusa. Succede infatti che il ministro dell'Economia stacchi finalmente l'assegno per l'ingiusta detenzione: 91.560 euro. Stirati. Stiratissimi, molti meno di quelli richiesti perché Grecchi, a sentire i magistrati, non ha schivato l'amicizia con un tipo poco raccomandabile e questo ha indotto in errore i giudici che l'hanno incarcerato. Alla fine, è sempre colpa sua. Ma non è finita. Quei soldi dovrebbero essere un mezzo risarcimento, innescano un nuovo scempio. Nella partita si butta infatti Equitalia che vanta crediti pari a 67.056,21 euro. Pare si tratti di somme legate a tasse automobilistiche. Sembra impossibile, ma dopo tante esitazioni e balbettii, Equitalia piomba come un fulmine sul tesoretto e glielo porta via. Con tanto di bollo del tribunale di Lecco. Nessun rispetto, dunque, per quello che è successo. Lo Stato avrebbe dovuto cospargersi il capo di cenere, invece eccolo azzannare quel gruzzolo sacrosanto. Poi, altro colpo di scena in un procedimento surreale, si scopre che gran parte delle multe contestate, ormai datate, è andata in prescrizione. Una parte, una parte soltanto del malloppo conteso, viene restituita a Grecchi in un andirivieni indecoroso. Errori grandi, errori piccoli. Nel penale e nel civile. Conditi spesso con la pena supplementare del disprezzo. La signora ottantunenne è caduta nella buca? Affari suoi, altro che risarcimento da parte del Comune di Milano. «È noto - scrive una toga di rito ambrosiano - che con il progredire dell'età il sistema motorio e quello sensoriale (oltre che quello cognitivo) perdono parte della propria efficienza». E avanti con diagnosi serrate e impietose. Nessun indennizzo, ci mancherebbe. Ma una conclusione folgorante: se la donna è scivolata è solo colpa sua.

Processo dura 20 anni, lo stupro è prescritto. Il giudice: "Chiedo scusa alla vittima". Cade l'accusa per l'uomo che abusò della figlia della convivente. In Appello tutto si è arenato. Il ministro Orlando manda gli ispettori: "è un fatto che ribollire il sangue", scrive Sarah Martinenghi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d'Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent'anni. Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All'epoca dei fatti ne aveva sette. Dall'aula l'hanno chiamata per chiederle se volesse presentarsi al processo, iniziato nel 1997, in cui era parte offesa. Ma lei si è rifiutata: "Voglio solo dimenticare". Il procedimento è rimasto per nove anni appeso nelle maglie di una giustizia troppo lenta. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano: "Si deve avere il coraggio di elogiarsi, ma anche quello di ammettere gli errori. Questa è un'ingiustizia per tutti, in cui la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". In aula, a sostenere l'accusa della procura generale, è sceso l'avvocato generale Giorgio Vitari. "Ha espresso lui per primo il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi - spiega il procuratore generale, Francesco Saluzzo - Questo procedimento è ora oggetto della valutazione mia e del presidente della Corte d'Appello. È durato troppo in primo grado, dal 1997 al 2007. Poi ha atteso per nove anni di essere fissato in secondo". La storia riguarda una bambina violentata ripetutamente dal convivente della madre. La piccola, trovata per strada in condizioni precarie, era stata portata in ospedale, dove le avevano riscontrato traumi da abusi e addirittura infezioni sessualmente trasmesse. La madre si allontanava da casa per andare a lavorare e l'affidava alle cure del compagno. Il procedimento alla procura di Alessandria parte con l'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene però chiesta l'archiviazione per parte delle accuse e l'uomo riceve una prima condanna, ma solo per maltrattamenti. Contemporaneamente, il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violenza sessuale. Nel frattempo, però, sono già trascorsi anni. L'inchiesta torna in primo grado e, dopo un anno, viene emessa la condanna nei confronti dell'orco: 12 anni di carcere. Da Alessandria gli atti rimbalzano a Torino per il secondo grado. Ma incredibilmente il procedimento resta fermo per nove anni in attesa di essere fissato. Finché, nel 2016, il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano, allarmato per l'eccessiva lentezza di troppi procedimenti, decide di fare un cambiamento nell'assegnazione dei fascicoli. "Ho tolto dalla seconda sezione della corte d'Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa 300 processi tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato", spiega. La prima sezione ha avuto tra le mani per un anno il caso iniziato nel 1997. E l'udienza si è svolta solo ieri. "Ormai, però, era intervenuta la prescrizione". Un altro errore si è aggiunto alla catena di intoppi giudiziari: per sbaglio è stata contestata all'imputato una recidiva che non esisteva, il che avrebbe accorciato ulteriormente la sopravvivenza della condanna. I giudici, ascoltate le scuse della procura generale, si sono chiusi a lungo in camera di consiglio. Forse nella speranza di trovare un'ancora di salvezza. Alla fine, però, ha vinto il tempo. Sulla vicenda è anche intervenuto il ministro della giustizia Andrea Orlando che ha deciso di mandare gli ispettori di via Arenula per svolgere accertamenti preliminari in merito al processo, caduto in prescrizione.

Reato prescritto, pedofilo libero: il giudice chiede scusa, scrive di Roberta Catania il 22 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. «Abbiamo chiesto scusa alla vittima perché siamo stati costretti a chiedere il proscioglimento dell'imputato, nonostante non volessimo. È intervenuta la prescrizione». Ecco la giustificazione del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, dopo che si è concluso, senza alcuna condanna, il processo a carico di un uomo che violentò la figlia della sua compagna dell'epoca, una bimba di sette anni. Per carità, sentire un giudice chiedere scusa è un evento di tale rarità che non si può non darne atto. Però rimane un fatto gravissimo che un caso così delicato sia rimbalzato per vent' anni da una scrivania all' altra senza trovare una giusta collocazione e dare un giusto processo alla vittima e al suo aguzzino. L'altro ieri la vittima di quelle violenze sessuali - che il compagno della madre le infieriva mentre la donna era al lavoro - non si è presentata in aula al Palagiustizia di Torino. Lei oggi ha 27 anni, vuole solo dimenticare e andare avanti. Un reset che sarebbe stato giusto offrirle molti anni fa, con tempi della giustizia più rapidi, condannando il suo stupratore ai giusti anni di prigione, invece di rammaricarsi oggi dichiarando «la prescrizione». Anche il presidente della corte d' Appello ha chiesto perdono alla donna e «al popolo italiano» per l'esito di una vicenda «su cui giustizia non c' è stata, perché non è stato possibile farla». Ma la colpa di chi è? Di quella ragazza che forse non aveva il denaro per pagare un brillante avvocato che incalzasse le udienze o di quei giudici che oggi chiedono perdono? Forse non loro direttamente, visti gli intoppi in cui è inciampato il caso, ma comunque qualcuno dovrebbe pagare un risarcimento o i danni morali. Il primo passo di questo processo è datato 1997. Il fascicolo arriva al tribunale di Alessandria, dove avviene il primo inciampo della giustizia. In udienza preliminare, il gup della provincia piemontese non aveva riconosciuto l'accusa di violenza sessuale ma soltanto quella di maltrattamenti. Accusa contestata successivamente dal giudice, che riesce a far riconoscere lo stupro, ma intanto altri anni erano andati persi. Il processo di primo grado dura tantissimo: dieci anni. E non per colpa di centinaia di testimoni da sentire o migliaia di perizie da esaminare, ma perché tra un'udienza e l'altra trascorrevano tempi inspiegabilmente biblici. Come se non fosse bastato un primo grado durato dieci anni, ce ne sono voluti altri nove prima che venisse fissato l'Appello. Diciannove anni, quindi, perché il caso arrivasse al tribunale di Torino per discutere il secondo grado di giudizio. E quando il fascicolo è stato preso in mano dai togati, oplà, era già tutto scaduto. Dopo molte ore di camera di consiglio, due giorni fa la giudice della Corte d' Appello Paola Dezani che ha dichiarato «prosciolto lo stupratore». Lo ha fatto con imbarazzo, dicono. Anche lei mortificata per una lentezza della giustizia che non ha lasciato impunito un abuso edilizio, ma che ha condonato le ripetute violenze sessuali su una bambina di sette anni. Adesso, in Piemonte arriveranno gli ispettori del ministero della Giustizia. Adesso, i giudici chiedono scusa. Adesso, la notizia rimbalza su tutti i giornali. Ma per venti anni nessuno ha preso a cuore la giustizia che meritava quella bambina e domani nessuno pagherà per qualcosa che tornerà ad essere catalogato come ordinaria lentezza della giustizia italiana. 

Reato di stupro prescritto: ma chi paga? Le parole non restituiranno sollievo alla 27enne che 20 anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, e non ha vigilato, scrive il 22 febbraio 2017 Marco Ventura su Panorama. Per la giustizia negata non c’è altra soluzione che accelerare i processi e far valere il principio che chi sbaglia paga. Anche il magistrato negligente o lavativo. Tutto il resto è retorica: proposte di grande riforma del sistema giudiziario, ipotesi illiberali come quella di rendere infinito il tempo della prescrizione, scuse pubbliche prive di conseguenze concrete che servono soltanto a lavare le coscienze. Ben venga la prescrizione per l’uomo condannato in primo grado a 12 anni per aver abusato della figlia (che di anni ne aveva 7) della convivente; ben venga la notizia dei 20 anni di processo che non sono bastati a restituire, se non la serenità, almeno la giustizia a una donna che oggi ha 27 anni e dice di voler “solo dimenticare”; ben venga il proscioglimento del (dobbiamo dire presunto?) violentatore, se questa ennesima sconfitta della giustizia italiana servirà a qualcosa. Per esempio, a evitare in futuro nuove sentenze di prescrizione di reati che se non puniti “fanno ribollire il sangue”, come ha sollecitamente dichiarato con espressione suggestiva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciando l’invio di ispettori. E ben vengano le scuse agli italiani del giudice della Corte d’Appello di Torino, Paola Dezani, che ha dovuto emettere “in nome della legge” la sentenza, prendendo atto che il reato era prescritto: troppi dieci anni per il processo di primo grado (1997-2007) più altri nove per fissare l’udienza in appello. Ben venga la denuncia del presidente della Corte d’Appello, Arturo Soprano, che parla di “ingiustizia per tutti” e vittima “violentata due volte, la prima dall’orco, la seconda dal sistema”. Eppure. Il Sistema ha un volto. Un nome. Altrimenti sono tutti colpevoli e nessuno è colpevole. E anche questo è il Sistema. Che si difende auto-accusandosi. Il dubbio che qualcosa cambi davvero è forte. Perché in Italia manca del tutto il concetto di responsabilità, che è sempre personale ed è quella per la quale meriti e demeriti producono premi o sanzioni. Succede invece che il buon giudice continui a svolgere il proprio lavoro in silenzio, smazzando sentenze e trattando equamente le cause che trova sul tavolo, sforzandosi di leggere le carte prima di prendere decisioni. E capita poi che vengano emesse sentenze prima ancora di ascoltare le parti in udienza: la condanna pre-confezionata e “per errore” firmata e controfirmata. Per dire quanto la giustizia possa essere veloce: la sentenza precede l’udienza. Svista che smaschera anch’essa un Sistema. C’è una lacuna nello scandalo dello stupro pedofilo impunito. Un difetto, forse, nella comunicazione dei magistrati. Un dubbio, un rovello anzi, che deve assillare chiunque non si accontenti di denunciare le imperfezioni del Sistema. Il dubbio è che la vittima di 7 anni che oggi ne ha 27 e vuole solo dimenticare abbia tragicamente ragione. Primo, perché se anche la giustizia fosse arrivata in tempo (nei termini) sarebbe stata comunque tardiva. È ragionevole che si debbano aspettare 17-18 anni per vedere condannato il proprio violentatore o perché un uomo accusato di violenza venga processato? Siamo un Paese incivile. È di ieri la notizia che a Rio de Janeiro sono stati condannati a 15 anni di carcere due autori della violenza di gruppo su una sedicenne commessa lo scorso maggio. E parliamo di Brasile e favelas. Non di Alessandria o Torino. Secondo, perché il moltiplicarsi di scuse dei magistrati (pur benvenute e doverose) e dichiarazioni di quanti hanno la responsabilità della “giustizia” nascondono una diffusa ipocrisia. Qui non sono le parole a poter restituire uno straccio di riparazione alla 27enne che vent’anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, sottovalutato. Di chi ha lavorato male e provocato un danno con la sua negligenza. Di chi non ha vigilato. La sanzione può anche essere semplicemente un fermo alla carriera, un trasferimento, una censura. La magistratura gode di benefici economici (e non solo) in ragione della sua autorevolezza. Che oggi è ai minimi nell’opinione pubblica. E la sua autonomia, invece, rischia di esser vista come arroccamento corporativo e difesa dei privilegi. Se nessuno, alla fine e dopo tante belle parole, non pagherà per la denegata giustizia o per l’errore giudiziario (le carceri ne sono piene), avrà sempre ragione il presidente della Corte d’Appello di Torino, che ha scelto male le parole quando ha detto che la 27enne che vuole solo dimenticare è vittima due volte: dell’orco e del sistema. E la vittima rischia così di essere vittima non due ma tre volte, vittima dell’ipocrisia di quelli che puntano l’indice contro un ente inafferrabile e irresponsabile (il Sistema) invece di volgere lo sguardo al proprio fianco, nell’ufficio accanto, tra i colleghi, e additare i colpevoli, i veri ir-responsabili, con nome e cognome.

Se il processo dura 20 anni non c’entra la legge ma i magistrati, scrive Piero Sansonetti il 22 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Lo scandalo non sta nel fatto che è scattata la prescrizione, dopo 20 anni dal reato e 20 anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati 20 anni alla magistratura per concludere l’iter processuale. Se un processo per lo stupro di una bambina dura vent’anni e poi l’accusa cade in prescrizione, la colpa di chi è? È successo in Piemonte. Ieri la notizia ha conquistato le home page di tutti i siti, e l’hanno data le Tv. Un po’ ovunque è sembrato sentire un atto di accusa vibrante contro la prescrizione, cioè quel meccanismo satanico e da azzeccagarbugli che permette agli imputati di farla franca. Il procuratore generale di Torino ha dichiarato ai giornali che occorre una profondissima riforma, e che il compito tocca al legislatore. È il ritornello di sempre, ripetuto incoro da giornali e procure: le colpe per la malagiustizia comunque sono del potere politico e delle norme troppo garantiste. Mentre i magistrati, di solito, si comportano in modo egregio e infatti, come è noto, combattono contro la prescrizione. Se il potere politico non si opponesse alle giuste battaglie dei magistrati e facesse le cose a modino, come i magistrati chiedono, ecco che questo scandalo del presunto pedofilo che la fa franca non sarebbe avvenuto…Davvero è così? Non solo non è così ma è esattamente il contrario.  La prescrizione è una misura estrema che serve solo a mettere un argine alla violazione di un principio costituzionale che è quello della “ragionevole durata del processo” (art 111 della Costituzione). E nessuno può avere dubbi sul fatto che 18 o 19 anni devono essere più che sufficienti per concludere un processo nel quale un uomo è accusato di avere esercitato violenza sessuale su una bambina di 7 anni. Noi, né nessun altro giornalista, non siamo assolutamente in grado di sapere se a carico dell’imputato ci fossero o no prove sufficienti. Essere accusati d i pedofilia, insegnano casi giudiziari anche molto recenti, non vuole assolutamente dire essere colpevoli. Spesso le accuse per pedofilia cadono, risultano infondate (pensate solo alla vicenda assurda di quei poveretti accusati di “pedofilia” di massa in una scuola di Rignano, in provincia di Roma, e poi risultati tutti completamente innocenti, dopo mesi di carcere e anni di infamie). Ma qui la questione non è certo quella di stabilire se l’imputato fosse o no colpevole. Si tratta semplicemente di capire perché il processo è andato in appello dopo 20 anni, quando ormai l’accusato era diventato vecchio, e la bambina era diventata una signora (la quale, tra l’altro, ha fatto sapere che di questa storia non vuole sapere più niente). Allora, proviamo a vedere come stanno le cose. Le Procure e le Corti d’appello, sicuramente, sono intasate da migliaia di procedimenti giudiziari che non riescono a smaltire. Questo vuol dire che tutti i provvedimenti giudiziari durano 20 anni? No. E sarebbe logico che i processi per i reati più gravi andassero più spediti. Non sempre è così. Per esempio gli avvocati di tal Silvio Berlusconi ci dicono che dal 1995 a oggi il suddetto Silvio Berlusconi ha subito 70 processi. Naturalmente nei processi a Berlusconi, la procura di Alessandria e la corte d’appello di Torino (cioè le due istituzioni che non sono riuscite a processare il sospetto pedofilo) non c’entrano niente. Berlusconi è stato processato soprattutto dalla Procura di Milano. Però il paragone, dal punto di vista politico, regge eccome. Le procure hanno trovato tutto il tempo necessario per processare 70 volte Berlusconi, mentre altre procure non riuscivano a fare un solo processo a quel signore accusato di aver violentato una bambina. Come è possibile questo? Forse c’è una sola spiegazione: processare un tipo come Berlusconi è attività assai più attraente che processare un sospetto pedofilo sconosciuto. Produce uno spettacolo molto maggiore, titoli sui giornali in grande rilievo, tv, fama. Un procedimento giudiziario che garantisca un alto tasso di spettacolarità e che magari abbia la possibilità di avere un peso significativo sulla vicenda politica italiana, procede spedito. Nell’unica condanna subita da Berlusconi (quella per una evasione fiscale commessa da Mediaset) tra la conclusione dell’appello e la sentenza della Cassazione (assegnata a una sezione presieduta da un giudice che poi è andato in pensione e ora fa il commentatore sul “Fatto Quotidiano”) passarono addirittura pochi mesi. Fu un caso esemplare di giustizia speedy gonzales. Dunque è del tutto evidente che non è l’istituto della prescrizione il colpevole, ma il colpevole va cercato nel funzionamento di alcuni settori della magistratura. Ha fatto molto bene la giudice Paola Dezani, pronunciando la sentenza che prendeva atto dell’avvenuta prescrizione, a chiedere scusa agli italiani a nome della magistratura. Però ora sarebbe anche il caso di chiedersi di chi sia la colpa del sovraffollamento di procedimenti penali. Forse, per esempio, è colpa dell’obbligatorietà dell’azione penale, norma difesa col coltello tra i denti dall’Associazione magistrati, e che ormai è diventata insensata? E magari è colpa anche dell’ostinazione con la quale molti Pm ricorrono in appello di fronte a una sentenza di assoluzione in primo grado (che pure dovrebbe far scattare, a lume di logica, il ragionevole dubbio previsto dal codice penale come condizione di non condanna)? È chiaro che una riforma della giustizia è assolutamente necessaria. Da anni molti governi di centrodestra e di centrosinistra tentano di realizzarla, ma nessuno ci riesce proprio per la tenace e potente resistenza dell’Anm.

Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane. Il corto circuito che ne viene fuori è poi un altro: chi è sotto la soglia di povertà, ovvero meno di 16mila euro all’anno, può ottenere l’avvocato pagato dallo Stato, ovvero il gratuito patrocinio. Chi usufruisce di questo favore pagato da noi cittadini sono di solito, delinquenti, evasori seriali, ed extracomunitari. Pochissimi gli italiani. Doppia beffa. Davanti al Tar poi la cosa si fa ancora più triste: le cause contro lo Stato vengono pagate dallo Stato stesso. Ogni anno in questo paese si aprono 1,2 milioni di procedimenti penali, più alcune centinaia di migliaia di processi tributari. Gli assolti, alla fine, sono la maggioranza: secondo alcune stime sono quasi i due terzi del totale. Moltissimi sono quelli che escono dalle aule di giustizia assolti con una “formula piena”, come si dice, e cioè perché il fatto non sussiste o per non avere commesso il fatto. Costoro, però, devono comunque pagare di tasca propria l’avvocato e i professionisti di parte: periti, tecnici, consulenti. Si tratta di cifre a volte molto importanti. La famiglia di Raffaele Sollecito, processato per otto anni come imputato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, ha dovuto pagare 1,3 milioni di euro al suo avvocato Giulia Bongiorno. Elvo Zornitta, accusato ingiustamente di essere “Unabomber”, il terrorista del Nord-Est, dovrebbe pagarne 150mila al suo avvocato. Giuseppe Gulotta, vittima del peggiore errore giudiziario nella storia d’Italia (22 anni di carcere da innocente) dovrebbe affrontare una spesa da 600mila euro. Ci sono poi tantissimi casi nei quali anche parcelle da alcune decine di migliaia di euro rappresentano la rovina economica per qualcuno. Oppure casi in cui per non sentir più parlare di quel caso, il cliente soccombe a questa ingiustizia, si china e paga. Quando poi il querelante decide di rimettere la querela, perché magari ha obbligato,  tramite il proprio avvocato, ad un accordo segreto il querelato, che decide di pagare (in nero) pur di veder finito il suo calvario (un ricatto in piena regola insomma: io rimetto la querela se tu mi dai tot altrimenti vado avanti con la causa), allora dopo alcuni anni il querelato si vede pure arrivare a casa una bella cartella di Equitalia, riguardo alle spese originate dalla remissione di querela, come prevede la legge: è la norma processuale, infatti, che fissa a carico del querelato la refusione delle spese del procedimento. Altra follia pura. Insomma, lo Stato ti obbliga a pagare le spese legali anche se vinci le cause, ma non ha remore nel pagare il difensore all’extracomunitario che non ha nulla ed è in Italia illegalmente. Anche importanti giuristi e magistrati concordano col fatto che far pagare le spese legali a chi ha vinto la causa o è innocente sia una pura follia. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, si dice convinto che sia «una fondamentale questione di giustizia: con il discutibile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, lo Stato stabilisce il dovere d’indagare dei pubblici ministeri; ma ha anche l’obbligo di risarcire l’avvocato all’innocente che senza alcun motivo ha dovuto affrontare spese legali, spesso elevate». Giorgio Spangher, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, ipotizza un fondo «che provveda almeno in parte a indennizzare le spese sostenute», come già avviene per l’ingiusta detenzione. Certo, il problema (come sempre in questi casi) sono le casse dello Stato: con la legge di Stabilità per il 2016 il governo ha appena dimezzato e reso praticamente inaccessibili le disponibilità previste per la legge Pinto, la norma che dal 2001 indennizzava gli imputati vittime della lunghezza dei processi a un ritmo di circa 500 milioni l’anno. Sarà forse difficile, pertanto, che si possa mettere in atto qualcosa di valido sul rimborso delle spese legali. Ma non può essere questa la scusa per distogliere lo sguardo da questa vera ingiustizia. Se sei stato accusato di un reato o querelato ingiustamente e poi al termine di un processo una sentenza sancisce la tua innocenza o estraneità ai fatti o il fatto non sussiste, o il fatto non costituisce reato, non è giusto che sia tu a pagare l’avvocato: deve farlo lo Stato. Che invece paga il patrocinio ai delinquenti. 

La confessione SHOCK del GIUDICE: “In ITALIA giustifichiamo i REATI degli IMMIGRATI! Ecco perché…” Si chiama Ignazio de Francisci, ed è procuratore capo di Bologna, che ha espresso molti dei suoi dubbi nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. Oggi, su “La Verità”, è uscita un’esclusiva intervista nel quale ha rilasciato dichiarazioni molto forti. Ha iniziato dicendo che in Italia “c’è un malinteso senso di accoglienza che disorienta i giudici” che quindi diventerebbero molto più clementi con i furfanti stranieri, rispetto a quelli italiani. Inoltre, secondo De Francisci, le nostre carceri sarebbero ricercate dagli stranieri “perché meno dure e perché si esce più in fretta”. In pratica, accade che a causa di una serie di regole europee, un immigrato che viene arrestato in un altro paese della comunità europea, può richiedere di scontare la pena qui da noi in Italia. E così le nostre carceri diventano quelle più ambite da una gran bella parte di furfanti immigrati di mezza Europa. Perché l’Italia è uno dei pochissimi paesi della Comunità Europea dove vige il principio della buona condotta, con enormi sconti di pena. Come se non bastassero i delinquenti nostrani, ci ritroviamo a carico dello stato anche migliaia di delinquenti stranieri!

Lo dice il pm: "Carcere comodo: criminali stranieri scelgono l'Italia". La denuncia choc del procuratore di Bologna, Ignazio De Francisi: "Qui carcere più vantaggioso, vengono soprattutto dall’Est", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 30/01/2017, su "Il Giornale". La denuncia non viene da un pericoloso razzista xenofobo. Ma dal procuratore generale della Corte di Appello d Bologna. Ignazio De Francisci, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha lanciato l'allarme riguardo le leggi troppo poco severe, le "carceri comode" e gli sconti di pena che spingono i criminali stranieri a venire in Italia dove hanno vita facile. Non è un segreto infatti che negli ultimi anni si siano impennati i reati commessi da stranieri, che spesso vanno a ingolfare le carceri italiane. Il 32% dei detenuti (17mila su 52mila) è straniero, sebbene la popolazione immigrata in Italia sia appena l'8,5%. Gli immigrati, in sostanza, delinquono in media 4 volte in più. "Agli occhi della criminalità dell’est Europa, la commissione di delitti in Italia è operazione più lucrosa e meno rischiosa che in patria - ha detto De Francisci - E alle loro carceri sono preferibili le nostre". Per gli "amministratori di giustizia", anche in Emilia-Romagna i problemi sono sempre complessi e, rispetto al passato, in parte più gravi. I mali della giustizia. Ma i problemi della giustizia non finiscono ovviamente qui. Ieri è arrivata anche una sferzata al "troppo precariato", l'allerta sui troppi reati prescritti, il boom dei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale che rendono la situazione "critica". A cui si è aggiunto il monito di De Francisci sulla "radicalizzazione" dei detenuti riguardo al terrorismo.

Gli intoccabili clandestini, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” il 2 Febbraio 2017. E perché mai dovremmo tacere sui reati e sui problemi che commettono e procurano gli oltre cinquecentomila clandestini, sbarcati forzatamente sulle nostre coste senza alcuna vera giustificazione? Fossero realmente dei poveracci che scappano da persecuzioni personali, familiari, razziali, perpetrate a loro danno nei loro paesi d’origine, potremmo anche cominciare a riflettere sulla possibilità di dar loro una mano. Ma sono quaglie grasse e arroganti, pretenziose e violente, senza nome e senza documenti che attestino la loro vera identità, nazionalità, fedina penale pulita; invece, no: spacconi, con le tasche piene di soldi destinati a caporali, scafisti, volontari venduti, capibranco e smistatori corrotti, tonache sporcaccione e nere come i fumi dell’inferno. Tutto un popolo, quello dei loro “difensori e padrini”, di delinquenti, massopoliticomafiosi, che sta costruendosi un futuro unto di sangue e merda, quanto e più dei nazisti che si spartivano gli ori raccattati nei lager. Bestie dalla faccia (ri)pulita dalla Comunicazione al soldo dei poteri occulti. Finti moralizzatori che vorrebbero imporci le loro sporche regole del silenzio, a danno della nostra onestà e libertà, costate la vita ai nostri nonni, ai nostri Eroi. No! Non resteranno impuniti o, peggio, occultati, gli orrori commessi dai clandestini sul suolo Italiano. Non taceremo sugli stupri, le violenze, gli accoltellamenti, le arroganze, le rapine, gli abusi, le pretese assurde. Non chiameremo solo delinquenti, gli zingari delinquenti che scippano quotidianamente migliaia di indifesi turisti e cittadini Italiani nelle nostre città d’Arte. Non chiameremo solo malfattori, gli africani malfattori che distruggono alberghi e case d’accoglienze, stuprano le volontarie, ammazzano la gente per strada sull’esempio di quel kabobo, che nel maggio 2013 seminò il terrore per le strade di Milano. Non saranno solo terroristi, o, peggio, malati di mente, gli islamici terroristi che stanno tritando carne umana Cristiana con le loro sporche bombe attaccate ai coglioni e fatte esplodere in mezzo alla gente ignara ed innocente. Non saremo onerosi, né stitici della lingua Italiana. Sarà pane, al pane. Nero al nero. Zingaro allo zingaro, che sia rom o sinti. Ci scandalizzeremo ancora a vedere gli Italiani che crepano di fame e si impiccano per la vergogna di essere rimasti senza lavoro e senza casa, mentre una pletora di beduini e neri scansafatiche dorme al caldo e si sveglia sui comodi letti degli hotel a 4 stelle, scia e gioca a pallone a nostre spese, mentre – per giunta – ci urla in faccia il proprio odio razziale. Difenderemo il diritto dei popoli occidentali di alzare gli stessi muri che esistono nel resto del mondo, per contrastare invasioni e malaffare. Così come difenderemo il diritto dello stato vaticano, sede non solo di vergogne e immoralità da enciclopedia, a mantenere e tutelare la bellezza e la ricchezza della cinta muraria medievale che lo preserva (e ci preserva), oggi, dalla possibile evasione del peggior papa della sua storia. Sorrideremo ancora tragicomicamente davanti ai cortei di femmine e femministe che urlano contro Trump, il quale cerca di difenderle, e restano mute davanti agli orrori e alle violenze dei paesi islamici, dove le donne valgono meno di uno sputo a terra. E continueremo a lottare perché il mare diventi muro e le navi militari, sentinelle. Perché i confini nazionali vengano rispettati, onorati. Difesi. Perché esista il nazionale e il forestiero. Lo straniero.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

Storia dell’amnistia da Togliatti ai giorni di Tangentopoli, scrive Massimo Lensi il 14 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La chiedevano i Papi, ci aiutò a uscire dal fascismo, Marco Pannella ne ha fatto per anni il suo campo di battaglia, ma dopo Mani Pulite è scomparsa dall’orizzonte politico e culturale italiano. A Pasqua si terrà a Roma la Quinta marcia per l’Amnistia, organizzata dal Partito Radicale. Marco Pannella coniò un’efficace espressione per spiegare l’importanza della clemenza. Egli la invocava per la Repubblica, per rientrare nella legalità e porre fine alle violazioni della Costituzione nella gestione del sistema penitenziario, nella durata dei processi, nell’utilizzo della prescrizione nascosta conseguente all’applicazione discrezionale dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte dei magistrati. “Amnistia per la Repubblica” era lo slogan di Pannella. La storia dei provvedimenti di clemenza di un Paese racconta, infatti, più cose di quanto si possa immaginare. L’amnistia e l’indulto – a volte anche il provvedimento di grazia – sono atti politici a tutto tondo. La clemenza porta sempre con sé un’attenzione particolare ai rapporti tra Stato e magistratura, tra esecuzione della pena e reinserimento sociale, tra eventi di particolare rilievo e opinione pubblica, ed è accompagnata sempre da una tendenza a un particolare intento di riscrittura della storia, riscontrabile nei dispositivi legislativi: accertare la verità, farla dimenticare o renderla del tutto illeggibile. Stéphane Gacon nel suo libro “L’Amnistie” (2002) classificava la clemenza di Stato in tre tipologie differenti: l’amnistia perdono, atto di generosità tipico dei regimi totalitari; l’amnistia- rifondazione, che interviene per riunificare un Paese diviso; l’amnistia- riconciliazione che segue la fine dei regimi dittatoriali. L’Italia repubblicana ha concesso una trentina di provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. L’ultima amnistia è del 1990, mentre nel 2006 fu approvato l’ultimo indulto. Terminate le drammatiche vicende politiche e militari che portarono alla caduta del regime fascista, lo strumento dell’amnistia fu utilizzato tra il 1944 e il 1948 per vanificare la vigenza della normativa penale del regime, il codice Rocco, nei confronti dei delitti politici commessi durante la Resistenza, o nel periodo successivo. E’ interessante notare come, all’epoca, il tentativo del legislatore fu di chiudere con il periodo dittatoriale e la sua legislazione penale, al fine di far nascere lo stato “nuovo” e far sì che questo trovasse in sé la propria legittimità giuridica e non nelle leggi dello Stato precedente. Un tentativo che, però, rimase tale. Per Piero Calamandrei, infatti, mancò sul terreno giuridico della forma “lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione”. Ed è altrettanto vero che i provvedimenti di amnistia di quel periodo ebbero in comune una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivati da eccezionali contingenze. Si restava a tutti gli effetti all’interno del recinto dell’art. 8 del codice penale, che definisce come delitto politico: “ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici”.

Il decreto presidenziale n. 4/1946, conosciuto con il nome di “amnistia Togliatti”, all’epoca guardasigilli della Repubblica, tentò di consegnare all’oblio non solo i reati connessi all’attività partigiana, ma anche i reati legati alla collaborazione con l’esercito tedesco di occupazione, pur con numerose eccezioni e sollevando numerose polemiche. L’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde (cioè Togliatti) scommise sul futuro per mettere fine a un possibile ciclo di rese dei conti, ma fu accusato, in nome della sua proverbiale “doppiezza”, di aver aperto le porte del carcere ai fascisti e ai repubblichini imprigionati subito dopo la Liberazione. Sta di fatto che, forse anche a causa di un’interpretazione distorta del testo del decreto (scritto, invero, con un linguaggio giuridico assai poco limpido), tra i 7061 amnistiati, 153 erano partigiani, e 6.908 fascisti.

Negli anni ’ 50 e ’ 60 i provvedimenti di clemenza furono nove, di cui cinque strettamente connessi sia a fatti politici legati alla scia lunga del dopo- guerra, sia ai movimenti della fine degli anni ’ 60, con l’attribuzione di reati commessi in occasione di agitazioni e manifestazioni studentesche e sindacali (amnistia del ’ 68). Tutti e cinque questi provvedimenti comportarono la concessione sia di amnistia, sia di indulto. Il primo fu nel 1953 (7.833 amnistiati) e l’ultimo nel 1970 (11.961 amnistiati); gli altri furono concessi nel 1959 (7.084 amnistiati), nel 1966 (11.982 amnistiati) e nel 1968 (315 amnistiati). Dopo il 1970 non ci furono più amnistie per fatti politici.

L’amnistia del ’ 68 fu particolarmente importante perché ebbe come oggetto esclusivamente reati politici e sociali. Il senatore Tristano Codignola del Partito Socialista nel presentare il provvedimento al Senato disse: “Appare quindi evidente che, nell’interesse stesso della democrazia, nell’accezione aperta e progressiva voluta dalla nostra Costituzione, occorre procedere di pari passo alla realizzazione di profonde riforme strutturali e alla creazione di un clima maggiormente democratico ed antiautoritario nel Paese”. Con l’amnistia del ’ 68, si chiuse finalmente il ciclo legato alla guerra di Liberazione, si aprì però il capitolo che precedette gli anni di piombo. E per la prima volta nel 1970 fecero capolino nell’amnistia il riferimento ai reati in materia tributaria e nell’indulto il riferimento a reati in materia di dogane, di imposta di fabbricazione e di monopolio. La giovane Italia del primo dopo- guerra diventava maggiorenne e i reati comuni, al posto di quelli politici, iniziarono a catturare sempre più l’attenzione del legislatore: un’attenzione che, come vedremo, costerà cara.

Nel 1982 e 1983 furono approvati due provvedimenti di sola amnistia ed esclusivamente per reati finanziari. Il clima iniziò a farsi pesante e il parlamento venne accusato di difendere corrotti e concussi tanto che, dopo qualche anno, il 6 marzo del 1992, il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 fece sì che questi provvedimenti di clemenza potessero essere concessi solo con una legge deliberata in ogni articolo e nella votazione finale dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di “Mani Pulite” per evitare il ripetersi di amnistie “concesse a cuor leggero”. Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi portò a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale ha continuato a crescere insieme alla domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare hanno condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta.

A ben vedere, quindi, la richiesta di amnistia (e indulto) sostenuta con forza dal Partito Radicale non è per un provvedimento clemenza. Quella che si chiede non è la amnistia- amnesia; è, invece, la richiesta di una amnistia politica per porre fine al sovraffollamento cronico e inumano delle nostre carceri e alla intollerabile lentezza dei processi, che hanno fatto meritare allo stato italiano plurime condanne dalle Corti europee. In altre parole, un’amnistia per porre le radici di una Giustizia (più) Giusta.

L'ITALIA DEGLI APPALTI TRUCCATI.

Il "magna magna" italiano raccontato da un manager pubblico: dalle alghe ai vestiti usati, dalla sabbia ai rifiuti, scrive Angela Puchetti su "It.businessinsider.com" l'11 maggio 2017. Estate, sole, spiaggia e… alghe. Forse non sospettavate che perfino le alghe possono essere fonte di guadagni illeciti, uno dei mille sistemi che l’ingegno italico ha escogitato per fare soldi in modo illegale, spesso con la complicità o, nel migliore dei casi, l’inerzia delle pubbliche amministrazioni. Lo racconta Alberto Pierobon, nel suo libro “Ho visto cose – Tutti i trucchi per rubare in Italia raccontati da un manager pubblico” scritto con Alessandro Zardetto, edito da Ponte alle Grazie (280 pp., 14 euro) in uscita l’11 maggio 2017. «Ho scoperto che attorno al materiale spiaggiato, in particolare alle alghe, per esempio la Posidonia, si agitano vari interessi. – spiega Pierobon – Infatti, ci sono Comuni che per la loro rimozione, spendono oltre un milione di euro all’anno». Le alghe si rimuovono per varie ragioni: tra le principali perché ostacolano il cammino e producono, decomponendosi, odori molesti. «Per portarle via dalla spiaggia si fanno appalti: ‘ti do tot euro per tonnellata all’anno per raccoglierle’. – spiega Pierobon – La raccolta avviene con trattori o pettini, che asportano più o meno sabbia. Attraverso una sorta di centrifuga, le alghe vengano prima seccate, poi portate via. Più il lavoro è fatto correttamente, meno sabbia porti via dalla spiaggia. E, invece, cosa può succedere? Che le società che hanno vinto l’appalto raccolgano sabbia e alghe insieme, senza andare troppo per il sottile, e che poi si rivendano la sabbia. Anche per usi edilizi: senza curarsi del fatto che questa sabbia contenente sale può pregiudicare la stabilità edilizia». Non basta, Pierobon racconta anche che può succedere «che prendano la sabbia da uno stabilimento demaniale (e il Comune dovrà poi provvedere a comprarne altra) e poi la rivendano ad altri stabilimenti per il “ripascimento”, cioè l’aggiunta di sabbia per mantenerne il giusto livello». Ovviamente a pagare i costi della rimozione delle alghe è il Comune e quindi alla fine sarà il contribuente a dover tirare fuori i soldi». Non solo. «In certi casi le alghe spiaggiate, quindi morte, vengono ributtate in acqua. – continua Pierobon – Chi lo fa sa come si muovono le correnti. Intere barche o camion vengono riversate in mare, interferendo con l’ecosistema, oppure le sotteranno nella stessa spiaggia…», pratiche ambedue vietate. E’ solo un esempio tra i tantissimi (una quarantina, ripresi nell’appendice che approfondisce tecnicamente i casi) citati da Pierobon, casi vissuti in prima persona nel corso degli anni, durante i quali ha maturato un’esperienza che gli consente di leggere, interpretare e ricollegare i vari indizi da diverse prospettive. Da questo punto di vista, infatti, Pierobon ha un curriculum perfetto: «Vengo dalla Polizia dove sono stato cinque anni, ci sono entrato a 19 anni. – racconta Pierobon – Poi ho lavorato in banca, al Credito Italiano, per tre anni, svolgendo varie mansioni, dallo sportello ai titoli, dalla relazione con la clientela fino al servizio estero. A 25 anni sono passato alla Pubblica amministrazione prima come responsabile amministrativo contabile in un comune di 5.000 abitanti; dieci mesi dopo come vice segretario generale di un comune di 15mila abitanti; due anni dopo come dirigente in un comune di 30 mila abitanti; successivamente come direttore generale di un’azienda pubblica per nove anni. Lavorando nei Comuni ho avuto modo di diventare esperto in appalti, mutui e gestione dei servizi pubblici. Poi, nel 2006, ho scelto di fare il consulente libero professionista e sono stato incaricato in una commissione ministeriale ambientale presieduta dal generale Roberto Jucci per oltre un anno: seguivo le emergenze rifiuti in cinque regioni. Da lì mi hanno individuato come la persona più adatta per rivestire il ruolo di subcommissario per la raccolta differenziata nell’ambito dell’emergenza rifiuti campana. In seguito ho svolto altri incarichi anche all’estero per conto del Ministero dell’Ambiente su bonifiche e rifiuti. A questo si aggiunge la mia attività di consulenza in provincia di Bolzano per aziende pubbliche e grandi gruppi industriali di distribuzione». Insomma un’esperienza a 360 gradi per capire il sistema di gestione dei rifiuti pubblico e privato (contratti, finanza, estero, truffe), dall’alto della quale Pierobon tira una conclusione che più amara non si potrebbe: «Il magna magna è diffuso e chi può, lo fa».

Anche le ruberie hanno le loro classifiche. «La truffa più comune è quella che si fa in squadra. – spiega Pierobon – Non è la tangente allo sportello, ma piuttosto il progettare una truffa o la ruberia nell’occasione di un appalto o di una gestione legalizzata. Il paradosso è che questo avviene anche nel privato. E non è certo un fiore raro. Trovi questo sistema nelle grandi strutture come nell’ambiente della pubblica amministrazione. Quello che succede è semplice: abusare delle regole, rimanendo in un’apparente legalità, per trarne un vantaggio, personale o per una consorteria di appartenenza». Uno dei casi citati nel libro è piuttosto sconcertante, soprattutto perché va a colpire proprio i più indifesi: bambini e anziani. Riguarda un materiale molto comune: la sabbia della spiaggia. Pierobon cita un’esperienza personale: «Ero al mare, e il figlio piccolo di un mio amico cominciò ad accusare difficoltà respiratorie. Il medico disse ai genitori di tenere il bambino lontano dalla spiaggia, un lido privato a uso esclusivo di un condominio. Noi, allora, cominciammo a scavare un po’ più a fondo di quello che si fa di solito con paletta e secchiello. E trovammo pezzetti di mattone e materiale di riporto, con malte e calcinacci. Andai ad approfondire. L’Amministratore condominiale mi disse che la comprava scegliendo tra tre secchi, immergendo la mano in ciascun di loro. Valutava così il materiale preferibile, anche in relazione al prezzo. Non prendeva la sabbia del fiume, la più costosa, ma guarda caso proprio quella che era miscelata con rifiuti inerti da demolizione, polverizzati. Con il vento le particelle si alzavano e irritavano le vie respiratorie, soprattutto delle persone più delicate: bambini e anziani». Ecco come rifiuti inerti possono diventare un doppio affare: non solo minori costi di smaltimento, ma addirittura introiti, generati dalla loro vendita in veste di sabbia per la spiaggia.

Anche sui vestiti usati donati ai poveri vince qualche volta la speculazione. Vediamo a grandi linee come funziona il sistema, ancora una volta con la guida di Pierobon. «Il Comune formula la base d’asta del servizio del ritiro dei vestiti usati stimata sui dati storici forniti dai precedenti appaltatori. Di solito sono cooperative sociali che si occupano di materiale recuperato. – spiega Pierobon – Gli abiti, per non essere più considerati rifiuti, quindi poter essere donati, dovrebbero essere igienizzati. Talvolta queste cooperative fanno un’igienizzazione solo sulla carta, spruzzando il liquido igienizzante solo sui sacchetti chiusi, contenenti gli abiti usati. Poi questi abiti vengono spediti all’estero, attraverso altre cooperative, per esempio in Africa, dove di solito vengono rivenduti, anzi messi all’asta per ricavarci il più possibile, a commercianti locali. Saranno loro, poi, a venderli sui mercati frequentati dalla popolazione più povera». Insomma quel che può succedere non è allineato alle premesse e alle promesse. «Noi doniamo un vestito che non usiamo, con buone intenzioni. E invece stiamo alimentando un commercio in nero, che si articola creando passaggi intermedi per mascherare i guadagni, occultando i flussi finanziari illegali» conclude Pierobon.

Per quest’ultimo tassello in questo mosaico degli scandali Pierobon ci porta all’estero, in Kenya. «Il nostro Paese, tempo fa, finanziava decine di Paesi per iniziative ambientali – spiega Pierobon –. Nel 2008, per esempio, il Ministro Pecoraro Scanio si era impegnato a bonificare la discarica di Korogocho (che in lingua kikuyu vuol dire “ciò che non ha più nessun valore” o “caos”) a Dandora, vicino a Nairobi, dove i più poveri rovistano per tirar fuori ciò che possono, tra miasmi pestilenziali. In ballo c’erano circa 721mila euro che il Ministero italiano doveva dare al Ministero kenyota per la progettazione della bonifica della discarica. A un certo punto venne fuori il nome di una ditta italiana, Eurafrica, che doveva occuparsi di questo progetto. Ma sembra che questa società avrebbe poi subappaltato l’incarico a una società inglese più specializzata. Venne fuori un putiferio circa le credenziali della ditta e l’opportunità di proseguire l’iniziativa. Alla fine il ministro Pecoraro Scanio, sentito anche il proprio ufficio internazionale ministeriale, decise di far saltare il finanziamento. Il sospetto, forte sospetto, è che la parte più interessante dell’affare poteva essere un’altra: il boccone non erano i 700 mila euro della bonifica, ma le quote dal protocollo di Kyoto che avrebbero percepito in futuro. Insomma la bonifica Korogocho poteva essere il cavallo di Troia per entrare nella cittadella dei contributi internazionali, dove i valori si misurano in milioni di euro. Non mancano, infatti, casi di discariche esaurite che percepiscono ingenti contributi previsti dal protocollo di Kyoto a fronte di mancate emissioni di gas inquinanti. Per discariche di dimensioni minori di quella di Korogocho il gettito può aggirarsi su circa 200mila dollari all’anno per 14 anni».

Gli appalti Expo truccati Comune contro le toghe. Gare in Tribunale aggirate, Palazzo Marino attacca: «Tutto deciso negli uffici giudiziari», scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Lunedì 14/08/2017, su "Il Giornale". È guerra aperta tra il Comune e i magistrati sul caso degli appalti Expo per l'informatizzazione del Tribunale. Ben 18 dei quali, su 72, affidati secondo l'Anac in modo illecito. Dopo l'intervento di giugno dell'Autorità anti corruzione (arrivato con anni di ritardo sulle inchieste del Giornale e del blog Giustiziami) il cerino acceso è cominciato a passare nervosamente da Palazzo di Giustizia a Palazzo Marino. Nelle ultime ore è quest'ultimo ad affondare il colpo: gli appalti assegnati senza gara? Decisi negli uffici giudiziari. Non è un passaggio da poco, visto che solo due mesi fa il presidente del Tribunale Roberto Bichi aveva dichiarato l'esatto contrario: «Non eravamo noi la stazione appaltante», bensì il Comune, cui quindi toccano le responsabilità di eventuali magagne. Non ci sta però Fabrizio Dall'Acqua, da pochi mesi segretario generale e responsabile comunale anti corruzione che ha scritto le controdeduzioni per l'Anac e il primo agosto ha riferito in Commissione anti mafia. Il testo resta top secret. Ma due giorni fa il presidente della commissione David Gentili («Insieme X Milano») ne rende noti su Facebook alcuni estratti. Da cui si deduce che la grana torna al mittente. «Una storia terribilmente seria», sottolinea Gentili. Che «coinvolge anche i magistrati che dal 2010 hanno seguito gli appalti come dirigenti, come consulenti, fornendo pareri e indicazioni per lo svolgimento delle gare». In sintesi: erano le toghe, quelle del ministero della Giustizia e quelle del Tribunale che sedevano al «Tavolo della Giustizia della Città di Milano», a decidere gli affidamenti diretti (31 per un valore di 6 milioni). La stazione appaltante Comune si adeguava ed eseguiva. Spiega Dall'Acqua: «L'affidamento diretto era suffragato da un ragionamento e motivazioni che provenivano da fonti autorevoli». Non solo: «Contestare la bontà della motivazione proveniente dal mondo della giustizia era complicato». Precisano i due dirigenti comunali responsabili degli affidamenti: «La definizione dei fabbisogni avveniva a monte delle riunioni del gruppo tecnico operativo ed era cura degli uffici giudiziari e del Dgsia/ Cisia (la Direzione generale sistemi informativi automatizzati del ministero e il distaccamento milanese, ndr) in relazione alle esigenze degli uffici giudiziari stessi. Il compito del Comune di Milano era di tradurre in atti amministrativi le scelte operate dagli uffici giudiziari. In caso di affidamenti ex articolo 57 del codice appalti (senza gara, ndr) l'individuazione del fornitore è stata effettuata dagli uffici giudiziari e Dgsia/Cisia che avevano contezza dei rapporti pregressi e delle problematiche tecniche sottostanti. Il Comune di Milano» d'altra parte «non aveva esperienza tecnica in merito al processo civile telematico» e non poteva quindi individuare l'operatore più adatto. Si limitava a predisporre «gli schemi di provvedimenti amministrativi di affidamento in cui recepiva le indicazioni degli uffici giudiziari». A Elsag Datamat (controllata Finmeccanica) sono andati senza bando appalti per 1,6 milioni e a Net Service (ex gruppo Finmeccanica) per 2,2 milioni. Gli affidamenti diretti, ammonisce Anac, devono essere motivati in modo rigoroso. E qui Gentili riporta come esempio la nota con cui Stefano Aprile, magistrato, allora direttore generale Dgsia, motivò l'assegnazione a Elsag Datamat. Una giustificazione che elenca «ragioni di carattere tecnico» e che il presidente della Commissione definisce «perentoria». Infine la nomina, contestata da Anac, nel gruppo di lavoro propedeutico agli appalti di Giovanni Xilo, un esterno all'amministrazione che in passato ha fatto affari con la Net Service. Dall'Acqua risponde che la nomina fu voluta da Livia Pomodoro, allora presidente del Tribunale. Conclude Gentili: «Chiedo che le nostre controdeduzioni siano inviate anche alla Corte dei conti e alla Procura. Meglio tutelarsi».

Calcio, le accuse della Procura: «Le aste dei diritti tv erano truccate». Fatture false per decine di milioni di euro stornati su conti offshore. Accordi commerciali gonfiati fra Infront e i club amici. La serie A svenduta all'estero a vantaggio di Bogarelli e Silva con la supervisione di Galliani. Ecco la storia di un affare multimiliardario che ha arricchito i manager a danno di Sky, Mediaset, Rai e Lega Calcio, scrive Gianfrancesco Turano il 31 maggio 2017 su "L'Espresso". Il video di Milan-Bologna, domenica 21 maggio, si apre con le immagini della tribuna autorità dello stadio di San Siro. Adriano Galliani, alla sua ultima partita in casa da amministratore delegato rossonero, bacia e abbraccia i compagni di 31 anni di avventure. È un omaggio del centro di produzione Infront, che cura gli highlights ufficiali, al manager che ha guidato il club di Silvio Berlusconi dal 1986 fino al passaggio di mano ai carneadi di Sino Europe Sports, poche settimane fa. La partita di domenica scorsa contro il Bologna ha sancito il ritorno in Europa del Milan, un buon risultato per il congedo di Galliani in una stagione che resta difficile. Martedì 23 maggio si sarebbe dovuta giocare un’altra partita importante per l’ex ad diventato consulente Fininvest. Ma lo sciopero delle camere penali ha reso impraticabile il campo di gioco, il tribunale di Milano, dove il giudice del Riesame avrebbe dovuto decidere sul conflitto fra magistrati. Da una parte, la procura vuole l’arresto dell’ex vertice di Infront (Marco Bogarelli e Giuseppe Ciocchetti) e di Mp&Silva (Riccardo Silva), titolari di un groviglio di società offshore che tra Panama, Dubai, Singapore, ma anche Svizzera, Stati Uniti e Regno Unito, hanno mosso decine di milioni di euro dal 2009, anno in cui Infront diventa advisor della Lega calcio, al 2014, quando si tiene l’ultima asta per i diritti, con un incasso di 1,2 miliardi di euro complessivi per le squadre. Dall’altra parte, il gip ha respinto la richiesta, sostenendo che Infront-Mp&Silva non hanno manipolato le aste per i diritti tv del calcio ai danni dei club della Lega calcio e di Sky e che il binomio Infront-Mp&Silva non rappresenta un’associazione a delinquere ma una semplice lobby affaristica. Il futuro di Galliani dipende dalla partita rinviata del 23 maggio. Se vince la procura, è inevitabile che il geometra di Monza finisca indagato come il grande burattinaio di una partita miliardaria. Se vince il gip, resterà poco di un lavoro partito oltre due anni fa con il coordinamento della Polizia tributaria della Guardia di finanza e proseguito con le perquisizioni dell’ottobre 2015. Nelle carte depositate dai pm Giovanni Polizzi, Paolo Filippini e Roberto Pellicano, che da poco è stato nominato procuratore capo di Cremona, restano gli assi nella manica ancora coperti da omissis. Secondo quanto risulta all’Espresso, nelle carte secretate c’è la terza moglie di Galliani, la marocchina Malika al Hazzazi, separata dal manager. Al Hazzazi, che non è indagata, avrebbe ricevuto bonifici per decine di migliaia di euro dal comparto estero “very discreet” dei manager Infront, illustrato nelle voluntary disclosure presentate da Bogarelli, Ciocchetti e dall’ex vicepresidente di Infront Italy, Andrea Locatelli, anch’egli indagato. Le disclosure riportano complessivi 57,4 milioni di redditi nascosti al fisco, oltre a un immobile da 20 milioni di euro a Miami non dichiarato da Silva, al progetto di un investimento da 50 milioni di euro in un fondo immobiliare e a una polizza assicurativa da 20 milioni intestata a Bogarelli. La parte del leone spetta proprio all’ex numero uno di Infront Italy Bogarelli, con 35,5 milioni. Seguono il vicepresidente Locatelli (ex Fininvest), con 15,5 milioni e il direttore finanziario Ciocchetti, con 6,4 milioni di euro. Le dichiarazioni sono state accettate dall’Agenzia delle entrate, ma respinte come non veritiere dalla procura, sulla base di una perizia di 378 pagine affidata a Ignazio Arcuri e Stefano Martinazzo, che hanno messo a fuoco i rapporti tra Infront e i singoli club di serie A e serie B sul piano dei diritti tv, dei diritti commerciali, dei diritti d’archivio e della gestione degli stadi. Secondo la Procura, Mp&Silva ha redistribuito il 50 per cento dei diritti esteri 2007-2015 ai manager di Infront e allo stesso Silva con tre aste truccate: nel 2009, nel 2011 e nel 2014, quando i diritti esteri hanno toccato la cifra record di 185 milioni di euro. Ancora una volta, tutto è in mano al Riesame. Se i 57 milioni dei manager Infront erano soltanto soldi non dichiarati, ma guadagnati con legittime consulenze sia pure fra parti correlate, nulla quaestio. La voluntary disclosure esclude i procedimenti penali per reati fiscali. In caso contrario, si passa agli arresti, con la probabile eccezione di Silva, residente a Miami e prudenzialmente lontano dall’Italia tanto da rinunciare a un’udienza programmata con il tifoso numero uno del San Lorenzo de Almagro, papa Francesco. La posizione di Silva resta comunque centrale. Secondo la Procura, «le risorse occultate all’estero, derivanti dalla vendita dei diritti esteri, potrebbero essere ben maggiori di quelle finora ipotizzate». Per l’accusa l’inchiesta affronta «un vasto fenomeno di riciclaggio di denaro da vari reati realizzato grazie a una rete di società offshore costituite e gestite da T&F», la fiduciaria ticinese guidata da Andrea Baroni, dalla quale l’indagine ha preso il via. L’obiettivo dei manager Infront-Mp&Silva era «influenzare l’aggiudicazione dei diritti tv e mascherare la reale situazione finanziaria di alcuni club attraverso finanziamenti ad hoc». Di questo le cronache hanno già parlato diffusamente, a partire dall’Espresso che, a febbraio 2016, aveva individuato il principale centro di smistamento del denaro nella Mp&Silva di Dublino, capace di versare al suo fondatore dividendi per 70 milioni di euro fra il giugno 2014 e il giugno 2015. Le nuove carte mostrano però che anche dopo la cessione di Infront Italy ai cinesi di Wanda e le dimissioni di Bogarelli a novembre dello scorso anno la banda dei diritti tv non ha mai pensato di mollare la presa sulla Lega calcio. Galliani è esplicito in una telefonata a Bogarelli del 7 febbraio: «Non possiamo lasciare le cose nelle mani di un solo advisor. Siamo totalmente nelle mani di Infront. Noi dobbiamo prendere l’interfaccia della Lega». La differenza fra la vecchia e la nuova Infront guidata dall’ex Rai Luigi De Siervo emerge dalla telefonata fra l’avvocato della Lega di serie A Ghirardi e Laura Grenga, responsabile di direzione presso l’Agcm, che ha indagato sull’asta dei diritti tv multando Mediaset per 51 milioni di euro, Infront (10 milioni), Sky (4 milioni) e la stessa Lega calcio (2 milioni di euro). Gli spunti forniti dalle intercettazioni raccontano un mondo che non intende sottomettersi ai lacci regolatori sulle transazioni finanziarie e che si appoggia a una rete di fiduciari ed esperti diffusa ai quattro angoli del pianeta. Il colloquio Ghirardi-Grenga è del 16 dicembre 2016, meno di un mese dopo le dimissioni di Bogarelli dal gruppo comprato da Wang Jianlin, il tycoon di Wanda. «Infront non esiste più», dice Ghirardi. «Pasticci su pasticci. De Siervo li ha portati tutti due giorni in Toscana per fare il rapporto di socializzazione. Adesso c’è la lotta al posto. Quelli bravi stanno andando via. Bogarelli ha già trovato gli uffici. Bogarelli e Ciocchetti hanno una serie di progetti in testa, a partire dallo sci per arrivare al calcio a livello europeo, alla nuova coppa dei campioni tanto per intenderci, con un fondo americano che finanzia l’operazione». Poi Ghirardi aggiunge un commento sul governo Gentiloni, entrato in carica quattro giorni prima, il 12 dicembre. «Intanto al governo ci siam ritrovati Lotti al ministero dello Sport. Meglio di così non poteva capitare», Grenga commenta lapidaria: «Non sarà un caso, no?» Caso o non caso, uno degli obiettivi del neoministro, e del neoministero che non esisteva dal 2013, è la rifondazione della legge Melandri, con la riforma della distribuzione ai club dei ricavi dai diritti tv secondo le linee guida del nuovo statuto della Lega calcio. L’emarginazione della Infront sotto la gestione Wanda Dahlian si gioca in due fasi. La prima consiste nella nomina di un direttore commerciale in Lega gradito a Galliani e compagni. Ma Ghirardi spiega chiaramente che c’è un’altra carta da mettere sul tavolo. Bogarelli e Ciocchetti non sono rimasti con le mani in mano e stanno allestendo una nuova struttura societaria con base a Londra per fare concorrenza a Infront con l’appoggio dei presidenti amici. Nel Regno Unito opera un altro personaggio chiave. È l’ex socio di Mp&Silva, Andrea Radrizzani, che ha appena rilevato la nobile decaduta Leeds United dall'ex proprietario del Cagliari Massimo Cellino. Dopo la cessione delle sue quote in Mp&Silva, Radrizzani ha fondato la sua società Eleven sports, acquisendo Sportube, la società che trasmette le partite di Lega pro. A Sportube lavora Andrea Francesco Silva, ex consulente di Milan e Juve. Nella sua posizione di consulente della Lega Pro viene sondato per diventare direttore commerciale della Lega dopo che Galliani ha detto di no e dopo che Michele Uva, dg della Federcalcio, si è reso indisponibile, preferendo un nuovo incarico nell’Uefa, la federcalcio europea. L’altro Silva, omonimo di Riccardo, ha il profilo internazionale che cercano Lotito e Galliani. È amministratore della londinese Mp&Silva insieme a Beatrice Bogarelli, figlia di Bruno, e a Mario Cecchi Gori, figlio dell’ex presidente della Fiorentina. Sempre dalla piazza inglese, fino al 2013 è stato responsabile dello sviluppo estero dell’immobiliare Sansedoni, collegata al Monte dei Paschi. Nel suo curriculum si presenta come l’uomo che ha portato la serie A in tv in Etiopia. I danni che il gruppo Infront gestione Bogarelli avrebbe procurato alla Lega e ai network, Mediaset inclusa, sono concentrati sulle gare per i diritti esteri. È lì, come aveva già anticipato L’Espresso, che la banda dei diritti porta a casa i margini più alti. È lì che si consuma il patto con i concorrenti per addomesticare il risultato. Nel 2011 e nel 2014 infatti Mp&Silva si aggiudica la gara sui diritti esteri con la migliore offerta rispetto ai concorrenti Img e B4 capital, controllata da una società lussemburghese a sua volta schermata dalle fiduciarie Comitalia e Comfid. Il colosso Img aveva già un accordo sui diritti esteri con Mp&Silva firmato nel novembre 2011, «a condizione che quest’ultima acquisisca i diritti audiovisivi della serie A» dal 2012 al 2015. In cambio, Mp&Silva si è impegnata a nominare Img suo consulente esclusivo per l’Olanda, la Russia e l’ex Jugoslavia. B4 capital, controllata da Marco Bianchi, ex della pay Gioco calcio, da Fabio De Santis e da Bruno De Denaro detto Jimmy è da anni in rapporti d’affari con Bogarelli e Silva. Inoltre ha già vinto i diritti per trasmettere all’estero Coppa Italia e Supercoppa per 78 milioni per il triennio 2015-2018, anche se non riuscirà poi a onorare l’impegno finanziario. In una telefonata del 14 dicembre 2016 Bianchi dice a De Santis che Bogarelli «continua a fare la stessa cosa che ha fatto prima» e che «il sistema è uguale». L’idea è quindi di cambiare tutto perché nulla cambi. L’alfiere del nuovo uguale al vecchio è Claudio Lotito. L’inarrestabile presidente della Lazio trascorre le vacanze invernali dello scorso anno, inclusi il 24 e il 25 dicembre, a bombardare di telefonate i suoi colleghi per affrontare i temi caldi della dirigenza della Lega, che sarà poi commissariata dal presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio, e dell’incombente rinnovo dei diritti media del calcio per il triennio 2018-2021. Lotito chiama Urbano Cairo del Torino alla vigilia di Natale e gli propone di sdoppiare la Lega in una direzione sportiva e una commerciale da affidare a un personaggio di «profilo internazionale». «Comincia a lavoracce tu che c’hai il lavoro tuo e quindi chi più di te può dare un contributo». Il patron del Toro, anche considerati il giorno e l’ora (le 20.20), taglia corto e promette un incontro a gennaio. Dallo stesso 24 al 28 dicembre Lotito chiama Giovanni Carnevali, amministratore delegato del Sassuolo; Gino Pozzo dell’Udinese; Umberto Gandini, passato all’As Roma dopo anni al Milan; l’amministratore delegato in pectore dei rossoneri in versione cinese, Marco Fassone. Il 9 gennaio, cioè il primo lunedì dopo le festività, il presidente della Lazio chiama Aurelio De Laurentiis, che è ancora in vacanza alle Maldive. Il patron del Napoli, come talora gli accade, ha un diavolo per capello. È convinto che Silva si metta in tasca «un miliardo e mezzo di roba». Non è tutto. Dal suo resort nell’Oceano indiano il produttore ha seguito l’anticipo vittorioso del Napoli sabato 7 gennaio, ma il giorno dopo non è riuscito a vedere il match della Roma, rivale numero uno degli azzurri per la qualificazione in Champions. «Per quanto riguarda l’Italia», dice il produttore dei cinepanettoni, «io ho le idee chiarissime. Dobbiamo assolutamente quadrarla governativamente perché ci sia il massimo della libertà dell’asta, quindi non ci devono rompere i coglioni. Ci deve essere un’asta in cui: si deve potere aggiudicare tutto; noi possiamo anche stabilire che ce li autodistribuiamo da soli, quindi questa è una valvola di sicurezza che ci possiamo lasciare nel contratto; dobbiamo per l’estero prendere una persona che sia veramente capace di portare 500/600 milioni. Ma te pare che ieri non trasmettevano la Roma? Cioè trasmettevano tutte le altre partite ma non trasmettevano la Roma, ma ti rendi conto?» Lo stupore di Lotito è in puro stile derby: «È strano», dice. «La Roma sta dappertutto».

I legami d’affari fra il management di Infront e Silva hanno origini antiche e passano dalla gestione di Milan Channel, fondato da Silva, Bogarelli e Locatelli nel 2008. È quasi logico, benché non proprio in linea con le best practice del mondo degli affari, che Bogarelli e compagni si siano prodigati per gli amati colori rossoneri. Secondo la procura, gli accordi commerciali stipulati nel periodo 2010-2014 fra Infront Italy e il Milan, controllato dalla Fininvest, hanno portato fuori dalle casse di Infront 130 milioni di euro comportando «un margine pesantemente negativo» per la stessa Infront, pari a 245 milioni. A grande distanza, seguono altri club amici di Infront come l’Inter, che porta a casa 33 milioni, la Lazio di Claudio Lotito, un autentico perno del sistema che riesce a mettere a bilancio 28,5 milioni di euro in accordi commerciali avvicinandosi ai nerazzurri milanesi, che pure hanno un bacino di tifo di molto superiore. Ce n’è anche per le piccole, purché siano allineate. Il Cagliari prende 23 milioni. All’Udinese di Giampaolo e Gino Pozzo ne vanno 9,6 e il Genoa di Enrico Preziosi ne incassa 8,5, senza contare il prestito da 15 milioni di euro con bonifico da parte di Silva per consentire ai rossoblù di superare l’esame della vigilanza Covisoc. I finanzieri peraltro hanno verificato che Preziosi non ha girato per intero il bonifico al club, ma ha trattenuto per sé un milione di euro. È un peccato minore, ammesso che sia un peccato. Nelle decine di migliaia di pagine di documenti, la base sfruttata dal gip per respingere gli arresti riguarda la natura dell’asta sui diritti. La gara sarebbe di tipo privatistico e dunque ci si truffava tra soggetti privati che, nell’insieme, erano contenti dell’andazzo. Ma in punto di diritto ci sono già sentenze della Cassazione che equiparano l’asta sui diritti del calcio a una gara pubblica. Che la gara sui diritti fosse tutt’altro che una gara tra soggetti privati lo sapeva anche il legale di Infront Antonio D’Addio, che in una telefonata con Ciocchetti parla di «asta semipubblica sottoposta alla vigilanza delle authority: va al giudice ordinario anziché al Tar, ma i principi sono gli stessi». Sarà il Riesame a decidere se la partita dell’inchiesta continua o se si è trattato solo di piccoli omicidi fra amici.

Inchiesta Infront, Galliani intercettato: "Agnelli la deve smettere, arrogante", scrive Domenico Secondi il 4 Maggio 2017 su "Libero Quotidiano". Tra il 2009 e il 2015 c'era un'associazione a delinquere «per appropriarsi indebitamente e clandestinamente di una fetta consistente» dei ricavi della vendita dei diritti tv: è questa la tesi dei pm di Milano, che hanno presentato appello contro il rigetto della richiesta di arresto di due ex manager Infront e di Riccardo Silva Silva nell'ambito dell'inchiesta sui diritti tv. Oltre ai vertici dell'advisor e all'imprenditore che vende i diritti della Serie A all' estero, a far parte dell'associazione sarebbero stati anche Adriano Galliani, da pochi giorni non più ad del Milan, e il presidente del Genoa, Enrico Preziosi (questi ultimi non sono nemmeno indagati). Una teoria che il gip Accurso Tegano ha respinto considerando i rapporti tra i protagonisti al massimo una «lobby». In un'informativa della Gdf, emergono alcune intercettazioni tra Galliani e Marco Bogarelli, ex patron di Infront, in cui viene attaccato il presidente della Juventus, Andrea Agnelli: «E via, adesso la deve smettere questo signorino», dice l'ex ad del Diavolo. Bogarelli risponde: «E lo so, ma in Lega qualcuno dovrà dire qualcosa, qualche società, troviamo spazio da qualche parte, perché veramente oltre a essere un imbecille per altro... cioè, non è che è un genio... non lo so, poi va in Germania a sputtanare la Lega... io adesso gli scrivo, basta, non può avere... tutti che sputano sul calcio italiano, come si fa a vendere?». Molto dura anche un'altra conversazione sui «diritti d'archivio». Galliani: «(...) L'arroganza è cosa della Juventus che ad essa non sa sfuggire... commento che io ho fatto, voglio dire perché il signor Agnelli prende 100 milioni dalla Lega Calcio». E ancora: «(Agnelli) continua a sputare merda sul calcio italiano» e «vive di quello». «Sono caduto dalle nuvole quando ho visto la notizia. Ho sentito il mio avvocato, Niccolò Ghedini. Mi ha confermato che non sono indagato e mi ha detto di stare sereno e tranquillo», ha dichiarato Galliani all' Ansa. «Le intercettazioni? Ero vicepresidente di Lega, era normale che parlassi con l'advisor».

Consip, cartello di tre aziende. «Così si spartirono 2,7 miliardi». L’appalto per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere truccato: questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, scrivono il 5 agosto 2017 Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera". L’appalto Consip da 2,7 miliardi di euro per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere stato truccato. C’è il fondato sospetto di un «accordo di cartello» fra tre imprese concorrenti per spartirsi i lotti principali escludendo così le altre aziende. Quattro mesi dopo l’avvio dell’istruttoria, è questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone.

Il dossier. Il dossier è stato trasmesso alla Procura di Roma, titolare dell’inchiesta sull’aggiudicazione di quei lavori che ha fatto finire in carcere l’imprenditore Alfredo Romeo per corruzione, mentre Tiziano Renzi e il suo amico Carlo Russo sono indagati per traffico di influenze illecite; nell’ambito della stessa indagine sono coinvolti anche il ministro Luca Lotti, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia, inquisiti per la fuga di notizie che mise sull’avviso i vertici Consip degli accertamenti della magistratura. Ma adesso si apre un altro filone nel quale si dovrà verificare l’operato dei vertici della «centrale acquisti», per stabilire che ruolo abbiano avuto rispetto alla divisione tra le aziende delle commesse per la manutenzione e la ristrutturazione di centinaia di edifici pubblici.

La richiesta degli atti. L’indagine di Cantone viene avviata nel marzo scorso con una richiesta di trasmissione di atti alla Consip proprio per valutare l’esistenza di eventuali irregolarità nella procedura. Si scopre così che nell’elenco di chi ha presentato offerte ci sono le stesse aziende sanzionate dall’Antitrust per aver siglato un patto illecito nella gestione dei servizi di facility management per gli istituti di istruzione. È il famoso appalto «belle scuole» assegnato nel 2015 che per questo si è stati poi costretti ad annullare. La delibera dell’Antitrust era infatti perentoria: «Il consorzio Cns, Manutencoop, Kuadra spa e Roma Multiservizi spa hanno posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza consistente in una pratica concordata avente la finalità di condizionare gli esiti della gara con Consip, attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti da aggiudicarsi nel limite massimo fissato dalla legge». Le sanzioni inflitte andavano dai 56 milioni di euro per l’assegnazione dei lotti maggiori a quasi 6 milioni di euro per quelli più piccoli. Su questo la Procura di Roma ha terminato qualche settimana fa gli accertamenti, ipotizzando il reato di turbativa d’asta, e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio degli amministratori delle ditte coinvolte.

L’azienda esclusa. Nel corso delle verifiche sull’appalto Fm4, Anac analizza la posizione delle aziende finite sotto accusa, ma anche quella di Manital, esclusa dalla gara dopo aver vinto quattro lotti per una contestazione di tipo fiscale, e che per questo aveva presentato ricorso al Tar. Secondo Anac la decisione di Consip di non consentire la partecipazione «presenta ripetute omissioni in materia di verifica», e l’avvio della procedura che determinò l’esclusione viene definito «irrituale». Inoltre, si sottolinea come il successivo ricorso al Consiglio di Stato da parte di Consip, che annullò la riammissione di Manital decisa dal Tar, avvenne dopo la scoperta che l’offerta di Manital era risultata vincente con un risparmio per le casse dello Stato di 25 milioni. Tra le «anomalie» contestate ai vertici Consip ci sono anche quelle relative alle offerte tecniche ed economiche per la «mancata allegazione ai verbali della Commissione delle valutazioni effettuate nelle sedute riservate e in quelle pubbliche» ma anche «la scelta di assegnare a tutti i concorrenti il medesimo punteggio vanificando l’incidenza di tali elementi sulla valutazione complessiva e quindi riducendo il peso dell’offerta».

La divisione dei lavori. Elementi sufficienti per decidere di analizzare le offerte presentate da ogni azienda già sanzionata per precedenti accordi di «cartello». Si è così scoperto che «l’Ati Cns ha presentato offerta per sette lotti di gara mentre Manutencoop ha presentato offerta per cinque lotti di gara senza mai sovrapporre le proprie offerte». Ed ecco le conclusioni di Anac: «La probabilità del verificarsi di tale evento risulta essere evidentemente assolutamente marginale. Tale probabilità scende ulteriormente allorché si osservi la distribuzione geografica delle istanze dei due concorrenti nella quale si rileva una disposizione a scacchiera, con l’Ati Cns e Manutencoop che si sono spartite tutte le Regioni escludendo Campania, Calabria e Sicilia.

Il patto illecito. Quanto basta per convincere Anac sull’esistenza di «possibili intese fra Cns, Manutencoop e Kuadra, che fa parte dell’Ati Cns». E infatti nella relazione trasmessa ai magistrati di Roma è scritto: «Appare ragionevole pensare che per la gara Fm4 siano state adottate intese restrittive della concorrenza. A rafforzare tale ipotesi contribuisce il ritiro delle proprie offerte per tutti i sette lotti da parte dell’Ati Cns alla vigilia dell’apertura delle offerte economiche». Gli «investigatori» dell’Anac sottolineano anche altre criticità a riscontro del possibile accordo illecito, con una vera e propria spartizione preventiva degli appalti: «Per Manital non risultano mai sovrapposte le quattro offerte con le sette di Cns e solo per un lotto è in competizione con Manutencoop; la Romeo Gestione non si sovrappone mai con Manutencoop e solo per un lotto è in competizione con Cns».

L’avviso alle imprese. La relazione è stata notificata alle aziende coinvolte che adesso potranno presentare le proprie controdeduzioni per evitare le sanzioni dell’Anticorruzione. I magistrati dovranno invece stabilire se — proprio come accaduto per l’appalto delle «belle scuole» — per l’accordo tra le imprese ci siano anche contestazioni penali per i responsabili delle imprese coinvolte.

Consip, nuovo fronte. I sospetti dell'Anac: "Così le aziende si sono spartite bando da 2,7 miliardi". Una divisione a scacchiera dei lotti, senza sovrapposizioni. E quindi senza concorrenza. L'autorità di Cantone inoltra le carte alla Procura di Roma, che ha in carico l'inchiesta sulla centrale degli acquisti, scrive Alessio Sgherza il 6 agosto 2017 su "La Repubblica". Si apre un nuovo fronte nell'indagine Consip. L'autorità anti corruzione di Cantone ha inviato alla procura di Roma, competente per l'inchiesta, un 'fascicolo' in cui si ipotizzano anomalie non solo sul lotto di Alfredo Romeo ma anche la possibile esistenza di un cartello tra aziende per spartirsi i lotti principali della gara Fm4 - per un valore da 2,7 miliardi - per l'affidamento di servizi in una serie di palazzi istituzionali a Roma, servizi che andavano dalla pulizia alla manutenzione degli uffici. L'esistenza del fascicolo è confermata a Repubblica da fonti dell'Anac, dopo l'anticipazione del Corriere della Sera. Le conclusioni dell'Anac (che parlano di "fondato sospetto" e che dovrà quindi poi trovare conferma giudiziaria) arrivano dopo quattro mesi di istruttoria sul lotto di appalti Fm4, già al centro di un'altra istruttoria aperta dal Garante per la concorrenza e dal quale l'azienda di Alfredo Romeo, arrestato nell'ambito dell'inchiesta, era già stata esclusa.

Le aziende sospettate di aver fatto cartello sono Ati Cns, Manutencoop e Romeo. I sospetti nascono dall'analisi della partecipazione a scacchiera ai diversi lotti. Dalle verifiche dell'Anac si è scoperto che "Ati Cns ha presentato un'offerta per sette lotti di gara, Manutencoop per cinque, senza mai sovrapporsi" e ignorando le regioni del Sud (Campania, Calabria e Sicilia) dove invece si presentava Romeo. L'azienda dell'imprenditore campano a sua volta non si sovrapponeva mai (con una sola eccezione) a Ati Cns e a Manutencoop. Le conclusioni di Anac: "La probabilità del verificarsi" di questa alternanza a scacchiera così precisa "risulta essere evidentemente assolutamente marginale (...) Appare ragionevole pensare che per la gara Fm4 siano state adottate intese restrittive della concorrenza". Altro punto da chiarire, secondo Anac, il fatto che Cns si sia ritirato da tutti i lotti Fm4 dopo le contestazioni dell'Antitrust sul bando 'Scuole belle' (ne avrebbe anche vinti alcuni, si è saputo all'apertura delle buste). Qualche ombra ci potrebbe essere anche sul comportamento di Consip nei confronti di Manital: esclusa dalla gara, l'azienda ha vinto il ricorso al Tar per la riammissione. Ma risultata vincitrice con un'offerta di 25 milioni di euro più bassa, la Consip ricorre al Consiglio di Stato per farla escludere. Riuscendoci, e pagando così di più per lo stesso servizio. Perché? Questi sono tutti i punti che la procura dovrà chiarire e su cui dovrà capire se esistono profili penalmente rilevanti. Per i pm romani, che hanno studiato il dossier raccolto dall'Anac, i contenuti "non fanno che corroborare quello che è il nostro convincimento". La procura agli atti ha già acquisito elementi probatori più che sufficienti per sospettare che le aziende potrebbero essersi preventivamente messe d'accordo. A confermare il sospetto investigativo è stato anche l'esito di un recente interrogatorio reso da Marco Gasparri, ex dirigente Consip, le cui dichiarazioni avevano già messo nei guai proprio Romeo, in carcere per alcuni mesi e ora in attesa di essere processato per corruzione.

L'inchiesta sull'appalto Fm4 ha più fronti, e sfiora anche la politica. L'imprenditore Alfredo Romeo e l'ex dirigente Consip Marco Gasparri sono entrambi accusati di corruzione. Per loro il processo è fissato per il 19 ottobre. Per rivelazione di segreto d'ufficio sono indagati il ministro dello Sport, Luca Lotti, il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, e il generale di brigata dell'Arma Emanuele Saltalamacchia. Per traffico di influenze sono indagati (anche se con molti dubbi sulle accuse) il padre dell'ex premier, Tiziano Renzi, il suo amico imprenditore Carlo Russo, e l'ex parlamentare e consulente di Romeo, Italo Bocchino. Mentre il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto risponde di falso. Indagato poi per depistaggio il vice comandante del Nucleo operativo ecologico, Alessandro Sessa, mentre rispondono di concorso in violazione del segreto d'ufficio, in riferimento alle notizie pubblicate sulla stampa di atti riservati, il pm di Napoli Henry John Woodcock e la conduttrice di Chi l'ha visto Federica Sciarelli. Anche la Corte dei conti indaga sulla Consip, sulla regolarità di alcuni incarichi concessi a legali esterni. Consulenze che i giudici contabili sospettano essere eccessive, sia per quanto riguarda il numero, sia per il valore degli importi pagati.

Così la Cassazione ha smontato il caso Consip, scrive Giulia Merlo il 27 luglio 2017 su "Il Dubbio". Se il Riesame disponesse l’illegittimità delle intercettazioni, le accuse contro Tiziano Renzi cadrebbero e rimarrebbero solo i “pizzini” trovati nella spazzatura. L’ennesima spallata al Caso Consip arriva dalla Cassazione. Sono state depositate le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio dell’ordinanza di arresto di Alfredo Romeo, il presunto corruttore da cui partì l’indagine, e i giudici impongono una decisa battuta d’arresto all’asse su cui poggia l’intero impianto probatorio. Le intercettazioni ambientali sono state «particolarmente invasive» e disposte sulla base di un reato (concorso esterno in associazione camorristica) che non è lo stesso (la corruzione), per cui Romeo è stato arrestato. Ergo, la Cassazione dubita della «sussistenza dei presupposti di legittimità delle intercettazioni ambientali». E in merito all’utilizzo del virus spia Trojan Horse non sono stati adeguatamente motivati i presupposti per l’utilizzabilità, anche perchè non è chiaro in cosa si concretizzi il «metodo corruttivo» del cosiddetto “sistema Romeo”. E, se il Riesame escluderà queste intercettazioni, verranno stralciate anche le conversazioni che tirano in ballo Tiziano Renzi.  Una motivazione di Cassazione mina l’impianto probatorio del caso Consip ed è difficile dire che cosa rimarrà in piedi, dopo la sentenza del Tribunale del Rinvio attesa entro dieci giorni. Ad innescare il tutto è l’indagato dal quale partì l’inchiesta. Alfedo Romeo, presunto corruttore che puntava al cuore della Centrale acquisti della pubblica amministrazione, presenta ricorso in Cassazione contro l’ordinanza di arresto, che la Suprema Corte annulla con rinvio in giugno. Lunedì, al deposito delle motivazioni della sentenza di annullamento, però i giudici del Palazzaccio assestano la vera spallata all’impianto dell’indagine Consip: non si limitano a stabilire l’infondatezza della misura cautelare di Romeo, ma censurano pesantemente la condotta processuale dei pm napoletani John Woodcock e Celeste Cardano.

L’indagine poggia su intercettazioni di ogni genere, sia ambientali che effettuate con i Trojan Horse, virus spia che si installano negli apparecchi elettronici degli indagati, i quali diventano dei trasmettitori di informazioni agli inquirenti. La Cassazione ha stabilito che le intercettazioni ambientali «particolarmente invasive» effettuate nella sede romana della società di Romeo, non avrebbero dovuto avvenire, perché l’appartamento era anche sua abitazione personale e solleva dubbi in merito alla «sussistenza dei presupposti di legittimità delle intercettazioni ambientali». Non solo, però: l’arresto di Romeo è stato motivato con l’utilizzo di intercettazioni mediante i Trojan Horse. Tali strumenti presuppongono l’ipotesi di reati di criminalità organizzata o aggravati dall’associazione mafiosa, ma l’arresto disposto dalla procura di Roma era stato chiesto per il reato di corruzione. Dunque, la Cassazione ha sollevato dubbi sull’utilizzabilità di intercettazioni così invasive che – secondo i legali di Romeo – sono state disposte in mancanza di un quadro indiziario che le giustificasse. La sesta Sezione, nel rinviare il nuovo giudizio al Tribunale del Riesame, invita i giudici a svolgere una serie di verifiche «già richieste ma non effettuate», sulla legittimità delle intercettazioni che sono state utilizzate dal Gip per motivare l’ordinanza di arresto di Romeo.

La Corte, però, non si spinge a decidere sull’utilizzabilità delle intercettazioni, a si limita a rimandare al Tribunale del Riesame la valutazione, sottolineando come la decisione debba essere meglio «motivata», soprattutto in relazione alla ragioni del rigetto delle eccezioni sollevate dagli avvocati di Romeo. I legali, cui la sentenza di annullamento con rinvio ha dato ragione sull’ illegittimità dell’arresto di Romeo, chiederanno al tribunale del Riesame di disporre la distruzione delle intercettazioni. A scricchiolare, però, è l’intero impianto accusatorio fondato su un “metodo Romeo”, cuore dell’inchiesta Consip e nel quale – secondo i pm napoletani – sarebbero invischiati anche l’ex manager Consip Marco Gasparri e, di riflesso, Carlo Russo e Tiziano Renzi. Infatti, scrive la Cassazione, «non si comprende nell’odinanza impugnata (di arresto di Romeo ndr) di quali contenuti operativi consista e in quali forme e modalità concrete si inveri il metodo o il sistema di gestione dell’attività imprenditoriale da parte del Romeo, cui si fa riferimento per giustificare l’ipotizzato esercizio di capacità di infiltrazione corruttiva in forme massive nel settore delle pubbliche commesse». In sostanza, la Cassazione solleva dubbi sull’esistenza stessa di un “metodo Romeo”, che giustifichi un’ipotesi criminosa associativa e non di semplice corruzione.

Le motivazioni di Cassazione, però, rischiano di travolgere anche il filone di indagine che vede indagati il padre di Matteo Renzi, Tiziano, e l’imprenditore Carlo Russo. E’ proprio attraverso le intercettazioni delle quali la Cassazione ipotizza l’illegittimità e dunque la non utilizzabilità, infatti, che il nome di Tiziano Renzi entra nell’inchiesta. Grazie alle captazioni con i Trojan Horse sul telefono di Romeo, infatti, gli inquirenti hanno ascoltato le conversazioni tra lui e Russo (amico di Tiziano Renzi) nelle quali avrebbe cercato di avvicinare il padre dell’allora Presidente del consiglio, nel tentativo di ottenere favori negli appalti Consip. Quindi, se il tribunale del Riesame disponesse l’illegittimità di queste intercettazioni e dunque la loro nullità processuale, verrebbe a cadere il principale tassello accusatorio nei confronti di Tiziano Renzi, contro cui rimarrebbero agli atti solo i “pizzini” trovati nella spazzatura di Romeo, con scritto «30 mila euro per T.». Troppo poco, forse, per sostanziare un’inchiesta che è arrivata a lambire palazzo Chigi.

Consip, le accuse di Romeo: "Le gare sono tutte truccate". Esposto dell’imprenditore in manette contro le cooperative rosse ed Ezio Bigotti: «Vince sempre lui, è un uomo di Verdini. C’è un cartello permanente». Inchiesta dell’Anac e dell’Antitrust sul sistema della stazione appaltante, scrive Emiliano Fittipaldi il 22 marzo 2017 su "L'Espresso". «Io poi non voglio il male di Bigotti. Facesse quello che cazzo vuole! Ma non rumpete o’ cazz a me!». Qualche mese fa Alfredo Romeo aveva invitato l'imprenditore Carlo Russo nel suo studio per parlare d'affari, e aveva deciso di sfogarsi. Contro i suoi nemici, contro l'ad di Consip Luigi Marroni, contro coloro che lo vorrebbero fuori dai ricchi appalti di Stato. L’informativa di Carabinieri e Finanza sull’inchiesta che sta terremotando la stazione appaltante e mezzo Partito democratico nasconde stralci di conversazioni che, uniti ad altri documenti riservati, mostrano con evidenza come Romeo (in carcere per la presunta corruzione del dirigente di Consip Marco Gasparri, l'udienza al tribunale del riesame è prevista in giornata) si sentisse davvero accerchiato. Vittima di un presunto «complotto» dei vertici della società di stato che, a suo parere, favorivano sistematicamente le cooperative rosse. E, insieme a loro, le imprese di quello che l’imprenditore di Cesa considera il suo principale avversario: Ezio Bigotti. Un immobiliarista vicino a Denis Verdini e presunto dominus, a detta di Romeo, di un sistema di potere che in Consip riesce a fare da anni il bello e il cattivo tempo. Non è un caso che, come scriverà L'Espresso nel numero in edicola domenica 25 marzo, gli avvocati di Romeo abbiano inserito come prova regina nella memoria difensiva un esposto della Romeo Gestioni. Spedito a Marroni ad aprile 2016, dunque in tempi non sospetti, e contestualmente al presidente dell’Anac Raffaele Cantone e a quello dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella. Un atto d'accusa durissimo, su cui risulta che sia l'Antitrust che Anac abbiano aperto due distinti procedimenti. L’esposto viene scritto subito dopo l’esclusione della Romeo Gestioni dalla gara per il “Servizio Luce” per la pubblica amministrazione. Una commessa da ben 967 milioni divisa in otto lotti, due dei quali inizialmente assegnati allo stesso Romeo. Quando a marzo 2016 l'imprenditore napoletano, eliminato dalla tenzone per tre irregolarità di alcune società a lui consorziate, viene a sapere che uno dei due lotti è stato assegnato proprio a Bigotti decide di passare al contrattacco. «Dalla documentazione risulta che ben 5 lotti di gara su 8 risultano di fatto aggiudicati ad istanze imprenditoriali che vedono la partecipazione sostanziale di aziende del gruppo Sti, presieduto da Ezio Bigotti», scrive il legale di Romeo. Che segnala pure come i lotti 5 e 7 siano stati aggiudicati alla Conversion&Lighting srl di Bigotti solo perché a novembre 2015 l'arcirivale ha comprato da Manutencoop proprio l’azienda che era arrivata seconda dietro la Romeo, la Smail spa. «La Conversion&Lighting è al 51 per cento controllata dalla Exitone (altra società di Bigotti) e al 49 per cento dal Consorzio stabile energie locali, già aggiudicatario del lotto 2 e che vede tra i propri consorziati la Gestione Integrata srl. Anche questa partecipata per l’85 per cento da Bigotti», chiosano i legali di Romeo. «Con tale aggiudicazioni un unico centro imprenditoriale si assicura oltre il 76 per cento del complesso delle attività poste in gara. Un risultato “incredibile”». Per Romeo, la Consip i Marroni protegge dunque «un cartello permanente», e ipotizza come «partecipazioni “dubbie” già riscontrate in passato» rischiano di turbare altre gare in futuro. In primis il bando miliardario FM4, dove a suo parere esiste una sorta di «desistenza competitiva» tra Bigotti e Cofely («le due candidature coprano ben 12 lotti senza mai sovrapporsi se non nell’unico marginale caso del lotto 8)». La risposta di Marroni arriva dopo un mese, ed è altrettanto diretta: o ti rimangi tutto o faremo una querela. Qualche mese dopo sarà lo stesso amministratore delegato, però, ad ammettere agli investigatori di aver incontrato Bigotti, su richiesta di Verdini, al ristorante “Al Moro”, per parlare proprio delle gare Consip. Fatto che dimostra che forse i sospetti di Romeo sulla forza politica e i legami del contendente non fossero totalmente infondati.

Appalti Consip: l'indagine, i fatti, i protagonisti. Tutto ha inizio da un'inchiesta della procura di Napoli sulle presunte attività illecite dell'imprenditore Alfredo Romeo. Ecco a che punto siamo arrivati, scrive il 2 marzo 2017 Panorama. L'indagine sugli appalti Consip, la centrale di spesa della pubblica amministrazione, nasce da una inchiesta della procura di Napoli relativa alle attività dell'imprenditore Alfredo Romeo (già coinvolto anni fa nella tangentopoli partenopea), condotta dai pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano, e coordinata dal procuratore aggiunto Filippo Beatrice della Dda. L'iniziativa dei magistrati antimafia prende spunto dai presunti legami con clan della camorra di alcuni dipendenti della società di Romeo che gestisce il servizio di pulizia all'ospedale Cardarelli, la maggiore struttura sanitaria del sud Italia. È da "un fiume" di intercettazioni telefoniche e ambientali che finisce all'attenzione degli inquirenti materiale davvero ingente: non solo gli appalti napoletani assegnati alle aziende di Romeo. I magistrati, sulla base degli elementi acquisiti, si convincono dell'esistenza di un ''sistema Romeo'', ovvero tangenti e favori in cambio di appalti. La collaborazione con la Procura di Roma nelle indagini ha portato alla misura cautelare dell'arresto nei confronti di Romeo, dopo la trasmissione di una serie di atti, tra cui interrogatori condotti da Woodcock. Perquisizione domiciliare, invece, per l'ex deputato di An Italo Bocchino, diventato "consulente" di Romeo. Nell'inchiesta è anche indagato per concorso in traffico di influenze, Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, con l'imprenditore farmaceutico Carlo Russo, uomo ritenuto vicino a Romeo (più in basso gli approfondimenti su Renzi-Russo).

Le microspie. Nella sede Consip - dalla quale Romeo si proponeva di vedersi assegnare un lotto per un importo rilevantissimo - sono state collocate microspie. Una attività di indagine che sarebbe però stata vanificata da una fuga di notizie che vede coinvolti, secondo i magistrati, l'allora sottosegretario alla presidenza del consiglio e attuale ministro dello Sport, Luca Lotti, il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Tullio Del Sette e il comandante dei carabinieri della Legione Toscana, generale Emanuele Saltalamacchia.

Gli appalti romani. Si pone poi una questione di competenza territoriale, visto che la parte più considerevole dei presunti illeciti, riguardante gli appalti Consip, sarebbero stati commessi nella capitale. La vicenda, in particolare, è quella relativa all'appalto cosiddetto Fm4, la gara di facility management del valore di 2,7 miliardi bandita nel 2004 e suddivisa in diversi lotti, tre dei quali potrebbero essere aggiudicati alla società dell'immobiliarista Alfredo Romeo, assieme ad altri. L'ipotesi di corruzione contestata a Romeo è relativa, secondo gli inquirenti, alla consegna di somme di denaro al dirigente Consip Marco Gasparri (anche lui indagato) per ottenere appalti "cuciti su misura".

Due procure al lavoro. L'11 gennaio a Piazzale Clodio si svolge un incontro per il coordinamento investigativo, al quale partecipano i procuratori di Napoli e di Roma, Giuseppe Pignatone e Giovanni Colangelo. Si decide in quella occasione che la procura di Roma indagherà sugli appalti Consip e sulla presunta fuga di notizie mentre i magistrati partenopei si occuperanno degli appalti di Napoli (tra cui quello per le pulizie all'ospedale Cardarelli) e di tutte le eventuali connessioni con le ipotesi di reato di associazione mafiosa e concorso esterno.

Consip: "Pressioni, incontri e ricatti". Ecco le accuse di Marroni a Tiziano Renzi e Verdini. Anticipazione Espresso. Il numero uno della spa pubblica ai pm: «Carlo Russo mi ha chiesto di intervenire sui commissari di gara per conto del babbo di Matteo e del parlamentare di Ala. Mi dissero che loro erano "arbitri" del mio destino professionale». In edicola domenica 5 l'inchiesta che svela tutti i retroscena e i segreti del "Giglio nero", scrive Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 02 marzo 2017 su "L'Espresso”. Luigi Marroni, amministratore delegato della Consip dal 2015 e renziano di ferro, lo scorso 20 dicembre si è seduto di fronte ai pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano. Che lo hanno interrogato come persona informata sui fatti sul grande appalto da 2,7 miliardi di euro per i servizi pubblici chiamato Facility Management 4, sul presunto sistema corruttivo messo in piedi dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo (arrestato ieri) e su eventuali sollecitazioni ricevute da politici e faccendieri. Marroni comincia a parlare subito, facendo saltare dalla sedia i magistrati. Il dirigente renziano racconta infatti di un vero e proprio «ricatto» subito da un sodale di Tiziano Renzi, l’imprenditore Carlo Russo. Riferisce di pressanti «richieste di intervento» sulle Commissioni di gara per favorire una specifica società; di «incontri» riservati con il papà di Renzi a Firenze; e di «aspettative ben precise» da parte di «Denis Verdini e Tiziano Renzi» in merito all’assegnazione di gare d’appalto indette dalla Consip del valore di centinaia di milioni di euro. In esclusiva i nuovi elementi sul caso Consip che coinvolge il padre di Matteo Renzi, Denis Verdini e Luca Lotti e fanno emergere un vero e proprio sistema di potere. Leggendo carte e documenti dell'inchiesta L’Espresso in edicola domenica 5 marzo è in grado di fare nuova luce su uno scandalo politico che rischia di travolgere la famiglia dell’ex boy scout di Rignano sull’Arno e, forse, di condizionare le imminenti primarie del Partito democratico. Marroni ha infatti affermato, per esempio, che Carlo Russo, l’imprenditore indagato dalla procura insieme a Tiziano Renzi per traffico di influenze illecite, in occasione di un incontro a due negli uffici romani della Consip gli avrebbe chiesto in modo pressante di favorire una società nel cuore di Denis Verdini, ricordandogli che la sua promozione in Consip era avvenuta proprio grazie ai buoni uffici di Tiziano Renzi e di Verdini. Di più: Russo avrebbe sottolineato a Marroni - dice ancora il numero uno della Consip agli inquirenti - come Tiziano e Denis fossero ancora «arbitri del mio destino professionale», potendo la coppia «revocare» il suo incarico di amministratore delegato della stazione appaltante: una spa controllata al 100 per cento dal ministero dell’Economia. Le dichiarazioni dell’ex direttore dell’Asl di Firenze voluto dal governo Renzi a capo di una delle società pubbliche più importanti d’Italia sono sorprendenti. Perché - al di là delle implicazioni giudiziarie della vicenda - aprono diversi interrogativi politici. Marroni si è inventato tutto o davvero Carlo Russo lo ha intimidito tirando in ballo il suo futuro lavorativo nel caso non avesse fatto quello che gli si chiedeva? Poteva davvero il babbo dell’allora presidente del Consiglio (insieme a un parlamentare di un partito associato alla maggioranza, Verdini) influire sulla nomina del numero uno dell’azienda pubblica Consip? Tiziano Renzi e Denis Verdini si muovono davvero da unico gruppo di pressione, come sembra emergere dalle dichiarazioni di Marroni? È un fatto che lo scorso 20 dicembre Marroni abbia raccontato ai magistrati altri dettagli rilevanti, spiegando come nel marzo del 2016 Tiziano Renzi in persona gli chiese un incontro riservato, effettivamente avvenuto - a suo dire - in piazza Santo Spirito a Firenze. Il numero uno della Consip ammette con gli inquirenti che il papà dell’allora premier gli avrebbe chiesto in quel frangente di «accontentare» le richieste di Russo, perché persona di sua fiducia. «Accontentare». Tiziano stesso avrebbe presentato l’amico imprenditore all’ad di Consip durante un primo incontro avvenuto qualche tempo prima. Marroni aggiunge pure che, di fronte alle sollecitazioni, lui non si è mai piegato. Avrebbe ascoltato con pazienza gli interlocutori, senza però dare seguito a nessuna delle richieste. «Sono stato un muro di gomma». Istanze e suppliche arrivavano, ipotizzano gli investigatori, da diversi gruppi di pressione interessati ai bandi milionari. I magistrati napoletani e quelli romani (la parte dell’indagine che tocca il Giglio Magico è stata trasferita per competenza a Roma ed è seguita dal pm Mario Palazzi e dal procuratore aggiunto Paolo Ielo), insieme ai carabinieri del Noe e alla squadra mobile di Roma stanno cercando di capire se i presunti facilitatori (tra cui Tiziano Renzi e Russo, che secondo il gip che ha dato l'ok agli arresti di Romeo si sono fatti promettere soldi per la mediazione su Marroni) lavorassero l’un contro l’altro armati per favorire aziende in lotta tra loro o se al contrario fossero un’unica banda. I pm si stanno concentrando su due fronti: da un lato l’indagine capillare sul cosiddetto “sistema Romeo”, dall’altro lato, gli inquirenti hanno acceso un faro anche sui principali competitor di Romeo, ossia il gigante francese Cofely, capofila di un raggruppamento di imprese che avrebbe vinto (in via provvisoria) un numero di lotti assai maggiore rispetto a quelli ottenuti da Romeo. È ancora Marroni che nomina Cofely Italia, oggi ramo di Engie Italia, nuovo brand del colosso dell’energia Gdf-Suez. Cercando di specificare il ruolo di Verdini in merito alle pressioni ricevute sugli appalti FM4, il dirigente ha chiarito a Woodcock e a Carrano che alla fine del 2015 venne nei suoi uffici Consip il parlamentare di Ala Ignazio Abrignani, uomo vicinissimo a Verdini. Che gli avrebbe chiesto senza tanti fronzoli di «intervenire» per favorire il raggruppamento dei francesi nella gara. Secondo Marroni, Abrignani parlava proprio «per conto di Verdini». Il senatore avrebbe voluto che Marroni si adoperasse affinché Cofely si aggiudicasse un lotto in particolare: quello, strategico, di Roma Centro, che comprende i servizi di Palazzo Madama, Palazzo Chigi, ministeri importanti come il Viminale e la Giustizia e il Quirinale. Una gara periodica che nel 2011 era stata aggiudicati a Romeo, mentre il nuovo bando, anche se solo in via provvisoria, è stato assegnato proprio a Cofely. Marroni sostiene che dopo la visita di Abrignani non fece assolutamente nulla, limitandosi a informarsi dai commissari di gara su come stava procedendo il bando. Risposta della commissione: «Cofely sta andando bene». L’Espresso ha contattato Abrignani, che conferma l’incontro con Marroni (spostandolo però di qualche mese in avanti), ma dando una versione diversa del contenuto. «Io sono un deputato di Ala, è vero, ma sono anche avvocato del Consorzio stabile energie locali, che ha partecipato alla gara FM4 insieme alla capofila Cofely», ammette Abrignani. L’ipotesi di un conflitto d’interessi sul suo doppio ruolo di legale e parlamentare non sembra nemmeno venirgli in mente: «Abbiamo partecipato a cinque lotti. Nell’incontro che chiesi a Marroni cercai soltanto di capire quanto tempo ci avrebbero messo a decidere in via definitiva. Marroni mi disse che ci stavano ancora lavorando, perché l’attribuzione era molto complessa. E che i risultati non sarebbero mai usciti prima della primavera del 2017. Infatti a oggi non c’è stata nemmeno l’aggiudicazione provvisoria. L’incontro? È avvenuto subito prima o subito dopo l’estate del 2016». In merito alle presunte pressioni di Verdini per far vincere Cofely, Abrignani dice che si è tratta di un «equivoco». «Verdini», spiega, «ha questo rapporto di vecchia amicizia con Marroni, anche i figli... Ma sono andato io a informarmi con il capo di Consip, quindi non so davvero come sia uscito che sia stato Verdini a informarsi su Cofely». Abrignani ci dà un nuovo elemento che finora non conoscevamo: i due toscani Verdini e Marroni si conoscono. Da tempo. Sono addirittura due «vecchi amici». In più, la sua ricostruzione cozza con un’altra dichiarazione che Marroni, quel venti dicembre, fa ai pm. Oltre alla conversazione con Abrignani, il dirigente racconta infatti anche di un faccia a faccia con Verdini avvenuto a luglio del 2016. Durante il quale Verdini avrebbe detto al «vecchio amico» diventato numero uno della Consip che conosceva il contenuto dei suoi colloqui con Abrignani, che era «soddisfatto» e che avrebbe provato a far promuovere Marroni a «incarichi» ancora «più prestigiosi». Il quadro disegnato da Marroni prospetta dunque un intreccio di interessi privati intorno ad appalti pubblici da centinaia di milioni. Mostrando che intorno alla torta Consip hanno cercato di sedersi parlamentari, familiari e presunti mediatori legati, o ragionevolmente vicini, all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Attraverso pressioni, minacce, promesse che nulla hanno a che fare con il normale svolgimento di un bando di gara. Una ricostruzione, ricordiamolo, ancora tutta da provare. Ma che getta un’ombra sul sistema di potere renziano negli ultimi tre anni. E che colpisce alle radici il Giglio magico, per l’ennesima volta investito dal sospetto di conflitti d’interessi, di pulsioni affaristiche, di commistioni tra politica e affari, di contiguità con politici come Verdini. La vicenda Consip, soprattutto, fa tornare prepotentemente alla ribalta anche l’antico rapporto tra la famiglia Renzi e l’amico Denis: l'inchieste dell'Espresso in edicola domenica racconterà la genesi del legame, gli affari segreti, il ruolo di Lotti (Marroni dice ai pm che è stato lui a «luglio 2016» a metterlo in guardia dell'uso di intercettazioni telefoniche e ambientali, il ministro nega invece con forza), gli interessi di Alberto Bianchi, presidente della Fondazione Open e tra i capi del Giglio magico, dentro la Consip. Analizzando un sistema di potere sempre più oscuro.

Consip, le accuse dell'ad a Tiziano Renzi e Verdini. Il padre dell'ex premier: "Nulla da nascondere. Mi interroghino". Anticipazione dell'Espresso: la deposizione di Luigi Marroni: "L'imprenditore Russo mi chiese di intervenire su un appalto da 2,7 miliardi per conto del babbo di Matteo e del parlamentare Ala". L'accusato: "Conosco Carlo Russo, sono padrino di suo figlio, ma leggo cose sui giornali di cui non so assolutamente nulla", scrive il 2 marzo 2017 “La Repubblica”. Tiziano Renzi nega ogni addebito. Ma nella deposizione di Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip, le accuse nei confronti del padre dell'ex premier sono pesanti: "L'imprenditore Carlo Russo mi ha chiesto di intervenire su un appalto da 2,7 miliardi di euro per conto del babbo di Matteo e di Verdini". Queste le parole pronunciate davanti ai pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano e anticipate oggi sul sito dell'Espresso. "Mi dissero che erano gli arbitri del mio destino professionale". Il quadro disegnato da Marroni prospetta un intreccio di interessi privati intorno ad appalti pubblici da centinaia di milioni. Mostrando che intorno alla torta Consip hanno cercato di sedersi parlamentari, familiari e presunti mediatori legati, o ragionevolmente vicini, all'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Attraverso pressioni, promesse e anche minacce che nulla hanno a che fare con il normale svolgimento di un bando di gara. Una ricostruzione, ricordiamolo, ancora tutta da provare. Ma che getta un'ombra sul sistema di potere renziano negli ultimi tre anni. E che colpisce alle radici il Giglio magico, per l'ennesima volta investito dal sospetto di conflitti d'interessi, di pulsioni affaristiche, di commistioni tra politica e affari, di contiguità con politici come Verdini. Ma Renzi senior continua a dichiarare la propria estraneità dai fatti: "Non ho mai chiesto soldi. Non li ho mai presi. Mai. E credo che i magistrati abbiano tutti gli strumenti per verificarlo. Non vedo l'ora che venga fuori la verità: voglio essere interrogato, voglio che verifichino tutto di me, non ho nulla da nascondere. Nulla" afferma in una nota. "Mi sembra di vivere un incubo" continua il padre dell'ex premier Matteo Renzi: "Non ho mai fatto cene segrete in bettole in vita mia, come scrive qualcuno. Conosco effettivamente Carlo Russo, del cui figlio sono padrino di battesimo, ma leggo cose sui giornali di cui non so assolutamente nulla". E ribadisce quanto già affermato in una nota di ieri: "Sono stato indagato due anni fa per la prima volta in vita mia e mi hanno assolto ma la notizia è stata riportata in qualche trafiletto. Spero solo che il giorno in cui tutto questo finirà ci sarà lo stesso spazio sui giornali che c'è oggi. Vivo perché i miei nipoti sappiano che io sono quello che hanno sempre conosciuto e non ciò che i giornali scrivono oggi" continua Tiziano Renzi commentando quanto affermato da Alfredo Mazzei, commercialista amico di Romeo, nell'intervista a Repubblica dove si fa riferimento anche a un "incontro segreto" tra lui e Russo "in una trattoria senza pretese con ingresso riservato". Ed è confermato per domani in tarda mattinata, salvo cambiamenti dell'ultima ora, il suo interrogatorio chiesto dai magistrati della Procura di Roma, una convocazione inizialmente fissata per il pomeriggio del 23 febbraio. Ipotesi di reato, traffico di influenze illecite nell'ambito dell'inchiesta Consip.

La parabola di Denis Verdini. Ascesa e caduta dell'imprenditore, presidente di banca, parlamentare e regista di operazioni politiche "spericolate" condannato ieri a 9 anni di reclusione, scrive il 3 marzo 2017 Panorama. A Fivizzano, paese in provincia di Massa Carrara del quale negli anni '80 era stato sindaco (comunista) Sandro Bondi, c'era una piccola macelleria. Apparteneva alla famiglia Verdini, ma il giovane figlio del proprietario - oggi cinquantaseienne - non voleva restare tutta la vita dietro a un bancone ad affettare costate di manzo. Quel ragazzo non sapeva quanto sarebbe andato lontano: DenisVerdini è stato imprenditore delle carni, allievo di Giovanni Spadolini, presidente di una banca, commercialista, professore universitario, parlamentare, forse massone (ma lui ha sempre smentito), editore del Foglio, regista di operazioni politiche "spericolate". E da oggi condannato a nove anni per bancarotta fraudolenta. Del resto, prima della tegola giudiziaria che gli è caduta addosso, aveva già sulle spalle varie indagini che lo riguardano (dagli appalti per il G8 della Maddalena alla p3 e alla p4) e una condanna a due anni per la vicenda della scuola Marescialli di Firenze. Prima repubblicano (Verdini è un laico a tutto tondo) poi berlusconiano, Verdini è in politica da un bel po': prima elezione riuscita quello nel consiglio regionale della Toscana nel 1995 con Forza Italia. Berlusconi capì che l'uomo aveva talento quando, due anni dopo, Verdini organizzò la campagna elettorale di Giuliano Ferrara nel Mugello contro Antonio Di Pietro. Arrivò alla Camera nel 2001. Ci mise poco a entrare nell'entourage di Berlusconi. A lui il leader di Forza Italia affidò la regia della fusione con Alleanza Nazionale: operazione non facile, che poteva suscitare rancori e risentimenti tra i colonnelli dei due partiti, ma che Denis condusse in porto brillantemente. Sempre un passo dietro la scena, Verdini per tanti anni è stato il plenipotenziario al quale Berlusconi affidava le missioni più delicate. Fu lui l'artefice del patto del Nazareno, che saldò gli interessi di Berlusconi e Renzi. Del resto era stato proprio Verdini a far conoscere i due, quando Renzi era ancora presidente della provincia di Firenze. "Sta dall'altra parte ma è bravo" disse al Cavaliere. Ma come tutti i consiglieri del principe, negli anni Verdini ha attirato su di sé anche una discreta quantità di invidia. Il cerchio magico che negli ultimi anni circondava Berlusconi non ha mai amato il suo potere, la sua amicizia con Renzi e i suoi modi diretti da toscanaccio. Ciò nonostante pochi avrebbero previsto l'addio a Forza Italia. La rottura con il Cavaliere si consumò a tavola. Berlusconi lo voleva convincere che dopo l'affronto dell'elezione di Mattarella era stato giusto rompere il patto con Renzi. "Silvio non sono d'accordo. Mi faccio il mio gruppo". Detto fatto. L'Alleanza liberalpopolare autonomie non è mai stato un partito che riempie le piazze ma ha riempito di voti preziosi il governo Renzi, senza dare troppi dispiaceri al Cavaliere. Perché questa è l'essenza del verdinismo: mettere d'accordo Matteo e Silvio e lasciare i vari Salvini e Meloni alla finestra.

La posizione di Tiziano Renzi. Promesse di denaro in cambio dell'attività di mediazione sui vertici di Consip: l'accusa per Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, è circostanziata nelle 4 pagine del decreto di perquisizione emesso dalla procura di Roma nei confronti dell'imprenditore toscano Carlo Russo nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in carcere Alfredo Romeo. Russo e Renzi, sostengono i pm, "sfruttando le relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e Luigi Marroni", a.d. di Consip, "si facevano promettere indebitamente" da Romeo, "che agiva previo concerto con Italo Bocchino, suo consulente, utilità a contenuto economico, consistenti nell'erogazione di somme di denaro mensili, come compenso per la loro mediazione verso Marroni", in relazione allo svolgimento di gare. Russo, in particolare avrebbe agito "utilizzando le proprie relazioni (di cui vi è prova diretta) e le relazioni di Tiziano Renzi (con il quale lo stesso Russo afferma di aver agito di concerto e al quale parimenti, da un appunto vergato dallo stesso Romeo, appare essere destinata parte della somma promessa)". "Nessuno mi ha mai promesso soldi, nè io ho chiesto alcunchè. Gli unici soldi che spero di ottenere - ha dichiarato in serata Tiziano Renzi, convocato per venerdì dai pm romani - sono quelli del risarcimento danni per gli attacchi vergognosi che ho dovuto subire in questi mesi. Sono contento del fatto che il 16 marzo finalmente inizieranno i processi contro chi mi ha diffamato". "Ho 65 anni - aggiunge - e non ho mai avuto un problema con la giustizia per una vita intera fino a due anni fa, quando sono stato indagato e poi archiviato dalla procura di Genova. Confermo la mia fiducia nei confronti del sistema giudiziario italiano e della magistratura". Il suo legale parla di fatti "del tutto insussistenti": non sono mai stati chiesti soldi nè alcun'altra utilità all'imprenditore Romeo - sottolinea l'avvocato Federico Bagattini - e non è stata promessa alcuna forma di interessamento, in effetti mai avvenuta, nei confronti di Marroni e/o Consip, a favore del medesimo o di qualsiasi altro soggetto".

Il foglietto. A chiamare in causa il padre dell'ex premier sarebbe tra l'altro un foglietto trovato tra i rifiuti dell'ufficio romano di Romeo, recuperato dai carabinieri nella discarica di Roma nel quale compaiono alcune iniziali e delle cifre che corrisponderebbero a delle somme di denaro. Una prassi, quella dei pizzini, che l'imprenditore arrestato oggi utilizzava frequentemente. "Questa modalità - ha messo a verbale il funzionario della Consip Marco Gasparri, nei due interrogatori in cui ha confessato di aver preso soldi dall'imprenditore - era una consuetudine perchè Romeo era convinto che il proprio cellulare fosse inoculato da captatore informatico, mentre era sicuro che il suo ufficio fosse pulito". Sui pizzini, dice il Gip, "vi è riserbo dovuto ad indagini in corso". Tutti i foglietti sarebbero stati scritti da Romeo nel suo quartier generale romano, in via della Pallacorda. Nel cuore di Roma, a due passi da Palazzo Madama e Montecitorio, l'imprenditore riceveva "non solo - scrive la procura - il proprio consulente Italo Bocchino, ma anche il dirigente Consip Gasparri ed altri pubblici ufficiali, faccendieri e persone che si propongono in attività di 'intermediazione' con la Pa, con cui intrattiene opachi rapporti". Ed è proprio l'ex parlamentare a spiegare in un'intercettazione il rapporto politica-Consip. "Gli appalti - scrive il gip facendo riferimento alle sue parole - devono essere gestiti per favorire prevalentemente le cooperative, in quanto rappresentano sia un bacino di voti dal quale poter attingere (a differenza dei grandi gruppi come Romeo) ed anche e soprattutto un modo lecito per finanziare la politica e/o il politico di turno". Poi il giudice riporta le parole dello stesso Bocchino. "...È chiaro che la politica ha il problema del territorio... perchè un politico può venire da te a chiederti 60mila euro che ti ha chiesto (omissis) ma i mille pulitori sul territorio, sono mille persone che danno cinquemila euro ciascuno...sono mille persone che quando voti si chiamano i loro dipendenti...tu i tuoi dipendenti manco sai chi sono...non te li puoi chiamare per dire votate a tizio, a caio o a sempronio nel tuo modello...no? Il pulitore che c'ha cento dipendenti, quello si chiama le cento famiglie e dice senti...a sindaco dobbiamo votare questo per questa ragione...quindi secondo me non c'è una scelta politica...noi c'abbiamo la doppia spiga...la scelta politica e...il prezzo che tu devi pagare per la paginata che teme...perchè sei stato generoso quando lui non contava un cazzo...".

Alfredo Romeo: chi è l'imprenditore arrestato per il caso Consip. Noto come "l'avvocato" e "il re degli appalti", già in passato era finito sotto accusa ma sempre assolto, scrive Claudia Daconto l'1 marzo 2017 su Panorama. Lo chiamano “l'avvocato” anche se, dopo la laurea in giurisprudenza all'università di Napoli Federico II, non ha mai esercitato la professione. 64 anni, originario di Cesa nel casertano, Alfredo Romeo, arrestato oggi nell'ambito dell'inchiesta Consip, è un napoletano d'adozione con un rapporto da sempre molto controverso con la città da cui l'attuale sindaco, Luigi De Magistris, suo nemico giurato, sta da tempo tentando di estrometterlo. I più informati lo descrivono come un uomo particolarmente schivo e riservato. Non fa vita mondana, si dedica esclusivamente al lavoro e, almeno in apparenza, non ha vizi o passioni se non quella per una Due Cavalli che guida più per sfizio che per necessità. Per il resto, infatti, si sposta solo in taxi. Ha cominciato a costruire il suo impero fin dall'età di 26 anni e nel tempo ha raggiunto un tale livello di potere, successo e guadagni da finire più volte sotto la lente della magistratura – da 10 anni viene quasi ininterrottamente intercettato - uscendone, almeno finora, sempre indenne. Nel 1979 la sua prima impresa, la “Romeo Immobiliare” già conta sedi in cinque regione. Negli anni successivi fonderà anche la “Romeo Investimenti”, la “Romeo Gestioni”, la “Romeo Alberghi” e la “Romeo Partecipazioni” tutte gravitanti intorno al Gruppo Romeo che ad oggi conta circa 20mila dipendenti e cifre tali da aver reso Romeo il maggior contribuente napoletano (è arrivato a versare di tasse la cifra di 25 milioni di euro). Alfredo Romeo ha vinto appalti pubblici praticamente ovunque: a Roma, Napoli, Milano, Venezia presso ospedali, imprese di pulizia, palazzi della politica, Corte dei Conti, aeroporti, aziende di trasporto. E ci è riuscito applicando una formula piuttosto semplice: fornire i suoi servizi a prezzi talmente bassi da mettere gli altri concorrenti sempre fuori gioco. Nel 2008 viene arrestato per la prima volta nell'ambito dell'inchiesta Global Service. La Procura di Napoli lo accusa di essere al vertice di una presunta associazione per delinquere che avrebbe messo in piedi un presunto sistema di corruzione per pilotare appalti al Comune di Napoli e ne ordina la carcerazione preventiva a Poggioreale dove Romeo rimarrà per 79 giorni in una cella di due metri per tre condivisa con altri detenuti. Tra i membri del tribunale del Riesame, che ne aveva negato la scarcerazione, c'era anche, come lo definì Romeo in un'intervista a Il Corriere della Sera, “un certo Luigi De Magistris” che alcuni mesi dopo si candidò alle Europee sfruttando, secondo l'imprenditore, il suo caso “per fare propaganda politica”. Secondo i pm Romeo avrebbe corrotto cinque assessori della giunta di Rosa Russo Iervolino (uno di loro, Salvatore Nugnes si suicidò mentre gli altri quattro finirono in galera), in cambio dell'appalto di 400 milioni di euro, mai partito, per la manutenzione della rete viaria comunale. Nel 2014 i giudici della Cassazione bocciarono severamente l'impianto istruttorio arrivando a parlare di “vuoto probatorio”, ribaltarono la condanna in appello e assolsero completamente Romeo perché il fatto non sussisteva. Lo scandalo, tuttavia, lo prostrò a tal punto che per mesi sparì dai radar, rinchiuso nel suo palazzo di super lusso a Posillipo, quartiere ultra chic della città. Ma i guai non finirono là. Nonostante la riabilitazione giudiziaria, fin dalla sua campagna elettorale, l'attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris gli giurò battaglia. E infatti, appena eletto, la prima cosa che fece il neo sindaco fu quella di sottrargli la gestione del patrimonio immobiliare del Comune. La “Romeo Gestioni” fu rimpiazzata con la “Napoli Servizi”, partecipata del Comune al 100% che secondo l'amministrazione avrebbe fatto risparmiare 4 milioni di euro alle casse pubbliche ma il cui bilancio nel 2015 fu bocciato dai revisori dei conti per perdite di circa 6 milioni di euro e “una chiara e manifesta inefficienza, soprattutto in riferimento agli obiettivi della mission aziendale del processo di valorizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare”. Come se non bastasse, nel luglio del 2014, da Palazzo San Giacomo parte nei confronti di Romeo un'accusa di peculato per essersi indebitamente appropriato di somme di denaro del Comune di Napoli derivanti dalla vendita di immobili del patrimonio comunale, nonostante la diffida a restituirle avanzata dal Comune stesso. Anche in questo caso l'imprenditore viene assolto e il Comune costretto a restituirgli 25 milioni di euro. Negli ultimi giorni, infine, Alfredo Romeo ha annunciato l'intenzione di uscire dalla gestione dei servizi dell'ospedale Caldarelli di Napoli. Una decisione maturata in seguito al deflagrare del presunto scandalo Consip, la società per azioni del ministero dell'Economia incaricata dell'acquisto di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche, che lo vede coinvolto insieme ad altri nomi eccellenti: il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Tullio Del Sette, il comandante della Legione Toscana dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia e il padre dell'ex premier Tiziano Renzi. L'inchiesta, aperta dalla Procura di Napoli e trasferita per competenza a quella di Roma, ruota intorno a un presunto traffico di influenze illecite. Questa mattina Salvatore Romeo è stato arrestato, per la seconda volta nella sua vita, e trasferito dalla sua abitazione a Posillipo nel carcere romano di Regina Coeli.

Consip, Romeo in cella dopo l'assoluzione. Toghe, voto anticipato per Emiliano. Alfredo Romeo torna in cella. Qualche anno fu assolto, dopo 79 giorni in cella. E ci scappò anche un suicidio, scrive Pietro Mancini su "Affari Italiani" Giovedì 2 marzo 2017. Ordinanza di custodia cautelare in carcere, ieri, per l'imprenditore campano, don Alfredo Romeo, emessa dal Gip del Tribunale di Roma su richiesta della locale Procura, in relazione ad un episodio di corruzione in ambito Consip. Una sorta di voto, in anticipo, delle toghe alle primarie del PD, che vedono in campo un magistrato, in aspettativa, don Michele Emiliano, il ministro Guardasigilli, Orlando, sostenuto da donna Anna Finocchiaro, da 30 anni in Parlamento, senza aver, mai, rinunciato agli scatti di carriera e di stipendione dall'ordine giudiziario. Tutto normale, Signor Presidente del CSM, Mattarella, e Signori ex premier, Berlusconi, Prodi e D'Alema?Breve antefatto, per i miei 25 lettori (spero molto più numerosi, caro Angelo...). Alcuni anni fa, Alfredo Romeo, titolare dell'impresa Global Service, subì, a Poggioreale, 79 giorni di dura detenzione preventiva. Gli arresti furono eseguiti, il 17 dicembre del 2008, dalla Dia e dai Carabinieri di Caserta, firmati dal Gip di Napoli, il quale accolse le richieste di custodia cautelare, avanzate dalla Direzione distrettuale antimafia napoletana, guidata dal procuratore Franco Roberti. Anche l'ex assessore Giorgio Nugnes, PD, che si era suicidato, alcune settimane prima, era coinvolto nell'inchiesta. E tra le richieste di arresti, formulate dalla Dda al Gip di Napoli, c'era anche quella destinata al povero Nugnes. Ma, in Cassazione, dopo 6 anni, Romeo fu assolto con tutti gli altri imputati, ex assessori e dirigenti della "Global service" di don Alfredo, di cui Gigino de Magistris-che allora "lottava in toga" come giudice del tribunale della libertà-respinse la richiesta di scarcerazione. "Vuoto probatorio». «Deduzioni generiche, perché enunciate e non dimostrate». «Azioni penali mai esercitate» da un’impresa, che chiese, legittimamente, informazioni sull’appaltone per il manto stradale della città a pubblici amministratori, i quali tali informazioni poi fornirono, «violando il dovere di imparzialità», ma senza rivelare segreti. Queste le motivazioni della Suprema Corte, 6 anni dopo gli arresti e i titoloni dei giornali, nelle prime pagine, analoghi a quelli comparsi stamane...

Consip, il siluro di Emiliano sul Pd: "Altri candidati si preoccupino". Terremoto nel Pd. Nel mirino gli sms di Lotti e papà Renzi per sponsorizzare l'imprenditore indagato. Ma l'audizione del governatore slitta, scrive Sergio Rame, Martedì 28/02/2017, su "Il Giornale". "Io non intendo fare il congresso del Pd passando da testimone a imputato, ci sono altri che si devono preoccupare...". Michele Emiliano lancia un siluro sul Nazareno. Non fa nomi, ma in piena lotta per la leadership del partito lascia intendere affari illeciti che potrebbero legare altri candidati alle primarie del Pd all'inchiesta Consip. Le possibilità non sono molte. Perché i candidati, al di là del governatore della Regione Puglia, sono soltanto due: l'ex premier Matteo Renzi e il Guardasigilli Andrea Orlando. E il padre del primo è già indagato nella stessa inchiesta, insieme al ministro dello Sport (il renziano) Luca Lotti. "Chiedete ad altri candidati perché persone a loro così vicine sono sottoposte a indagini". È una vera e propria bomba quella che Emiliano lancia dai microfoni di SkyTg24. L'incontro con il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Fabio Palazzi era previsto per domani. Ma la data è stata cambiata all'ultimo perché il governatore ha una serie di impegni. Potrebbe vedersi il 6 marzo per far luce su alcuni sms tra il presidente della Regione Puglia e il ministro Luca Lotti dei quali ha parlato con il Fatto Quotidiano e nei quali si farebbe riferimento a Carlo Russo, imprenditore amico di Tiziano Renzi e ritenuto da chi indaga punto di contatto tra Alfredo Romeo e il padre dell'ex premier. L'inchiesta è partita dalla procura di Napoli e una tranche di essa è arrivata a quella di Roma. È incentrata su presunti appalti pilotati alla Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, in favore di gruppi di imprese che, secondo chi indaga, facevano riferimento all'imprenditore Alfredo Romeo, che risponde dell'accusa di corruzione. Punto di connessione tra Romeo e Tiziano Renzi sarebbe appunto Carlo Russo, amico di famiglia del padre dell'ex premier. Nell'indagine risulta indagato anche Lotti che risponde di rivelazione di segreto e favoreggiamento e lo scorso 27 dicembre è stato interrogato dal pm Mario Palazzi. Il fascicolo vede indagati per rivelazione di segreto d'ufficio anche il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette e il generale di brigata dell'Arma Emanuele Saltalamacchia. Al centro dell'indagine una gara di facility management del valore di 2,7 miliardi (appalto FM4) bandita nel 2014 e suddivisa in svariati lotti, parte dei quali sarebbero stati destinati a società di Alfredo Romeo.

"Eccoli tutti gli sms con Russo: si interrompono nel 2015. Ed ecco il messaggino di Lotti che mi dice di incontrarlo". È lo stesso Emiliano a mostrarli al cronista del Fatto Quotidiano. Come gli fa vedere anche quelli che gli sono stati inviati dal padre di Renzi: "Ecco qui. Era lui che tentava di incontrarmi in un hotel a due passi da casa mia. Ma non ci siamo mai visti. Soddisfatto?". E così viene fuori che Lotti, indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto in una indagine che vede al centro proprio Russo e Tiziano Renzi, ci teneva che il governatore pugliese incontrasse e stesse "a sentire" l'imprenditore. "Vede - spiega Emiliano al cronista del Fatto - era ottobre 2014, Renzi era da poco premier, io scrivo a Lotti: 'Conosci un certo Carlo Russo che sta venendo a Bari a ‘sostenermi’ dicendo che è amico tuo e di Maria Elena Boschi?'. Lotti – continua – mi risponde laconico, come lei vede: “Lo conosciamo”. Allora io insisto con questo altro messaggio: 'In che senso? Lo devo incontrare o lo devo evitare?'. E questa qui – conclude il governatore – è la risposta di Lotti: 'Ha un buon giro ed è inserito nel mondo della farmaceutica. Se lo incontri per 10 minuti non perdi il tuo tempo'". Dopo averlo incontrato un prima volta e averlo velocemente liquidato al termine di una cena con il presidente della Confindustria di Lecce ("Diffidai a fiuto anche se diceva di essere amico di Matteo Renzi e di tutti i suoi uomini di fiducia"), va alla carica Tiziano Renzi. "Disse di riferirmi che aveva avuto un mandato da Matteo Renzi in persona a incontrarmi riservatamente per ‘trovare una quadra’, cioè per fare la pace ma – precisa Emiliano – parliamo di un anno prima rispetto alle conversazioni con Romeo". Nonostante il pressing del padre di Renzi, decide di non incontrare Russo dal momento che i rapporti con l'allora premier erano ormai rotti. "Meno male che li ho conservati...", ha detto oggi Emiliano a SkyTg24. "Un giornalista mi ha chiesto conto di alcune intercettazione nelle quali questo faccendiere mi invitava a casa sua - ha continuato - gli sms mi hanno consentito di dimostrare come questo signore mi sia stato accreditato come persona di fiducia di Lotti e della famiglia e dunque che io non avevo specifiche responsabilità per averlo incontrato due o tre volte. Altrimenti il Fatto avrebbe sostenuto la tesi che anche io avrei fatto parte di quel sistema di potere inquinato sul quale sta lavorando la magistratura".

Ma che amici ha Tiziano Renzi? L'affaire Consip è solo l'ultima inchiesta che coinvolge amici e collaboratori del padre dell'ex premier. Che viene chiamato ancora in ballo dai magistrati, scrive Antonio Rossitto il 2 marzo 2017 su Panorama. Carlo Russo, detto l’«omino». C’è una costante nella recente ribalta di Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo: essere amico di chi si impelaga. La calamita stavolta ha attratto un trentatreenne di Scandicci, ruspante e ricciolone, imprenditore multiforme: Carlo Russo, appunto. Intimissimo di papà Renzi. I due vanno insieme anche in pellegrinaggio a Medjugorje. Adesso, invece, condividono l’iscrizione nel registro degli indagati nell’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti della Consip, la centrale acquisti della Pubblica amministrazione. I pm ipotizzano per Russo e Renzi senior il reato di traffico illecito di influenze. Sarebbero stati i mediatori di un presunto accordo corruttivo a favore dell’uomo d’affari napoletano Alfredo Romeo. Che, in diversi colloqui intercettati con Russo, farebbe riferimento al ruolo del «babbo» dell’allora premier. Tiziano Renzi pare, infatti, che conosca bene Luigi Marroni, nominato a giugno del 2015 amministratore delegato di Consip proprio dal governo del figliolo Matteo. Tra le carte sequestrate, scrive Il Fatto quotidiano, ci sarebbe un appunto vergato da Romeo: «30 mila euro al mese a T.». E subito si è fatto il collegamento con Tiziano Renzi. Un’ipotetica dazione, mai avvenuta, che avrebbe dovuto agevolare i rapporti con la Consip. Il Corriere della sera, invece, indica un presunto pagamento di 70 mila a Russo. Ipotesi smentita dall’ex parlamentare e oggi consulente di Romeo, Italo Bocchino, pure lui indagato, con una lettera al quotidiano milanese: «L’atteggiamento sia dell’avvocato Romeo che mio circa ipotetiche richieste di pagamento è sempre stato di rifiuto categorico». L’inchiesta comunque sembra alle battute iniziali. Tiziano Renzi sarà interrogato presto dai pm romani. Mentre il suo avvocato, Federico Bagattini, invoca prudenza: «Ricordiamoci come è finita a Genova...». Il legale ha perfettamente ragione: in quel procedimento, Renzi senior, accusato di bancarotta fraudolenta, è stato archiviato a giugno del 2016. Ai suoi ex soci non è però andata altrettanto bene. Lo scorso novembre, Mariano Massone viene condannato dal Tribunale di Genova a due anni e due mesi e Antonello Gabelli a un anno e otto mesi. Il patteggiamento riguarda la bancarotta fraudolenta della Chil Post: l’azienda di marketing venduta nel 2010 dalla famiglia Renzi, in cui ha lavorato il giovane Matteo prima di dedicarsi alla politica. La Chil, tralaltro, è finita indirettamente pure in una recente inchiesta della procura di Firenze. A luglio del 2016, emerge un’indagine per riciclaggio a carico del manager Andrea Conticini, marito di Matilde Renzi e genero di Tiziano. I magistrati, sostiene La Nazione, sospettano che soldi dell’Unicef e di Operation Usa destinati alle campagne per i bambini in Africa siano stati usati da Conticini per iniettare capitali in diverse società. Tra queste, ci sarebbe proprio la Chil Promozioni, nata dalle ceneri della Chil e poi diventata Eventi 6, l’azienda dei Renzi tuttora in attività. Il pantheon di ex soci e fedelissimi di «babbo Tiziano» finiti nei guai è però ben più ampio. A marzo del 2007, l’amministratore della Arturo srl, Pier Giovanni Spiteri, suo vecchio amico e sodale, anche lui di Rignano sull’Arno, viene denunciato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Come la Chil, anche Arturo si occupa di pubblicizzare e distribuire i quotidiani: Tiziano, socio al 90 per cento, è amministratore della srl fino a marzo 2007. Poi passa la mano a Spiteri, che incappa nella denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non finisce qui. A settembre del 2011 la Arturo, rivela Panorama, viene condannata a risarcire quasi 90 mila euro per il licenziamento di Evans Omoigui. Una somma che Renzi senior non pagherà mai al suo ex dipendente nigeriano: l’azienda, infatti, cessa di esistere a ottobre del 2008. È nell’ultimo anno, però, che per gli amici di Tiziano i grattacapi si sono moltiplicati. A marzo del 2016, la Guardia di finanza di Arezzo perquisisce l’abitazione di un’altra vecchia conoscenza di Tiziano: Valeriano Mureddu. L’imprenditore, anche lui rignanese, è indagato per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. I magistrati ipotizzano che un cospicuo giro di denaro, frutto di evasione fiscale, sia stato impiegato per acquisire grandi società in ambasce economiche. E tra gli inquisiti c’è Flavio Carboni, il più misterioso tra i faccendieri italiani. Il nome di Mureddu aveva già avuto una certa ribalta. È stato lui, nell’estate del 2014, a fare incontrare proprio Carboni a Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria e padre di Maria Elena, sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Un colloquio in cui Boschi senior chiedeva suggerimenti per trovare il nuovo direttore generale dell’istituto aretino. La circostanza viene svelata da Libero. E Mureddu, compulsato dai giornali, conferma l’amicizia e i rapporti d’affari con Tiziano Renzi. Tra cui la vendita di un terreno, scoperta da Panorama, a Nerina Keeley, ex moglie di Mureddu. Un appezzamento che apparteneva a Renzi e ad Andrea Bacci, imprenditore di Rignano sull’Arno, anche lui adesso in pesanti ambasce. Bacci non è solo l’ex socio del padre del premier nella Raska service. O l’uomo che l’ha instradato al business degli outlet. È un fidatissimo amico di famiglia. Un rapporto poi mutuato dal figlio Matteo. Che nomina Bacci prima alla guida di Florence multimedia e poi nella Silfi, società pubblica di illuminazione. E, quando l’ex Rottamatore comincia la sua corsa verso la presidenza del Consiglio, l’impresario è tra i suoi primi finanziatori. Un’irrestibile ascesa che sembra però essersi interrotta a novembre del 2016. Quando la procura di Firenze chiede il fallimento della Coam: l’azienda di Bacci che, come documentato da Panorama, ha ristrutturato la villa di Matteo Renzi a Pontassieve, tra il 2004 e il 2006 (e, più recentemente, un immobile della famiglia di Luca Lotti). I magistrati, contestualmente, avviano ulteriori verifiche, ipotizzando ricorso abusivo al credito e distrazione di denaro dalle casse della società. Questa pesante situazione economica sarebbe la causa dei due atti intimidatori subiti da Bacci. Il 23 gennaio 2017 hanno sparato contro la sua auto. Il giorno dopo, invece, hanno centrato l’insegna della AB Florence, altra ditta amministrata da Bacci. Due settimane prima le cronache giudiziarie toscane si erano occupate di Luigi D’Agostino, imprenditore originario di Barletta, indagato dalla Procura di Firenze per false fatturazioni. D’Agostino costruisce, spesso proprio insieme a Bacci, outlet di lusso in tutta Italia. Un affare in cui ha coinvolto «babbo Renzi» come consulente. La collaborazione emerge nell’autunno del 2014 quando D’Agostino incontra il sindaco di Sanremo, Alberto Biancheri, per realizzare un centro commerciale nella città dei fiori. Alla riunione partecipa anche Tiziano Renzi, presentato come «responsabile della logistica». Ci sono però altri intrecci. Tra le società coinvolte nell’inchiesta fiorentina, ci sarebbe la Nikila invest, in mano alla compagna di D’Agostino, Ilaria Niccolai, pure lei indagata. E la Nikila invest è stata socia di Tiziano Renzi nella Party, con il 40 per cento a testa. Creata a novembre del 2014, viene però messa in liquidazione a gennaio 2016, travolta dalle accuse di conflitto d’interessi. L’ultima grana che coinvolge amici di Renzi senior è appunto l’affaire Consip. Il padre del già presidente del consiglio è accusato, assieme a Carlo Russo, di traffico illecito d’influenze. Nell’inchiesta sono indagati per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio anche il ministro dello sport, Luca Lotti, e il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Tullio Del Sette. Per i pm romani, che hanno ereditato il fascicolo dalla Procura di Napoli, Tiziano Renzi e Russo si sarebbero attivati per favorire Romeo. La posta in gioco era alta: un appalto da 2,7 miliardi per la gestione di servizi in tutti gli uffici pubblici italiani. Romeo, già finanziatore con 60 mila euro della fondazione renziana Open, alla fine la spunta: è primo in graduatoria per tre lotti, con affidamenti pari a 609 milioni di euro. L’asticella s’è decisamente alzata. Dalla bancarotta di una piccola azienda che distribuisce giornali all’appalto più grande d’Europa. Da un laghetto per la pesca sportiva a uno sterminato oceano. Ma Tiziano Renzi, audace come il figlio, sa navigare anche in mezzo agli squali.

La tela di Bocchino "Così gli appalti vanno alle coop per ritorni politici". L'ex Fli tra gli indagati: spiegava a Romeo i vantaggi del sistema Consip. Il ruolo del dirigente Gasparri. Ombre su De Luca e Caldoro, scrive Massimo Malpica, Giovedì 2/03/2017, su "Il Giornale". Tutto per gli appalti. Dall'ordinanza d'arresto di Alfredo Romeo per lo stralcio romano dell'indagine sulla Consip, emerge un quadro inquietante. Il presunto intreccio tra la fame di business dell'imprenditore partenopeo e la centrale acquisti della Pubblica amministrazione getta ombre oscure anche sulla Consip e sui suoi scopi. Che il «facilitatore» Italo Bocchino (indagato per traffico di influenze e ieri perquisito) riassume, intercettato con il suo datore di lavoro Romeo, ritagliando uno spazio speciale per le coop. È il 19 gennaio, e Bocchino racconta all'imprenditore «di esperienze legate al suo recente passato di parlamentare, dal quale emerge chiaramente che gli appalti di Consip devono essere gestiti per favorire prevalentemente le cooperative, in quanto rappresentano sia un bacino di voti dal quale poter attingere (a differenza dei grandi gruppi come Romeo) ed è anche e soprattutto un modo lecito per finanziare la politica e/o il politico di turno». Bocchino sembra anche rivelare una richiesta di soldi da un politico che gli inquirenti hanno oscurato: «Perché un politico - racconta intercettato l'ex parlamentare - può venire da te a chiederti sessantamila euro che ti ha chiesto (omissis), ma i mille pulitori sul territorio, sono mille persone che danno 5mila euro ciascuno, sono mille persone che quando voti si chiamano i loro dipendenti (...) quindi secondo me c'è una scelta politica». Sembra di rileggersi gli atti di Mondo di Mezzo, l'inchiesta su Mafia Capitale che aveva scoperchiato il malaffare nella cooperazione. O anche, come scrive il gip, il sistema, vantaggioso solo per la politica «cattiva», di «copertura capillare dei pubblici appalti mediante finanziamento illecito della politica già emerso 25 anni fa» con Mani Pulite. Più volte il grande accusatore di Romeo, il dirigente Consip Marco Gasparri, evoca nei suoi verbali i contatti altolocati di Romeo anche nella sfera politica. Proprio l'uomo Consip racconta che Romeo contava anche su altre fonti interne alla società, e aggiunge che a settembre dello scorso anno «mi disse che aveva fatto un intervento sui vertici della Consip attraverso il massimo livello politico. Non mi disse chi era il politico o i politici presso i quali era intervenuto, ma mi disse che si trattava del livello politico più alto». E per capire se l'intervento era servito, aggiunge Gasparri, Romeo «mi chiese se io avevo registrato un cambiamento di atteggiamento dell'Ad di Consip Marroni nei suoi confronti». Il gip racconta in che modo Romeo utilizzava gli hotel suoi o dei suoi familiari per «fornire a illustri ospiti vacanze gratuite, probabilmente nel contesto corruttivo qui in corso di esame». Come esempio, subito dopo, il giudice accenna al «soggiorno molto costoso (3.233 euro) presso l'albergo Romeo» offerto a Carlo Russo, l'imprenditore di Scandicci, amico di Tiziano Renzi e che pure il ministro Luca Lotti sponsorizzò con Michele Emiliano affinché il Governatore pugliese accettasse di incontrarlo. Ma i nomi di Russo e della sua compagna non sono gli unici riportati sul «pizzino» riprodotto nell'ordinanza. Dove si legge anche, per due volte, il nome del «presidente De Luca», al quale sarebbe stato offerto il 24 ottobre 2015 qualcosa relativo a «il Comandante» (nome del ristorante dell'hotel Romeo di Napoli) e un non meglio precisato «voucher». Sempre lo stesso foglietto riporta poi i nomi di altri «omaggiati» dal ristorante dell'hotel, il «sig. Lettieri» e il «sig. Caldoro». Il gip non si sbilancia, non dice se Caldoro è l'ex governatore campano (tra l'altro indagato nell'inchiesta Consip), non accenna se Lettieri sia il candidato sindaco del centrodestra a Napoli o un omonimo, né dice nulla sull'eventuale identificazione del «presidente De Luca» con il presidente Dem della Regione Campania Vincenzo De Luca. Non si azzarda a ipotizzare se quella fattura recuperata dalla carta straccia si riferisca a movimenti di soldi, o a dire se «tali vantaggi siano stati resi dal Romeo al fine di ottenere atti contrari ai doveri di ufficio e traffici di influenze». Ma di certo ha offerto «vantaggi gratuiti a terzi soggetti» dai nomi certamente suggestivi. Bocchino ha un ruolo chiave «per favorire i progetti criminali del Romeo», scrive il gip. Che poi riporta stralci di un'intercettazione tra l'imprenditore e il suo ex parlamentare-facilitatore. I due discutono di bandi a loro dire fatti su misura per favorire alcuni e danneggiare altri, tra cui la società Manital che, ricorda Bocchino, «piglia zero, zero... è fuori da tutti i lotti». E l'ex deputato conclude ricordando che «se loro (intesi come gruppo Romeo) non si fossero mossi con mirate entrature» avrebbero potuto puntare solo agli appalti campani: «Se non ci agitavamo come ci siamo agitati nell'ultimo anno - chiosa Bocchino - l'operazione era... chiuditi in Campania». Tra le tante chiacchiere intercettate c'è anche spazio per schermaglie verbali tra Romeo e il suo uomo in Consip Marco Gasparri, che a botte di 5mila euro a dazione avrebbe preso per la procura circa 100mila euro. Talvolta Romeo è sprezzante con il suo prezioso insider, come quando a settembre «schernisce il suo interlocutore per i suoi abiti: La vuole smettere di comprare sti vestitiell' e 40 euro, 35 euro al mercatino della stazione Garibaldi?». 

I pm di Roma ora indagano sugli uomini di Woodcock. Noe nel mirino per la fuga di notizie. Giallo sul mister X che papà Renzi si precipitò a incontrare a Fiumicino, scrive Chiara Giannini, Lunedì 06/03/2017, su "Il Giornale". Troppi spifferi e giro di notizie tra i soliti ignoti. Su questo tema interviene la magistratura e si fa sentire anche Marco Lotti, padre di Luca, ministro per lo Sport. È l'inchiesta dei padri. Marco Lotti dice, al margine di un incontro organizzato dal Pd a Montelupo fiorentino: «Mio figlio è tranquillo, noi un po' meno. La verità verrà fuori, e non mi interessa se verrà messa in 28esima pagina. Mi interesserebbe piuttosto che chi sparla poi venisse veramente punito. Chi volutamente dice menzogne o bugie, dovrà essere ripagato con la stessa moneta». La violazione del segreto istruttorio nell'inchiesta Consip è al centro dei procedimenti aperti contro ignoti dalla Procura di Roma. La fuga di notizie fa puntare il dito contro i pubblici ufficiali indagati e già sotto la lente d'ingrandimento. Tra questi spicca il generale Emanuele Saltalamacchia, comandante della Legione carabinieri Toscana, amico di Tiziano Renzi, che durante un pranzo a casa del padre dell'ex premier, secondo quanto riportato nelle intercettazioni dei militari del Noe, gli disse senza mezzi termini di «non parlare con Alfredo Romeo». Le misure prese dai pm riguardano anche la pubblicazione di alcuni atti d'indagine secretati. Per questo le indagini sono state tolte al Noe di Napoli, che lavorano spesso con il pm Henry John Woodcock, e sono state passate agli uomini del Nucleo investigativo di via in Selci a Roma. Saltalamacchia, indagato insieme al ministro Luca Lotti e al comandante generale dell'Arma Tullio Del Sette per rivelazione d'atti d'ufficio, anni fa era in servizio proprio a Napoli, alla «compagnia Vomero» e potrebbe aver avuto contatti proprio con i militari del Noe. Ed è giallo anche sull'incontro, a dicembre scorso, tra Tiziano Renzi e «Mister X» un misterioso personaggio che il padre del segretario uscente del Pd ha raggiunto all'aeroporto di Fiumicino. Renzi senior partì da Rignano sull'Arno, facendosi più di 300 chilometri, per vederlo per soli 44 minuti. Agli inquirenti, che lo hanno interrogato l'altro ieri, avrebbe detto che si era trattato di un «incontro di lavoro». Il fatto è che quel contatto corrisponde con la telefonata tra Roberto Bargilli, detto Billy, assessore di Rignano e autista del camper di Matteo Renzi e Carlo Russo, il faccendiere tra i personaggi chiave dell'inchiesta. La chiamata, a quanto pare, servì per dire a Russo di non chiamare Renzi senior perché si era appreso che il suo telefono era intercettato. Che la fuga di notizie sia arrivata dal famoso signore fotografato con Tiziano Renzi? «Scusami - disse Bargilli a Russo - ti telefonavo per conto di babbo, mi ha detto di dirti di non chiamarlo e non mandargli messaggi». Una strana coincidenza, visto che l'intercettazione aveva preso il via solo due giorni prima. Cosa certa è che gli interrogatori continuano. Ad essere sentito è stato, tra gli altri, il sindaco di Rignano Daniele Lorenzini. Russo si è invece avvalso della facoltà di non rispondere, mentre ascoltare Bargilli non è stato possibile. L'inchiesta Consip resta finalizzata a provare la rete di contatti volta a favorire i «soliti noti». Tiziano Renzi avrebbe detto ai magistrati che si è abusato del suo nome. Russo avrebbe agito per far avere appalti Consip ad Alfredo Romeo. L'amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, ha fatto presente ai giudici di aver «ricevuto pressioni»: «Carlo Russo - ha dichiarato - mi ha chiesto di intervenire sui commissari di gara per conto del babbo di Matteo e di Denis Verdini. Mi dissero che loro erano arbitri del mio destino professionale». Quanto a Russo, per i giudici era l'ipotetico destinatario dei soldi (100mila euro all'anno) che Romeo avrebbe versato su un conto di Dubai e che sarebbero passati come frutto di contratti di consulenza, in cambio di favori.

Inchiesta taroccata. Troppe fughe di notizie: la procura toglie le indagini agli uomini di Woodcock, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 5/03/2017, su "Il Giornale". La scorsa estate, secondo una ricostruzione pubblicata da Il Foglio e mai smentita, Massimo D'Alema andava confidando agli amici che Matteo Renzi sarebbe caduto presto per via giudiziaria. In quei giorni a indagare sul cerchio magico dell'allora premier era il mitico pm napoletano Henry John Woodcock, l'uomo dal grilletto (giudiziario) facile che, per le sue scorribande, si avvale, non si capisce a che titolo, degli uomini del Noe, il Nucleo operativo ambientale. All'alba di una mattina di qualche anno fa me li ritrovai pure io in casa. Woodcock ne aveva spediti dodici - dico dodici! - da Napoli a Milano e a Como per perquisire gli uffici e le case mie e del collega Nicola Porro. Secondo il noto pm noi due eravamo a capo di un complotto tipo demo-giudo-pluto-massonico ai danni dell'allora presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Seguì conferenza stampa alla procura di Napoli sulla nostra «macchina del fango» e conseguente gogna mediatica da parte di colleghi o ubriachi o in malafede. Sapete come finì? L'inchiesta fu tolta a Woodcock perché si scoprì che non aveva alcun titolo per farla. Io non venni mai convocato né interrogato, chi ereditò l'incartamento semplicemente stralciò il mio nome. Solo per giustificare i costi del viaggio dei dodici Noe, e tanto clamore, il povero Porro fu rinviato a giudizio e, ovviamente, assolto per non aver commesso il fatto. Questo è Woodcock, l'uomo che vuole sgominare il renzismo. Siccome la sua fama è ormai universale, ieri i suoi colleghi di Roma lo hanno di fatto estromesso dall'inchiesta. La Procura di Roma ha infatti revocato con effetto immediato la delega a indagare agli uomini del Noe al servizio del pm napoletano: troppe ambiguità nelle indagini, troppe fughe di notizie, troppi pasticci. Come dire: l'onore e la stabilità del Paese devono essere messi nelle mani di gente seria e responsabile. Questa inchiesta ha quindi già individuato un colpevole: il sistema Woodcock. C'è una giustizia - non mi riferisco a lui, a scanso di querele - che ha poco a che fare con i codici e col diritto e tanto a che fare con l'ambizione e il narcisismo mediatico, con la politica e il giornalismo. È come, anzi peggio delle logge segrete e malandrine che si prefigge di smascherare. Qualcuno se ne sta accorgendo: meglio tardi che mai.

Il pericolo è Woodcock. La maggior parte delle sue clamorose indagini è finita nel niente. Serve cautela per non consegnare l'Italia ai magistrati, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 4/03/2017, su "Il Giornale". Come andrà a finire l'inchiesta che vede coinvolti anche Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, e il ministro Luca Lotti lo vedremo. Essendoci di mezzo il pm napoletano Henry John Woodcock andrei molto cauto, la maggior parte delle sue clamorose indagini è finita nel niente (una riguardava anche il sottoscritto) dopo aver provocato danni enormi a persone e istituzioni (compresi i rimborsi, a nostre spese, per ingiuste detenzioni). «Cautela» è il consiglio non richiesto che mi permetto quindi di dare ai parlamentari presto chiamati a votare la sfiducia al ministro Lotti. E non mi riferisco tanto ai proponenti della mozione, cioè ai grillini, che i loro indagati (tipo la Raggi, sindaca di Roma) li incollano alle poltrone mentre quelli degli altri li getterebbero tutti dalla torre a prescindere, sperando di raccattare così un voto in più. Parlo di chi sulla pelle di Lotti vuole regolare altri conti. Che siano i deputati di opposizione, che sperano così di far cadere il governo Gentiloni, o quelli di maggioranza che si trovano sul fronte della guerra civile in corso dentro il Pd e più in generale dentro la sinistra. Alcuni di questi, per esempio Cuperlo ed Emiliano, sono già usciti allo scoperto sulla necessità che Lotti faccia un «passo indietro» per il bene comune. Un semplice avviso di garanzia, quindi, da oggi è sufficiente per pretendere le dimissioni? Passi che certe giravolte le faccia Grillo (parliamo di un comico). Ma che ad azzannare un compagno di partito siano dirigenti del Pd deve fare riflettere. E dire che è ancora fresca la lezione del presidente del Pd campano, Stefano Graziano, indagato per associazione mafiosa e poi prosciolto con le scuse del tribunale. E pensare che non è passato tanto tempo da quando Cuperlo ha votato, senza battere ciglio, la fiducia al governo Renzi, che aveva in squadra ben cinque indagati. Non prendiamoci per i fondelli, cari Cuperlo ed Emiliano. Lasciate stare il «bene del Paese» e abbiate il coraggio di dire che oggi volete la testa di chiunque giri attorno a Renzi per interessi politici vostri. Io ho usato l'altra sera in tv la parola «sciacalli» e vi siete offesi. Passatemi almeno «avvoltoi», o quantomeno «stolti» perché ancora una volta state consegnando il Paese ai magistrati. Io, come noto, non sto con Renzi né con Lotti. Ma meglio in mano loro che in quelle di Woodcock.

Riportiamo di seguito uno stralcio dell'articolo di Roberta Catania su Libero in edicola, lunedì 6 marzo 2017. Il tema è l'informativa del 9 gennaio scorso che ripercorre l'indagine Consip: ecco un dettaglio sull'incontro tra Italo Bocchino e Alfredo Romeo in cui il primo parla a ruota libera del pm Henry John Woodcock. Nel documento si legge il proseguo di quella conversazione in cui Bocchino spiega: «Dove stava questo prima di andare in pensione? (...) èh! Ti dicevo, non è del Servizio, è amico di questo, questo ha rubato, quindi, non vorrete, a meno che non lo mandano da Napoli perchè mi dicono che Woodcock stampa su altro (ndr fonetico in quanto parla sottovoce) s' è fissato che vuole acchiappà a Renzi». A questo punto i militari, che scrivono l'informativa proprio per il procuratore aggiunto di Napoli John Henry Woodcock, in evidente imbarazzo aggiungono come spiegazione: «L' accostamento dell'uomo dei Servizi alla Signoria Vosta non è ben chiaro, probabilmente deve aver riferito alle notizie su attività che Ella svolge». 

Le talpe di Woodcock che si salvano ogni volta rovinando gli indagati. La maledizione del pm che indaga su Consip. Tutte le inchieste sui "sabotatori" sono fallite, scrive Simone Di Meo, martedì 7/03/2017, su "Il Giornale". Dove c'è John Henry Woodcock, c'è una fuga di notizie. E dove c'è una fuga di notizie, c'è una inchiesta sulle «talpe» destinata a fallire. I «sussurratori» restano nell'ombra. Sempre. E alla fine, gli unici veri danneggiati sono gli indagati che si trovano crocifissi sulla stampa coi chiodi arrugginiti delle intercettazioni e dei verbali (in teoria) ancora top-secret. La carriera giudiziaria del pm anglo-napoletano è costellata da storie di «sabotatori» invisibili che spuntano, qua e là, tra le pieghe dei procedimenti. Anche nel fascicolo sull'immobiliarista Alfredo Romeo e sulla cricca della Consip c'è qualcosa che non torna. La Procura di Roma ha revocato la delega d'indagine, per quanto di competenza, al Noe, la forza di polizia giudiziaria a cui si è affidato l'ufficio inquirente partenopeo. In pratica, i pm di Piazzale Clodio vogliono capire chi ha scoperto le loro carte. E per farlo, devono giocoforza partire dai carabinieri del Noe un tempo guidato dal colonnello Ultimo. Agli investigatori vesuviani resta ben poca cosa del procedimento iniziale dopo il trasferimento degli atti nella Capitale: le accuse di concorso esterno in associazione camorristica a carico di Alfredo Romeo per i rapporti coi clan all'interno dell'ospedale Cardarelli, e alcuni episodi minori di corruzione sulla sanità in Campania. Il «Giglio magico», gli sconfinamenti nella politica, gli appalti pilotati, babbo Tiziano, Luca Lotti, i generali Del Sette e Saltalamacchia, e tutto quel che si portano appresso è saldamente nelle mani del procuratore Giuseppe Pignatone. Ai tempi dell'inchiesta-bomba sulla «P4», che sembrava dovesse mandar giù il Paese salvo poi fermarsi a due soli imputati condannati (Luigi Bisignani, un anno e sette mesi; Alfonso Papa, 4 anni e sei mesi) andò in scena lo stesso copione. JHW contestò all'ex capo di Stato Maggiore della Finanza Michele Adinolfi di aver rivelato a Bisignani di stare all'erta. A Roma, il gip lesse le carte e archiviò tutto. Un'altra fuga di notizie si verificò nell'inchiesta ancora sulle Fiamme gialle coinvolte in un presunto giro di mazzette. Nei guai finirono il colonnello Fabio Massimo Mendella, all'epoca comandante provinciale di Livorno, il comandante in seconda Vito Bardi (indagato pure nella P4) e l'ex generale Emilio Spaziante. I «suggeritori»? Sono rimasti nell'ombra. Ancor peggio va ai giornalisti, quando non si riesce a trovare chi abbia «sussurrato». Il direttore del settimanale Giorgio Mulè e il giornalista Giacomo Amadori vennero indagati per lo scoop di Panorama sulla presunta estorsione di Valter Lavitola e Gianpi Tarantini ai danni di Silvio Berlusconi. Le intercettazioni del premier e le chiacchierate in libertà degli indagati finirono in edicola a tempo di record, tirando in ballo anche soggetti del tutto estranei come la presidente della «Mondadori», Marina Berluconi. Risultati? Entrambi assolti a Roma (saranno condannati invece un avvocato e un cancelliere del tribunale partenopeo per aver copiato l'ordinanza di arresto dal pc del gip). Ma della «talpa» che consentì all'Espresso di pubblicare una conversazione addirittura prima ancora che fosse depositata davanti ai giudici non si è mai saputo nulla. La «maledizione delle talpe», John Henry se la porta dietro da Potenza. I «sabotatori» fecero capolino nel fascicolo sui viaggi gratis dell'ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio (archiviato); in quello su Vallettopoli e su Vittorio Emanuele di Savoia (arrestato e assolto); e nel procedimento su mafia e appalti (inchiesta «Iena», 51 arresti: decine di assoluzioni). In quell'occasione, l'indagine sulla fuga di notizie scatenò lo sciopero di 200 avvocati potentini.

 Consip, le fughe di notizie a ogni indagine di Woodcock: le "talpe" la fanno sempre franca, scrive il 7 marzo 2017 “Libero Quotidiano". Ogni volta che il magistrato John Henry Woodcook apre un'indagine sembra che il Paese debba implodere. Nel calderone delle sue inchieste finiscono imprenditori apparentemente agganciati in loschi traffici con i politici più in vista del momento, proni a servirli in cambio di mazzette generose per tutto il proprio sottobosco di fiancheggiatori. Dei dettagli più pruriginosi sono informatissimi i giornali, sempre ricchi di virgolettati e riferimenti diretti alle carte quando si tratta di un'indagine del pm napoletano. La classica fuga di notizie per la quale però nessuno viene mai beccato, in perfetta coerenza con le conclusioni delle sue inchieste: un nulla di fatto. L'ultimo caso solo in ordine di tempo è quello dell'inchiesta Consip, già spostata a Roma sotto il procuratore Giuseppe Pignatone e tolta dalle mani dei carabinieri del Noe che ne aveva la delega d'indagine. Da Roma vorrebbero capire chi e quando ha diffuso urbi et orbi le carte dell'inchiesta, magari prima che finissero nelle mani delle parti. Come ricorda il Giornale, i flop nella carriere di Woodcook possono candidarsi a genere letterario. La famosa inchiesta sulla P4, la fantomatica associazione per delinquere di stampo politico che puntava al golpe dello Stato italiano. La contestazione arrivò fino all'ex capo di Stato Maggiore della Finanza Michele Adinolfi, reo di aver avvertito Luigi Bisignani di stare attento. Tutto archiviato, tranne per le misere condanne a Bisignani e Alfonso Papa. Le talpe l'hanno fatta franca anche nell'altra inchiesta sulle Fiamme Gialle coinvolte in un presunto giro di mazzette. Anche di quell'inchiesta sono rimasti solo i fiumi di inchiostro su quotidiani e settimanali. Succede puntualmente che gli spifferoni in Procura non abbiano mai avuto un volto, come se quei faldoni fossero usciti dalla stanza degli inquirenti con le proprie gambe. Chi ci va di mezzo a volte sono i giornalisti, come nel caso dello scoop di Panorama sulla presunta estorsione di Valter Lavitola e Giampi Tarantini a Silvio Berlusconi. Sotto inchiesta sono finiti il direttore del settimanale Giorgio Mulè e il giornalista Giacomo Amadori. I due sono stati entrambi assolti, a pagare sono stati un avvocato e un cancelliere che hanno copiato l'ordinanza dal pc del giudice. Nessuna traccia della talpa che aveva permesso la pubblicazione delle intercettazioni prima che fosse depositata davanti ai giudici. E come dimenticare la mitologica inchiesta di Potenza su Vallettopoli e Vittorio Emanuele di Savoia, arrestato e poi pienamente assolto. Woodcook in Basilicata aveva indagato anche su mafia e appalti, arrestato 51 persone, rilasciati poi a decine. Sui giornali c'era una sorta di diretta secondo per secondo dell'indagine, troppo anche per gli esasperati avvocati potentini che scioperarono in 200.

J.H. Woodcock, il Pm che non ne indovina una, scrive Paolo Delgado il 10 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Ritratto semiserio del magistrato che si occupa del caso Consip, Il sostituto procuratore di Napoli vanta memorabili flop giudiziari, dall’inchiesta su Vittorio Emanuele, ai fantasmi della “P4”, passando per Vallettopoli. Da una settimana un solo nome riesce a riportare l’ombra del sorriso sulle facce tirate dei renziani, tanto gli ufficiali quanto i semplici fans. Lo stesso nome viene pronunciato ora come invito a massima prudenza, più spesso come speranzosa invocazione: John Henry Woodcock. «E’ una garanzia», si lascia sfuggire qualcuno, intendendo che quando l’inchiesta è in mano all’anglo- italiano si può scommettere sul flop. Non è malevolenza, il pregiudizio acidulo stavolta non c’azzecca. E’ che il sostituto procuratore di Napoli dal capello al vento colleziona flop ancor più delle adorate motociclette. Fossero inchiestucce di ordinaria amministrazione magari nessuno se ne accorgerebbe. Invece se il sospettato di turno non spopola sulle copertine, Woodcock neppure lo degna di un avviso di garanzia di quelli che non si negano a nessuno. Capita così che il clamore delle inchieste renda fragorosi i loro spompati esiti. I maligni spiegano la tendenza ai casi da prima pagina con un certo imprudente esibizionismo dell’uomo. I solidali giustificano invece con una foga moralizzatrice degna di Savonarola, che preferisce appuntarsi sui solitamente impuniti pezzi grossi invece che sui poveracci indifesi. Qualcuno si affida ai meandri della psiche: vedi mai che quel nomignolo appioppatogli da piccolo sui campetti di calcio, Chiattòvamporta, qualcosa sul tipo «Ciccione stai in porta», si sia trascinato dietro una certa ansia di rivalsa… Non è escluso che i più benevoli ci piglino. Woodcock, classe 1967, padre inglese, madre napoletana, nato a Livorno dove daddy insegnava all’Accademia ma cresciuto sotto il Vesuvio, sembra davvero uno che ce la mette tutta. Inizia a darci dentro alle 7 di mattina e non schioda fino a tarda sera, senza perdere tempo nemmeno di domenica. Vanta una faccia simpatica e cordiale, che non richiama i tratti scostanti del forcaiolo per vocazione. Solo che sapere se Johnny dia la caccia alla fama oppure ai pezzi da novanta incide poco. I risultati restano comunque desolanti. Eppure, il sostituto era partito col piede giusto. In toga dal 1996 e tre anni dopo in forze alla procura di Potenza aveva esordito con un paio di inchieste azzeccate, tanto da anticipare uno scoop delle “Iene” su un traffico di patenti facili a Potenza. Nel 2002 il primo colpo grosso: un’inchiesta su tangenti Inail che coinvolge un po’ bel di nomi importanti, tra cui i deputati Angelo Sanza (Fi) e Antonio Luongo (Ds) nonché il generale dei Carabinieri Stefano Orlando, responsabile della sicurezza di Cossiga. L’ex presidente riprende il piccone e va giù pesantissimo, suggerendo alla sostituta che lavora con John Henry, Gerardina Romaniello, una più fortunata carriera come presentatrice tv. L’inchiesta però almeno in parte regge. Il tribunale del riesame in realtà scarcera subito 6 imputati su 20, tra cui Orlando, e al processo molti degli inquisiti risulteranno innocenti, ma bene o male l’impianto tiene. Galvanizzato, l’anglo- napoletano sperimenta per la prima volta in grande stile il suo metodo, consistente del partire dal filone di un’inchiesta per poi allargare a volontà. E l’Inail si allarga peggio della rana della favola, fino a coinvolgere ben 78 personaggi celeberrimi: il futuro presidente del Senato Franco Marini, il segretario di D’Alema e oggi senatore Nicola Latorre, il diplomatico di serie A Umberto Vattani, il fratello del ministro Antonio Marzano, Ernesto, Gasparri e Storace, Tony Renis, la giornalista Rai Anna La Rosa. Botti da capodanno partenopeo. Ma con la polvere annacquata. Il Tribunale di Roma archivia. Woodcock non demorde. Nel 2004 la nuova inchiesta shock, detta “Iene- 2”, prende di mira i presunti legami tra un esercito di politici della Basilicata e l’immancabile criminalità organizzata. Roba fortissima. Il tribunale del riesame respinge tutte le 51 richieste di arresto. Capitolo chiuso. Segue un caso ancora più clamoroso nel 2006. Vittorio Emanule II in manette non sarebbe scandaloso in sé, avendo il sovrano sulle spalle l’uccisione di un ragazzo colpevole di disturbare l’augusto suo riposo alla fine dei ‘70. Il magistrato però lo ammanetta con altre accuse, tra le quali al primo posto lo sfruttamento della prostituzione. Sui giornali arrivano intercettazioni che neppure Travaglio riuscirebbe a far passare per collegate all’inchiesta, come i giudizi sprezzanti dell’aristocratico su Giuliana Sgrena, fresca di tragico sequestro a Baghdad. Gli imputati, ex re incluso, vengono tutti prosciolti. Vittorio Emanuele incassa la sola bella figura di tutta la sua incresciosa esistenza. Incurante dei colpi bassi riservatigli dalla sorte infame, il sostituto continua a mirare alto. Alla fine dello stesso anno indaga su “Vallettopoli” un’altra di quelle inchieste che mandano la stampa rosa in sollucchero e vellica le fantasie porno di mezzo Paese. Si parte da un presunto e turpe commercio carnale, per nulla disinteressato, tra il portavoce dell’allora ministro Fini Salvatore Sottile e la star del piccolo schermo Elisabetta Gregoraci. Stando alla diretta interessata il pm avrebbe insistito per dettagliate descrizioni del commercio medesimo. Sottile ci rimette la carriera, l’inchiesta si allarga fino a coinvolgere a vario titolo Lele Mora e Fabrizio Corona. Un processo che al confronto Sanremo fa la figura di una bettola per fanatici del karaoke finisce con Corona condannato. Tutto il resto è fuffa. Come lo è anche il caso P4 del 2011, che già dal nome evocava pupari incappucciati e associazioni per delinquere di quelle che nemmeno Cosa nostra. Però prima una sentenza del riesame, poi la Cassazione, certificano l’inesistenza di detta associazione. Non sono gli unici casi incresciosi nella non sfolgorante carriera di John Henry: l’elenco potrebbe proseguire. Ma anche gli orologi rotti due volte al giorno segnano l’ora esatta. Nei circoli renziani non ne trovi uno che non stringa le dita ben intrecciate pregando che l’inchiesta che coinvolge Tiziano Renzi e Luca Lotti non sia proprio quel malaugurato caso.

Inchiesta Consip, Sgarbi: una puttanata. Woodcock andrebbe arrestato. Vittorio Sgarbi commenta con Affaritaliani.it l’8 marzo 2017 l'inchiesta Consip.

Che cosa pensa dell'inchiesta Consip?

"E' una puttanata".

Una puttanata?

"Sì, finirà nel nulla come Why Not. Non si capisce neppure se è per pura stupidità o per mettersi in mezzo a questioni politiche pensando di ottenere risultati improbabili".

Cioè?

"Tolto Di Pietro, che l'unico che ha incassato con la sua azione contro la politica, questo poveretto di Woodcock non si capisce che vantaggio ne abbia".

Si parla di traffico di influenze nell'inchiesta...

"L'applicazione di un reato idiota che è stato determinato dal governo Monti, un altro governo iattura, ovvero il traffico di influenze, vuole semplicemente dire che una raccomandazione o un atto di propoganda diventa un reato perché uno ha un certo nome e quindi può influenzare".

Ma torniano al caso Consip...

"Si è scoperto che Tiziano Renzi non conosce Romeo e che Romeo aveva fatto un esposto per affermare che era vittima dei traffici della Consip... Insomma, tutto l'opposto. Qui arrestano le vittime. E' una bufala, la tipica nuvola di nulla di Woodcock che finirà nel nulla come tutte le cose che ha fatto. Questo magistrato dovrebbe essere cacciato dalla Magistratura e anche arrestato".

Addirittura?

"Certo, uno non può permettersi di rompere i coglioni e di fare inchieste che finiscono nel nulla con i nostri soldi".

E' una mossa contro Renzi perché voleva correre al voto?

"Se ci fosse un disegno sembrerebbe questo".

Ma...

"Non capisco il beneficio, salvo che non sia una forma di trama tra Emiliano e Woodcock. Occorrerebbe che uno si prestasse a fare il braccio di un progetto. Ma a chi conviene se non ad Emiliano? E quindi perché lo fa Woodcock? Non si capisce quale sia il cui prodest. E' un puro delirio".

Tutto molto strano, no?

"Uno si mette lì e dice: cosa faccio questa mattina? Indago il padre di Renzi. Chi cazzo se ne frega? Con quella barbetta che ha...".

Che cosa pensa, sempre parlando dell'inchiesta Consip, dello scontro tra Feltri e Belpietro? Lei con chi sta?

"Non sto con nessuno dei due e non sto contro nessuno, sono cazzi loro".

Ok, ma lo scontro c'è e bello forte...

"So che Feltri ha preso il posto di Belpietro perché Libero aveva scelto una linea che Belpietro, nella sua integrità ideologica non poteva perseguire e cioè il Sì al referendum costituzionale. Mentre un capitano di ventura come Feltri, anche se non gliene fregava niente e tendenzialmente era più favorevole al no, poteva dare un orientamento per il sì a Libero".

Entriamo nel dettaglio dello scontro...

"Quando Renzi ha sostenuto, e non si capisce bene se sia traffico di influenze, qualche questione relativa ad Angelucci, ovvero il proprietario di Libero, lo stesso Angelucci ha deciso di spostarsi dalla parte di Renzi".

Ed ecco il cambio di direttore...

"Belpietro non poteva accettare una posizione come quella e quindi ha fondato La Verità. Lo scontro tra i due deriva dal fatto che, per fare questo servizio a Renzi, Angelucci ha preso Feltri. E benché sia un grande giornalista, e io sono amico sia suo sia di Belpietro, certamente è una persona più disponibile ad assumere delle cause chiamiamole incoerenti. L'altro non poteva e non voleva visto che la sua indole è più rigida. Feltri può anche essere di destra ma poteva dire che gli andava bene il sì. D'altra parte la sua quota di sì poteva coincidere con una parte di Forza Italia, perché non solo i renziani hanno votato sì il 4 dicembre. Feltri non ha rinnegato nulla, ha dato questo orientamento a Libero e di fatto ha spodestato Belpietro, il quale si è trovato fuori gioco. E questa storia me l'ha raccontata lo stesso Belpietro".

Se fosse un senatore, voterebbe contro la sfiducia al ministro Lotti?

"Sì, voterei contro. Cazzo ha fatto 'sto Lotti? Ha comunicato a uno...tutte cretinate. Sono reati del cavolo e tipici di gente malata. E' una Magistratura malata e io spero di andare al governo per reprimere la Magistratura e le sue pulsioni teoretiche. Vuoi perseguire un reato? Persegui il reato di chi ruba, di chi è nella Mafia etc... Il traffico di influenze e i suggerimenti sono tutte cretinate".

Perché?

"Chiunque deve starsene zitto perché se ha una posizione sociale è influente. E' chiaro che io posso telefonare a chiunque in Italia e un altro no. Se un sindaco di un paese vuole telefonare al ministro dell'Interno ci mette sei mesi, se lo dice a me ci mette sei ore. Allora io sono titolare di un traffico di influenze? Chiunque abbia un minimo di notorietà fa traffico di influenze. E' un reato che non sta in piedi".

Quindi Lotti non si deve dimettere...

"Non ha fatto niente, ma con la faccia che neanche si rende conto di quello che ha fatto. Se fa una telefonata, pensa che sia giusto farla. Poi ah... ma è Lotti, il miglior amico di Renzi. E quindi scatta il traffico di influenze".

Inchiesta Consip, Bechis sul pm Woodcock: i legami con Matteo Renzi, scrive Franco Bechis il 9 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Nelle quasi mille pagine di informativa finora depositata nella maxi inchiesta Consip c' è probabilmente la possibilità di istruire dieci o dodici processi, perché i carabinieri del Noe e la procura di Napoli con il suo magistrato inquirente di punta, John H. Woodcock, si sono in due anni di indagini imbattuti in numerose ipotesi di violazione della legge. Al centro di gran parte di queste c' è Alfredo Romeo, il titolare dell'omonimo gruppo specializzato nel facility e nel property management e pronto a concorrere per l'ennesima volta ai maxi appalti gestiti dalla Consob. Il fatto però è che nessuno dei filoni di inchiesta è stato chiuso, magari rinforzato di altri elementi di prova e inviato al gip con buona speranza di istruire un processo. Navigando in quelle carte sembra che in ogni singolo episodio prima di chiudere nasca il germe di una pista di indagine successiva. È così che da una pista non banale sugli appalti dell'ospedale Cardarelli di Napoli, nel mezzo di uno sciopero di capisquadra di cantiere in cui si scorge un evidente scontro fra famiglie camorristiche si arriva alla fine passando da un girone infernale a un altro ai casi che hanno fatto più clamore: quello che coinvolge il ministro dello sport Luca Lotti e quello che ha portato ad indagare Tiziano Renzi, il papà dell'ex premier. L' impressione dalla lettura delle carte è che proprio questi due filoni così rilevanti sul piano politico siano i meno irrobustiti da elementi di prova e perfino da robusti indizi.

Cominciamo dal caso Lotti. Nella documentazione non c' è sostanzialmente nulla più di quel che sapevamo a dicembre quando divenne pubblico l'avviso di garanzia per il ministro. I fatti sono noti: qualcuno ha avvisato l'amministratore delegato della Consip, Luigi Marroni, di intercettazioni telefoniche e ambientali cui era sottoposto anche in ufficio. Marroni sapeva di essere ascoltato quindi e nonostante questo compie un atto fra i meno comprensibili che ci sia: parla davanti alle microspie avvertendo quindi la procura (e lui lo sa) di volere procedere a una bonifica che viene fissata per un giorno, e poi rinviata al giorno dopo. È lui stesso così a mettersi nei guai avvertendo gli inquirenti della fuga di notizie. Molti altri al suo posto avrebbero recitato da quel momento in poi: parlando in ufficio del più o del meno, magari tessendo in quei luoghi e al telefono lodi sperticate della magistratura, magari pure di quella napoletana dove c' è quel grande inquirente, che è Woodcock. Invece no: avverte la magistratura di fatto della fuga di notizie e procede alla bonifica. Anzi, non procede nemmeno, perché nel frattempo con una scusa i carabinieri arrivano in ufficio e tentano di spegnere le microspie mentre compiono una formale acquisizione di carte. Non ce la fanno con una di queste. Marroni, peraltro spaventato, va dai magistrati e racconta tutto quello che sa. È da lui che vengono le notizie determinanti su Lotti e pure su papà Renzi, che a suo dire gli avrebbe raccomandato un amico imprenditore, Carlo Russo, che vorrebbe correre per gli appalti Consip. Marroni elenca i vari avvertimenti che aveva avuto sull' inchiesta in corso, e dice che uno di questi è arrivato proprio da Lotti. Non c' è prova però, perché non ci sono nemmeno intercettazioni depositate che lo dimostrerebbero. Il ministro nega, e in questo momento c' è la parola dell'uno contro quella dell'altro. Ci sono altri personaggi (come Filippo Vannoni di Publiacqua) che ricordano di avere saputo qualcosa da Lotti su quella inchiesta. Ma vagamente, tanto è che non ricordano se la notizia fosse arrivata da lui o dal «suo braccio destro». È chiaro che serve altro materiale probatorio. Il nome del papà di Renzi invece percorre molti capitoli dell'inchiesta. Ma è soprattutto speso come una carta di credito da questo suo amico, il Russo. Non è escluso che millanti quel credito, e in ogni intercettazione di colloquio questo imprenditore sembra spararla più grossa di quel che è. Forse qualcosa di più sarebbe stato possibile conoscere se i gip avessero concesso subito ai pm di intercettare Tiziano Renzi. Ma l'autorizzazione curiosamente arriva solo il 5 dicembre 2016, il giorno dopo il referendum, quando il figlio Matteo ha già annunciato le dimissioni da palazzo Chigi. Due giorni dopo per interposta persona il Russo viene avvertito di non chiamare né scrivere più sms a papà Renzi. Sembrerebbe che qualcuno lo avesse avvertito di questa intercettazione. I magistrati seguono subito una pista, ma oggi sappiamo che non è buona: lo strano incontro a Fiumicino il 7 dicembre con un personaggio così importante per Tiziano Renzi che lui per vederlo poco più di mezz' ora in aeroporto si fa più di 600 km in auto. Ma ora sappiamo che quel personaggio è un fornitore del «babbo», non uno 007 o un agente in grado di fornire la soffiata sulla intercettazione. Manca anche qui la prova necessaria a fissare l'accusa. Il Russo peraltro sembra giocare più per se stesso che per altri. Tanto è che prima del referendum, dopo avere rassicurato Romeo di una sicura vittoria di Renzi nelle urne (gli dice che sono certi avendo visto le rilevazioni di Jim Messina, il guru Usa che ha seguito la campagna referendaria), nella settimana che precede il responso invece sembra pensare alla sconfitta e alla caduta di Renzi. Quindi fa pressing su Romeo per ottenere prima del 4 dicembre la formalizzazione di un contratto di collaborazione sicuro. E per fare vedere a Romeo che lui è utile anche senza avere i contatti di Renzi, si rivolge a un amico di una coop rossa per fare incontrare all' imprenditore napoletano una alta dirigente dell'Inps, che sta preparando un progetto di valorizzazione degli immobili che potrebbe interessare Romeo. Questo ultimo business e il contratto per Russo sfuma proprio per l'esplodere della inchiesta, che diventa pubblica proprio con l'avviso di garanzia a Lotti. Franco Bechis

La lotta tra carabinieri dietro la fuga di notizie, scrive Errico Novi il 7 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Inchiesta Consip, il trasferimento non gradito del mitico “capitano Ultimo” ha generato la faida all’interno dell’Arma che si è consumata a colpi di “indiscrezioni”. Dietro la clamorosa decisione del procuratore Giuseppe Pignatone di togliere le indagini Consip al reparto Noe dei carabinieri, ci sarebbe un fortissima tensione nella catena di comando dell’Arma. Attriti e dissensi che nascono dal trasferimento dell’ormai ex vicecomandante operativo dello stesso Noe, il mitico Sergio De Caprio alias Capitano Ultimo. Comprenderli significa anche rispondere a un interrogativo che il profano si pone già di fronte al- perché un reparto denominato Nucleo operativo ecologico, istituito per perseguire i reati ambientali, è impiegato in indagini sulla corruzione? Il merito è anche di carabinieri del valore e dell’intraprendenza dello stesso De Caprio. Lui, insieme con altri ufficiali, si è trovato una quindicina di anni fa in una complicata situazione: era al Ros, il reparto guidato in passato da Mario Mori e che in seguito alle disavventure giudiziarie di quest’ultimo aveva perso parte dell’antico prestigio. È per questo che all’inizio degli anni Duemila De Caprio ed altri chiedono di essere trasferiti al Noe, reparto dedito appunto alla tutela dell’ambiente ma che godeva già di alcune prerogative importanti, a cominciare dalla possibilità di operare sotto copertura. Proprio la presenza di militari del valore di Ultimo ha fatto sì che il Noe acquisisse mandati investigativi che altrimenti non gli sarebbero stati assegnati. Comprese indagini contro la pubblica amministrazione. Nel Noe, De Caprio assume qualche anno fa il ruolo di vicecomandante operativo. Il massimo grado a cui potesse aspirare con il suo grado, che non era e non è ancora quello di generale. Nell’estate del 2015 il primo duro colpo: il comandante generale Tullio Del Sette riorganizza il Noe e sottrae al vicecomandante De Caprio le funzioni di polizia giudiziaria. Ma dal suo ufficio nel quartiere Aurelio a Roma, Ultimo continua a esercitare una forte influenza sui militari abituati ormai a considerarlo un punto di riferimento. Gode di eccellenti rapporti con gran parte della magistratura inquirente. Non fa eccezione la Procura di Napoli e in particolare il pm Woodcock. Nei mesi scorsi si sviluppa l’indagine sul caso Consip, di cui in questi giorni si è saputo praticamente tutto. Il lavoro investigativo è condotto appunto dal Noe, istruito da Woodcock e dalla sua collega Celeste Carrano. L’incrinatura fatale arriva a fine 2016, quando Del Sette decide di assegnare De Caprio a un nuovo incarico. Non più al Noe ma al “reparto Interno” dell’Aise, il servizio segreto sull’estero. Un secondo schiaffo, almeno così lo vive De Caprio. E pure i suoi uomini: la seconda linea di comando, i tanti marescialli che lavoravano con Ultimo al Noe, sono agitatissimi. Pare che a Del Sette e al direttore dell’Aise Alberto Manenti esprima un forte dissenso lo stesso Woodcock. Arriva un nuovo vicecomandante operativo, ma è come se i vertici del Noe continuassero a riconoscersi nella leadership virtuale di De Caprio, e in ogni caso lavorano con la stessa determinazione di sempre sull’inchiesta Consip. Nell’ambito dell’indagine, nello stesso periodo, finisce indagato anche il comandante Del Sette. Le fibrillazioni a quel punto, com’è immaginabile, diventano fortissime. È in questo clima che si verificano le ripetute sconcertanti «rivelazioni di notizie coperte da segreto», come le definisce propriamente la Procura di Roma nel comunicato diffuso sabato scorso. Risentimento? Rancore? E con quali conseguenze? De Caprio potrebbe avere le sue ragioni per nutrire tali sentimenti. Si è visto trasferito e nello stesso tempo mortificato nell’aspirazione di acquisire il grado di generale. Si è reso conto di non essere tra le figure dell’Arma in stretta relazione di fiducia con l’esecutivo. Guarda a Emanuele Saltalamacchia, destino opposto al suo: comandante provinciale a Firenze, diventa generale senza neppure essere costretto a trasferirsi, perché gli viene assegnato come nuovo incarico il comando regionale sulla Toscana. Saltalamacchia, per inciso è a sua volta indagato per gli stessi reati contestati a Del Sette e Lotti: rivelazione di segreto e favoreggiamento. Tutto filtrato, come per gli altri due, dalle carte dei pm alla stampa. È un reato. Ad accertare chi l’ha commesso saranno altri carabinieri, del Nucleo investigativo di Roma. A cui ora la Procura capitolina ha deciso di affidarsi, forse anche per evitare che un fascicolo già caldissimo si arroventi ancor di più per le tensioni tra il Noe e il vertice dell’Arma.

Il ciclone Pignatone fa infuriare i giornalisti, scrive Piero Sansonetti il 7 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Il procuratore di Roma interrompe la continuità delle carriere tra magistratura inquirente e giornalismo giudiziario. Rovesciando una tradizione che aveva permesso a un drappello di Pm di lavorare spalla a spalla con i redattori di cronache giudiziarie dei principali giornali italiani. Un ciclone si è abbattuto sul giornalismo italiano. Si chiama Pignatone. Nelle redazioni dei giornali regna il panico. I grandi giornalisti d’inchiesta sono sgomenti, atterriti. Il ciclone è arrivato senza alcuna avvisaglia, imprevedibile. Pignatone – che per la precisione è il dottor Pignatone Giuseppe, classe 1948, Procuratore di Roma – ha deciso di interrompere la continuità delle carriere tra magistratura inquirente e giornalismo giudiziario, e ha stabilito che l’articolo del codice penale che impone il segreto d’ufficio sulle indagini preliminari va rispettato. Rovesciando una tradizione almeno quarantennale e ininterrotta che aveva permesso a un drappello abbastanza cospicuo di Pm di lavorare spalla a spalla non solo coi carabinieri e con la polizia, ma soprattutto coi redattori di cronache giudiziarie dei principali giornali italiani. I quali venivano stabilmente riforniti di notizie segrete – in modo assolutamente illegale ma altrettanto assolutamente tollerato – e di queste notizie facevano la parte essenziale del proprio lavoro, e anche del lavoro di intere redazioni e di molti direttori. L’altro giorno, con un gesto clamoroso, il dottor Pignatone – verso il quale, in passato, questo giornale ha spesso e volentieri rivolto svariate critiche e poche lodi – ha firmato un atto rivoluzionario, togliendo al nucleo dei carabinieri che si chiama “Noe” la titolarità delle indagini sul caso Consip e affidandola al nucleo investigativo dei carabinieri di Roma. Motivando la sua scelta in modo esplicito con la necessità di fermare la fuga di notizie e di far rispettare il codice penale costantemente violato da investigatori, Pm e giornalisti. E ora? La decisione di Pignatone ha creato sconcerto e rabbia. Il direttore del Fatto Quotidiano, si è scagliato contro di lui facendo con ironia notare che invece di prendersela con gli imputati, Pignatone se l’è presa con gli investigatori che indagano sugli imputati. Non è esattamente così: le indagini su chi è indiziato proseguono, solo che si interrompe il reato commesso per giorni e giorni da giornalisti e inquirenti che facevano trapelare notizie ad hoc, danneggiando ovviamente le indagini e danneggiando, ancor più ovvia- mente, gli indiziati (e il loro parenti…). Sebbene il ragionamento di Travaglio non regga, si capisce perfettamente però la sua furia. Il giornale che lui dirige, più di altri, si fonda programmaticamente sulla fuga delle notizie giudiziarie e sulla violazione del segreto ottenuta unificando le carriere di alcuni giornalisti (appunto: quelli detti di inchiesta) e di alcuni investigatori. Se Pignatone rompe questo gioco, per alcuni il danno è enorme. Il giorno prima della mazzata di Pignatone, un giornalista del “Fatto”, ospite da Mentana, alla Sette, aveva invitato i telespettatori a comprare il suo giornale il giorno successivo, per leggere una “fuga di notizie” clamorosa. Voi direte: beh, ingenuo questo ragazzo a parlar così! No, non era ingenuità, era solo un modo di parlare del tutto conseguente con il senso comune che dilaga nel giornalismo italiano. I giornalisti che fanno dipendere il loro lavoro dai carabinieri, o dai Pm, o da altri funzionari dello Stato o dei servizi segreti, non trovano che ci sia niente di male in questo loro modo di comportarsi: sono stati educati così, sono nati nel dopo– Tangentopoli, non hanno mai saputo che una volta il giornalismo di inchiesta era ricerca della notizia e non affiliazione a una banda politico– giudiziaria. Il giornalismo per bande è diventato negli ultimi anni una realtà accettata da tutti, considerata un fatto ordinario, legale, apprezzabile, persino ad alto contenuto etico. E i giornali si accorgono che nascono pochi bambini Così è successo che chi ieri abbia dato un’occhiata ai giornali online, sia rimasto un po’ stupito. C’è stato il ritorno in grande stilo della politica estera, sebbene non ci fossero molte notizie, o di temi non proprio nuovissimi come il calo delle nascite. La notizia che vengono al mondo meno bambini di un tempo, sebbene vecchia più o meno di 27 anni, ha conquistato tutte le home page. E il caso Consip è scivolato un po’ giù. Se i carabinieri non danno più notizie, vince l’ufficio stampa dell’Istat: meno bambini, ridotta la produzione industriale, inflazione bassa, e persino Gentiloni da Pippo Baudo! Roba fresca. Oppure la storia del misterioso Bill. Chi è Bill? Oddio Bill è sempre stato il nome di un personaggio misterioso nella storia recente italiana. Una volta, mi ricordo, era il nome di battaglia di un certo Urbano Lazzaro, partigiano controcorrente che diceva di essere stato lui ad arrestare Mussolini, a Dongo, e che a fucilarlo non fu il colonnello Valerio, come dice la storia ufficiale, ma nientedimenoché Luigi Longo in persona, cioè il luogotenente di Togliatti, forse per ordine degli inglesi che volevano fare dispetto agli americani o qualcosa del genere. Ora il misterioso Bill è invece solo l’autista di un camper che qualche anno fa scorrazzò Matteo Renzi nella campagna per le primarie. Il suo vero nome è Roberto Bargilli e in gennaio pare che abbia mandato un sms a quel Russo che dovrebbe essere uno degli uomini chiavi dell’affare Consip, per dirgli: “La pianti di telefonare a papà Renzi?”. Vi pare poco? Non è forse questo sms una prova quasi certa della colpevolezza diretta del presidente del consiglio? Beh, certo, non è chiarissimo quale sia il reato, ma non è molto importante. In realtà in tutto il caso Consip non è chiarissimo quali siano i reati principali. Dicono i giornali che si tratta di un clamoroso caso di corruzione per strappare un appalto miliardario. Benissimo: ma qualcuno ha preso il soldi per farsi corrompere? Qualcuno li ha dati? Qualcuno ha assegnato l’appalto?. No, questo, no, dicono i giornali, però…Ecco il problema è tutto qui: non c’è niente di male se gli inquirenti decidono di approfondire delle vicende che non appaiono loro chiare e che potrebbero nascondere fatti di corruzione e reati. E si adoperano per scoprire i reati, o impedirli, o punirli. E’ il loro lavoro. Il problema è che per un inquirente serio un indizio è un indizio, e cioè qualcosa che serve a cercare eventuali colpe, o viceversa a escluderle, e non è di per se una prova, né tantomeno è esso stesso il reato. Invece per i giornali, qualunque ipotetico indizio è il reato. Papà Renzi è andato a Fiumicino in auto e poi non ha preso l’aereo? Beh, è chiaro che è colpevole? Colpevole di che? Vedremo, vedremo, ma è colpevole… Il moderno giornalismo di inchiesta funziona così. Non fa inchieste, non cerca notizie. Riceve informazioni dagli apparati o da qualche altra figura istituzionale e decide non di informare ma di eseguire la pena. La frustata di Pignatone potrebbe avere effetti davvero imprevisti. Se la degenerazione del giornalismo italiano si dovesse trovare senza più ossigeno, magari anche dentro la nostra categoria si muove qualcosa. E a qualcuno viene in mente che lo Stato di diritto non necessariamente è il nemico dell’informazione.

Quell'intervista soft di Travaglio a Romeo per evitare la querela. Agli atti un colloquio in cui l'imprenditore svela i retroscena dell'articolo del «Fatto», scrive Anna Maria Greco, Lunedì 6/03/2017, su "Il Giornale".  Per i suoi affari Alfredo Romeo usava abilmente anche l'infiltrazione nel mondo editoriale e i rapporti con i giornalisti, utili ad ottenere appoggi politici e appalti d'oro. Nell'informativa degli investigatori alla base dell'inchiesta Consip si parla dei suoi traffici per diventare socio dell'Unità, in grave crisi e spunta una storia sul direttore del Fatto, Marco Travaglio. Il quadro è quello disegnato da conversazioni tra l'imprenditore napoletano arrestato per corruzione e Carlo Russo, imprenditore fiorentino amico di famiglia dei Renzi, intercettate dai carabinieri nel settembre 2016. Russo spiegava a Romeo che Matteo Renzi era «indiavolato» con gli azionisti della società editrice dell'Unità, per la situazione della testata e gli suggeriva di salvare il giornale con un'operazione di «un paio di milioni», soprattutto per ingraziarsi l'allora premier e avere un'occasione di contatto in più con il padre Tiziano, che in passato si è occupato anche di distribuzione ed editoria. «Riguardo alla molto probabile pubblicazione della notizia che il Romeo abbia acquisito L'Unità,- si legge nel riassunto che gli investigatori fanno del colloquio - quest'ultimo racconta un episodio che gli è occorso tempo addietro con il noto giornalista Marco Travaglio. In sintesi il Romeo racconta che il Travaglio gli fece diversi attacchi mediatici e che poi, a seguito della smentita delle informazioni che aveva in possesso il giornalista, per evitare beghe giudiziarie che avrebbero portato alla chiusura del suo giornale, accettò di fare un'intervista al Romeo che, a detta di quest'ultimo, lo fece uscire a testa alta, quindi il Romeo ritiene che proprio per tale motivo Travaglio si asterrà dal fare attacchi se dovesse divenire pubblica la notizia dell'acquisto dell'Unità, tant'è che afferma: Da allora non ha più toccato l'argomento Romeo». Pochi mesi dopo fu proprio Il Fatto, subito dopo La Verità di Maurizio Belpietro (altro quotidiano sul quale Romeo cercava di allungare le mani, sempre spinto da Russo), a pubblicare le prime notizie sull'inchiesta Consip. Ma quella «dolce intervista» (come l'ha definita Mattia Feltri de La Stampa su Twitter) di Travaglio a Romeo non è sfuggita all'attenzione, attirando gli sfottò dei lettori sul web. Anche perché l'imprenditore la tiene in bella mostra sul suo sito internet. È del 16 maggio 2015: Romeo era appena stato assolto dalla Cassazione dopo due condanne per peculato e 79 giorni a Poggioreale. Le domande del solitamente agguerrito Travaglio sono pacate e accomodanti, mentre Romeo parla di responsabilità civile dei magistrati, dubita della «loro competenza e onestà intellettuale». Romeo ricorda che chi sbaglia paga e sembra rivolgersi ai giornalisti, oltre che alle toghe. Poi elogia il garantismo di Renzi, strizzando l'occhio al babbo.

Inchiesta Consip, Gaetano Quagliariello: "I finanziamenti di Romeo a Magna Carta al quotidiano di Belpietro", scrive il 6 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. "Non so se Romeo abbia versato oppure no un contributo a Magna Carta, ma so che, indipendentemente dalla presenza della fondazione nell'azionariato de La Verità, nessuno dei finanziatori dell'ente ha mai influito sulle nostre scelte redazionali". Così Maurizio Belpietro su La Verità di domenica 5 marzo. Il direttore scriveva di quanto emerge dalle carte dei magistrati sull'inchiesta per l'appalto Consip, indagine per la quale è finito in cella l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo e nel cui ambito, tra gli altri, sono indagati Tiziano Renzi e Luca Lotti. Il punto è che in quelle carte spunta il nome di Belpietro, lo cita Italo Bocchino, consulente di Romeo, il quale suggerisce all'imprenditore napoletano di finanziare il nascituro quotidiano di Belpietro. E ancora, Bocchino suggerisce di far arrivare il finanziamento attraverso la fondazione Magna Carta, del senatore Gaetano Quagliariello, per una serie di ragioni fiscali. E anche perché, così facendo, non figurerebbe direttamente tra i finanziatori. Sempre Bocchino rassicura Romeo del fatto che "Belpietro non avrebbe nulla da obiettare riguardo alle modalità dell'erogazione". Dunque si torna a quanto scritto da Belpietro, di cui vi abbiamo dato conto nell'attacco del pezzo: il direttore affermava di "non sapere se Romeo abbia versato" quei soldi. Insomma, il direttore diceva di non sapere se quel denaro era stato ricevuto oppure no e, nel caso e soprattutto, da chi quel denaro arrivasse. Ma a mettere i proverbiali puntini sulle i, ora, ci pensa proprio Quagliariello. Lo fa in un colloquio con il Corriere della Sera, nel quale parla dei contributi in denaro elargiti da Romeo a varie fondazioni, tra le quali la Open che sostiene Matteo Renzi. E il senatore, oggi leader di Movimento Idea, conferma che Romeo ha finanziato anche la sua fondazione, Magna Carta. Quagliariello entra nel merito di quel finanziamento, sottolineando la natura lecita di quella contribuzione, che risale al 2016. E ammette candidamente: "Si trattava di finanziamenti destinati a un progetto editoriale, che sono andati al quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, La Verità". E ancora, spiega che si tratta di un contributo regolarmente tracciato: "Certamente, può controllare. Compare nel nostro bilancio. Ed è messo sul sito della nostra organizzazione, come tanti altri". Tutto alla luce del sole dunque. A questo punto, insomma, come scriviamo su Libero in edicola oggi, si può parlare a pieno titolo di "Belpietro finanziato a sua insaputa".

La Verità di Maurizio Belpietro, Alfredo Romeo è di fatto il secondo socio, scrive di Giuliano Zulin, scrive il 7 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. Gaetano Quagliariello, senatore ex Pdl, Ncd e ora Idea, conferma: i soldi di Romeo, arrestato una settimana fa con l’accusa di corruzione, li ho girati a Belpietro. La vicenda, per chi se la fosse persa, è la seguente: nelle 986 pagine dell’informativa sulla quale si basa l’inchiesta Consip, c’è un passaggio che tira in ballo l’attuale direttore de La Verità, fondata dopo aver lasciato Libero. A pagina 524 si legge di un’intercettazione ambientale registrata «il 21 settembre, alle 11.38, nella stanza 1 della “Romeo Gestioni Roma”… Bocchino introduce la questione del giornale di Belpietro, dicendo che oggi dovrà vedere Gaetano, verosimilmente fa riferimento al senatore Gaetano Quagliariello e consiglia a Romeo di versare 50.000 euro per il tramite di Quagliariello e di farlo tramite “erogazione liberale” alla sua fondazione, operazione questa vantaggiosa anche dal punto di vista fiscale: “50.000 mila euro a Magna Carta e ti levi da tutti gli imbrogli”, di modo da evitare un’esposizione eccessiva del Romeo nell’operazione editoriale di Belpietro, che resta sempre un giornalista “pericoloso”. Romeo chiede quindi se Belpietro accetterebbe questo iter e Bocchino conferma, dicendo che ha già parlato con Belpietro, il quale ha un buon rapporto con Quagliariello, e che al giornalista “non gli interessano le modalità di versamento del denaro”». Domenica, su La Verità, Belpietro raccontava di «non sapere se Romeo abbia versato o no un contributo a Magna Carta». Ebbene, la conferma del giro di denaro è arrivata ieri direttamente da Quagliariello. Prima con un’intervista al Corriere della Sera, poi con un post sul sito loccidentale.it. Al quotidiano di via Solferino rivela: «Romeo fece un finanziamento di 50mila euro alla fondazione Magna Carta», soldi «destinati a un progetto editoriale, che sono andati al quotidiano La Verità». Un concetto spiegato meglio sul sito legato alla fondazione Magna Carta, di cui Quagliariello, ex ministro delle Riforme, è il fondatore: «Quando l’idea di Belpietro di intraprendere da zero (e in tempi record) una iniziativa editoriale prende forma, decido di dargli una mano (…) Attraverso una specie di “call” vengono informati del progetto gli imprenditori che nel tempo avevano avuto rapporti con la fondazione o dato contributi finalizzati alla realizzazione di progetti specifici, tutti rigorosamente registrati e riportati nei bilanci consultabili di Magna Carta. Fra questi Alfredo Romeo (siamo in epoca nettamente antecedente alle prime notizie sul caso Consip, e nella sua precedente vicenda giudiziaria era stato assolto. L’azienda di Romeo lavorava per tutte le principali istituzioni dello Stato, Procure della Repubblica comprese). Con lui, peraltro, l’interlocuzione risulta facilitata dal suo rapporto di collaborazione con Italo Bocchino (ex braccio destro di Fini, ndr), esperto di editoria nonché mio “omologo” alla Camera quando io ero vicecapogruppo del PdL al Senato, e soprattutto dal fatto che, quando mi era capitato di parlare con Romeo, le nostre conversazioni si erano sempre limitate a scambi di vedute su temi politici e mai neanche lontanamente avevano lambito questioni di affari. (…) Affinché l’iniziativa a sostegno de La Verità andasse in porto ho incontrato Bocchino, e a volte lo stesso Romeo. Non solo loro, ovviamente. Diversi fra gli imprenditori contattati hanno accettato di contribuire, in assoluta trasparenza, e l’intero ammontare delle erogazioni è stato utilizzato da Magna Carta per sostenere La Verità entrando con una quota minoritaria». E in effetti Magna Carta è azionista de La Verità. Con una quota minoritaria, ma non proprio insignificante. Dall’ultima visura camerale emerge infatti che la fondazione di Quagliariello è la seconda socia, dietro il 45,88% di Belpietro, con il 18,52% della società che edita il quotidiano. Una percentuale che vale 100.000 euro, visto che il capitale sociale è di 540.000 euro. Quindi ci sono altri imprenditori, oltre a Romeo, che attraverso la fondazione di Quagliariello hanno finanziato il quotidiano. Ora, esaminando in trasparenza l’azionariato del giornale, si arriva alla seguente conclusione: con i 50.000 euro versati a Magna Carta, Romeo, l’imprenditore napoletano accusato di corrompere chiunque pur di arrivare al più grande appalto europeo, è il secondo socio de La Verità. Con una quota pari a quella di Benedetto Nicola (assessore regionale della giunta rossa in Basilicata), Ferruccio Cristiano Invernizzi (patron di Pronto Gold) ed Enrico Scio (consulente finanziario): tutti al 9,26 per cento.

"Siete pagati da Romeo". La rissa Feltri-Belpietro sui rapporti con la cricca. «Libero» mette sotto accusa i fondi alla Verità. La replica: "Ecco gli affari del vostro editore", scrive Paolo Bracalini, Mercoledì 8/03/2017, su "Il Giornale". A margine dell'inchiesta sul sistema Romeo è scoppiata una guerra tra Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttori rispettivamente di Libero e La Verità. La zuffa nasce da un'intercettazione in cui Italo Bocchino, consulente dell'imprenditore napoletano, suggerisce di finanziare il giornale di Belpietro per il tramite di una «erogazione liberale» di 50mila euro alla fondazione «Magna Carta» di Gaetano Quagliariello, «così ti levi da tutti gli imbrogli» e ti tieni buono - è convinto Bocchino, già noto per gli ottimi consigli a Fini - un giornalista «pericoloso» come Belpietro che «ha le conoscenze giuste e una serie di informatori importanti». La vicenda viene raccontata domenica in prima pagina dal quotidiano di Feltri, con due foto affiancate di Belpietro e Romeo e il titolo «Bocchino a Romeo: diamo soldi a Belpietro». Nello stesso giorno però il direttore della Verità (che ha lavorato con Feltri dall'Indipendente fino allo stesso Libero, guidato da entrambi per qualche mese nel 2011) dà la sua versione dell'episodio: «Ieri ho scoperto che Alfredo Romeo sperava di riuscire a condizionare La Verità. Finanziando la fondazione (di Quagliariello, ndr), Romeo - non so se per conto di Matteo Renzi o di altri - contava di ammorbidire un giornalista ritenuto pericoloso da Bocchino e partner. Sta di fatto che se questo era il gioco, se c'era l'intenzione di tappare la bocca a me e ai miei colleghi, il disegno non è andato in porto. Siamo infatti tra i pochi giornali a non aver taciuto l'inchiesta Consip, il ruolo di Romeo e i legami con il Giglio magico». Fine del duello cartaceo? Nemmeno per sogno, i due quotidiani tornano subito a fare a cazzotti. Su Libero, il giorno dopo, compare un fondo dal titolo «Belpietro finanziato a sua insaputa». Nell'articolo, firmato con la «L» di Libero, si mette in dubbio la versione del direttore della Verità: «Per la conoscenza non superficiale che abbiamo dell'uomo, straordinariamente attento e preciso, ci risulta difficile pensare che abbia ricevuto denaro senza informarsi di chi glielo fornisse e soprattutto del perché lo facesse. L'ipotesi che sia stato finanziato a sua insaputa ci lascia sgomenti». Tempo di tornare in edicola, e tocca a Belpietro rispondere. Con un editoriale («Se l'anonimo che ha vergato il corsivo su Libero sapesse leggere, avrebbe scoperto che è lo stesso Romeo a non sapere di aver versato un contributo al nostro giornale», come si evince da una conversazione appunto tra Romeo e Bocchino), e poi con due pagine che ricostruiscono i rapporti tra «la cricca dello scandalo Consip» e Antonio Angelucci, deputato verdiniano ed editore proprio di Libero. Nei brogliacci si riporta una conversazione in cui Bocchino parla di un incontro con Angelucci a proposito di Aeroporti di Roma. Poi ci sono le pressioni di Verdini, con le fatture degli Angelucci in mano, per ottenere una linea più morbida su Renzi, perché dal governo dipendeva il pagamento di «centinaia di milioni che Angelucci reclamava dalla Regione Lazio». Quindi, citando sempre le intercettazioni, si parla di un appalto aggiudicato da un consorzio che, a detta del faccendiere Carlo Russo, amico di papà Renzi, sarebbe vicino a Verdini. Russo aggiunge: «I soldi li ha portati a casa Verdini», su cui poi svela un episodio. «Pensi che Verdini aveva delle difficoltà (...) e Angelucci s'è comprato la casa di Verdini (incomprensibile, farfuglia) 'sti soldi insomma. E però doveva in qualche modo rientrare». La storia è spiegata poi in dettaglio in un altro pezzo («Il padrone di Libero comprò immobili del politico indebitato. Entrambi compaiono nell'informativa»). Mentre Feltri risponde con un'intervista a Quagliariello: «I soldi a Belpietro li ho portati io». Ultima puntata del duello. Finora.

I soldi (segreti) alle fondazioni politiche, da Quagliariello a D’Alema. L’elenco di soci e donatori può restare nascosto con lo scudo della privacy. Le 65 sigle della politica che raccolgono fondi, scrive Dino Martirano il 6 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Il «moto di forte attrazione», tra fondazioni politiche e imprenditori carichi di liquidità, lo spiega il senatore Gaetano Quagliariello che ha accettato un finanziamento di Alfredo Romeo (50 mila euro) per la sua Magna Carta decisa a sostenere il quotidiano La Verità. Racconta dunque l’ex ministro per le Riforme del governo Letta, sul sito dell’Occidentale: «Attraverso una specie di call vengono informati del progetto gli imprenditori che nel tempo avevano avuto rapporti con la fondazione o dato contributi destinati a progetti specifici, tutti rigorosamente registrati e riportabili nei bilanci consultabili di Magna Carta. Fra questi Alfredo Romeo... con lui, per altro, l’interlocuzione risulta facilitata con il suo rapporto di collaborazione con Italo Bocchino...».

E Italo Bocchino, ex deputato del Pdl, braccio operativo dell’imprenditore Alfredo Romeo (arrestato), oggi indagato nell’inchiesta Consip, conferma che, spesso, l’iniziativa la prende la politica: «Romeo, in una lettera precisazione inviata dopo una puntata di Report in cui si parlava dei finanziamenti legittimi fatti a varie fondazioni, puntualizzava: “Nessun finanziamento era stato fatto se non richiesto...”». Nelle 65 fondazioni politiche (tante ne ha censite Openpolis), il cui numero è lievitato dopo l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, la trasparenza è un optional: il 93,33% della fondazioni omette, con la scusa della privacy, di rendere accessibile l’elenco dei soci e dei donatori. Poca trasparenza, dunque, anche se poi i 60 mila euro donati nel 2014 dalla società della moglie di Romeo alla Fondazione Open (il motore del fundraising di Matteo Renzi) erano stati oggetto di un’intervista dell’allora sindaco di Firenze: «Io quel finanziamento non l’avrei accettato...». Ma quei soldi andavano restituiti? «Non so, chiedetelo alla Fondazione», tagliò corto Renzi. Per il resto, il biglietto da visita di Open ce l’ha in tasca il presidente, l’avvocato Alberto Bianchi, che oltre a essere consigliere d’amministrazione dell’Enel è «arbitro» nelle controversie che investono la Consip.

Luciano Violante (Pd), che dirige l’Associazione Italia Decide, è tra i 4 presidenti (su 65) ad aver messo in chiaro chi sono i suoi finanziatori: «Intesa, Unicredit, Eni, Fs, Enel, Finemecacnica, Poste...», risponde l’ex presidente della Camera: «Romeo? No, non è tra i nostri». Ermete Realacci (Pd), con la Symbola (un centro di ricerca sull’ambiente che pubblica anche in cinese) chiede ai suoi sostenitori di metterci la faccia: «Donazioni in chiaro e poi mettiamo un tetto, 10 mila euro all’anno, perché il piccolo imprenditore conti come Coldiretti, Confartigianato, Legambiente, Enel e Unioncamere». E Romeo? «Conoscendoci, non si è fatto vedere», ride di gusto Realacci.

Antonio Misiani, l’ex tesoriere del Pd che oggi sostiene Andrea Orlando alle primarie, ha presentato una proposta di legge per equiparare le fondazioni ai partiti, togliendo anche il vincolo della privacy: in questo modo tutte le donazioni superiori ai 5.000 euro (massimo 100 mila euro) dovrebbero essere pubbliche. Invece ora, come dice Misiani, «nelle fondazioni ognuno fa come crede». Italianieuropei (fondazione, associazione e rivista con sede in piazza Farnese), fondata nel ’99 da Massimo D’Alema e da Giuliano Amato, conferma la «policy di riservatezza» sui finanziatori: che siano Coop, industriali italiani o solidi gruppi internazionali. Sul bilancio depositato da Italianieuropei c’è il totale delle donazioni ma non i nomi dei donatori che pure, almeno alle cene di finanziamento organizzate a Palazzo Rospigliosi, sono usciti parzialmente allo scoperto anche se sui segnaposto non c’era scritta l’entità della donazione.

Da una inchiesta di Milena Gabanelli (Report) risulterebbe che l’imprenditore Romeo ha finanziato in parte le campagne elettorali di Luca Zingaretti, Gianni Cuperlo, Nicola Latorre e degli scissionisti dell’Idv. Tutto legittimo e quasi tutto tracciato anche perché, come diceva Michele Emiliano (Pd) quando anche lui era iper-renziano, «risulta che Romeo finanzi tutti i politici italiani». Comunque, aggiungeva il competitor di Renzi alle primarie, «io il finanziamento di Romeo non l’avrei accettato». E dice di tenersi alla larga dalle tentazioni anche Maurizio Gasparri (Forza Italia) con Italia Protagonista che «è una fondazione low cost...». La persistente opacità di alcune fondazioni, dunque, non viola la legge. Ma per mettere fine alla giungla ci sarebbero almeno due soluzioni: seguire Pippo Civati (ha convertito la fondazione È possibile in un partito che accetta solo donazioni online) oppure stabilire regole uguali per tutti. Con una leggina che da anni giace alla Camera.

E Bocchino chiese aiuto a Fini per arrivare al «camerata» Cantone. L'ex parlamentare chiamò l'ex leader Fli quando seppe che lo sceriffo anticorruzione in gioventù aveva simpatie di destra, scrive Massimo Malpica, Martedì 7/03/2017, su "Il Giornale".  Accerchiare Raffaele Cantone, magari utilizzando anche Gianfranco Fini, insospettabile (ex) idolo del presidente Anac. Tra gli obiettivi del Gruppo Romeo c'era anche quello di entrare nelle grazie del capo dell'Anticorruzione, e a lanciare i primi ganci è proprio il «capo», Alfredo Romeo. A settembre del 2015 va a trovare il numero uno dell'Anac per invitarlo a un convegno del Cresme in programma a Roma due mesi dopo, convegno al quale, poi, partecipano entrambi. Oltre agli ovvi motivi per i quali l'imprenditore era interessato a coltivare questa relazione, c'era anche il parere che l'Anac avrebbe dovuto dare sulla revoca della gara Consip assegnata alla coop modenese Cpl Concordia che, per i suoi guai giudiziari, era uscita dalla white list degli appalti. Ma l'Anac, dopo aver «caldeggiato» la revoca in un parere, accolto con gioia da Romeo, non provvede a cancellare l'aggiudicazione di quell'appalto. Così nel tessere la rete per agganciare Cantone prosegue il «superconsulente» di Romeo, l'ex parlamentare di An, Pdl e Fli Italo Bocchino, ora indagato per traffico di influenze. Che, tra l'altro, nell'estate 2016 viene intercettato mentre spiega che a firmare un ricorso amministrativo per conto della Romeo era stato l'avvocato Bruno Cantone, fratello di Raffaele, anche se «la regia» del ricorso era in realtà attribuibile a un altro legale. Ma Bocchino non lascia nulla d'intentato. E quando a inizio gennaio 2016 Il Foglio pubblica un'intervista a Cantone nella quale il capo dell'Anac rivela di aver avuto simpatie destrorse, arrivando da ragazzo a «marinare la scuola» per andare a un comizio dell'allora presidente del Fronte della Gioventù Gianfranco Fini, Italo coglie l'occasione. E nel primissimo pomeriggio del 4 gennaio chiama il suo vecchio leader. «Come stai?», esordisce, e l'ex terza carica dello Stato replica: «Tutto bene, tu?». Bocchino a quel punto non si perde in chiacchiere. «T'avevo chiamato... ma una telefonata a Cantone l'hai fatta?». «Sì, sì, l'ho fatta - replica Fini - e lui m'ha detto: ah, ah, ti prego non strum... non esagerare». Bocchino si compiace del gesto «di carineria, di ringraziamento» fatto dal compagno di Elisabetta Tulliani, ma Fini non sembra troppo entusiasta del nuovo «fan» Cantone. Ricordando con Bocchino l'ultima volta che l'ha incontrato: «L'avevo visto, tra l'altro, quando è stato? Un mese fa... a quel convegno fatto a Roma (forse proprio quello del Cresme, ndr)…c'era D'Alema, anche...». E Cantone, quella volta, non era stato tanto affabile con Fini. «Era stato anche molto freddo... nel senso che era arrivato, aveva detto quattro cazzate e poi se n'era andato». Bocchino accenna a «una cortesia personale» che Cantone gli avrebbe chiesto in passato, criticando poi l'aria da «riserva istituzionale» assunta dal numero uno Anac negli ultimi tempi. Fini concorda: «Sì sì, perfetto... esatto», poi confida all'amico che, secondo lui, Cantone s'è pentito di aver fatto outing da camerata giovanile. «A me aveva dato nettamente l'impressione di essersi pentito di quello che aveva detto», sospira Fini, per poi chiudere amaramente: «Anzi, non mi meraviglierei se fra qualche tempo dicesse pubblicamente che s'era sbagliato».

I consigli di Bocchino a Romeo: "Fai l'anticamorra". L'ex Fli voleva agganciare il Questore di Napoli per fermare i controlli al cantiere dell'imprenditore, scrive Massimo Malpica, Mercoledì 8/03/2017, su "Il Giornale". Consulente a tutto tondo. Dagli atti dell'inchiesta sulle interferenze per gli appalti Consip salta fuori, al fianco dell'imprenditore Alfredo Romeo, il ruolo di Italo Bocchino e la sua fantasia nell'immaginare soluzioni ai problemi più disparati. Così, dopo aver provato a sfruttare il presunto ascendente su Raffaele Cantone del suo ex leader Gianfranco Fini, ecco Bocchino alle prese con una nuova grana di Romeo. Che, dopo aver vinto la gara per il Cardarelli, riceveva frequenti «visite» delle forze dell'ordine in cantiere, per controlli e verifiche. Romeo non ha dubbi: la regia occulta della manovra di disturbo arriva dal gestore uscente del servizio, che tra l'altro era imparentato con un alto funzionario della polizia. Come uscire dall'impasse? Il 12 giugno 2015 Romeo chiede suggerimenti sul punto a Bocchino, che pensa subito a interessare il questore di Napoli, per risolvere il problema: «L'unica cosa da fare sarebbe andare dal Questore e dire sì capisco che il mio concorrente, il mio competitor è cognato di Masciopinto però state un po' esagerando, e metterli in imbarazzo». Subito dopo, però, Bocchino pensa all'antica arte della diplomazia, e sonda un po' il terreno per cercare di trovare un aggancio con il comandante dei carabinieri che si era fatto vivo in cantiere. «Vuole capire - scrivono gli inquirenti - chi della loro ex area (politica) ha rapporti con quel mondo, ovvero con quello dell'Arma dei Carabinieri». Il suo contatto però non ha molto da consigliare, pensa semmai a interessare il sottosegretario alla Difesa in quota Ncd: «Dell'area ex nostra nessuno - spiega a Italo - posso vedere un attimo tramite qualche collaboratore di Gioacchino Alfano». Bocchino annuisce «Posso chiedere anche a Gioacchino, è vero», ma continua a immaginarsi colloqui definitivi con il questore di Napoli. E parlando ancora con Romeo, ipotizza che l'amico imprenditore possa andare lì e ostentare una sua patente antiracket, seppur autoassegnata. «Una delle ipotesi - spiega all'amico e datore di lavoro - potrebbe essere quella di andare di chiedere appuntamento al Questore di Napoli e dire vabbè io sono andato lì (al Cardarelli, ndr) a fare il moralizzatore di una situazione compromessa, e poi se non mi trovo le Forze dell'Ordine dalla mia parte ma anzi finiscono a sindacare il lavoro che faccio..., cioè tu sei andato a cacciare la camorra dal Cardarelli», grida a Romeo. Che non nasconde di essere del tutto d'accordo. «Eh, infatti, infatti», dice l'imprenditore, mentre Bocchino insiste: «Questo è il punto dove bisogna spingere». Che poi, quando si tratta di spingere, Romeo se la cava anche da solo. Per esempio a settembre 2016, nel suo ufficio romano, tratta con Carlo Russo «l'accordo quadro». Per Romeo vuol dire elargire soldi per Russo e per Tiziano Renzi in cambio di un cambio di rotta con la Consip, per le cui gare Romeo si sentiva sfavorito. Improvvisamente per dare uno sprint alla trattativa, l'imprenditore tira fuori come asso nella manica l'aver «rinnovato il contratto a quella signora». Russo non fa in tempo a rispondere, Romeo lo incalza: «Me l'hanno detto ieri e io dicevo: Ma chi cazz'è?», racconta, finché lo staff gli aveva chiarito chi fosse quella donna. La sorella della compagna dello stesso socio-amico di Tiziano Renzi, Carlo Russo. Che gli accertamenti dei carabinieri confermano in effetti aver ricevuto «redditi da Romeo».

 “Alfredo Romeo non ha mai incontrato Tiziano Renzi”, scrive il 6 marzo 2017 "Il Dubbio". Inchiesta Consip, Parlano gli avvocati dell’imprenditore campano arrestato mercoledì scorso con l’accusa di corruzione. “Alfredo Romeo non ha mai dato soldi a nessuno e non ha mai incontrato Tiziano Renzi o persone legate all’entourage dell’ex premier”. Lo hanno detto gli avvocati Francesco Carotenuto, Giovanni Battista Vignola e Alfredo Sorge, difensori dell’imprenditore campano arrestato il primo marzo scorso per corruzione nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti Consip in cui è stato tirato in ballo manche il padre dell’ex presidente del consiglio. “Non abbiamo ancora sciolto la riserva se rispondere o meno alle domande del gip. Con Romeo ci siamo visti venerdì scorso e ci siamo detti che avremmo dovuto fare una valutazione alla luce degli atti depositati”, hanno concluso i legali poco prima di entrare nel carcere di Regina Coeli dove questa mattina è previsto l’interrogatorio di garanzia del loro assistito. Allo stesso tempo, intervistato dal Corriere della sera Tiziano Renzi attacca i media responsabili, a suo dire, di “un assedio continuo”. Sull’inchiesta Consip “scrivete cose che non esistono”, tuona: “Uno si incontra per lavoro a Fiumicino con un possibile fornitore e che esce fuori? L’incontro segreto! L’uomo del mistero!”. Quell’uomo, afferma Tiziano Renzi, “si chiama Comparetto” ed è “il terzo gestore postale del Paese. La sua azienda, la Fulmine group, riunisce 250 operatori del settore. Non è proprio un mister X”. Con lui si è parlato “di lavoro. Io – dice Tiziano Renzi – mi occupo di spedizioni porta a porta. Lui è un mio interlocutore ma voi vedete il male ovunque”. Quanto a sue eventuali dimissioni da segretario del Pd di Rignano sull’Arno, Tiziano Renzi risponde: “Non mi pare che ci sia da dimettersi. Il Pd è sempre stato un partito garantista”.

Il Pd vuol cacciare Lotti Però si dimentica dei suoi 140 indagati. Cuperlo guida il fronte interno contro il ministro dello Sport. Ma sugli altri casi regna il silenzio, scrive Stefano Zurlo, Martedì 7/03/2017 su "Il Giornale". Un passo indietro. Ma anche uno in avanti. Dipende. Un po' sì e un po' no. «Lotti faccia un passo indietro», filosofeggia Gianni Cuperlo, rimasto nel sacro recinto del Pd, ma sempre intransigente con la leadership di marca renziana. Roberto Speranza, appena uscito con Bersani& soci dalla ditta, si sintonizza sulla stessa lunghezza d'onda: «Lotti si dimetta». Vuoi mettere, non è bello avere un ministro dello Sport indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento. Dunque, i grandi moralizzatori puntano il dito contro il Giglio magico. Oggi va così, il pantheon renziano è in frantumi, da sinistra vanno all'attacco. È il solito sistema a targhe alterne o a corrente alternata. La regola che vale per Lotti non vale per altri. L'asticella sale e scende di continuo, anzi sembra di stare sulle montagne russe. La carica dei 102, raccontava il Fatto quotidiano un anno fa. Ma il numero degli inquisiti è cresciuto e qualche mese fa il Tempo allungava la lista a 125 nomi. Ora i siti più aggiornati portano il totale a 140. Un esercito di personaggi di prima, seconda e terza fila: sindaci, consiglieri provinciali e regionali, assessori. Ciascuno ha avuto, anche all'interno del Pd, un trattamento diverso. Marcello Pittella, potente governatore della Basilicata, la stessa regione da cui proviene Speranza, è stato rinviato a giudizio per la Rimborsopoli regionale, ma è tranquillamente in sella. Nessuno ha provato a disarcionarlo. Nemmeno quando i guai sono raddoppiati con l'inchiesta sulla corruzione elettorale in cui è coinvolto anche l'ex sindaco di Potenza e attuale consigliere regionale Vito Santarsiero. Silenzio. La questione morale, vecchio cavalo di battaglia del glorioso Pci, funziona a intermittenza. Tutti zitti anche quando viene indagato l'ex enfant prodige della new economy e del Pd, Renato Soru. Il Bill Gates italiano. Contro di lui un'accusa imbarazzante: evasione fiscale per aver sottratto al fisco 2,5 milioni di euro. Silenzio dal Pd, è il titolo fotocopia dei giornali. Poi a maggio dell'anno scorso, Soru viene condannato in primo grado a 3 anni e a quel punto molla finalmente la carica di segretario regionale del Pd che ha tenuto per tutto il tempo del processo. Ma resta europarlamentare. Giorgio Orsoni, doge di Venezia, prova a resistere come altri colleghi di partito: lo ammanettano per un finanziamento illecito nella tangentopoli del Mose, lui ingaggia uno sgangherato braccio di ferro con Nazareno e Procura, poi alza bandiera bianca e sparisce dalla scena. Ma la politica è un labirinto. Raffaella Paita, assessore regionale alla protezione civile e capogruppo del Pd, viene indagata per la disastrosa alluvione del 2014 in piena campagna elettorale ma resta in gara e viene battuta da Giovanni Toti. A ottobre scorso viene assolta, qualche giorno fa la procura fa ricorso, lei resta capogruppo in consiglio regionale. Affonda invece l'ex sindaco Marta Vincenzi, punita con 5 anni per un'altra alluvione: quella del 2011. Centoquaranta indagati. Destini diversi. C'è chi resta a galla come un sughero, qualunque cosa succeda, e chi scompare. Garantismo e giustizialismo sono un cocktail dalla composizione variabile: a volte la bevanda è peggio della cicuta, ma in qualche caso è meglio dell'elisir di lunga vita.

Giuseppe Sala, il primo cittadino di rito ambrosiano, scopre di essere sotto i riflettori della procura generale per falso, in relazione agli appalti per la piastra di Expo, e si autosospende. Un coro greco accoglie nel Pd la sua temporanea dipartita: «Rimani, non te ne andare, Milano ha bisogno di te». Lui cerca di capire la portata del siluro, ma il caso resta avvolto nell'oscurità. Che fare? Con la benedizione dei compagni, Sala torna a Palazzo Marino. Indietro e avanti, per tornare alla casella di partenza. Vincenzo De Luca, potente governatore campano ora alleato di Renzi e ora no, vanta un curriculum impressionante di capi d'imputazione: dall'associazione a delinquere all'abuso d'ufficio ed è sospettato pure di aver comprato il giudice che l'ha tenuto al suo posto a dispetto della legge Severino. Lui, sempre in compagnia di un avviso di garanzia, rilancia ad ogni sussulto giudiziario e anzi minaccia Rosy Bindi. I grillini gli urlano: «Fuori». Ma il Palazzo non cade.

Perché non ci uniamo al volo degli avvoltoi, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 3/03/2017, su "Il Giornale". Dicevano i vecchi saggi che se miri a una preda la devi uccidere, perché lasciarla vagare ferita nella foresta la rende per il cacciatore un nemico molto più ostile e pericoloso di quanto non fosse in forze. L'immagine si addice a Matteo Renzi, braccato dai suoi nemici interni ed esterni al partito dopo la ferita subita con la sconfitta al referendum. Lo stanno circondando, politicamente e sul piano personale, in attesa di sferrare il colpo del ko. Fanno paura, i cacciatori, tanto che alcuni fedelissimi dell'ex premier si stanno guardando in giro per cercare un nuovo padrone finché sono in tempo. È la dura legge della giungla politica, che piaccia o no. Ma anche in questo il caso Renzi non insegna nulla di nuovo. È una dinamica che purtroppo abbiamo già visto nel centrodestra quando un Berlusconi ferito da giochi di palazzo e dalla magistratura venne abbandonato da più di un beneficiato. Oggi Berlusconi è in sella più che mai e a quei signori il destino, per la verità, non ha riservato grandi fortune politiche e personali. Basti pensare ad Alfano, ridotto alla marginalità, e a Verdini, ieri condannato a nove anni per bancarotta (cosa di cui, sul piano personale, sono sinceramente spiaciuto perché non rinnego di esserne stato amico sincero e disinteressato). Dico questo perché non sono convinto che Renzi sia finito, comunque vada a finire la vicenda giudiziaria del padre e del ministro Lotti, braccio destro di una vita, coinvolto nella stessa inchiesta. Non vorrei essere nei panni dell'ex premier: per un uomo la sola ipotesi di dover scegliere tra mollare al loro destino il padre e l'amico per provare a salvarsi e mollare il potere è già in sé una condanna terribile. Per questo non mi unisco al volo degli avvoltoi sui Renzi (e su Verdini), ai quali noi non abbiamo risparmiato critiche anche dure, ma quando erano nel pieno del loro potere e apparivano come i padroni indiscussi del Paese. Adesso è facile fare i fenomeni. Semmai questa vicenda dimostra, ancora una volta, l'inconsistenza del progetto politico della sinistra, andata a sbattere sul muro dell'ipocrisia e di una superiorità etica e morale che in realtà non esiste. E non certo da oggi, come questo Giornale sostiene in solitudine da oltre quarant'anni.

Giglio nero, l'inchiesta integrale. Non solo Tiziano Renzi, papà dell’ex premier, e il fedele Luca Lotti. C’è anche Denis Verdini nel sodalizio di pressioni e ricatti che puntava agli appalti di Stato. Le rivelazioni dell’ad di Consip svelano il sistema, scrivono Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". Lo scorso Natale, davanti ai cappelletti in brodo e all’arista di maiale imposti dalla tradizione fiorentina, Matteo Renzi, il suo babbo Tiziano e il ministro Luca Lotti non potevano immaginare che il loro vecchio amico Luigi Marroni, premiato nel 2015 con la poltrona di amministratore delegato della Consip, qualche giorno prima aveva fatto saltare dalla sedia i magistrati napoletani. È un martedì sera, Marroni deve ancora finire di comprare i regali per la Vigilia. I pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano lo stanno interrogando sul grande appalto da 2,7 miliardi di euro chiamato Facility Management 4, sul presunto sistema corruttivo messo in piedi dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo (arrestato qualche giorno fa) per aggiudicarsi i lotti e sulle eventuali sollecitazioni ricevute da politici e faccendieri. Marroni a un certo punto fa un grande sospiro e comincia a raccontare. Parla di un vero e proprio «ricatto» subito da un sodale di Tiziano Renzi, l’imprenditore Carlo Russo. Riferisce di pressanti «richieste di intervento» sulle Commissioni di gara per favorire una specifica società; di «incontri» riservati con il papà di Renzi a Firenze; e di «aspettative ben precise» da parte di «Denis Verdini e Tiziano Renzi» in merito all’assegnazione di gare d’appalto indette dalla Consip del valore di centinaia di milioni di euro. Avessero potuto ascoltare Marroni, ai componenti dell’inner circle di Matteo sarebbe certamente andato di traverso l’intero pranzo natalizio, compresi gli immancabili crostini di fegatini e ricciarelli ricoperti di zucchero. Il Fatto Quotidiano ha già svelato che durante il suo interrogatorio il dirigente di fede renziana aveva ammesso di essere venuto a conoscenza di un’indagine sugli appalti della Consip grazie a una doppia “soffiata” del ministro Lotti e del generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia. Ma ora L’Espresso è in grado di fare nuova luce su uno scandalo politico che rischia di travolgere la famiglia dell’ex boy scout di Rignano sull’Arno e forse di condizionare le imminenti primarie del Partito democratico. Marroni, infatti, agli investigatori ha rivelato molte altre cose. Ha affermato, per esempio, che Carlo Russo, l’imprenditore indagato dalla procura insieme a Tiziano Renzi per traffico di influenze illecite, in occasione di un incontro a due negli uffici romani della Consip gli avrebbe chiesto in modo pressante di favorire una società nel cuore di Denis Verdini, ricordandogli che la sua promozione in Consip era avvenuta proprio grazie ai buoni uffici di Tiziano Renzi e di Verdini. Di più: Russo avrebbe sottolineato a Marroni - dice ancora il numero uno della Consip agli inquirenti - come Tiziano e Denis fossero ancora «arbitri del mio destino professionale», potendo la coppia «revocare» il suo incarico di amministratore delegato della stazione appaltante: una spa controllata al 100 per cento dal ministero dell’Economia. Le dichiarazioni dell’ex direttore dell’Asl di Firenze voluto dal governo Renzi a capo di una delle società pubbliche più importanti d’Italia sono sorprendenti. Perché - al di là delle implicazioni giudiziarie della vicenda - aprono diversi interrogativi politici. Marroni si è inventato tutto o davvero Carlo Russo lo ha intimidito tirando in ballo il suo futuro lavorativo nel caso non avesse fatto quello che gli si chiedeva? Poteva davvero il babbo dell’allora presidente del Consiglio (insieme a un parlamentare di un partito associato alla maggioranza, Verdini) influire sulla nomina del numero uno dell’azienda pubblica Consip? Tiziano Renzi e Denis Verdini si muovono davvero da gruppo di pressione, come sembra emergere dalle dichiarazioni di Marroni? Se Russo fosse un millantatore solitario, sembra strano che il capo di Consip abbia deciso di incontrarlo e ascoltarlo tre volte nei suoi uffici a Roma, parlando degli appalti FM4. E sembra improbabile che il giovane e vivace imprenditore del settore farmaceutico si sia lanciato in una lobby solitaria: qualche giorno fa il governatore della Puglia Michele Emiliano ha detto che perfino Lotti si raccomandò con lui affinché incontrasse Russo. Abbiamo tentato di parlare con Marroni, ma non ha voluto risponderci né richiamarci. Abbiamo mandato un messaggio su Whatsapp che di certo qualcuno ha letto (è apparsa la doppia spunta blu) nel quale abbiamo domandato cosa intendesse definendo Tiziano Renzi e Russo «arbitri» della sua permanenza in Consip. Ma l’amministratore delegato ha scelto di non rispondere. È un fatto, però, che lo scorso 20 dicembre Marroni abbia raccontato ai magistrati altri dettagli rilevanti, spiegando come nel marzo del 2016 Tiziano Renzi in persona gli chiese un incontro riservato, effettivamente avvenuto - a suo dire - in piazza Santo Spirito a Firenze. Il numero uno della Consip ammette con gli inquirenti che il papà dell’allora premier gli avrebbe chiesto in quel frangente di «accontentare» le richieste di Russo, perché persona di sua fiducia. Tiziano stesso avrebbe presentato l’amico imprenditore all’ad di Consip durante un primo incontro avvenuto qualche tempo prima. Marroni aggiunge pure che, di fronte alle sollecitazioni, lui non si è mai piegato. Avrebbe ascoltato con pazienza gli interlocutori, senza però dare seguito a nessuna delle richieste. Istanze e suppliche arrivavano, ipotizzano gli investigatori, da diversi gruppi di pressione interessati ai bandi milionari. I magistrati napoletani e quelli romani (la parte dell’indagine che tocca il Giglio Magico è stata trasferita per competenza a Roma ed è seguita dal pm Mario Palazzi e dal procuratore aggiunto Paolo Ielo), insieme ai carabinieri del Noe e alla squadra mobile di Roma stanno cercando di capire se i presunti facilitatori lavorassero l’un contro l’altro armati per favorire aziende in lotta tra loro o se al contrario fossero un’unica banda. I pm si stanno concentrando su due fronti: da un lato l’indagine capillare sul cosiddetto “sistema Romeo”, attraverso cui uno dei big del settore dei servizi avrebbe tentato - mediante presunti atti corruttivi con il dirigente Consip Marco Gasparri - di aggiudicarsi alcuni lotti del bando FM4. Secondo i magistrati napoletani da cui è partita l’inchiesta, Romeo avrebbe tentato di agganciare la Consip anche attraverso i buoni uffici di Russo e Tiziano Renzi. Dall’altro lato, gli inquirenti hanno acceso un faro anche sui principali competitor di Romeo, ossia il gigante francese Cofely, capofila di un raggruppamento di imprese che avrebbe vinto (in via provvisoria) un numero di lotti assai maggiore rispetto a quelli ottenuti da Romeo. È ancora Marroni che nomina Cofely Italia, oggi ramo di Engie Italia, nuovo brand del colosso dell’energia Gdf-Suez. Cercando di specificare il ruolo di Verdini in merito alle pressioni ricevute sugli appalti FM4, il dirigente ha chiarito a Woodcock e a Carrano che alla fine del 2015 venne nei suoi uffici Consip il parlamentare di Ala Ignazio Abrignani, uomo vicinissimo a Verdini. Che gli avrebbe chiesto senza tanti fronzoli di «intervenire» per favorire il raggruppamento dei francesi nella gara. Secondo Marroni, Abrignani parlava proprio per conto di Verdini. Il senatore avrebbe voluto che Marroni si adoperasse affinché Cofely si aggiudicasse un lotto in particolare: quello, strategico, di Roma Centro, che comprende i servizi di Palazzo Madama, Palazzo Chigi, ministeri importanti come il Viminale e la Giustizia e il Quirinale. Una gara periodica che nel 2011 era stata aggiudicati a Romeo, mentre il nuovo bando, anche se solo in via provvisoria, è stato assegnato proprio a Cofely. Marroni sostiene che dopo la visita di Abrignani non fece assolutamente nulla, limitandosi a informarsi dai commissari di gara su come stava procedendo il bando. Risposta della commissione: «Cofely sta andando bene». L’Espresso ha contattato Abrignani, che conferma l’incontro con Marroni (spostandolo però di qualche mese in avanti), ma dando una versione diversa del contenuto. «Io sono un deputato di Ala, è vero, ma sono anche avvocato del Consorzio stabile energie locali, che ha partecipato alla gara FM4 insieme alla capofila Cofely», ammette Abrignani. L’ipotesi di un conflitto d’interessi sul suo doppio ruolo di legale e parlamentare non sembra nemmeno venirgli in mente: «Abbiamo partecipato a cinque lotti. Nell’incontro che chiesi a Marroni cercai soltanto di capire quanto tempo ci avrebbero messo a decidere in via definitiva. Marroni mi disse che ci stavano ancora lavorando, perché l’attribuzione era molto complessa. E che i risultati non sarebbero mai usciti prima della primavera del 2017. Infatti a oggi non c’è stata nemmeno l’aggiudicazione provvisoria. L’incontro? È avvenuto subito prima o subito dopo l’estate del 2016». In merito alle presunte pressioni di Verdini per far vincere Cofely, Abrignani dice che si è tratta di un «equivoco». «Verdini», spiega, «ha questo rapporto di vecchia amicizia con Marroni, anche i figli... Ma sono andato io a informarmi con il capo di Consip, quindi non so davvero come sia uscito che sia stato Verdini a informarsi su Cofely». Abrignani ci dà un nuovo elemento che finora non conoscevamo: i due toscani Verdini e Marroni si conoscono. Da tempo. Sono addirittura due «vecchi amici». In più, la sua ricostruzione cozza con un’altra dichiarazione che Marroni, quel venti dicembre, fa ai pm. Oltre alla conversazione con Abrignani, il dirigente racconta infatti anche di un faccia a faccia con Verdini avvenuto a luglio del 2016. Durante il quale Verdini avrebbe detto al «vecchio amico» diventato numero uno della Consip che conosceva il contenuto dei suoi colloqui con Abrignani, che era «soddisfatto» e che avrebbe provato a far promuovere Marroni a «incarichi» ancora «più prestigiosi». Il quadro disegnato da Marroni prospetta dunque un intreccio di interessi privati intorno ad appalti pubblici da centinaia di milioni. Mostrando che intorno alla torta Consip hanno cercato di sedersi parlamentari, familiari e presunti mediatori legati, o ragionevolmente vicini, all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Attraverso pressioni, minacce, promesse che nulla hanno a che fare con il nor male svolgimento di un bando di gara. Una ricostruzione, ricordiamolo, ancora tutta da provare. Ma che getta un’ombra sul sistema di potere renziano negli ultimi tre anni. E che colpisce alle radici il Giglio magico, per l’ennesima volta investito dal sospetto di conflitti d’interessi, di pulsioni affaristiche, di commistioni tra politica e affari, di contiguità con politici (come Verdini. Già. La vicenda Consip fa tornare prepotentemente alla ribalta anche l’antico rapporto tra la famiglia Renzi e l’amico Denis, l’ex macellaio diventato un big di Forza Italia e un astuto affarista, oggi imputato in vari processi per truffa allo Stato, bancarotta, associazione a delinquere e altri reati assortiti, qualche settimana fa per la vicenda della “sua” banca, il Credito cooperativo fiorentino, il pm ha chiesto per il senatore di Ala una condanna ad 11 anni di prigione. Verdini per Matteo ha sempre avuto un debole politico. Conosce i Renzi più di dieci anni fa, quando - da editore del Il Giornale della Toscana, il Cittadino di Siena e Metropoli - si affida anche a una società distributrice, la Chil Post , al tempo di proprietà di Tiziano Renzi. È in quel periodo che Denis e Tiziano si conoscono cominciano a stimarsi. Nel 2008 i rapporti sono già strettissimi: qu ando Verdini festeggia i 10 anni del suo quotidiano, nonostante sia un pasdaran di Forza Italia chiama come ospite d’onore il figlio di Tiziano, il giovane Matteo, promessa della politica toscana diventato giovanissimo presidente della provincia per la Margherita. Nel 2009, alla sfida per il comune, a Firenze si dice che Verdini e il Pdl, invece di appoggiare il candidato azzurro ed ex portiere della Nazionale Giovanni Galli, decidano al secondo turno di non nuocere alla cavalcata di Matteo, che alla fine trionfa. «Al ballottaggio per sostenermi non venne nessuno», ha detto Galli qualche anno dopo. «Avrei perso lo stesso, ma negli anni mi sono fatto molte domande». È certo che da quel momento in poi Verdini si è spesso prodigato per Matteo. Durante la scalata al partito e al governo culminata con la cacciata di Enrico Letta, nel gennaio 2014 Verdini è stato tra i promotori e i garanti del “patto del Nazareno” tra Renzi e il Cavaliere, un accordo che l’allora direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli definì compromesso da «uno stantio odore di massoneria». «Verdini è a tutti gli effetti uno dei componenti del Giglio Magico», si sussurrava prima ancora dello scoppio del caso Consip. Ora, dopo le rivelazioni di Marroni, quel legame sembra più forte di quanto si immaginava. Così come restano fortissimi i sospetti di conflitto di interessi di altri pezzi grossi del Giglio: come Alberto Bianchi, avvocato di Pistoia con studio a Firenze, amico personale dell’ex premier e presidente della Fondazione Open, la cassaforte di Renzi che lui stesso ha fondato qualche anno fa. Bianchi è infatti consulente legale della Consip, che gli ha girato negli ultimi tre anni - ha scoperto L’Espresso - incarichi per circa 400 mila euro. Se Marroni è «vecchio amico» di Verdini e di Tiziano Renzi, è sicuro che conosce bene anche l’avvocato che elargisce da sempre preziosi consigli a Renzi, Lotti e Marco Carrai: qualcuno ricorda ancora quando Marroni e Bianchi - nel lontano 28 febbraio 2004 - erano seduti insieme al tavolo d’onore di un convegno della Margherita. Una riunione organizzata proprio per lanciare la candidatura di Renzi alla presidenza della provincia di Firenze. Nel consiglio della Fondazione Open ci sono, oltre a Bianchi, anche Maria Elena Boschi, Carrai e Lotti. Anche quest’ultimo, braccio destro politico di Renzi e ministro nel nuovo governo Gentiloni, è implicato nel caso Consip: è lui, secondo lo stesso Marroni, ad averlo avvertito nel luglio del 2016 dell’esistenza di un’indagine giudiziaria su Romeo e su alcuni dirigenti della Consip. All’Espresso risulta che ai pm Marroni disse che Lotti gli avrebbe ipotizzato anche l’esistenza di indagini su ex dirigenti apicali della società, e dell’uso da parte degli investigatori sia di intercettazioni telefoniche sia di “cimici”. Una presunta soffiata (Lotti ha smentito con forza davanti ai pm, che lo hanno iscritto sul registro degli indagati per favoreggiamento e rivelazione di segreto) che ha convinto Marroni a effettuare una bonifica degli uffici della Consip. Le microspie piazzate dalla procura per indagare sugli appalti sono state effettivamente trovate e l’indagine è stata irrimediabilmente danneggiata. Insieme a Lotti è stato indagato con la stessa ipotesi di reato anche il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette (è stato tirato in ballo dal presidente della Consip Luigi Ferrara, ma la sua posizione sembra andare verso un’archiviazione) e il generale della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia. Anche lui - dice Marroni, che lo definisce suo «amico» - lo avrebbe messo in guardia prima dell’estate 2016 sul lavoro della procura di Napoli. Possibile che Marroni abbia deciso di fare il nome di Lotti come presunto suo informatore e quello di Saltalamacchia solo per far loro un dispetto? In attesa dell’esito delle indagini giudiziarie, sono tante le domande a cui Renzi e i suoi fedelissimi dovrebbero dare qualche risposta. Innanzitutto politica: perché al di là degli eventuali reati penali ancora da dimostrare, il coinvolgimento di pezzi da novanta dell’entourage dell’ex premier e le zone d’ombra dello scandalo Consip sono troppe e troppo gravi perché si possa scegliere - a poche settimane dalle primarie del Pd - la strada del silenzio.

«Falsati gli atti su Tiziano Renzi». Sotto inchiesta carabiniere del Noe. I pm: Consip, manipolata un’intercettazione su Romeo. Il depistaggio sul ruolo dei servizi segreti. La Procura di Roma ha revocato al Nucleo operativo ecologico dei carabinieri la delega per le ulteriori indagini, scrive Fiorenza Sarzanini il 10 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci sono almeno due «manipolazioni» nell’inchiesta Consip sui rapporti illeciti tra Alfredo Romeo e Tiziano Renzi. Alterazioni che sarebbero state compiute dal capitano dei carabinieri del Noe Gianpaolo Scafarto, incaricato dell’indagine fino alla decisione presa un mese fa dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone di ritirare la delega al reparto. Lo ha scoperto il pubblico ministero Mario Palazzi, riascoltando le trascrizioni delle intercettazioni e rileggendo gli atti depositati. E gli ha notificato un avviso a comparire per falso in atto pubblico. Durante l’interrogatorio l’ufficiale si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Dobbiamo leggere le accuse», spiega il suo legale. Ma quanto accaduto appare talmente grave da aver spinto i magistrati a disporre nuovi accertamenti per scoprire che cosa ci sia alla base del «depistaggio» che coinvolge il padre dell’ex premier e dietro l’accusa rivolta ai servizi segreti di aver «spiato» l’indagine, quando era già chiaro che la realtà era ben diversa. Anche perché questa vicenda rischia di compromettere l’esito di un’indagine che comunque si fonda su numerosi altri elementi.

La prima contestazione al capitano del Noe riguarda la trascrizione di una conversazione intercettata il 6 dicembre 2016 negli uffici della Romeo Gestioni. Oltre a Romeo ci sono il suo collaboratore, l’ex parlamentare Italo Bocchino, e una terza persona. Nell’informativa consegnata agli inizi di gennaio Scafarto scrive: «A un certo punto Bocchino si allontana e Romeo continua a parlare con Ruscigno... Romeo racconta del suo rapporto con Bocchino per poi affermare “Renzi, l’ultima volta che l’ho incontrato”». Le considerazioni del capitano sulla circostanza sono nette: «Questa frase assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità Tiziano Renzi in quanto dimostra che effettivamente Romeo e Renzi si sono incontrati, atteso che Romeo ha sempre cercato di conoscere Matteo Renzi senza riuscirvi». Gli interessati negano l’incontro e questo spinge Palazzi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo a disporre nuove verifiche. Vengono ascoltati i nastri e si sente chiaramente che a pronunciare la frase sull’incontro con Renzi era stato Bocchino. Ma la circostanza più clamorosa viene scoperta analizzando i brogliacci perché in quegli atti è già specificato che a parlare è l’ex parlamentare. «Chiederemo l’archiviazione», anticipa il difensore di Renzi senior.

Ancor più inspiegabile appare il capitolo che riguarda il ruolo degli 007. Il capitano sottolinea nella sua informativa di gennaio di avere «insieme ad altri militari il ragionevole sospetto di ricevere “attenzioni” da parte di qualche appartenente ai “servizi”». Per questo consegna ai magistrati due annotazioni di servizio datate 18 e 19 ottobre 2016 nelle quali racconta che due investigatori del suo reparto «andati in piazza Nicosia a Roma per effettuare l’acquisizione della spazzatura prodotta dalla Romeo Gestioni (quando furono trovati i “pizzini” con le dazioni di denaro, ndr) hanno notato persone in abiti civili e atteggiamento sospetto che controllavano le targhe: una persona fotografata che controllava le targhe e un’altra che nascosta dalle auto in sosta non ha perso di vista l’operato dei militari». Poi specifica che «la persona “sospetta” utilizza una jeep di cui indica la targa». Non dice che sin dal 20 ottobre i carabinieri «avevano scoperto che il proprietario della Jeep è Eugenio Ruggieri, cittadino italiano ma nato a Caracas che abita a pochi metri dalla Romeo Gestioni». Una omissione che suona sospetta, tanto più che nell’informativa si accusa Matteo Renzi, presidente del Consiglio pro tempore, di aver «messo in campo tutte le risorse disponibili per tutelare la sua famiglia e quindi anche il padre che da una ricerca su fonti aperte web è da considerarsi sicuramente un personaggio con diversi trascorsi singolari».

Scoppia la guerra tra procure e Napoli fa quadrato sul Noe. I pm del capoluogo campano difendono i carabinieri accusati di manipolazione dai magistrati romani, scrive Anna Maria Greco, Mercoledì 12/04/2017, su "Il Giornale". La procura di Napoli conferma la fiducia al Nucleo operativo ecologico (Noe) dei carabinieri, che continuerà ad occuparsi di Consip. Scelta che suona come la risposta alla clamorosa indagine dei pm di Roma Mario Palazzi e Paolo Ielo sul capitano - proprio del Noe - Giampaolo Scafarto, accusato di aver truccato le carte per mettere nei guai Tiziano Renzi e il figlio ex premier Matteo. La guerra tra procure serpeggia da tempo, malgrado rassicurazioni e smentite, e ha avuto conferma il 4 marzo, quando l'ufficio della Capitale guidato da Giuseppe Pignatone, ha tolto il filone principale dell'indagine Consip ai carabinieri del Noe per affidarla a quelli romani, per le troppe fughe di notizie. Una mossa che sembrava adombrare il sospetto che da Napoli fosse arrivata un'inchiesta manipolata. Ora, con il capitano Scafarto indagato per falso, il sospetto trova basi serie. Può aver fatto tutto da solo il carabiniere che ha fatto carriera tra Salerno e Napoli? Oppure, seguiva un disegno preciso e aveva dei complici? E dunque il suo nucleo, il Noe, non dovrebbe essere «bonificato»? C'è chi parla anche di una faida interna all'Arma. Scafarto è considerato allievo del «capitano Ultimo» Sergio De Caprio, rimosso dal Noe proprio dal comandante generale Tullio Del Sette, che è indagato nell'inchiesta Consip con l'accusa di aver informato l'ad Luigi Marroni delle indagini in corso. Anche in passato (inchiesta metanizzazione a Ischia) ha lavorato con i pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano, titolari delle indagini sull'immobiliarista Alfredo Romeo, arrivate a lambire i piani alti della politica, con successivo trasferimento a Roma del filone più importante. Comunque, sembra una sfida il fatto che la Procura di Napoli confermi la delega sul troncone napoletano Consip al Noe, che continuerà a lavorarvi con finanza e carabinieri del comando provinciale. Prima dell'interrogatorio di Scafarto, Pignatone ha telefonato al procuratore facente funzione di Napoli Nunzio Fragliasso per avvertirlo. Una cortesia apprezzata, ma seguita dal contrattacco. L'ufficio, tra l'altro, è in attesa della nomina del successore di Giovanni Colangelo, mandato in pensione dal governo, tra mille polemiche e i candidati sono il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho (Unicost) e Giovanni Melillo (Area), che ha strategicamente lasciato il posto di capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando. Si fa notare, nella procura partenopea, che se pure fossero stati commessi errori da Scafarto, non avrebbero ripercussione sulle indagini napoletane, separate da quelle romane. Solo che non si parla di «errori», ma di intenzionale falsificazione delle intercettazioni, di un «complotto» contro il governo (è coinvolto anche il ministro Luca Lotti) e il Pd, il cui leader Renzi lavora per rientrare a Palazzo Chigi. E le carte false le hanno scoperte i pm romani, mentre quelli napoletani vi hanno costruito sopra un teorema. Difficile negare che si tratti di uno scontro tra toghe ai massimi livelli, superato forse solo dal «caso De Magistris» del 2008, quando Salerno e Catanzaro si litigarono gli atti delle inchieste «Poseidone» e «Why Not». A mettere altro sale nella vicenda è il difensore di Scafarto (che non ha risposto ai pm). Giovanni Annunziata dice che i fatti contestati al capitano vanno «contestualizzati all'interno della più ampia attività investigativa svolta» e bisogna dimostrare che ci sia stato «dolo» per accusarlo di falso. Insorge il Pd. David Ermini definisce le frasi «sconcertanti». «Se invece del dolo ci fosse stata una disattenzione o un errore, sarebbe meno grave?».

Consip, l'ex 007: "I pm di Napoli hanno utilizzato il Noe senza motivi validi". Alfredo Mantici, ex capo del dipartimento Analisi del Sisde, analizza gli aspetti operativi del caso Consip. Intervista di Lorenzo Lamperti su "Affari Italiani" di Martedì, 11 aprile 2017. "C'è una certa predilezione dei pm di Napoli per il Noe. Ma in questo caso fatico proprio a capire a che titolo è stato utilizzato per indagare". Alfredo Mantici, ex capo del dipartimento Analisi del Sisde, analizza in un'intervista ad Affaritaliani.it gli aspetti operativi legati all'inchiesta Consip in seguito all'accusa a un carabiniere del Noe di aver falsificato gli atti su Tiziano Renzi.

Alfredo Mantici, se davvero fossero confermate le accuse al carabiniere del Noe significherebbe che c'è qualcosa che nel sistema giudiziario e dell'Arma dei Carabinieri non funziona?

«Non è che ci sia qualcosa che non funziona. Il problema è che il sistema contiene dentro di sé le radici per le deviazioni dai propri compiti istituzionali. Il circuito politico giudiziario esiste nei fatti. Un magistrato può decidere di dare peso a un'unchiesta autorizzando la polizia giudiziaria o, in prima persona, facendo filtrare alla stampa compiacente indiscrezioni sulle indagini in corso. Le indiscrezioni diventano processi mediatici che straripano sui social network in teoremi tutt'altro che dimostrati».

In questo caso qual era il teorema?

«Il teorema era che il Giglio Magico con Renzi, la sua famiglia e Luca Lotti abbiano favorito l'imprenditore Romeo. Questo castello di accuse era basato su delle intercettazioni, alcune artefatte dalla polizia giudiziaria che trascritto parti incriminanti in modo distorto. Quando l'autorità giudiziaria è cambiata e da Napoli è passata a Roma i magistrati hanno deciso di leggere e ascoltare le intercettazioni telefoniche in prima persona e hanno trovato la prova delle alterazioni».

Si era parlato anche del ruolo dei Servizi Segreti. Non c'entrano dunque nulla in questa vicenda?

«L'aspetto del pedinamento dei Servizi a danni dei carabinieri è totalmente falso. Senza voler dare giudizi prima del tempo, sulla base delle notizie attuali abbiamo un organo di polizia giudiziaria che è stato estromesso dalle indagini, cioè il Noe dei Carabinieri, che nella persona dell'ufficiale coinvolto ha artefatto delle intercettazioni e delle risultanze investigative. E qui mi fermo».

Se l'inchiesta fosse rimasta a Napoli saremmo mai venuti a conoscenza di queste probabili alterazioni?

«Voglio essere garantista e dunque immagino che i magistrati napoletani si siano fidati ciecamente del Noe. Semmai c'è da dire che la magistratura di Napoli, per molti anni, ha prediletto il Noe come organo di polizia giudiziaria non per la sua specializzazione nei reati ecologici ma l'ha utilizzato in tutte le indagini che faceva senza che il Noe avesse titolo teorico per fare queste indagini. Il Noe si chiama Nucleo operativo ecologico. Se si fanno indagini sulla Terra dei fuochi si chiama il Noe perché ha il know how per investigare. Sulla Consip non vedo a che titolo si potesse o si dovesse utilizzare il Noe».

Consip, i tre grandi misteri dell'inchiesta taroccata. I buchi neri: tempistica sospetta, prove non verificate dai giudici o dagli avvocati, intercettazioni a strascico, scrive, Mercoledì 12/04/2017, "Il Giornale". Esistono almeno tre punti non chiari nelle indagini che coinvolgono Alfredo Romeo e che, lui tramite, salgono su fino a babbo Renzi e a Matteo. Non solo, dunque, l'intercettazione manomessa dal capitano del Noe Giampaolo Scafarto, indagato per falso dalla Procura di Roma. A Napoli l'immobiliarista è sotto inchiesta per concorso esterno in associazione camorristica in relazione ad alcune assunzioni da parte della «Romeo Gestioni» di soggetti legati ai clan dopo l'aggiudicazione di un appalto per le pulizie nell'ospedale Cardarelli. La contestazione del reato di mafia è il maglio che consente ai magistrati Henry John Woodcock e Celeste Carrano di mettere in campo l'artiglieria pesante. Intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti, virus-spia, ricerche nei sacchetti dell'immondizia. Un armamentario investigativo che, come nota Il Fatto quotidiano in un articolo del 1° marzo scorso, è stato adoperato dall'Fbi americano per incastrare il superboss di New York Joe Bonanno. Su che cosa si poggia l'inchiesta per concorso esterno a carico di Romeo? Nelle carte a disposizione c'è poco o nulla. Non ci sono pentiti o collaboranti. Nessun padrino, cioè, che ha raccontato di aver chiuso un patto di sangue con l'avvocato con la villa a Marechiaro. Non ci sono intercettazioni compromettenti. Ci sono, anzi, le denunce che l'azienda invia in Procura per segnalare che i parenti dei camorristi fanno parte del «passaggio di cantiere», sono stati cioè ereditati dal precedente appaltatore. Paradossalmente, la Romeo è «vittima» della procedura che non prevede il licenziamento dei lavoratori. Il primo effetto del concorso esterno è la durata dell'inchiesta che supera di gran lunga quella consentita dal codice per i reati contro la pubblica amministrazione (che è peraltro la contestazione che ha portato in carcere Romeo a Roma). Secondo i legali dell'imprenditore, i pm partenopei stanno indagando sull'azienda dal 2013-2014. Siamo quindi alla soglia dei tre anni, considerato che il filone sul concorso esterno non è ancora terminato. Ciò significa anche che le attività di ascolto ambientale di cellulari e telefoni fissi è stata prolungata secondo i canoni di un'inchiesta antimafia. Spazio, quindi, a intercettazioni a grappolo e tramite trojan. Il famigerato virus-spia usato da Woodcock una prima volta nel 2011 nel corso dell'inchiesta sulla «P4» - che ha registrato centinaia e centinaia di ore di conversazione dagli smartphone di Romeo e del suo lobbista, l'ex deputato di An Italo Bocchino. I legali dell'immobiliarista (avvocati Francesco Carotenuto, Alfredo Sorge e Gianni Vignola) hanno depositato voluminose memorie al Tribunale del riesame per contestare tempi e modalità delle attività di captazione. Soprattutto riguardo all'utilizzabilità del trojan. Una domanda: sulla base di quali elementi indiziari i pm hanno chiesto e ottenuto dai gip di volta in volta la proroga quindicinale degli ascolti? Il capitano del Noe Scafarto è l'investigatore - a prendere per buona l'agiografia in Rete - che ha l'intuizione di scavare nei sacchetti dell'immondizia degli uffici della Romeo Gestioni nella Capitale. In un primo momento era stata accreditata la tesi che il famoso pizzino, su cui Romeo avrebbe indicato la «T» di Tiziano Renzi con il corrispettivo «30mila» euro da allungargli per agevolare i suoi rapporti con la Consip, fosse stato rinvenuto in una discarica alle porte di Roma. Impresa impossibile anche per i superman del Nucleo operativo ecologico del pm Woodcock. Si è quindi scoperto che, più banalmente, il foglietto di carta è stato «ricostruito» dai carabinieri dai brandelli recuperati nei contenitori. Era presente un avvocato della difesa in questa delicata operazione? No. Era presente un avvocato quando è stato aperto il sacchetto e ispezionato? No. Non era presente nemmeno il gip che è garante della legalità delle procedure. La questione del terzo punto oscuro è quindi: perché la «prova regina» l'hanno maneggiata solo i carabinieri? E poi: operazioni di recupero del genere avvengono dietro un atto motivato del pm come una perquisizione e relativo sequestro. Qui, invece, c'è solo l'estro di Scafarto. Come mai? E infine: chi dice che quella sia proprio la scrittura di Romeo? Una perizia di parte lo esclude. E chi assicura che la «T» voglia dire Tiziano Renzi?

Consip, Renzi e i falsi del carabinieri: l'accusa devastante a Travaglio, scrive l'11 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. Il caso Consip scoppia in mano ai carabinieri e ai manettari. "La verità adesso inizia a venire fuori", gongola Matteo Renzi fingendo prudenza. E dal Pd renziano partono già all'attacco: "Ora fuori i mandanti". Troppo grave la svolta nell'inchiesta che vede indagati Luca Lotti e il padre dell'ex premier, Tiziano Renzi, oltre all'imprenditore napoletano Alfredo Romeo: il capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto è accusato di aver prodotto due falsi per incastrare proprio Tiziano Renzi. Una "manipolazione macroscopica", secondo Repubblica, che rischia di mandare a ramengo tutta l'inchiesta. Secondo il Fatto quotidiano, che quell'inchiesta invece ha anticipato grazie ad alcuni pizzini dalle Procure e cavalcato, rimane l'impianto accusatorio. Difficile, però, che una così grande ombra non offuschi tutto il resto. Repubblica però va oltre, e lancia una pesantissima accusa all'ufficiale dei carabinieri finito nei guai per aver attribuito una intercettazione a Romeo e non come sarebbe stato corretto al suo consulente Italo Bocchino, come invece scritto accuratamente nei brogliacci. Scafarto avrebbe agito con tre obiettivi precisi, scrive Carlo Bonini. Il primo: "costruire una sequenza indiziaria in grado di annodare logicamente e temporalmente la responsabilità politica dell'ex Presidente del Consiglio Renzi a quella penale del padre Tiziano", portando di fatto l'inchiesta dai rapporti tra Romeo e Consip a Palazzo Chigi. Il secondo obiettivo, non a caso, sarebbe stato quello di offrire (forse fabbricare da zero) la "prova regina di un rapporto diretto tra lo stesso Romeo e Renzi padre". E la terza, e qui Repubblica tira in ballo il Fatto stesso, "alimentare una campagna di stampa" "con perfetta sincronia e sapiente fuga di notizie" per far sì che i pm romani fossero di fatto costretti a dare il via libera all'inchiesta per, scrive Bonini, "non incorrere nell'accusa di insabbiatori per conto del Pd di Renzi". Una brutta storia, a cui il Fatto avrebbe prestato il fianco secondo le accuse di Bonini. A cominciare da un articolo celebrativo dedicato proprio al 43enne Scafarto, presentato come "allievo di Ultimo", l'ex ufficiale del Ros che catturò Totò Riina ed ex capo del Noe, il reparto del capitano sotto accusa. Visto che stanno emergendo dettagli clamorosi su "falsi 007" e "false ingerenze" da parte della politica sul Noe, è la domanda inquietante di Repubblica, chi ha prodotto e consegnato la "polpetta avvelenata" alle due procure e al Fatto? "È tutta farina del Carneade Scafarto?".

Caso Consip, giornali e tv faranno mea culpa? Scrive Piero Sansonetti l'11 Aprile 2017 su "Il Dubbio". I processi-spettacolo deformano la giustizia e creano un cortocircuito nella democrazia. La fragilità e la superficialità del nostro sistema di informazione sta diventando un problema molto serio, anche se nessuno ha il fegato per affrontarlo di petto. Ecco cosa può succedere quando pezzi di apparati dello Stato si mescolano al sistema dei media per condurre delle campagne politiche. Un vero e proprio cortocircuito: nell’informazione e nel funzionamento della democrazia. Per tre mesi il caso Consip ha tenuto banco sui giornali e in Tv, danneggiando in modo robusto l’ex premier Renzi e il partito democratico. Ieri si è scoperto che le intercettazioni che accusavano (seppure in modo molto indiretto) il padre di Renzi sono state manipolate da un ufficiale dei carabinieri. L’imprenditore Romeo – principale indagato in questa vicenda – in realtà non ha mai detto di avere incontrato Tiziano Renzi. E il teorema “Renzi – è - coinvolto” va a gambe all’aria. Caso Consip: chissà se giornali e tv reciteranno il “mea culpa”. Questa notizia, da una parte ci porta a rallegrarci, perché ci fa capire che poi, spesso, la giustizia italiana non funziona neanche tanto male. Se è vero che alla fine gli investigatori si sono accorti che il principale indizio a carico di un indagato era falso e contraffatto. Dall’altra parte invece ci spinge al pessimismo, perché dimostra in modo plateale come basta un ufficiale poco corretto per creare un vero e proprio terremoto politico, dal momento che esiste un sistema dell’informazione pronto ad amplificare clamorosamente qualunque errore, o qualunque falsità (o comunque qualunque sospetto flebile flebile, come erano i sospetti su Tiziano Renzi, prima ancora che la Procura scoprisse l’imbroglio). La fragilità e la superficialità del nostro sistema di informazione sta diventando un problema molto serio, anche se nessuno ha il fegato per affrontarlo di petto e per dire come stanno le cose. Ora siamo abbastanza curiosi di vedere come si comporteranno i giornali italiani di fronte a questa svolta clamorosa. Giustamente spero – osserveranno che fu giustissima, circa un mese fa, la mossa del dottor Pignatone, che tolse al Noe (il nucleo ecologico dei carabinieri) la responsabilità delle indagini sul caso Consip. Ma prenderanno anche atto della figuraccia che hanno rimediato, nel riferire allegramente il falso senza esprimere neppure un dubbio, senza un’esitazione, un’incertezza, e del ruolo decisivo che hanno avuto (prestandosi alla fuga di notizie e alla pubblicazione di intercettazioni vaghe e non verificate) nel confezionare questa bufala di notevoli dimensioni e di lunga durata che ha avvelenato la politica italiana? Ecco, su questo ci permettiamo di avere alcuni dubbi. Già quando Pignatone tolse l’inchiesta al Noe, qualche giornale – per esempio “Il Fatto” – protestò, perché disse che la Procura di Roma invece di prendersela coi colpevoli se la prendeva con gli investigatori. Non siamo affatto sicuri che ora, di fronte all’evidenza delle cose, i giornali e le televisioni reciteranno il mea culpa. Non lo fanno spesso. La questione, evidentemente, non è quella di difendere Renzi e criticare i suoi nemici o viceversa. La malattia sta nel “metodo”, e provoca i suoi danni ferendo alternativamente e costantemente ora a destra e ora a sinistra. E la malattia è l’uso giornalistico delle inchieste giudiziarie, anche quando queste si trovano ancora allo stato nascente. Questa malattia si chiama “processo spettacolo”, e negli ultimi venti o trent’anni ha assunto un carattere epidemico. Si allarga sempre di più, dilaga. Sicuramente una parte della colpa ricade sugli investigatori, che divulgano notizie che devono restare segrete, e lo fanno o per acquisire meriti e fama, o perché immaginano di rendere più semplici le indagini usando un metodo illegale, o addirittura perché pensano che la gogna sia il modo migliore per punire certi reati, e che si possa facilmente applicare senza aspettare il processo. In parte, però – in parte maggiore – la colpa non è della magistratura né dei carabinieri e della polizia, ma è del sistema dell’informazione. I giornalisti sono i responsabili principali di questa deformazione della giustizia. Se si rifiutassero di prestarsi alla fuga di notizie, ovviamente, la fuga di notizie, e il processo mediatico, e la gogna, non funzionerebbero più. Chiedere una riflessione su questi temi, e cioè sul fatto che in campo giudiziario l’informazione italiana non risponde più al criterio di “verità” ma solo ai criteri delle selvagge campagne politiche – per ragioni di appartenenza a uno schieramento, o per ragioni di mercato – è una bestemmia, e cioè equivale a mettere in discussione la sacrosanta libertà dell’informazione? La grande maggioranza dei giornalisti pensa di sì. E siccome quella dei giornalisti è la casta più potente che ci sia in Italia, la speranza di aprire questa discussione è piccola come una formica. Però le formiche son testarde.

L’arma impropria della giustizia. Succede anche all’estero che le notizie giudiziarie finiscano nel frullatore della politica, ma non come da noi. Lasciamo che i magistrati lavorino, scrive Gian Antonio Stella l'11 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «È mejo del Duce». È passato quasi un quarto di secolo da quando Maurizio Gasparri trovò ridendo la sintesi della sua cotta per Antonio Di Pietro. Cotta condivisa («Lo consideravamo il nostro referente nel pool di Mani pulite», dirà ai giudici Cesare Previti) da un po’ tutto il centrodestra. «Di Pietro vada avanti a tutta manetta», tuonava Umberto Bossi. «Le mie tivù sono al suo servizio», incoraggiava Silvio Berlusconi. «Ha fatto bene il poliziotto, ha fatto bene il giudice, potrebbe fare altrettanto bene anche il politico», omaggiava Pier Ferdinando Casini. E via così…Come sia finita si sa. Raffreddati gli entusiasmi che avevano spinto la destra a offrirgli il Viminale, vinse infine il corteggiamento di Massimo D’Alema («Conosco Di Pietro per una strana coincidenza: ci siamo simpatici») e sull’ex pm «traditore» si rovesciarono anni di insulti. Sintetizzati in uno sfogo del Senatur («Un terun che voleva fare un processo etnico al Nord») e uno del Cavaliere: «È il leader dei forcaioli».

Eppure, un quarto di secolo dopo, buona parte dei politici, quale che sia la tessera in tasca, sembra non essersi ancora liberata dalla tentazione di leggere ogni inchiesta giudiziaria, ogni avviso di garanzia, ogni fuga di notizie, ogni spiffero sortito dalle intercettazioni, con gli occhiali della bottega partitica cui appartengono. Chi aiuta? Chi danneggia? Dove può portare? «Un’altra macchinazione! Mio papà sta piangendo», ha detto Matteo Renzi dopo aver saputo del rapporto taroccato su suo padre, ribadendo «la piena fiducia nei giudici». «Non possiamo non rilevare come in nessun passo della predetta sentenza si sostenga che la Cassimatis è la candidata sindaco del Movimento 5 Stelle», ha spiegato Beppe Grillo. Ma in ogni caso «la stessa non è né sarà candidata con il Movimento 5 Stelle a Genova». Perché anche la magistratura, ogni giorno invocata, può bene sbagliare!

Diranno i grillini che loro no, non hanno mai indugiato in questo gioco. E non hanno mai affermato come Berlusconi che ci son «giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del potere». Né hanno messo in discussione il lavoro dei magistrati come la sinistra in varie inchieste come sui rapporti con Raul Gardini (e la famosa valigetta…), su Filippo Penati e «il sistema Sesto», sulla scalata Unipol e altre ancora…I due pesi e le due misure usati nei confronti di vari esponenti del M5S, a partire da Federico Pizzarotti rispetto a Filippo Nogarin che solo «dopo» ha riconosciuto l’esistenza di indagini su di lui liquidate dal blog grillino col titolo «Falso!» (Per non dire della campagna «Non comprate il Tirreno: non finanziate la disinformazione di regime!») dicono però che la tentazione di gonfiare o sgonfiare ogni mossa dei giudici a seconda di chi è nel mirino è ben presente anche nel Movimento.

Dice tutto il confronto sulla gravità di due fatti rinfacciati agli ultimi sindaci di Roma. Di qua l’invettiva («#MarinoDimettiti e Roma subito al voto!») contro Ignazio Marino reo di «avere mentito non solo ai cittadini romani, bensì all’istituzione del Campidoglio» dichiarando «il falso, ovvero di aver pagato il 26 ottobre 2013 una cena al ristorante “Sapore di Mare” ad alcuni rappresentanti della Comunità Sant’Egidio». Cena smentita. Di là la scelta di sdrammatizzare le polizze vita sottoscritte da Salvatore Romeo o le bugie sull’assessore Paola Muraro «non indagata» (lo era: e lei lo sapeva) o sulla promozione («feci tutto io»: falso) di Renato Marra, fratello del potentissimo Raffaele. Cosa sarebbe successo se il protagonista fosse stato un sindaco di destra o di sinistra?

«A nostro avviso l’onestà deve essere il faro ma attenzione che non venga utilizzato strumentalmente per colpire una forza politica che sta tentando di riportare pulizia e legalità», spiegò un anno fa la non ancora sindaca a CorriereLive. Di più: «Attenzione che gli avvisi di garanzia non vengano utilizzati come dei manganelli».

Giustissimo. Ma questo è il nodo. Lei stessa fu infatti la prima a liquidare come un appestato, dopo la scoperta che aveva un «avviso», il nuovo assessore al bilancio Raffaele De Dominicis, lodato il giorno prima come «persona di primissimo piano e di alto profilo» da sempre impegnata «per la legalità e la trasparenza». Un trattamento già riservato dal blog beppegrillo.it a Bruno Valentini, sindaco Pd di Siena, «avvisato» e subito incitato a sloggiare (#ValentiniDimettiti) col contorno del solito refrain («nessun telegiornale di regime riportò la notizia») e destinato poi a Luca Lotti, Tiziano Renzi e così via. Tutti colpevoli prima ancora non solo di una sentenza, fosse pure di primo grado, ma di un processo. Esattamente come Ilaria Capua, coperta di insulti e poi prosciolta. Senza scuse.

Come la mettiamo: ci sono giudici buoni e giudici cattivi? Avvisi di garanzia pesanti come incudini e leggeri come piume? Carabinieri affidabili e carabinieri inaffidabili a seconda degli inquisiti, come quello indagato per aver falsato l’inchiesta Consip dando origine, tra l’altro, a una frattura tra le stesse Procure di Napoli e di Roma?

Certo, succede anche all’estero che le notizie giudiziarie finiscano nel frullatore della politica. Ovvio. Ma non con la frequenza che registriamo noi. Non con gli stessi toni. Non con l’immediato dispiegamento di partigiani sull’una e l’altra trincea a prescindere, troppe volte, dai fatti. Eppure dopo tanti anni dovremmo avere imparato qualcosa. È indispensabile vigilare sì, sempre, sul lavoro della magistratura e gli eventuali abusi. Ne abbiamo già visti. Basta. Il buon senso, però, suggerisce di lasciare anche che i magistrati lavorino. O c’è chi pensa che possa essere la politica, rovesciando le parti, a esercitare le funzioni di supplenza e magari a scegliersi i giudici volta per volta?

DisFatti Quotidiani, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 12/04/2017, su "Il Giornale". In qualsiasi ambito professionale se uno commette un grave errore e non lo giustifica in modo convincente, per prima cosa nell'ipotesi più soft - viene sospeso, in attesa di accertare la verità, per evitare altri guai. Succede per gli amministratori delegati delle società, per i medici, per i piloti di aerei (anche per noi giornalisti) per chiunque insomma abbia responsabilità importanti nei confronti della comunità. Succede per tutti meno che per i magistrati e per i loro collaboratori più stretti. Prendiamo John Woodcock, pm di Napoli che ha avallato un falso per incastrare il padre di Matteo Renzi. È vero che tutti siamo uguali di fronte alla legge (e a Dio) ma diciamo che in questo caso Tiziano Renzi era un po' meno uguale, nel senso che il suo caso andava trattato con rigore assoluto perché avrebbe potuto (in parte è avvenuto) cambiare il corso della politica italiana, essendo ovvie le ricadute sul figlio Matteo. Parliamo quindi di un errore compiuto salvo prova contraria in malafede o comunque con una inaccettabile leggerezza - che non poteva accadere perché dovevano essere certi i controlli e le verifiche prima di dare in pasto il tutto all'opinione pubblica. Uno quindi si aspetterebbe che il magistrato e i responsabili materiali del falso venissero immediatamente allontanati dal caso (meglio se dal mestiere). E invece niente. Woodcock e i suoi uomini continueranno è notizia di ieri a indagare sull'affare Consip come se nulla fosse. Per di più con il dente avvelenato con i colleghi romani che li hanno smascherati e quindi in cerca di rivincite e vendette. La questione sta imbarazzando non poco. Marco Travaglio, avvocato difensore delle toghe (e dei grillini indagati) cerca di liquidare la faccenda come farebbe un bambino scoperto a fregare la merendina al compagno. E che sarà mai: «Non è la prima e non sarà l'ultima volta che un investigatore sbaglia», ha scritto ieri. E ancora: «Un errore spiacevole ma umanamente comprensibile». A parte che non parliamo di un «errore» ma di un «reato» (un capitano è indagato per falso), davvero vogliamo chiudere la faccenda con uno «spiacevole»? Spiacevole è arrivare tardi a un appuntamento, tramare contro lo Stato producendo falsi verbali è da matti. Non spiacevole ma pericoloso è che un magistrato e una procura che hanno attentato, sbagliando mira, alla famiglia di un leader politico continuino a fare il loro mestiere. Anche perché Woodcock, come noto, «non è la prima e (purtroppo) non sarà l'ultima volta che sbaglia». Sarà anche «umanamente comprensibile», ma adesso sarebbe ora di dire basta.

Il querelante. Matteo Renzi ritrova i vecchi nemici, solo lodi per Gentiloni e i ministri. "Pazienza finita". Piovono querele contro Travaglio e Report, attacca M5s e scissionisti, scrive il 12/04/2017 20:31 Angela Mauro su Huffington Post Italy. "Travaglio risponderà in tribunale visto che è stato citato da mio padre per 300 milioni di euro. Non scappi, visto che è già scappato ieri in sede di conciliazione al Tribunale civile di Firenze. Faremo tutte le cause per risarcimento danni che dobbiamo fare. La parte di quello che sta zitto e buono a dire 'va bene, chiariremo', è finita". Matteo Renzi promette vendetta contro i nemici di sempre: Travaglio, il M5s, gli scissionisti del Pd per finire all'ultima polemica su Report e l'inchiesta su Eni e l'Unità. Anche qui: "L'unica risposta è la querela", dice Renzi ospite a Otto e mezzo su La7. E' un Renzi che ritrova il fiato, dopo aver vinto i congressi di circolo del Pd, speranzoso – sondaggi alla mano – nelle primarie del 30 aprile. Soprattutto rinfrancato dalle ultime rivelazioni del caso Consip, il crollo del teorema più importante contro il padre, Tiziano. "Travaglio talvolta dà il “Falso quotidiano” e io dei falsi non mi interesso: deve chiedere scusa e lo farà in tribunale". I cinquestelle: "Quello che hanno fatto su Consip sulla rete è semplicemente squallido. Attraverso un meccanismo che un'azienda privata controlla con fake news, con trolls... Ragioniamo di politica. La vicenda giudiziaria la metto da parte. Noi non abbiamo paura. Male non fare, paura non avere".

Caso Consip, Renzi: "Finito tempo del buonismo, chiederò danni". Scontro tra Procure, chiesta pratica al Csm. L'ex premier "Grave se c'è stato falso, ma non vivo di complotti". La richiesta di un chiarimento sull'operato di chi si occupa dell'inchiesta viene dal consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, scrive il 12 aprile 2017 "La Repubblica". Palazzo Marescialli NON È PIÙ tempo "di stare buono e zitto". Matteo Renzi, sulla vicenda Consip, è pronto a chiedere i danni a "tutti quelli che li hanno provocati". "Il tempo del buonismo è finito, ho chiamato un avvocato, sono pronto a chiedere un risarcimento. Per me la parte di quello che sta buono e zitto è finita, sono quello che va in tribunale e dice quello che c'è da dire", ha detto l'ex premier ospite a Otto e Mezzo su La7. "Noi non abbiamo alcun tipo di problema: si vada a sentenza. Io ridirò sempre che bisogna rispettare il lavoro dei giudici e si vada a sentenza".

Botta e risposta con Travaglio. In particolare l'ex segretario Pd si riferisce a Marco Travaglio: "'Male non fare, paura non avere'. Lo dice anche Travaglio? Una volta al giorno Travaglio può dire cose esatte", ma per Renzi, Travaglio "invece di fare Il fatto quotidiano fa il 'falso quotidiano". E sottolinea: "Avrebbe potuto chiedere scusa a mio padre per aver scritto cose false, ma lo farà in tribunale". Parole alle quali Travaglio ha immediatamente replicato: "Con grave sprezzo del ridicolo, il signor Matteo Renzi a Otto e mezzo tenta di spostare l'attenzione dalle indagini, che coinvolgono suo padre e vari suoi amici, sul Fatto quotidiano, che ha l'unico torto di raccontarle". Il direttore del quotidiano sostiene di non essersi sottratto "all'udienza di conciliazione nella causa civile intentata da suo padre al Fatto quotidiano e al sottoscritto per alcuni articoli che riferivano spiacevoli (per lui) verità: si trattava invece di un'udienza di comparizione delle parti, che richiedeva esclusivamente la presenza degli avvocati". Travaglio afferma poi di non temere azioni legali: "Ho una lunga esperienza di cause civili, intentatemi da personaggi ben più preoccupanti di lui e del suo babbo, per esempio dal suo co-riformatore costituzionale Silvio Berlusconi che a suo tempo ci provò più volte e uscì regolarmente sconfitto. Non ho avuto paura dei Berlusconi, dei Dell'Utri, dei Previti, figurarsi se mi spaventano le minacce di questo bulletto e della sua famigliola. Quando sarà denunciato da me e dal Fatto quotidiano, da lui diffamato come 'Falso quotidiano', non mi meraviglierò della sua assenza dal Tribunale né lo accuserò di 'scappare': preferirò credere che abbia finalmente deciso di mantenere la leggendaria promessa di ritirarsi a vita privata in caso di sconfitta al referendum costituzionale. Sconfitta che, caso mai gli fosse sfuggita, si è verificata il 4 dicembre scorso".

"M5s squallidi". Ma l'ex segretario Pd non risparmia parole dure neanche per il Movimento 5 stelle: "Quanto fatto dai 5 stelle su Consip sulla Rete - ha proseguito ancora Renzi - è squallido. Una azienda privata ha controllato" la vicenda "con le fake news". "Possono dirmi di tutto, ma mi combattano con le armi pulite, con le armi della politica. "Consip è una gigantesca arma di distrazione di massa. Vorrei che si tornasse a parlare di cose concrete". Nessuna volontà di fare polemica o di parlare di complotto, sottolinea Renzi, ma se qualcuno ha falsificato atti dell'inchiesta Consip dovrà pagare. "Ho fiducia nella magistratura, credo nell'arma dei carabinieri, non faccio polemiche", ha aggiunto. "Se c'è stata una falsificazione di prova evidentemente è una cosa grave...", ha aggiunto. Ma, ha precisato, "non sarò mai uno di quelli che vive di complotti. Credo che la verità verrà a galla, ma mi sentirei un piccolo uomo, un omuncolo se oggi facessi quello che dice 'ah, avete visto...'".

"Io -  ha concluso Renzi - ho detto che sto dalla parte dei carabinieri, se qualcuno ha fatto dei falsi pagherà. È qualcuno altro che faceva le polemiche contro i corpi dello Stato".

Scontro tra Procure. Intanto si fa sempre più teso il clima tra le Procure che si occupano dell'inchiesta. Il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha chiesto che il Csm apra una pratica sullo scontro tra la procure di Napoli e quella di Roma nell'indagine in cui è coinvolto anche l’imprenditore Alfredo Romeo. Lo scopo è "verificare se l'operato di taluno dei titolari dell'inchiesta Consip possa incidere negativamente sull'immagine di imparzialità ed indipendenza del magistrato, determinando una incompatibilità ambientale e/o funzionale". Ma la Procura di Napoli "esclude categoricamente che vi sia alcun contrasto o alcuna tensione con la procura di Roma con la quale vi è piena sintonia istituzionale". Lo dice il procuratore facente funzioni, Nunzio Fragliasso. "Le iniziative investigative assunte, nell'ambito della propria autonomia decisionale, dalla procura di Roma in relazione a vicende concernenti la Consip, che non sono connesse a quelle per le quali procede questa procura, allo stato non hanno alcun riflesso sulle indagini del Noe su delega di questo ufficio", aggiunge.

"La stampa odierna parla apertamente ormai di duello tra i Pm di Roma e Napoli", scrive invece Zanettin, ricordando che mentre la procura di Roma ha accusato di falso ideologico il capitano del Noe Giampaolo Scafato "per aver alterato l'intercettazione contro Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, ed aver accreditato la possibilità che i servizi segreti stessero 'spiando' l'inchiesta", la Procura di Napoli "ha ribadito 'piena fiducia nell'operato del Noè e confermato la delega per il filone investigativo che coinvolge Romeo in Campania".

"L'opinione pubblica - nota il consigliere - si chiede se Scafato abbia agito per sbadataggine, o perché mosso da ambizione di carriera, o addirittura perché manovrato da qualche burattinaio che è rimasto nell'ombra. E' certo che queste vicende gettano un'ombra inquietante sul comportamento di apparati dello Stato, in apparente conflitto tra loro". "In un quadro così delicato per l'equilibrio democratico del paese, il Csm non può rimanere inerte - conclude Zanettin - e nei limiti e nel rispetto delle proprie prerogative, deve svolgere gli opportuni accertamenti sull'operato delle Procure della Repubblica coinvolte".

Csm in campo sul caso Consip "Ombre sull'operato dei pm". Il laico Zanettin chiede l'apertura di una pratica su Napoli: "Garantire la trasparenza dei magistrati", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 13/04/2017, su "Il Giornale". Minacciosi tamburi di guerra risuonano tra le procure di Roma e di Napoli, entrambe impegnate sul caso Consip. L'ufficio giudiziario capitolino ha puntato il dito contro il Noe, revocando l'indagine al nucleo dell'Arma al quale, invece, Napoli ha confermato l'incarico, nonostante il capitano del Noe Scafarto sia sotto inchiesta a Roma. Sul caos-Consip è imminente l'apertura di una pratica al Csm, chiesta dal membro laico del consiglio, Pierantonio Zanettin, per far luce su «un'ombra inquietante sul comportamento di apparati dello Stato in conflitto tra loro». «Credo che il Csm non possa rimanere inerte - esordisce Zanettin - e che il suo compito istituzionale sia accertare se il comportamento di singoli possa aver offuscato l'immagine del magistrato, determinando un'incompatibilità ambientale o funzionale».

C'è uno scontro tra procure. Intende mettere sotto osservazione, in particolare, i pm titolari dell'inchiesta nata a Napoli?

«Il capitano del Noe Scafarto è accusato di falso ideologico per aver alterato la trascrizione di un'intercettazione contro Tiziano Renzi e accreditato la possibilità che i servizi segreti spiassero l'inchiesta. La Procura di Roma avrebbe disposto di riascoltare tutte le intercettazioni nell'ufficio di Alfredo Romeo, fatte dal Noe. Al quale la Procura di Roma aveva già revocato la delega per le indagini, mentre Napoli l'ha confermata. Evidentemente, c'è il sospetto che possa essere stato inquinato anche dell'altro, nell'inchiesta».

Ci si chiede come mai, su aspetti così delicati per le ricadute politiche, i pm di Napoli Henry John Woodcock e Celeste Carrano non hanno fatto i controlli che stanno facendo a Roma.

«Per questo il Csm deve sottoporre al vaglio di trasparenza tutto l'operato dei magistrati. Bisogna capire che cosa è successo, come mai c'è stato per troppo tempo un uso distorto delle intercettazioni filtrate ai mass media».

Che dubbi, secondo lei, nascono dall'indagine sul capitano Scafarto?

«L'opinione pubblica si chiede se abbia agito per sbadataggine, per ambizione o perché manovrato da un burattinaio. Su questo deve avere risposte e il compito del Csm è garantire il comportamento dei magistrati incaricati dell'inchiesta».

Qual è la tempistica della sua richiesta?

«Domani (oggi, ndr) si riunirà il Comitato di presidenza del Csm e dovrebbe arrivare la risposta. Se sarà positiva se ne occuperà la Prima commissione, presieduta dal laico del Pd Fanfani. Dovrà accertare se ci sono gli estremi di un trasferimento d'ufficio per oggettiva incompatibilità. Quindi si chiederanno gli atti e si procederà alle audizioni degli interessati: capi delle procure, pm, eventualmente anche i vertici dei carabinieri, che certo avranno avviato un'inchiesta interna».

Saranno convocati anche Woodcock e Carrano?

«Lo deciderà, eventualmente, la Prima commissione».

Potrebbe esserci anche un'ispezione ministeriale?

«Potrebbero esserci gli estremi per un'ispezione, ma questo dovrà valutarlo il ministro della Giustizia».

"Errore grave, nessun complotto: il controllo non spettava a noi". Il pm Woodcock e la polemica sui falsi negli atti scoperti da Roma. "Le carte del Noe mai trattate dalla procura di Napoli, sono state passate a Roma. Il collega Ielo? Lo stimo", scrive Liana Milella il 13 aprile 2017 su "La Repubblica". Paolo Ielo? «Lo stimo, e sono suo amico». La lite tra procure? «Non esiste». L’intercettazione attribuita dal carabiniere del Noe a Romeo anziché a Bocchino? «Un grave errore, senza dubbio, ma mi chiedo “cui prodest?”». La fuga di notizie sull’inchiesta Consip? «Uno scempio, e un gravissimo danno per l’indagine, solo un pazzo avrebbe potuto provocarla danneggiando il proprio lavoro». Un complotto contro Renzi? «Solo un folle potrebbe pensarci». La procura di Napoli colpevole perché non ha vigilato sul lavoro dell’ufficiale? «Ma per Napoli quelle carte sono tuttora un “interna corporis”, su cui la procura non ha compiuto alcun atto. Le ha passate a Roma». A tutti quelli, e sono molti, che lo hanno cercato in questi giorni, il pubblico ministero Henry John Woodcock ha consegnato la stessa frase: «C’è una regola per i magistrati, che io rispetto, e che non mi consente di parlare. Quindi io non parlo, soprattutto in un momento delicatissimo come questo». Certo non è mai stato loquace Woodcock, pur di frequente attaccato per le sue inchieste prima a Potenza e poi a Napoli. Ma inutile cercare interviste in archivio, neppure su temi che lo appassionano come le intercettazioni. Stavolta però, tale è la pressione su di lui che almeno con i suoi colleghi Woodcock è costretto a parlare. A partire da Nunzio Fragliasso, il magistrato che regge la procura di Napoli in assenza del capo che il Csm deve nominare. Alle nove di sera Fragliasso è nelle torri della Procura di Napoli.

Vede Woodcock preoccupato?

La risposta è secca: «Non ce n’è motivo, conoscendo la sua serietà e lo scrupolo con cui lavora. Lui e la collega Celeste Carrano sono ottimi investigatori. Se un errore dovesse effettivamente esserci stato non si traduce in una omessa vigilanza del pm che poteva anche non sapere. Comunque la palla è passata a Roma».

L’errore dunque. Con i colleghi Woodcock non lascia margini al dubbio sulla responsabilità del capitano Scafarto: «Non è la prima volta che si verifica uno sbaglio in un’informativa. Io ho un’idea sacrale e notarile degli atti giudiziari, sono convinto che la polizia non debba innamorarsi delle proprie tesi. Detto questo, l’errore è stato commesso, ed è un errore molto grave, non solo per aver attribuito la frase alla persona sbagliata, ma anche per essersi lasciato andare a un commento».

La considerazione successiva è inevitabile, si è trattato solo di un fraintendimento o di una grave manipolazione delle carte processuali?

«La prima risposta, la più logica, è che si sia trattato di un errore».

E se dietro ci fosse un complotto?

Con i pm che entrano nella sua stanza Woodcock prova a ragionare in questo modo: «Mi chiedo, ma cui prodest? Perché il capitano avrebbe dovuto fare questo? Perché avrebbe dovuto mettere in atto una pianificazione eversiva contro Renzi? A me pare davvero una cosa da pazzi…».

Un progetto eversivo?

«Insisto, solo un pazzo può pensarlo».

E se fosse la vendetta postuma dell’ex vice comandante del Noe Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che catturò Riina, ma è stato rimosso dopo l’uscita di un’intercettazione del Noe tra Renzi e il generale della Gdf Adinolfi?

«Innanzitutto Scafarto non ha mai lavorato a Palermo con De Caprio, non fa parte della sua squadra storica… e poi via ...adesso De Caprio lavora nei servizi, quindi è un dipendente della presidenza del Consiglio…».

Casuale o pianificato l’errore è lì, la procura di Roma lo ha scoperto, indaga su eventuali altri fraintendimenti o peggio volontarie storture. È esploso un terremoto politico. Napoli non ha una responsabilità, non avrebbe dovuto seguire passo passo il lavoro dei Cc e stanare subito l’eventuale svista?

Di questo Woodcock ha ragionato con i suoi colleghi. La posizione è ferma: «Napoli ha trasmesso a Roma questa parte dell’inchiesta. Non ha usato questa informativa. Per me essa è tuttora un’interna corporis. Io sarei ancora in tempo a fare dei controlli».

Sì, ma il pm non dovrebbe controllare il lavoro della polizia giudiziaria?

«Qui parliamo di migliaia di pagine. Certo, ogni giorno gli investigatori informano sui progressi dell’inchiesta, ma è impraticabile ascoltare la registrazione. E poi, la procura di Napoli non ha utilizzato queste carte, sono carte su cui si potrebbero tuttora compiere approfondimenti». C’è chi accusa Woodcock di essere il mandante. Pare che a questa domanda lui abbia riso: «Se lo dicono chiaramente li querelo e mi compro una casa a Capri… anzi meglio... a Sorrento».

Eppure si è scatenata una guerra tra le procure di Roma e Napoli.

«La guerra non esiste. Io sono amico di Paolo Ielo, ci sentiamo e ci vediamo. Siamo stati a pranzo insieme. Lo stimo, lavora bene da trent’anni. Certo, ci sono scelte diverse. Ma date alla mia procura il tempo di depositare le carte. Lì c’è la prova di quanta professionalità è stata usata in questa vicenda».

Inchiesta Consip, due carabinieri smentiscono il capitano del Noe. La testimonianza: «Informammo Gianpaolo Scafarto delle verifiche (negative) sui servizi segreti». La procura di Napoli: su di noi nessun riflesso. I pm di Roma ordinano nuovi accertamenti, scrive Fiorenza Sarzanini il 12 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto fu informato dai suoi sottoposti che le verifiche su eventuali pedinamenti compiuti da uomini dei servizi segreti avevano dato esito negativo. La nota di servizio con il risultato degli accertamenti gli fu consegnata a ottobre. Ma nonostante questo, nell’informativa sul caso Consip trasmessa ai magistrati tre mesi dopo, un intero capitolo fu dedicato proprio al ruolo che avrebbero avuto gli 007. Sono stati due carabinieri, interrogati dal pubblico ministero Mario Palazzi, a smentire la versione fornita dal capitano negli atti ufficiali. E il giorno dopo Scarfato ha ricevuto un avviso a comparire per falso. Accusa gravissima che adesso rischia di compromettere l’intera inchiesta e ha riaperto in maniera clamorosa lo scontro tra i magistrati di Roma e Napoli. Al di là delle smentite pubbliche, ieri è stato il capo dell’ufficio partenopeo a voler ribadire la fiducia nell’operato degli investigatori del Noe.

Le due relazioni. Sono due le manipolazioni contestate finora a Scarfato. La prima riguarda la frase intercettata «l’ultima volta che ho incontrato Renzi» attribuita all’imprenditore Alfredo Romeo per dimostrare il suo contatto con Tiziano Renzi, il padre dell’ex presidente del Consiglio. In realtà, come risulta dal brogliaccio, quelle parole sono state pronunciate dal suo collaboratore Italo Bocchino. La seconda, ritenuta altrettanto grave, attiene invece al ruolo dei Servizi. Nell’informativa del 9 gennaio Scarfato parla di «due annotazioni di servizio del 18 e 19 ottobre» e spiega che la seconda «redatta dal brigadiere Locci e dal carabiniere scelto Biancu aveva evidenziato come, mentre i militari si erano recati in piazza Nicosia per effettuare l’acquisizione della spazzatura prodotta dalla Romeo Gestioni spa gli stessi “notavano persone in abiti civili e atteggiamento sospetto...”».

Testi dell’accusa. Locci e Biancu sono stati interrogati come testimoni. E hanno raccontato una versione molto diversa. In particolare hanno chiarito che nell’annotazione del 19 ottobre veniva specificato che «la persona qualificata come sospetta utilizzava un’autovettura Jeep di cui avevano preso la targa». E soprattutto che le verifiche effettuate quel giorno e il giorno dopo avevano permesso di scoprire che quell’uomo era un residente nella stessa strada e non c’era alcun elemento di dubbio nei suoi confronti. «Abbiamo informato in tempo reale il capitano Scarfato del risultato delle nostre ricerche, lui sapeva sin dall’inizio che si trattava di un cittadino italiano nato a Caracas che vive in quella via», hanno sottoscritto nel verbale.

Perquisizioni sospette. Quanto basta per convincere Palazzi e il procuratore aggiunto Paolo Ielo a convocare Scarfato come indagato e a disporre nuovi accertamenti sull’operato del Noe. In queste ore vengono ripercorsi i contatti dell’ufficiale fuori e dentro il suo ufficio, i rapporti con i collaboratori più stretti, eventuali legami con l’esterno che possano averlo condizionato nel suo lavoro. Ma anche le modalità di acquisizione delle prove allegate al fascicolo. In particolare si sta ricostruendo che cosa accade proprio il 18 ottobre, quando sarebbe stato trovato nella spazzatura della Romeo Gestioni spa il pizzino scritto da Romeo con le “dazioni” che secondo l’accusa erano per Tiziano Renzi e per il faccendiere Carlo Russo, entrambi indagati per traffico di influenze illecite. Le verifiche affidate ai carabinieri del Nucleo provinciale — dopo la scelta fatta alla fine di febbraio dal procuratore Giuseppe Pignatone di ritirare la delega d’indagine al Noe accusando il reparto dell’Arma di aver fatto filtrare notizie ancora coperte dal segreto istruttorio — mirano tra l’altro a capire se davvero quei documenti siano stati recuperati nell’immondizia o se invece possano essere stati acquisiti in una maniera diversa.

Stima dal procuratore. Il sospetto che altri depistaggi possano essere stati compiuti, non fa comunque cambiare idea ai magistrati di Napoli. Dopo una riunione con il pubblico ministero Henry John Woodcock, il procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso dirama una nota ufficiale per ribadire la posizione dell’ufficio giudiziario. La premessa appare conciliante perché «esclude categoricamente che vi sia alcun contrasto o alcuna tensione con la Procura della Repubblica di Roma, con la quale vi è piena sintonia istituzionale». Ma subito dopo si chiarisce la decisione presa e si marca la distanza: «Le recenti iniziative investigative assunte, nell’ambito della propria autonomia decisionale, dalla Procura di Roma in relazione a vicende concernenti la Consip, che non sono connesse a quelle per le quali procede questa Procura, allo stato non hanno alcun riflesso sulle indagini condotte dal Noe su delega di questo ufficio». Il messaggio è chiaro: andiamo avanti con il Noe, noi ci fidiamo.

Woodcock, nemico di politici e vip che colleziona solo flop. E sognava di fare lo stilista..., scrive il 13 Aprile 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano”. Nota preliminare: non è che possono dirmi «occhio alle querele» e poi chiedermi il ritratto di uno come Henry John Woodcock: significa che non hanno capito. Le querele basta farle, e lui le fa. Se un magistrato arresta mille persone per genocidio ma poi ne condannano una sola per divieto di sosta - è solo uno stupido esempio - ufficialmente la sua inchiesta non è stata un flop. Non puoi scriverlo, o meglio: puoi, ma rischi.

Comunque: Woodcock ha fatto un sacco di flop (lo scrivo, amen) e per il resto è la vanità fatta persona. Tralasciamo i cenni biografici soliti (nato a, figlio di) e diciamo solo che è un napoletano di crescita. La prima volta che lo vidi era al ristorante del lido di Macchiatonda, a Capalbio, alle 13.30 di una domenica del 2007: giubbotto rosso, cappellino da baseball, lo sguardo autoriflesso di chi si sentiva al centro dell’inquadratura. La stampa italiana, che tende a far schifo, aveva appena dedicato ampi servizi alla sua moto, al suo cane e alla bistecca di vitella tagliata grossa, che gli piaceva tanto e che comprava da un certo macellaio di Potenza. A un cronista di Vanity Fair, testata dal nome azzeccatissimo, era bastato chiedere per ottenere, dal riservato Woodcock, immagini posatissime. Sulla copertina di Dipiù comparivano Woodcock e signora (discreto magistrato anche lei) e all’interno eccoti Woodcock in barca, in jeans, in cravatta, in toga, con la mamma, ancora con il cane, col padre, senza padre, sulla slitta. Tutte foto private e il titolo «Woodcock, la carriera e l’inchiesta dell’uomo che sta affascinando l’Italia». Su Panorama lo si vedeva poppante e poi quattordicenne in Croazia, poi ancora col cane.

La stampa italiana è qualcosa che nel 2007 ti faceva sapere che Woodcock mangiava formaggini, arance, banane e soprattutto antipasto con ricotta, salame, mozzarella e caciocavallo. Però secondo Panorama - viva il pluralismo - preferiva fagioli e cozze, mentre Vanity Fair insisteva sugli strascinati e aggiungeva pasta e ceci. A Studio Aperto, su Italia Uno, nell’aprile 2007, Woodcock confessò che da giovane voleva fare lo stilista. Beh, a suo modo ce l’aveva fatta: era indubbiamente uno stilista del diritto come già gli avevano riconosciuto molti tribunali giudicanti. Le sue inchieste più note erano già state state una collezione di incompetenze territoriali, nomi altisonanti assolti, ministri prosciolti, richieste d’arresto ingiustificate, e poi archiviazioni, bocciature per il 70 per cento dei suoi ricorsi, più 6 milioni e 400mila euro spesi per tre anni di intercettazioni a Potenza. E dire che da scriverne seriamente non mancava: il primo flop risaliva al 2000, quando Woodcock imbastì un’inchiesta sulla Banca Mediterranea che diede un nulla di fatto. Poi il più noto “Vipgate” (2003) che coinvolgeva 78 persone e tra queste Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, il diplomatico Umberto Vattani, il cantante Tony Renis e la conduttrice tv Anna La Rosa. Accuse di ogni tipo (associazione per delinquere, corruzione, estorsione) ma poi l’inchiesta approderà a Roma e finirà archiviata. Poi l’inchiesta “Iene 2” (2004) su presunte connessioni tra politici lucani e mafia (51 arresti respinti) con tanto di ispezione mandata dal guardasigilli Roberto Castelli: fecero flop entrambe, l’inchiesta e l’ispezione.

Ed eccoci al mitico “Savoiagate”, quello che prese di mira Vittorio Emanuele di Savoia il quale tutto meritava, fuorché uno come Woodcock: finirà in nulla anche questa, e il reale verrà assolto con molti altri imputati. All’ex sindaco di Campione Roberto Salmoiraghi, arrestato e costretto alle dimissioni, fu riconosciuto un risarcimento di 11mila euro, mentre a Vittorio Emanuele, 40mila. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano giunse a chiedere al Csm notizie di questo Woodcock. Uh, abbiamo dimenticato l’inchiesta sull’Inail: furono prosciolti tutti i parlamentari che aveva inquisito e rispediti al mittente una sessantina di arresti, compresi due deputati e il presidente della Camera penale della Basilicata, poi scagionato e uscito di galera in tempo per diventare difensore di Vittorio Emanuele. Là è tutto un po’ aggrovigliato.

Forse è per questo che, più di queste cose, nel 2007, la stampa italiana spiegava che quando c’era Montalbano in tv, la sera, Woodcock usciva anzitempo dall’ufficio. Spiegava che gli piaceva anche Distretto di Polizia. Che sul suo comodino c’erano libri di Salinger, Pasolini ed Erri de Luca. Che il rapporto tra Woodcock e la giornalista Federica Sciarelli (con la quale fu immortalato in varie situazioni) era solamente di tipo professionale. Notizie importanti. E le ispezioni ministeriali, spedite a Potenza dall’allora guardasigilli Clemente Mastella, in fondo, di notizie non ne trovarono molte di più. I giornali invece sì, anche perché la nuova inchiesta glamour “Vallettopoli” era fantastica: la soubrette Elisabetta Gregoraci, il portavoce di Gianfranco Fini Salvatore Sottile, e Lele Mora, Fabrizio Corona, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio, poi vabbeh, l’inchiesta approdò a Roma per legittima competenza e videro che non c’era nulla: però c’eravamo divertiti, no? Morto un processo nel silenzio, tanto, i giornali già si lanciavano su sempre nuove inchieste: allora come oggi. Woodcock fece anche un’inchiesta sulla massoneria (mancava) ma per una volta fu lui stesso a fare marcia indietro per inconsistenza dell’accusa. Miracolo. Sta di fatto che Woodcock aveva raggiunto la quota di 210 innocenti accusati senza fondamento - fu calcolato - con una media di 15 all’anno a partire dal 1996.

Poi si trasferì a Napoli (2009) e con lui il suo metodo. Nel 2011, quando uscì il primo numero del Fatto Quotidiano, il primo titolo di prima pagina fu: «Indagato Gianni Letta»: e naturalmente era innocente. Indovinate di chi era l’inchiesta. Fecero rumore, dunque, le intercettazioni dell’indagine cosiddetta P4, un «sistema informativo parallelo» allestito dal mediatore Luigi Bisignani. Alfonso Papa (Pdl) fu clamorosamente svenduto dal Parlamento e divenne il primo parlamentare italiano a finire in carcere per dei reati non violenti: anche se, dopo 157 giorni di galera, fu scarcerato dal Tribunale del Riesame e poi anche dalla Cassazione, che di passaggio sancì che l’associazione P4 non esisteva.

Poi? Poi è finito lo spazio - qui - ma non i flop - ovunque. Ci sarebbe da dire anche sull’inchiesta sulla Guardia di Finanza avviata da Woodcock nel 2014: limitiamoci al destino del generale Vito Bardi, già indagato da Woodcock nell’inchiesta “P4” (innocente) e nuovamente archiviato il 4 aprile scorso per «insussistenza di ogni ipotesi di illecito». Bardi non era neppure stato mai ascoltato né aveva avuto la possibilità di conoscere i suoi accusatori. Carriera distrutta lo stesso: diversamente da quella del magistrato che l’aveva accusato due volte. In tribunale, comunque, Woodcock ha ottenuto anche delle vittorie: per le querele che ha sporto. Eccoci candidati a suoi nuovi mirabolanti successi. Filippo Facci

Michele Anzaldi: «Il direttore Orfeo ha “censurato” Consip? Se è così è un vero giornalista». Intervista di Rocco Vazzana del 12 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Intervista a Michele Anzaldi, segretario della commissione Vigilanza Rai e responsabile della comunicazione di Matteo Renzi. «A me il caso Consip mette paura». «Ciò che hanno fatto i 5 Stelle è disdicevole: hanno violato la privacy di una persona e potrebbe anche profilarsi il reato di stalking». Michele Anzaldi, segretario della commissione Vigilanza Rai e responsabile della comunicazione di Matteo Renzi, commenta così il video apparso sul Blog di Beppe Grillo in cui due militanti 5 Stelle, imitando lo stile delle Iene, inseguono per strada Mario Orfeo, il direttore del Tg1, accusandolo di parzialità nella gestione del suo giornale. «L’accaduto è già stato condannato da tutti in Vigilanza», dice il deputato dem, «ma secondo me dovrebbe intervenire anche l’Ordine dei giornalisti, visto che uno dei due attivisti si è qualificato come cronista». Non solo, «dovrebbe prendere provvedimenti pure la Questura, non escludo che per Orfeo sia necessaria una scorta, perché rilanciare sul web certe cose è pericoloso, in Rete ci sta di tutto».

In Commissione anche il presidente, Roberto Fico, ha condannato l’accaduto?

«Lui è stato zitto. Invece, l’altro esponente 5 Stelle, il senatore Alberto Airola, non si è dissociato ma almeno non ha rivendicato l’azione. Non capisco però su che base i grillini abbiano organizzato questo “assalto”, proprio loro che esprimono il presidente della Commissione di Vigilanza. Se i 5 Stelle ritengono, sulla base di dati concreti, che il Tg1 non sia stato imparziale, possono fare una denuncia: presentano un esposto, interviene l’Agcom e vengono comminate eventuali sanzioni se hanno regione».

Le finte Iene pentastellate sostengono che il Tg1 abbia dedicato più spazio alla querela di Cassimatis nei confronti di Grillo che al “caso Consip”. È così?

«Le scalette non le fa la politica ma il direttore che è lautamente pagato per questo. Ma poi, sostenere proprio oggi che si è parlato troppo poco di Consip mi sembra fuori luogo. Alla luce delle novità sul caso, con lo scandalo delle intercettazioni false, se fosse vero ciò che sostengono i grillini significherebbe che Orfeo è l’unico vero giornalista in circolazione: accorto e lungimirante. Anzi, ci sarebbe da riflettere su quei giornali e trasmissioni televisive che si sono buttate a capofitto sulla vicenda Consip, di- struggendo la vita di molte persone».

Però alcuni organi di informazione insistono: le intercettazioni taroccate non inficiano l’inchiesta…

«Penso che siano degli esempi di cattivo giornalismo. A me il caso Consip, da italiano, mette paura. Perché se è stata possibile l’alterazione dei documenti di un’inchiesta che riguarda persone vicine a una personalità così tutelata, come il presidente del Consiglio e nello stesso tempo segretario del più grande partito di maggioranza, a un semplice funzionario cosa fanno? E a un direttore di giornale?»

Lei ha polemizzato anche con Report che ha mandato in onda un servizio su l’Unità. Secondo il programma di Rai3, l’ex segretario del Pd, in cambio del salvataggio del quotidiano di partito, avrebbe aiutato l’imprenditore Pessina a ottenere commesse in Kazakistan e Iran. Perché lei ha liquidato la notizia come una «calunnia»?

«A me stupisce il pezzo in sé, perché si fonda sulle dichiarazioni di un signore di cui non si sa nemmeno il nome ma sostiene di conoscere alcuni dettagli dell’operazione per sentito dire. Non mi pare una notizia. Mi sembra che Report abbia costruito un castello di carta. Tra l’altro, a guardare il servizio, si scopre che la famiglia Pessina operava in Kazakistan già nel 2014, cioè quando l’Unità apparteneva a un altro proprietario. Che c’entra, dunque, lo scambio di favori per salvare il giornale?»

Ma perché Renzi non ha smentito la notizia in trasmissione e si è limitato a inviare una lettera di diffida?

«Ora spiego come sono andate le cose. Ricevo una telefonata da una redattrice di Report che mi dice: “Stiamo facendo un servizio su l’Unità, vorremmo intervistare Renzi”. Io pensavo si trattasse di un pezzo sulla crisi economica del quotidiano e le chiedo di rinviare l’intervista a dopo le primarie. Poco dopo ricevo un’email dalla redazione con un allegato in cui si spiega che la trasmissione è in possesso della testimonianza di una fonte anonima che racconta le cose che poi abbiamo visto in Tv. Giro la lettera ai miei colleghi del Pd che hanno seguito il salvataggio dell’Unità e loro decidono di rivolgersi ad un avvocato, alla luce delle dichiarazioni anonime palesemente diffamatorie».

Non sarebbe stato meglio concedere l’intervista per smentire?

«Ma come la facevamo l’intervista? Noi non conoscevamo nel dettaglio le accuse che venivano mosse. Non potevamo rispondere al buio, né il format della trasmissione prevede la presenza dell’interessato in diretta. E poi, lo dico da addetto stampa, perché il numero uno del partito dovrebbe concedere un’intervista su un tema di cui non si è mai occupato in prima persona? Abitualmente replica il più competente in materia. Report non ha fatto un buon lavoro».

Fico non la pensa come lei. Il presidente della Vigilanza Ra difende il lavoro dei giornalisti…

«Roberto Fico in Vigilanza non apre bocca, anzi, è eccessivamente silenzioso. Fuori dalle istituzioni parla tanto e dice di tutto, dentro appare spesso accondiscendente».

I 5 Stelle ricambiano la stima, sostengono che lei abbia un enorme conflitto d’interessi: segretario di Vigilanza Rai e responsabile della comunicazione di Renzi…

«I poteri della Commissione di Vigilanza sono ben precisi e regolati dalla legge, non vedo quale possa essere il conflitto. Non capisco di che parliamo, mi sembra solo un modo strumentale di accusarmi. Sono l’unico che muove critiche al servizio pubblico fondate su elementi fattuali e concreti, fin dall’inizio del mio mandato, nonostante sia un esponente del partito di maggioranza. I 5 Stelle non sono mai arrivati prima del Pd, anzi».

Neanche sulla legge elettorale? Renzi ora dice di essere disposto a togliere i capilista bloccati ma sostiene che spetta alle opposizioni avanzare una proposta. Concorda?

«Sì, Renzi è stato chiarissimo: al Senato c’è un’altra maggioranza, tocca agli altri uscire allo scoperto. Così vedremo chi davvero vuole i capilista bloccati e chi no. Magari scopriremo che per alcuni sono vitali. Se Grillo non avesse i capilista bloccati come farebbe?»

Diciamo che farebbe comodo anche al futuro segretario Pd decidere chi mettere in lista…

«Vedremo. Però io vengo dal Sud e ho un’opinione personale: c’è stato un momento, si votava con le preferenze, in cui la malavita influenzava pesantemente il voto. I partiti hanno un ruolo ed è giusto che decidano le regole del gioco. Comunque, a chi si lamenta dell’impasse ricordo solo che fino a poco tempo fa dicevano: votate No e in sei mesi facciamo la legge elettorale e una nuova Riforma costituzionale. Sono passati quattro mesi dal referendum e mi sembra che siamo ancora in mezzo al guado».

Tutti i protagonisti della vicenda Consip: l'infografica. Da Alfredo Romeo, arrestato per corruzione a Tiziano Renzi e Italo Bocchino, indagati fino ai testimoni chiave. Ecco chi e come è coinvolto nei due filoni dell'inchiesta che ruota attorno alla Centrale acquisti della pubblica amministrazione, scrive Monica Rubino e VisualLab il 2 marzo 2017 su "La Repubblica". Dopo mesi di indagine tra Napoli e Roma nell'inchiesta sugli appalti Consip, la centrale unica degli acquisti della pubblica amministrazione, è finito in manette l'imprenditore Alfredo Romeo con l'accusa di corruzione.

 Interventi ai più alti livelli politici, pizzini, mazzette in contanti, corruzione come sistema. C'è tutto questo agli atti nelle confessioni di Marco Gasparri, l'alto funzionario della Consip che per gli inquirenti fu corrotto con 100mila euro. Corruttore l'imprenditore Alfredo Romeo: ottenne notizie segrete sui bandi e divenne il favorito per aggiudicarsi tre dei 18 lotti di un appalto ("Facility management 4", nome in sigla Fm4) del valore di 2 miliardi e 700 milioni. Una "guerra imprenditoriale a suon di tangenti", "un gravissimo quadro di infiltrazione criminale" scrivono gli inquirenti. Chiamato a rispondere anche Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, indagato per traffico di influenze con l'amico imprenditore Carlo Russo. I due, si legge in un decreto di perquisizione, si facevano promettere somme di denaro da Romeo per la loro mediazione con il numero uno di Consip, Luigi Marroni. L'ad di Consip intanto ha fatto sapere che tutte le gare sospette saranno annullate. Ma dalle ultime rivelazioni del settimanale l’Espresso, che ha anticipato stralci di un verbale reso ai pm di Napoli il 20 dicembre 2016, Marroni avrebbe rivelato ai magistrati di aver ricevuto pressioni da Tiziano Renzi e Denis Verdini in merito all’assegnazione di gare d’appalto del valore di centinaia di milioni di euro. Coivolto nell'inchiesta anche il ministro dello Sport, molto vicino a Matteo Renzi, Luca Lotti, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio: avrebbe rivelato ai vertici di Consip l'esistenza di un'indagine in corso e la presenza di cimici negli uffici di via Isonzo della concessionaria dello Stato. Stessa accusa anche per il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette. La timeline:

Novembre 2016. La Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli indaga su presunti appalti truccati all’ospedale Cardarelli. Nel mirino la società di Alfredo Romeo: alcuni dipendenti sono sospettati di avere dei contatti con la camorra.

Dicembre 2016. L’inchiesta si allarga a Roma e coinvolge la Consip, centrale unica per i servizi della pubblica amministrazione. In particolare si indaga sulla gara per il “Facility management”, del valore di 2,7 miliardi di euro, di cui Romeo si è aggiudicato tre lotti (valore 600 milioni), per la gestione dei palazzi delle istituzioni a Roma.

23 dicembre 2016. Trapela la notizia che il ministro allo Sport Luca Lotti (già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Renzi) è indagato per rivelazione di segreto istruttorio. Indagato anche il comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette. Secondo l’accusa, i due hanno avvisato i vertici Consip dell’esistenza di un’indagine e della presenza di microspie.

27 dicembre 2016. Luca Lotti viene interrogato a Roma dal pubblico ministero Mario Palazzi e respinge le accuse: “Non sapevo dell’esistenza di un’inchiesta, quindi non avrei potuto rivelare a qualcuno circostanze dell’indagine in corso”.

16 febbraio 2017. Tiziano Renzi, padre di Matteo, riceve un avviso di garanzia dalla procura di Roma per “traffico di influenze illecite”: secondo l’ipotesi di accusa, insieme all’imprenditore toscano Carlo Russo, si sarebbe dato da fare per facilitare Alfredo Romeo e fargli ottenere gli appalti Consip.

1 marzo 2017. Arrestato a Napoli Alfredo Romeo, con l’accusa di corruzione nei confronti di Marco Gasparri, dirigente Consip (a sua volta indagato): secondo l’accusa, Romeo gli avrebbe versato somme per 100 mila euro, a partire dal 2012.

03 marzo 2017. Tiziano Renzi interrogato per 4 ore a Roma dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. “Quello di cui stiamo parlando – dice il suo legale Federico Barattini – è un classico caso di abuso di cognome. Qualcuno ha abusato del nome di Tiziano Renzi. Lui non è mai stato in Consip e non ha mai preso un soldo, non ha mai avuto rapporti con Alfredo Romeo. Non lo ha mai visto”.

03 marzo 2017. Tra le carte dell’inchiesta spunta “Mister X”: un uomo che Tiziano Renzi ha incontrato nel parcheggio dell’aeroporto di Fiumicino il 7 dicembre. Ma lo stesso Renzi smonta il caso, sostenendo che si tratta di una persona con la quale ha rapporti di lavoro e ne fa il nome agli inquirenti.

06 marzo 2017. Mister X esce allo scoperto: si tratta di Alessandro Comparetto, direttore generale della società di poste private Fulmine Group: “Sono stato io a incontrare Tiziano Renzi a Fiumicino”. L’uomo è estraneo all’inchiesta.

06 marzo 2017. Alfredo Romeo, interrogato dal giudice delle indagini preliminari Gaspare Sturzo nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto dopo l’arresto, non risponde alle domande, avvalendosi della facoltà concessa agli indagati. I suoi legali depositano una memoria: “L’immagine di Romeo come grande corruttore non è corretta”.

15 marzo 2017. I pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano hanno disposto perquisizioni nell'ufficio del direttore generale per la gestione e manutenzione degli edifici giudiziari napoletani, Emanuele Caldarera, e presso gli uffici della Romeo Gestioni al Centro direzionale e presso il Palazzo di Giustizia.

29 marzo 2017. Consip, Emiliano ascoltato in procura a Roma per gli sms ricevuti da Lotti e Tiziano Renzi.

10 aprile 2017. Il capitano del Noe, Giampaolo Scafarto, è indagato dalla procura di Roma per falso. Autore di un'informativa, avrebbe accreditato erroneamente la tesi della ingerenza dei servizi segreti nel corso degli accertamenti e avrebbe poi falsamente attribuito ad Alfredo Romeo e non al suo collaboratore Italo Bocchino la frase intercettata: "...Renzi l'ultima volta che l'ho incontrato". Interrogato si è avvalso della facoltà di non rispondere.

I PROTAGONISTI.

Alfredo Romeo, imprenditore napoletano. Accusato di: corruzione dal 2012 nei confronti del dirigente della Consip Marco Gasparri, al fine di ottenere appalti sui servizi dei palazzi romani del potere.

Marco Gasparri, ex dirigente Consip. Accusato di aver ricevuto denaro da Romeo per passargli dritte sugli appalti.

Italo Bocchino, ex parlamentare AN e PDL, consulente di Alfredo Romeo. Accusato di: avere un ruolo di facilitatore nel procurare a Romeo agganci politici.

Tiziano Renzi, padre dell’ex Premier Matteo. Accusato di: favorire Alfredo Romeo nell’ottenere appalti Consip.

Carlo Russo, imprenditore farmaceutico toscano, amico di Tiziano Renzi. Accusato di: aver ricevuto somme di denaro mensili, come compenso per la mediazione verso Marroni.

Luca Lotti, Ministro dello Sport, braccio destro di Matteo Renzi e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio all’epoca dei fatti. Accusato di: rivelazione di segreto. Secondo i pm sapeva delle cimici e lo rivelò ai dirigenti Consip.

Tullio Del Sette, comandante dei carabinieri. Accusato di: aver svelato che c’era un’inchiesta sugli appalti Consip.

I TESTIMONI.

Guigi Marroni, amministratore delegato di Consip. Fece rimuovere le cimici negli uffici. Secondo l’Espresso avrebbe rivelato ai pm di aver ricevuto pressioni da Tiziano Renzi e Denis Verdini per l’assegnazione di gare d’appalto.

Alfredo Mazzei, commerciante napoletano ed esponente del PD, amico di Romeo. Ha raccontato ai pm di Napoli e Roma di un incontro riservato in una trattoria fra Romeo, Tiziano Renzi e Carlo Russo.

Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua, società del servizio idrico, vicino a Renzi e lOtti. Ha detto ai pm di aver saputo delle cimici da Lotti.

Intercettazioni manipolate? Molto più frequenti di quanto si possa immaginare. L'avvocato Michele Vaira, presidente di Aiga, spiega che le intercettazioni manipolate sono "pane quotidiano nelle aule penali". E dietro a chi compie queste forzature c'è sempre un pm che ne ha la responsabilità, scrive Orlando Sacchelli, Giovedì 13/04/2017 su "Il Giornale". Il caso del capitano dei carabinieri Giampaolo Scafarto, indagato per l'alterazione di un'intercettazione per mettere nei guai Tiziano Renzi e il figlio, l'ex premier Matteo, evidenzia il cortocircuito del nostro sistema giudiziario, con pesanti implicazioni politico istituzionali.

Il problema ovviamente non riguarda solo l'ex premier, per cui, secondo il Csm, emergono ombre sull'operato del pm. È un problema molto più esteso. Le intercettazioni, infatti, non vengono ascoltate. Nella maggior parte dei casi ci si limita a leggere i brogliacci stesi dai sottufficiali o dai poliziotti che "ascoltano" e poi consegnano ai loro superiori. Sono questi ultimi che scrivono, firmano e inviano l'informativa finale ai pm. E soltanto alcuni magistrati verificano personalmente la corrispondenza tra brogliacci e informativa, per non parlare del riascolto dei passaggi più rilevanti (sempre più raro). Per cercare di comprendere meglio il fenomeno ne abbiamo parlato con chi ogni giorno, nelle aule del tribunale, si trova a dover fronteggiare anche scandali come questi: l'avvocato Michele Vaira, presidente dell'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati).

Cosa ne pensa dello scandalo legato al caso Consip?

«I più autorevoli commentatori evidenziano l'inaudita gravità dei fatti, scavano nei precedenti del capitano, citando un altro caso eclatante, relativo a un personaggio politico. Sottolineano l'appartenenza a un settore specializzato dell'Arma che non ha nulla a che vedere con l'indagine in questione. Fanno emergere i consolidati rapporti con un pm che non eccelle in concretezza. I più prudenti insistono sullo strano silenzio del capitano, a sua volta indagato; i più disinvolti ipotizzano una volontà del militare di orientare le indagini in un certo senso, non escludendo il compiacimento del pm. Ciò che emerge da tutti i commenti, però, è il senso di stupore e di sorpresa di fronte al fatto che i risultati di un'intercettazione possano essere manipolati».

Ma cosa deve pensare un cittadino di fronte a un episodio simile?

«Per chi frequenta le aule penali, in particolare nei processi di criminalità organizzata, una situazione del genere è pane quotidiano. Molti di questi "errori" passano inosservati, perché gli indagati non hanno le risorse difensive per farli emergere».

Ci può spiegare meglio?

«Anche quando, a seguito di monumentali attività difensive, si riesce a far emergere alcune distonie, spesso passano mesi, per non dire anni, dall'emissione di misure cautelari al momento in cui - finalmente - un perito, in dibattimento viene ad affermare che il nome dell'indagato corrisponde a un suono incomprensibile; che la frase in italiano degno dell'accademico della Crusca, dal contenuto chiarissimo, è in realtà una frase in dialetto stretto, dal significato ambiguo. In questi casi, però, nessuno scandalo. Per ogni capitano Scafarto che viene dipinto con sarcasmo, sottoposto a processo penale, perché tocca un potente, ci sono dieci agenti che vengono promossi per aver fatto le stesse cose, all'insegna della "lotta al crimine", che consente, secondi alcuni, qualche forzatura. Qualche piccola falsità».

Le responsabilità di chi sono?

«Dietro ognuno di questi agenti c'è sempre un pm che ne ha la responsabilità. Diretta, per averglielo ordinato. Indiretta, per aver fatto finta di niente. Colposa, per non essersene accorti. E in fondo a ogni processo, c'è anche un Giudice che non ha trasmesso gli atti alla Procura per la doverosa azione penale contro il falsario. Oggi, a fronte di un Capitan "Riscrivo" e un pm Woodcock sulla graticola, per aver - forse - violato le regole nei confronti di un cittadino incensurato, vi sono tanti capitani "Invento" e pm senza scrupoli nei confronti dei "poveri cristi" che sono invece promossi e applauditi».

Il marcio del nostro sistema è così diffuso?

«Per fortuna stiamo parlando di una sparuta minoranza. Che va combattuta da tutti, soprattutto dai rispettivi colleghi. Il nostro sistema può vantare su un alto livello di integrità dei magistrati e delle forze dell'ordine».

Lo scandalo intercettazioni: le toghe non le ascoltano

Soltanto il sottufficiale che riassume i colloqui verifica le conversazioni. Il pm: «È impossibile sentire tutto», scrive Luca Fazzo, Giovedì 13/04/2017, su "Il Giornale". Racconta Marcello Musso, pubblico ministero a Milano: «Mentirei se dicessi che ascolto personalmente tutte le intercettazioni, perché sarebbe materialmente impossibile. Ma non mi accontento dei riassunti, mi rileggo uno per uno tutti i brogliacci. E le intercettazioni importanti, quelle sì, me le ascolto personalmente». I suoi colleghi in giro per l'Italia fanno come lei? «Non lo so. Ma sono convinto che se non si fa in questo modo, si finisce al guinzaglio della polizia giudiziaria e non si fa il nostro dovere fino in fondo». E quindi? Chi è in Italia ad avere davvero in mano il controllo delle intercettazioni, formidabile strumento di indagine e arma altrettanto micidiale di campagna giornalistica e faida politica? La vicenda dell'inchiesta di Napoli e Roma sulla Consip, e della intercettazione falsamente attribuita a Alfredo Romeo dai carabinieri del Noe col risultato di inguaiare il padre di Matteo Renzi, solleva un tema delicato. Perché si scopre che in questo caso i magistrati romani si sono ben guardati dall'ascoltare personalmente la chiamata. Probabilmente non hanno mai nemmeno letto i cosiddetti brogliacci, gli appunti di lavoro in cui pare che la conversazione fosse correttamente attribuita a Italo Bocchino. E si sono accontentati di quanto venne scritto nell'informativa, cioè nella relazione conclusiva, firmata dal capitano Giampaolo Scafarto. Un comportamento incomprensibile, ma purtroppo - a quanto è dato di capire - piuttosto diffuso. Il meccanismo delle intercettazioni è basato su una serie di passaggi successivi. L'ascolto, in base alle esigenze investigative, può avvenire in diretta o in differita. Le conversazioni vengono registrate dai computer piazzati nelle sale ascolto delle Procure o presso i reparti investigativi, e il primo ad ascoltarle è un sottufficiale (dei carabinieri o della Finanza) o un poliziotto: uomini direttamente coinvolti nelle indagini, in grado di riconoscere le voci, di dare un senso alle chiacchiere. Sono loro a stendere il brogliaccio che consegnano ai loro superiori gerarchici, in genere un ufficiale o un vicequestore. Nel brogliaccio in teoria deve esserci tutto. È l'ufficiale che poi stende, firma e invia al magistrato l'informativa finale, che evidenzia i passaggi delle intercettazioni considerati di maggior interesse. Se il magistrato si accontenta, se non verifica personalmente, elementi decisivi possono - in buona o cattiva fede - venire omessi o stravolti: sia nei brogliacci che nella informativa finale. Ci sono magistrati, come il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, che controllano personalmente la corrispondenza tra brogliacci e informativa. Ce ne sono alcuni, come Musso, che vanno più in là e ascoltano i nastri più rilevanti. Ma ci sono purtroppo molti magistrati che, come nel caso Consip, si accontentano, e prendono per buona la trascrizione che viene loro proposta. A volte per semplice pigrizia, a volte perché risponde ai loro obiettivi.È per questo, tra l'altro, che buona parte dei progetti di legge sull'utilizzo delle intercettazioni non piacciono agli avvocati. Ordinare alla polizia giudiziaria di non trascrivere (nemmeno nei brogliacci, a quanto pare) le conversazioni irrilevanti, come ha fatto il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, aumenta a dismisura il potere del sottufficiale addetto all'ascolto, chiamato a decidere cosa sia utile e cosa inutile. E se nel tritarifiuti delle conversazioni «inutili» finiscono quelle che dimostrano l'innocenza dell'indagato?

Carabinieri, nei secoli infedeli…, scrive Lanfranco Caminiti il 12 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Da De Lorenzo al capitano che tarocca le intercettazioni. Così l’Arma ha tradito la Repubblica e lo storico motto: “Obbedir combattendo!” Ci sono stati di quelli accusati di rubare la droga che avevano sequestrato o che giaceva nei depositi giudiziari o di spartirsi il malloppo che beccavano negli appartamenti degli spacciatori (è successo a Roma, a Milano, per dire, e chissà quante volte dappertutto e con qualsivoglia sostanza) e poi cambiavano i verbali. E ci sono stati di quelli accusati di filmare scene circonfuse di un alone d’illegalità dov’erano coinvolti personaggi noti, non ai fini di un’indagine giudiziaria, ma per costruirci sopra un ricatto (è successo con Marrazzo, quand’era governatore un po’ scapigliato del Lazio, e Natalie, per dire). E ci sono stati di quelli accusati di dare «totale ed incondizionata disponibilità ad un intraneo alla ‘ndrangheta», come recitano i verbali delle Procure ( è successo nella Locride, per dire, con la cosca Pelle, ma anche a Reggio Calabria, con la “famiglia” Lo Giudice), passando a qualche ‘ ndrina delicate informazioni investigative che mettevano i fuorilegge al riparo dalla legge, e insomma, certo ti avrebbero dato un bel vantaggio se sai quando stanno per farti terra bruciata intorno o in qualche modo ti dicono chi è che sta spifferando tutto o che stanno per arrivare proprio a casa tua. E ci sono stati di quelli accusati di avere rivelato segreti di ufficio a sottosegretari, o più precisamente: atti di indagine su presunti rapporti con la camorra (è successo a Napoli, per dire, nel caso Cosentino). E ci sono stati di quelli alla guida di operazioni anti- sequestro accusati di essersi ritrovato attaccato alle dita un bel po’ di banconote invece di dare tutti i danari raccolti in sordina per il riscatto di un pover’uomo a cui avevano bloccato tutti i beni e la famiglia, disposta a pagare, si era rivolta a amici di provata fede (è successo nel caso Soffiantini, uno degli episodi più controversi e complicati della cronaca nera d’Italia). E ci sono stati di quelli, a capo di operazioni anti- droga di rilevante entità, accusati (è successo a Milano) della creazione di vere e proprie raffinerie di eroina, della violazione delle norme che disciplinano i blitz antidroga sotto copertura solo per poi vantare brillanti successi nella lotta al narcotraffico: riconoscimenti che sarebbero stati utili dal punto di vista mediatico e per avanzamenti di carriera. E ci sono stati di quelli accusati di non avere svuotato covi importanti che andavano svuotati (è successo a Palermo, contro la mafia, per dire), impedendo così l’accumulazione di prove, oppure di avere svuotato covi importanti che non dovevano svuotare, impedendo così l’accumulazione di prove (è successo durante la “strategia della tensione”, per dire). Ma sembrano di più scene da film d’azione americani – e poi capita che le accuse cadano o non vengano provate oltre ogni ragionevole dubbio e alle volte prendano altri nomi di reato che prevedono pene più leggere e intanto ti sei dimesso o sei finito a altro servizio e salvi la ghirba e la pensione, e magari dopo essere stato infangato vieni riabilitato e poi insomma alla fine la legge vince e tutto torna al suo posto. Anche perché a incastrare le “mele marce” o quelli che si suppone non stiano propria agendo in specchiata rettitudine sono sempre altri carabinieri, e alla fine l’Arma è al di sopra di ogni sospetto. La fragilità umana, si sa, può allignare anche dove meno te l’aspetti. Metti che un maresciallo si attacchi la luce e i rubinetti di casa alla centralina elettrica e alla fornitura idrica della caserma, per non pagare le bollette (è successo a Savona, per dire), oppure segni di essere andato in missione e si faccia pagare straordinari proprio nei giorni in cui era in ferie, a te sembra una cosa da zingari, da baraccati, da brutti, sporchi e cattivi sul litorale di Ostia, non è che ci puoi ricamare più di tanto o ricavarne una morale. Perché poi tutto questo può succedere nelle migliori famiglie, e l’Arma cos’è se non questo? Carabinieri, lo si è per sempre, proprio come si porta un cognome dalla nascita alla tomba, dall’anagrafe alla lapide. Ma quello che invece segna lo scarto, la differenza e lo sconcerto, è quando scopri che carabinieri sono coinvolti in qualche torbida trama contro la repubblica. Perché, diciamolo, il giuramento di fedeltà non è a che la giustizia trionfi – un’aspirazione così sempiterna e gloriosa da battere in ogni cuore, eppure labile, affidata com’è alle umani e volubili cure. Ma a che la repubblica sia sempre saldamente insediata: questo è il giuramento di fedeltà dei carabinieri. All’attenzione e alla cura, cioè, delle umane cose della democrazia. Quindi, quando scopri negli elenchi di Castiglion Fibocchi, amorevolmente registrati dalle mani proprie del gran maestro di loggia P2 Licio Gelli, la bellezza di dodici generali dei carabinieri (e svariati di altri corpi, di cui non dare conto qui) a te prende proprio un mancamento. E vabbè che qualcuno – in partibus infidelium – ci sarà stato dentro per controllare che la cosa non prendesse proprio una brutta piega, e vabbè che qualcuno ci sarà stato dentro per controllare che i controllori controllassero davvero e non si distraessero, e vabbè che qualcuno ( lo si disse per giustificare la domanda di adesione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, mai arrivata a compimento, mentre il fratello, Romolo, era titolare a tutti gli effetti) era stato “caldamente consigliato” se non voleva ritrovarsi solo come un cane, ma dodici? Non saranno un po’ troppi, dodici (e uno in lista d’attesa)? Ecco, è il “tintinnar di sciabole”, lo spauracchio militare in una democrazia parlamentare, lo sconcerto: quello che denunciò Pietro Nenni nella primavera del 1964 in piena crisi del primo centro- sinistra e che fu poi giornalisticamente “svelato” su l’Espresso da Scalfari e Jannuzzi nel 1967. Il “Piano Solo”. Un generale dei carabinieri, De Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che dovrebbe custodire. Perché a quello sono “destinati” i carabinieri. Quel: «usi obbedir tacendo e tacendo morir» che era il motto del Corpo dei Carabinieri Reali, e che si trasformò in questo: «nei secoli fedele», a chi obbedire, a chi essere fedele? All’istituzione, all’ordinamento sociale, sia esso la monarchia o la repubblica, e se è la monarchia alla monarchia e se è la repubblica alla repubblica. Così, rimani basito – carramba, che sorpresa – quando apprendi che c’è un’indagine in corso su un carabiniere del Noe (nucleo operativo ecologico, sic!) che svolgeva un’indagine in corso sulla Consip ma manipolava forse le prove e gli atti acquisiti per montare un po’ di panna contro il governo della repubblica. A chi ubbidiva tacendo, questo carabiniere? A chi era fedele? Essì, come le mezze stagioni, anche i carabinieri, signora mia, non sono più quelli di una volta.

Pignatone denuncia il flirt tra certi Pm e certi giornali, scrive Errico Novi il 13 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Il procuratore capo di Roma interviene al dibattito del Cnf sulle inchieste giudiziarie e gli abusi del sistema mediatico. «Noi magistrati siamo in maggioranza sensibili al tema della privacy, ma sono le minoranze che fanno la storia o meglio la cronaca…». È uno dei passaggi con cui il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone incornicia il suo intervento al dibattito su “Inchieste giudiziarie, diritto di cronaca e tutela dei dati personali” organizzato da Cnf e Scuola superiore dell’avvocatura. «Risalire ai responsabili delle cosiddette fughe di notizie è impossibile, ma vanno evitati assi privilegiati tra singoli magistrati e singole testate», puntualizza il capo dei pm romani. Nel pieno di una polemica sottile e curiosamente pubblica con i colleghi di Napoli, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha il pregio di conservare ironia e aplomb. Ne fa mostra all’incontro su “Inchieste giudiziarie, diritto di cronaca e tutela dei dati personali” organizzato da Consiglio nazionale forense e Scuola superiore dell’avvocatura, in cui il capo dei pm capitolini è affiancato da correlatori di alto livello: la vicepresidente dell’Autorità garante della Privacy Augusta Iannini, il vertice dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e il vicepresidente della Scuola Salvatore Sica. Pignatone offre una relazione ampia, generosa, così elegante da nascondere quasi i passaggi più aspri. Ad esempio: «Certo, vanno evitati assi privilegiati tra singoli magistrati, o singoli uffici, e singole testate…», e poi passa ad altro come se si trattasse di un dettaglio marginale. Non cita né alcuni quotidiani che hanno una puntualità stupefacente nel rivelare segreti investigativi né Procure da cui quel segreto più spesso si propaga, per esempio quella di Napoli. Pignatone letteralmente non parla mai di Consip. Ma è come se lo facesse. Con ironia e dissimulazione, ma lo fa eccome. C’è un passaggio del suo intervento in cui spiega come sia un bene che gli uffici giudiziari comunichino: in particolare quando vengono eseguiti provvedimenti cautelari. «In questi casi il mio ufficio dà conto all’esterno di quello che è stato fatto: è il tema principale a Reggio Calabria, a Palermo, a Napoli è uno dei temi principali, non l’unico…». E che cosa intende dire a proposito della diversità partenopea? Che non sempre le misure sono comunicate e spiegate con la stessa tempestività o che in quell’ufficio lo si fa secondo criteri meno “universali” rispetto alle altre Procure? In ultima analisi Pignatone spiega che «ci sono troppe persone che conoscono per forza di cose il contenuto delle intercettazioni: troppe perché si possa dire ‘ la fuga di notizie deve per forza venire dal pm o dal maresciallo che ha ascoltato la telefonata’: io ne conto almeno una decina nelle indagini meno complesse. E come si farebbe altrimenti», chiede il magistrato, «a coordinare il lavoro inquirente?». D’altronde, dice Pignatone, «sulle fughe di notizie aveva ragione Sciascia: le notizie non scappano, sono consegnate, e a consegnarle sono in tanti…». Proprio il procuratore che per primo ha invitato con una circolare i propri sostituti e la polizia giudiziaria a trattare con cautela le intercettazioni sembrerebbe dire che il fenomeno è ingestibile. Poi però aggiunge un’altra cosa: «Noi a Roma seguiamo un criterio nei rapporti con la stampa: pochi comunicati, solo nei casi di maggiore complessità convochiamo informali incontri senza radio e tv. Ci teniamo a evitare che ci siano giornali privilegiati rispetto agli altri». Fa il paio con il discorso sugli assi tra certi uffici inquirenti e certi cronisti. Il capo dei pm romani arriva a un’ipotesi estrema: «Sarebbe meglio pubblicare gli atti sul sito della Procura. A disposizione di tutti, piuttosto che lasciar prevalere ipocrisie e favoritismi». Altra stoccata a quei colleghi che hanno il loro giornalista di riferimento. Dopodiché visto il livello degli interlocutori, il procuratore di Roma deve incassare qualche controdeduzione. Ad esempio quelle di Migliucci: «Impossibile negare che almeno il 75 per cento delle notizie sulle indagini provenga dal circuito inquirente». Si potrebbero muovere contestazioni anche ai pm romani: per esempio sugli «interrogatori in streaming» alla sindaca Virginia Raggi. «E sì, quell’espressione si deve forse all’appartenenza politica dell’interessata», scherza il magistrato, che poi però spiega: «C’è stata un’incredibile montatura: i siti di due settimanali e di un quotidiano pubblicarono le probabili domande. Ma le avrebbe sapute pronosticare anche un bambino che avesse dato appena un’occhiata ai giornali dei giorni precedenti». Augusta Iannini ricorda che la privacy delle persone casualmente chiamate in causa da atti giudiziari non può ridursi a incidente necessario. Sica rincara la dose e segnala che «un avviso di garanzia e il discredito che ne deriva costituiscono ormai condanne anticipate». Mascherin introduce la discussione con un appello: «Prendiamo atto che i social media stritolano la dialettica per come la conosciamo, e che tocca a chi condivide la cultura del diritto, cioè a magistrati e avvocati, trovare gli anticorpi». In apparenza Pignatone non vede la soluzione a cui tende il presidente del Cnf. Ma pur con la sua dissertazione apparentemente fatalista, rassegnata a un «sistema dell’informazione digitale che è troppo lontano da quella a cui è abituato uno della mia età», delle stoccate le mette a segno. Quando dice «la magistratura è molto sfaccettata, in maggioranza sensibile a questi temi, ma poi sono le minoranze che fanno la storia, o meglio la cronaca», si riferisce ai colleghi partenopei che danno fiducia al Noe da lui messo sotto inchiesta? Forse. In questo caso non c’è nulla di esplicito. Se non la tesi per cui «comunicare la giustizia è necessario, perché è giusto che l’opinione pubblica eserciti un controllo su un potere come quello giudiziario». Basta che tutto avvenga nella trasparenza. Non secondo assi privilegiati. Mai da un singolo pm a una singola testata.

Pignatone contro il far-west delle intercettazioni: «È una gogna», scrive Errico Novi il 4 Aprile 2017 su "Il Dubbio".  Dal procuratore capo di Roma il sostegno alla riforma penale e un vibrante appello alla responsabilità dei Pm. Molti passi avanti si erano notati. A cominciare dalle circolari dell’anno scorso e, almeno fino all’improvvisa ondata del caso Consip, a un flusso più rarefatto di intercettazioni finite sui giornali. Ma l’intervento del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone pubblicato ieri su Repubblica segna un punto di svolta sul processo mediatico. C’è un chiaro e esplicito appello a limitare quelle «notizie» che «possono incidere anche in modo gravissimo sulla privacy e sulla reputazione dei cittadini, divenendo in alcuni casi un’autentica “gogna mediatica”». È davvero notevole che un simile appello arrivi dal vertice dell’ufficio inquirente più importante d’Italia. E, allo stesso modo, che sia pubblicato su un giornale, Repubblica, protagonista negli anni scorsi di una battaglia condotta in direzione opposta: quella contro la cosiddetta “legge bavaglio”. Il segnale arrivato ieri è il punto di arrivo di un percorso chiaro, che va avanti ormai da più di un anno. Una presa di coscienza, da parte di alcuni importanti magistrati, della pericolosa deriva innescata dalla pubblicazione selvaggia di atti coperti da segreto o comunque impubblicabili a norma di legge. Non si tratta più di preservare l’onorabilità di un politico, di evitare che la fuoriuscita di atti d’indagine e in particolare di conversazioni private ne rovini la carriera o influisca sul risultato elettorale. Pignatone non ne parla in modo esplicito, ma uno dei rischi più gravi di quella «gogna mediatica», da lui evocata senza perifrasi, è il discredito della stessa magistratura. Più precisamente, il rischio che il cosiddetto processo mediatico alteri così tanto la percezione della giustizia e il significato del processo da scagliare prima o poi i cittadini contro gli stessi giudici. Una degenerazione a cui si assiste ormai in modo sempre meno episodico, e che rischia di travolgere qualunque magistrato osi assumere o promuovere una misura processuale non in linea con le attese del popolo giustizialista. Il procuratore di Roma ha certamente un’attenzione molto forte per questi temi. Lo ha dimostrato in almeno due occasioni. Innanzitutto con le direttive emanate circa un anno fa – «in assenza di iniziative legislative», ricorda Pignatone su Repubblica – proprio sulle intercettazioni e la necessità di limitarne la trascrizione «a quelle realmente rilevanti ai fini dell’indagine, prestando ogni possibile attenzione al rispetto della privacy delle persone intercettate, specie quando non indagate». Come sottolinea il procuratore, i capi di altri uffici inquirenti (almeno una ventina), promossero direttive analoghe, e alla fine il Csm le fece proprie in una delibera. L’altro snodo determinante dell’azione di Pignatone su questo fronte è la revoca del mandato investigativo sull’indagine Consip nei confronti del Noe, con la conseguente assegnazione dell’incarico ad altro reparto dei carabinieri, il Nucleo investigativo di Roma: decisione questa assunta proprio a ripetute fughe di notizie. Due prove della grande vigilanza di questo magistrato sul tema della riservatezza. Con il terzo e importantissimo atto costituito dallo stesso intervento su Repubblica, il vertice dei pm capitolini mette di fronte alle proprie responsabilità diverse categorie di soggetti (stampa compresa), ma due più di tutti: i suoi colleghi e il Parlamento. I primi non possono più ignorare – nei pochi casi i cui fossero ancora tentati dal farlo – l’esistenza di una magistratura responsabile e scrupolosa nel preservare tutti i diritti ma anche la credibilità stessa del sistema. Al Parlamento, Pignatone su rivolge direttamente quando parla del «disegno di legge delega di (parziale) riforma della disciplina delle intercettazioni». Non chiede, come fanno invece i cinquestelle, di buttare tutto a mare. Non sostiene che i limiti all’uso dei trojan siano un favore alle cricche dei corrotti. Anzi, ricorda che «il punto più delicato» è costituito proprio dalle captazioni «ambientali», che i malware installati sui dispositivi degli indagati non a caso consentirebbero di svolgere nella maniera più invasiva. – In ultima analisi il procuratore di Roma sollecita l’approvazione definitiva, da parte della Camera, di quella riforma messa al bando dai grillini. E con il massimo garbo possibile inserisce proprio in quel passaggio una frase chiave: «Solo la concreta attuazione delle norme ci dirà se l’obiettivo sarà raggiunto». Dipenderà insomma, anche se non soprattutto, dalle Procure e dai loro vertici. Che, cosa di cui Pignatone è convinto, dovrebbero avvertire il suo stesso impulso di sottrarre il processo alla barbarie della gogna, se vogliono evitare di restarne intrappolati loro stessi.

Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantova- ni. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.

Perché e per chi ha agito il carabiniere falsario? Scrive l'11 aprile 2017 Lucia Annunziata. La frase falsamente attribuita, su cui il capitano si è riservato di non rispondere, era molto rilevante nella relazione sulle indagini fatte, come scrive lo stesso carabiniere: “Questa frase assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano in quanto dimostra che effettivamente il Romeo e il Renzi si siano incontrati”. Insomma, con la falsa attribuzione cade la principale prova di contatto fra Romeo e Renzi. Dunque, c’è stato un “complotto”? Il cuore del caso Consip, il contatto fra l’imprenditore Romeo e il padre di Matteo Renzi, è un falso, una manipolazione vera e propria: la frase più incriminante della relazione dei carabinieri “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato…” attribuita all’imprenditore napoletano era stata detta in realtà da Italo Bocchino. Lo sostengono i magistrati della Procura di Roma che hanno in mano l’inchiesta, e che, vagliate le carte, hanno indagato il capitano dei carabinieri del Noe Giampaolo Scafarto per falso materiale e falso ideologico perché “redigeva nell’esercizio delle sue funzioni” l’informativa finita agli atti dell’inchiesta Consip nella quale riferiva fatti secondo i magistrati diversi da quelli accaduti. Nessun dubbio da parte dei giudici sulla falsificazione. Che tale affermazione, scrivono i pm di Roma, “fosse stata proferita da Italo Bocchino era riportato correttamente sia nel sunto a firma del vicebrigadiere Remo Reale, sia nella trascrizione a firma del maresciallo capo Americo Pascucci” presenti nel brogliaccio informatico. Per altro l’ex parlamentare Bocchino ha poi messo agli atti di riferirsi all’ex Premier, non a Tiziano Renzi, il padre. La fase falsamente attribuita, su cui il capitano si è riservato di non rispondere, era molto rilevante nella relazione sulle indagini fatte, come scrive lo stesso carabiniere: “Questa frase assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano in quanto dimostra che effettivamente il Romeo e il Renzi si siano incontrati”. Insomma, con la falsa attribuzione cade la principale prova di contatto fra Romeo e Renzi. L’inchiesta Consip è molto complessa e questo passaggio non la avvia necessariamente a conclusione. Ricordiamo che riguarda la gara indetta nel 2014 per l’affidamento dei servizi gestionali degli uffici, delle università e dei centri di ricerca della Pubblica amministrazione, per una convenzione del valore totale di 2 miliardi e 700 milioni di euro e in cui Alfredo Romeo era in pole per un bando da quasi 700 milioni di euro. Tiziano Renzi è nell’inchiesta in quanto indagato per traffico di influenze, come l’imprenditore farmaceutico toscano Carlo Russo e Italo Bocchino, consulente di Alfredo Romeo. La tesi è che Romeo per aggiudicarsi l’appalto ha cercato di mettersi in contatto con influenti esponenti politici, tra cui l’entourage dell’ex segretario del Partito democratico per creare le condizioni più favorevoli per l’aggiudicazione della gara. Forse la più rilevante testimonianza sulla esistenza di queste pressioni è quella data dall’Ad di Consip Luigi Marroni, che per altro ha detto ai giudici di essere stato avvertito dell’esistenza di una indagine e della presenza di microspie negli uffici Consip da Luca Lotti, oggi ministro dello sport, e dal generale Saltalamacchia. Ma l’azione di controllo esercitata dai giudici è una pagina che rassicura tutti sulla serietà della magistratura, sulla onestà del percorso decisionale della giustizia. E, giustamente, la famiglia Renzi può oggi essere contenta. Tuttavia, l’intera vicenda a questo punto si tramuta in una storia che suscita domande inquietanti: siamo di fronte infatti a un clamoroso caso di fabbricazione di prove che come conseguenza non poteva che mirare alla rovina politica di un politico di primo piano del paese. Per quali ragioni ha fatto un tale passo un servitore dello stato, un capitano dei carabinieri, ed ha agito da solo, o con chi, e in ogni caso per conto di chi? Appare molto improbabile, infatti, che un tale disegno sia stato concepito come gesto solitario. Sicuramente chi ha agito non poteva non immaginare che quella falsificazione avesse un impatto profondo sul corso della politica in questo paese. Sono domande che aprono a scenari di complotti, pezzi di stato infedeli, riportano alla mente gli anni bui del nostro paese. Senza risposte definitive a tutti questi dubbi si insinuerà nel nostro paese una ulteriore dose di sospetto e sfiducia nel modo come noi cittadini guardiamo allo Stato. Editoriale tratto dal quotidiano online HUFFINGTON POST

Il possibile depistaggio del Noe: non ci resta che sperare nel Procuratore “illuminato”, scrive il 13 aprile 2017 Vinicio Nardo, avvocato penalista del Foro di Milano. A quasi trent’anni dall’avvento del processo accusatorio, non possiamo fare affidamento su, non dico le mitiche “controinchieste” della difesa, ma neanche su eventuali indagini difensive, visto che gli avvocati non hanno mezzi, strumenti processuali, accesso concreto agli atti e tempi tecnici per poterle condurre. Il possibile depistaggio dei Noe fa tornare alla mente il caso Barillà, uno dei piu gravi tra gli errori giudiziari conclamati della nostra Repubblica. Anche in quella occasione l’errore, non del tutto involontario, venne fuori grazie alla tenacia di un P.M. che indagava su un corpo scelto dei Carabinieri per tutt’altra vicenda. La storia è ben raccontata da Stefano Zurlo nel libro da cui è stato tratto un film per la TV con protagonista Beppe Fiorello che interpretava il Barillà. La P.M. accertò che i Carabinieri, i quali pedinavano una Fiat Tipo guidata dall’autore di gravi reati, avevano sostenuto falsamente di non averla mai persa di vista, cosicché il povero Barillà, per coincidenza fermato alla guida di una macchina uguale, si fece non so quanti anni di galera e fu condannato in via definitiva da innocente. Affermerebbe oggi l‘on. Ferranti che dobbiamo essere grati a quella P.M., cosi come ha detto per Pignatone ed i suoi sostituti. Ma il discorso, a ben guardare, fa più di una piega. A quasi trent’anni dall’avvento del processo accusatorio, non possiamo fare affidamento su, non dico le mitiche “controinchieste” della difesa, ma neanche su eventuali indagini difensive, visto che gli avvocati non hanno mezzi, strumenti processuali, accesso concreto agli atti e tempi tecnici per poterle condurre. Si può solo confidare che un P.M. faccia il contropelo alla polizia giudiziaria, ma sarebbe ingenuo confidare che ciò avvenga sempre (in effetti, avviene quasi mai) e tantomeno che succeda per puro anelito di verità. Alla fine, il quadro è quello descritto nell’articolo qui sotto, del Dubbio, con una polizia giudiziaria che spadroneggia sulle indagini e non c’è P.M. che tenga. La teoria dell’affidamento alle capaci mani di un Procuratore (mosso da finalità ideali o dall’esigenza di spuntare le unghie a chi troppo si allarga o da altro ancora) finisce per essere figlia di una visione “paternalistica” della giurisdizione.  Quella stessa visione che esalta la “cultura” della giurisdizione e ne fa lo spauracchio per contrastare qualsivoglia tentativo di attuare la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura inquirente. E le indagini difensive? Beh, si provi a farle con la notifica (mi è capitato oggi) di un “immediato cautelare”, che significa 15 giorni per visionare migliaia di fogli, estrarne copia, ascoltare migliaia di conversazioni intercettate …  15 giorni, Pasqua e ponti compresi. Forse ha ragione la Ferranti: non ci resta che sperare nel Procuratore “illuminato”.

Il carabiniere sotto inchiesta ora tira in ballo Woodcock. Il capitano Scafarto coinvolge anche il pm di Napoli: «Il capitolo sui servizi segreti me lo ha suggerito lui», scrive Patricia Tagliaferri, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ha puntato tutto sulla mancanza di dolo, anche a costo di apparire uno sprovveduto agli occhi dei magistrati che lo interrogavano e che gli contestavano altri errori nell'informativa sugli appalti Consip, oltre ai due che gli sono costati l'accusa per falso ideologico e falso materiale. Per la Procura di Roma il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto quella relazione - che riassumeva le indagini sulle tangenti che sarebbero state pagate dall'imprenditore napoletano Alfredo Romeo per aggiudicarsi le gare bandite dalla centrale acquisti della pubblica Amministrazione - sarebbe stata manomessa volontariamente su input di qualcuno. Ma davanti al procuratore aggiunto Paolo Ielo, il carabiniere si è scusato per gli errori commessi cercando di allontanare da sé il sospetto di aver agito per conto di altri. «Ho sbagliato a causa della fretta che avevo di completare l'informativa», ha detto, meravigliandosi davanti alle nuove anomalie saltate fuori mentre analizzava l'informativa con i pm: «Mamma mia, pure questo!», ha esclamato, spiegando il metodo usato per le indagini, apparentemente a prova di errore. Eppure nell'informativa di sbagli ce ne sono diversi. Tra questi la frase intercettata («Renzi l'ultima volta che l'ho incontrato»), che secondo il carabiniere avrebbe inchiodato il babbo dell'ex premier alle sue responsabilità, attribuita a Romeo mentre in realtà a pronunciarla era stato l'ex parlamentare Italo Bocchino. Una leggerezza, dovuta forse al troppo lavoro, nulla di più, si è difeso il capitano: «La discrasia non è contestabile, ma escludo di aver avuto nella redazione dell'informativa consapevolezza di essa. Ho cercato di darmi spiegazioni e posso pensare di avere avuto solo una prima versione del file, relativa al sunto e di avere utilizzato questa per la redazione dell'informativa. Era un periodo di forte lavoro, legato alla necessità di chiudere l'atto prima della prima decade di gennaio quando era in programma un incontro tra le Procura di Roma e Napoli». E poi quel capitolo sugli agenti segreti che, secondo Scafarto, controllavano i militari del Noe mentre cercavano nell'immondizia le tracce del «pizzino» dove Romeo avrebbe annotato i nomi delle persone da corrompere. In realtà l'ipotetico 007 era un signore che abitava nelle vicinanze dell'ufficio dell'imprenditore, ma di questo dettaglio nell'informativa non c'è traccia, perché non sarebbe stato funzionale alla ricostruzione che il capitano voleva accreditare, e cioè che Romeo godesse di protezioni nell'ambiente dei servizi e legami diretti con i vertici istituzionali. Durante l'interrogatorio Scafarto ha spiegato che fu il pm di Napoli Henry Woodcock a suggerirgli di fare un capitolo sui servizi: «La necessità di compilare un capitolo specifico, inerente al coinvolgimento di personaggi legati ai servizi segreti, fu a me rappresentata come utile direttamente dal dottor Woodcock che mi disse testualmente: al posto vostro farei un capitolo autonomo su tali vicende, che io condivisi». All'attenzione dei magistrati c'è anche un'altra frase, attribuita a Bocchino, «il generale Parente è stato nominato all'Aisi da Tiziano Renzi», quando in realtà, riascoltata dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma che hanno ereditato l'indagine dopo la revoca della delega al Noe, è «che l'ha nominato Renzi».

Il carabiniere accusa: Esplode il caso Woodcock, scrive Errico Novi il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". La tesi dell’ingerenza degli 007 fu concordata dal NOE con il Pm di Napoli? Tutto gira intorno alla comunicazione. Al rapporto tra magistrati e media. È su questo che il Csm potrebbe essere di nuovo chiamato a pronunciarsi. Più precisamente, sul rapporto tra le Procure di Roma e di Napoli. E in particolare sulle tensioni (sempre presunte) nate attorno all’inchiesta Consip. E anche sul ruolo che il pm partenopeo Henry John Woodcock potrebbe aver avuto rispetto alla complessa dinamica dei fatti. Al prima e al dopo, vale a dire sia nella fase di costruzione dell’indagine, passata poi ai colleghi capitolini, sia rispetto a quanto trapelato sui giornali a inizio aprile, quando Piazzale Clodio ha messo sotto inchiesta anche il capitano del Noe Gian Paolo Scafarto. Il procuratore generale di Napoli Luigi Riello torna a chiedere «riserbo» ai pm. E alcuni nuovi dettagli dell’interrogatorio a cui Scafarto è stato sottoposto giovedì scorso dai magistrati della Procura di Roma complicano il groviglio di supposizioni sul “peso” che lo stesso Woodcock potrebbe aver avuto nella stesura dell’informativa Consip. Ieri si è appreso che Scafarto informò «immediatamente» la Procura di Napoli del cessato allarme sugli 007. «Quando ci rendemmo conto che veniva meno l’ipotesi di uno spionaggio nei nostri confronti da parte dei Servizi, ne parlammo subito con i magistrati della Procura di Napoli». Ovvero il procuratore aggiunto Filippo Beatrice, che coordina i sostituti Celeste Carrano e, appunto, Henry John Woodcock. Se fosse davvero così verrebbero almeno in parte contraddette le considerazioni attribuite a Woodcock nell’articolo di repubblica con cui, lo scorso 13 aprile, si dava conto dei discorsi fatti dal pm con alcuni suoi colleghi. In quella ricostruzione, il magistrato dice che «per Napoli quel- le carte sono tuttora un interna corporis, su cui non abbiamo compiuto nessun atto. Le abbiamo passate a Roma». Questo avrebbe spiegato, sempre secondo la riflessione attribuita al pm, per quale motivo il pool partenopeo non avrebbe attivato alcun «controllo» sulla documentazione predisposta dal Noe. E però se è vero che Scafarto disse ai pm partenopei, Woodcock compreso, che era crollata l’ipotesi di un “controspionaggio” attivato, in ultima analisi, da Renzi per “monitorare” l’indagine condotta (anche) su suo padre, se è così, sarebbe ragionevole pensare che avrebbero dovuto essere gli stessi magistrati, sempre Woodcock compreso, a dare conto ai colleghi di Roma della grave omissione compiuta dallo stesso Scafarto. Mentre a quanto pare Pignatone ci è arrivato da solo. Ma naturalmente non si può dare per scontato che i discorsi di Woodcock riferiti a Repubblica dai colleghi del pm corrispondano perfettamente alle parole di quest’ultimo. In ogni caso che l’omissione di Scafarto sia grave sono convinti il procuratore di Roma Pignatone, l’aggiunto Ielo e il sostituto Palazzi: è stata «una sottrazione significativa di elementi di valutazione», la mancata menzione, nell’informativa, dei riscontri negativi raccolti dal Noe su un «autista sospetto e il suo Suv» sospettato in un primo momento dai carabinieri di essere una “auto tecnica” dei Servizi. Scafarto nell’interrogatorio avrebbe detto di aver omesso quelle verifiche “negative” sugli 007 perché «irrilevanti». E meno male che le note sui Servizi erano sembrate così interessanti a Woodcock che lo stesso pm, secondo quanto rivelato da Scafarto nell’interrogatorio, gli avrebbe suggerito appunto di «farne un capitolo a parte». Chiedersi come Scafarto possa aver sottovalutato le successive evidenze dell’inesistente attività di controspionaggio, è tema delle ipotesi d’accusa nei suoi confronti. In ogni caso, il presunto invito di Woodcock a valorizzare la presunta presenza dei Servizi ha un peso notevole. E qui torna il discorso della comunicazione: perché mai un pm dovrebbe indirizzare un agente di polizia giudiziaria sull’ordine più coerente da dare a un’informativa che solo a lui stesso (cioè il pm) dovrebbe essere indirizzata? È il carabiniere che dovrebbe dare l’informativa al sostituto, non il sostituto che dice al carabiniere come scrivere l’informativa. Tanto più che quella documentazione ha lasciato intravedere un reato gravissimo: un uso improprio, a fini personali, dei Servizi da parte di Renzi, o chi per lui. E ancora, sempre l’informativa di Scafarto conteneva dei falsi oggettivi, quelli sugli 007 appunto: se per assurdo fossero vere le rivelazioni di Scafarto su Woodcock, quest’ultimo avrebbe inconsapevolmente e indirettamente favorito la divulgazione di notizie gravi e false. Un groviglio appunto. Ieri il procuratore generale di Napoli Luigi Riello ha riunito il reggente Fragliasso e l’aggiunto che coordina i pm di Consip, Beatrice, per affermare due concetti. Primo: ci vuole «riserbo» da parte degli inquirenti. Secondo: da parte di Fragliasso «non c’è stata alcuna contradditorietà circa l’inesistenza di conferme o revoche di fiducia nei confronti del Noe». Sono i giornali ad aver fatto qualche «forzatura». Il tutto è stato affidato, da Riello, a un ampio comunicato. In cui si riafferma anche l’inesistenza di «contrasti tra Roma e Napoli». E allora resta il dubbio su chi ci fosse dietro «gli ambienti della Procura partenopea» che lo scorso 12 aprile fecero sapere ai media della conferma del mandato ai carabinieri del Noe appena sfiduciati da Roma. Non è stato Fragliasso. Che esclude a sua volta sia stato il suo aggiunto Beatrice. E ricorda pure: «Ogni esternazione sul punto sarebbe stata impropria e non consentita interferenza con l’attività di altra Autorità giudiziaria». E allora, se non lui, chi ha creato l’interferenza? E per rispondere, sarebbe o no il caso che il Csm aprisse un’indagine? Nel dubbio, ieri Renzi ha rilanciato il tweet di un blog a lui vicino, In cammino, che forza un po’ il Corriere e dice: «Scafarto: “Concordai con Woodcock capitolo sui Servizi. Ma era falso”». Falso pure il tweet. Ma si può capire l’ansia di rivalsa dell’ex premier.

Il vicecomandante dei Carabinieri del Noe accusato di depistaggio sull’inchiesta Consip. La vicenda che riguarda il pm napoletano è arrivato davanti al plenum del Csm per iniziativa del pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare insieme al Ministro di Giustizia dell’azione disciplinare verso i magistrati, che ha contestato al pm Woodcock una sua intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica in difesa del capitano del Noe, scrive il 7 giugno 2017 "Il Corriere del Giorno". Ancora una volta il Noe nel mirino della Procura di Roma che accusa il colonnello Alessandro Sessa, vice comandante del Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri, indagandolo con la pesante accusa di “depistaggio”, per aver di fatto dichiarato circostanze inesatte quando venne sentito dai magistrati romani lo scorso maggio in veste di “persona informata sui fatti”, reato che prevede una pena massima di 8 anni di carcere. Il colonnello Alessandro Sessa è stato interrogato questo pomeriggio, accompagnato dal suo difensore Avv. Luca Petrucci, dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Mario Palazzi. All’atto istruttorio è presente anche il procuratore capo Giuseppe Pignatone. Precedentemente è stato ascoltato Gianpaolo Scafarto il capitano dei Carabinieri del Noe che ha condotto le indagini del caso Consip, al quale vengono contestati due falsi contenuti nell’informativa conclusiva e numerosi altri errori e omissioni. Prima di lui i magistrati hanno sentito ancora una volta Scafarto sulla famosa informativa che secondo i pm presenta dei punti ancora poco chiari. Il vice comandante del NOE, era già stato sentito come “persona informata sui fatti” per la vicenda che riguarda il capitano Giampaolo Scafarto, accusato di “falso” per una serie di omissioni in una delle informative a sua firma depositate in procura. I falsi contestati dei pm romani sono due. Il primo “falso” attribuito, è relativo ad aver attribuito una frase all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo arrestato per corruzione lo scorso 1 marzo, su un incontro avvenuto con Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo, accusato di “traffico di influenze”. Soltanto che quella frase, come era correttamente riportato nei brogliacci dello sbobinamento delle intercettazioni agli atti, in realtà era stata pronunciata dall’ex onorevole Italo Bocchino, consulente del Romeo, riferendosi all’ex presidente del Consiglio e non a suo padre. Il secondo “falso”, è invece, quello relativo ad un presunto (inesistente) interessamento dei servizi segreti all’indagine, nonostante che il presunto “007” di cui il capitano Scafarto parlava nell’informativa, fosse stato identificato, ed altro non era che un semplice residente della zona. Il capitano Scafarto dopo essersi avvalso legittimamente della facoltà di non rispondere nel corso del primo atto istruttorio, nello successivo ha scaricato ogni responsabilità sul pm John Henry Woodcock della Procura di Napoli sostenendo che “la necessità di dedicare una parte della informativa al coinvolgimento di personaggi legati ai servizi segreti, fu a me rappresentata come utile direttamente dal dottor Woodcock”, riportando nell’atto istruttorio le parole precise del pm napoletano: “al posto vostro farei un capitolo autonomo su tali vicende“. Scafarto viene accusato di “falso materiale” e “fal­so ideologico” perché “nella qualità di pubblico ufficiale – si legge negli atti – redigeva un’inform­ativa nella quale, al fine di accreditare la tesi del coinvo­lgimento di personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti ometteva sc­ientemente informazi­oni ottenute a segui­to di indagini esperite”. “Ho cercato di darmi spiegazioni e posso pensare di avere avuto solo una prima versione del file, relativa al sunto e di avere utilizzato questa per la redazione dell’informativa. Era un periodo di forte lavoro – aveva confidato Scafarto – legata alla necessità di chiudere l’atto prima della prima decade di gennaio quando era in programma un incontro tra la procura di Roma e Napoli”.  Quello che maggiormente sconcerta, è che ci sia però una falsa attribuzione anche dell’affermazione “il generaleParente (ex-comandante del ROS dei Carabinieri n.d.r. ) è stato nominato all’Aisi da Tiziano Renzi“, mentre la frase pronunciata in realtà era: “che l’ha nominato Renzi“, chiaramente riferito a Matteo che all’epoca dei fatti era il presidente del Consiglio. E non è finita. Infatti il colloquio tra Alfredo Romeo e un suo collaboratore, nell’informativa del capitano Scafarto, diventa un vertice con il colonnello Petrella in servizio all’Aisi, sul tema delle intercettazioni ambientali, che all’epoca de fatti non erano neanche iniziate) solo perché il collaboratore ha un cognome molto simile a quello dell’ufficiale dei servizi segreti. La vicenda che riguarda il pm napoletano  è arrivato davanti al plenum del Csm per iniziativa del pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare insieme al Ministro di Giustizia dell’azione disciplinare verso i magistrati, che ha contestato al pm Woodcock una sua intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica in difesa del capitano del Noe, e il quale è a sua volta fatto oggetto di critiche per una sua presunta amicizia con Matteo Renzi, figlio di Tiziano, l’indagato che avrebbe subito danni dagli errori dell’inchiesta Consip. I pm hanno chiesto chiarimenti al colonnello Alessandro Sessa anche sul filone investigativo relativo alla fuga di notizie, nel quale sono indagati per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Gen. Tullio Del Sette e quello della Regione Toscana Gen. Emanuele Saltalamacchia. Secondo i magistrati romani il colonnello avrebbe mentito anche sulle date, come dimostrano le conversazioni Whatsapp ritrovate sul cellulare del capitano Scafarto, con le quali avrebbe informato in estate il comandante del Noe, Generale Sergio Pascali, mentre a verbale aveva dichiarato di averlo fatto dopo il 6 novembre, cioè pochi giorni prima della prima fuga di notizie sull’inchiesta Consip. L’ex premier Matteo Renzi ha così commentato la vicenda sui socialnetwork: “Lo so, lo so. Oggi bisognerebbe dare sfogo alla rabbia. All’improvviso scopri che nella vicenda Consip c’è un’indagine per depistaggio, reato particolarmente odioso, e ti verrebbe voglia di dire: ah, e adesso? nessuno ha da dire nulla?  Tutti zitti adesso? I grillini cambiano idea sulla legge elettorale che loro stessi hanno voluto e votato. Sono passati due giorni e già hanno cambiato posizione? Due giorni! I commentatori che ti accusavano di voler fare tutto da solo oggi ti accusano di fare gli inciuci. Non commentano ciò che tu dici ma ciò che loro vogliono che tu dica. Verrebbe voglia di arrabbiarsi. Poi succede che un amico ti offre una birra su una terrazza fiorentina. E ti si schiude la meraviglia. Ti si allarga il cuore. La bellezza prende il sopravvento. E la rabbia la lasciamo a chi se la può permettere. C’è una frase di Alda Merini che dice: bastava la letizia di un fiore per ricondurci alla ragione. Basta la bellezza della città del fiore per abbandonare ogni sentimento di rabbia. La giustizia farà il suo corso, la legge elettorale passerà se ci saranno i numeri, i commentatori polemici riconosceranno la serietà del nostro comportamento. Basta sapere aspettare e noi non abbiamo fretta. Teniamoci la bellezza, lasciamo loro la rabbia e la polemica. Buon pomeriggio, amici!”.

Una chat inchioda Scafarto. "Ho bisogno di quei nastri per arrestare Tiziano Renzi". Nei messaggi whatsapp acquisiti dalla Procura di Roma le evidenze del depistaggio messo in atto dai vertici del Noe. Per il capitano c’era la necessità di intercettare anche il Comandante generale dell'Arma Tullio Del Sette, scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi il 9 giugno 2017 su "La Repubblica". Le indagini condotte dal Noe dei Carabinieri su un capitolo almeno del caso Consip, su quello che ne era diventato il cuore perché merce ad alto rendimento politico — il padre del Presidente del Consiglio Tiziano Renzi — si rivelano un verminaio di infedeltà e manipolazioni. In cui sprofondano definitivamente il capitano Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa, vicecomandante del reparto ora indagato per depistaggio. E che promette di inghiottire altri protagonisti di questa vicenda. Non fosse altro perché apre uno squarcio sinistro su quanto accaduto tra l’estate 2016 e il gennaio 2017 al Comando Generale dove, chi manipolava l’inchiesta (Scafarto e Sessa) sapendo di farlo, giustificava le proprie mosse storte con l’urgenza di «arrestare Tiziano Renzi». Di più: concionava sulla necessità di intercettare — non è dato sapere in forza di quale autorità — il Comandante generale Tullio Del Sette e il Capo di Stato Maggiore Gaetano Maruccia, sospettati di essere le talpe che avrebbero dovuto far deragliare l’indagine della Procura di Napoli a vantaggio del Presidente del Consiglio. Nel dettaglio. Alle cinque del pomeriggio di mercoledì scorso, di fronte al Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, all’aggiunto Paolo Ielo e al sostituto Mario Palazzi, l’interrogatorio di Scafarto si trasforma in un calvario, durante il quale all’ufficiale vengono contestate evidenze documentali — una chat whatsapp tra lui e gli uomini della squadra investigativa su Consip — che fanno piazza pulita della favoletta che voleva la stanchezza e l’enormità del materiale istruttorio da gestire i responsabili dell’errore di attribuzione (a Romeo invece che a Bocchino), nella memoria conclusiva consegnata ai pm di Napoli, di una conversazione intercettata. Quella che si voleva provasse gli incontri tra Romeo e Tiziano Renzi e che, agli occhi del capitano Scafarto, avrebbe reso possibile l’arresto del padre del Premier. A Scafarto, i pm mostrano i messaggi scambiati in quella chat tra lui e suoi uomini tra il 2 e il 3 gennaio di quest’anno. I giorni immediatamente precedenti la consegna della memoria ai pm. Si legge il 2 gennaio: Scafarto: «Per favore, qualcuno si ricorda se Romeo ha mai detto a qualcuno di aver visto, anche una mezza volta, Tiziano (Renzi ndr.)?» La richiesta diventa frenetica il giorno successivo, il 3. Scafarto: «Buongiorno a tutti… Forse abbiamo il riscontro di un incontro tra Romeo e Tiziano Renzi. Ieri ho sentito a verbale Mazzei, il quale ha riferito che il Romeo gli ha raccontato di aver cenato o pranzato (non ricordava) con Tiziano e Carlo Russo». È una circostanza per la quale va trovato un riscontro. Che Scafarto individua in una conversazione ambientale di cui dà gli estremi ai suoi uomini. Scafarto: «Remo, per favore, riascoltala subito. Questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano (Renzi ndr.). Grazie. Attendo trascrizione». Passano delle ore e Scafarto non riceve quello che ha chiesto. Scafarto: «Remoooooooo, hai trovato quel passaggio che dicevo?». Il carabiniere risponde con sincerità: «Sto trascrivendo. Ho trovato quel passaggio e sembra che sia Bocchino che dica quella frase». A Scafarto è una risposta che non piace affatto. Che a incontrare Tiziano Renzi sia stato Bocchino non ha nessun significato. Conta solo che lo abbia fatto Romeo e lo confessi parlandone. Dunque, insiste: «Ascolta bene e falla ascoltare pure a qualcun altro». Il militare rincula: «Già fatto e siamo giunti alla conclusione che c’è Bocchino che, abbassando il tono della voce, dice quella frase». Scafarto non si rassegna. Chiede di inviargli il file audio con l’intercettazione. Che avrà. E che, come ormai sappiamo, ignorerà, attribuendo a Romeo le parole di Bocchino. Perché, se non per manipolare consapevolmente la genuinità di una prova?, chiedono a Scafarto i Procuratori che lo interrogano. Il capitano risponde con parole che equivalgono a un’ammissione di colpa: «Non ricordavo questi messaggi, né di aver ricevuto il file audio. Non riesco a darmi una spiegazione di quanto è accaduto». Ma, come si diceva, il calvario di Scafarto non finisce qui. Tra le evidenze acquisite dalla Procura di Roma ci sono anche i messaggi che l’ufficiale scambia con il suo superiore gerarchico, il colonnello Alessandro Sessa. Con cui, almeno a partire dal giugno del 2016, condivide ogni informazione dell’inchiesta Consip, avvisandolo dell’opportunità di interrompere ogni flusso di informazioni verso la catena gerarchica superiore. In particolare, al capo di Stato Maggiore Gaetano Maruccia e al Comandante generale Tullio Del Sette, che per altro Sessa disprezza («Fichissimo», gongola, quando Scafarto lo informa che l’ad di Consip Luigi Marroni lo accusa di essere stato l’uomo che gli ha rivelato l’esistenza di un’indagine a Napoli). Perché — ricostruiscono le evidenze raccolte dalla Procura — così gli ha chiesto il pm Woodcock, minacciando di «far passare un guaio» a chi dovesse fare uscire qualcosa. Anche Sessa incontra Woodcock. E anche lui ne esce catechizzato ma, soprattutto, convinto che l’indagine abbia appunto due “nemici interni”. Maruccia e Del Sette. Al punto di discutere con Scafarto dell’opportunità di intercettarli con delle ambientali nei loro uffici al comando Generale. Non è chiaro se “abusivamente” o con l’autorizzazione di un pm o di un gip.

Caso Consip, la pm accusa i carabinieri: «Erano esagitati, puntavano a Renzi». Il Procuratore di Modena riferisce le «anticipazioni» di Scafarto e Ultimo: «Informativa fatta con i piedi, parevano degli esagitati». Gli accertamenti sulla fuga di notizie che svelò le telefonate tra l’ex premier e il generale Adinolfi, scrive Giovanni Bianconi il 14 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi». Così disse l’ex capitano del Noe dei carabinieri Gianpaolo Scafarto — ora promosso maggiore e destinato ad altro incarico, indagato per falso dalla Procura di Roma nell’ambito dell’indagine sul cosiddetto caso Consip — al procuratore di Modena Lucia Musti, in un colloquio avvenuto nell’ufficio del magistrato. La Musti ha riferito questa circostanza al Consiglio superiore della magistratura durante un’audizione del luglio scorso; la frase fu pronunciata all’inizio di settembre 2016, cioè quattro mesi prima del deposito dell’informativa agli uffici giudiziari di Roma e Napoli in cui lo stesso Scafarto avrebbe inserito alcune notizie non veritiere, come quella in cui l’affermazione «l’ultima volta che ho incontrato Renzi» (inteso Tiziano, cioè il padre dell’ex premier) viene attribuita all’imprenditore Alfredo Romeo, mentre invece era dell’ex parlamentare Italo Bocchino, e riferita al figlio Matteo. Il procuratore Musti non gradì questa anticipazione di Scafarto sugli sviluppi di un lavoro che stava portando avanti con un’altra Procura, violando il segreto investigativo; anzi, pensò che quell’ufficiale fosse poco serio, e una simile confidenza tutt’altro che normale. Non fece altre domande e da allora respinse ogni altra richiesta d’incontro da parte del capitano, che le mandava messaggi per vederla con una certa insistenza. In seguito, quando vennero fuori prima le anticipazioni sul «caso Consip» che coinvolgeva Tiziano Renzi e poi le notizie sulle accuse a Scafarto, il magistrato capì che il carabiniere gli stava annunciando proprio i risultati di quell’indagine, e il conseguente clamore che avrebbero suscitato. Del resto — sostiene ancora Musti — non era stato solo Scafarto a parlarle in termini quasi scandalistici delle inchieste che i carabinieri del Noe stavano conducendo. L’anno prima, poco dopo che a Modena era stato trasmesso uno stralcio dell’indagine su un’altra vicenda di presunta corruzione, il caso Cpl-Concordia, con allegata l’informativa redatta dagli stessi investigatori in cui erano state inserite alcune telefonate intercettate tra il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi e l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, il colonnello Sergio De Caprio (l’ex capitano Ultimo, che arrestò Totò Riina), all’epoca comandante del Noe, le avrebbe detto: «Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere». Anche in quel momento Musti riferisce di aver pensato che quei carabinieri erano degli «esagitati», e che prima si fosse liberata di quel fascicolo definendo le posizioni dei suoi indagati e meglio sarebbe stato. L’audizione di Musti al Csm risale al 17 luglio scorso, e rientra in un accertamento avviato dalla prima commissione del Consiglio (competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati per «incompatibilità ambientale») che indaga sulla fuga di notizie del luglio 2015 riguardante proprio le telefonate tra l’ex premier e Adinolfi, risalenti al gennaio 2014, nelle quali Renzi esprimeva giudizi poco lusinghieri su Enrico Letta e accennava alle mosse per sostituirlo a palazzo Chigi. L’informativa del Noe, originariamente indirizzata alla Procura di Napoli, era stata trasmessa per competenza anche a Modena ad aprile 2015, e tre mesi dopo il contenuto delle telefonate era finito sulle pagine del quotidiano Il Fatto. Sul caso Consip, a dicembre 2016, è successo qualcosa di simile: poco dopo che il fascicolo è passato da Napoli a Roma, sono comparse le prime notizie sul coinvolgimento di Renzi padre e altri dettagli, sullo stesso giornale. Di qui i sospetti sorti nei pensieri del procuratore Musti che — ha spiegato ancora al Csm — quando ha saputo che Scafarto era accusato addirittura di avere inserito nel rapporto su Consip informazioni false contro Renzi senior ha commentato: «Finalmente l’hanno preso». L’indagine dell’organo di autogoverno dei giudici cerca di capire se sono individuabili responsabilità di magistrati nelle rivelazioni sulla vicenda Cpl-Concordia, che a Napoli era condotta dai pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano, gli stessi del caso Consip. Ma ieri il verbale dell’audizione di Musti e delle testimonianze rese dal procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso e dal procuratore generale Luigi Riello, sono stati inviati alla Procura di Roma, che indaga su Scafarto per falso (ma anche su Woodcock per violazione di segreto) perché «meritevoli di un approfondimento». Il fatto che l’ex capitano del Noe abbia detto a Musti, quattro mesi prima di consegnare l’informativa e anche prima che fosse registrata la famosa frase «Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato» falsamente attribuita a Romeo («assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità il Renzi Tiziano», scrisse Scafarto nel rapporto), potrebbe far immaginare che l’obiettivo dei carabinieri fosse proprio il padre dell’ex premier. Come se fosse un possibile movente della successiva manipolazione dell’intercettazione. E chi volesse ipotizzare che quello fosse lo scopo dei falsi contestati a Scafarto (tra cui i presunti interessamenti dei servizi segreti controllati dal presidente del Consiglio dell’epoca, Matteo Renzi), ora avrebbe un motivo in più per sostenerlo. Casualmente proprio ieri, a proposito dell’indagine Consip su cui da tempo chiede di svelare tutti i retroscena, l’ex premier ha dichiarato: «Noi vogliamo la verità, non persone che appartengono all’Arma dei carabinieri e si avvalgono della facoltà di non rispondere»; il riferimento è al silenzio opposto da Scafarto ai pm romani che tre giorni fa l’hanno riconvocato per interrogarlo. Sulla fuga di notizie relativa alle telefonate tra Renzi e Adinolfi contenute nell’indagine Cpl-Concordia, il procuratore Musti ha riferito fatti e espresso opinioni che suonano molto critiche nei confronti dei carabinieri del Noe, ma da cui si possono desumere perplessità anche sul comportamento dei colleghi napoletani. Il punto critico è la trasmissione dell’informativa completa, di quasi 600 pagine, in cui c’era il capitolo dedicato al generale Adinolfi, che con la parte d’inchiesta passata per competenza a Modena non aveva nulla a che fare. A Napoli i pm l’avevano omissato, ma in Emilia l’informativa fu trasmessa — tramite Scafarto, che lo consegnò personalmente a Musti in un plico non sigillato — completa di quella parte che poi uscì su Il Fatto. Come mai questo sia avvenuto, senza che lei fosse stata informata nemmeno a voce da Woodcock che c’erano intercettazioni destinate a rimanere riservate, Musti ha detto di non saperlo spiegare. Né ha potuto escludere che il gip di Modena, al quale il suo ufficio passò le carte, le avesse messe a disposizione degli avvocati. Quello che invece ha sottolineato in più occasioni durante la sua audizione, sono giudizi espliciti e molto taglienti nei confronti dei carabinieri del Noe: quell’informativa, ha spiegato, è un esempio di come non si devono fare, è «fatta coi piedi», gonfia di espressioni molti simili a «chiacchiere da bar» anziché a fatti accertati. Il fatto che De Caprio le avesse parlato in quei termini («una bomba») la irritò non poco, e le anticipazioni di Scafarto sul «casino» che stavano per far esplodere con l’indagine napoletana condotta da Woodcock le fecero nascere ulteriori sospetti. Confermati dalle successive accuse a carico dell’ex capitano. Perché «uno più uno fa due».

Consip, i carabinieri alla pm: “Noi vogliamo arrivare a Renzi”. Scafarto e Ultimo: “Abbiamo in mano due bombe”. I colloqui con la procuratrice di Modena Musti riferiti da lei stessa al Csm. Riguardavano i casi della società pubblica e della Cpl Concordia, scrivono Dario Del Porto e Liana Milella il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". "Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi". Così, in più di un incontro tra Modena e Roma, il capitano del Noe Scafarto e il colonnello Ultimo si rivolsero alla procuratrice di Modena Lucia Musti. Sono le frasi shock riferite dalla magistrata durante l'audizione tenuta il 17 luglio scorso al Csm. I colloqui risalgono alla primavera del 2015: ad aprile di quell'anno, la Procura di Modena aveva appena ricevuto gli atti dell'inchiesta sugli affari della coop Cpl Concordia, aperta dalla Procura di Napoli e poi trasmessa per competenza territoriale nella città emiliana. In quelle carte c'era anche la conversazione tra l'ex premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi. È la procuratrice a ricostruire i retroscena durante la seduta di oltre due ore e mezza davanti alla prima commissione del Csm, dove è aperto il procedimento per incompatibilità nei confronti del pm Henry John Woodcock, di cui sono relatori i togati Luca Palamara e Aldo Morgigni. Nel corso dell'audizione, la procuratrice Musti viene più volte incalzata dai consiglieri, che chiedono maggiori dettagli. E racconta di aver visto Scafarto e Ultimo particolarmente "spregiudicati" e come "presi da un delirio di onnipotenza". Per tutto il mese di agosto, il contenuto dell'audizione, alla quale hanno preso parte non solo i componenti della prima commissione ma anche altri consiglieri del Csm, è rimasto coperto dal più stretto riserbo. Ieri mattina, Palazzo dei Marescialli ha deciso di mandare la documentazione alla Procura di Roma, che indaga nei confronti di Scafarto, di recente promosso maggiore, con le ipotesi di falso e rivelazione del segreto collegate al caso Consip. Queste nuove carte, dunque, aggiungono ulteriori tasselli sul comportamento dei Carabinieri rispetto alla complessa ricostruzione alla quale stanno lavorando il procuratore della capitale, Giuseppe Pignatone, con il suo aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi. Al Csm, la procuratrice Musti ha raccontato di aver avuto un primo incontro a Modena con Scafarto e un secondo con lo stesso Scafarto e l'allora vicecomandante del Noe, Sergio De Caprio, conosciuto come il colonnello Ultimo a Roma. Colloqui sempre finalizzati esclusivamente a discutere dell'indagine. Gli ufficiali dei Cc le avrebbero parlato di due "bombe": una era rappresentata proprio dall'inchiesta sulla Cpl Concordia, ritenuta dagli investigatori in grado di aprire squarci sul sistema delle cooperative; l'altra era indicata nel caso Consip. Il capitano Scafarto, ha spiegato Musti al Csm, avrebbe insistito sulla necessità di andare avanti nelle indagini sulla Cpl, al punto che la magistrata si sarebbe sentita in alcuni momenti quasi messa sotto pressione, come se la sua libertà e le sue prerogative di capo della Procura potessero in qualche misura essere coartate. A luglio del 2015, la telefonata Renzi-Adinolfi fu pubblicata sul Fatto Quotidiano dopo essere stata depositata in diverso procedimento della Procura di Napoli, quello sulle presunte collusioni fra ex dirigenti della Concordia e la camorra, e all'insaputa dei magistrati delegati. Per questa vicenda, furono indagati per rivelazione colposa del segreto d'ufficio quattro sottufficiali del Noe, la cui posizione è stata poi archiviata. Anche la circostanza della pubblicazione della telefonata è all'attenzione della prima commissione del Csm, che in questi mesi ha già sentito il procuratore aggiunto di Napoli, Nunzio Fragliasso. Lunedì prossimo sono in programma le audizioni di altri due procuratori aggiunti: Alfonso D'Avino e Giuseppe Borrelli.

“Scafarto e Ultimo, metodi da matti”. I carabinieri di Consip sotto accusa. La deposizione shock al Csm di Lucia Musti, procuratore di Modena. “Erano esagitati. Mi dissero: scoppierà un casino, arriviamo a Renzi”, scrivono Dario Del Porto e Liana Milella il 16 settembre 2017 su "La Repubblica". «Quei due sono veramente dei matti. Abbiamo fatto bene a liberarcene subito». «Le loro intercettazioni? Fatte coi piedi». Le informative? «Roba da marziani». Parola del procuratore di Modena Lucia Musti che il 17 luglio, davanti alla prima commissione del Csm, parla così del colonnello del Noe Sergio De Caprio e del capitano Gianpaolo Scafarto, lamentando le continue pressioni di Scafarto per incontrarla. La lunga audizione del magistrato, già sbobinata dopo una settimana, è rimasta per tutto agosto nei cassetti del Csm, e solo il 14 settembre, con una posta certificata, è partita alla volta della procura di Roma, che ha messo Scafarto sotto inchiesta. Un’attesa, motivata dalle ferie, decisamente troppo lunga e che già solleva più di un interrogativo.

“FINALMENTE L’HANNO PRESO”. È un atto d’accusa pesantissimo quello di Musti contro Scafarto e De Caprio. Tant’è che, la sera in cui si diffonde la notizia dell’incriminazione di Scafarto, come lei stessa riferisce al presidente della prima commissione Giuseppe Fanfani, ai relatori Luca Palamara e Aldo Morgigni, a consiglieri come Antonello Ardituro e Piergiorgio Morosini che la interrogano, eccola commentare: «Mi è venuto un colpo, perché ho detto “uno più uno fa due, finalmente l’hanno preso”, punto, fine. Perché il modo di fare di questo capitano era assolutamente spregiudicato, ma non solo il suo, anche quello del colonnello che lo comandava allora, De Caprio».

“DVD SENZA CAUTELA”. Nella primavera 2015 Musti riceve da Napoli, dal pm Henry John Woodcock, gli atti di Cpl Concordia. Ma è Scafarto in persona, come dice Musti al Csm, a portarle l’informativa: «Erano due Dvd e non avevano alcuna forma di particolare cautela, assolutamente no. Non c’erano dei sigilli». Prosegue Musti tra le insistenze dell’ex pm Ardituro: «Vede consigliere, ripeto, io non ho mai visto un’informativa così, perché entra subito nel merito. Cioè comincia subito a raccontare i fatti. Quelle a cui ero abituata io, per vent’anni, avevano scritti gli indagati e i reati». Fanfani le chiede «se questo è un modo di trasmettere gli atti». Musti: «Lui veniva per nome e per conto di Woodcock, che mi aveva telefonato e mi aveva detto: “Ti mando Scafarto”».

ESPLODE IL CASO ADINOLFI. La telefonata tra l’ex premier Renzi e il generale Adinolfi viene pubblicata sui giornali. Non era omissata nel dvd consegnato dai carabinieri a Musti. Ma lo era nelle carte dei pm. Musti: «Ho parlato con Woodcock quando la notizia è uscita, è lui che ha chiamato me, non sono io che ho chiamato lui. Mi ha chiamato per minimizzare, era piuttosto turbato, agitato, preoccupato. Io l’ho lasciato sfogare, punto e basta. In realtà ero piuttosto arrabbiata, mi sono confrontata con Pignatone dicendo: “Ma in che pasticcio sono andati a metterci?”. Sono sincera, ho detto questo».

“INTERCETTAZIONI COI PIEDI”. Musti non fa sconti ai carabinieri: «Queste intercettazioni erano fatte coi piedi, dove sulla base di un’informazione del tipo “questo lampadario è verde”, allora si diceva che il lampadario era verde perché erano venuti marziani che avevano corrotto e sulla base di un lampadario verde si facevano delle costruzioni di reato».

“SONO DEI MATTI”. Musti, con due colleghi, partecipa a una riunione al reparto operativo dei Cc di Roma, con Scafarto e De Caprio. Chiosa al Csm: «Mi sembravano molto spregiudicati, con un delirio di onnipotenza, soprattutto il colonnello e il capitano, perché poi c’era questo maggiore De Rosa che mi sembrava più equilibrato, ma gli altri due erano veramente matti. Scusi, matti no, erano esagitati, non mi piaceva neanche il rapporto con l’autorità giudiziaria che avevano, perché a me avevano detto: “Dottoressa, lei se vuole ha una bomba in mano, lei se vuole può far esplodere la bomba”». Il presidente Fanfani chiede: «Chi glielo disse?». Musti: «Il colonnello De Caprio mi disse: “Lei ha una bomba in mano, se vuole la può fare esplodere”». Fanfani: «Ma in riferimento a cosa?». Lei: «Ma cosa ne so? Cioè, io non lo so perché erano degli agitati. Io dovevo lavorare su Cpl Concordia, punto, su quest’episodio di corruzione. Dissi ai miei, “prima ci liberiamo di questo fascicolo meglio è”. Nel frattempo, secondo me, il colonnello pensava che io chissà cosa potessi potuto fare, forse il burattino nelle sue mani, io non lo so cosa avesse in mente».

“SUCCEDERA' UN CASINO". Musti dedica molte risposte alle insistenti pressioni di Scafarto per incontrarla. «E va bene, cosa gli devi dire, di no? Una volta gli ho detto di sì, la seconda pure, la terza volta no, e ho ancora il suo ultimo messaggio al quale dissi “faccia come vuole, ma io non ho tempo”». Ma nell’ultimo incontro ecco la frase shock di Scafarto. Racconta Musti: «Lui mi ha parlato del caso Consip, un modo di fare secondo me poco serio, perché un capitano, un maresciallo, un generale sono vincolati al segreto col loro pm, non devi dire a me che cosa stai facendo con un altro. Quindi, quando lui faceva lo sbruffone dicendo che sarebbe “scoppiato un casino”, io dentro di me ho detto “per l’amor di Dio”. Una persona seria non viene a dire certe cose, quell’ufficiale non è una persona seria». Fanfani vuole dettagli: «De Caprio ha detto “Ha una bomba in mano”, mentre Scafarto “succederà un casino”?». Musti risponde: «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi».

Consip, Ultimo si difende: "Mai parlato di Renzi. Musti ci disse di tacere con cc e prefetto". Sergio De Caprio respinge le accuse e tranquillizza il mondo politico: "Stiano sereni tutti: i carabinieri non fanno golpe". Il magistrato: "Rispondo a pm di Roma, non a lui", scrive il 15 settembre 2017 "La Repubblica". Respinge le accuse il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che arrestò Totò Riina e, anzi, precisa che fu la pm Musti a chiedergli di tacere. Dopo le ultime rivelazioni in merito all'inchiesta Consip apparse sulla stampa, De Caprio precisa: "Non ho mai svolto indagini per fini politici", definendo una "campagna di linciaggio mediatico" quella apparsa sui giornali, secondo cui in più di un'occasione, lui e il capitano del Noe Scafarto si rivolsero alla procuratrice di Modena Lucia Musti ("Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi"). Di più: chiarisce che fu proprio il magistrato a richiedere il silenzio del militare: "La dottoressa Musti è stata supportata in tutto quello che ci ha liberamente richiesto, compresa la presenza del capitano Scafarto a Modena, compreso il fatto di non informare delle indagini il comandante provinciale dei carabinieri di Modena e la prefettura perché li considerava collusi con le cooperative rosse su cui da tempo indagava autonomamente". Alle parole del militare Lucia Musti evita di ribattere: "Non commento le dichiarazioni del colonnello Sergio De Caprio. Risponderò solo alle domande dei magistrati della Procura della Repubblica di Roma". "Non so nulla a questo proposito e quindi non posso rispondere", dice l'ex prefetto di Modena, Michele di Bari che all'epoca, ovvero nel 2015, era appunto il prefetto di Modena e oggi ricopre lo stesso ruolo a Reggio Calabria. "I rapporti con la dottoressa Musti, cui serbo profonda stima, sono stati sempre improntati al reciproco rispetto delle competenze e attribuzioni ed alla leale collaborazione istituzionale" aggiunge commentando le "asserite dichiarazioni" attribuite alla procuratrice di Modena nei confronti dei carabinieri e della prefettura, spiegando di chiarire "soltanto per spirito di verità". Nel merito - aggiunge Di Bari - "la Procura indagò su un funzionario della prefettura per una vicenda legata ad una cooperativa. Nel 2016 il procuratore Musti ne ha chiesto l'archiviazione per infondatezza della notizia di reato all'esito delle indagini svolte. Infatti l'ipotesi corruttiva tra il dipendente della Prefettura e il presidente della cooperativa come inizialmente ipotizzata dagli organi investigativi non trovò conferma. Sul punto il procuratore Musti non poteva e non doveva fornire alcuna notizia su ciò che era oggetto di indagine". Una affermazione che, secondo Musti, chiude ogni questione e ogni illazione in merito alla correttezza dei rapporti e la stima reciproca tra la Procura di Modena e la Prefettura di Modena e la Procura di Modena e l'Arma di Modena". Ma la polemica non si placa. Ai rappresentanti del mondo politico, che gridano al golpe, Ultimo replica: "Leggo che illustri esponenti politici - tra cui ministri Dario Franceschini, Luigi Zanda, Michele Anzaldi, Pino Pisicchio - paventano colpi di stato e azioni eversive da parte del Capitano Ultimo e di pochi disperati carabinieri che lavorano per un tozzo di pane. Stiano sereni tutti, perché mai abbiamo voluto contrastare Matteo Renzi o altri politici, mai abbiamo voluto alcun potere, mai abbiamo falsificato alcunché". Sempre a proposito del procuratore Musti, il capitano afferma di non averla "mai forzata in nessuna cosa" e di aver sempre svolto "le indagini che ci ha ordinato con lealtà e umiltà". "Non ho mai parlato di Matteo Renzi né con la dottoressa Musti né con altri", aggiunge. E poi aggiunge nuovi dettagli: "La dottoressa Musti è stata supportata in tutto quello che ci ha liberamente richiesto, compresa la presenza del capitano Scafarto a Modena, compreso il fatto di non informare delle indagini il comandante provinciale dei carabinieri di Modena e la Prefettura perché li considerava collusi con le cooperative rosse su cui da tempo indagava autonomamente". Il colonnello De Caprio, che accusa di falsità "alcuni organi di disinformazione funzionali alle lobby che da anni cercano di sfruttare il popolo italiano", sottolinea di non aver mai "svolto indagini al di fuori dei fatti che emergevano direttamente ed esclusivamente dalle persone indagate. Non ho mai avuto esaltazioni o esagitazioni a seguito delle indagini da me svolte neanche quando abbiamo arrestato Riina, non abbiamo mai esultato, non abbiamo esploso colpi in aria, non abbiamo fatto caroselli per le strade, mai festeggiato, perché la lotta anticrimine appartiene solo al popolo e noi non usiamo il popolo per i nostri fini, o per avere dei voti, lo serviamo e basta".

I CARABINIERI. Il Comando generale dell'Arma dei carabinieri valuterà il contenuto delle parole attribuite al colonnello Sergio De Caprio in merito alla vicenda Consip. Dagli stessi ambienti dell'Arma si apprende inoltre che ci si allinea alle parole dette oggi dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, a margine di un evento a Genova: "Ho letto le dichiarazioni del colonnello De Caprio che sono da attribuire a lui personalmente e basta - ha detto la ministra - non certo all'Arma dei carabinieri che ha sempre, e continua a dimostrare, grande fedeltà a quello che è il proprio ruolo. Credo che dovranno anche essere valutate dal Comando generale per capire l'opportunità".

I LEGALI DEL MAGGIORE SCAFARTO. "A distanza di più di un anno precisiamo che il maggiore Gianpaolo Scafarto non ha ricevuto alcuna notifica da parte della Procura di Modena in ordine alla ipotesi di reato così come prospettata dalla stampa e men che meno una proroga di indagini che, si badi, avrebbe giustificato una prosecuzione delle stesse", fanno sapere gli avvocati Giovanni Annunziata e Attilio Soriano, difensori di Scafarto."Di conseguenza - aggiungono i legali - attendiamo di conoscere la eventuale contestazione mossa al maggiore, nel rispetto dei tempi delle indagini preliminari, riservandoci di rendere interrogatorio allor quando e se avremo contezza di un eventuale procedimento penale a carico del maggiore per tali fatti". Gli avvocati dicono di "aver appreso con stupore dalla stampa di una ipotesi di condotta apparentemente censurabile che sarebbe avvenuta a opera del maggiore Scafarto.

Consip, le due bombe del Noe piazzate contro Renzi, scrive Giulia Merlo il 16 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il procuratore di Modena racconta le pressioni di Scafarto e Capitano Ultimo per continuare le indagini contro il padre del premier. «Abbiamo in mano due bombe e lei può farle esplodere. Arriveremo a Renzi». Il virgolettato, riportato sui quotidiani Corriere della Sera e Repubblica e attribuito agli ufficiali del Noe, Gianpaolo Scafarto e Sergio di Caprio, alias l’ex capitano Ultimo, scuote politica e magistratura con echi sinistri da golpe. Le parole – pronunciate dai due militari nel 2015 e riferite all’inchiesta (poi archiviata) sugli affari della coop Cpl Concordia – sono state riferite al Csm dalla procuratrice di Modena, Lucia Musti, durante un’audizione al Csm, datata 17 luglio scorso, che indaga sulla fuga di notizie del luglio 2015. Poi, due giorni fa, l’organo di autogoverno della magistratura le ha inoltrate alla Procura di Roma, che indaga nei confronti di Scafarto per falso e rivelazione di segreto d’ufficio sul caso Consip. Secondo i due ufficiali del Noe, le «due bombe» per colpire Renzi sono l’inchiesta sulla Cpl Concordia, che avrebbe dovuto smantellare il “sistema” delle cooperative rosse e quella su Consip. Il fascicolo sulla coop Cpl Concordia viene aperto nel 2013 dal pm napoletano Woodcock e poi in parte trasmesso per per competenza territoriale a Modena: l’ipotesi di reato è corruzione e gli inquirenti ascoltano i vertici della cooperativa parlare di un presunto “generale” che i magistrati ipotizzano sia il generale della GdF, Michele Adinolfi (invece si trattava di un militare in pensione). Adinolfi viene indagato e intercettato per tre mesi per indagare sul suo «canale preferenziale» nei rapporti con «il segretario Pd Matteo Renzi, Luca Lotti e Dario Nardella». Tra le intercettazioni, spunta anche la conversazione (pubblicata da Il Fatto Quotidiano) tra Adinolfi e Renzi in cui il segretario definisce l’allora premier Enrico Letta «un incapace». La posizione di Adinolfi viene archiviata e la pubblicazione illegittima dell’intercettazione finisce al centro di un procedimento del Csm. L’inchiesta Consip, invece, riguarda la presunta corruzione sugli appalti della centrale acquisti della pubblica amministrazione e vede indagati tra gli altri per rivelazione di segreto d’ufficio il ministro Luca Lotti e il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette. Nell’inchiesta è coinvolto anche Tiziano Renzi per traffico di influenze illecite. Anche in questo caso, le indagini vengono inquinate da fughe di notizie, per le quali è indagato per falso e rivelazione del segreto istruttorio lo stesso Gianpaolo Scafarto. Proprio sulle intercettazioni trapelate illecitamente durante le inchieste Cpl- Concordia e Consip sta svolgendo un accertamento la prima commissione del Csm e, in quest’ambito, è stata ascoltata la procuratrice di Modena. La procuratrice di Modena, Laura Musti, racconta alla Commissione del Csm di aver avuto due incontri: uno con Scafarto e Ultimo e l’altro solo con Scafarto, in merito all’indagine Cpl- Concordia. I due carabinieri del Noe le riferiscono in termini quasi scandalistici i contenuti delle indagini che stanno svolgendo per la procura di Napoli (di cui uno stralcio era stato trasmesso a Modena) e la procuratrice, durante l’audizione, ha espresso giudizi trancianti contro i due militari: secondo Musti, l’informativa «è fatta coi piedi» – riporta il Corriere – ed è zeppa di «chiacchiere da bar» invece che fatti accertati. Inoltre, la procuratrice sottolinea di essere stata molto irritata dai termini usati da Ultimo a proposito delle «due bombe» e dal fatto che Scafarto le stesse anticipando il «casino» che stavano per far esplodere a Napoli con l’inchiesta su Consip. Inoltre, i militari avrebbero insistito perchè la procura modenese proseguisse le indagini sulla coop, al punto che Musti riferisce al Csm di essersi sentita pressata nell’esercizio della sua attività inquirente. L’audizione di Musti sull’incontro con Scafarto e Ultimo è stata trasmessa alla Procura di Roma, che indaga nei confronti di Scafarto per i reati di rivelazione di segreto nell’inchiesta Consip. Le parole di Musti – secondo il Csm – potrebbero aggiungere elementi utili per la ricostruzione di come si svolse l’indagine su Consip da parte del Noe e del maggiore Scafarto, a cui sta lavorando il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi.

Consip, il capitano Ultimo contrattacca ma rischia sospensione. La replica di Sergio Di Caprio alla pm di Modena, Lucia Musti, e alle accuse ai politici. Interviene la ministra della Difesa, Roberta Pinotti, scrive Fiorenza Sarzanini il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Monta la polemica sul “caso Consip” ed esplode la rabbia del colonnello Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo”. Quanto basta perché una nuova bufera si scateni sull’Arma dei carabinieri, a pochi giorni dall’inchiesta sui due militari accusati di aver stuprato due studentesse americane a Firenze. Perché dopo le bordate lanciate dall’ufficiale contro il procuratore di Modena Lucia Musti, ma soprattutto contro «politici e ministri», interviene la titolare della Difesa Roberta Pinotti e chiede «al Comando generale di valutare le sue parole per capirne l’opportunità». L’obiettivo è chiaro: far avviare un procedimento disciplinare, prendendo in considerazione un’eventuale sospensione. Una strategia nuova, visto che già in passato “Ultimo” - famoso per aver guidato la squadra che nel 1993 catturò Totò Riina - ha avuto contrasti e atteggiamenti “ribelli” con attacchi rivolti sia all’interno, sia all’esterno dell’Arma senza mai subire conseguenze così gravi come quelle paventate adesso. Esterna attraverso l’agenzia Ansa il colonnello De Caprio e alle rivelazioni del procuratore di Modena Lucia Musti sulle “pressioni” che lui e il capitano Gianpaolo Scafarto avrebbero esercitato nell’inchiesta sulla “Cpl Concordia”, l’ufficiale che all’epoca guidava il Noe risponde: «Non l’ho mai forzata in nessuna cosa, abbiamo sempre svolto le indagini che ci ha ordinato con lealtà e umiltà. Non ho mai parlato di Matteo Renzi né con la dottoressa Musti né con altri». Parla di «linciaggio mediatico con insinuazioni e falsità da alcuni organi di disinformazione funzionali alle lobby che da anni cercano di sfruttare il popolo italiano». Assicura di non aver «mai avuto esaltazioni o esagitazioni neanche quando abbiamo arrestato Riina, perché la lotta anticrimine appartiene solo al popolo e noi non usiamo il popolo per i nostri fini, o per avere dei voti, lo serviamo e basta». Poi si rivolge a «Dario Franceschini, Luigi Zanda, Michele Anzaldi, Pino Pisicchio che paventano colpi di stato e azioni eversive da parte del Capitano Ultimo e di pochi disperati carabinieri che lavorano per un tozzo di pane. Stiano sereni tutti, perché mai abbiamo voluto contrastare Matteo Renzi o altri politici, mai abbiamo voluto alcun potere, mai abbiamo falsificato alcunché». Parole che hanno l’effetto di una bomba. “Ultimo” non è nuovo a esternazioni simili, ma mai il livello dei suoi attacchi era stato così violento. Non aveva protestato in maniera tanto veemente nel 2000, quando venne trasferito al Noe dal Ros, dove aveva creato il Crimor, l’Unità militare combattente. Nè quando è finito sotto inchiesta per corruzione nell’ambito della vicenda Sistri, il sistema di controllo dei rifiuti. O ancora due anni da, quando fu proprio il generale Del Sette a privarlo della delega sulle indagini compiute dal Noe. Oltre un anno fa era stato trasferito ai servizi segreti, all’Aise, ma nel luglio scorso i vertici dell’agenzia hanno ritenuto di farlo rientrare insieme ai suoi sottoposti dopo l’apertura dell’inchiesta sui “falsi” compiuti proprio dal capitano Scafarto ma anche sulla possibilità che gli investigatori del Noe continuassero a tenerlo informato sull’evoluzione delle indagini. Una circostanza che lui ha sempre negato arrivando a dichiarare che «il rientro nell’Arma lo abbiamo deciso in maniera autonoma per evitare strumentalizzazioni sul nostro operato, sempre corretto». Sarà l’inchiesta ancora in corso alla procura di Roma ad accertare che cosa sia davvero accaduto. Oltre alle verifiche sulla spartizione dell’appalto Fm4, c’è quella sulla fuga di notizie che ha tra gli indagati il ministro Luca Lotti, lo stesso generale Del Sette e il comandante della Regione Toscana Emanuele Saltalamacchia. Sospettati di aver avvisato i vertici di Consip dell’indagine avviata a Napoli sulla spartizione dei lavori pubblici. E forse non è un caso che proprio dal Comando Generale arrivi «la massima fiducia nell’operato della Procura di Roma e l’auspicio che si faccia chiarezza al più presto». Anche tenendo conto che il mandante di Del Sette scade il 15 gennaio.

La sfida anti-casta del colonnello: “Illustri politici, state sereni. Il golpe è quello contro i cittadini”. La difesa: una montatura mediatica, non sono un esagitato. Una vita ai limiti, dalla cattura di Riina all’intesa con Woodcock, scrive Francesco Grignetti il 16/09/2017 su "La Stampa". Ai politici dice: «Stiano se reni tutti, perché mai abbiamo voluto contrastare Matteo Renzi o altri politici, mai abbiamo voluto alcun potere. L’unico golpe che vediamo è quello perpetrato contro i cittadini della Repubblica, quelli che non hanno una casa e non hanno un lavoro». Così parlò il Capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio, colonnello dell’Arma. Il mitico ufficiale che arrestò Totò Riina con un pugno di fedelissimi, agendo nell’ombra, fuori dalle gerarchie, avendo a modello gli indiani Apache. Ora, quell’accenno allo «stare sereni» non è certo casuale. Ma è vero quel che Ultimo dice, e cioè che non ce l’ha con Matteo Renzi. Il discorso è molto più ampio. Già, perché Ultimo - come esplicitato dal discorso sul golpe che sarebbe portato avanti dai politici stessi - c’è l’ha con il Potere. La partita mortale con Matteo Renzi, quella «bomba che se lei vuole può far esplodere», come disse al procuratore di Modena, Lucia Musti, (e lei ha riferito al Csm: «Pensai: questi sono degli esagitati») è soltanto l’ultima di una lunga serie. Da quando quindici anni fa ha mollato la mafia e s’è dedicato ai politici, De Caprio ne ha inanellati di «scalpi» eccellenti. C’era lui dietro l’inchiesta che costrinse Alfonso Pecoraro Scanio alle dimissioni da ministro dell’Ambiente del governo Prodi. Era il 2008, quel governo prese a traballare, e si cementò il rapporto con il pm John Henry Woodcock, che era ancora in servizio a Potenza, ma presto sarebbe arrivato a Napoli. C’erano ancora De Caprio e Woodcock dietro l’inchiesta che ha incastrato Umberto Bossi e il tesoriere Belsito (i cui strascichi arrivano a oggi) o quando decapitarono Finmeccanica e il potentissimo Giuseppe Orsi, tanto vicino alla Lega, ma colpirono anche Roberto Maroni per alcune spregiudicatezze da ministro dell’Interno. E poi, Berlusconi regnante, vennero il caso del faccendiere Lavitola, il procacciatore di donne Giampaolo Tarantini, la compravendita di senatori con Sergio De Gregorio, i maneggi di Luigi Bisignani, le furberie del deputato Alfonso Papa, le trame di Nicola Cosentino. L’ultima caccia riguarda il nuovo potente. Matteo Renzi entra nel mirino del Noe e di Woodcock quando è ancora sindaco di Firenze, ma da segretario Pd s’agita assai e si capisce che sta per fare il gran salto. Lo intercettano mentre chiacchiera con il suo amicone, il generale Michele Adinolfi, della Gdf, e insieme i due sghignazzano su Enrico Letta. Puntualmente le carte finiscono sui giornali ed è uno schizzo di fango che lascia il segno. È il gennaio 2014. De Caprio lo inquadra e si getta nella battaglia. Matteo Renzi è infatti il bersaglio grosso di questi ultimi due anni. S’è vista la foga degli uomini del Noe, anche dopo che il colonnello era transitato ai servizi segreti, senza mai mollare la presa. Si ricordano in proposito gli sms del capitano Scafarto ai suoi marescialli, quando voleva a tutti i costi appesantire la posizione di babbo Renzi, ma le intercettazioni non lo aiutavano. «Remo, per favore, riascoltala subito. Questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano. Grazie. Attendo trascrizione». L’intercettazione continuò a deluderlo, ma Scafarto taroccò l’informativa e la posizione di Tiziano Renzi sembrò davvero pencolare. Oppure quel capitolo dedicato a un intervento di controspionaggio degli 007, del tutto campato in aria, che però portava a pensar male di Palazzo Chigi. Come la pensi il colonnello De Caprio sui politici, in fondo, non l’ha mai nascosto. «Vi saluto - scriveva in una lettera aperta ai sottoposti del 2015, all’atto di lasciare il comando delle operazioni del Noe - nella certezza che senza mai abbassare la testa, senza mai abbassare lo sguardo e senza mai chiedere nulla per voi stessi, continuerete la lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che la sostengono». Una sacra corona del male, cui si oppone un pugno di carabinieri eroi. Ma che conta. «L’amore che abbiamo per il nostro popolo è così grande che ti fa dimenticare tutto», disse in un’intervista. Ieri il colonnello diceva: «Non sono un esaltato, ho sempre servito onestamente lo Stato. Sono i giornali che hanno montato questa roba su Renzi». 

1964: quel “tintinnar di sciabole” che piegò i socialisti, scrive Lanfranco Caminiti il 16 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il piano Solo del generale De Lorenzo prevedeva la presa del potere da parte dei carabinieri e l’arresto di comunisti e socialisti. L’evolversi della vicenda Consip – «Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi» – e cioè l’intervento diretto dei carabinieri nella vita politica del paese fa ricordare quando avvenne l’ultima volta. «President Segni aware this plan». È una frase contenuta nel telegramma inviato dal Comando generale delle Forze armate USA nell’Europa meridionale al comandante delle Forze armate USA in Europa, Verona, 26 giugno 1964. Un documento declassificato solo da qualche anno. Il Presidente Segni è a cono- scenza di questo piano. Il “piano” era che se la sinistra comunista fosse scesa in piazza, organizzando scioperi e manifestazioni contro una deriva reazionaria, allora loro, i Carabinieri, sarebbero intervenuti e avrebbero assunto il potere per mantenere l’ordine e la democrazia. Della polizia e di altre forze era meglio non fidarsi. Solo i carabinieri erano sicuri. Era il Piano Solo. Un piano che prevedeva l’«enucleazione» di settecentotrentuno persone – sindacalisti, politici, militanti – da portare in una località protetta della Sardegna, un campo d’addestramento dei carabinieri, scelte sulla base dei dossier del SIFAR, il servizio d’informazione di cui era stato a capo de Lorenzo. Il generale de Lorenzo, comandante dell’Arma, era ossessionato dalla formidabile macchina organizzativa dei comunisti, dalla loro capacità di infiltrarsi e costruire cellule in ogni ganglio dello Stato, dal loro reclutamento, dalla loro propaganda, dalla loro “tattica degli scandali”. Perfino la scuola di partito delle Frattocchie lo mandava ai matti, e cercava di saperne sempre di più. In realtà, le cose non erano proprio in questo modo, i comunisti non erano all’offensiva, anzi. Il segretario della CGIL Novella aveva detto: «Nelle grandi aziende monopoliste la reazione operaia ai licenziamenti e alle riduzioni di orario è debole». Tutto era cominciato nel dicembre del 1963, quando si era formato il primo governo di centro- sinistra, presidente del Consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni. Democristiani e socialisti hanno stretto un’alleanza di governo. «l’Avanti» titola: “Da oggi ognuno è più libero”. Ci sono grandi aspettative, la scuola, la sanità, l’urbanistica, la programmazione economica, le “riforme di struttura”. I socialisti spingono sul tasto riformista e i democristiani su quello moderato. Nella Dc prende consistenza un coagulo conservatore e a guidarlo c’è proprio il presidente della Repubblica, Segni, che pure a Moro doveva tanto, anche l’elezione alla presidenza. Il 26 giugno del 1964, Moro rassegna le dimissioni. Segni vorrebbe affidare il governo a un esponente della destra DC ( Scelba, Pella o Leone) o a una personalità tecnica come Merzagora; Moro, intanto, cerca di convincere i quattro partiti della coalizione a pronunciarsi compatti sul suo nome, in modo da obbligare Segni a conferirgli l’incarico. Sul Corriere della Sera appare questo editoriale: «Abbiamo bisogno d’un governo d’emergenza per una situazione d’emergenza». Ma non ci sono alternative e a nessuno passa per l’anticamera del cervello di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Il pallino con l’incarico di formare il nuovo governo torna a Moro. Seguono tre settimane di trattative difficili tra socialisti e democristiani. Sono le tre settimane che poi Nenni definirà quelle del periodo del “tintinnar di sciabole”. All’apertura della crisi di governo, i comunisti denunciano che «gruppi apertamente reazionari approfittano delle attuali difficoltà per rivolgere un attacco contro le istituzioni democratiche e repubblicane, e in questo modo preparare le condizioni dell’avvento di un regime autoritario». Segue invito alla più grande vigilanza per e forze democratiche, le masse popolari e le organizzazioni della classe operaia. Il 3 luglio, una mobilitazione nazionale raduna a piazza San Giovanni circa centomila persone, convenute per ascoltare Giorgio Amendola e Palmiro Togliatti. E Togliatti dice: «In Italia la via per qualunque involuzione reazionaria è sbarrata; chi volesse attentare alla nostra libertà sappia che non ci sono speranze». La manifestazione, inquadrata da un servizio d’ordine di circa tremila militanti del PCI, si svolge tranquillamente e non dà luogo a nessun incidente. Il 18 luglio l’accordo è faticosamente raggiunto. Moro è di nuovo presidente del Consiglio. È un notevole passo indietro sui programmi del precedente governo. Riccardo Lombardi lascia la direzione dell’«Avanti» e il socialista lombardiano Antonio Giolitti, autore del piano di programmazione economica, rifiuta di partecipare al nuovo governo. Il centro- sinistra è rientrato all’ordine. Del “Piano Solo” si persero le tracce, ma qualche anno dopo, nel 1967, fu giornalisticamente “svelato” su «l’Espresso» da Scalfari e Jannuzzi. Un generale dei carabinieri, de Lorenzo, che ordisce contro quella repubblica che dovrebbe custodire. Perché a quello sono “destinati” i carabinieri: «nei secoli fedele», a chi obbedire, a chi essere fedele? All’istituzione, all’ordinamento sociale, e se è la repubblica alla repubblica. Così, quasi non riesci a credere che dei carabinieri fabbrichino con le proprie mani “una bomba” da mettere nelle mani di un giudice perché la faccia esplodere contro la presidenza del Consiglio. Ora, con tutto il rispetto per il maggiore Scafarto, è lecito chiedersi: a chi era fedele? A chi ubbidiva, tacendo? Chi è il “grande vecchio”?

Consip, Renzi subito a Rignano dal padre. Con lui il faccia a faccia della pace. Il segretario del Partito democratico ora punta a recuperare consenso. La solidarietà a Clemente Mastella, scrive Tommaso Labate il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Cancellatemi tutti gli appuntamenti di questa mattina. Voglio andare da mio padre». Non gli avversari politici a cui provare a rispedire al mittente quasi un anno di accuse. Non quella parte di minoranza pd che aveva di fatto usato il caso Consip contro di lui. E nemmeno gli autori di quello che lui stesso, anche se in pubblico nega che la presenza di «un complotto», considera «uno scandalo nato per colpirmi». Il primo pensiero di Matteo Renzi, quando le anticipazioni sui verbali del procuratore di Modena hanno fatto il giro delle rassegne stampa e della Rete, è per il papà. È a lui, al padre che lui stesso aveva sospettato di essere «colpevole» di molte delle accuse presenti nei verbali, al padre che «se ha sbagliato dovrà scontare una pena doppia», che Renzi junior dedica l’inizio di quella giornata che gli fa fare un passo — forse quello decisivo, si vedrà — fuori dal pantano Consip. In una mattinata intera, trascorsa faccia a faccia, i due hanno riportato alla dimensione «padre-figlio» quel rapporto «da uomo a uomo» che, nei mesi successivi alla nascita dell’inchiesta, aveva vissuto fasi molto aspre. Oggi, di fatto, il segretario del Pd considera forse Renzi senior «quello che ha pagato più di tutti in questa storia». E la caduta del velo sui responsabili dello scambio di persona contenuto nei faldoni dell’inchiesta (Matteo scambiato per Tiziano, Bocchino per Romeo) per il leader del Pd è praticamente una prova, o quasi. Ristabilito in famiglia l’ordine naturale delle cose, Renzi ha un obiettivo. Riuscire a riavere indietro il consenso e la popolarità persi per strada a causa di una vicenda di «che è nata per colpire me». Se il caso di Banca Etruria lo aveva colpito come capo di governo prima, il dossier Consip l’ha ferito come leader politico dopo. I suoi lo descrivono come «molto amareggiato» per tutto quello che è successo. Un’amarezza che va moltiplicata per dieci se si è di fronte – come dirà nel pomeriggio a un’iniziativa del Foglio – a «un carabiniere che falsifica prove», a «un agente dei servizi che s’intrufola dove non dovrebbe». Amareggiato sì ma comunque fiducioso del fatto che, da adesso, riuscirà a risalire la china. Difficile, tanto per fare un esempio, che le ultime rivelazioni su Consip abbiano degli effetti benefici sulle urne in Sicilia, in quella sfida che per il Pd si annuncia delicatissima. Più semplice, almeno è quello che Renzi spera, riuscire a ristabilire «la verità» in tempo per la campagna elettorale delle politiche. Un punto a suo vantaggio, anche se riguarda il fronte interno, il segretario dei Democratici l’ha portato a casa. Una delle punte di diamante della fronda interna, Dario Franceschini, è stato il primo a parlare di «gravità istituzionale enorme» nel commentare le parole del magistrato modenese Musti. Un segnale che i renziani interpretano come il tassello di una possibile tregua, non certo come la fine di una guerra che riguarderà tanto l’ipotesi di un blitz sulla legge elettorale (la fronda vuole il premio di coalizione, i renziani no) quanto la composizione delle liste per le politiche, senza dimenticare l’uragano elettorale che potrebbe soffiare contro il Pd alle regionali siciliane. Diverso sarebbe se i verbali della Musti fossero la punta di un iceberg che questa volta, invece che affondarlo, potrebbe riabilitarlo del tutto, Renzi. «Pretendo quella verità che colpirà chi ha falsificato le prove», ripete. E nell’aprire le danze di quello che potrebbe (condizionale d’obbligo) trasformarsi in uno scontro con una parte della magistratura, il leader Pd punta il dito contro le parole di Piercamillo Davigo «quando dice che ci sono cittadini che si presumono innocenti e che sono colpevoli». E dulcis in fundo, nel solidarizzare col Clemente Mastella assolto dopo nove anni, lo dice forte e chiaro: «La politica è stata subalterna alla magistratura».

Consip, il Csm contesta Woodcock: «Grave violazione di legge per ignoranza o negligenza». Il fatto risale al 21 dicembre scorso, e riguarda l’interrogatorio dell’ex consigliere economico di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, ascoltato come testimone dai due pm quando invece c’erano gli elementi per metterlo sotto inchiesta, scrive il 18 settembre 2017 Giovanni Bianconi su "Il Corriere della Sera". I contrasti che in passato hanno diviso la Procura di Napoli sulla gestione del caso Consip risuonano nell’aula del Consiglio superiore della magistratura con le audizioni dei procuratori aggiunti Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli, ma nel frattempo l’indagine disciplinare della Procura generale della Cassazione su Henry John Woodcock va avanti e si arricchisce di nuovi capitoli. Proprio al Csm è stato comunicato, alla vigilia delle ferie estive, che al pubblico ministero napoletano (e alla sua collega Celeste Carrano) è stato contestato un nuovo capo d’incolpazione: «Grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile». Il fatto risale al 21 dicembre scorso, e riguarda l’interrogatorio dell’ex consigliere economico di Palazzo Chigi Filippo Vannoni, ascoltato come testimone dai due pm — quindi senza avvocato — quando invece c’erano gli elementi per metterlo sotto inchiesta e sentirlo con l’assistenza del difensore. «In violazione dei doveri di imparzialità e delle norme del codice di procedura penale», accusa la Procura generale, Woodcock ha omesso di iscrivere il nome di Vannoni sul registro degli indagati, nonostante l’ex amministratore delegato di Consip Luigi Marroni l’avesse indicato come uno di coloro che l’avevano avvertito dell’indagine in corso. Marroni aveva fatto anche altri nomi: il ministro Luca Lotti, il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, il comandante dell’Arma in Toscana Emanuele Saltalamacchia; tutti regolarmente indagati per rivelazione di segreto e favoreggiamento. Vannoni invece no, e questo ha permesso l’interrogatorio «senza le garanzie di legge» da cui è venuta fuori la conferma delle accuse contro Lotti (negate dal ministro e successivamente modificate dallo stesso Vannoni davanti ai pm di Roma). Dunque l’indagine disciplinare sul pm che, insieme ai carabinieri del Noe, indagava sul mega-appalto Consip prima di trasmettere gli atti nella Capitale, non riguarda solo la presunta intervista a Repubblica lo scorso aprile, e questa seconda incolpazione sembra più grave. Ma a parte il caso Vannoni, le mancate iscrizioni sul registro degli indagati in questa inchiesta rappresentano uno dei punti di divisione tra i magistrati, oltre alla competenza della Direzione distrettuale antimafia (di cui fa parte Woodcock) a proseguire un’indagine per corruzione dove la camorra non c’entrava. Il conflitto interno alla Procura — quando a guidarla era Giovanni Colangelo, andato in pensione a febbraio e sostituito solo a luglio da Gianni Melillo — è stato ricostruito ieri da D’Avino, che aveva contestato la scelta di lasciare il fascicolo a Woodcock. Mentre l’altro procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, che ha retto l’ufficio tra un procuratore e l’altro, ha già segnalato al Csm l’altra presunta anomalia: aver inquisito il faccendiere Carlo Russo e non pure Tiziano Renzi, nonostante le due posizioni andassero «di pari passo», e «i fatti nella loro storicità» fossero gli stessi. Anche il gip che autorizzò le intercettazioni di Renzi senior sostenne che c’erano gli indizi sufficienti per contestargli la corruzione, ma Woodcock e Carrano sostennero che «il ruolo di mediatore trafficante risultava sempre svolto in prima persona da Russo», e d’accordo con il procuratore dell’epoca non iscrissero il padre dell’ex premier. Tre mesi dopo, a marzo 2017, con Tiziano Renzi indagato a Roma per traffico d’influenze e convocato per un interrogatorio, a Napoli fu intercettato nuovamente senza che fosse inquisito, nell’ambito di un’indagine per associazione per delinquere che non lo riguardava direttamente. Da quelle registrazioni venne fuori la telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi, poi pubblicata dal Fatto. Ieri il procuratore di Modena Lucia Musti, che al Csm ha riferito i difficili rapporti con i carabinieri del Noe, ha detto di essere a disposizione dei colleghi romani anche per chiarire alcune inesattezze circolate sulla sua deposizione, mentre Matteo Renzi insiste: «Il tempo gioca con la nostra maglia. Lo vedremo anche alla fine di questa torbida vicenda».

Woodcock scarica Scafarto: "Sono stato io ingannato da lui". Ma al Csm resta sotto accusa. L’interrogatorio del pm di Napoli sui falsi nelle carte Consip contro il padre di Renzi. E le intercettazioni con il capitano del Noe, scrivono Liana Milella e Conchita Sannino il 19 settembre 2017 su "La Repubblica". "Io sarei l'"ingannato"". È l'autodifesa di Henry John Woodcock, certificata negli atti della Procura di Roma. Così il pm si autodefiniva, pur usando il modo condizionale, il 7 aprile, intercettato al telefono proprio con Giampaolo Scafarto. Il magistrato e l'ufficiale del Noe (oggi maggiore) parlano al telefono nelle ore in cui il carabiniere apprende d'essere sotto inchiesta dalla Procura di Roma: il pm esclude l'eventuale "malafede" di Scafarto, lo esorta a difendersi "da uomo di Stato". Esattamente tre mesi dopo, però, il 7 luglio, dinanzi ai colleghi romani che lo interrogano, lo stesso Woodcock scarica una delle tesi difensive di Scafarto definendola "totalmente falsa ". Aggiungendo che da tempo l'ufficiale aveva riferito a lui e anche ad altri magistrati napoletani "di essere intercettato". Conversazioni e verbali che fotografano lo scandalo sulle ipotetiche manipolazioni. Proprio mentre la vicenda su Alfredo Romeo e Consip, con i riflessi di dissidi interni alla Procura di Napoli nei mesi caldi, esplode anche al Csm. Dove ieri, in prima commissione (che ha aperto la pratica per il trasferimento d'ufficio di Woodcock) sono stati ascoltati per 5 ore i procuratori aggiunti di Napoli Alfonso D'Avino (Pubblica amministrazione) e Giuseppe Borrelli (Antimafia, area casalesi) su Consip e Cpl Concordia, in particolare sull'intercettazione tra Matteo Renzi e il generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, pubblicata dal Fatto.

"IL SUV NON ERA DEI SERVIZI". Il 7 aprile - come documenta il dossier della procura di Roma - Scafarto telefona a Woodcock e i carabinieri del Nucleo di Roma sintetizzano: "Scafarto precisa: perché nell'informativa ho omesso di riferire di quello del Cherokee, che insomma facemmo gli accertamenti e vedemmo che insomma non c'entrava niente, che era uno... quello di Caracas, Venezuela, ve lo ricordate?". Il riferimento riguarda la paura - poi rivelatasi erronea - che scatta quando Scafarto e compagni sono negli uffici di Romeo e si sentono osservati, sospettano che quel fuoristrada sia utilizzato dai Servizi, poi risalgono al titolare, un sudamericano, che non c'entra. Tuttavia, il capitolo sui Servizi resta, nell'informativa Noe trasmessa da Woodcock, e non c'è traccia dell'integrazione. Qui Woodcock risponde: "Eh me lo ricordo che lo avete detto... come no". Scafarto, in alcune chat delle stesse ore, aveva raccontato a un collega che l'omissione sarebbe stata "una scelta investigativa precisa, condivisa con Woodcock ". Poi Scafarto parla al pm dell'altra contestazione: aver attribuito a Romeo la frase "Renzi (Tiziano, ndr), l'ultima volta che l'ho incontrato", mentre era stata pronunciata da Italo Bocchino, in riferimento al leader Matteo.

PM: IO TIRATO IN TRANELLO? La conversazione tra pm e ufficiale continua, i carabinieri scrivono: "Parlano del fatto che si tratta di un atto dovuto e che Scafarto farà valere la sua onestà". Poco dopo: "Woodcock lo rassicura, gli dice che comunque si chiarirà tutto e che si sta confrontando con persone perbene e professionali. Woodcock dice di essere in difficoltà in quanto lui sarebbe l'"ingannato" in quanto destinatario dell'inganno. Ma esclude la malafede di Scafarto. Il magistrato ribadisce che lui ha sempre consigliato alla pg di essere più asettica e oggettiva possibile ".

"SAPEVA DELL'INTERCETTAZIONE". "È vero che io dissi a Scafarto di fare un capitolo sui Servizi, così come gli dissi di fare capitoli autonomi per singoli soggetti (Consip e quant'altro)". È il 7 luglio e Woodocock risponde all'aggiunto Paolo Ielo, al pm Mario Palazzi, alla presenza del procuratore capo Giuseppe Pignatone: "Si trattava di un'indicazione di tipo redazionale (...)". Sul mancato inserimento del dato che il suv "sospetto" non era riconducibile ai Servizi, qui il pm smentisce seccamente Scafarto: "Quanto alla presunta condivisione della scelta investigativa, evocata nelle intercettazioni di Scafarto, di omettere nell'informativa l'identificazione del proprietario del suv, è un'affermazione totalmente falsa ". E aggiunge: "Preciso inoltre che Scafarto, ben prima di quella telefonata, era venuto da me in diverse occasioni alla presenza della dottoressa Carrano, dicendomi di sapere di essere intercettato ".

IL CSM E I 2 PROCURATORI. Cinque ore dinanzi al Csm, per i due aggiunti, D'Avino e Borrelli. Puntigliosamente, il primo, interrotto da molte domande, ha ribadito la sua tesi, e cioè che Woodcock non avrebbe dovuto essere il destinatario dell'inchiesta Consip, in quanto essa spettava al suo pool, quello sulla Pa, trattandosi di un caso di corruzione, mentre Woodcock è un pm in carico al gruppo che si occupa di criminalità organizzata. Borrelli invece, ha ribadito - al pari di come pure aveva già fatto D'Avino - che l'indagine napoletana (con archiviazione per 4 carabinieri del Noe Caserta) sulla fuga di notizie del Fatto per 'intercettazione tra il generale Adinolfi e Renzi contenuta nell'inchiesta Cp Concordia (in cui si esprimeva un giudizio sprezzante sull'operato dell'allore premier Letta) aveva accertato che la fonte della trasmissione atti si era consumata all'Ordine degli avvocati di Napoli: quindi relativa agli atti "gemelli" presenti in altro filone partenopeo sui casalesi, non a quelli trasmessi (senza omissis) al procuratore capo Musti, a Modena. Proprio per approfondire l'origine dell'assegnazione al Csm sarà sicuramente sentito proprio Colangelo, il magistrato che di Woodcock aveva detto: "E' un cavallo di razza, ma bisogna tenergli le redini strette al collo".

Consip, altri due fascicoli sulle fughe di notizie. La procura romana ha aperto due fascicoli in merito alla pubblicazione sulla stampa di notizie riguardanti il contenuto di audizioni davanti al Cms, scrive il 18 settembre 2017 "Toscanamedianews.it". La procura di Roma ha deciso di indagare su due nuove fughe di notizie riguardanti la Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione al centro di un'inchiesta per corruzione pesantemente inquinata da soffiate che avrebbero coinvolto anche i livelli istituzionali più alti dello Stato (vedi qui sotto gli articoli collegati)come il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell'Arma dei Carabinieri Tullio del Sette e quello della Legione Toscana Emanuele Saltalamacchia (tutti e tre indagati per rivelazione di segreto d'ufficio), il maggiore del Noe Giampaolo Scafarto e il numero due del Noe Alessandro Sessa (il primo accusato di falso e rivelazione di segreto d'ufficio, il secondo di depistaggio) oppure persone molto vicine al segretario del Pd ed ex premier Matteo Renzi come il padre Tiziano, indagato di traffico di influenze illecite. Nel caso specifico i nuovi fascicoli riguardano due audizioni di magistrati davanti al Csm (Consiglio superiore della magistratura) il cui contenuto è poi finito su alcuni quotidiani. Prima di aprire i due fascicoli, i titolari delle indagini sulla Consip hanno esaminato tutta la documentazione ricevuta dal Csm nei giorni scorsi. I nuovi fascicoli sono al momento a carico di ignoti e l'accusa ipotizzata è, di nuovo, rivelazione di segreto d'ufficio. Sempre nell'ambito dell'inchiesta Consip, nei giorni scorsi aveva innescato polemiche e interrogazioni parlamentari sul ruolo di alcuni ufficiali dei carabinieri in un presunto tentativo eversivo contro il governo di Matteo Renzi il contenuto pubblicato da alcuni quotidiani di un'audizione davanti al Csm della procuratrice di Modena Lucia Musti. Nell'audizione, Musti ha parlato del comportamento di due ufficiali dei carabinieri coinvolti nella vicenda Consip, il maggiore del Noe Giampaolo Scafarto e il colonnello Sergio de Caprio, meglio conosciuto con il soprannome di Ultimo (vedi qui sotto l'articolo collegato) da lei incontrati quando i due ufficiali le avevano trasmesso gli atti relativi a un'inchiesta sulla cooperativa Cpl Concordia. Successivamente convocata di fronte al Csm, Musti, stando ai quotidiani, avrebbe espresso giudizi molto duri e negativi nei confronti dei due ufficiali, riferendo frasi da essi pronunciate come "Lei ha in mano una bomba, arriviamo a Renzi". Ma oggi la procuratrice ha dichiarato all'Ansa che le sono state attribuite "affermazioni" che non ha "mai fatto" o che "non rendono in modo fedele" quanto da lei riferito "in audizione davanti al Cms". E sempre oggi proprio Matteo Renzi in un post su Facebook ha cercato di smorzare le polemiche scrivendo: "Sulla vicenda Consip non ho mai pronunciato parole quali golpe o complotto. Ho sempre detto una cosa diversa: pieno rispetto delle istituzioni, sempre. Ci sono delle "coincidenze" strane in questa storia. Toccherà ai magistrati fare chiarezza. Noi aspettiamo la verità senza gridare". In realtà di complotto a caratteri cubitali ha scritto non più tardi di venerdì scorso Democratica, la nuova testata on line del Pd, titolando l'articolo di apertura "Il Complotto" e specificando nel sottotitolo: "Sempre più chiaro il tentativo eversivo di una parte delle istituzioni contro il Pd e la sua leadership. Mentre la Lega ladrona non restituisce il maltolto".

Consip, il Sistema Woodcock: sempre a caccia dell’arresto shock, scrive il 16 Settembre "Il Dubbio". Dopo le rivelazioni del procuratore di Modena, raffica di esposti al Csm contro il pm di Napoli e il Noe. La pratica aperta al Consiglio superiore della magistratura per verificare profili di incompatibilità ambientale a carico del pm napoletano Henry John Woodcock è destinata ad altri colpi di scena. Le anticipazioni di Repubblica e del Corriere che, ieri, hanno riportato alcuni passaggi del verbale dell’audizione del pm di Modena Lucia Musti lasciano intravedere scenari “inquietanti” sul modus operandi del Nucleo operativo ecologico e di Woodcook che, negli ultimi anni, si è servito di questo reparto speciale dell’Arma per le sue indagini. Al Comitato di presidenza del Csm sono infatti arrivati in questi giorni dei corposi dossier. Si tratterebbe di esposti ben documentati che descriverebbero le condotte poste in essere da parte del pm napoletano e dei sui collaboratori del Noe. Nei prossimi giorni ci dovrebbe essere il vaglio di questi esposti. Se ritenuti attendibili, saranno immediatamente trasmessi per le valutazioni del caso alla Prima commissione del Csm, competente per le incompatibilità delle toghe, che su questa vicenda sta procedendo con massima discrezione da prima dell’estate. In particolare, il quadro che emergerebbe sarebbe quello di ufficiali dell’Arma in forza al Noe alla ricerca spasmodica dell’arresto eclatante. E pur di raggiungerlo sarebbero stati pronti a tutto. La pm Musti, infatti, ascoltata lo scorso luglio dalla Prima commissione, aveva rappresentato che sia il capitano Giampaolo Scafarto che il suo superiore il colonnello Sergio De Caprio avevano ripetutamente perorato con lei l’indagine Cpl- Concordia, trasmessa per competenza territoriale da Napoli a Modena. «Scoppierà un casino, arriviamo a Renzi» avrebbe detto Scafarto, recentemente promosso al grado superiore. “Lei ha una bomba in mano, se vuole può farla esplodere”, avrebbe aggiunto invece De Caprio, alias capitano Ultimo. I due, secondo Musti, erano degli “esagitati” da evitare per non incorrere in situazione spiacevoli. Al punto tale che negò ogni richiesta di appuntamento da parte di Scafarto, definendo rapidamente le posizioni del fascicolo Cpl- Concordia. Il verbale delle dichiarazioni di Musti, ripresto ieri da Repubblica e dal Corriere, era stato trasmesso il pomeriggio prima, via pec, dal Csm alla Procura di Roma dove l’aggiunto Paolo Ielo sta indagando nei confronti dei vertici del Noe per depistaggio e rivelazione del segreto d’ufficio. Scafarto, invitato a comparire la scorsa settimana a piazzale Clodio per fornire chiarimenti al riguardo si è avvalso della facoltà di non rispondere. In attesa delle decisione della procura della Capitale, gli accertamenti della Prima commissione, presieduta dal consigliere laico del Csm Giuseppe Fanfani, continueranno lunedì prossimo con le audizioni degli aggiunti di Napoli Alfonso D’Avino e Giuseppe Borrelli. C’è da capire, in particolare, se Woodcook abbia informato i suoi capi delle indagini che stava conducendo, condividendo le informazioni, anche al fine di evitare iscrizioni nel registro degli indagati senza averne la competenza territoriale. Fanfani sta procedendo in questa fase istruttoria con grande accortezza. Per evitare strumentalizzazioni politiche ha nominato come relatori i togati Luca Palamara e Aldo Morgigni. Troppo alto il rischio che qualcuno gli rinfacci l’appartenenza al Pd e la vicinanza all’ex premier Matteo Renzi, il cui padre Tiziano, nelle intenzioni di Scafarto, doveva essere arrestato. Al termine di questa attività, quindi, molto probabilmente si riuscirà a sapere qualcosa in più su come state condotte negli anni, da parte del binomio Noe-Woodcook, queste indagini. Indagini che, va ricordato, invece di puntare ai reati ambientali, visto che il Noe si occupa di ciò, sono state incentrate sui reati nei confronti della pubblica amministrazione. C’è il forte sospetto che ci siano state delle forzature. De Caprio, che dal Noe era stato trasferito ai servizi segreti, è tornato il mese scorso nell’Arma. Attualmente si trova a disposizione del comandante dei carabinieri forestali in attesa di incarico. Ieri ha annunciato querele, smentendo le affermazioni sul suo conto da parte del pm Musti che, anzi, gli avrebbe detto di non parlare delle indagini Cpl- Concordia con il comandante provinciale dei carabinieri di Modena e la prefettura perché ‘ collusi’ con le cooperative rosse su cui stava già indagando.

Tra grandi flop e trame la carriera del pm che inquisisce solo vip. Ama intercettare a strascico, e per questo è già stato bacchettato. Dalle star della tv ai politici, i suoi errori, scrive Simone Di Meo, Domenica 17/09/2017, su "Il Giornale". Napoli Prima che il gorgo dell'inchiesta manomessa su Consip lo inghiottisse, Henry John Woodcock aveva raccolto un'ultima ovazione salendo sul palco insieme a Roberto Saviano in occasione della presentazione del libro «La paranza dei bambini». All'epoca, l'indagine che doveva definitivamente consacrarlo come il magistrato più famoso, e importante, d'Italia era già in fase avanzata, e nessuno poteva certo immaginare che gli avrebbe procurato un atto di incolpazione al Csm e ben due procedimenti penali a Roma per violazione del segreto e per falso in concorso col maggiore del Noe, Gianpaolo Scafarto. Passato da qualche anno alla Dda di Napoli, il pm con la passione per gli occhiali Ray Ban a goccia e le Harley Davidson si era imbattuto come un fortunato rabdomante nel filone su Alfredo Romeo e Tiziano Renzi scavando su tutt'altra questione: quella sui presunti appalti infiltrati dalla camorra per le pulizie nell'ospedale Cardarelli. Rimbalzando da intercettazione a intercettazione, il buon HJW era risalito all'immobiliarista partenopeo e gli aveva contestato concorso esterno; potendo, così, attingere allo sterminato arsenale investigativo che la normativa antimafia porta in dote: cimici, captazioni elettroniche e informatiche, pedinamenti, virus-spia. Roba da Fbi americana. Eccessiva, però, secondo Cassazione e Riesame che, infatti, hanno scarcerato Romeo e stigmatizzato i metodi investigativi a strascico del magistrato anglo napoletano. Gli stessi a cui ha abituato opinione pubblica, indagati e avvocati fin dai tempi di Potenza dove ha inanellato una serie non memorabile di processi ad alto contenuto mediatico: «Vipgate» (2003), «Iene2» (2004), «Somaliagate» (2005), «Savoiagate» (2006) giusto per citare quelli entrati nell'immaginario comune. Tra una lettura di Erri De Luca e una di Andrea Camilleri, Woodcock si è raccontato alla stampa nazionale con rara bravura. Non esistono interviste sui suoi processi, ma le cronache degli ultimi 15 anni traboccano di aneddoti e curiosità sui suoi gusti culinari (ama il caciocavallo e la pasta e ceci) e sulle aspirazioni di vita (prima di vincere il concorso in magistratura, sognava di fare lo stilista). Ogni inchiesta, un fuoco d'artificio. E poco importa se sono andati vuoto i fascicoli sulla massoneria, su Elisabetta Gregoraci, su Alfonso Pecoraro Scanio, su Franco Marini, su Nicola Latorre, su Maurizio Gasparri, su Francesco Storace, su Tony Renis, su Anna La Rosa, su Vito Bardi e su decine e decine di altri imputati per lo più uomini dello spettacolo, imprenditori, politici che saranno riconosciuti innocenti spesso solo dopo le manette. A Napoli, ha provato a dimostrare l'esistenza della fantomatica loggia segreta «P4», a suo dire in grado di ricattare lo Stato, ma il gip gli ha smontato la ricostruzione pezzo pezzo lasciandogli solo due imputati: il deputato Alfonso Papa e Luigi Bisignani, e una manciata di reati minori. Arriveranno poi le indagini su Fincantieri (archiviate), Finmeccanica (ridimensionate), Valter Lavitola e Silvio Berlusconi (prescritte) e tante altre. Una volta disse: «Noi che viviamo in tribunale siamo uomini fortunati perché senza pagare il biglietto abbiamo un posto in prima fila».

Consip, nuove accuse a Woodcock Roma apre un’inchiesta per falso. L’ufficiale del Noe Scafarto: il pm napoletano mi indusse a scrivere che gli 007 spiavano le nostre mosse su Romeo, scrive Giovanni Bianconi il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". C’è una seconda inchiesta della Procura di Roma a carico di Henry John Woodcock, oltre a quella per violazione di segreto. Il pubblico ministero napoletano è indagato per falso, in concorso con l’ex capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, autore di comunicazioni su una presunta auto dei servizi segreti che avrebbe spiato le mosse dei suoi carabinieri impegnati negli accertamenti sull’imprenditore Alfredo Romeo. Secondo l’accusa, quando inserì questo dato nell’informativa trasmessa agli inquirenti Scafarto già sapeva che i Servizi non c’entravano, ma poi è stato lo stesso ufficiale a chiamare in causa il magistrato; quella scelta non fu sua, ma «indotta» dal pm, avrebbe detto in un interrogatorio, prima di trincerarsi nel silenzio tenuto negli ultimi mesi. «Questo è quanto emerge dalle dichiarazioni del capitano, che naturalmente sono da valutare in sede penale», ha spiegato nel luglio scorso il procuratore generale di Napoli Luigi Riello alla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, che ha aperto un fascicolo per valutare l’ipotetica «incompatibilità ambientale» di Woodcock. Dunque stavolta l’accusa proviene direttamente dall’investigatore che collaborava con lui nel caso Consip, autore del rapporto che si sospetta manipolato, e ora il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, assieme all’aggiunto Paolo Ielo e al sostituto Mario Palazzi, dovranno valutare la fondatezza delle sue dichiarazioni. Woodcock, interpellato su questa nuova indagine a suo carico, non ha voluto fare commenti. Sul conto di Scafarto i pm di Roma vaglieranno anche le dichiarazioni del procuratore di Modena Lucia Musti alla stessa commissione del Csm, che ha avuto parole tutt’altro che lusinghiere per l’ufficiale dell’Arma e per il suo lavoro. Dopo che lui le aveva anticipato, «un’indagine importante con il dottor Woodcock, da cui scoppierà un casino, arriviamo a Renzi», la Musti decise di non incontrarlo più: «Dissi ai miei colleghi “io di questo non voglio sapere niente, abbiamo fatto bene a liberarcene subito perché questi sono dei matti”». E ancora: «Faceva lo sbruffone… Un modo di fare che non è serio… Una persona così, che parla in questo modo, in qualche modo viola il segreto». Era il settembre del 2016. Il contatto tra Musti e Scafarto (e inizialmente anche con il colonnello Sergio De Caprio, l’ex capitano Ultimo, che le avrebbe detto «dottoressa, lei ha una bomba in mano e se vuole può farla esplodere») risaliva a oltre un anno prima, aprile 2015, ed era avvenuto a causa dello stralcio dell’inchiesta sulla Cpl-Concordia finito a Modena, con le carte trasmesse da Woodcock e materialmente portate dal capitano. Ma appena il procuratore ebbe modo di guardare l’informativa del Noe (contenente, fra l’altro, le intercettazioni tra l’ex premier Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinolfi, che con l’indagine non avevano nulla a che vedere, poi pubblicate da Il Fatto) rimase più che perplessa: «È un’informativa terribile, dove ci si butta dentro qualunque cosa, che poi si manda in tutta Italia… Sono una serie di capitoli, ben undici, e in effetti l’unico che a noi interessava era il capitolo 2… Tutti gli altri, se si leggono già i titoli, riguardano fatti che sono di competenza di cinque o sei Procure d’Italia». Ma le critiche della pm non si limitano ai carabinieri del Noe, investono anche i colleghi: «Io dico che un po’ la colpa è anche nostra, perché siamo noi che dobbiamo dire che le informative non si fanno così, e soprattutto io non ritengo che quando si fanno degli stralci si debbano mandare dei capitoli di competenza di altri uffici». Invece è ciò che avvenne con l’invio delle carte a Modena: c’era il rapporto finale del Noe, completo delle telefonate Renzi-Adinolfi che a Napoli Woodcock aveva omissato nel suo fascicolo. Tuttavia dall’audizione del procuratore Musti al Csm emerge un’altra, inquietante ipotesi, avanzata da qualche consigliere. I Dvd con gli atti allegati arrivarono a Modena in un plico non sigillato, e così uno dei componenti del Csm domanda: «Quindi potrebbe essere il Dvd partito da Napoli, o un Dvd che per strada potrebbe essere diventato diverso, in teoria», alludendo alla possibilità che il carabiniere abbia consegnato un documento diverso da quello affidatogli da Woodcock. La Musti risponde: «Tutto può essere, non c’erano sigilli», e il consigliere commenta: «Poiché Scafarto lo abbiamo conosciuto, negli ultimi mesi, come persona particolarmente spregiudicata, la mia è una domanda lecita». Il procuratore di Modena spiega che non si allarmò all’arrivo del plico non sigillato contenenti documenti segreti: «Scafarto veniva in nome e per conto del dottor Woodcock, che mi aveva telefonato e mi aveva detto “ti mando il capitano”, quindi era un suo messo, come dire». A proposito delle intercettazioni sul telefono di Tiziano Renzi chieste dalla Procura di Napoli alla vigilia dell’interrogatorio del marzo scorso (da cui scaturì la telefonata con il figlio Matteo, pubblicata anch’essa su Il Fatto), il pg Riello ha riferito al Csm che Woodcock e la sua collega Celeste Carrano sostengono di aver preso quella decisione «in accordo con la Procura di Roma», che nel frattempo aveva indagato Renzi sr per traffico d’influenze. I pm della capitale hanno replicato di essersi limitati a «prendere atto», di quella scelta, poiché non è loro compito «confutare né condividere le scelte investigative di un altro ufficio». Versioni diverse, e il pg di Napoli commenta: «Non emergono contrasti» tra i due uffici, ma nemmeno «piena sinergia».

Se a indagare è il pm Woodcock i Servizi sono un po' meno segreti. Quelle inchieste in cui gli 007 sono serviti solo per fare scena, scrive Simone Di Meo, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale".  Son sempre un po' meno segreti del solito, i Servizi segreti, quando c'è di mezzo un'inchiesta di Henry John Woodcock. La Procura di Roma ha scoperto che un intero capitolo dell'informativa del Noe sui rapporti tra Tiziano Renzi e l'immobiliarista Alfredo Romeo, con tanto di contorno di «barbe finte», è stato manomesso dal capitano dei Carabinieri, Gianpaolo Scafarto, indagato per falso. Ma già ai tempi di Potenza, le inchieste più esplosive del pm anglo-partenopeo contenevano riferimenti espliciti o indiretti agli appartenenti all'intelligence; piste che si rivelavano prive di spessore investigativo. Erano piante ornamentali indiziarie, per lo più. Per dire: nel maggio 2002, Henry John arresta venti persone con l'accusa di tangenti in cambio di appalti. Uno degli indagati, ex addetto alla sicurezza di Francesco Cossiga e lui sì funzionario del Sisde, viene accusato di aver reclutato come informatore un funzionario del Banco di Sardegna. Addirittura, le carte dell'indagine ipotizzano che l'informatore sia a sua volta stato pedinato da 007 stranieri. Una spy story dai contorni internazionali con epicentro in Basilicata. È invece una semplice e triste vicenda di bustarelle. Eppure, sembra quasi una copia del procedimento a carico di Romeo. Nel maggio 2006, esplode invece il Somalia-gate. Woodcock ipotizza che un manipolo di delinquenti, oltre a chiudere accordi milionari per la ricerca di acqua in Africa, si venda le nomine nei Servizi segreti. Addirittura, uno degli indagati dice di essere il famigerato capo dell'«Ufficio K» del Sisde e si dà il nome in codice «Polifemo». Parla al magistrato di misteri e storie italiane (come la morte di Ilaria Alpi, la strage di Ustica e la scomparsa di Emanuela Orlandi) e racconta di «operazioni fasulle» dei Servizi e dei rapporti della massoneria di qua e anche di là del Tevere. Si scoprirà che la banda di truffatori operava un po' come Totò che vuole vendere la Fontana di Trevi al turista americano. Promettevano posti nei Servizi, ma sparivano appena intascati i soldi. Da questo filone nascerà l'indagine che coinvolgerà Vittorio Emanuele di Savoia, arrestato e prosciolto. Il mercato degli incarichi nel mondo degli 007 torna anche nell'inchiesta «P4». Stavolta Henry John è a Napoli. Sospetta che il faccendiere Luigi Bisignani e il deputato Alfonso Papa raccolgano, grazia a fonti coperte, notizie segrete e le manovrino per ricattare i vertici della Repubblica e piazzare così nei posti chiave gli amici degli amici. Il gip riterrà insussistente l'ipotesi dell'associazione segreta, e i due imputati saranno condannati per altri capi di imputazione. E a proposito di ricatti e veleni, i Servizi spuntano pure nel marzo 2007 quando l'inchiesta Vallettopoli devia sul possibile zampino del Sismi dietro le foto a Lapo Elkann quando si sentì male a casa di un transessuale a Torino. Tutti smentiranno. Dai fotografi a James Bond.

È caccia al pm Woodcock su falsi e fughe di notizie. Procura di Napoli e toga finiscono ancora sotto accusa Alta tensione tra tribunali, possibile fascicolo del Csm, scrive Anna Maria Greco, Giovedì 18/05/2017, su "Il Giornale". Negano che ci sia una guerra tra procure di Roma e Napoli nei palazzi di giustizia, eppure sul caso Consip ogni scandalo accentua le differenze tra due metodi investigativi. E nel mirino c'è ancora una volta lui, il pm anglopartenopeo Henry John Woodcock, titolare dell'inchiesta prima che passasse nella Capitale il filone principale. Sul sostituto procuratore pesa l'istruttoria disciplinare avviata dal Procuratore generale della Cassazione e, dopo l'ultima intercettazione tra Matteo e Tiziano Renzi finita nel libro del giornalista Marco Lillo, con la grancassa del Fatto quotidiano, anche il Guardasigilli Andrea Orlando ha disposto un'ispezione. La vicenda è sotto osservazione anche del Csm, che un mese fa ha negato l'apertura di una pratica in prima commissione chiesta dal laico di Fi Pierantonio Zanettin, ma ora potrebbe ripensarci. In un'intervista a Radio radicale Zanettin è tornato alla carica, dichiarandosi «allibito» per il fatto che il vertice di Palazzo de' Marescialli non voglia approfondire «fatti così inquietanti», che rappresentano un «inquinamento del processo democratico». Pesa sulla vicenda una frase a Radio 24 di Nicola Gratteri, stimatissimo procuratore di Catanzaro che ha appena scoperchiato i traffici nel più grande centro calabrese per profughi: «Quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c'è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della Procura. Sennò le notizie non escono». Il pm ha alle spalle un'esperienza di 30 anni di intercettazioni e insiste sulla «tracciabilità» degli interventi sui file audio (la conversazione non era stata trascritta). «Il procuratore - spiega - è il responsabile della sala di registrazione... Se io vado, vedo esattamente chi ha scaricato il file. L'ufficiale di polizia giudiziaria dirà me l'ha chiesto il procuratore. Ma se non ha una ricevuta, risponde lui». E anche da Roma arriva una nota polemica che tra le righe punta verso Napoli. La dirama il procuratore capo Giuseppe Pignatone per smentire la distruzione di una delle intercettazioni: «Peraltro - aggiunge in modo significativo il magistrato - l'eventuale distruzione poteva essere disposta solo dall'Ufficio che l'aveva disposta». È a Napoli che a marzo si è deciso di riprendere a spiare le conversazioni di Renzi senior, interrotte a dicembre. Si è fatto contro il parere di Roma, visto che il padre dell'ex premier è indagato per un reato che non giustifica le intercettazioni: traffico d'influenze illecite. È a Napoli che il lavoro di ascolto è ancora affidato al Noe dei carabinieri, cui i pm della capitale hanno revocato l'incarico dopo le prime fughe di notizie e gli errori o falsificazioni nelle trascrizioni che hanno fatto finire sotto inchiesta il capitano Gianpaolo Scafarto, che peraltro afferma di essere stato sempre diretto da Woodcock. Ora, l'ennesima violazione del segreto investigativo e Renzi che dice: «Le intercettazioni sono illegittime. Voglio sapere chi ha violato la legge». Come sono finite in pasto ai media le sue chiacchiere con il babbo, non penalmente rilevanti, ma politicamente sensibili? Il presidente del Pd Matteo Orfini parla di «attacco alla democrazia», Vito Crimi del M5S di «piccola recita» tra l'ex premier «che sa di esser intercettato» e il padre «che sa che è sotto indagine» e Daniela Santanchè di Fi dice che ora il Pd si rende conto del prezzo della gogna mediatica.

Ieri al Csm la questione non è stata affrontata in plenum, ma si è riunito a lungo il Comitato di presidenza, che decide sull'apertura delle pratiche ed era stata preannunciata una comunicazione. Alla fine tutto è stato rinviato ad oggi, quando proseguirà l'incontro tra vicepresidente Legnini, primo presidente Canzio e Pg della Cassazione Ciccolo, che secondo i rumors sarebbe stato pieno di tensione.

Woodcock, alta tensione in Procura. Il pg Riello invia una nota sui tempi di comunicazione al Csm dell'indagine su una giudice nell'inchiesta Consip, scrivono Dario del Porto e Conchita Sannino il 21 giugno 2017 su "La Repubblica". Si aprono due nuovi fronti sui risvolti di inchieste condotte dal pm Henry John Woodcock. Una nota del procuratore generale Luigi Riello su uno dei risvolti del caso Consip, l’iscrizione nel registro degli indagati del giudice Rosita D’Angiolella; e la richiesta alla prima commissione del Csm di definire la pratica aperta dopo la pubblicazione della telefonata fra il premier Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinfoli. Ecco le due nuove spine che riguardano il pm anticamorra, già titolare di indagini su corruzione e grandi affari. Woodcock è già alle prese con il procedimento disciplinare avviato per le considerazioni pubblicate in un articolo di Repubblica sulla vicenda del capitano Giampaolo Scafarto, l’ufficiale accusato di aver falsificato un brano dell’informativa Consip. Dunque torna a salire la tensione, nel Palazzo di Giustizia attraversato ormai da mesi dalle polemiche esplose a margine dell’inchiesta che vede tuttora indagati, a Roma, gli eccellenti: Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, il ministro Luca Lotti e il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette. La nota del pg Riello riguarderebbe le modalità e i tempi di comunicazione al Csm dell’iscrizione nel registro degli indagati del giudice D’Angiolella, già capo dell’ufficio legislativo del ministero dell’Istruzione, oggi in servizio a Milano. Una circolare del Csm prevede che si debba dare tempestiva informazione all’organo di autogoverno, nel caso in cui un magistrato venga iscritto come indagato. La dottoressa D’Angiolella, conoscente dell’imprenditore Alfredo Romeo (quest’ultimo è in carcere a Roma per corruzione) è stata intercettata nel filone napoletano dell’indagine, coordinato dal pm Woodcock insieme al pm Celeste Carrano. Ai suoi rapporti, tra la giudice D’Angiolella e Romeo, è dedicato un capitolo dell’informativa Consip, in particolare con riferimento al presunto tentativo dell’imprenditore (e da questi sempre energicamente negato) di utilizzarla come tramite con il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, di cui la magistrata è amica di vecchia data. Secondo quanto si è appreso, il pg Riello avrebbe inviato la nota alla Procura generale della Cassazione, che dovrà valutare se siano state rispettate le disposizioni in materia di comunicazione al Csm delle indagini sui magistrati. L’altro fronte si riferisce alla richiesta del comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli di definire la pratica aperta dalla prima commissione del Csm (competente anche per i trasferimenti d’ufficio) a luglio 2015, dopo la pubblicazione sul Fatto della telefonata fra il generale Adinolfi e l’ex premier Matteo Renzi. La conversazione era stata intercettata durante le indagini sugli appalti della Cpl Concordia, quando Renzi era segretario del Pd ed esprimeva giudizi sul premier dell’epoca, Enrico Letta. Nel fascicolo, condotto dal pm Woodcock con le pm Carrano e Giuseppina Loreto, questa conversazione regolarmente autorizzata dal giudice non è mai stata depositata, né messa a disposizione delle parti, rimanendo coperta da segreto e da omissis. Tuttavia, l’informativa dei carabinieri del Noe dove era riportata anche la trascrizione del colloquio, fu invece depositata integralmente al Riesame: non omissata, nell’ambito dell’inchiesta parallela, coordinata da un diverso pool della Procura, sui presunti rapporti fra la Cpl e il clan dei Casalesi. Sulle ragioni del deposito di questi atti, non autorizzato dai pm delegati, la Procura aprì un’inchiesta a carico di quattro sottufficiali del Noe per violazione colposa del segreto d’ufficio. Indagine che poi si è chiusa con l’archiviazione. Nei giorni scorsi, era stato il consigliere laico del Csm, Pierantonio Zanettin, a chiedere accertamenti su quell’anomalo deposito. 

Inchiesta Consip, Renzi al padre: "Non dire bugie". Pm di Roma indagano su fuga di notizie. Le intercettazioni della telefonata tra l'ex premier e il padre pubblicate dal Fatto Quotidiano. Tiziano nega la cena con Alfredo Romeo in un ristorante, "ma potrei averlo incontrato al bar". Il segretario del Pd su Facebook: "Le intercettazioni ribadiscono la mia serietà". Il ministro Orlando avvia accertamenti, scrive il 16 maggio 2017 “La Repubblica”. "Non dire bugie, non ti credo. Hai visto Romeo una o più volte?". La telefonata tra Matteo Renzi e il padre Tiziano, indagato nell'ambito dell'inchiesta Consip, è del 2 marzo 2017. Il giorno successivo Tiziano Renzi sarà interrogato dai giudici romani. È l'anticipazione del Fatto Quotidiano contenuta nel nuovo libro di Marco Lillo Di padre in figlio. L'ex premier ha subito risposto con un lungo post sulla sua pagina Facebook: "Nel merito queste intercettazioni ribadiscono la mia serietà visto che quando scoppia lo scandalo Consip chiamo mio padre per dirgli: 'Babbo, questo non è un gioco, devi dire la verità, solo la verità'". In relazione alla pubblicazione dell'intercettazione, la procura di Roma ha aperto intanto un fascicolo per violazione del segreto istruttorio e per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando, tramite l'ispettorato generale, avrebbe avviato accertamenti in merito. L'intervista di Mazzei a Repubblica. In quella telefonata, intercettata dai pm, l'ex premier incalza il babbo: dopo aver letto su Repubblica l'intervista ad Alfredo Mazzei (nella quale si parlava della cena a tre tra Tiziano Renzi, Alfredo Romeo e Carlo Russo, la "cena nella bettola") decide di chiamarlo: "Devi dire tutta la verità ai magistrati, non puoi dire che non conosci Mazzei perché è l'unico che conosco anche io". L'ex premier appare molto preoccupato dall'interrogatorio al quale il padre sarà sottoposto e gli intima: "Devi ricordarti tutti i nomi e tutti i luoghi, non è più la questione della Madonnina e del giro di merda di Firenze per Medjugorie". "Non dire di mamma". Si raccomanda poi di non dire che a un ricevimento con alcuni imprenditori era presente anche sua madre, Laura Bovoli: "Non dire di mamma, se no la interrogano". La risposta vaga di Tiziano. Poi il segretario del Pd arriva al dunque: "È vero che hai fatto una cena con Romeo?". La risposta del padre non sarebbe stata netta: Tiziano nega una cena al ristorante (la "bettola" dell'intervista di Repubblica), ma non lo è altrettanto su un possibile incontro con l'imprenditore campano in un bar. Matteo lo incalza e gli manifesta la sua sfiducia: "Non ti credo e devi immaginarti cosa può pensare il magistrato. Non è credibile che non ricordi di avere incontrato uno come Romeo, noto a tutti e legato a Rutelli e Bocchino". Il padre esita, dice di non ricordare, cita un convegno al Four Season con esponenti del mondo delle imprese ai tempi delle primarie di fine 2012 contro Bersani. Fosche previsioni. Il segretario Pd conclude con amarezza: "Andrai a processo, ci vorranno tre anni e io lascerò le primarie". E, prima di chiudere la telefonata, ribadisce: "Non puoi dire bugie, devi dire se hai incontrato Romeo una o più volte e devi riferire tutto quello che vi siete detti. Devi ricordarti che non è un gioco".

Consip, Legnini: "D'accordo con Gratteri, fughe notizie dipendono o da pm o da polizia giudiziaria". Il vicepresidente del Csm interviene sulla pubblicazione dell'intercettazione fra Renzi e il padre, scrive il 21 maggio 2017 su “La Repubblica”. Anche per il vice presidente del Csm Giovanni Legnini le fughe di notizie sulle indagini dipendono "o dai pm o dalla polizia giudiziaria". Legnini, infatti, parlando della telefonata intercettata fra Matteo Renzi e il padre a proposito del caso Consip e poi pubblicata, si dice d'accordo con la tesi sostenuta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che sulla questione era stato molto netto. "Posso dire - aveva detto il magistrato - per esperienza, che quando c'è una violazione, una fuga di notizie, esce o dalla Procura o dalla polizia giudiziaria. E, in genere, quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c'è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della Procura. Altrimenti le notizie non escono fuori". "Ha ragione Gratteri - dice Legnini - che è un grande magistrato ma con cui non sempre sono d'accordo". Quanto all'intervento del Csm ovviamente il vicepresidente non può esprimere giudizi. "Non posso anticipare il giudizio che dovrà dare il Csm - dice Legnini - nel caso si dimostrasse il coinvolgimento di uno o più magistrati. Quel che è certo è che falsificare un rapporto di polizia giudiziaria è molto grave". Legnini conclude augurandosi "che rientri al più presto la collaborazione e il coordinamento tra i capi delle procure di Napoli e Roma", titolari dell'inchiesta Consip. La procura di Napoli è attualmente guidata da un reggente. La nomina del nuovo procuratore da parte del Csm, ha assicurato Legnini, "arriverà a brevissimo". Nella "settimana successiva" alle audizioni dei tre candidati selezionati dalla Quinta Commissione, in programma il 29 e il 30 maggio, "si formulerà la proposta". Il 17 maggio, intervistato da Giovanni Minoli per Mix 24, su Radio 24, Gratteri aveva spiegato con dovizia di dettagli perché delle due l'una, polizia o procura, dietro una fuga di notizie e, nel caso Consip, di una intercettazione come quella della telefonata tra Renzi padre e figlio, finita sulla stampa: "L'intercettazione è come una canzone, quando si scarica da internet una canzone, si lascia traccia. E io posso controllare l'ora, il minuto, il secondo in cui lei ha scaricato quel disco o quella canzone. La stessa cosa vale per l'intercettazione. Quando lei dal server scarica un file audio sulla pennetta usb nel computer resta traccia". "In ogni sala intercettazione d'Italia, di ogni procura, c'è un responsabile di sala ogni giorno - aveva spiegato ancora Gratteri -, che è un ufficiale di polizia giudiziaria che risponde al magistrato. Il procuratore è il responsabile della sala di registrazione, e infatti la norma dice che le sale di registrazione devono essere presso la procura. Allora se io vado, vedo esattamente chi ha scaricato il file. L'ufficiale di polizia giudiziaria dirà: me l'ha chiesto il procuratore. Ma se non ha una ricevuta, intanto risponde lui. Quando becchi due o tre così, finisce il gioco". Alla luce di questa analisi, Gratteri aveva quindi chiarito di non vedere "questo problema di rapporti tra magistratura e politica, o una guerra tra magistratura e polizia giudiziaria". "Io vedo uomini - aveva aggiunto il magistrato -. Ognuno risponde delle proprie azioni. Ci sono tre o quattro che possono essere infedeli, che non fanno il loro lavoro e quindi creano danni di immagine, di credibilità. Ma, posso dire per esperienza, quando c'è una violazione, una fuga di notizie, quasi sempre la fuga di notizie esce o dalla procura o dalla polizia giudiziaria. E, in genere, quando la polizia giudiziaria fa la fuga di notizie, c'è quanto meno una sorta di silenzio-assenso da parte della procura. Se no le notizie non escono fuori". Due giorni prima, il 15 maggio, in merito all'intercettazione sfuggita al segreto dell'indagine Consip, il ministro della Giustizia Andrea Orlando era intervenuto chiedendo alla Procura generale di Napoli "elementi sulle anomalie di funzionamento della polizia giudiziaria. L'unico passo che posso fare - aveva spiegato il Guardasigilli -, perché un ministro della Giustizia può avviare un'ispezione solo in presenza di responsabilità dei magistrati, che a oggi non si registrano. Mentre sulla polizia giudiziaria non ho poteri di vigilanza e di intervento". E, a proposito di un intervento del Csm, il ministro si era detto scettico sugli spazi di manovra dell'organismo: "Un magistrato si è accorto della manipolazione ed è intervenuto - aveva spiegato Orlando -. Certo, emergessero altri fatti si dovrebbe valutare. In ogni caso l'episodio è grave e inquietante: cambiare le carte è un'alterazione della verità commessa da chi dovrebbe invece contribuire a ricercarla". In effetti, se il Csm segue con attenzione le vicende legate all'inchiesta Consip, è altrettanto attento nella valutazione dei margini per un proprio intervento. Tra fughe di notizie, di cui la telefonata tra Matteo Renzi e suo padre è solo l'ultima, ai falsi che vengono contestati al capitano del Noe Scafarto, sino alle dichiarazioni dello stesso Scafarto ai pm romani che chiamano in causa il pm napoletano Henry John Woodcock, la vicenda nel suo insieme viene ritenuta al Csm "molto grave e allarmante". Ma in che termini, è la domanda, Palazzo dei marescialli può intervenire senza interferire nell'inchiesta della procura di Roma, che sta indagando anche sull'ultima fuga di notizie, e nell'attività di accertamento che sta svolgendo il Pg della Cassazione nell'ambito dell'azione disciplinare avviata nei confronti di Woodcock. Accertamento che - a quanto si è appreso - non si limiterebbe alle dichiarazioni sull'inchiesta del pm riportate da Repubblica. Lo spazio di manovra del Csm è molto limitato. Perchè i consiglieri dispongono solo dello strumento del trasferimento d'ufficio per incompatibilità. Una leva che può essere usata però solo in presenza di comportamenti incolpevoli dei magistrati, non dunque quando la loro condotta può configurare un illecito disciplinare e a maggior ragione penale. L'impasse potrebbe sbloccarsi se emergessero nuovi elementi. Sulla cautela del Csm si era già espressa positivamente l'Anm: "L'indagine Consip è riservata e le fughe di notizie hanno già prodotto un danno - aveva commentato due giorni fa il presidente dell'associazione magistrati Eugenio Albamonte -. Un procedimento al Csm, che ha una riservatezza diversa essendo di natura amministrativa, creerebbe un problema di sovrapposizione con le indagini in corso".

L’affondo della Procura di Roma e i tre fronti aperti per il pm inquisito. L’indagine (senza precedenti) si aggiunge a quelle già aperte in Cassazione e Csm. Pignatone e colleghi ritengono di avere elementi sufficienti per considerare Woodcock un protagonista del reato, anziché una vittima come loro, scrive Giovanni Bianconi il 27 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse era una scelta obbligata, e forse no. Ma inevitabile o meno che fosse, la decisione della Procura di Roma di mettere sotto inchiesta il pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock è destinata a non restare senza conseguenze. E le ricadute andranno probabilmente oltre le presunte responsabilità penali dell’inquirente inquisito. La mossa del procuratore Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Paolo Ielo e del sostituto Mario Palazzi è il sintomo di rapporti sempre più tesi giunti ora alla soglia della rottura con un collega titolare di indagini collegate, che fino a pochi mesi fa partecipava ad atti investigativi congiunti e adesso si ritrova accusato di uno dei reati più sgradevoli per un magistrato: la fuga di notizie su un’inchiesta che era appena passata — per la parte politicamente più interessante e sensibile — dalle sue mani a quella dei pm romani. Di violazioni del segreto ce ne sono tante, sebbene molte meno di quel che si dice, e non si ha memoria di un’indagine per scoprirne i responsabili che abbia coinvolto un pm tirato in ballo da altri pm. Inoltre, da quel grande crogiolo che sta diventando l’inchiesta Consip viene fuori un ulteriore paradosso: dopo l’ufficiale dei carabinieri che accusava falsamente i servizi segreti di pedinarlo e ora è accusato di aver passato informazioni riservate ad esponenti degli stessi apparati di sicurezza, ecco che uno dei magistrati più spesso additati come protagonisti del «circo mediatico-giudiziario» si ritrova vittima delle «gogna». Stretto tra l’inchiesta penale, quella disciplinare in Cassazione e l’ipotetica «incompatibilità ambientale» su cui indaga il Csm. Ma al di là di questi aspetti, l’inedita iniziativa porta con sé ineludibili domande sui motivi di tanta solerzia. Al punto di lasciare spazio a chissà quali retroscena politici. Tuttavia in questo caso c’è una coincidenza di episodi e date che verosimilmente ha pesato. Nel dicembre scorso, non appena il fascicolo è passato per competenza da Napoli a Roma, con i nomi del comandante dei carabinieri Tullio Del Sette e del ministro Luca Lotti iscritti sul registro degli indagati per rivelazione di segreto e favoreggiamento nell’ambito dell’indagine sugli appalti Consip, la notizia è finita sulla prima pagina del quotidiano Il Fatto. Completa del particolare sul trasferimento degli atti nella Capitale. Un sincronismo che ha indispettito non poco gli inquirenti romani, anche perché foriero delle abituali polemiche su ogni indagine che sfiora la politica (e in questo caso si andava dritti sull’entourage di Matteo Renzi, oltre che sul padre Tiziano), con gli inquisiti pronti a correre in Procura per smentire ogni coinvolgimento. È come se stavolta, tentando di andare a fondo sull’origine della falla, la Procura di Roma avesse provato a svelare una trappola di cui si è sentita vittima; anche sfidando il rischio di essere accusati di fare un favore a Renzi, il quale di certo non ha mostrato simpatia per Woodcock e le sue indagini. Ora Pignatone e colleghi ritengono di avere elementi sufficienti per considerare Woodcock un protagonista del reato, anziché una vittima come loro, e hanno deciso di contestarglieli. Sebbene indagini di questo tipo non siano mai semplici, e non sembra che sia stata trovata la cosiddetta «pistola fumante» per attribuire con certezza le responsabilità. In attesa dei prossimi sviluppi, a cominciare dell’interrogatorio del nuovo indagato, resta l’immagine di una storia dove le fughe di notizie si susseguono. Da quella «istituzionale» sugli accertamenti a carico dell’imprenditore Alfredo Romeo, arrivata fino ai vertici Consip (rivelata dal Fatto con la «violazione di segreto» contestata ora), a quella con cui Tiziano Renzi fu avvisato quasi in tempo reale che il suo telefono era stato messo sotto controllo; da quella che ha fatto finire sui giornali molti dettagli dell’indagine ancora riservati, compresi i particolari falsi di cui ora è accusato il capitano dei carabinieri Gian-paolo Scafarto, a quella verso esponenti dei servizi segreti addebitata allo stesso Scafarto. Come se gli «spifferi» fossero più rilevanti — e dirompenti — della presunta corruzione nella gestione degli appalti.

Inchiesta Consip, indagati pm Woodcock e giornalista Sciarelli. Il magistrato potrebbe essere sentito nei prossimi giorni dalla procura di Roma che si occupa del fascicolo. Nei riguardi della conduttrice di "Chi l'ha visto?" è contestato il reato di concorso in rivelazione di segreto: sarebbe stata il tramite per il passaggio delle informazioni a un giornalista del Fatto Quotidiano, scrive Maria Elena Vincenzi il 27 giugno 2017 su "La Repubblica". Violazione del segreto d'ufficio. Nell'inchiesta Consip rimane coinvolto anche il pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock, accusato di aver passato alcuni atti dell'inchiesta al Fatto Quotidiano. Il tramite sarebbe stata la giornalista Federica Sciarelli, nota conduttrice del programma televisivo "Chi l'ha visto?", anche lei indagata. Alla cronista è stato anche sequestrato il telefono cellulare. A dicembre, quando l'indagine sulla centrale unica acquisti della pubblica amministrazione passó per competenza da Napoli a Roma, il quotidiano diretto da Marco Travaglio pubblicò alcune carte coperte dal segreto. Gli atti di indagine di questi mesi rivelerebbero che dietro alla fuga di notizie ci sia il pm partenopeo, titolare del fascicolo fino a quel momento. Per questo il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno deciso di iscriverlo per violazione del segreto e hanno dato comunicazione al ministero della Giustizia, al Consiglio Superiore (che già aveva aperto un fascicolo sul suo operato) e alla procura generale presso la Corte di Cassazione. Da lungo tempo amica del pm napoletano, nei riguardi di Federica Sciarelli è contestato il reato di concorso in rivelazione di segreto. Secondo l'accusa, Sciarelli sarebbe stata il tramite per il passaggio delle informazioni da Woodcock a un giornalista del Fatto Quotidiano. "Non posso aver rivelato nulla a nessuno - ha detto Sciarelli - semplicemente perché Woodcock non mi svela nulla delle sue inchieste, tantomeno ciò che è coperto da segreto".

Il pm Woodcock e la Sciarelli indagati “Rivelarono i segreti del caso Consip”. Roma, la procura accusa il magistrato e la sua compagna: violazione del segreto istruttorio. Pronto a difendersi. Il pubblico ministero Henry John Woodcock, indagato per violazione del segreto d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla fuga di notizie nel caso Consip, ha ricevuto un invito a comparire dalla procura di Roma per il 7 luglio prossimo quando sarà sentito dai pm della capitale, scrive Edoardo Izzo il 28/06/2017 su “La Stampa”. Una svolta clamorosa nell’inchiesta Consip testimonia la rottura che si è consumata tra la procura di Roma e quella di Napoli, che vede il suo pm più mediatico, Henry John Woodcock, indagato per violazione del segreto d’ufficio dai colleghi romani. Una situazione oggettivamente allarmante come dimostra l’apertura di un fascicolo, subito secretato, al Csm. Con Woodcock è stata iscritta, con l’accusa di concorso nello stesso reato, anche la giornalista di RaiTre Federica Sciarelli, che gli è da tempo legata. Nell’inchiesta ci sono già altri indagati eccellenti accusati ugualmente di violazione del segreto d’ufficio, tra i quali il ministro Luca Lotti e il generale Tullio Del Sette, ma si tratta di due distinte fughe di notizie: la prima verso i vertici Consip, perchè si mettessero al riparo dalle intercettazioni ambientali, l’altra, quella che ha portato alle iscrizioni di ieri, verso un giornale.  Questa indagine riguarda quanto pubblicato dal Fatto Quotidiano lo scorso dicembre (il 21, 22, 23 e 27) in relazione proprio alle indagini a carico del ministro dello Sport e del comandante generale dell’Arma dei carabinieri. «Ho piena fiducia nei miei colleghi di Roma, sono certo che verificheranno scrupolosamente ogni aspetto di questa vicenda e che quindi potrò dimostrare la mia totale estraneità», ha dichiarato alla Stampa il pm partenopeo, convocato per il giorno 7 luglio e che intenderebbe però chiedere di essere interrogato prima di quella data proprio per chiarire definitivamente la sua posizione. 

Caso Consip, indagati Woodcock e Sciarelli. Lui la difende: «Non toccate Federica», scrive Maria Corbi il 28 giugno 2017 su “La Stampa" e “Il Secolo XIX”. «Federica no, lei non la devono toccare». Chi ha sentito Woodcock in queste ore lo racconta come un animale ferito, che si tormenta per le ferite della sua compagna (o amica speciale visto che l’arcano non è stato ancora svelato), indagata anche lei con il sospetto che abbia raccontato a un giornalista pezzi di inchieste del fidanzato. «Lei no». Anche se non deve essere stata neanche troppo una novità visto che da tempo sapevano entrambi che si mirava a questo. Tanto che la Sciarelli mandò a dire «controllate pure i telefoni, non ho niente da nascondere».

E siamo arrivati ad oggi con Henry John Woodcock al centro ancora una volta di un’inchiesta a grande impatto mediatico ma con un ruolo diverso dal solito: indagato. Per la rabbia dei suoi amici e la gioia dei suoi molti nemici che come in un cinema, accomodati in prima fila, vedono scorrere le tante inchieste che hanno portato fama e critiche al pm. L’accusa ricorrente è quella di costruire castelli con accuse inconsistenti. Tutto iniziò in quel della procura di Potenza dove, dicono, da vicende locali Woodcock faceva esplodere bombe nazionali. Grande spolvero mediatico, anche con tintinnio di manette. Per poi arrivare spesso a un nulla o a un poco di fatto.

Nel 2003, con il «Vip Gate», fu la prima volta che questo pm anglo-napoletano, con l’aria dell’eterno ragazzino, si rivelò ai media. Furono coinvolti personaggi dello spettacolo, giornalisti, ministri, politici e burocrati. Settantotto persone su cui pendevano le accuse più varie. Da associazione per delinquere a turbativa di appalti, estorsione, corruzione, millantato credito e favoreggiamento. E alla fine il tribunale di Roma (competente territorialmente) archiviò.

Poi arrivò «Iene 2», inchiesta sui presunti legami tra criminalità e politica nella gestione degli appalti in Basilicata. E nel 2006 il «Savoiagate», quando Woodcock fece arrestare Vittorio Emanuele di Savoia con le accuse di associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione, alla concussione, falsità ideologica, minacce e favoreggiamento. Per giorni il caso è stato sulle prime pagine dei giornali con colpi di scena da soap opera come quando il mancato re d’Italia chiuso in cella a Potenza cadde dal letto a castello. O quando, intercettato, definì i sardi «capre che puzzano». Le accuse non ressero ma il ridicolo si. Anche questa volta quando l’inchiesta arriva a Como (al centro c’è il casinò di Campione d’Italia), le cose cambiarono e nel 2010 Vittorio Emanuele venne scagionato da tutte le accuse.

Intanto la vita di Woodcock cambia, si separa dalla moglie conosciuta durante la preparazione per l’esame in magistratura. E al suo fianco è sempre più presente un’amica speciale, Federica, dieci anni più di lui, la stessa passione per i cani, la corsa e le inchieste. Ma la privacy per loro è perentoria. E poi c’è stata la madre di tutte le inchieste patinate: «Vallettopoli», nelle sue due edizioni, dove le intercettazioni diffuse hanno dato un nuovo significato alla parola «trash». Si trattava di ricatti nel mondo dello spettacolo. Vengono coinvolti Elisabetta Gregoraci, il portavoce di Gianfranco Fini Salvatore Sottile, Lele Mora, Fabrizio Corona.

L’inchiesta arriva al tribunale dei ministri di Roma e si arena. A Milano viene condannato Corona. Nell’aprile 2008 Mora, di cui nel frattempo avevano conosciuto il vizietto di farsi massaggiare i piedi dai tronisti di Maria De Filippi, fu scagionato dalle accuse. Ormai nella procura lucana volavano coltelli. Il procuratore generale di Potenza Vincenzo Tufano era molto seccato di tutti questi «incendi» che si spegnevano con un soffio appena fuori dai confini e non la mandò a dire: «Da noi ci sono pubblici ministeri troppo disinvolti che non rispettano le regole. Soprattutto quelle in materia di libertà e di privacy».

Nel 2009 Woodcock si trasferisce a Napoli insieme ai suoi amati cani lupo e dopo due anni ecco che escono le intercettazioni dell’inchiesta sulla P4 e su Luigi Bisignani. In carcere finisce Alfonso Papa del Pdl con l’accusa di aver fornito a Bisignani informazioni sensibili ottenute con l’aiuto di un maresciallo dei carabinieri. Ci resta, a Poggioreale, 103 giorni nonostante non sia indagato per crimini violenti. I magistrati della Cassazione e del riesame di Napoli ridimensionano tutto sancendo l’insussistenza degli indizi in relazione al reato di associazione per delinquere.

E poi si arriva al «mercato dei senatori», l’indagine che vuole fare chiarezza sui metodi usati da Silvio Berlusconi per portare alla caduta del secondo governo Prodi. Il leader di Forza Italia è condannato in primo grado per concorso in corruzione. Poi la seconda sezione della Corte di Appello di Napoli ha dichiarato la prescrizione del reato di corruzione. Quel che è certo è che ogni indagine, anche le molte finite in nulla, rivelano pezzi di Italia corrotta, maleducata, nepotista. E per questo, dicono i suoi fans, Woodcock dovrebbe essere ringraziato. E di inchiesta in inchiesta eccoci alla Consip e allo scontro frontale con Matteo Renzi. Lui, adesso, attende «fiducioso che la verità verrà a galla». «Ma Federica no, lei lasciatela stare».

Lo stesso desidera fare la Sciarelli, che ha dichiarato: «Non posso aver rivelato nulla a nessuno semplicemente perché Woodcock non mi svela nulla delle sue inchieste, tantomeno ciò che è coperto da segreto». Alla conduttrice di “Chi l’ha visto?”, che sarà sentita a piazzale Clodio il 30 giugno, è stato anche sequestrato il telefono cellulare, per esaminare in particolare le conversazioni su WhatsApp che secondo i giudici sarebbero intercorse tra la giornalista Rai e il cronista del Fatto Marco Lillo, autore dei pezzi incriminati. Quest’ultimo si è presentato ieri dai pm romani chiedendo spontaneamente di essere ascoltato. «La tesi dell’accusa - afferma Lillo - è fondata su un tabulato telefonico del mio cellulare. Ebbene, non c’è grigio in questo caso ma solo bianco o nero: Woodcock e Sciarelli sono innocenti e la procura si è sbagliata. Le telefonate in questione dovrebbero essere quelle fatte da me il 20 dicembre. Quel giorno ho scritto il primo articolo sulle perquisizioni in Consip e sul ruolo di Tiziano Renzi nell’inchiesta, e ho chiamato Federica Sciarelli solo per sapere dove si trovasse Henry John Woodcock. Non è un mistero che il pm Woodcock e Federica Sciarelli siano legati sentimentalmente». Questi aspetti personali riguardanti gli indagati rendono molto delicato il lavoro del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, dell’aggiunto Paolo Ielo e del pm Mario Palazzi, impegnati ieri anche nell’altro filone dell’inchiesta con l’interrogatorio del vicecomandante del Noe, Alessandro Sessa, al quale sono stati mostrati un’infinità di messaggi WhatsApp, che si è scambiato con il suo collaboratore Scafarto (il capitano indagato anche per falso). Tra questi alcuni tirano in ballo il pm Woodcock: il 23 settembre 2016 Scafarto scrive al suo superiore: «Mi ha chiamato H. Cose brutte. Poi le dico (...)». Il giorno seguente, Sessa scrive a Scafarto: «Sono stato mezz’ora al tel col doctor». «Problemi?», chiede Scafarto, «tra un po’ - replica Sessa - ti chiamo e ti dico (...) oltre alle arance anche i limoni». Per i suoi legali, il colonnello avrebbe chiarito tutto, compresi gli agrumi. 

Inchiesta Consip, indagato Woodcock: "Amareggiato, ma fugherò ogni dubbio". Il pm indagato a Roma per rivelazione di segreto d'ufficio. "Invito a comparire in Procura il 7 luglio. De Magistris: "Magistrato serio e preparato", scrive il 27 giugno 2017 "La Repubblica". "Ho appreso di essere indagato per il reato di rivelazione di segreto di ufficio. Ho assoluta fiducia nei colleghi della procura di Roma e sono quindi certo che potrò chiarire la mia posizione, fugando ogni dubbio ed ombra sulla mia correttezza professionale e personale": è quanto ha detto all'Ansa il pm di Napoli Henry John Woodcock, interpellato a proposito dell'inchiesta avviata nei suoi riguardi dalla procura di Roma nel contesto della vicenda Consip. Da quanto si è appreso, l'inchiesta su Woodcock riguarda la pubblicazione, alcuni mesi fa, da parte del Fatto Quotidiano di un articolo relativo alla fuga di notizie - che coinvolge il ministro Lotti e alti ufficiali dei carabinieri (tutti hanno sempre respinto l'addebito) - attraverso la quale i dirigenti della Consip sarebbero venuti a conoscenza dell'inchiesta avviata dai pm napoletani sulla stessa Centrale Acquisiti della pubblica amministrazione. L'inchiesta è stata successivamente trasferita, per competenza territoriale dalla procura di Napoli a quella di Roma. Al pm di Napoli Henry John Woodcock è stato notificato un invito a comparire della procura di Roma per il 7 luglio prossimo. In quell'occasione sarà interrogato, con l'assistenza di un difensore, dai magistrati titolari dell'inchiesta Consip. "Per come l'ho conosciuto, Woodcock è sempre stato un magistrato serio, autonomo, indipendente, preparato e gran lavoratore. Dalle sue dichiarazioni mi sembra di capire che è amareggiato ma che ha la coscienza a posto e che saprà dimostrare nelle sedi giudiziarie e investigative di aver agito correttamente". Lo dichiara il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ex magistrato, commentando l'iscrizione nel registro degli indagati, da parte della Procura di Roma, del pm di Napoli Henry John Woodcock. Ricordando la sua esperienza, de Magistris ammette che "le nostre vicende sono molto diverse, non vedo alcuna equiparazione se non il fatto che, da magistrato, oltre ad aver fatto tante inchieste scomode come ha fatto Woodcock, sono stato indagato spesso e ne sono sempre uscito a testa altissima, completamente scagionato da ogni accusa. In alcuni casi non solo ero completamente estraneo, ma sono stato vittima di attività criminali a mio danno per colpirmi anche per vie giudiziarie. Ecco perché - conclude - c'è bisogno di grande professionalità e autonomia nella magistratura che indaga in questi frangenti così complicati".

Caso Woodcock, Sciarelli si difende: «Delle inchieste non mi dice nulla». Parla la conduttrice di «Chi l’ha visto?»: «Tantomeno mi svela ciò che è coperto da segreto». Già nel 2009 si parlò di «incompatibilità amicale» fra la giornalista e il magistrato: il sospetto era che lui facesse fare gli scoop a lei, scrive Virginia Piccolillo il 27 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera”. «Non posso aver rivelato nulla a nessuno semplicemente perché Woodcock non mi svela nulla delle sue inchieste, tantomeno ciò che è coperto da segreto». Nel giorno della bufera giudiziaria che la investe come presunta complice di Woodcock — accusato di aver rivelato segreti d’ufficio nel caso Consip — Federica Sciarelli concede solo poche battute sull’indagine della Procura di Roma che l’ha convocata per dopodomani. Ma gli ingredienti del fogliettone da gossip giudiziario ci sono tutti. E stavolta, come per una sorta di contrappasso mediatico, a essere esposto in prima pagina c’è lui: Henry John Woodcock. Un magistrato che nelle sue inchieste — dal Savoiagate a Vallettopoli e P4 — ha castigato potenti e svelato retroscena anche piccanti. Per questo ieri in molti, protagonisti e non delle sue indagini, hanno provato una certa soddisfazione nel vedere che sotto inchiesta era finito proprio quel magistrato insieme con la giornalista Federica Sciarelli, conduttrice di «Chi l’ha visto?». La loro storia è nota alle cronache e datata. Come la foto che li ritrae assieme sulla riva del fiume a fare jogging. Un settimanale ne chiese conto al magistrato, che era stato sposato con una giudice civile conosciuta mentre studiavano insieme per il concorso, ma all’epoca già tornato single. Lui rispose che erano solo amici. E che si erano conosciuti grazie ad amici comuni, tra cui i giornalisti Sandro e Guido Ruotolo. Ma in seguito vennero paparazzati più volte sulla spiaggia di Fregene. E sul gommone. Già dall’inchiesta di Salerno, nel 2009, la frequentazione tra la cronista e il sostituto procuratore potentino, era stata oggetto di attenzione. Il sospetto che dietro la trasmissione di Raitre ci fossero le rivelazioni di lui, venne condito dalle frequentazioni con il magistrato. Al punto che Il Giornale titolò «Sciarelli-Woodcock, neppure i giudici si negano il gossip». La pm Felicia Genovese — avversaria di Woodcock in Procura — di fronte ai giudici di Salerno parlò di «incompatibilità amicale». Ma in quel caso il sospetto era che lui facesse da fonte a lei per i suoi «scoop». Stavolta, invece, c’è di più. Lei, la cronista d’assalto, che dalle dirette del suo programma, l’ultima programmata per stasera, va alla ricerca di colpevoli, viene accusata di aver fatto da tramite per svelare segreti di un’inchiesta delicata che ha colpito al cuore il cerchio magico dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E, in qualche modo, di aver voluto favorire una fuga di notizie della quale però la giornalista non ha beneficiato. Lei sarà ascoltata in Procura su quelle telefonate con il giornalista del Fatto Marco Lillo. Nella prima lui le avrebbe chiesto dove fosse il magistrato. Se a Roma o a Napoli, senza però spiegare il motivo della curiosità. Nella seconda, sempre nella versione di Lillo, avrebbero riso insieme di quante bugie Woodcock le dice, da sempre, a protezione dei segreti delle sue indagini. Ma la Procura di Roma, che sentirà anche il magistrato, su quelle telefonate adesso vuole saperne di più.

Svolta sulla fuga di notizie: adesso pagano anche i pm. Per la prima volta una toga accusata di aver rivelato carte top secret. Prima puniti solo agenti e cancellieri, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 28/06/2017, su "Il Giornale". Le fughe di notizie non sono tutte uguali, e soprattutto tutte uguali non sono le «talpe», gli uomini dello Stato che passano sottobanco le notizie ai giornalisti. Cancellieri e poliziotti, se le cose vanno male si possono scaricare e mettere sotto inchiesta. I magistrati no, quelli non si toccano, anche quando tutti gli indizi dicono che a fare o ordinare la soffiata sono stati loro. Comunque vada a finire l'inchiesta su Henry John Woodcock, e qualunque siano i veri motivi che l'hanno originata, bisogna prendere atto che si tratta di una novità quasi assoluta: per la prima volta un magistrato famoso si vede accusato di avere passato a un cronista notizie coperte da segreto istruttorio. Eppure le occasioni non sono mancate, in un paese dove le fughe di notizie sono all'ordine del giorno. La scena si ripete sempre uguale: la notizia che doveva restare segreta finisce in prima pagina su un quotidiano; il procuratore titolare dell'inchiesta mostra indignazione, convoca i suoi sostituti, annuncia indagini serrate e senza indulgenze per dare un nome al traditore. Poi il tempo passa, l'indagine segna il passo, e scivola progressivamente nel dimenticatoio. Come non dimenticare la faccia decisa con cui Francesco Saverio Borrelli nel novembre 1994 annunciò una indagine per scoprire chi aveva passato al Corriere la notizia dell'avviso di garanzia a Berlusconi? E qualcuno è in grado di dire che fine abbia fatto quell'inchiesta? Mani Pulite ha segnato l'apoteosi delle «soffiate» sistematiche ai giornali, ma il fenomeno è vecchio quanto la giustizia. Dalle inchieste sulle stragi a quelle sul mostro di Firenze, dalle indagini antimafia al caso Ruby, non c'è caso giudiziario che non abbia visto atti di ogni genere approdare nelle redazioni. Possibile che nessun colpevole sia mai stato scoperto? In realtà, quando lo scoop non risponde ai loro desideri, i magistrati sanno essere severi: a Milano venne sbattuto in galera Paolo Longanesi del Giornale, a Firenze Peppe D'Avanzo di Repubblica; a Palermo per mandare in cella due cronisti la Procura si inventò il reato di peculato, per il costo delle fotocopie che si erano fatti passare; e qua e là per il Paese, anche poliziotti e carabinieri sono finiti sotto processo per i regali fatti ai giornalisti senza chiedere il permesso al magistrato. Ma quando invece la fuga corrisponde ai desiderata dei pm, ai loro obiettivi - che siano politici, di carriera, di visibilità - le inchieste si arenano già prima di cominciare. E quando proprio devono iniziare si fermano subito: a Torino un pm venne intercettato mentre incontrava un cronista, poco dopo dal suo computer partì un atto riservato verso la mail del giornalista: il pm venne prosciolto perché il computer poteva averlo manovrato qualcun altro. Garantismo allo stato puro. A Caltanissetta a casa di un cronista autore di uno scoop sulle intercettazioni d Totò Riina venne trovata una traccia che portava al pm Domenico Gozzo: assolto anche lui. A Catanzaro l'allora pm Luigi de Magistris venne messo sotto procedimento disciplinare per le tante fughe di notizie sull'inchiesta Why Not: il Csm come tutta sanzione lo spostò a Napoli, dove divenne sindaco. Sono rari in realtà i casi in cui i magistrati si espongono direttamente, passando le carte al cronista amico. Quasi sempre c'è di mezzo un intermediario: nel caso di Woodcock, sarebbe stata la sua fidanzata, anch'essa giornalista; ma nella stragrande maggioranza dei casi a fare il lavoro sporco del passaggio sottobanco viene delegata la polizia giudiziaria, che dal pm riceve l'autorizzazione implicita o esplicita a «far girare le carte». Poco male quando si tratta di atti che sono già in mano agli imputati, formalmente coperti da segreto ma di fatto innocui. Diverso il discorso quando il pm sceglie direttamente il «canale» giornalistico da utilizzare per rendere noto il suo lavoro e perseguire i suoi obiettivi: in questi casi si creano patti occulti, accordi di mutuo appoggio tra talpa e reporter che durano anni o decenni; e che con il diritto di cronaca non hanno molto a che fare.

Una magistratura allegra, scrive il 27 giugno 2017 Fabrizio Boschi su "Il Giornale". Renzi chiama, la magistratura risponde. Che Henry John Woodcock conducesse inchieste, per così dire, con modalità «allegre», lo diciamo dal 2001, visto che in questi 16 anni il pubblico ministero ha indagato tutto l’indagabile: parlamentari, presidenti di Senato, segretari di partito, ministri, primi ministri, sindaci, ambasciatori, imprenditori e soubrette. Tutte inchieste molto fumo e poco arrosto, per lo più scoppiate in aria come bolle di sapone. Ma adesso che il leggendario sostituto procuratore di Napoli ha osato toccare il Pd e l’intoccabile segretario, Matteo Renzi, allora la magistratura si sveglia e apre un fascicolo contro il suo pm. Curioso. Un tempismo decisamente anomalo. Anche perché in questi mesi infuocati dell’inchiesta Consip, tra intercettazioni vere o presunte, bisteccate a Rignano sull’Arno, generali e capitani indagati, ministri elusivi, sindaci e amministratori delegati spioni, complotti e intrighi da spy story, interviste rubate alle nonne di Matteo, libri scoop su Matteo, telefonate affettuose tra Matteo e il babbo, articoli e articolacci su Matteo, querele e controquerele, c’è da dire che Renzi le sue missive le ha fatte arrivare a chi di dovere. Più volte si è espresso in modo celato oppure diretto, riguardo all’inchiesta che ha coinvolto babbo Tiziano. Il 16 febbraio trapela che Tiziano Renzi è indagato per concorso in traffico di influenze. Il 7 marzo lui stesso attacca: «La verità in questa storia è che colpiscono me per puntare su mio figlio Matteo». E il giorno dopo, il figlio a Porta a Porta: «Nessun legame umano viene prima della legge. Non entro nelle indagini e non giudico. Si vada a sentenza, chi è innocente non ha paura della verità». Poi trascorrono settimane quasi nel totale silenzio. Anche il 12 marzo alla convention del Pd al Lingotto di Torino, la parola Consip è tabù. Renzi si limita a dire: «Noi siamo dalla parte della giustizia che qualcuno, anche nel nostro campo, ha confuso col giustizialismo». Ma il 10 aprile il colpo di scena: il capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto, viene indagato per aver falsificato un’intercettazione in cui veniva citato Tiziano Renzi. E allora iniziano i messaggi subliminali agli amici magistrati. «Sarebbe stato facile per me venire qui e dire “avete visto?” – dice Renzi a Porta a Porta– Niente di tutto questo. È molto strano quanto sta accadendo ma ho la più totale fiducia nella magistratura, la verità verrà a galla». Il 12 aprile tocca a Tiziano fare il duro: «Chi ha sbagliato deve pagare». Il 7 maggio l’assemblea lo proclama segretario del Pd. E il 16 esce sul Fatto l’anticipazione al libro di Marco Lillo Di padre in figlio, con l’intercettazione di una telefonata tra Renzi junior e Renzi senior del 2 marzo, nel quale l’ex premier sembra recitare la parte di un copione, sapendo benissimo che il suo telefono era sotto controllo: «Babbo, questo non è un gioco, devi dire la verità, solo la verità». Su Facebook, la recita continua: «Da uomo delle istituzioni non potevo fare diversamente, avevo il dovere di dirgli di andare lì e dire la verità. Chi ha sbagliato pagherà fino all’ultimo centesimo». Il 20 maggio lo sfogo: «Un piano eversivo per colpire il mio governo». E il 26 maggio al Maurizio Costanzo Show insiste: «Voglio la verità su questa vicenda, ci sono troppe cose che non tornano e chiedo che sia fatta luce». Fino a ieri, quando a OreNove, la rassegna stampa del Pd, ha ammesso che «su questa vicenda ho perso molto consenso. Ma io la prendo sul ridere». E il tweet dell’ultimo minuto: «Il garantismo è un valore sempre, oggi lo è di più. L’avviso di garanzia è atto a tutela del cittadino Woodcock. No alle polemiche, grazie». Prego.

Il terremoto giudiziario che rischia di travolgere l’arma dei carabinieri inguaiata dal giglio magico. E' impressionante e preoccupante l'elenco degli ufficiali chiamati in causa dall’inchiesta Consip sulla fuga di notizie, scrive Guido Ruotolo il 20 giugno 2017 su "Tiscali news". Prima il Comandante Generale del Comando dei carabinieri, il generale Tullio Del Sette, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio. E con lui il generale che guida i carabinieri della Toscana, Emanuele Saltalamacchia. Poi il capitano del Noe che ha fatto le indagini, Gianpaolo Scafarto, indagato per falso, per avere alterato una informativa consegnata all'autorità giudiziaria. E il suo vicecomandante, il colonnello Alessandro Sessa, finito sul registro degli indagati per depistaggio. Ma nell'affaire Consip sono coinvolti anche il numero uno del Noe, Sergio Pascali, il Capo di Stato Maggiore dell'Arma, il generale Gaetano Maruccia, e il comandante provinciale di Napoli, Ubaldo Del Monaco. Insomma, l'affaire Consip rischia di terremotare Viale Romania, il Comando generale dell'Arma dei carabinieri, mai finito così in fibrillazione come dai tempi della P2 quando si scoprì che alcuni suoi vertici erano iscritti alla massoneria deviata mentre altri in quegli anni Settanta furono sospettati di tramare con i golpisti. Sembrava un passato consegnato alla storia e invece di nuovo il Comando dell'Arma è finito al centro di una delicatissima inchiesta giudiziaria su una fuga di notizie che, gestita dalla Procura di Roma di Giuseppe Pignatone, è giunta probabilmente a una svolta. Sembrava che altri fossero gli obiettivi di questa inchiesta. Che l'attenzione si fosse concentrata solo sul “falso” del capitano Gianpaolo Scafarto che decise di falsificare la sua informativa finale su Consip, facendo emergere da una intercettazione ambientale la conferma che l'imprenditore Alfredo Romeo si incontrò con Tiziano Renzi, il papà dell'ex premier Matteo. E invece, in questa fase delle indagini, la Procura sta verificando le posizioni degli indagati per la fuga di notizie, cioè il ministro dello Sport, Luca Lotti, il comandante generale dell'Arma, il generale Tullio del Sette, il comandante dei carabinieri della Toscana, il generale Emanuele Saltalamacchia. E i colpi di scena non mancano. Intanto, la Procura ha deciso la incriminazione per false dichiarazioni al Pm del presidente (dimissionario) di Consip, Luigi Ferrara, che davanti ai Pm romani, Paolo Ielo e Mario Palazzi, ieri ha ritrattato la sua precedente e generica dichiarazione all'autorità giudiziaria: «Il generale Del Sette mi disse di stare in guardia da Romeo». Ferrara sostiene che Del Sette non gli ha mai parlato di indagini corso. Ma l'amministratore delegato Luigi Marroni ha confermato, invece, che fu proprio Ferrara a dirgli "di aver appreso dal generale Del Sette di indagini su Romeo". Agli inizi di giugno, invece, è finito indagato per depistaggio il vicecomandante del Noe dei carabinieri, Alessandro Sessa. Per la vicenda delle false attribuzioni della informativa Scafarto. Sapeva Sessa. Interlocutore di diverse chat con il capitano Scafarto che lo inchiodano, tra l'altro, al fatto di aver mentito quando sostenne di aver informato della inchiesta il comandante del Noe, Sergio Pascali, dopo il 6 novembre perché, secondo quanto emerge dalla inchiesta, ciò avvenne a giugno. In una chat Scafarto e Sessa commentarono: "È stata una cazzata dirla al capo attuale". Il capo del Noe Pascali? Potrebbe invece essere il Capo di Stato Maggiore dell'Arma, il generale Gaetano Maruccia, che sarà sentito a breve. Come potrebbe essere sentito il comandante provinciale dei carabinieri di Napoli, Ubaldo Del Monaco, che, secondo Scafarto, avrebbe chiesto al colonnello Sessa se era stato interrogato un'altra volta Filippo Vannoni, numero uno di Pubbliacqua, società fiorentina, che ha sostenuto che fu il ministro Lotti a dirgli di una indagine Consip in corso. Insomma, una brutta matassa da sbrogliare. Che oggi avrà un seguito anche sul versante politico. Al Senato sono iscritte all'ordine del giorno dei lavori sei mozioni sul caso Consip. Il presidente Piero Grasso deciderà come Palazzo Madama dovrà affrontare la questione. C'è una mozione di Mdp che chiede il ritiro delle deleghe al ministro Lotti in attesa che la sua posizione processuale si chiarisca, che potrebbe creare non pochi problemi alla maggioranza e al governo Gentiloni.

L’oscuro retrobottega del potere, scrive Piero Sansonetti il 28 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il dottor John Woodcock e la nostra collega Federica Sciarelli hanno diritto alla presunzione di innocenza (anche se loro non l’hanno mai concessa ai loro imputati). Perché la presunzione di innocenza è un pilastro dello Stato di diritto talmente robusto da non consentire eccezioni. Protegge tutti: anche chi non la riconosce. La decisione della Procura di Roma di indagarli per fuga di notizie non è una condanna per loro. E accanirsi contro due professionisti (più o meno bravi) che stanno vivendo un momento molto difficile della loro carriera, è solo una vigliaccata. Molto frequente nel nostro giornalismo, ma non per questo giustificabile. Però è giusto ragionare su questi avvisi di garanzia. Per la semplice ragione che per la prima volta si apre uno squarcio su un luogo misterioso della vita pubblica italiana: il retrobottega nel quale pezzi di magistratura e pezzi di giornalismo giudiziario si incontrano in segreto, violando la legalità, stabilendo assoluzioni e condanne, condizionando la politica, l’economia e spesso rovinando molte vite private. L’uso della stampa e del suo potere per fare giustizia sommaria al di fuori dei tribunali (e violando la Costituzione), e per fare in modo che la magistratura condizioni e devii il corso della politica, da molti anni (almeno 25) è uno dei mali più grandi della vita pubblica italiana, anche se è quasi “proibito” discuterne. Ed è quasi “proibito” per la semplice ragione che il sistema- informazione, facendo parte di questa malattia, come è logico si rifiuta di denunciarla. Ora la Procura di Roma ha finalmente messo il dito nella piaga. Ed ha avviato un processo che può provocare un terremoto. Prima ha scoperto che gran parte delle notizie sul cosiddetto scandalo Consip erano false, poi ha scoperto che erano state falsificate da apparati dello Stato, poi ha scoperto che queste notizie – in gran parte false – erano state illegalmente diffuse da qualche ufficio della Procura attraverso alcuni giornali (soprattutto “Il Fatto Quotidiano”) che le avevano ricevute e pubblicate (senza averle potute verificare) comportandosi un po’ come uffici stampa più che come organi di informazione. La Procura ieri ha formulato due ipotesi molto inquietanti sui possibili autori di questa gravissima azione illegale: ha detto che potrebbe trattarsi di un sostituto procuratore molto famoso e molto attivo, e cioè Woodcock, e di una giornalista della Tv notissima, e cioè la Sciarelli. E ha ipotizzato che Woodcock passasse le informazioni alla Sciarelli e che lei poi le passasse a sua volta – se capiamo bene – al giornalista del “Fatto” Marco Lillo. I nomi scritti nel libro degli indagati potrebbero essere sbagliati, ma la filiera è quella. E questa filiera, da dicembre in poi, ha provocato uno tsunami politico che ha messo in gran difficoltà il partito di governo e il suo leader, cioè Renzi. Il quale Renzi, più o meno esplicitamente, ha reagito parlando di complotto, e per questo è stato molto preso in giro. In effetti, secondo me, non è giusto parlare di complotto. Per una sola ragione: questo meccanismo, che stavolta ha colpito al cuore il Pd, ha funzionato negli anni passati moltissime volte, sempre in modo assolutamente efficiente, e ha danneggiato, o addirittura annientato, singoli leader e interi partiti politici. Da quelli della prima repubblica a quelli di oggi. In particolare Berlusconi. Perciò non è un complotto: è un meccanismo oliato e illegale che sta corrodendo la nostra democrazia, azzerando persino la possibilità di formazione di una classe politica. E senza ceto politico la democrazia non esiste. L’iniziativa coraggiosa della procura di Roma, forse, rompe questo meccanismo infernale. Perché per la prima volta succede che un pezzo importante della magistratura si muove per fermare un altro pezzo di magistratura. E apre la speranza che lo Stato di diritto, alla fine, sia ristabilito. Resta sullo sfondo il ruolo oscuro svolto dai giornali. O almeno da un certo numero di giornali. Che sin qui, nascondendosi dietro un presunto dovere professionale, hanno svolto un compito molto importante di supporto all’azione di pezzi di magistratura in guerra con la politica. Un compito sicuramente subalterno ma essenziale: la magistratura se non avesse a disposizione un certo numero di giornalisti e di giornali compiacenti, non avrebbe i mezzi per dispiegare la propria offensiva. Probabilmente per porre fine a questa brutta vicenda servirebbe che anche nel giornalismo si sollevasse qualche coscienza critica, così come è successo dentro la magistratura. Si sollevasse, anzi, una vera e propria rivolta contro quell’idea di giornalismo passacarte, al servizio del potere (prevalentemente del potere giudiziario) che in questi anni ha prevalso ed è diventata quasi una filosofia. Tanto da innalzare sugli altari del “giornalismo eroico” un qualunque “funzionario di giornale” capace di andare fuori della porta di un Pm (o di un suo incaricato) per ricevere qualche carta proibita. Rivolta del giornalismo vuol dire cose molto precise. Per esempio accettare – anzi chiedere – una limitazione delle intercettazioni e della loro pubblicazione; e chiedere un rispetto dei segreti di ufficio. E imporre un’etica professionale che respinga la subalternità ai gruppi di potere e alle manovre di palazzo. Questo costringerebbe anche gli editori a rinunciare a un populismo giornalistico a buon mercato, che oggi dilaga e che ha fagocitato il giornalismo vero, e ad investire sulle inchieste, sulle analisi, sui reportage, sul racconto. Diciamo pure su tutte quelle attività che, più o meno fino al 1992, erano la carne e il sangue del giornalismo italiano.

Si chiamava caso - Consip ora si chiama caso - Il Fatto, scrive Piero Sansonetti il 29 giugno 2017 su "Il Dubbio". Eterogenesi dei fini. Intanto a Napoli si incendia la corsa per la successione. Lo scandalo Consip si è sgonfiato. Era stato concepito come spingarda per dare l’assalto a Renzi e al renzismo. E’ fallito. L’assalto a Renzi prosegue, ma per altre vie, con altri protagonisti e – soprattutto – con mezzi leciti: quelli della lotta politica. Lo scandalo si è invece rivelato una bufala, costruito in gran parte con mezzi del tutto illegali, contraffacendo intercettazioni e brogliacci e usando in modo inauditamente spregiudicato la stampa, e in particolare un quotidiano, e cioè Il Fatto. Ora la Procura dovrà accertare le responsabilità penali e personali, perché questo le compete. Squadernati davanti agli occhi di tutti, però, ci sono i resti di un piccolo complotto fallito. E siccome era un complotto – o qualcosa di simile rilevante per la stabilità della politica italiana, l’argomento merita una riflessione. Ci sono le immagini di due colossi della vita pubblica che escono un po’ infangate. La magistratura – visto che un magistrato addirittura è sospettato di essere il protagonista di tutta la manovra – e il giornalismo visto che l’operazione è stata possibile solo grazie alla collaborazione di un quotidiano. Ieri a sfogliare Il Fattoonline veniva quasi tristezza: titolo a tutta pagina sul fallimento della riforma elettorale. Cioè su un episodio politico di un mese fa. Poi notizie varie di modesta importanza. Ma sul caso Consip solo un titoletto, vecchio del giorno prima. E anche sul Fatto di carta, per la prima volta dopo mesi, Marco Travaglio evitava di dedicare l’editoriale al caso Consip. Chissà se di fronte a questo disastroso infortunio la stampa italiana ammetterà che c’è qualcosa da rivedere nel meccanismo folle che ha travolto il nostro giornalismo giudiziario, e del quale Il Fatto è stato vittima, forse quasi inconsapevole. O se invece preferirà dire: «Cane non morde cane», e starsene accucciata. La Procura di Roma ha dimostrato di saper prendere il toro per le corna. Temo che il giornalismo non saprà fare altrettanto. Una singolare coincidenza: Henry John Woodcock sarà interrogato dai pm di Roma il prossimo 7 luglio, ventiquattr’ore dopo l’avvio della discussione che condurrà il Csm a scegliere il nuovo capo del magistrato napoletano. Il giorno 6 infatti la quinta commissione di Palazzo dei Marescialli entrerà nel vivo del confronto sui tre candidati rimasti in lizza per andare a dirigere la Procura del capoluogo campano. I destini di Woodcock e del suo futuro dirigente dunque si incrociano. E non è da escludere che la vicenda del pm influisca sui lavori del Consiglio. Tutto il versante dell’inchiesta Consip che vede indagati da un lato il magistrato e Federica Sciarelli e dall’altro gli investigatori del Noe è segnato da una costante: il rischio che ogni passo sia riletto alla luce dei “sospetti di vicinanza” a Renzi. Il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette potrebbe essere trattenuto dall’intervenire sui militari del Noe perché ogni provvedimento sarebbe letto come vendetta. Al Csm temono che ogni scelta su Woodcock possa essere ricondotta al fatto che il vicepresidente Giovanni Legnini è esponente del Pd e che dallo stesso partito viene Beppe Fanfani, presidente della prima commissione, a cui sono strati trasmessi gli atti (secretati) della Procura di Roma relativi al pm. Non a caso, Fanfani ha già fatto sapere che si asterrà dallo svolgere funzioni di correlatore sulla pratica aperta nei confronti di Woodcock. Ora gli stessi timori di generare equivoci potrebbero indirizzare anche la scelta del nuovo procuratore di Napoli. La partita è tra Giovanni Melillo e Federico Cafiero de Raho. Sul secondo pesa, come “handicap”, il fatto di avere un figlio che nel capoluogo campano svolge la professione di avvocato. Il primo, che sembrerebbe in vantaggio, è però stato capo di Gabinetto al ministero della Giustizia con Renzi premier. Non c’è alcuna incompatibilità reale, ovvio. Il che però potrebbe non bastare a interrompere la spirale dei sospetti che, attorno al caso Consip, circolano in modo incontrollabile. Qualora emergessero responsabilità a carico di Woodcock, si porrebbe la necessità di una guida che sappia prevenire distorsioni, e fughe di notizie, come quelle ipotizzate dalla Procura di Roma. Melillo, proprio in virtù del periodo trascorso fuori ruolo, potrebbe essere meno condizionato dall’ambiente. Certo la svolta in tema di riservatezza che ha portato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a indagare Woodcock e Federica Sciarelli per concorso in rivelazione del segreto sarà tanto più effettiva se chi assumerà la guida dell’ufficio di Napoli condividerà l’impostazione di Piazzale Clodio. Proprio la Procura di Roma verifica in queste ore i contatti telefonici tra Sciarelli e il giornalista del Fatto Marco Lillo avvenuti il 21 dicembre scorso, giorno in cui finirono sul registro degli indagati di Napoli i vertici dell’Arma (Del Sette e Saltalamacchia) e Luca Lotti. Pignatone, l’aggiunto Ielo e il pm Palazzi ritengono di poter ricavare elementi decisivi dagli interrogatori: fissato per domani quello della conduttrice e per il 7 luglio, appunto, quello del pm. Nei prossimi giorni potrebbe essere sentito anche Lillo, già indagato per pubblicazione arbitraria di atti giudiziari. Intanto Fnsi e Usigrai hanno ricordato che il sequestro del cellulare della giornalista è «un atto grave». L’Osservatorio informazione dell’Ucpi fa notare che anche quella a cui ora è sottoposto il pm di Napoli è «una giostra del circo mediatico». Mentre la Camera penale di Roma prende spunto da un articolo del Corriere della Sera per ricordare che le indagini sugli «spifferi» hanno «rilevanza almeno pari» a quelle per corruzione.

Quelle voci su Woodcock e le soffiate ai cronisti amici. Già nel 2009 un anonimo accusò il pm di fare filtrare notizie. È agli atti di un processo in cui ora è parte lesa, scrive Simone Di Meo, Venerdì 30/06/2017, su "Il Giornale". A Roma, Henry John Woodcock è indagato per rivelazione di segreto e con lui c'è sotto inchiesta anche la compagna Federica Sciarelli, che ne sarebbe stata il tramite. A Catanzaro, invece, Henry John Woodcock è parte lesa in un processo per calunnia e abuso d'ufficio, che ha particolari e sorprendenti punti di contatto con quel che sta accadendo attorno al fascicolo Consip e alla sua gestione. Un processo nato come reazione alle lettere anonime di un «corvo», che aveva ingiustamente accusato Woodcock di aver passato notizie riservate proprio alla conduttrice Rai e a Michele Santoro, all'epoca teletribuno di «Annozero». È l'inchiesta «Toghe Lucane bis», costola di un precedente omonimo procedimento, istruito, sempre a Catanzaro, dall'allora pm d'assalto Luigi de Magistris, che si concluse con trenta archiviazioni su trenta indagati. Un «mostro giudiziario» di 200mila pagine, quello dell'attuale sindaco partenopeo, che ipotizzava l'esistenza di una cupola massonica in grado di ostacolare gli accertamenti dei colleghi di Potenza. Giggino ci aveva lavorato per qualche tempo, mescolando, come sua abitudine, un po' di tutto: non solo le presunte manovre di delegittimazione, ma pure un po' di misteri ad alto contenuto mediatico, come la scomparsa di Elisa Claps, uccisa a sedici anni, e il duplice omicidio dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, e quello dei fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Mariarosa Andreotta. Una maionese giudiziaria impazzita, che, infatti, morì di morte naturale una volta approdata davanti a un giudice. Nel nuovo filone, che oggi è arrivato alle battute finali con la richiesta di 14 anni di carcere per otto dei dieci imputati, la trama di fondo è quasi la stessa: il capo d'imputazione suppone che a Woodcock e ad altri magistrati inquirenti della procura del capoluogo lucano sarebbero state contestate dai superiori false violazioni procedurali finalizzate a minarne il lavoro investigativo e a favorire un certo establishment fatto di uomini d'affari, politici, imprenditori e faccendieri allarmati dalle continue indagini sul loro conto. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri calabresi, competenti a indagare sul distretto giudiziario lucano, Henry John sarebbe finito nel mirino di questa «cricca», di cui farebbero parte tra gli altri il procuratore generale facente funzione di Potenza Modestino Roca, l'ex appartenente ai Servizi segreti Nicola Cervone e l'ex pg aggiunto Gaetano Bonomi, per una serie di scoop pubblicati con tempismo sospetto da organi di stampa locali e nazionali. Nel maggio dello scorso anno, la Sciarelli indicata dagli anonimi come destinataria delle «confidenze» di Woodcock è stata sentita in aula come teste; e ha ribadito di non aver mai ricevuto da lui atti o intercettazioni. Si è anzi lamentata dei modi spicci di un magistrato donna che l'aveva sentita in redazione come persona informata dei fatti. In uno dei plichi arrivati negli uffici giudiziari lucani, erano allegati anche i tabulati telefonici dei due. Una pista quella dell'amicizia tra il sostituto procuratore e la conduttrice di Chi l'ha visto? che avrebbe dimostrato, secondo i mittenti, le violazioni di legge commesse da Woodcock. La prima lettera, risalente al 2009, era stata firmata da un tale «signor Sicofante» e additava il pm con l'Harley Davidson di aver spifferato ai cronisti-amici informazioni top secret e per dimostrarlo allegava dati estrapolati dai contatti telefonici di un collaboratore del pm anglo-napoletano. Questi, peraltro, era finito a sua volta sotto inchiesta per un precedente esposto anonimo, perché sospettato di utilizzare il telefonino di servizio per motivi personali. Una guerra di fango e veleni, combattuta senza esclusione di colpi, che è giunta in tribunale con alcuni reati già prescritti. E con una constatazione di fondo: già nel 2009, qualcuno associava scoop giornalistici alla Sciarelli e a Woodcock.

Altra batosta per Woodcock: querela, perde e deve pagare. Il giudice si era sentito diffamato e voleva 260mila euro dalla giornalista Chirico. Invece rifonderà le spese legali, scrive Mariateresa Conti, Sabato 1/07/2017, su "Il Giornale". Voleva un risarcimento monstre di 260mila euro, per i presunti danni materiali e morali subiti. Ma non avrà un centesimo. Anzi, dovrà sborsare lui, Henry John Woodcock, pm della procura di Napoli oltre 12mila euro di spese processuali e legali, visto che ha perso la causa civile da lui stesso intentata contro la giornalista, saggista e presidente dell'associazione «Fino a prova contraria» Annalisa Chirico. Non è decisamente un periodo fortunato per il pm partenopeo nella bufera in questi giorni per il caso Consip, che lo vede indagato per rivelazione del segreto d'ufficio e che lo vedrà nelle vesti di indagato di fronte ai pm di Roma il prossimo 7 luglio, per l'interrogatorio. La sentenza del giudice monocratico capitolino, prima sezione civile del tribunale, pronunciata lo scorso 20 giugno, è tranchant. E boccia lui, il pm celebre ora nei guai: non ci fu alcun intento diffamatorio da parte di Annalisa Chirico, né nel riportare su Panorama, nel 2012, le parole contro di lui del politologo americano Edward Luttwak, né nel citare, nel suo libro «Condannati preventivi», il caso P4. Di qui il verdetto: domanda rigettata e condanna per Woodcock a pagare le spese legali dei tre querelati - la stessa Chirico, Mondadori e l'editore Rubettino - pari 4.254 euro più Iva. Soddisfatta la Chirico, difesa dall'avvocato Michele Clemente: «Sono molto felice - confessa al Giornale - che questa causa si sia conclusa. Io mi sono limitata a esercitare il diritto di critica. Perché è possibile farlo coi politici e se invece si tocca un magistrato si va incontro a queste incresciose disavventure, fonte anche di preoccupazione di impiego di tempo e risorse?». Già, perché. La Chirico è una «veterana» delle denunce targate Woodcock: «Questa non è la prima, sono quattro o cinque - ricorda lei - in questi anni a un certo punto ho avuto l'impressione di essere diventata un'ossessione per lui...». La doppia contestazione alla Chirico riguardava un'intervista, scritta per Panorama, al politologo Luttwak e poche pagine del libro «Condannati preventivi». Luttwak, sentito dalla Chirico sulle indagini sul processo sulla trattativa Stato-mafia, parlava di intercettazioni e citava il caso dell'onorevole Alfonso Papa, espulso dal Parlamento, messo in cella e poi scarcerato. Quanto al libro, sono ancora le pagine su Papa quelle che Woodcock ha contestato. Il pm ha lamentato non solo i danni materiali, ma anche quelli morali e nell'esercizio della professione che la presunta diffamazione gli avrebbe provocato. Ma tanto per Panorama quanto per il libro della Chirico è arrivato il pollice verso. In entrambi i casi il giudice Cecilia Pratesi non ha ravvisato alcun dolo né intento denigratorio da parte della giornalista. La Chirico ha affidato il suo commento anche ad una nota: «Il dottor Woodcock attraversa un momento difficile, non sarò io a infierire. La sentenza conferma la mia assoluta professionalità. Non ho mai diffamato il magistrato che in questi anni mi ha reso bersaglio di molteplici azioni giudiziarie. Penso che con me gioiranno le persone maltrattate, arrestate e vilipese da una giustizia ingiusta».

La libera stampa e il pm, scrive Annalisa Chirico su "IlFoglio" il 7 gennaio 2017. Un giornalista che decida di occuparsi di cronaca giudiziaria e non di sfilate modaiole non avrà il privilegio della tessera sconti presso le boutique griffate in via Montenapoleone. In compenso acquisirà dimestichezza con il “rito della consegna”. Blin blin, suona il campanello, chi è?, l’appuntato dei carabinieri, la signora Chirico è in casa? Apri il portone, lo accogli sull’uscio, firmi quel che è da firmare, ormai vi conoscete, lei come sta, si sieda pure cinque minuti, come va la vita di quartiere, i furti-maledetti-furti, eh sì per me la solita roba, come si chiama questo magistrato, no aspetti, mi dica da dove proviene la notifica, le dico subito di quale causa si tratta, certo che lei non molla, quante rogne, ma sì, gli inconvenienti del mestiere, a ciascuno il suo. Nessuna tessera sconti, plurimi procedimenti in giro per l’Italia. Toghe e carte bollate, carte bollate e toghe. Per qualche oscura ragione i politici puoi tacciarli di mafiosità senza batter ciglio, è diritto di cro-na-ca. Sul conto di Vincenzo De Luca puoi esprimere disinvoltamente i tuoi più intimi convincimenti, è diritto di cro-na-ca. Sulle bollenti notti di Arcore, manco a dirlo, la penna talebana si esercita orgiasticamente, è diritto di cro-na-ca. Sul culetto delle ex ministre, corredato da stralci d’intercettazioni rubate, talvolta inventate di sana pianta, puoi fantasticare ad alta voce. Il diritto di cronaca non conosce confine, per la libertà di stampa si vive o si muore. Ma se ti occupi di giudiziaria, se per qualche masochistica propensione hai scelto di frequentare le aule di tribunale, non avrai scampo. La libertà di stampa manca davvero in Italia? Il Giornalista Collettivo issa la bandiera dello scandalo se nel 2016 Reporters sans frontières classifica l’Italia al 77esimo posto per la libertà d’informazione, meglio di noi Burkina Faso e Botswana. Il Giornalista Collettivo indossa il bavaglio se il governo ventila l’ipotesi di norme più efficaci contro chi confonde la libertà di critica con la licenza di sputtanamento. Chi si alimenta di fango quotidiano non è disposto a rinunciarvi. La libertà di stampa, si diceva, c’è, ci mancherebbe, qui i giornalisti non li arrestano, piuttosto in Rai si moltiplicano come i pesci e se dopo sette anni decidi di spostare un direttore infuriano le polemiche, i giornali non li chiudono, al contrario ne nascono di nuovi, pur nella penuria di lettori, evviva la libertà, Roma non è Ankara, Gentiloni non è Erdogan, eppure c’è un fatto fastidioso e irritante. La libertà c’è, ci mancherebbe, ma ci sono tante cose di cui non si può parlare. Se sfidi il divieto diventi un bersaglio. “L’odierno attore è costretto al presente giudizio a causa di quanto dichiarato dal politologo Edward Luttwak nell’ambito dell’intervista rilasciata alla giornalista Annalisa Chirico pubblicata sul settimanale Panorama del 12 settembre 2012, nonché a causa di quanto affermato dalla giornalista Annalisa Chirico nel suo libro intitolato ‘Condannati preventivi’, edito da Rubbettino editore”. Che onore, Henry John Woodcock si occupa di me. In Italia capita che un libro finisca nel fascicolo di tre diversi procedimenti giudiziari. Partiamo dal principio. L’intervista a Luttwak testé citata riguarda la difesa delle prerogative dell’allora Capo dello stato Giorgio Napolitano contro gli eccessi della procura palermitana nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa. Per Luttwak la richiesta di interrogare il presidente della Repubblica è inaudita, l’analista statunitense, profondo conoscitore del nostro paese, riflette sugli eccessi delle procure italiane, tema sul quale si è espresso pubblicamente a più riprese al punto che, sollecitato dalla cronista, egli si sofferma su un caso che in quei mesi gode di un notevole risalto mediatico, la P4. Si tratta dell’inchiesta su una presunta associazione a delinquere che per la prima volta nella storia repubblicana conduce all’arresto preventivo di un parlamentare per reati non di sangue. Nel criticare la condotta del magistrato in servizio presso la procura di Napoli, Luttwak usa toni severi e invoca una sanzione nei suoi confronti. Dopo la citazione in giudizio per l’intervistatrice, non per l’intervistato, costui spedisce al tribunale una missiva per rivendicare la paternità delle affermazioni, confermarne il contenuto e la “fedele riproduzione” ad opera della giornalista. La quale, oltre alla citazione in sede civile, money, insieme all’editore Mondadori, è pure destinataria di una querela per diffamazione a mezzo stampa. Vallo a spiegare all’amerikano. L’antefatto. Nell’atto di citazione si tira in ballo una visita nel carcere di Poggioreale, ascoltate bene, che la convenuta realizza nell’ottobre 2011, oltre un anno prima della pubblicazione del libro. Non si tratta invero di una scoperta strabiliante dal momento che è la stessa convenuta a raccontare nel libro di aver tratto spunto da quell’esperienza per la stesura di un pamphlet sulle storture e i nodi irrisolti della giustizia italiana. Nelle oltre 150 pagine di “Condannati preventivi – Le manette facili di uno stato fuorilegge” si raccontano quindici storie di malagiustizia, il caso P4 occupa una decina di cartelle. Il libro, edito da una piccola ma prestigiosa casa editrice, Rubbettino, vende poco più di un migliaio di copie, ma è valorizzato da autorevoli recensioni sui principali quotidiani, dal Corriere della Sera alla Repubblica. Paolo Mieli lo presenta in più di un’occasione, alla Luiss interviene Giuliano Amato, Marco Pannella ne tesse le lodi in quella che sarà una delle sue ultime apparizioni alla Camera dei deputati. All’epoca della visita a Poggioreale chi scrive è una 25enne fresca di laurea magistrale in Scienze politiche e relazioni internazionali, con un master in European studies e un’esperienza di lavoro al Parlamento europeo (nello staff di Pannella e Marco Cappato), già fondatrice e segretaria del movimento giovanile della galassia radicale, già attivista immortalata in decine di cortei e sit-in per la giustizia giusta e i diritti dei detenuti, con più di una dozzina di prigioni italiane visitate al seguito di parlamentari radicali e non (recidiva!). Sono entrata negli istituti di pena fin quando la legge ha consentito ai parlamentari di introdurre con sé collaboratori anche non contrattualizzati. Nell’estate 2011, dopo la laurea, avvio una collaborazione con un parlamentare pugliese, della mia stessa città natale, responsabile dell’Ordinamento penitenziario del Pdl. Nel corso della visita, della durata di un paio d’ore, tra i vari bracci del carcere, il deputato si trattiene alcuni minuti con il collega di partito, l’onorevole Alfonso Papa, indagato eccellente dell’inchiesta P4. Io stento a riconoscerlo, non l’ho mai incontrato prima in vita mia e le immagini che inondano quotidiani e telegiornali sono assai diverse da quella sagoma di uomo in pigiama, dimagrito e barbuto. Poggioreale è una delle prigioni più antiche e decadenti d’Italia, ricordo ancora la cella con almeno dieci detenuti, stipati gli uni sugli altri, le teste che sbucano da non si sa dove, io mi sforzo di contarle tra i letti a castello, quel che più mi colpisce è il riflesso vigile di alcuni che indietreggiano non appena un agente penitenziario, sempre lo stesso, appunta lo sguardo su di loro. Il carcere puzza di paura e intimidazione. Resta purtroppo inascoltato Leonardo Sciascia che proponeva per ogni neomagistrato, fresco di concorso, almeno tre giorni tra i detenuti comuni. “Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”, così lo scrittore di Racalmuto nell’agosto 1983 sulle colonne del Corriere della Sera. All’epoca vanno di moda i blog, ancora non impazza la disintermediazione da social network, io ne curo uno dal titolo “Politicamente scorretta”, un diario online dove racconto iniziative e battaglie radicali, stati d’animo e tendenze, incontri e riflessioni sull’universo mondo. Oggi tutti i quotidiani ospitano quintalate di blog: per il giornale è traffico web in aggiunta, per cuochi soubrette e avvocati che si dilettano nella scrittura è pubblicità gratuita. Il mio blog, che non esiste più, sopravvive nelle carte di una terza inchiesta. Provenienza? Napule! La procura partenopea mi notifica – per mezzo del benedetto appuntato (la signora Chirico è in casa?) – un avviso di garanzia per falso ideologico: secondo l’accusa, avrei dichiarato il falso in un atto pubblico al fine di entrare in galera. Al termine di approfondite indagini gli inquirenti non rinvengono traccia di una mia pregressa – e inesistente – conoscenza con il parlamentare galeotto e si spingono a sostenere che mi sarei introdotta con l’inganno nell’istituto penitenziario allo scopo di trarre linfa per la mia futura attività giornalistica. All’ingresso dell’istituto penitenziario io ho firmato un foglio con la seguente formula prestampata: “Dichiaro di non svolgere attività di GIORNALISTA”, sic. La procura mi contesta di essere una giornalista mascherata. Eppure all’epoca dei fatti io non ho MAI scritto su un giornale (neppure ricette di cucina), non ho MAI preso un soldo da un giornale, non possiedo né ho richiesto un tesserino giornalistico. Da un paio di mesi ho conseguito la laurea magistrale, ho collaborato con gli europarlamentari radicali a Bruxelles, nel frattempo ho vinto un dottorato di ricerca ma non ho ancora le idee chiare su che cosa farò da grande. Chiedo di essere ascoltata al pm Vincenzo Piscitelli che con Woodcock conduce inchieste fragorose, con lui indaga su Lavitola e i finanziamenti all’Avanti, su Finmeccanica e sulla P4. Durante il nostro cordiale incontro, Woodcock fa capolino nella stanza, probabilmente ignaro della mia presenza a quell’ora nell’ufficio a pochi passi dal suo. Ricapitoliamo: visito una prigione al seguito di un parlamentare, la procura competente apre un fascicolo per falso ideologico accusandomi di aver simulato una collaborazione fittizia e di essere in realtà una giornalista. Poiché non lo sono, né di nome né di fatto, s’ipotizza che avrei in animo di diventarlo, e la prova regina di ciò sarebbe la pubblicazione, a distanza di quattordici mesi, di un libello sulla malagiustizia. Libello nel quale oso criticare un’inchiesta condotta dalla medesima procura. Il pamphlet all’indice finisce in tre fascicoli: Napoli, Roma (giudizio civile) e Lamezia Terme (penale per diffamazione). Bingo. A parte la fortuita apparizione durante il mio colloquio volontario in procura, non ho mai incontrato il dottor Woodcock. Eppure avrei voluto manifestargli la mia sincera e assoluta buona fede. Come facilmente riscontrabile, nelle poche pagine sull’inchiesta P4 non compare un solo termine di dileggio, né un aggettivo insultante o un’espressione men che rispettosa nei confronti del magistrato. Si tratta di un colloquio intervista con Alfonso Papa che all’epoca rappresenta un caso di enorme clamore mediatico, corteggiatissimo dai giornalisti di ogni testata. Io riporto alcuni dati di fatto, come la bocciatura giudiziaria del suggestivo teorema di una associazione denominata P4 o la dichiarata inammissibilità di una mole di intercettazioni captate irregolarmente (in assenza della previa autorizzazione della Camera d’appartenenza). Riporto ricordi e impressioni personali del protagonista che è un ex magistrato e si è formato pure lui a Napoli. Non è mistero che io nutra insuperabili dubbi sulla solidità delle principali contestazioni così come sulla necessità di una misura cautelare estrema come la detenzione in carcere. M’illudo di poter esprimere liberamente le mie personali opinioni e convincimenti esercitando il diritto di critica persino nei confronti di una toga. Centottantamila euro è la somma che Woodcock chiede a titolo di risarcimento dei danni patiti. Una “grande sofferenza morale”, unita al “patema d’animo sofferto e sofferente”, “gravissime ricadute nella sfera personale, familiare e professionale. Nel 2014 Woodcock è promosso alla Direzione distrettuale antimafia, le sue imprese continuano ad affollare le cronache giudiziarie, è farina del suo sacco l’inchiesta Consip che lambisce i vertici delle forze armate e il ministro allo Sport Luca Lotti, la persona più vicina all’ex premier Matteo Renzi. Alcuni mesi or sono, un giornale mi assegna un pezzo sui 40 mila euro che lo stato italiano è obbligato a versare al principe Vittorio Emanuele di Savoia ingiustamente detenuto per sette giorni nel carcere di Potenza, accusatore Woodcock. “D’accordo, lo faccio”, apro il programma Word e per la prima volta da quando faccio questo mestiere (tre anni, non una eternità), mi pongo un dilemma: scrivo o non scrivo? Se rinfresco la memoria dei lettori sull’inchiesta dalla quale il principe è uscito completamente innocente, il pm potrebbe riaversene? Magari non mi conviene, magari è meglio evitare. L’esitazione dura pochi minuti, alla fine scrivo. La libertà prima che un diritto è un dovere, insegna Oriana Fallaci. La libertà di pensare esiste se pensi, la libertà di esprimersi esiste se ti esprimi, la mia libertà esiste se io la afferro. In quell’istante la assaporo come il respiro dell’anima che si libra al di sopra delle nostre miserie, del nostro ridicolo, delle carte bollate e del citofono che suona, blin blin, chi è?, l’appuntato. Chissenefrega, scrivo. Sono libera. Sono io. Quando siedi dinanzi a un giudice chiamato a dirimere una controversia tra te e un di lui collega, non dormi sonni tranquilli. Esistono però taluni magistrati impermeabili alle logiche corporative. Si vedrà. Resta l’amara constatazione che in casi come questo, una volta azionata la causa civile, si potrebbe fare a meno di avviare contemporaneamente un giudizio in sede penale. Tanto più se il pomo della discordia è un libro. Al di là delle intenzioni personali, e sebbene non voluto, l’effetto intimidatorio nei confronti di chi per mestiere scrive è inevitabile. Quanto alla visita in carcere, se si potesse fare rewind, agirei esattamente come ho agito. Se all’epoca dei fatti avessi dichiarato di svolgere attività giornalistica, avrei asserito il falso. Il libro è approdato nelle librerie a distanza di oltre un anno, e il tempo, in tribunale, non dovrebbe essere una variabile ininfluente. In uno stato di diritto il processo alle intenzioni può avere cittadinanza? Applicando la trama dei sospetti e delle illazioni, non dovrebbe venire da chiedersi se certi magistrati, che indagano sempre sui potenti e imbastiscono inchieste clamorose con arresti eccellenti ed alterne fortune, agiscano in tal guisa al solo scopo di acquisire potere e popolarità? Per persuadere anche i più scettici dell’utilità della propria esistenza, l’Ordine dei giornalisti dovrebbe trovare il tempo di approfondire storie come quella che vi ho appena raccontato. La libertà di stampa non andrebbe invocata soltanto quando il governo paventa la sciagurata ipotesi di ritoccare la disciplina sulle intercettazioni. Sarebbe magnifico prestare attenzione al caso di giornalisti che non seguono le sfilate di moda (la mia è tutta invidia), non si fanno consegnare di soppiatto la chiavetta usb dal cancelliere compiacente, ma si sforzano piuttosto di elaborare analisi ragionate, e in quanto tali opinabili, sulle dinamiche processuali, persino in contrasto con la tesi della pubblica accusa. E non individuano in Barbara d’Urso, intervistatrice sprovvista di tesserino, una grave e seria minaccia per il futuro della categoria. L’autocensura, questo sì che è un pericolo. Blin blin, suona il campanello. Vado a rispondere.

La profezia di De Magistris: «Le ombre che velarono le mie inchieste, ora si addensano su Woodcock», scrive il 2 luglio 2017 "Il Dubbio". Luigi De Magistris parla di strani parallelismi tra le sue inchieste, portate avanti a Catanzaro contro una presunta cricca, e quelle di Woodcok. «Un parallelismo tra il mio caso e quello di Woodcock? Vedo in alcuni casi analogie sul tipo di inchieste, ma le storie sono diverse e, anzi, non auguro a Woodcock di vivere una storia come la mia». Parole e musica di Luigi de Magistris, il sindaco di Napoli che ai tempi in cui vestiva la toga a Catanzaro mise in piedi l‘ inchiesta Why- not, un gigantesco teorema politico- giudiziario finito, dopo anni di udienze, con due condanne e più di cinquanta assoluzioni. Insomma, quel De Magistris lì vede “inquietanti” parallellismi tra la sua vicenda di magistrato e quella di Henry John Woodcock, l’aggiunto di Napoli appena indagato dalla procura di Roma per la fuga di notizie del caso Consip. De Magistris ha espresso le proprie angosce e preoccupazioni di fronte a un altro protagonista del caso Consip, il giornalista del Fatto quotidiano Marco Lillo pizzicato a telefonare a Federica Sciarelli, compagna del magistrato napoletano, nelle ore in cui stava scrivendo il primo articolo sull’indagine. Certo, poi Lillo ha spiegato che si trattava di una telefonata di cortesia e che mai e poi mai i due avrebbero parlato dell’inchiesta del comune amico. Ma questo lo chiarirà la procura di Roma che ha deciso di indagare Woodcock e Sciarelli per rivelazione di segreto d’ufficio, e Lillo per “arbitraria pubblicazione di atti di un procedimento penale”. De Magistris ha poi raccontato che dopo la sua inchiesta flop, si è dovuto difendere in 120 procedimenti penali, amministrativi, civili e disciplinari. Non solo: il sindaco di Napoli è convinto che le ombre che hanno velato le sue inchieste, sono le stesse nubi che si stanno addensando in modo minaccioso sopra la testa del povero Woodcock: «Le ombre sono tante e si addensano così tanto da far perdere, smarrito all’orizzonte, il cuore dell’indagine che rischia di non essere più centrale. Il cuore dell’inchiesta è stato già colpito duramente da una prima fuga di notizie, ora c’è un’ulteriore indagine sull’indagine. Credo che tutti gli italiani vogliano che su una vicenda simile sia fatta luce, che si dica la verità, che rimangano i fatti e scompaiano le nubi pesanti. Invece – ha concluso in modo profetico de Magistris – mi sembra che, invece di aumentare la luce, cresca il buio».

Consip, Marco Lillo perquisito per il contenuto del libro "Di padre in figlio". L'autore degli articoli sul caso Consip ha dovuto fornire file e messaggi contenuti nei suoi cellulari, computer, tablet e pen drive. L’inchiesta per la presunta violazione del segreto d’ufficio è nata sulla base di una denuncia-querela degli avvocati di Alfredo Romeo, l’immobiliarista napoletano al centro del caso Consip. Il giornalista del Fatto non è indagato. Il legale di Romeo: "Non abbiamo denunciato Lillo, abbiamo chiesto di capire se all'origine delle notizie vi fosse un reato". Perquisito anche l'art director del Fatto Fabio Corsi, scrive Vincenzo Iurillo il 5 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Rivelazione del segreto d’ufficio avvenuta attraverso la pubblicazione del libro Di Padre in Figlio. Con questa ipotesi di reato la Procura di Napoli ha disposto la perquisizione di casa, computer e cellulari del giornalista de Il Fatto Quotidiano Marco Lillo, alla ricerca di tracce informatiche sull’origine dei suoi scoop sull’inchiesta Consip. Perquisizioni anche per l’art director del Fatto Fabio Corsi (che ha firmato la copertina del libro) e nelle abitazioni del cronista. Ed in particolare i file pdf e word di atti di polizia giudiziaria, ma anche messaggi whatsapp, telegram e dei comuni programmi utilizzati per comunicare attraverso gli smartphone per ricostruire il lavoro del nostro giornalista. Uomini del Nucleo Tributario della Guardia di Finanza di Napoli stanno eseguendo in queste ore la perquisizione a Roma, Lillo si trovava altrove, in vacanza. Si indaga al momento contro ignoti, e in particolare contro “un pubblico ufficiale al momento non identificato che, avvalendosi illegittimamente di notizie non comunicabili in quanto coperte dal segreto investigativo, riferibili ad atti depositati presso l’Autorità Giudiziaria di Napoli, le abbia indebitamente propalate all’esterno”. Lillo non è indagato. Nel decreto di cinque pagine, firmato dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dal pm Graziella Arlomede, si spiega che l’inchiesta per la presunta violazione del segreto d’ufficio è nata sulla base di una denuncia-querela degli avvocati di Alfredo Romeo, l’immobiliarista napoletano al centro del caso Consip. “Non lo abbiamo denunciato, ma ci siamo rivolti alla procura chiedendo di verificare se all’origine delle notizie contenute nel libro Di Padre in Figlio vi possano essere dei reati”, ha spiegato in tarda mattinata l’avvocato Giovanbattista Vignola, legale dell’imprenditore. “La nostra segnalazione, successiva alla pubblicazione del libro, partiva da un ragionamento: la difesa di Romeo intendeva presentare una querela per diffamazione per il contenuto del libro, ma questa sarebbe stata cestinata in base all’esimente del diritto di cronaca – ha aggiunto – Tuttavia se all’origine della pubblicazione vi fossero stati dei reati, ciò avrebbe potuto legittimare la nostra querela”. Secondo l’ipotesi accusatoria di Napoli, nel lavorare al libro uscito in edicola il 18 maggio scorso Lillo avrebbe attinto a notizie contenute dell’informativa del Noe del 9 gennaio 2017, dall’informativa del febbraio successivo, e di atti di indagine relativi all’inchiesta della Procura di Napoli su Romeo, precedenti e successivi, tra cui la conversazione telefonica tra Matteo Renzi e il padre Tiziano. La Finanza sta cercando questi atti, e le tracce informatiche che potrebbero documentare in che modo e tramite quale fonti Lillo se li è procurati.

Marco Lillo: «Hanno perquisito anche mio padre di 96 anni. Non quello del leader pd». «Sulla base di una denuncia per diffamazione fatta dall’indagato Romeo (per me un pretesto) hanno perquisito 4 case, la mia macchina, l’ufficio, persino il computer del grafico», scrive Virginia Piccolillo il 5 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Hanno perquisito me, che non sono indagato, mio padre di 96 anni, la mia compagna e la mia ex. E non hanno perquisito Tiziano Renzi che invece è indagato». Marco Lillo, il giornalista de Il Fatto Quotidiano, autore del libro-inchiesta sulla Consip, Di padre in figlio, si dice «allibito». E chiede: «Vi rendete conto che è grave? Hanno cercato in tutti i modi di carpire le mie fonti».

Molti penseranno: se ne accorge ora che tocca a lui. 

«Si, ho letto parole di soddisfazione anche per la perquisizione di Federica Sciarelli, che i pm di Roma accusano di avermi fatto da tramite con il pm Woodcock. E che invece so essere innocente».

Da frasi citate da La verità sembra che la Sciarelli ora ce l’abbia con lei. L’ha risentita? 

«Oggi. Ma in quel momento stavo entrando dai finanzieri. Ha detto solo: “Avrai letto. Ma, come sai, io non parlo con nessuno...”».

Il tono era arrabbiato? 

«Non mi sembrava. Non credo abbia detto che vuole strozzarmi. Anche se è a causa mia che le hanno preso il cellulare. Ma se avessero avuto le intercettazioni, invece dei tabulati, avrebbero capito di avere sbagliato. Io le ho chiesto se Woodcock era a Roma nel giorno della perquisizione alla Consip e lei mi ha detto no. Invece c’era, e il giorno dopo abbiamo riso».

Dalle celle telefoniche hanno visto che eravate vicini. Vi siete incontrati? 

«Io ci abito in Prati, vicino alla Rai. Secondo me, anche la procura sa di avere sbagliato».

Mica se la prenderà con le procure?

«No. Non ho nulla da dire nemmeno sui finanzieri che mi hanno perquisito. Hanno capito la delicatezza di entrare nella stanza di mio padre che dormiva. Sono stati gentili, professionali. Però...».

Però? 

«Però noto una disparità».

Quale disparità?

«Tra la famiglia Lillo e la famiglia Renzi».

Ovvero?

«Sulla base di una denuncia per diffamazione fatta dall’indagato Romeo (per me un pretesto) hanno perquisito 4 case, la mia macchina, l’ufficio, persino il computer del grafico. Invece al padre e agli amici di Renzi nessuno ha chiesto chat e telefonini. Non sarebbe stato interessante capire di più sulla fuga di notizie che ha rovinato l’inchiesta Consip, per la quale sono indagati il ministro Lotti e il comandante generale dei Carabinieri Del Sette?».

Le hanno trovato documenti segreti?

«Non ne ho. Le informative le avete pubblicate prima voi del Corriere».

E la telefonata tra Renzi e il babbo che riporta nel libro?

«Ho avuto una “dritta”. E il mio lavoro è raccontare fatti di interesse pubblico. Spero di scrivere un altro libro sul perché non chiedono con la stessa forza a Tiziano ciò che Matteo gli contesta: la “verità che non ha detto a Luca”».

Il carabiniere del caso Consip e gli sms truccati contro Maroni, scrive Luca Fazzo Venerdì 7/07/2017 su "Il Giornale". «Il tribunale è stato truffato», tuona Domenico Aiello, difensore del presidente della Lombardia Bobo Maroni. Il tribunale è quello che sta processando Maroni per i favori che avrebbe imposto a Expo, aiutando due sue storiche collaboratrici ed amiche: un processo che si trascina da anni, e che potrebbe costare a Maroni, in caso di condanna, la decadenza dalla carica in base alla legge Severino. Ma ieri nell'aula fa irruzione il caso sollevato dal legale di Maroni. Gli sms su cui si basa l'accusa più pesante, l'induzione indebita, sono stati taroccati: non nel contenuto, dice, ma nell'orario. E l'orario è decisivo, perché è quello che tiene il processo a Milano: altrimenti tutto verrebbe trasferito a Roma, e chissà che fine farebbe. A rendere tutto più complicato c'è la firma che sta in calce alle intercettazioni che secondo la Procura incastrano Maroni. È quella di Giampaolo Scafarto, capitano dei carabinieri in servizio - all'epoca dei fatti - al Noe, il Nucleo Operativo Ecologico dell'Arma. È l'ufficiale reso famoso da un'altra inchiesta condotta dal Noe: l'indagine sulla Consip, arrivata a scavare sul padre di Matteo Renzi. Nel caso Consip, Scafarto è finito nei guai, incriminato insieme al pm titolare di quel fascicolo, il napoletano Henry John Woodcock dalla Procura di Roma per avere falsificato il contenuto di una intercettazione telefonica che accusa babbo Renzi. Proprio oggi Woodcock verrà interrogato a Roma. E intanto il nome rispunta nel giallo delle intercettazioni su Maroni.

Anche l'indagine sul presidente lombardo è una creatura del Noe: nasce infatti da una costola dell'indagine su Finmeccanica, aperta a Napoli da Woodcock e affidata, tanto per cambiare, al reparto del capitano Scafarto. Poi il fascicolo viene spostato per competenza a Busto Arsizio, ma a indagare è sempre il Noe: che, di intercettazione in intercettazione, arriva a mettere nel mirino Maroni. E qui accade il pasticcio. Tutto ruota intorno ai messaggi che il 28 maggio 2014 si scambiano Giacomo Ciriello, braccio destro di Maroni, e Christian Malangone, stretto collaboratore di Beppe Sala, allora ai vertici di Expo. Ciriello chiede che sulla missione Expo per Tokio venga imbarcata anche Maria Grazia Paturzo, storica collaboratrice di Maroni. Malangone alla fine acconsente via sms. Il tribunale, il 7 luglio dello scorso anno, aveva stabilito che era l'sms di Ciriello a Malangone a stabilire la competenza territoriale. Ma dov'era in quel momento Malangone? Accanto a Beppe Sala, partiti entrambi alle 11 da Milano per Roma a bordo di un aereo Gulfstream 5 di Diana Bracco. Nei brogliacci dei carabinieri, l'sms porta l'orario delle 12,45. E il tribunale aveva ritenuto possibile che a quell'ora l'aereo fosse ancora per aria («l'aereo più lento del mondo», aveva commentato Aiello), radicando così la competenza a Milano, aeroporto di partenza. Ora si scopre che quell'sms nelle carte ha tre orari diversi: il 12,45 indicato nei brogliacci, un orario leggermente diverso nella perizia. Ma nelle relazioni di servizio dei carabinieri del Noe l'orario è 13,46. Se è quest'ultima l'ora giusta, è ovvio che Malangone e Sala erano ormai sbarcati a Roma, essendo passate ormai due ore e tre quarti dal decollo. Ma quelle carte firmate da Scafarto sono rimaste imboscate fino ad oggi, il tribunale ha deciso sui brogliacci: «I brogliacci manipolati non dovrebbero esistere, ma qui ci sono», dice Aiello ai giudici, «e non è questa l'unica anomalia di questo processo». Nel capo di imputazione, il testo di un sms venne addirittura cambiato: errore materiale, si disse allora. E stavolta?

L’avvocato di Maroni accusa Scafarto: «Falsificò gli sms del suo processo», scrive Errico Novi il 7 luglio 2017 su "Il Dubbio". Domenico Aiello è convinto: «Il Noe ha truffato il Tribunale, modificando gli orari di invio». Era stato Woodcock ad affidare il mandato investigativo originario. Il difensore di Roberto Maroni, l’avvocato Domenico Aiello, ha sostenuto che i carabinieri del Noe, e in particolare il capitano Gianpaolo Scafarto, avrebbero “falsificato” gli orari di alcuni sms agli atti dell’inchiesta in cui il Governatore lombardo è accusato di pressioni illecite per far ottenere un contratto e un viaggio in Giappone a due sue ex collaboratrici. Secondo Aiello, «il Tribunale è stato truffato» dagli investigatori che indicano «tre versioni diverse di cinque messaggi» agli atti, decisivi per determinare la competenza milanese rispetto a quello romana. Scafarto è accusato dalla Procura di Roma di avere falsificato anche degli atti sull’inchiesta Consip. In particolare il capitano del Noe sarebbe accusato di falso per due episodi: l’attribuzione all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo di una frase pronunciata da Italo Bocchino e riferita a Tiziano Renzi, e per la presunta presenza di 007 durante le indagini su Consip. C’è un pool di investigatori di cui la Procura di Napoli si fidava molto, moltissimo. Un acronimo che fino a pochi mesi fa era garanzia di efficacia e professionalità: il Noe. Adesso il reparto Tutela ambientale dei carabinieri è sotto una tempesta che pare non finire mai. Dopo i dubbi della Procura di Roma, le indagini sul capitano Scafarto e sul vicecomandante Sessa, dopo le ombre di falsificazione dell’informativa Consip e quelle sull’indagine Cpl Concordia, un nuovo colpo all’immagine dei Nucleo operativo ecologico viene inflitto dall’avvocato Domenico Aiello, difensore di Roberto Maroni: «Il Tribunale è stato truffato, gli atti di polizia giudiziaria sono falsi», ha dichiarato il legale durante l’udienza del processo in cui il governatore lombardo è accusato di “turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente” e di “induzione indebita” finalizzate a procurare un contratto di lavoro e un viaggio a Tokyo a due sue giovani collaboratrici. Secondo Aiello i carabinieri del Noe che hanno materialmente condotto le indagini fin dall’inizio, quando erano nelle mani della Procura di Napoli, avrebbero indicato «tre versioni diverse sull’orario di cinque messaggi», messi agli atti e decisivi per determinare la competenza territoriale del processo, assegnato a Milano anziché a Roma. Si tratta di sms in cui il capo della segreteria di Maroni, Giacomo Ciriello, chiedeva all’ad di Expo Christian Malangone di includere in un viaggio di rappresentanza a Tokyo anche Maria Grazia Paturzo, una delle due giovani per cui Maroni avrebbe commesso i reati. Gli sms sono trascritti «in due note riepilogative firmate dai carabinieri del Noe Gian Paolo Scafarto e Giuseppe Di Venere». Il nome di Scafarto torna anche qui. Lo scambio avviene il 28 maggio 2014. E secondo una delle versioni predisposte dagli investigatori, i messaggi sarebbero partiti quel giorno in un’ora in cui «Ciriello e Malangone si trovavano già a Roma». Dettaglio che avrebbe radicato l’indagine nella Capitale, ma che nella versione successiva sarebbe stato modificato. Si sarebbe trattato di un ulteriore passaggio di competenze dopo quello del fascicolo originario, relativo alle tangenti internazionali che Finmeccanica avrebbe pagato per vendere all’India elicotteri dell’Augusta. Indagini partite da Napoli e finite a Busto Arsizio. La presidente del collegio della quarta sezione penale di Milano, Maria Tersa Guadagnino, davanti alla quale si celebra il processo, ha respinto l’eccezione sollevata da Aiello. Secondo quest’ultimo il procedimento sarebbe stato radicato in virtù di una “truffa”. Secondo la giudice e il pm di Milano Eugenio Fusco, si tratta di rilievi «sbagliati e tardivi: una volta stabilita, la competenza del processo non può essere modificata». Processo che riprenderà il 14 settembre e avrà un calendario di udienze molto serrato. Ma resta la curiosità di una vicenda, tutta da verificare, in cui compare di nuovo il nome di Scafarto. L’inchiesta era rimasta affidata al suo reparto perché era stato Woodcock a conferire il mandato quando, nel 2012, era aperto a Napoli solo il filone su Finmeccanica. Dopo il trasferimento a Busto Arsizio del fascicolo principale, alcuni elementi d’indagine avevano portato nel 2014 alle accuse contro Maroni, formulate dalla Procura di Milano. Ma le basi investigative erano sempre quelle costruite dal Noe. Seppure in modo indiretto, esiste dunque un nesso tra l’episodio avvenuto ieri in Tribunale a Milano ed Henry John Woodcock. Coincidenza vuole che lo scontro tra Aiello e i magistrati si verifichi mentre la quinta commissione del Csm è riunita a Roma per scegliere il nuovo procuratore di Napoli, ossia il futuro capo dello stesso Woodcock (seduta aggiornata alla prossima settimana, decisione finale in plenum entro luglio) e a ventiquattr’ore dall’interrogatorio, previsto per oggi, in cui lo stesso pm partenopeo dovrà comparire davanti ai colleghi della Procura di Roma. C’è un filo che unisce vicende e questioni lontane e che però rischia di rendere sempre più complicato il chiarimento all’interno della magistratura.

«Io vittima di Woodcock»: l’ex sindaco-senatore assolto dopo sedici anni. L’ex sindaco-senatore assolto dopo sedici anni, scrivono Carlo Vulpio e Lucia Casamassima il 3 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera”. Senatore per tre legislature con un consenso che sfiorava il 70 per cento, sindaco per tre volte della città di Rodolfo Valentino con il triplo dei voti presi dal suo partito (il Pci-Pds-Ds) «senza alcun rispetto del dibattito congressuale», come ironizzò Ellekappa in una sua riuscita vignetta, Rocco Loreto, 74 anni, ha speso gli ultimi sedici anni della sua vita a difendersi, rinunciando alla prescrizione, dalle accuse di violenza privata e calunnia per le quali il 4 giugno 2001 venne arrestato dal pm Henry John Woodcock. Rocco Loreto, che ha legato il suo nome a proposte di legge che hanno cambiato la vita a qualche milione di persone — l’abolizione del servizio militare obbligatorio, l’obiezione di coscienza, l’istituzione del servizio civile nazionale, l’autonomia dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza —, aveva osato presentare un dossier all’allora ministro della Giustizia, Piero Fassino, al Consiglio superiore della magistratura e al procuratore generale della Corte di Cassazione, su un magistrato della procura di Taranto, il pm Matteo Di Giorgio, anch’egli di Castellaneta, accusandolo di esercitare le sue funzioni in maniera distorta, poiché «quasi ogni giorno mandava la Digos e i carabinieri in municipio per sequestrare atti su atti senza alcun fondato motivo, cercando così di determinare la vita politica del Comune di Castellaneta».

L’arresto. Il dossier di Loreto parlava anche del Di Giorgio «privato», che non si faceva problemi, per esempio, a «far eseguire lavori nella villa della propria moglie del valore di circa 60 milioni di lire da Francesco Maiorino, un noto imprenditore locale». Toccare un magistrato? Prudenza. «Il compianto Loris D’Ambrosio, segretario di Fassino — racconta Loreto —, mi confidò che aveva consigliato lui al ministro di non procedere, per evitare che si parlasse di “soccorso rosso” di un ministro nei confronti di un sindaco e senatore del suo stesso partito». Ma nemmeno il Csm e la procura generale della Cassazione si mossero. Quasi un via libera per il pm Di Giorgio, che alcuni giorni dopo la presentazione del dossier da parte di Loreto fa arrestare mezza giunta comunale di Castellaneta e da accusato diventa l’accusatore del senatore. Sul proprio cammino di «giustizia», Di Giorgio trova un altro magistrato, Woodcock, pm a Potenza, che gli crede e fa arrestare Loreto, senza mai averlo prima interrogato di persona. Casualmente, l’arresto avviene il primo giorno utile dopo l’insediamento delle nuove Camere, quando Loreto non gode più della immunità parlamentare, e casualmente la scena dell’arresto — alle 7 del mattino, con Loreto fra sette carabinieri — viene ripresa dal teleobiettivo di un fotografo appostato sulla terrazza della palazzina di fronte a casa sua. Sedici anni dopo, il legno storto della falsità comincia a essere raddrizzato.

L’assoluzione 16 anni dopo. Nel dicembre scorso, il pm Di Giorgio è stato condannato in secondo grado a 12 anni e mezzo di reclusione per corruzione in atti giudiziari e concussione e messo fuori ruolo come magistrato. Mentre il 26 maggio scorso per Loreto arriva la sentenza di primo grado che lo assolve con formula piena. «Sono stato sbattuto in cella con un ergastolano e due condannati per omicidio e spaccio di droga — ricorda Loreto —. Ho trascorso quattro giorni e quattro notti facendo lo sciopero della fame e della sete. Poi, 11 giorni ai domiciliari». Quando Loreto torna a Castellaneta, dopo il carcere a Potenza, trova ad attenderlo una folla di centinaia di persone, che con una fiaccolata lo porta in corteo da casa al municipio. «Woodcock lo ricordo durante l’interrogatorio di garanzia, l’unico, che mi ha fatto in carcere e poi durante la sua requisitoria a conclusione di ben 20 udienze preliminari — dice l’ex senatore —. Nei miei confronti lo sentivo accanito, quasi violento, era arciconvinto della mia colpevolezza». Scuse, dopo? «Mai, nemmeno una parola». A parte i suoi concittadini e i suoi amici e colleghi, nessuno le ha creduto in tutto questo tempo? «No, sono stati in tanti a credermi. Tra questi, fra i primi e mentre ero ancora “fresco di galera”, un certo Sergio Mattarella, che è venuto a fare un comizio per me. Cosa di cui gli sarò sempre grato». Politicamente però… «Un’esecuzione. Un killer non avrebbe saputo far meglio. Ma la vita continua, ora sto lavorando a una storia del brigantaggio, tema che mi appassiona».

«Galera e microspie: vi racconto il metodo Woodcock», scrive Giulia Merlo il 20 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il caso di Francesco Simone, tra gli imputati del processo Consip. «A causa mia anche D’Alema rimase invischiato nella vicenda. Acquistammo 2500 bottiglie del suo vino». Il caso cpl Concordia è uno delle due “bombe” evocate dal capitano Ultimo a colloquio con la procuratrice di Modena Lucia Musti. Cpl Concordia è una delle cosiddette “cooperative rosse” e l’inchiesta che ne ipotizza il sistema corruttivo è stata aperta dalla procura di Napoli. Dopo due anni restano una raffica di assoluzioni, la scia di polemiche che travolsero Massimo D’Alema per fatti penalmente irrilevanti (l’acquisto da parte della cooperativa di vini e libri) e la pubblicazione delle intercettazioni segrete tra Matteo Renzi e il generale della Finanza Michele Adinolfi. Due scandali, questi, entrambi legati al nome di Francesco Simone, consulente per la comunicazione istituzionale di Cpl Concordia e imputato da Woodcock per corruzione internazionale, associazione per delinquere per corruzione e falsa fatturazione.

Come sta procedendo il processo a suo carico?

«L’accusa di corruzione internazionale è decaduta il giorno stesso dell’arresto. Rimangono in piedi l’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, ma il presunto corrotto il sindaco di Ischia Giosi Ferrandino – sta per essere con tutta probabilità prosciolto a Napoli; mentre la falsa fatturazione è sotto soglia, quindi degradata a reato amministrativo».

Eppure i pm di Napoli hanno riconosciuto per lei la necessità di custodia cautelare in carcere.

«Il mio dramma è iniziato alle 6 di mattina del 30 marzo 2015, quando sei carabinieri si sono presentati a casa mia per notificarmi l’ordine di arresto e portarmi prima in caserma e poi a Poggioreale. Sono stati i 35 giorni più difficili della mia vita, in condizioni a dir poco medievali e non degne di un paese civile, in una cella 4 metri per 4 con altri sei detenuti, dove era un lusso farsi due docce a settimana con l’acqua fredda».

Come si svolse il suo interrogatorio di garanzia?

«E’ durato pochi minuti. Io del gip non ricordo nemmeno la voce: ha parlato solo il dottor Woodcock».

Lei ammise responsabilità?

«Il giorno dopo venni convocato per l’interrogatorio con il dottor Woodcock e il capitano Scafarto, ma in quell’occasione non mi venne contestato alcun reato. Io ammisi di aver portato dalla Tunisia, dove ho una società a me intestata, due tranche di denaro da circa 38.500 euro. Durante l’interrogatorio, però, iniziarono a farmi delle domande, cercando di chiarire il contesto in cui svolgevo il mio lavoro, le mie frequentazioni e i politici che incontravo».

Qual era l’obiettivo, secondo lei?

«La mia impressione fu di essere considerato l’anello debole che avrebbe potuto cedere, rivelando un sistema che in qualche modo riguardava politici che avevo incontrato come referente dell’attività istituzionale di Cpl. Io però lo dissi: da parte mia non ero al corrente di alcun fatto che riguardava soggetti politici. Dopo l’interrogatorio, su tutti i giornali uscì il titolo “Il pentito Simone accusa”».

E tra i vari accusati c’era anche Massimo D’Alema, dal quale la Cpl aveva acquistato libri e vini.

«Una vicenda assurda: la coop comprò vini da D’Alema come li comprava da molti altri fornitori, perchè rientrava in un’attività normale per la cooperativa. Mi spiace che a causa mia D’Alema sia rimasto invischiato nella vicenda: come ho detto ai magistrati, io con lui non ho mai avuto alcun rapporto di amicizia e l’acquisto dei vini nasce dopo un incontro casuale tra D’Alema e il presidente Casari, per un ammontare complessivo di 2500 bottiglie, di cui 200 autografate».

La vicenda dei libri acquistati, invece?

«Il sindaco di Ischia mi chiese di informarmi se era possibile far partecipare D’Alema a un evento, nell’ambito della sua campagna elettorale alle elezioni europee. All’epoca il suo libro era appena uscito e, durante la presentazione, la Cpl comprò 500 copie del suo libro con uno sconto del 40%. Questa sarebbe la portata della corruzione ipotizzata dai pm di Napoli».

Dal suo ufficio esce anche il nome del generale della Guardia di Finanza, Adinolfi, successivamente intercettato mentre parla con Renzi.

«Avevamo le cimici negli uffici e gli inquirenti mi hanno ascoltato mentre parlavo di un generale, ipotizzando erroneamente si trattasse di Adinolfi. In realtà, il direttore di Cpl mi chiamò per chiedermi di organizzare la bonifica degli uffici alla ricerca di microspie, perchè Cpl aveva perso sul filo di lana alcuni appalti e temeva spionaggio industriale. Allora io chiamai un ex generale in pensione, che ora ha una società di bonifica ambientale. Adinolfi non aveva nulla a che vedere con Cpl e, anche in questo caso, mi dispiace di avergli provocato indirettamente problemi».

Dopo i 35 giorni di carcere, il suo procedimento viene assegnato a Modena per competenza territoriale. Chi dispose la sua scarcerazione?

«Il gip Salvatore Romito mi scarcerò dopo tre giorni nel carcere di Modena, senza nemmeno riascoltarmi in interrogatorio col pm. Lo ringrazierò tutta la vita per il trattamento umano che mi ha riservato, perchè mi ha restituito la fiducia nella giustizia. Nei 35 giorni a Poggioreale ho perso 12 chili, vivendo in un clima di prostrazione sia fisico che emotivo».

Una decisione opposta a quella degli inquirenti napoletani.

«Questo è uno degli elementi più terrorizzanti per un cittadino: è terribile che in un paese ci siano due approcci così differenti da parte della Procura. Quella di Napoli era pronta a tenermi in carcere sine die, quella di Modena decise che non esistevano gli estremi».

Due pesi e due misure, dunque?

«Guardi, io non contesto in alcun modo le indagini e nemmeno che gli inquirenti siano nel pieno diritto di indagare chiunque. L’unica considerazione che mi sento di fare è che le indagini devono essere svolte per trovare la verità e non per fare giustizia spettacolo, in cui si cerca di inchiodare il politico di turno perchè fa finire sui giornali».

E oggi, che cosa resta dell’inchiesta?

«La mia vita distrutta: ho perso il lavoro che mi piaceva e il reddito per mantenere la mia famiglia. La stampa mi ha descritto come il capo della Cpl e di chissà quale sistema corruttivo, ma io ero un semplice consulente per la comunicazione istituzionale e non mi sono mai occupato di appalti e contratti. Oggi sto ricominciando, con la concreta speranza di poter essere completamente assolto».

Cantone liquida Consip: montatura giornalistica, scrive Errico Novi il 20 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il presidente dell’Anac smonta l’inchiesta e approva ius soli e intercettazioni. La metafora di Raffaele Cantone tradisce l’origine partenopea: «Troppe volte ci siamo aspettati bombe atomiche che invece erano tric– trac». Lo dice a proposito dell’inchiesta Consip, che a suo giudizio finora ha prodotto «pochi fatti e tantissime illazioni». Parole severe, pronunciate in un’intervista mattutina a Radio Capital da chi, come il presidente Anac, è tuttora un magistrato. «C’è un fatto certo: c’è un’ipotesi di corruzione per cui un impiegato di medio livello ha patteggiato e un imprenditore che è in attesa di giudizio. Tutto il resto è fuga di notizie». E ancora: «Sappiamo che ci sono politici, appartenenti alle forze dell’ordine che magari non sanno di essere iscritti o hanno ricevuto, ma neanche credo tutti, un’informazione di garanzia. Sappiamo che c’è un’indagine sull’indagine», aggiunge a proposito delle ultime iniziative della Procura di Roma, «ma tutto questo è anche frutto di una fuga di notizie». Tanto è vero, ricorda, che «abbiamo saputo dell’ennesima indagine aperta con riferimento ai verbali usciti sulla dottoressa Musti». Ovvero il capo dei pm di Modena le cui considerazioni erano state rese al Csm nel corso di un’audizione secretata. Poi la frase chiave: «Intorno alla vicenda c’è una cortina fumogena che ha come unico effetto quello di creare una situazione spiacevole di immagine per la magistratura».

ALFIERE DELLE TOGHE CONTRARIE ALLO SHOW. Non è solo difesa d’ufficio della categoria. Il vertice dell’authority Anticorruzione si sbilancia come forse mai aveva fatto a proposito di un’inchiesta tuttora in corso. A intervistarlo sono Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto, i conduttori di Circo Massimo, programma dell’emittente del gruppo Espresso che prende il nome dal vicedirettore di Repubblica. Ne viene fuori un Cantone in piena sintonia con un atteggiamento sempre più diffuso nella magistratura: l’idea che indagini dal grande clamore ma anche dai metodi discutibili rappresentino un danno per le stesse toghe. Le espongono pericolosamente. Nell’inchiesta partita dall’appalto vinto dal gruppo Romeo, osserva il vertice dell’Anticorruzione, «è teoricamente possibile che vi sia stata una ricostruzione complottistica. Ma io sono laico e rispetto a tale ipotesi voglio aspettare». Una cosa però è certa: «Questa vicenda sta facendo male all’immagine della magistratura», appunto, «che alla fine pagherà il prezzo più alto». Passaggio che corrisponde a un sentire diffuso tra giudici e pm, alla percezione che la fiducia da parte dei cittadini non sia più incondizionata come in passato. Non al punto da preservare i magistrati da qualunque possibile critica, nel caso in cui le loro iniziative appaiano discutibili.

INTERVENTO A TUTTO CAMPO, DA LEADER. Cantone sembra preoccupato del mondo da cui proviene. Ma l’ampiezza di argomenti sui quali accetta di rispondere è tale che il suo discorso diventa “politico” nel senso più pieno del termine. Lo ius soli? «Anche noi italiani siamo stati un popolo di migranti, penso che la riforma della cittadinanza sia una legge di civiltà per quei bambini che sono nati in Italia e sono considerati cittadini di serie B». Il caso Mastella e l’opportunità di reintrodurre le tutele del vecchio articolo 68 della Costituzione? «Sarebbe un grave errore, le immunità che ci sono adesso sono giuste e non è opportuno estenderle. I rappresentanti del popolo devono godere il meno possibile di privilegi». Non si sottrae neppure a un tema molto delicato come la retroattività della legge Severino, contestata da Silvio Berlusconi da- vanti alla Corte europea dei Diritti dell’uomo: «Esistono degli spazi per modificarla, ma il principio di quelle norme è assolutamente corretto: un soggetto condannato per vari reati è inopportuno che abbia una carica pubblica». Il che però appunto non è in aperta contraddizione con le ragioni che l’ex premier ha esposto ai giudici di Strasburgo. In un momento di grande confusione e incertezza, il presidente dell’Anac riafferma una sua indiscutibile centralità. Lo fa sia su temi che riguardano in senso più stretto l’amministrazione della giustizia sia su questioni come lo ius soli ben connotate sul piano politico. Ha posizioni spesso sovrapponibili a quelle del governo e in particolare del Pd. Il che sarebbe in fondo anche banale, considerato che si tratta della parte responsabile della sua nomina. Ma a non molti mesi dal ritorno alle urne, la chiarezza con cui Cantone si pronuncia ne fa un potenziale player al di là delle sue intenzioni. Vero è che i timori per una magistratura sovraesposta e criticabile fanno pensare che il vertice dell’Anticorruzione sia il primo a considerare rischioso il passaggio dalla toga alla politica. Ma è vero anche che la posta in gioco è tale da non poter escludere un suo clamoroso coinvolgimento. Su Consip, il magistrato sembrerebbe prendere le distanze da metodi investigativi che hanno messo Henry John Woodcock al centro di procedimenti disciplinari e pratiche di trasferimento. Eppure, invitato da Giannini e Bellotto a chiarire cosa pensa del collega, Cantone lo difende: «Woodcock ha intuito investigativo, lo conosco come persona di grandi capacità. Non complotta e non fa pasticci». Torna a sbilanciarsi sul tema delle droghe leggere, e in particolare della legalizzazione della cannabis: «Prima ero contrario, ma poi facendo una valutazione tra costi e benefici penso che una legalizzazione intelligente della cannabis possa evitare danni peggiori per i ragazzi, che non entrerebbero in contatto con ambienti della criminalità. Inoltre la cannabis di Stato sarebbe coltivata con regole più sicure e farebbe meno male di quello che attualmente c’è in giro». Significativa, ancora, la valutazione tutt’altro che apocalittica sulle norme abbozzate dal ministro della Giustizia Andrea Orlando in materia di intercettazioni: «Penso ci sia un’esigenza di capire quali debbano finire negli atti giudiziari, che poi possono essere pubblicati». Esattamente la ratio delle misure ipotizzate dal guardasigilli. Cantone non nega le difficoltà tecniche che l’ipotesi di un «filtro» comporta («è complicato soprattutto in sede di misure cautelari») ma poi riafferma il principio: «Le intercettazioni non vengono fatte per essere pubblicate, bensì per cercare ipotesi di reato».

ALTERNATIVA A POPULISMO POLITICO E TOGATO. Hai detto niente: è un ribaltone assoluto rispetto alla tesi, tipicamente grillina, secondo cui i cittadini «hanno sempre diritto di sapere». Così come il giudizio sulla sua materia di competenza, la corruzione, pone il presidente Anac in contrasto con un’altra figura antisistema, Piercamillo Davigo: «I fatti non sono dalla sua parte, confrontare la corruzione di oggi con quella di Tangentopoli significa dimenticare il passato, un personaggio come Buzzi non lo puoi affiancare a Cusani. La corruzione funziona oggi in modo diverso, si ruba in modo diverso, quantitativamente molto meno, non è vero che non è cambiato nulla». Il contrario, l’esatto contrario della lettura più tipicamente giustizialista e antipolitica che si possa dare, e che l’ex presidente dell’Anm ama proporre. Cantone non viene interpellato sull’ipotesi di una sua candidatura. Ma le sue parole ne fanno l’alternativa più chiara al populismo politico e giudiziario. Potrà resistere alla tentazione della discesa in campo. Ma che una parte della politica possa assediarlo per fargli cambiare idea, deve metterlo in conto.

LA GUERRA DELLE PANZANE...Roma, i pm: da archiviare tutte le accuse a Woodcock. La richiesta dei magistrati è pronta e verrà inoltrata al gip che deciderà, scrive Valeria Pacelli il 21 settembre 2017 su “Il Fatto Quotidiano". La richiesta di archiviazione è stata scritta. I magistrati romani hanno deciso di chiudere così la vicenda del pm napoletano Henry John Woodcock indagato a Roma per concorso in falso e rivelazione di segreto d’ufficio. Nei prossimi giorni la richiesta sarà inoltrata al gip. Erano due le accuse mosse al magistrato napoletano. Il primo reato contestato era la rivelazione di segreto d’ufficio per la fuga di notizie realizzata con l’articolo del Fatto che svelava l’inchiesta Consip il 21 dicembre 2016 a firma Marco Lillo. Seguono altri due scoop, sempre di Lillo: il 22 dicembre, Il Fatto scrive del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Tullio Del Sette, indagato per rivelazione di segreto in un filone dell’indagine e il giorno successivo viene rivelata anche l’iscrizione per lo stesso reato del ministro dello Sport, Luca Lotti. Secondo l’iniziale impostazione della Procura, il pm napoletano avrebbe passato, attraverso la conduttrice di Chi l’ha visto?, Federica Sciarelli, notizie a Lillo. Il vicedirettore del Fatto ha sempre negato questa circostanza. Anche Federica Sciarelli è stata indagata per rivelazione di segreto e anche per lei è stata scritta una richiesta di archiviazione. Woodcock, quando è stato interrogato a Roma il 7 luglio, ha spiegato che non poteva essere lui l’informatore del Fatto. Secondo quanto riportava ieri La Stampa, il pm avrebbe detto che quando il 20 dicembre Lillo scriveva l’articolo, lui si trovava a Napoli: è arrivato a Roma solo alle nove di sera. Nella capitale avrebbe incontrato Giampaolo Scafarto (il maggiore indagato per falso e rivelazione di segreto) in un bar in piazza Irnerio. Qui gli fu raccontato che l’ex amministratore delegato di Consip Luigi Marroni aveva iniziato a parlare. A questo punto andarono nella sede del Noe e continuarono l’interrogatorio. “Se il giornalista – avrebbe detto Woodcock ai pm – sa tutto in tempo reale, la fonte non sono io”.

Il magistrato partenopeo è stato indagato anche per concorso in falso con Scafarto in relazione alla parte dell’informativa depositata il 9 gennaio scorso che riguardava la presenza di Servizi segreti durante alcune attività di indagine. Sempre il 7 luglio, ai pm di Roma, il magistrato partenopeo ha spiegato che suggerire alla polizia giudiziaria di riportare in un apposito capitolo delle loro informative fatti e vicende specifiche connesse all’indagine madre è una normale prassi investigativa. In sostanza ha detto che fu lui a consigliare a Scafarto di fare un capitolo dell’informativa apposito sui Servizi segreti ma non poteva sapere che gli accertamenti fatti avevano escluso la presenza di 007 mentre i carabinieri del Noe recuperavano la spazzatura nella sede della Romeo Gestioni. Insomma, per il pm era impossibile controllare migliaia di pagine di intercettazioni e accertamenti degli investigatori. La versione del magistrato, insieme agli ulteriori accertamenti della Procura, hanno convinto i pm romani, decisi a chiedere l’archiviazione.

Travaglio assolve Woodcock, ma i pm lo smentiscono, scrive Giulia Merlo il 22 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il Fatto Quotidiano dava per certa la decisione degli inquirenti di piazzale Clodio, ma nel giro di poche ore è arrivata la replica. Nessuna determinazione è stata ancora assunta. La Procura di Roma mette a tacere le voci che si rincorrono da giorni, in merito al procedimento penale a carico del pm Henry John Woodcock, indagato per concorso in falso e rivelazione di segreto d’ufficio. Alcuni giornali, infatti, hanno anticipato che la richiesta di archiviazione sarebbe già stata scritta dagli inquirenti romani e che ora sarebbe in attesa di venire inoltrata al gip. Invece, da Piazzale Clodio arriva la netta smentita, raccolta dall’Ansa. L’indagine, iniziata qualche mese fa, vede iscritti nel registro delle notizie di reato il pm napoletano Woodcock e la giornalista di Chi l’- ha visto? Federica Sciarelli. Per quanto riguarda l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio, Woodcock e Sciarelli sarebbero accusati essere stati le fonti di diversi articoli apparsi su Il Fatto Quotidiano. Il primo risale al 21 dicembre 2016, a firma Marco Lillo, e rivela l’esistenza dell’inchiesta Consip. Seguono altri due articoli, in cui si rivela l’indagine a carico del comandante generale del carabinieri, Tullio Del Sette, per rivelazione di segreto in un filone di Consip e l’iscrizione per lo stesso reato anche del ministro dello Sport, Luca Lotti. Woodcock, sentito in procura immediatamente dopo l’apertura del fascicolo, ha sempre negato di essere l’informatore del Fatto Quotidiano e una netta smentita è arrivata anche da parte del giornalista Marco Lillo. Per quanto riguarda l’ipotesi di falso in concorso con il comandante dell’Arma, Gianpaolo Scafarto, il pm partenopeo è accusato di aver in qualche modo indirizzato il militare a redigere un’informativa in merito alla presenza dei Servizi segreti in alcune fasi delle indagini su Consip, in particolare nella fase in cui i carabinieri recuperavano la spazzatura nella sede della società Romeo Gestioni ( nell’immondizia è stato rinvenuto il famigerato” pizzino con scritto “30 T”, che secondo gli inquirenti si riferirebbe a Tiziano Renzi). Woodcock ha ammesso di aver consigliato a Scafarto di inserire nell’informativa di polizia giudiziaria un capitolo ad hoc sull’attività dei Servizi segreti (anche se gli accertamenti svolti avevano escluso la loro presenza) ma che si trattava di normale prassi investigativa e non di un tentativo di inserire nel fascicolo d’indagine elementi non veritieri. Intanto, spuntano nuovi retroscena in merito alla “gestazione” all’interno della procura di Napoli dell’inchiesta Consip. Il Mattino, infatti, rivela che si sarebbe consumata una faida tra lo stesso Woodcock e il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino, fatta di note e istanze, per l’assegnazione. A chiarirlo davanti al Csm sarebbe stato il procuratore generale Luigi Riello, il quale ha raccontato che D’Avino avrebbe ceduto alla richiesta di assegnazione fatta dalla pm Carrano perchè «tratto in errore». Le regole interne della procura di Napoli, infatti, prevedono che i reati contro la pa vengano stralciati e assegnati alla seconda sezione e questo sarebbe dovuto avvenire anche con le indagini sul racket all’ospedale Cardarelli. Lo stralcio, però, non avviene e D’Avino riceve una richiesta di coassegnazione da parte del pool di Woodcock, che la giustifica con l’esigenza di sviluppare l’indagine sulla collaborazione di tre componenti del clan camorristico Lo Russo. D’Avino, secondo la ricostruzione, avrebbe accolto la richiesta non accorgendosi che si riferiva all’inchiesta Consip, che dunque sarebbe stata fuori dalle competenze di Woodcock. «Nella richiesta non si faceva riferimento alla precedente decisione dello stralcio e soprattutto non si faceva riferimento all’intersecazione tra vicende di camorra e quelle di pubblica amministrazione. Per questo ho dato parere favorevole: credevo si trattasse solo di rinforzare le indagini di camorra», si sarebbe giustificato D’Avino.

Lo specchio di legno dei giornali italiani, scrive Piero Sansonetti il 22 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Ieri ho letto questo titolo a tutta pagina sulla home page del Fatto Quotidiano: «Il verbale della Musti passato ad arte ai giornali». Proprio così: «Passato ad arte». Nel nostro giornalismo hanno tutti lo specchio di legno. Lo specchio di legno del giornalismo italiano. Siamo travolti dalle fughe di notizie. E anche dalla denuncia contro le fughe di notizie. Senza che più nessuno rispetti neppure il minimo senso del pudore. Ieri ho letto questo titolo a tutta pagina sulla home page del Fatto Quotidiano online: «Il verbale della Musti passato ad arte ai giornali». Proprio così: «passato ad arte». Proprio così: sul Fatto Quotidiano. Nel nostro giornalismo (e nella nostra politica, e nella nostra magistratura…) evidentemente hanno tutti lo specchio di legno. Ciascuno è pronto ad indignarsi e a strepitare contro le identiche stessissime cose che lui, con orgoglio, ha fatto il giorno prima. E ha rivendicato, e ha sbandierato. E così il “Fatto”, mentre pubblica una fuga di notizie che dà il Pm Woodcock scagionato da ogni accusa per il complotto anti- Renzi, contemporaneamente, con sprezzo del ridicolo, grida per la fuga di notizie a favore di “Corriere” e “Repubblica” avvenuta qualche giorno prima a favore di Renzi. Poi si viene anche a sapere che in realtà Woodcock non è stato scagionato, cioè la notizia del “Fatto” era falsa. Ma questo ha pochissima importanza. E’ giusto difendere Woodcock contro il quale, finora, non è emersa nessuna prova. Per noi resta innocente, e persino Scafarto non ci risulta che sia colpevole. Il problema è l’oscenità della fuga di notizie, cioè il metodo con il quale politica e giornalismo usano la magistratura – e viceversa nella grande battaglia politica nazionale. Tutti sono pronti a denunciare l’avversario, nessuno a deporre le armi. Il Csm ha fatto malissimo a desecretare le carte sull’interrogatorio della Procuratrice di Modena e quindi a permettere la diffusione di notizie penalmente irrilevanti – peraltro – che danneggiano il capitano Scafato e forse Woodcock. Però viene davvero da sorridere se a denunciare questo scandalo e a indicarlo come esempio di arroganza renziana sono i giornali che, da un anno (ma anche molto di più) sulla fuga illegittima di notizie (spesso false) hanno costruito la propria politica editoriale e una campagna battente proprio contro Renzi. Ad essere maligni si può pensare che i renziano abbiano risposto, nel tentativo legittimo di difendersi da qualcosa di molto simile a un complotto, con armi illegittime. Il problema, lo capirebbe anche un bambino, è che tutta questa materia va disciplinata in modo rigoroso e organico. Non ha senso – per esempio – dire che la desceretazione non implica la pubblicabilità, se poi la pubblicazione, anche se illegittima, non è punibile. E questo riguarda anche le rivelazioni di segreto d’ufficio, da parte delle Procure, che possono essere tranquillamente e illegalmente raccolte, senza nessuna sanzione, da giornali e Tv. Solo che se appena uno si prova a proporre una disciplina più restrittiva nella divulgazione dei segreti, e soprattutto delle intercettazioni, gli dicono che è peggio di Goebbels e che vuole imbavagliare la stampa. Imbavagliare la stampa è impossibile, per fortuna. La domanda è un’altra: vogliamo tornare a dare una dignità alla lotta politica – e fare in modo che essa si svolga sui problemi, sulle diverse visioni del mondo, e del paese, e degli interessi, delle aspirazioni – oppure ci spiace questa melma nella quale si dibatte la politica in una eterna congiura di palazzo? Per esempio, se uno dice che il caso Consip è stato montato da alcuni giornali, supportati da pezzi dell’arma dei carabinieri e da alcuni magistrati (non sappiamo chi) per colpire Renzi, anche falsificando le carte, diciamo una cosa faziosa? E dimostriamo il nostro insopprimibile renzismo? No, noi crediamo che sia legittimissimo (e talvolta anche molto giusto) combattere politicamente Renzi, ma che sia uno schifo il metodo con il quale questa battaglia viene condotta. Se esiste almeno un pezzo di giornalismo che è disposto a rischiare, e a combattere, su questuo terreno, forse si può ottenere qualcosa. Cioè si può salvare il giornalismo e dare una mano alla politica per bene e alla magistratura per bene. Altrimenti dobbiamo aspettare solo che tutti i giornali diventino come “Il Fatto”, e che il giornalismo muoia definitivamente, sostituito da un gigantesco servizio segreto.

Consip, i pm: «Niente prove sul segreto violato, archiviate Woodcock e Sciarelli». La richiesta della Procura di Roma per il magistrato e la giornalista: ««Non ci sono elementi per ascrivere agli indagati la propalazione delle notizie coperte da segreto», scrive Giovanni Bianconi il 2 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". L’inchiesta a carico del pubblico ministero napoletano Henry John Woodcock e della giornalista Federica Sciarelli per la fuga di notizie sull’affaire Consip avvenuta a dicembre scorso sulle pagine del quotidiano Il Fatto va archiviata perché «non ci sono elementi per ascrivere agli indagati la propalazione delle notizie coperte da segreto». La Procura di Roma è giunta a questa conclusione dopo sei mesi di accertamenti, e ha trasmesso la sua richiesta al giudice dell’indagine preliminare ma anche al Consiglio superiore della magistratura, alla Procura generale della Cassazione e al ministero della Giustizia. Per Woodcock cade anche l’accusa di falso in cui l’ha coinvolto l’ex capitano dei carabinieri del Noe Gianpaolo Scafarto, quando ha detto - intercettato - che denunciare il presunto interessamento dei Servizi segreti al loro lavoro era stata «una scelta investigativa condivisa» con il pm. Il fascicolo su Woodcock era stato aperto dopo i primi controlli sul telefono del giornalista Marco Lillo, autore degli articoli in cui si svelava che il comandante dell’Arma dei carabinieri e il ministro Lotti erano inquisiti (insieme ad altri) per il sospetto di aver rivelato ai vertici Consip l’esistenza di un’inchiesta sugli appalti truccati. Una «rivelazione di segreto d’ufficio» consumata nelle stesse ore in cui i nomi degli indagati venivano iscritti sull’apposito registro e gli atti venivano trasmessi per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma. Nello stesso lasso di tempo sono comparse le tracce delle telefonate tra Lillo e Sciarelli, e di contatti tra Sciarelli e Woodcock. Nessuno, però, tra Woodcock e Lillo, e dai tabulati non risultava che il pm e la sua amica fossero insieme mentre Lillo chiamava lei. L’articolata richiesta di archiviazione serve anche a giustificare la inedita iniziativa della Procura di indagare il pm e sequestrare il telefono della Sciarelli, sul quale era necessario cercare eventuali messaggi con Lillo, nell’ipotesi di una «triangolazione» delle notizie uscite sul giornale. Ma sull’apparecchio non sono stati trovati contatti nel periodo d’interesse; prima e dopo sì, ma non nei giorni utili all’inchiesta, non si sa se cancellati o meno, né (eventualmente) quando. Nel suo interrogatorio Federica Sciarelli ha sostenuto che Lillo, il giorno in cui scrisse l’articolo, la chiamò per chiederle se avesse notizie sulla presenza di Woodcock a Roma; ha spiegato di non aver avuto alcun ruolo nella fuga di notizie di non aver, e di non aver nemmeno riferito al magistrato che il suo collega lo stesse cercando. Ulteriori verifiche non hanno consentito di acquisire elementi che potessero provare il coinvolgimento del pm e della sua amica nella «soffiata» al Fatto, però sarebbero emersi elementi utili a proseguire l’indagine in altre direzioni. Quanto al falso, agli atti restano solo le telefonate intercettate in cui Scafarto diceva ai suoi interlocutori che sarebbe stato lo stesso Woodcock a condividere la scelta di non scrivere nel rapporto finale che gli accertamenti sull’interessamento dei servizi segreti all‘inchiesta Consip avevano dato esito negativo. Quando è stato chiamato a spiegarle l’ufficiale dell’Arma s’è rifiutato di rispondere, mentre Woodcock ha spiegato di non aver condiviso alcuna omissione. E’ vero che suggerì di fare un capitolo a parte sul presunto coinvolgimento dei Servizi, ma senza entrare nel merito di quello che bisognava scrivere o tacere; tantomeno ordinando di non inserire i riscontri negativi. Di qui la seconda richiesta di archiviazione.

Perché il Fatto Quotidiano di Travaglio festeggia con la coppia Woodcock-Sciarelli, scrive Francesco Damato su "Lettera 43" il 3 ottobre 2017. Festa, giustificatissima, nella redazione del Fatto Quotidiano, dove hanno accolto con comprensibile sollievo la notizia dell’archiviazione chiesta dalla Procura della Repubblica di Roma, e che assai difficilmente sarà respinta dal giudice competente, dopo sei mesi di indagini sul pubblico ministero di Napoli Henry John Woodcock e sulla fidanzata Federica Sciarelli per violazione del segreto d’ufficio sull’affare Consip. Che si sospettava fosse stata compiuta a vantaggio proprio del giornale diretto da Marco Travaglio, e più in particolare del suo vice Marco Lillo. Per Woodcok c’è anche la notizia, buona pure per il giornale di Travaglio che lo ha sempre difeso, mai dubbioso della sua abituale sovraesposizione mediatica, dell’archiviazione chiesta per il sospetto di falso, sempre a proposito delle indagini sulla Consip, per via dei suoi rapporti col capitano dei Carabinieri che aveva scambiato per agenti dei servizi segreti, e i loro presunti mandanti di governo, i curiosi attirati dalle ricerche di materiale probatorio nei cassonetti dell’immondizia vicini agli uffici romani dell’imputato Alfredo Romeo. La festa del Fatto Quotidiano è doppia perché il percorso dell’archiviazione – la cui richiesta, prima ancora di essere accolta dal giudice competente, è stata peraltro trasmessa al Consiglio Superiore della Magistratura, dove pende un procedimento su Woodcook – era stato anticipato dal giornale di Travaglio e rintuzzato da una infastidita precisazione o smentita della Procura di Roma. Che quanto meno si poteva risparmiare questo passaggio. Esso risale peraltro a troppo poco tempo fa per poter pensare che davvero gli inquirenti non si fossero ancora fatti un’idea sulla vicenda o – peggio ancora – ne stessero maturando una di segno opposto. Anche sui tempi del loro lavoro e dei loro rapporti con l’informazione gli uffici inquirenti, di Roma e di qualsiasi altro posto naturalmente, dovrebbero stare più attenti per non invelenire una informazione già troppo intossicata di suo. Si deve in ogni caso registrare alla fine un altro caso irrisolto di fughe di notizie, responsabili da troppo tempo, e troppo scandalosamente, della pratica dei processi mediatici prima dei processi veri: quelli nelle aule dei tribunali. Le cui sentenze poi non faranno neppure notizia, o la faranno molto distanti dalle prime pagine riservate ai processi taroccati sui giornali, e sempre conclusi con condanne tanto sommarie quanto definitive agli occhi e alla mente dei lettori.

DURE ACCUSE ALLA MAGISTRATURA. «Io, Renzi, il Noe e Woodcock...», l'esposto-bomba del generale Adinolfi al Csm, scrivono Valeria Di Corrado e Luca Rocca il 19 Settembre 2017 su “Il Tempo”. Lo hanno indagato e intercettato per mesi per via di uno scambio di persona che appariva evidente fin da subito; lo hanno interrogato pur nella consapevolezza, comunicatagli dai pm di Napoli Henry John Woodcock, Giuseppina Loreto e Celestina Carrano, e risultante dall’informativa del Noe, della sua totale estraneità all’inchiesta sugli appalti della Cpl Concordia per la metanizzazione di Ischia e dell’agro aversano; gli hanno negato gli atti dell’indagine e le intercettazioni a suo carico nonostante fosse stato prosciolto; e a distanza di due anni dalla sua archiviazione gli atti dell’inchiesta non sono stati ancora depositati. A questo aggiungeteci una fuga di notizie che lo ha sputtanato a mezzo stampa rovinandogli la vita e la carriera. C’è questo, e molto altro, nell’esposto-bomba che l’ex Comandante in seconda della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il 4 luglio ha fatto pervenire alla Prima commissione del Csm. La stessa alla quale qualche giorno fa la procuratrice di Modena Lucia Musti ha riferito che il colonnello "Ultimo”, e il maggiore Scafarto gli avrebbero parlato della prospettiva di “arrivare a Renzi” proprio attraverso l’inchiesta sulla Cpl.

Caso Consip, sospesi dal servizio Sessa e Scafarto. È questa la misura firmata dal gip Gaspare Sturzo per il maggiore Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa, ex ufficiali del Noe, scrive Luca Romano, Martedì 12/12/2017, su "Il Giornale". Sospesi dal servizio. È questa la misura firmata dal gip Gaspare Sturzo per il maggiore Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa, ex ufficiali del Noe. I due sono stati sospesi dal servizio per un anno. La richiesta era arrivata dalla Procura di Roma proprio nell'ambito delle indagini sulla fuga di notizie su Consip. A dare il via alla sospensione è stata la contestazione di depistaggio a carico dei due ex ufficiali. Secondo quanto risulterebbe dall'inchiesta il depistaggio sarebbe scattato per "sviare" le indagini proprio su caso Consip. Scarfato su ordine di Sessa avrebbe operato in modo da rendere impossibile "ricostruire compiutamente le conversazioni intervenute con l’applicativo whatsapp". Scafarto avrebbe disinstallare dallo smartphone di Sessa l'applicazione. Il cellulare del maggiore era stato posto sotto sequestro il 10 maggio scorso. A questo si aggiungerebbe un aggravante: "L'alterazione di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento". Su questa vicenda è intervenuto anche il segretario del Pd, Matteo Renzi: "Io sono un cittadino di questo Paese che ha servito l’Italia per mille giorni. Non sentirà mai una parola sopra le righe sulla vicenda Consip. Ho sempre detto dal primo giorno che la verità sarebbe saltata fuori", ha affermato l'ex premier. Poi riferendosi in modo più esplicito alla vicenda che riguarda gli ex ufficiali del Noe, afferma: "Se qualcuno ha tradito il proprio giuramento verso lo stato è giusto che paghi".

«Così hanno mentito creando false prove». Su Consip Le mosse dei militari per danneggiare Renzi. Il giudice che ha sospeso i due carabinieri: falsi gravissimi, scrive il 12 dicembre 2017 "Il Corriere della Sera". La parola «complotto» non compare mai, ma da ciò che scrivono il giudice che ha deciso la sospensione dal servizio dei due carabinieri e i pubblici ministeri che l’hanno chiesta, traspare chiaramente l’accusa di aver truccato le carte per danneggiare Tiziano Renzi e - di conseguenza - il figlio Matteo, che era presidente del Consiglio quando la Procura di Napoli affidò l’inchiesta agli investigatori del Noe. Poi ci fu il passaggio del fascicolo a Roma, la revoca delle indagini a quel reparto dell’Arma e la scoperta - grazie agli accertamenti svolti dai carabinieri del Comando provinciale della capitale - che nell’informativa del Noe c’erano i falsi ora contestati all’ex capitano Scafarto (promosso «addirittura» maggiore, nota il gip Gaspare Sturzo nel suo provvedimento). Per esempio l’attribuzione all’imprenditore Alfredo Romeo della frase intercettata «Renzi, l’ultima volta che l’ho incontrato», in realtà pronunciata dall’ex deputato Italo Bocchino. Scafarto lo sapeva, perché gliel’avevano detto e confermato i suoi collaboratori dopo aver riascoltato la registrazione, ma ha scritto il contrario: aggiungendo che quelle parole «consentono di inchiodare il Renzi Tiziano alle sue responsabilità». Per la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, non si trattò di un errore bensì di «un volontario travisamento della verità», com’è provato dai messaggi whatsapp che i sottufficiali avevano inviato al neo-maggiore sulla paternità della frase. Scrive il gip: «Occorre condividere le conclusioni dell’accusa sulla coscienza e volontà di compiere il falso da parte di Scafarto», e cioè che «la falsificazione è frutto di una deliberata decisione dell’indagato». C’è poi il capitolo del presunto interessamento dei Servizi segreti alle indagini sulla Consip, denunciato sempre nell’informativa sottoscritta da Scafarto che, a tratti in maniera esplicita, chiamava in causa l’ex premier Matteo Renzi. Sostiene ora la Procura di Roma: «Le attività di riscontro di dati oggettivi facevano emergere quelle che devono ritenersi omissioni e alterazioni della verità funzionali all’affermazione di una verità precostituita; piuttosto che operare una verifica delle pur lecite ipotesi iniziali, si è scelto, in modo volontario e consapevole, di rappresentare maliziosamente quanto accertato». Nello stesso quadro rientra l’altra accusa di «mistificazione delle evidenze», relativa ancora ad alcune intercettazioni di Romeo per dimostrarne i contatti con un ex generale transitato dai servizi segreti, mentre invece si trattava di tutt’altro personaggio, considerato «un millantatore». Anche in questo caso, i messaggi whatsapp tra Scafarto e i suoi collaboratori dimostrerebbero che l’ex capitano era a conoscenza della vera identità dell’interlocutore di Romeo. Ma «ancora una volta - accusano i pm - al fine di supportare maliziosamente la tesi del coinvolgimento dei Servizi di sicurezza attivati dalla presidenza del Consiglio, inventa il coinvolgimento di un ex alto ufficiale della Guardia di finanza indicato, senza peraltro alcun riscontro, come appartenente ai servizi». E il gip condivide, attribuendo a Scafarto una «condotta cosciente e volontaria nel tentare di accreditare l’ingombrante presenza di presunti servizi segreti». Le comunicazioni whatsapp tra Sessa e Scafarto (parzialmente recuperate nel telefono di quest’ultimo, ora accusato con Sessa di aver cancellato altre tracce sul telefono del colonnello e depistare l’inchiesta) hanno permesso ai pm di sostenere la tesi dell’inquinamento volontario, ma non solo. In un messaggio del 9 agosto 2016 al «signor colonnello», l’ex capitano si dice preoccupato per le possibili fughe di notizie sull’inchiesta, che effettivamente ci furono: è il filone d’indagine nel quale sono tuttora inquisiti il comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette e l’ex comandante regionale della Toscana Emanuele Saltalamacchia, oltre al ministro Luca Lotti e l’ex consigliere economico di Renzi, Filippo Vannoni. In un inciso di quel messaggio Scafarto scrive: «Se abbiamo iniziato questa attività è per accontentare il vice e il dottore». Riferimento criptico senza nomi, che secondo gli inquirenti potrebbe indicare il colonnello Sergio De Caprio (l’ex capitano Ultimo, già vice-comandante del Noe) e il pm napoletano Henry John Woodcock, all’epoca titolare dell’indagine. Il quale aveva delegato al Noe accertamenti sull’imprenditore Romeo (ora di nuovo agli arresti domiciliari), che poi si scoprirà in contatto con Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi (entrambi tuttora inquisiti per traffico di influenze illecite). Ma si tratta di profili distinti dal «frammento» che ha portato all’interdizione di Scafarto e Sessa, decisa per evitare che le ulteriori indagini possano essere «danneggiate o forzate per conclusioni non veritiere», considerato il «contesto gravissimo di operazioni di falsi e depistaggio» contestato ai due.

«Corruzione in atti giudiziari»: trema il Consiglio di Stato. Nuovo esplosivo filone dello scandalo Consip: nell'indagine. L’inchiesta si concentra su una presunta compravendita di sentenze nella giustizia amministrativa. Coinvolti Bocchino, Romeo e il suo avvocato Vinti. L’Espresso svela gli affari dell'ex presidente Virgilio con l’avvocato Amara, indagato per associazione a delinquere per frodi fiscali, e il renziano Bacci. Domenica in edicola l’inchiesta integrale, scrive Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 12 maggio 2017 su "L'Espresso". Italo Bocchino, Alfredo Romeo e il suo avvocato Stefano Vinti sono finiti in un nuovo filone d'inchiesta scaturito dal caso Consip. Un ramo d'indagine iniziato a Napoli e trasferito per competenza alla procura di Roma. Con un'ipotesi di reato gravissima: corruzione in atti giudiziari. L'Espresso in edicola domenica racconta retroscena e particolari di una pista che si intreccia con un'indagine segreta che va avanti da mesi, e che riguarda presunte compravendite di sentenze nella giustizia amministrativa. In particolare al Consiglio di Stato, dove presunti gruppi di potere composti da faccendieri, politici conniventi, giudici e professionisti riuscirebbero a fare il bello e il cattivo tempo. «Abbiamo preso un altro bidone», dice Bocchino a Romeo parlando di una sentenza negativa arrivata qualche giorno prima da Palazzo Spada. Nel mirino dell’ex delfino di Gianfranco Fini c’è Stefano Vinti, l’avvocato amministrativista ingaggiato da Romeo per i contenziosi contro i suoi concorrenti. «Vinti c’ha un pacchetto di dieci cose là, capito?» spiega a Romeo «Perché quando va a fare qualche operazione...non è che va a fare l’operazione...questi sono di Romeo per la cosa di Romeo...Va là, dice “questi sono per te”, no? Poi negozia dieci cose. Su questo si è distratto. Perché secondo me era certo che tu... che vinceva perché aveva ragione. La distrazione ha portato allo scarso studio della cosa... Ma ora li possiamo recuperare?». I retroscena di una nuova inquietante inchiesta della procura di Roma che riguarda un presunto sistema di compravendita delle sentenze all'interno del Consiglio di Stato, uno dei palazzo del vero potere romano che ha la parola definitiva sugli appalti pubblici. «Un negoziatore di cause», appuntano i carabinieri del Noe. Se i sospetti degli inquirenti fossero confermati, sarebbe un colpo al cuore della giustizia amministrativa e a un pezzo fondamentale del sistema giuridico nazionale: perché se, come dice Romeo, «i tribunali amministrativi sono le vere commissioni giudicatrici delle gare d’appalto» (quasi ogni decisione della Consip viene infatti appellata prima al Tar e poi a Palazzo Spada), il Consiglio di Stato è una camera di compensazione dei poteri economici e politici del Paese, e i suoi giudici spesso scelti come collaboratori fidati di ministri e sottosegretari. «Eventuali commenti che facemmo davanti a un caffè erano dettati dallo stupore, ed erano consolatori», replica Bocchino a L'Espresso. Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato. Si vedrà. Di certo l’inchiesta è molto complessa, e gli sforzi in campi messi da procure (anche di altre regioni) e corpi specializzati della Finanza sono enormi. Uno dei professionisti finito nel mirino dei magistrati romani è Piero Amara. Un avvocato di Siracusa accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni. Ebbene, durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara insieme a documenti di ogni tipo è stata trovato anche un faldone. Dentro, documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada: Riccardo Virgilio, ex presidente aggiunto del Consiglio di Stato, da poco sostituito da Alessandro Pajno, vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella.

I documenti trovati nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere finalizzata a commettere reati tributari, raccontano alcune operazioni finanziarie del presidente Virgilio. Che non solo era titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni ‘90 al Credito Svizzero, ma ha pure deciso di investire oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd. I cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria. Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari di Tiziano, che qualche mese fa è stato in predicato – secondo alcuni quotidiani - di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. L’Espresso ha spulciato i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven. Si legge che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire «un ritorno del 50 per cento l’anno», grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso «a sviluppare la tecnologia N-Touch») e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), «la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio». Amara è categorico. «L’operazione è stata tutta tracciata. Il bonifico il presidente Virgilio l’ha fatto con nome e cognome. Ha messo anche la causale del bonifico: “finanziamento socio”» si giustifica l’avvocato. «Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia ricca. E le ricordo che Malta, a cui è arrivato il bonifico alla Bank of Valletta, non è più un paradiso fiscale».

L’Espresso, però, ha scoperto che Virgilio è anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagato dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle. Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si legge infatti che i fondi investiti «sono parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006». Tra i tanti clienti, da anni Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma molto capace e abile. Si chiama Ezio Bigotti, e pure lui è finito (non indagato) nelle carte dell’inchiesta Consip. Fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato da L’Espresso un mese fa, è – intercettazioni alla mano - il vero nemico giurato di Romeo: in pochi anni sarebbe diventato lui il presunto dominus, ripeteva ai suoi fedelissimi l’imprenditore di Cesa prima di essere arrestato per corruzione, di un sistema di potere che in Consip farebbe il bello e il cattivo tempo. Più forte rispetto a quello messo in piedi da Romeo. Un uomo vicinissimo a deputati di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare «cartelli» per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come Engie Italia (l’ex Cofely), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato. «È vero che sono legato a Bigotti, abbiamo tra l’altro vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di corruzione e millantato credito. Ma io non ho seguito Bigotti nelle cause al Consiglio di Stato contro Romeo o la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre – soprattutto contro Romeo – ha perso». Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato, è considerato da chi lo conosce bene il miglior “architetto” di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e fare man bassa di gare Consip. Bigotti sembra anche un esperto in ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parlano anche l’ad di Consip Marroni insieme a due dirigenti, Marco Gasparri (che ha ammesso di aver avuto 100 mila euro da Romeo, motivo per cui l’imprenditore è in carcere) e Martina Beneventi. È il 24 ottobre 2016, e il giorno dopo, è previsto un incontro tra Marroni e Bigotti, accompagnato dall’avvocato Amara e Verdini. Location: il ristorante “Al Moro”, nel centro di Roma. Gasparri propone una strategia per evitare che Bigotti continui a fare ricorsi a catena in caso di sconfitta. «Il dirigente interviene dicendo che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni» appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici «E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi». A quel punto interviene l’altro dirigente presente, la Benvenuti, che sottolinea «che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti». Il giorno dopo, davanti a una amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni Bigotti si lamentò «dell’atteggiamento aggressivo» di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti – in un esposto mandato alla procura di Roma – ha spiegato che volle quel colloquio per parlare «di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. «Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentato dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo».

L’inchiesta sul Consiglio di Stato e i sospetti di sentenze comprate sono cominciate anni fa, dopo alcuni esposti arrivati al pm Stefano Fava, ma hanno trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata Labirinto. Se il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari per aver aiutato, questa l’accusa che ipotizza anche l’uso di modelle minorenni come tangenti, l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni di con l’Agenzia delle Entrate (se la procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo sia la Cassazione hanno bocciato la proposta: in attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana di Palazzo Spada), in un altro filone d’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nel mirino sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza (secondo una deposizione di Luigi Esposito, anche lui indagato, avrebbe consegnato dei soldi anche per favorire un pronunciamento positivo al Consiglio di Stato in un contenzioso successivo a una gara che aveva vinto alla Consip) e soprattutto il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Indagato oggi per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumanti “Ferrari”, 247 mila euro in contanti. Insieme ad alcuni nomi di giudici del tribunale ordinario, di avvocati e magistrati amministrativi, sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Una di queste, in particolare, suscita ancora l’interesse negli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che sia Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e poi il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada, forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato. Per la cronaca presidente del collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che ha scritto di recente un libro con Raffaele Cantone e che in una lettera al “Corriere della Sera” ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso «senza i titoli necessari». Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico.

Al Supermarket delle sentenze: ecco l'inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato. Rapporti opachi tra giudici e avvocati. L’ombra della corruzione su alcune cause milionarie. Accade in uno dei Palazzi del vero potere romano, che ha la parola definitiva sugli appalti pubblici. Ecco i nuovi sviluppi della bufera Consip, scrive Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". È una mattina fredda di gennaio dell’anno scorso. Italo Bocchino e Alfredo Romeo sono uno di fronte all’altro. Parlano di Carlo Russo, il presunto facilitatore che, insieme a Tiziano Renzi, avrebbe dovuto aiutarli ad agganciare l’amministratore delegato della Consip Luigi Marroni. E di cause milionarie decise dai giudici del Consiglio di Stato. «Abbiamo preso un altro bidone», dice Bocchino parlando di una sentenza negativa arrivata qualche giorno prima da Palazzo Spada. Nel mirino dell’ex delfino di Gianfranco Fini c’è Stefano Vinti, l’avvocato amministrativista ingaggiato da Romeo per i contenziosi con i suoi concorrenti. Bocchino parla a briglia sciolta: non sa che i carabinieri del Noe stanno registrando tutto. «Vinti c’ha un pacchetto di dieci cose là, capito?», spiega a Romeo. «Perché quando va a fare qualche operazione... non è che va a fare l’operazione... questi sono di Romeo per la cosa di Romeo... Va là, dice “questi sono per te”, no? Poi negozia dieci cose. Su questo si è distratto. Perché secondo me era certo che tu... che vinceva perché aveva ragione. La distrazione ha portato allo scarso studio della cosa... Ma ora li possiamo recuperare?». «Vinti, un negoziatore di cause», appuntano i carabinieri del Noe. L’intercettazione è nascosta in una piega dell’informativa Consip, e fa drizzare le antenne prima ai pm di Napoli, poi a quelli di Roma. Se i militari parlano subito di possibili «aderenze che l’associazione» potrebbe avere «in seno alla giustizia amministrativa» e di «cause oggetto di mercimonio», qualche settimana fa il pm Henry John Woodcock decide di aprire un nuovo filone. Il nuovo ramo d’inchiesta finisce per competenza, come quello su Consip e sul presunto traffico di influenze illecite di papà Renzi e Russo, alla procura di Roma, che sta ora approfondendo l’esistenza, o meno, di eventuali illeciti penali. In particolare, l’esistenza o meno di corruzione in atti giudiziari. Ai magistrati della Capitale il nome dell’avvocato Vinti non è affatto sconosciuto: sono mesi e mesi, infatti, che un pool di quattro magistrati (Stefano Fava, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo) sta indagando su un presunto sistema di compravendita delle sentenze della giustizia amministrativa. Accendendo un faro su faccendieri, politici conniventi, giudici e professionisti che, dentro ai tribunali e al Consiglio di Stato, riuscirebbero a fare il bello e il cattivo tempo. Aggiustando cause importantissime, pilotando appalti pubblici milionari, stravolgendo decisioni economiche di enorme rilievo per la pubblica amministrazione e per aziende che danno lavoro a migliaia di persone. Se i sospetti degli inquirenti fossero confermati, sarebbe un colpo al cuore della giustizia amministrativa. E a un pezzo fondamentale del sistema giuridico nazionale: perché se, come dice Romeo, «i tribunali amministrativi sono le vere commissioni giudicatrici delle gare d’appalto» (quasi ogni decisione della Consip viene infatti appellata prima al Tar e poi a Palazzo Spada), il Consiglio di Stato è da sempre una camera di compensazione dei poteri economici e politici del Paese, e i suoi membri considerati grand commis di Stato, scelti spesso e volentieri come collaboratori fidati di ministri e sottosegretari. «Non conosco gli atti che lei mi legge e non posso ricordare i fatti dopo tanto tempo», replica all’Espresso Bocchino, spiegando che la conversazione tra lui e Romeo non nasconde alcun mercimonio, ma solo una chiacchierata da bar. «So solo che Romeo era convinto di avere ragione e che rimase sorpreso e amareggiato dalla sconfitta giudiziaria. Anche perché si era affidato a un principe del foro molto bravo e molto noto. Gli eventuali commenti che facemmo davanti a un caffè erano dettati dallo stupore, ed erano consolatori». Si vedrà. Di certo l’inchiesta è molto complessa e gli sforzi messi in campo da procure (anche di altre regioni) e corpi specializzati della Finanza sono enormi. Un altro avvocato finito nel mirino dei magistrati romani si chiama Piero Amara. Un legale di Siracusa molto conosciuto in Sicilia e a Roma, e accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni insieme a Fabrizio Centofanti (l’ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone spiega all’Espresso di non voler fare commenti, sottolineando che «la mia azienda ha una struttura industriale reale e solida, e non ha certo bisogno di truccare i conti») e una ventina di altri indagati. Durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara sono stati trovati anche documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Il suo nome è Riccardo Virgilio, ed è stato fino a un anno fa presidente (facente funzioni) del Consiglio di Stato. Alessandro Pajno, il nuovo numero uno di Palazzo Spada vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella, lo ha sostituito nel febbraio del 2016. Le carte trovate nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere, raccontano alcune operazioni finanziarie di Virgilio. Che all’Espresso risulta non solo essere stato titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni Novanta al Credito Svizzero, ma anche di aver investito oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd, i cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria. Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Quest’ultimo è un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari del padre Tiziano. Qualche mese fa è stato in predicato - secondo alcuni quotidiani - di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. Poi, Bacci è finito nuovamente sui giornali lo scorso fine gennaio perché qualcuno ha sparato alcuni colpi di pistola prima contro la sua auto parcheggiata, poi contro l’insegna di una delle sue ditte. Un messaggio che ancora non ha un mittente: gli inquirenti fiorentini indagano per scoprirlo. Spulciando i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven, si legge chiaro e tondo che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire addirittura «un ritorno del 50 per cento l’anno», grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso «a sviluppare la tecnologia N-Touch») e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), «la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio». Amara, sentito dall’Espresso, è categorico. «L’operazione è stata tutta tracciata. Il presidente Virgilio ha fatto un bonifico con nome e cognome. Ha messo anche la causale: “finanziamento socio”» ragiona l’avvocato. «Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel lontano 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia molto ricca. E le ricordo che Malta, non è più un paradiso fiscale da un pezzo. Insomma, è tutto regolare». Ma perché l’ex presidente della Cassazione avrebbe dovuto investire in una tecnologia mai sentita? «Guardi, la N-Touch, inventata da un ingegnere geniale, è basata su un microchip interno al cellulare, che permetterebbe agli utenti di godere di una straordinaria realtà aumentata. Ho consigliato io il presidente di investire nel business. La Telecom era impazzita quando noi, con la Teletouch srl, abbiamo firmato il memorandum con loro. Temo però che adesso l’operazione rischi di saltare, dopo che i giornali hanno parlato di Bacci come possibile amministratore delegato di Telecom Sparkle». Virgilio risulta anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagata dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle. Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si scopre che i fondi investiti sono proprio «parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006» dal giudice. Amara ci tiene a spiegare anche questo passaggio: «Le somme contenute nel conto furono trasformate in polizza vita nel 2005. Nel 2014 il presidente ha liquidato la polizza e investito nella Investment. Chi c’è dietro la Investment? Solo io e il mio socio Giuseppe Calafiore». Anche lui, per la cronaca, indagato per associazione a delinquere. Amara è il legale del presidente Virgilio anche in altre operazioni finanziarie (ha gestito un contenzioso sull’eredità della zia tra il magistrato suo cliente e altri eredi, che per chiudere la partita hanno deciso di donare alla famiglia Virgilio un appartamento ai Parioli del valore di circa 800 mila euro), ma soprattutto è un professionista esperto che, al Consiglio di Stato, si muove come un pesce nell’acqua. Tra i tanti clienti importanti, Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma di recente assurto all’onore delle cronache per il caso Consip. Ezio Bigotti, fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato dall’Espresso un mese fa è infatti - intercettazioni alla mano - il vero nemico giurato di Romeo: che ripeteva ai suoi fedelissimi, prima di essere arrestato per corruzione, come proprio Bigotti sarebbe diventato in pochi anni il dominus di un sistema di potere in grado di fare il bello e il cattivo tempo nella Consip. Più forte rispetto a quello messo in piedi dallo stesso Romeo. Un uomo, Bigotti, vicinissimo a deputati importanti di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare «cartelli» per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come i francesi di Engie Servizi (l’ex Cofely, i finanziari hanno fatto perquisizioni anche nella loro sede), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato. «È vero», sostiene l’avvocato Amara, «che sono legato a Bigotti, tra l’altro abbiamo vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di millantato credito. Ma ci tengo a sottolineare che io non ho seguito Ezio nelle cause al Consiglio di Stato, né contro Romeo né contro la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre - soprattutto contro Romeo - ha perso. Soprattutto io, da quando sono entrato in affari con Virgilio, ho evitato di incrociarmi con lui in un’aula di giustizia». È un fatto che anche Bigotti, che gestisce servizi di vario tipo nei palazzi della pubblica amministrazione in una decina di regioni italiane, sia però finito nel mirino della procura di Roma. Che prima ha perquisito la Consip prendendo tutte le carte delle gare miliardarie degli ultimi anni, poi ha mandato la Finanza a perquisire direttamente le sue aziende. Gli inquirenti hanno trovato una serie di fatture emesse dalla Dagi di Piero Amara a favore della Sti spa di Bigotti, per oltre un milione di euro. Anche la Exitone, sempre controllata da Bigotti, ha rapporti di fatturazione dubbia con Amara per, a detta degli investigatori, centinaia di migliaia di euro. Anche Bigotti è stato iscritto nel registro degli indagati. Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II (schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato), è considerato da chi lo conosce bene il miglior “architetto” di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e di fare man bassa, grazie ad abilità fuori dal comune, di gare milionarie. Ma Bigotti sembra anche un campione di ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parla anche l’ad di Consip Marroni insieme a due suoi collaboratori. È il 24 ottobre 2016 e il giorno dopo Marroni ha in agenda un incontro con Bigotti, che sarà accompagnato dall’avvocato Amara e da Verdini. Location: il ristorante “Al Moro”, nel centro di Roma. Marco Gasparri (il dirigente che poi accuserà Romeo di avergli pagato mazzette per 100 mila euro) è nella stanza di Marroni. I due discutono di quale sia la migliore strategia per convincere Bigotti a smettere di fare ricorsi a catena in caso di sconfitta a una gara della stazione appaltante. «Gasparri dice che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni», appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici: «E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi». A quel punto interviene l’altro dirigente presente, Martina Benvenuti, sottolineando «che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti». Il giorno dopo, davanti a un’amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni, Bigotti si lamentò «dell’atteggiamento aggressivo» di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti - in un esposto mandato alla procura di Roma per chiarire il contenuto della conversazione al Moro - ha spiegato che volle quel colloquio solo per parlare «di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. «Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentata dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo». Non sappiamo se l’ad di Consip abbia espresso remore. Di certo Bianchi, all’Espresso, spiega che il presunto conflitto di interessi con Siram è del tutto inesistente: «È solo una “coincidenza” di interessi: Siram difendendo se stessa difendeva infatti le ragioni di Consip (che aveva assegnato proprio a Siram la gara, ndr), dalla quale avevo oltretutto ottenuto l’ok a difendere Siram. Non ho ovviamente mai assunto la difesa di clienti in conflitto con Consip». Bianchi è titolare di uno degli studi amministrativisti più importanti del paese. Primeggia con quello di Vinti, con quello del potente avvocato Angelo Clarizia, con Gianluigi Pellegrino e con il professor Federico Tedeschini. Anche Amara, seppur meno blasonato, è molto conosciuto al Consiglio di Stato. L’avvocato di Siracusa (dove la Exitone di Bigotti, autore di molti ricorsi, ha da poco deciso di spostare la sua sede legale) in passato è stato chiacchierato per suoi rapporti considerati troppo stretti con giudici amministrativi siciliani e pm della città aretusea, come Maurizio Musco (condannato di recente dalla Cassazione per abuso d’ufficio) e Giancarlo Longo, sul quale - si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno - sta indagando la procura di Messina, a causa di un presunto comitato d’affari denunciato da alcuni colleghi di Longo. «Sono al centro di un complotto», ha replicato il magistrato che ha indagato di recente su una presunta macchinazione internazionale ai danni dell’ad dell’Eni, Claudio De Scalzi, basata su alcuni anonimi rivelatisi poi privi di riscontri. L’inchiesta sulla giustizia amministrativa e i sospetti di sentenze «oggetto di mercimonio», però, non è cominciata oggi. Ma dura da anni. Il via l’hanno dato alcuni esposti arrivati ai pm romani, e ha trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata “Labirinto”. A luglio 2016 il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari: secondo l’accusa avrebbe aiutato l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni con l’Agenzia delle Entrate. La procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip (che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo) sia la Cassazione hanno bocciato la richiesta. In attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana del Consiglio di Stato. In un altro filone dell’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nella rete degli investigatori sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza e il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Quest’ultimo è stato indagato per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumante Ferrari, 247 mila euro in contanti. Tra libri e bottiglie di vino sono stati trovati anche alcuni elenchi con nomi di giudici del tribunale ordinario, avvocati e magistrati amministrativi, oltre a sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Una di queste, in particolare, suscita da mesi l’interesse degli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada conservata da Mazzocchi e forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato. Per la cronaca, a presiedere il collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che in una lettera al “Corriere della Sera” ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso «senza i titoli necessari». Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico.

«Tiziano Renzi non c’entra». Dai pm di Consip una verità che arriva troppo tardi. Chiesta l’archiviazione per il padre dell’ex premier, ma Renzi jr ha già pagato, scrive Errico Novi il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Esempio micidiale di danni da processo mediatico. Macchina terribile che ha prodotto conseguenze personali per Tiziano Renzi, personali e politiche per suo figlio Matteo, politiche tout court per un ex partito di maggioranza, il Pd. L’inchiesta Consip arriva al punto di caduta più significativo visto finora: e si tratta di un nulla di fatto proprio per il papà dell’ex presidente del Consiglio. La Procura di Roma chiede per lui l’archiviazione. Restano invece impigliati nelle ipotesi di reato a loro contestate 7 persone, ai quali l’ufficio diretto da Giuseppe Pignatone invia la comunicazione di chiusa indagine, che di solito precede la richiesta di rinvio a giudizio. Rischiano dunque il processo, per il reato di favoreggiamento: l’ex ministro dello Sport Luca Lotti, figura assai vicina a Matteo Renzi; il generale dell’Arma in Toscana Emanuele Saltalamacchia; l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, che nella storia dell’Arma sarebbe il primo comandante generale a essere rinviato a giudizio (è accusato anche di rivelazione del segreto d’ufficio); il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua Filippo Vannoni. Resta invece sotto inchiesta per rivelazione del segreto e falso l’ex maggiore del Noe Gian Paolo Scafarto, che insieme con il suo ex capo, il colonnello Alessandro Sessa, è indagato anche per depistaggio. L’imprenditore Carlo Russo è invece accusato di millantato credito, reato dal quale sono scagionati oltre a Renzi senior (la cui ricostruzione dei fatti è stata ritenuta dai pm «non credibile») anche l’imprenditore Alfredo Romeo e il suo consigliere Italo Bocchino. Riportata in modo asciutto, la geografia dell’inchiesta sembrerebbe cambiata di poco. Ma non è così. La probabile fuoriuscita di Tiziano (dovrà decidere il giudice) riduce la sequenza dei presunti reati a un attivismo di Russo che avrebbe utilizzato il nome di Tiziano Renzi per millantare, presso Alfredo Romeo, straordinarie capacità di condizionare l’ad di Consip Luigi Marroni e fargli così ottenere «l’appalto più grande d’Europa», così definito nella vulgata mediatica in questi due anni. Dopo sarebbero venuti gli alert inoltrati allo stesso Marroni da parte di Lotti e Saltalamacchia, e quello di Del Sette nei confronti del presidente di Consip Luigi Ferrara, sull’esistenza di un’inchiesta con corredo di microspie e telefoni sotto controllo. Il resto, lo sfondo, il presunto intreccio corruttivo che avrebbe legato Romeo ai Renzi per mezzo di Russo, la conseguente rincorsa a tamponare l’inchiesta attribuita all’ex premier, semplicemente non esistono. La posizione di Tiziano è inconsistente, sul piano penale. Secondo la ricostruzione dei pm Ielo e Palazzi sarebbe stato Russo, solo lui, ad aver millantato con Romeo la stessa capacità di condizionamento del papà dell’ex premier, in modo da intascare una tangente da 100mila euro. Poi certo, ci sarebbero gli avvisi sul rischio di essere intercettati, i falsi e le rivelazioni del segreto attribuiti a Scafarto, i suoi presunti depistaggi in complicità con Sessa. Ma è materiale che non c’entra nulla con la politica, con il Pd, con il governo di allora, con il suo vertice. La Procura di Roma su questo, evidentemente, non ha dubbi. Ma un’intera classe dirigente, per quasi due anni, ha ballato alla grande. Benché ritenuto non credibile in alcune circostanze, papà Renzi, di cui sarebbe stato ricostruito un incontro (sempre negato) con Alfredo Romeo nell’estate del 2015, esce dall’inchiesta «perché non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato di millantato credito (rispetto all’iniziale ipotesi di traffico di influenze illecite, ndr) commesso da Russo». La conclusione della Procura è questa. E colpisce il tono del consueto tweet di Matteo: sommesso, più che rabbioso e soddisfatto: «Sono mesi che ripeto ‘ il tempo è galantuomo’. Sui finti scandali, sulle vere diffamazioni, sui numeri dell’economia. Oggi lo ribadisco con ancora più forza: nessun risarcimento potrà compensare quanto persone innocenti hanno dovuto subire. Ma il tempo è galantuomo, oggi più che mai». Assomiglia molto al tono di Federico Bagattini, difensore di Tiziano Renzi: «Questi ultimi giorni hanno dimostrato che il tempo è galantuomo: prima il riconoscimento del risarcimento del danno a titolo di diffamazione, ora la richiesta di archiviazione del procedimento cosiddetto “Consip”. Alla soddisfazione professionale per l’esito, del resto ancora da confermare trattandosi solo di richiesta di archiviazione, si unisce quella personale da parte del dottor Tiziano Renzi, che risulta, tuttavia, menomata dalla considerazione che la campagna subita negli ultimi due anni abbia prodotto gravi e irreversibili danni sul piano personale, familiare ed economico». Come dire: ci si è scrollati di dosso il fango, ma il danno resta. Personale per Tiziano, politico per suo figlio. Chi pagherà per questo? Nessuno. Sono gli inconvenienti della giustizia mediatica. Una leadership è stata intaccata anche dal clamore dell’indagine, ma oggi il quadro politico è talmente cambiato che sarebbe inutile ostinarsi a rivendicarlo. Matteo lo ha capito. Ha capito che è troppo tardi.

Tre domande (forse) inutili. Editoriale del direttore Piero Sansonetti il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Nel dicembre del 2016 Matteo Renzi era in difficoltà. Aveva perduto il referendum per la riforma costituzionale e aveva lasciato la presidenza del Consiglio. Restava però il capo del suo partito, e quindi del centrosinistra, e i sondaggi davano il Pd tra il 28 e il 35 per cento, stabilmente primo partito con un discreto vantaggio sui 5 Stelle. A fine dicembre esplose il caso Consip. A febbraio nel caso Consip fu coinvolto il padre di Renzi: Tiziano. Il caso Consip partiva dalla Procura di Napoli e finché non arrivò a Roma fu montato attraverso i giornali, ai quali venivano forniti tutti i documenti riservati e le ipotesi di indagine. Iniziò il Fatto Quotidiano, con un buon numero di scoop.

Politica, stampa, giustizia: tre domande (forse) inutili. Diede anche notizia di alcune informative preparate dal capitano dei carabinieri Scafarto, che poi risultarono false e che lasciavano capire che Renzi, da Presidente del Consiglio, si era interessato degli affari di Consip, o direttamente o attraverso suo padre, per favorire l’imprenditore napoletano Romeo. Il Fatto fu seguito a ruota da molti altri giornali. Quelli che in genere sprezzantemente – Il Fatto chiama “Giornaloni”. Vennero pubblicate intercettazioni vietatissime. Quelle dei colloqui tra Matteo Renzi e suo padre, e soprattutto quelle tra il padre di Renzi e il suo avvocato (questa circostanza ha pochissimi precedenti nei paesi democratici). Ieri si è saputo che la Procura ha chiesto l’archiviazione per il padre di Renzi. Non c’entra niente. Nessun reato. Oggi, però, Renzi non è più capo del Pd, è stato travolto. E’ stato travolto, in gran parte, proprio per via dello scandalo Consip. Cioè: per la campagna di stampa. Il Pd ha anche perso molti voti. In poco più di un anno quasi la metà del suo elettorato. La caduta del Pd in gran parte è stata causata dalla perdita di credibilità di Renzi. Il caso Consip ha fatto la parte del leone in questa vicenda.

E’ la lotta politica, bellezza, direbbe Humphrey Bogart. Tanto di cappello al Fatto Quotidiano che è riuscito, sul niente – grazie anche all’aiuto di qualche infiltrato nella Procura di Napoli che gli ha fornito le notizie, quelle vere e quelle false – a costruire una campagna di stampa gigantesca, la miglior campagna di stampa – se giudicata sulla base dei risultati – dagli anni cinquanta. Per trovare un precedente forse bisogna tornare al famoso affare Montesi, che appunto è del 1953- 54, quando uno scandalo – che riguardava la morte di una ragazza: Wilma Montesi – travolse il successore di De Gasperi, Attilio Piccioni. Quella volta lo schema familiare era invertito: il padre fu colpito attraverso il figlio, Piero, musicista di prestigio, che fu accusato di aver partecipato a un festino a Torvaianica nel corso del quale sarebbe morta la giovane Montesi. Tutto falso, nel senso che Piero Piccioni non era a nessun festino e che non c’entrava assolutamente niente con la morte di Wilma. Ma ci volle qualche anno per stabilirlo, e intanto Piero si era fatto un po’ di prigione e Attilio era scomparso dalla vita politica. Per sempre.

Ripartiamo da qui. Per porci solo tre domande.

Prima domanda: nella lotta politica quel che conta è il risultato, e i mezzi non sono censurabili mai, anche quando i mezzi sono la menzogna e l’uso illegale delle fonti?

Seconda domanda: il giornalismo migliore è quello che mette al primo posto il risultato politico e al risultato politico subordina l’informazione e la verità?

Terza domanda: la macchina della giustizia funziona meglio se rinuncia alla riservatezza e usa la fuga delle notizie per avere i giornali amici e dunque più possibilità di riuscire?

Ho posto queste domande in modo fazioso, me ne rendo conto, sollecitando le risposte che vorrei. Si fa sempre così. Però provate a prendere sul serio le domande, perché può anche darsi che in molti, forse la maggioranza, vogliano dare a queste domande una risposta realistica, cioè tre sì: sì, la lotta politica non guarda ai mezzi; sì, il giornalismo vero è solo quello vincente; sì, la magistratura deve saper usare la stampa. Io resto aggrappato alla speranza che non sia per tutti così. Una speranza sottile sottile.

Tiziano Renzi verso l’archiviazione. Lui si sfoga: "Deluso, lascio tutto". Nei guai il faccendiere Carlo Russo. Per lui c’è il millantato credito, scrive Stefano Brogioni il 30 ottobre 2018 su La Nazione. Il caso Consip, per Tiziano Renzi, potrebbe svanire in una bolla di sapone. Manca il marchio del gip, ma per la procura di Roma il padre dell’ex premier Matteo non ha “trafficato” con le influenze come inizialmente ipotizzato nei giorni caldi di un’indagine raccontata quasi in diretta sui media per la pesantezza dei nomi in ballo. Ma anziché gioire per aver vinto un’altra battaglia, Renzi senior da Rignano sull’Arno si sfoga con un violento j’accuse. «Vado in pensione, lascio ogni incarico, metto in vendita la mia società. Mi arrendo», dice, laconico. I processi per lui non sono finiti (a Firenze è stato rinviato a giudizio per le false fatture), e allora, annuncia ancora, «tra un’udienza e l’altra farò il nonno». Recentemente, Tiziano aveva avuto ragione contro Marco Travaglio: per gli editoriali al vetriolo del direttore del Fatto Quotidiano riceverà un risarcimento. L’indagine romana sulla Consip, dove comunque sono quasi imputati i renzianissimi Luca Lotti e Filippo Vannoni per presunte spiate sull’indagine che riguardava il colosso degli appalti pubblici guidato dall’ex assessore regionale Luigi Marroni, era stata un’altra bella fonte di grattacapi, per nonno Renzi. La richiesta di archiviazione dei pm romani tratteggia un Renzi che ha fornito ai magistrati una «inverosimile ricostruzione dei fatti e della natura dei rapporti», ma, scrivono i pm Pignatone, Ielo e Palazzi, «non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato commesso da Carlo Russo». Il famoso incontro con l’imprenditore Romeo, ad esempio, ci sarebbe stato. Ma non a Roma e nemmeno a Napoli, bensì a Firenze, nel luglio del 2015, quando però l’inchiesta Consip non era neppure in embrione. Gli inquirenti lo ricavano da un’intercettazione in cui Romeo parla – in termini neanche troppo lusinghieri – di un individuo in sandali e bermuda. La (richiesta di) archiviazione per Tiziano si annoda con la nuova definizione delle accuse per il faccendiere Carlo Russo. Lo scandiccese dovrà rispondere adesso di millantato credito. In pratica, la nuova accusa è che egli abbia speso la conoscenza con Renzi per aprirsi porte che altrimenti avrebbe trovato chiuse. «Siamo davanti a un abuso di cognome», commenta il legale di Tiziano, Bagattini. «Nessuna dichiarazione fino a che non leggeremo le carte», dice invece il difensore di Russo, Gabriele Zanobini.

NOTIZIE FUGACI E TRUCCATE.

Antonio Ingroia: l’innocenza presunta, la gloria, la contabilità. L'ex magistrato anti-mafia indagato per peculato: alcuni pensieri senza infierire, scrive Fabio Cammalleri i 10 Marzo 2017 su “La Voce di New York". L’innocenza dell’accusato Antonio Ingroia qui è fuori discussione, per lo meno fino a contraria sentenza definitiva (e forse anche oltre, data la notoria inaffidabilità del sistema giudiziario penale italiano); e tuttavia, a margine di note-spese e regolamenti, si potevano tentare analisi meno anguste, persino rivoluzionarie. “È stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura”. Così Antonio Ingroia, ex noto magistrato, oggi avvocato, a proposito della notizia circa l’interrogatorio da egli reso, un paio di giorni fa, alla Procura di Palermo: dove risulterebbe avviata un’indagine preliminare a suo carico per peculato ed altro. Non solo è stupefacente, ma è incivile; è il segno sicuro di una barbarie che si diffonde ogni giorno più rigogliosa; e nemmeno pare mostrare segni, anche minimi, di acquietamento. Una barbarie che, se ormai liberamente rameggia per l’Italia, ha tuttavia un punto d’origine preciso, noto, riconoscibile. Nasce nei Palazzi di Giustizia, e, segnatamente, nei dintorni delle Procure della Repubblica: a dire poco, nei dintorni. Pertanto, l’horresco referens dell’Avv. Ingroia suona mutilo, imperfetto: giacché, in quei dintorni, egli ha lungamente assunto funzioni giudiziarie, e, dunque, sarebbe stato sommamente gratificante, utile, ed anche fecondo per i più giovani, che Egli almeno tentasse di attardarsi su un più vasto ordine di meditazioni, di valutazioni, di conclusioni. Esemplifico. In un discorso al CSM, il 9 luglio 1998, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a proposito delle violazioni del segreto d’ufficio, già allora fatte assurgere al rango di consuetudine processuale, disse: “…io non parto ritenendo per forza che è il magistrato che ha violato il segreto, però nessuno mi costringe a ritenere che lo ha violato sempre e comunque il poliziotto, il carabiniere o quello che pulisce il pavimento, che è passato in quel momento…”. Come sappiamo, fra i magistrati italiani, fu l’unico ad ascendere al Quirinale; da dove fu anche incessante sostenitore della “Magistratura Riformata” da Mani Pulite: pertanto, insospettabile di squilibri valutativi in suo sfavore. Sicché, quando si è acquisita, per pregresse esperienze, o intatta comunanza spirituale, una più compenetrata conoscenza della materia, volendo, si può estendere lo sguardo (Scalfaro, in effetti, dal 1946 in poi non scrisse un solo decreticchio che fosse uno; tuttavia potè ugualmente avanzare per tutti i gradi di carriera previsti, e, nel 1988, dopo 42 anni di ininterrotta vicenda parlamentare, andare in pensione quale “Magistrato di Cassazione con funzioni direttive superiori”: come per Legge e CSM). Allora, anche Ingroia che, oltre la sola comunanza spirituale di cui godette Scalfaro, certo, con la magistratura, ha vissuto anche intense esperienze, avrebbe potuto cogliere l’occasione per soffermarsi, magari criticamente, su quella che si potrebbe chiamare “la mentalità del magistrato”. Ora, quel porsi costantemente ed indefettibilmente quale vittima altrui, pure lì dove meno dovrebbe riuscire plausibile, se non altro per il rilievo della carente sorveglianza, come nei casi di “fughe di notizie”, coglie certo un aspetto di questa mentalità: lungamente e vastamente esibito, ad ogni latitudine, da non meno di due e più decenni. Ma c’è dell’altro. C’è quel postulare, con pari ingombro geografico e diacronico, quasi un’alterità morale verso ogni altro pubblico potere, e che, a molti, a troppi, e sempre più numerosi e mareggianti, ha fatto e fa dire, attraverso le “fughe di notizie”, e prima, e dopo di esse: ogni provvedimento? Un abuso; ogni spesa? Un ladrocinio; ogni chiacchierata? Un oscuro accordo. Una “mentalità” sempre cinta con la memoria dei martiri: sottratta alla comune venerazione, e invece ridotta a feticcio polemico, ad arnese mestierante. E lasciando, in questo modo, che intorno alla figura del magistrato sorgessero trasfigurazioni fantastiche: una figura astratta, disincarnata, eterea, fatta più di immagini che di azioni, più di superstizione che di conoscenza, più di superbia che di umiltà. “Hotel a cinque stelle? Ne ho tutto il diritto, per l’incarico dirigenziale che svolgo”. “Sicilia E Servizi” è una società della Regione Siciliana, di cui Ingroia è Amministratore Unico. Nell’esercizio 2013, risulterebbero ricavi per 150.000 Euro, e 117.000 Euro di premio, oltre circa 50.000 euro di stipendio e i rimborsi previsti dal regolamento. Sull’indennità, sostiene Ingroia che, raggiunti certi obiettivi “…si tratta di un riconoscimento previsto dalla legge…e serve a integrare una indennità certamente non commisurata alle grandi responsabilità in capo all’amministratore…”; quanto alle spese, vivendo egli fuori sede, “la legge prevede…il rimborso delle spese di viaggio, ossia trasporto, vitto e alloggio, così confermato da più pronunce della Corte dei conti”. La Procura di Palermo sembra nutrire dubbi in proposito. Per quanto interessa, si può invece serenamente muovere dal presupposto che sia tutto legittimo; non si discute nemmeno, anzi: qui si presume sempre la non colpevolezza, e senza sforzo, dato che è scritto nella Costituzione. S’intende: in quella, diciamo, vergine; non in quella oltraggiata e abusata da note prassi di illegalismo custodiale; da equivoche sottoculture emergenziali; da sequestri e confische antimafia a fondo perduto; da doppi binari antimafia; da triplici verità, antimafia e non (quella dell’innocenza originaria voluta dalla Carta Fondamentale; quella “svelata” da una qualche condanna; e quella che si può sempre “rivedere”, magari dopo vent’anni di macerazione concentrazionaria); da molteplici gradi di giudizio che, con la tenacia sinistra di un boia, “vincono” il “gargarismo” della presunzione di non colpevolezza, non per persuasione ma per estenuazione. Ecco, a partire da questa vicenda di non avare indennità e rimborsi spese, pure non avari sembravano gli spunti, le occasioni, le possibilità per il pensiero, per lo spirito. E, invece, abbiamo sentito la secchezza della contabilità, il minimalismo documentario, l’etica regolamentare. Forse pochino per chi ha scaldato cuori partigiani, sognato rivoluzioni, processato la storia. Non bisogna mai infierire. Nè mai dimenticare, però. Fabio Cammalleri.

Fabio Cammalleri. l potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

Inchiesta sul Sole 24 Ore, indagati il direttore e altre otto persone. Giornalisti: «Sciopero a oltranza». Raffica di perquisizioni per l’indagine sul giallo delle copie digitali. Ipotesi di reato di «false comunicazioni sociali» per Napoletano, l’ex presidente Benedini e l’ex ad Treu. Per il deputato Quintarelli e alcuni ex manager, l’accusa è appropriazione indebita, scrive Luigi Ferrarella il 10 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Nove persone, tra i quali un parlamentare e l’attuale direttore del più importante quotidiano economico italiano, sono al centro di altrettante perquisizioni in corso a Milano nell’inchiesta sui conti del Sole 24 Ore. Il «giallo» delle 109.500 copie digitali multiple, dichiarate nel marzo 2016 dalla casa editrice controllata da Confindustria ma poi sospettate d’essere «fantasma» e perciò tolte dal computo della diffusione dalla società Ads certificatrice delle vendite dei giornali, spinge la Procura di Milano a uscire allo scoperto dopo tre mesi di accertamenti e interrogatori di testimoni su due capitoli. Nel primo dei due filoni, che a valle ipotizza il reato di «false comunicazioni sociali» a causa dell’impatto della fittizietà di quelle copie multiple digitali sui conti reali del bilancio 2015, sono indagati dal pm Gaetano Ruta l’attuale direttore del quotidiano di Confindustria, Roberto Napoletano, responsabile anche di Radio 24 e dell’agenzia di stampa Radiocor; Benito Benedini, ex presidente della casa editrice durante la presidenza confindustriale di Giorgio Squinzi, nonché ex presidente di Fondazione Fiera Milano e di Assolombarda; e Donatella Treu, già amministratore delegato e direttore generale del gruppo quotato in Borsa. Nel secondo filone, che a monte scandaglia, invece, l’opaco rapporto tra il mondo del Sole 24 Ore e la società inglese Di Source Limited (incaricata di raccogliere e attivare gli abbonamenti digitali di copie in realtà inattive e dunque «gonfiate» nei numeri proposti agli inserzionisti pubblicitari e al mercato editoriale) sono indagati per l’ipotesi di reato di «appropriazione indebita» (complessivamente sinora stimata in poco meno di 3 milioni di euro) l’ex direttore dell’area digitale del gruppo Sole 24 Ore, Stefano Quintarelli, attuale deputato di Scelta Civica per l’Italia e professore fra i più attivi nella legislazione sul web; l’ex direttore finanziario del gruppo editoriale, Massimo Arioli; l’ex direttore dell’area vendite, Alberti Biella; Filippo Beltramini, direttore di una società inglese (Fleet Street News Ltd) interamente controllata da Di Source Limited e responsabile dei rapporti con i clienti italiani della Di Source; il commercialista Stefano Poretti e il fratello del deputato, l’imprenditore Giovanni Quintarelli. Nel dicembre scorso la Guardia di Finanza di Milano aveva acquisito, su mandato della Procura, i verbali del consiglio d’amministrazione dal 2010 e l’internal audit sulle copie digitali multiple del “Sole 24 Ore. La situazione di deficit patrimoniale è stata indicata pochi giorni fa, da un comunicato della casa editrice, ai limiti ormai dell’articolo 2447 del codice civile, cioè del caso di “riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale”, con un valore di patrimonio netto negativo della società di 7 milioni dopo l’effetto della svalutazione derivante dai 19 milioni dell’impairment test, vale a dire del termometro che verifica che le attività in bilancio siano iscritte ad un valore non superiore a quello effettivamente recuperabile. Sarà dunque l’assemblea straordinaria della società, il cui indebitamento finanziario netto è negativo per 49 milioni, a valutare le dimensioni della ricapitalizzazione con le consulenza dello studio Bonelli Erede per gli aspetti legali e dello studio Vitale per gli aspetti finanziari. Intanto il gruppo, in una nota, ha assicurato massima collaborazione con gli inquirenti. «Con riguardo alle iniziative assunte in data odierna (venerdì, ndr.) dall’Autorità giudiziaria di Milano, i nuovi vertici del Gruppo 24 Ore - impegnati come noto nell’azione di risanamento e di rilancio della società - ribadiscono la propria volontà a fornire agli organi inquirenti la massima collaborazione per l’accertamento dei fatti, confermando che agiranno con determinazione a tutela degli interessi della società». La reazione dei giornalisti del gruppo è arrivata nel pomeriggio. L’assemblea dei redattori del quotidiano ha proclamato uno sciopero a oltranza fino a che il direttore Napoletano non si dimetterà. I redattori di Radio24, invece, hanno optato per uno stato di agitazione con lo sciopero delle firme, affidando, però, al Comitato di redazione un pacchetto di cinque giorni di sciopero. L’assemblea dei giornalisti della radio di Confindustria ha anche chiesto all’editore «un immediato segnale di discontinuità per garantire un futuro all’azienda, in grado di tutelare la credibilità e il patrimonio giornalistico di Radio24 e di tutto il Gruppo 24 Ore».

Sole 24 Ore, perquisizioni e dieci indagati. Giornalisti in sciopero contro il direttore. La procura ha ordinato controlli sull'ipotesi di false comunicazioni sociali nei confronti di Benedini, ex presidente di Gruppo 24 Ore, Treu, ex amministratore delegato, e Napoletano, direttore del quotidiano economico. Altri sono indagati per appropriazione indebita. Giornalisti in sciopero fino alle dimissioni del direttore, scrive Franco Vanni il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". L'inchiesta sul rosso di bilancio dell'editrice del Sole 24 Ore, di proprietà di Confindustria, ha degli indagati. La procura ha ordinato perquisizioni, già eseguite dal Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di finanza, nei confronti di Benito Benedini, ex presidente del Gruppo editoriale, Donatella Treu, ex amministratore delegato, e Roberto Napoletano, direttore del quotidiano economico. Il fascicolo, assegnato al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e al sostituto Gateano Ruta, è aperto per il reato di false comunicazioni sociali. Altri dirigenti del gruppo, e di società partner, sono indagati invece con l'accusa di appropriazione indebita. In questo secondo filone i fari si puntano sulla società Di Source Limited, che avrebbe 'pompato' gli abbondamenti digitali, con indagati l'ex direttore dell'area digitale del gruppo, Stefano Quintarelli, (ora deputato di Scelta Civica), con suo fratello Giovanni, l'ex direttore finanziario, Massimo Arioli; l'ex direttore dell'area vendite, Alberti Biella; Filippo Beltramini, manager di una controllata di Di Source Limited, il commercialista Stefano Poretti. I giornalisti hanno annunciato dopo un'assemblea straordinaria uno sciopero che "si protrarrà fino alle dimissioni del direttore": 142 i favorevoli, solo 4 i no e 10 gli astenuti. L'ultima semestrale del Gruppo si è chiusa con un buco di 50 milioni. E il valore delle azioni è crollato a poco più di 30 centesimi, portando in sette anni a una perdita del 95 per cento del valore. Il sospetto - sollevato da più esposti, presentati dall'associazione di consumatori Adusbef e da alcuni giornalisti del Sole24Ore - è che almeno a partire dal 2012 i dati di diffusione del quotidiano siano stati gonfiati, di modo da falsare il mercato pubblicitario. In particolare, acquisti fittizi di oltre 100mila abbonamenti dogitali sarebbero stati fatti da società in qualche modo riconducibili a manager ed ex manager del gruppo, fra cui l'anonima britannica Di Source Limited. Nei mesi scorsi, su indicazione dei pm, la guardia di finanza aveva acquisito documentazione dalla società di consulenza Kpmg, incaricata di certificare i bilanci del gruppo editoriale di Confindustria. Un'indagine parallela a quella della procura è stata aperta anche dalla Consob. Sempre nell'ambito dell'inchiesta, lo scorso novembre la procura di Milano ha sentito Mauro Bini, professore ordinario della Bocconi, incaricato per anni dal Gruppo 24 Ore di svolgere gli impairment test (la valutazione degli attivi). Secondo uno dei tre esposti presentati alla Consob dal giornalista Nicola Borzi, l'ultima perizia di Bini sul patrimonio dell'editrice "avrebbe dato un esito iniziale negativo, nel senso che avrebbe evidenziato una svalutazione patrimoniale nell'ordine dei 50 milioni, di dimensioni comunque tali da intaccare sensibilmente il patrimonio societario" e, per tenere nascosto il crollo patrimoniale, "esponenti di rilievo e dirigenti del gruppo avrebbero chiesto all'estensore o a terzi di rivedere i risultati di questa perizia in senso non pregiudizievole alla propria stabilità patrimoniale". Per quanto riguarda la contestazione dell'appropriazione indebita, il sospetto della procura è che i soci occulti di Di Source fingessero l'attività di distribuzione e promozione degli abbonamenti digitali, trattenendo come compenso importi per servizi che di fatto non fornivano. Fra questi, anche Airoli, Biella e Quintarelli che a vario titolo e in momenti diversi hanno ricoperto ruoli e cariche nel gruppo 24 Ore. Fra il 2013 e il 2015, i soci occulti avrebbero così intascato senza averne titolo 3 milioni di euro, in danno al Gruppo 24 Ore, che risulta parte lesa. Nell'inchiesta rientra anche la gestione delle copie cartacee del quotidiano di viale Monterosa. Una parte delle copie stampate ogni giorno sarebbe infatti stata inviata direttamente dalla tipografia al macero, per fare risultare alti i dati di tiratura e diffusione. Si tratta di migliaia di copie, stampate solo per "far numero" e non transitate nemmeno dal circuito delle edicole e degli abbonamenti. Ma sarebbe comunque un traffico marginale, rispetto al "trucco" contabile messo in atto per quanto riguarda le copie digitali. La società interviene con una nota: “Con riguardo alle iniziative assunte in data odierna dall'Autorità giudiziaria di Milano, i nuovi vertici del Gruppo 24 ORE - impegnati come noto nell'azione di risanamento e di rilancio della società - ribadiscono la propria volontà a fornire agli organi inquirenti la massima collaborazione per l'accertamento dei fatti, confermando che agiranno con determinazione a tutela degli interessi della società”.

Esclusivo – Sole 24 Ore, il documento sull’accordo segreto tra Benedini, Treu e Napoletano, scrive Giuseppe Oddo su "La Repubblica" il 10 marzo 2017. Il fatto più eclatante, nell’inchiesta della Procura di Milano contro Il Sole 24 Ore, dove sono indagate dieci persone tra ex amministratori ed ex alti dirigenti del gruppo, è il coinvolgimento di Roberto Napoletano, attuale direttore responsabile del quotidiano economico di Confindustria. La posizione di Napoletano, che in quanto direttore editoriale del Sole 24 Ore riveste nello stesso tempo un ruolo manageriale, appare allineata a quella dell’ex presidente Benito Benedini e dell’ex amministratore delegato Donatella Treu. Tutti e tre sono infatti sospettati di false comunicazioni sociali. Vedremo di quali elementi a loro carico dispone la Guardia di Finanza, che ha trascorso la mattinata ad acquisire documenti nella sede milanese del giornale, compresa la stanza del direttore, proprio mentre il top management e alcuni esponenti di Intesa Sanpaolo s’incontravano per discutere del piano industriale propedeutico all’aumento di capitale. Certo è che tra Benedini e Treu da una parte, che rappresentavano il vertice del gruppo, e Napoletano dall’altra il legame era forte. E non riguardava soltanto le questioni strettamente editoriali. Siamo riusciti a procurarci proprio in queste ore il testo della scrittura privata del 3 febbraio 2015 – che avrebbe dovuto assicurare al direttore una mega-liquidazione in caso di licenziamento senza giusta causa – sottoscritta in gran segreto da Benedini e Napoletano senza che il consiglio d’amministrazione, il collegio sindacale e gli azionisti ne sapessero alcunché. E con grande sorpresa emerge un fatto nuovo. Leggiamo nella lettera inviata da Benedini il 4 febbraio all’estensore del documento, l’avvocato Giacinto Favalli, dello studio Trifirò: “In allegato le rimetto l’originale della scrittura privata… la cui bozza è stata redatta dal suo studio, firmata per accettazione dal direttore editoriale de Il Sole 24 Ore Spa. Per ragioni di riservatezza, la prego di voler tenere questa scrittura presso il suo studio, e la stessa potrà essere richiesta sia dall’amministratore delegato de Il Sole 24 Ore che dal dott. Roberto Napoletano nel caso si avveri quanto previsto ai punti 2.1 o 3.1…” (sopra, il documento). Ne desumiamo che del documento fosse dunque a conoscenza anche Donatella Treu, all’epoca amministratore delegato del Sole 24 Ore. Come sappiamo, in seguito, il direttore Roberto Napoletano rinunciò a qualsiasi pretesa derivante dalla scrittura privata, ritenendola superata. Ma è comunque interessante conoscerne il contenuto, soprattutto ora che l’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore di Milano Gaetano Ruta e dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale è entrata nel vivo. Al punto 2.1 della scrittura privata leggiamo: “In caso di recesso da parte della società non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo, la società sarà tenuta a corrispondere al dott. Napoletano, in aggiunta all’indennità sostitutiva del preavviso prevista dal contratto nazionale di lavoro, a titolo di indennizzo, e, comunque, di importo transattivo relativo alla risoluzione del rapporto,…una somma lorda forfettaria e onnicomprensiva pari a 36 mensilità della sua retribuzione lorda fissa (ad oggi pari a euro 750.000 lordi su base annua)” (v. documento sopra). In sostanza, in caso di licenziamento senza giusta causa l’azienda avrebbe dovuto versare a Napoletano una buonuscita pari a tre anni di stipendio lordo, ovvero 2 milioni 250mila euro, in aggiunta all’indennità sostitutiva del preavviso e al Tfr maturato dal 15 marzo 2011. L’altra sorpresa è nel punto 3.1 della scrittura privata (sopra), richiamato non a caso da Benedini nella lettera allo studio Trifirò: “Qualora il dott. Napoletano…recedesse dal rapporto a seguito…dell’acquisizione del controllo della società da parte di terzi diversi dagli attuali azionisti di controllo, per tali intendendosi anche singoli azionisti attuali di minoranza…, la società, in deroga a qualsivoglia disposizione di legge o del contratto nazionale di lavoro, sarà tenuta a corrispondere al dott. Napoletano a titolo di indennizzo e, comunque, di importo transattivo…, una somma forfettaria e onnicomprensiva pari a 24 mensilità…”. Quindi, se l’azionariato di controllo del Sole 24 Ore fosse cambiato o se nel controllo del giornale fossero entrati singoli soci di minoranza diversi da quelli attuali, il direttore Napoletano avrebbe potuto recedere dal proprio contratto, ottenendo due anni di retribuzione lorda: un milione e mezzo di euro, più le altre spettanze. Il perché di questa clausola è un mistero. Chi era questo misterioso socio che avrebbe potuto stravolgere il controllo azionario del Sole 24 Ore e che sarebbe potuto risultare sgradito a Napoletano? Il Sole 24 Ore non è una società contendibile. L’ingresso di un eventuale nuovo socio di controllo sarebbe dovuto passare per gli organi di governo di Confindustria, a partire dal suo presidente, che allora era Giorgio Squinzi, con il quale Napoletano è stato in totale sintonia fino ai primi mesi del 2016. Cosa sapeva Confindustria di questa faccenda? Perché Napoletano chiese, e Benedini acconsentì, che fosse inserita anche questa clausola nella scrittura privata? Questo socio è ancora in ballo, potrebbe presentarsi all’aumento di capitale prossimo venturo? Qualcuno dovrebbe spiegarlo al mercato. Intanto i giornalisti del Sole 24 Ore riuniti in assemblea il 10 marzo hanno votato quasi all’unanimità, con soli 4 voti contrari, lo sciopero a oltranza chiedendo la rimozione del direttore.

LE SPECULAZIONI ELITARIE.

Inquisizione medievale su Maria Elena, scrive Vittorio Emanuele Falsitta, Domenica 17/12/2017 su "Il Giornale". Continuo a pensare che nella vicenda Banca Etruria: a) la cosa più rilevante sia risarcire chi ha sofferto il danno patrimoniale; b) che sopra gli aspetti giuridici procederà la magistratura e farà quanto è formalmente giusto; c) che la politica debba ricercare un impianto rigoroso di diritto penale bancario e consentire al magistrato di intervenire con efficacia così da evitare in futuro quanto accaduto; d) che ogni questione fuori da tale contesto sia teatro. Teatro, dunque, anche l'inquisizione di Maria Elena Boschi. L'Italia e gli Stati sono attraversati da una rapida metamorfosi sociale che porta con sé effetti ancora sconosciuti; vi sono problemi alti come le montagne, oscurano il Sole e chiedono autorevolezza nell'agire. E allora tre domande: sono così significativi i colloqui di Maria Elena Boschi, a margine della vicenda Etruria, da preferirli al dibattito sopra ciò che condizionerà nei prossimi anni la nostra vita? È davvero più importante stabilire se ha mentito su sfumature e pieghe sottili che, in concreto, risulterebbero comunque prive di peso? Non basta il buon senso a convincersi che, nel caso, avrebbe discusso come un diligente sottosegretario - su quale soluzione vi fosse in campo per aiutare chi ha subito il torto piuttosto che su come infierire? Eppure no. Torniamo a scansare le cose grandi per abbracciare quelle piccole, la nanopolitica. Quasi tutte le Tv e i giornali, tirati in ballo, impongono la faccenda fin dalle loro introduzioni con vistosi titoloni, interviste e primi piani cinematografici. Una eruzione pompeiana: l'esplosione rumorosa e bollente di quanto cresceva e si agitava da lunghi mesi nei sottosuoli bui e negli ambulacri viscidi della politica corta, appunto, quella che ha occhi sui piedi. Ciò a cui assistiamo, tuttavia, non deve meravigliare; se osserviamo il fenomeno da vicino, senza suggestione, non è un dibattito ma una sassaiola: calca e sudore, polvere alzata da terra, urla, dita puntate e tanta bava alla bocca. Non può meravigliare alcuno perché ciò che vediamo è l'immagine di noi stessi. Di quanto siamo divenuti. E l'avere messo da parte, in questa campagna elettorale, i gravi temi per dare luogo privilegiato alla tribale sassaiola e ai suoi corollari, la dicono lunga su quale nazione siamo oggi. Forse, unico autentico motivo d'indignazione. Che sulle parole specifiche di Maria Elena Boschi, le sue pause, le pieghe del viso, la posizione delle mani e altri segni forse usati durante i colloqui con amministratori e politici (dai quali segni, poi, dedurne - come tanti riediti Hercule Poirot - le cose non dette) fosse sceso il buon senso. Giudicare non su prove ma su indizi e per di più, ricavati da interpretazioni che trasudano l'influenza di un animo di parte, è uno spettacolo medievale. E ulteriore segno di inciviltà che non vorremmo vedere esibito proprio dai pochi che, per contro, dovrebbero dare esempio ai molti. La politica, per favore, si dia il colpo d'ala!

Le solite (false) affermazioni di Travaglio sul commissariamento di Banca Etruria, scrive il 17 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". L’ AGI-Agenzia Italia ha verificato le dichiarazioni della sottosegretaria alla presidenza del Consiglio rese a Otto e Mezzo durante il confronto col direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che ancora una volta ha detto delle inesattezze. Il commissariamento l’ha fatto il governo perché, come sa, è un decreto che firma il ministro dell’Economia. Quindi è inutile dire che non è un atto del governo. Lo scorso 14 dicembre nel programma Otto e Mezzo condotto da Lilli Gruber sul La7 è andato in onda un duro scontro tra il poco elegante ed arrogante direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, a proposito della questione Banca Etruria. Travaglio ha attaccato la Boschi (min. -15.52): “È ora che la finiate di raccontare balle, a commissariare Banca Etruria è stata Banca d’Italia e il suo governo ha avallato una decisione della Banca d’Italia”. La Boschi, rispondendo sul punto, gli ha replicato: “Il commissariamento l’ha fatto il Governo perché, come sa, è un decreto che firma il ministro dell’Economia. Quindi è inutile dire che non è un atto del governo”. E Marco Travaglio manifestando una evidente carenza ed ignoranza di come funzionano le istituzioni, ha nuovamente ribadito: “Certo, recependo un ordine di Banca d’Italia”. Cerchiamo dunque di fare la necessaria chiarezza su di chi sia la reale responsabilità decisionale per il commissariamento di Banca Etruria.

L’atto di commissariamento di Banca Etruria. Come ampiamente già raccontato, è vero che il vicepresidente di Banca Etruria – Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena –, e con lui tutto il consiglio di amministrazione, sia stato commissariato dal Governo Renzi. Per la dovuta corretta informazione è bene ricordare che l’atto di commissariamento è contenuto nel decreto n. 45 del 10 febbraio 2015 del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Come si legge nel comunicato diBanca Etruria, il ministero dell’Economia ha disposto il commissariamento soltanto “su proposta della Banca d’Italia” e, in particolare, ai sensi dell’art. 70 co. 1 lett. B) del Testo Unico Bancario. Quindi contrariamente a quanto sosteneva il “travagliato” direttore del Fatto Quotidiano, nessun ordine è stato mai impartito da Banca Italia al Governo.  Infatti il commissariamento viene disposto congiuntamente dalla Banca d’Italia, che lo propone, e dal Governo, che di fatto decide ed emette il necessario decreto. Per capire, meglio tuttavia, su chi gravi la responsabilità è necessario verificare se l’indicazione di Banca d’Italia sia vincolante – come affermava lo stesso Travaglio, quando parlava di “un ordine” – oppure no.

La sentenza del Consiglio di Stato. Con la sentenza 9 febbraio 2015, n. 657 il Consiglio di Stato, organo di ultima istanza della giustizia amministrativa, emanata quindi prima che entrasse in vigore la nuova disciplina dell’art. 70 TUB, ha fatto chiarezza sulla questione. In sentenza riguardo all’art. 70 TUB (testo unico bancario) si legge, : “Ruolo primario viene conferito alla Banca d’Italia, la quale propone al Ministro dell’Economia e delle Finanze lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo di una banca al ricorrere di tassative condizioni. Ricevuta la proposta, il Ministro dell’Economia e delle Finanze “può disporre” con decreto detto scioglimento: questa facoltà di scelta implica una valutazione discrezionale – o, meglio, di opportunità – che il Ministro è tenuto ad effettuare sulla base della proposta avanzata dall’autorità di vigilanza”. Quindi è evidente che i giudici amministrativi attribuiscono al Governo una facoltà discrezionale rispetto a quanto proposto da Banca d’Italia. Così proseguono i giudici amministrativi: “L’obbligatorietà della proposta della Banca d’Italia non impone al Ministero dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto, in quanto l’ordinamento gli attribuisce la facoltà di discostarsi dalla proposta stessa qualora non ritenga sussistenti i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria”. Detenendo il potere esecutivo questa facoltà secondo i giudici è suo dovere condurre una istruttoria autonoma sulla questione se commissariare o meno la banca, non potendo fare integralmente affidamento su quanto accertato da Banca d’Italia. Nel caso in questione, relativo alla Banca Popolare di Spoleto il ministero aveva visto bocciare il proprio decreto di amministrazione straordinaria proprio perché aveva semplicemente accolto l’istanza di Banca d’Italia senza condurre una propria indagine autonoma.

Conclusione. Il commissariamento di Banca Etruria è stato disposto in base alla normativa che era in vigore all’epoca, dal Ministero dell’Economia su proposta della Banca d’Italia. Come abbiamo visto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (oggi obsoleta, ma ancora valida all’epoca dei fatti) è molto netta nel sottolineare il carattere discrezionale del potere esecutivo del Governo, che anzi è tenuto a condurre indagini proprie al preciso scopo di potersi – eventualmente – discostare dalle proposte formulate da Banca d’Italia.  Quindi ha assolutamente ragione Maria Elena Boschi a rivendicare al Governo il merito di aver commissariato Banca Etruria, in quanto in proposito la proposta di Banca d’Italia non era vincolante e la decisione finale è ricaduta sull’esecutivo. Non risulta che ci sia stato “un ordine” di Banca d’Italia, né che si possa attribuire esclusivamente all’istituto di Palazzo Koch la responsabilità del commissariamento.

Boschi: «La mia verità sulle banche. Fu Gentiloni a chiedermi di restare», scrive Barbara Jerkov Lunedì 18 Dicembre 2017 su “Il Messaggero".

Sottosegretaria Boschi, lei ha sempre amato parlar chiaro. Partiamo proprio da qui, allora: lei è diventata il problema del Pd?

«Il Pd ha molti problemi, come tutti i partiti democratici europei. Ma continuo a pensare che sia l’unica speranza per il futuro del Paese contro gli estremismi M5S e della destra. E ancora oggi siamo, persino nei sondaggi negativi, il primo gruppo parlamentare della prossima legislatura. Quanto a me: vogliono far credere che il problema delle banche sia io. Ma è una strumentalizzazione tanto meschina quanto evidente. Sono un volto facile da colpire. Ma dopo due anni di ricerca ossessiva nessuno ha potuto smentire ciò che dissi in Parlamento sulle banche. E nessuno parla più di pressioni o favoritismi. La verità arriva, basta non avere fretta».

Premier e segretario hanno detto che lei verrà ricandidata senza se e senza ma. Nel Pd però tanti non sono dello stesso parere e tifano, dietro le quinte, per un suo passo indietro. Per il ministro Orlando sulla sua candidatura bisogna ragionare. Ha deciso cosa farà e dove correre?

«Sarà il Pd a decidere se e dove candidarmi. E’ una regola che vale per tutti nel nostro partito che, a differenza degli altri, decide le candidature democraticamente nei propri organi statutari».

Quella che si apre oggi è una settimana chiave per la Commissione banche. Alla luce di queste ultime settimane, pensa sia stato un errore da parte del Pd insistere perché questa commissione si svolgesse, tanto più così a ridosso della campagna elettorale?

«Il Pd per primo ha chiesto che venisse istituita la Commissione di inchiesta già alla fine del 2015. I tempi parlamentari hanno portato ad insediare la Commissione a ridosso della campagna elettorale. La Commissione sta offrendo però spaccati della storia del sistema bancario italiano degli ultimi 15 anni molto interessanti. Certo il clima da campagna elettorale rischia di far perdere ai cittadini un’occasione preziosa per fare chiarezza perché le opposizioni stanno usando la Commissione per una sorta di regolamento dei conti politico. Viene usato il mio nome, e la vicenda di Etruria, come paravento per non andare ad indagare sui veri scandali. Ma le persone perbene non hanno paura della verità. Il governo a guida Pd ha penalizzato la mia famiglia, non l’ha aiutata: mio padre è stato commissariato e mandato a casa, mio fratello si è licenziato. Dov’è il favoritismo? Ma così facendo abbiamo salvato i risparmi di migliaia di correntisti: giusto così».

L’opposizione chiede che anche lei venga chiamata a rispondere. Cosa replica?

«Deciderà il presidente della Commissione. Se riaprono le audizioni, io sono a disposizione. A me la verità non fa paura, mai».

Vegas ha parlato di un suo interessamento diretto per Etruria.

«I ricordi di Vegas mi sono sembrati stranamente selettivi. Chi ha seguito la sua audizione potrebbe stupirsi davanti a certi “Non ricordo” anche su episodi molto recenti. Ma è stupefacente che l’azione del capo della Consob di questi sette anni faccia notizia per il pranzo che mi ha offerto al ristorante a Milano e non per tutto il resto. Sette anni alla Consob e quali anni: di tutto pare restare soltanto qualche incontro con la Boschi. Chissà perché...».

Lei ha detto di avere degli sms in cui Vegas le proponeva di incontrarsi in orari e luoghi, come dire, poco istituzionali. Come mai li ha conservati tutto questo tempo? E cosa pensò, all’epoca di questo tipo di invito?

«Non cancello spesso gli sms. Ne ho quindi molti in memoria, anche con altri esponenti del mondo del credito e del giornalismo. Non solo quelli con Vegas. Dal momento che mi sembrò insolita la richiesta di vederci a casa sua alle 8 del mattino, chiesi che l’incontro si svolgesse al ministero o in Consob. Non sta a me dire perché Vegas lo propose, certo io non accettai. Quanto alla serietà istituzionale di Vegas ricordo che già indicato come capo dell’Autorità di vigilanza partecipò al voto di fiducia al governo Berlusconi. E non aggiungo altro».

Domani in Commissione verrà sentito il governatore di Bankitalia Visco: è vero che lei incontrò che il vicedirettore generale di Bankitalia Panetta? Avete parlato anche di Etruria?

«Sì, certo. Come ho parlato con Panetta più volte delle crisi di altre banche. Da MPS alle popolari venete, sia nel mio precedente ruolo che in quello attuale con il governo Gentiloni. Non so dirle con quanti altri ministri Panetta abbia parlato oltre a me, sicuramente con Renzi e con Padoan, forse con altri. Con me è sempre stato molto istituzionale. Ovviamente anche con lui, nessuna pressione ma solo il necessario scambio di informazioni. Se poi interessa posso fornire elenco dettagliato di tutto il mondo bancario che ho incontrato in quattro anni al governo, da Mustier a Miccichè, da Costamagna ai responsabili delle Banche di credito cooperativo. E raccontare le discussioni sui singoli punti, sugli emendamenti. Non ho capito però se la Commissione di inchiesta vuole discutere degli scandali bancari di questi anni o della mia agenda».

L’audizione dell’ex ad Consoli ha confermato la sua presenza, seppur silenziosa, al vertice a casa di suo padre con alcuni consiglieri di Etruria e Ad e presidente di Veneto Banca. Non pensa che la sola presenza di un ministro in carica, quale era lei nella Pasqua 2014, potesse configurare un interessamento di fatto per la vicenda?

«Quando vado a Laterina dormo a casa dei miei. Ero in casa, sono arrivati degli ospiti di mio padre, li ho salutati con educazione. Come devo dire che sono stati molto educati loro. Come ha dichiarato Consoli non ho partecipato ad alcuna riunione, non sono intervenuta ed in seguito non l’ho più visto, né incontrato. Che questa sia da tre giorni la notizia di molti giornali mi suona incredibile. E io che pensavo che gli scandali fossero altri».

Mercoledì sarà la volta di Ghizzoni. De Bortoli nel suo libro ha dato una versione di un suo incontro con l’ex Ad di Unicredit legato al salvataggio di Etruria. Lei ha sempre negato pressioni, Ghizzoni non ha mai confermato né smentito. Vuole chiarire una volta per tutte?

«Più volte ho incontrato Ghizzoni per il mio ruolo istituzionale, nel caso di specie perché da lui invitata a un appuntamento Unicredit a Milano. L’ho poi visto più volte a Roma. Con Ghizzoni abbiamo parlato del sistema bancario, non solo di Banca Etruria o Unicredit. Non ho mai fatto pressioni perché Unicredit comprasse Banca Etruria, né avrebbe potuto accettarle un Amministratore delegato di una importante banca quotata. I nostri rapporti sono sempre stati corretti. E per quello che ne so il rapporto di Ghizzoni con altri membri del governo era altrettanto corretto come ha dimostrato la vicenda di Atlante seguita direttamente dal premier Renzi e dal ministro Padoan con Ghizzoni e non solo con lui. Quanto a De Bortoli, c’è un procedimento aperto, ci vedremo in Tribunale».

Ha mai pensato che se dopo la sconfitta referendaria anche lei avesse lasciato tutta questa tempesta non si sarebbe scatenata?

«Non credo di svelarle un segreto se le dico che io per prima volevo andarmene. Il presidente Gentiloni ha insistito perché fossi al suo fianco e ha fatto affidamento sul mio senso istituzionale. Gentiloni, non altri. Avrei voluto essere giudicata sulla base dei risultati, non delle chiacchiere e degli insulti. Su banca Etruria ho solo detto la verità, a partire dal discorso in Parlamento. E la mia famiglia non ha ricevuto vantaggi dalla mia attività istituzionale, anzi. Può qualcuno smentirmi su questo? Nessuno. E allora mi tengo stretta la verità e vado avanti. Anche se tanto odio ingiustificato fa male».

Travaglio, ossessione Boschi: "La minigonna con lo scioscio...", la vignetta da scandalo, scrive il 16 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano”. Ha scatenato feroci polemiche l'ultima vignetta pubblicata sul Fatto quotidiano che prende di mira la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Il vignettista Natangelo ha ritratto l'ex ministra in quattro situazioni diverse, in base al "gradi di difficoltà" vissuto dalla Boschi, misurati con il "cosciometro": "Misurando l'altezza della gonna - si legge nella vignetta - permette di capire a che livello di difficoltà è la Boschi". 

La vignetta sul «cosciometro» della Boschi, polemica in Rete: «È sessista e volgare». È polemica sui social dopo la vignetta pubblicata da «Il Fatto Quotidiano» che allude a un cambio di abbigliamento della sottosegretaria in seguito a problemi e alla luce dello scontro su Banca Etruria. «Il cosciometro» criticato da politici e utenti, scrive il 17 dicembre 2017 “Il Corriere della Sera”. Mentre si susseguono le tensioni — fuori e dentro il Pd - sul suo ruolo nella vicenda di Banca Etruria (qui lo scoop di Fiorenza Sarzanini che rivela l’incontro tra Boschi e il numero 2 di Bankitalia) È polemica sulla vignetta che rappresenta quello che viene definito «il cosciometro» di Maria Elena Boschi. Dopo l’intervento della sottosegretaria al Consiglio dei Ministri a «Otto e Mezzo» e lo scontro in tv con Marco Travaglio, ecco un altro attacco alla ex ministra.

La vignetta. «Utile strumento che misurando l'altezza della gonna, permette di capire a che livello di difficoltà e la Boschi» si legge nell'intestazione della vignetta che ritrae l'ex ministra in quattro versioni diverse: il tailleur pantalone blu del giorno del suo giuramento nel governo Renzi, poi un tailleur gonna poco sotto il ginocchio, quindi una gonna più corta e infine un abitino scollato e con la gonna cortissima, «Mi attaccano in quanto donna» il presunto commento della sottosegretaria.

Lo scontro con Travaglio. La vignetta fa satira a partire da alcune dichiarazioni di Boschi che, proprio in trasmissione a «Otto e Mezzo» mentre parlava del caso Banca Etruria dopo l'audizione del presidente della Consob, Vegas, ribatteva a Marco Travaglio. Il giornalista la accusava di aver mentito con pressioni non palesate, ma comunque dirette ad interferire con la vicenda, in quanto il padre era direttamente coinvolto. «Se fossi stato un uomo non mi avrebbe riservato questo trattamento. Lei mi odia» aveva detto Boschi. «Berlusconi è un uomo e gli ho detto le stesse cose per 20 anni. Non mi faccia ridere» ribatteva Travaglio. Ma Boschi non si fermava lì: «Lei ha scritto editoriali sin dal primo giorno su di me. E in quegli articoli vengo attaccata per l'aspetto fisico e per qualsiasi altro elemento. Ha fatto i soldi andando in giro nei teatri italiani, con un'attrice poco vestita, che in qualche modo mi scimmiottava» diceva la sottosegretaria.

Le polemiche in Rete. Ed ecco la vignetta che, di nuovo, prende di mira la 36enne. E sul web si scatena la polemica con le voci di politici e utenti comuni tra chi difende la vignetta di Mario Natangelo e il diritto di satira e chi difende la ex ministra, il suo ruolo e il suo modo di porsi in quanto donna.

Boschi a Travaglio: hai fatto i soldi con una finta me a teatro, scrive Venerdì, 15 dicembre 2017 "Affari Italiani". Maria Elena Boschi accusa Marco Travaglio durante Otto e Mezzo: "Hai fatto i soldi a teatro con un'attrice svestita che mi scimmiottava". Scontro acceso sul caso Banca Etruria tra la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi e il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio a Otto e mezzo su La7. "Un'azione di risarcimento danni le arriverà a breve, risponderà delle bugie", dice Boschi. Che poi accusa Travaglio di sessismo: "Se fossi stata uomo non mi avrebbe riservato quel trattamento, lei ha fatto i soldi andando in teatro con una donna poco vestita che ricordava in qualche modo me". Ma Travaglio non si scompone e risponde che Silvio Berlusconi è un uomo e lo ha attaccato per 20 anni.

La Boschi tiene testa a Travaglio a Otto e mezzo, scrive il 14 Dicembre 2017 "Lineapress.it". “Non è giusto subire aggressioni sul nulla, ma non mi fanno certo paura. E voglio che tutti sappiano la verità. Dopo due anni di strumentalizzazione adesso basta. Ho chiesto a Lilli Gruber di ospitarmi stasera a Otto e Mezzo insieme a Marco Travaglio”. Così Maria Elena Boschi aveva chiuso il suo messaggio proprio mentre infuriava la bufera su Banca Etruria, subito dopo le dichiarazioni del presidente Consob nella commissione Banche. E così è stato, il Ministro parte subito in quarta, rispondendo alla domanda di Lilli Gruber sulla sua volontà di dimettersi o meno: “Non mi dimetto, le opposizioni sono due anni che ripetono la stesa cosa. Quello che ho detto in parlamento lo ribadisco: non c’è stato alcun favoritismo nei confronti della mia famiglia, anzi il governo ha mandato a casa quel Cda, in cui c’era mio padre. Inoltre è intervenuto per salvare i 2000 posti di lavoro ed i correntisti, purtroppo per le regole europee non è stato possibile intervenire sugli obbligazionisti, ma abbiamo previsto fondo di recupero dell’80%”. Poi lancia una provocazione: “Perchè non si cerca la verità su quello che è successo al sistema italiano ma ci si nasconde dietro l’alibi della Boschi per non individuare i responsabili veri? Se ci sono stati dei limiti da parte della vigilanza va accertato, quello che non è giusto è che non si parli dei veri problemi del sistema bancario ma di Banca Etruria e Maria Elena Boschi”. A questo punto interviene il Direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio che è andato subito al sodo: “A quale titolo la boschi interveniva? A quale titolo si occupa di banche, o meglio di una sola banca, Banca Etruria, perchè si occupa solo di questa banca? Se non è conflitto di interessi quale è il conflitto di interessi?” Secca la risposta della Boschi: “Travaglio è un bugiardo, dice cose che non stanno né in cielo né in terra. Vegas ha detto che non ho mai fatto pressioni ed è stato lui stesso a ribadirlo. Non c’è alcun conflitto di interessi e l’ha detto l’antitrust. Poi vorrei sapere che favori ho ricevuto? Quale è il favore nell’aver mandato a casa il Cda di cui faceva parte mio padre? Quale è il favore fatto a mio fratello che non lavora più in quella banca? o alla mia famiglia che aveva azioni solo per 10mila euro? Travaglio non può trasformare l’odio verso di me in una battaglia politica, cerchiamo almeno di rispettare la verità dei fatti!”. Qui Marco Travaglio risponde a tono, specificando prima quali siano i suoi sentimenti: “Dei miei sentimenti non frega assolutamente niente a nessuno io faccio il giornalista. Era Berlusconi che ha introdotto l’odio e l’amore in politica e dato che l’ho combattuto per 20 anni e ho visto tanti sepolcri imbiancati del centrosinistra sventolare il conflitto di interessi, mi aspetterei un atteggiamento diverso. Per questo sostengo che un ministro che incontra Consob la cui nomina è governativa sta esercitano una pressione, perchè non ha bisogno di avere alcuna pistola, gli basta essere un ministro”. Poi viene al ruolo della Boschi che, a suo dire, non ha competenze per occuparsi di Finanze. “Della crisi delle banche parla il ministro delle Finanze, Boschi è un ministro che non c’entra niente con le vicende finanziarie e va a parlare con il capo dell’Autority al quale non dovrebbe neanche avvicinarsi. Lo stesso Vegas dice ha sbagliato persona perchè la Consob non è competente per le fusioni bancarie. Questa è solo una delle tante vicende che dimostrano la sua entrata a gamba tesa. Per il suo dovere di imparzialità non avrebbe dovuto metter il becco e per questo quando è andata in Parlamento ha mentito. In un paese serio la sua carriera politica sarebbe finita oggi”. Anche qui la Boschi non si scompone e risponde a tono: “Non ho sbagliato, non ho chiesto nulla che eccedesse il mio ruolo istituzionale, e proprio per il mio ruolo l’ho incontrato così come ho incontrato altri responsabili, rispettando sempre il mio ruolo! Quella con Vegas è stata una chiacchierata a fronte della quale Banca Etruria, pochi mesi dopo, è stata commissariata… voglio capire quale sia la corsia preferenziale e quale il favoritismo? Aver fatto una chiacchierata?”

Solo Dostoevskij può spiegare la corsa dei politici in tv dal pm Travaglio. Da Ciancimino jr. ai nuovi depistatori, così il giornalista più che un Inquisitore è diventato il protettore dei pataccari, scrive Guido Vitiello su "Il Foglio” il 15 Dicembre 2017. I tribunali dei talk-show funzionano a pieno regime da un quarto di secolo senza uno straccio di codice di procedura; ma se qualcuno mi dà una mano con il latino suggerisco di piantare almeno la bandierina di un brocardo, traducendo una frase di Rodolfo Wilcock che ogni imputato televisivo dovrebbe stamparsi nella mente: “L’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori”. Questo ho pensato quando Maria Elena Boschi ha chiesto di rendere dichiarazioni spontanee...

Una triste gara tra bugiardi. Per la seconda settimana Panorama inchioda i protagonisti della vicenda Boschi. Ma la vicenda viene ignorata. E cade nel silenzio, scrive il 29 gennaio 2016 Giorgio Mulè su Panorama”. Per la seconda settimana ci occupiamo con la storia di copertina del caso Boschi. Lo facciamo perché nuovi documenti e nuove circostanze inchiodano i protagonisti di questa vicenda alle loro responsabilità. Ai lettori di Panorama non sarà sfuggito che i telegiornali nazionali, al contrario di tutti i quotidiani, hanno ignorato la vicenda. Il perché è chiaro anche a un bambino: la narrazione renziana non accetta alcuna nota stonata che possa disturbare la dolce e fallace melodia del premier. Decidere di assecondare questa marcetta è problema di coscienza (deontologica e personale) che ognuno vedrà di risolvere con se stesso. Di certo è assai significativo che non una parola, foss'anche per accusare Panorama di aver montato strumentalmente un caso (un classico, insieme alla sempiterna gnagnera della "macchina del fango"), sia stata pronunciata sulla vicenda dai prolifici gendarmi renziani. Anche in questo caso il busillis è di assai facile soluzione: i fatti non si possono smentire neppure con una spericolata arrampicata semantica. I nuovi elementi che offriamo in questo numero stanno lì, copiosi, a suggerire ai protagonisti di trarre ognuno per la propria parte le conclusioni. L'immagine che ritrae il 24 ottobre 2013 Pier Luigi Boschi, all'epoca indagato dalla Procura di Arezzo per estorsione, in platea a seguire un convegno organizzato dalla stessa Procura mentre il suo "inquisitore" Roberto Rossi disquisisce di "imprese e legalità" con l'onorevole Maria Elena Boschi in prima fila, vale più di ogni editoriale. In quell'istantanea manca solo l'avvocato aretino Giuseppe Fanfani, difensore di Boschi, che ritroviamo oggi al Consiglio superiore della magistratura - indicato dal Pd di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi - nella veste di "giudice" che dovrà decidere se trasferire ad altra sede il magistrato che indagò sul suo assistito. Il Csm è organo indipendente di rilevanza costituzionale ed è la sede dove va tutelata l'autonomia e l'indipendenza della magistratura: l'avvocato Fanfani, a fronte del diniego assoluto di Rossi pronunciato proprio davanti alla prima commissione del Csm di conoscere alcun membro della famiglia Boschi, avrebbe avuto il dovere di segnalare che la circostanza era quantomeno inesatta essendo stato lui "controparte" di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Pier Luigi Boschi. Non lo ha fatto e così è venuto meno al suo ruolo di "garante": non basta adesso cavarsela magari con una pilatesca astensione quando il plenum del Csm (che solo grazie a Panorama ha evitato in extremis di archiviare tutto) sarà chiamato a votare se trasferire o meno Rossi. Su Fanfani pesa l'ombra di un favoritismo (familismo, stavo per dire), rileggendo oggi chi lo ha voluto al Csm, francamente insopportabile per il decoro delle istituzioni. Va da sé che anche la presenza di Rossi come titolare delle indagini su Banca Etruria (di cui Pier Luigi Boschi è stato vicepresidente già sanzionato da Banca d'Italia con una multa di 144 mila euro) è imbarazzante alla luce delle rivelazioni di Panorama e non garantisce la serenità delle parti offese, cioè i risparmiatori, rispetto alla sua autonomia e indipendenza. E in ultimo eccoci al ministro Maria Elena Boschi, silente dopo il nostro scoop. Atteniamoci alla sua versione sulla totale "purezza" del padre, che però presuppone che: nulla sapesse che il babbo aveva definito nell'aprile 2014 un procedimento penale per dichiarazione infedele (volgarmente chiamata evasione fiscale) grazie al pagamento di una multa a fronte di un versamento in nero di 250 mila euro; nulla sapesse che quella multa era legata a un'inchiesta iniziata nel 2010 e condotta dal procuratore Rossi il quale aveva fatto anche perquisire la casa dove lei risiedeva con il padre. Mi fermo qui e mi chiedo: come può governare l'Italia un ministro che non sa quello che succede a casa sua?

La strana loggia top secret dell'amico dei papà illustri. Il massone Mureddu è legato ai padri di Renzi e della Boschi. E la sua società occulta è nel mirino dei pm di Perugia da 2 anni, scrive Luca Fazzo, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale".  Ci sono logge e logge: quelle che al primo inciampo in una inchiesta finiscono in prima pagina sui giornali, e altre la cui esistenza viene invece tenuta rispettosamente lontano dai riflettori, anche dopo il loro ingresso in un fascicolo processuale. A restare a lungo sotto traccia è stata, per esempio, la associazione segreta che ruota intorno all'imprenditore aretino Valeriano Mureddu, buon amico sia del padre di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, che di quello di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme. Degli intrecci tra Mureddu e i due illustri papà si parla finalmente da qualche giorno, e negli ambienti governativi l'imbarazzo è pari solo al silenzio. Ma ora si scopre che da quasi due anni, da marzo 2014, la procura di Perugia ha in mano tutte le carte relative alla società occulta guidata da Mureddu, avendole trovate nel corso di una perquisizione presso la sua azienda a Civitella Val di Chiana, una dittarella di nome Geovision specializzata nel commercio di sacchetti e altri articoli in plastica. Ma la modestia dei suoi affari ufficiali non impedisce a Mureddu di allacciare amicizie importanti. Con Tiziano Renzi è praticamente compaesano, avendo vissuto a lungo a Rignano sull'Arno, mentre con Pierluigi Boschi ha stretto amicizia quando il padre di Maria Elena invece che di banche si occupava di vini e cantine sociali. E nei due anni trascorsi dalla scoperta delle carte segrete, gli amiconi di Mureddu hanno continuato a fare carriera. Compresi Tiziano Renzi, Pierluigi Boschi, e soprattutto i loro brillanti figlioli. Eppure nella carte dell'inchiesta della procura umbra compaiono nomi che sono presenze fisse delle indagini che periodicamente, dagli anni '80 in poi, portano alla ribalta l'esistenza di consorterie segrete. Nei contatti di Mureddu c'è per esempio quel Gianmario Ferramonti, politico di insuccesso in area leghista, che esattamente 20 anni fa fu indicato in una indagine della procura di Aosta (battezzata Phoney Money, e finita in nulla) come uomo-cerniera di affari leciti e illeciti che coinvolgevano mezzo firmamento politico dall'Italia all'America; e tra i contatti c'è anche quel Flavio Carboni che era già nelle liste P2, che fu condannato per il crac del Banco Ambrosiano, e che a 84 anni continua a mantenere buoni rapporti con l'Italia che conta: compreso uno dei grandi alleati di Renzi, l'ex coordinatore di Forza Italia Denis Verdini, imputato insieme a lui nel processo P3. Cosa facciano tutti insieme Mureddu, Ferramonti, Carboni e i loro amici, quale sia il core business della nuova loggia scoperta dalla procura di Perugia, è tema un po' fumoso: Mareddu si proclama massone e si vanta di avere lavorato per i servizi segreti, non si capisce per quali e in che veste. «Ho relazioni in giro per il mondo - dice di sé - mi vengono proposti degli affari e io a mia volta li propongo a chi penso che possa portarli a termine». Un faccendiere, insomma. Affari non sempre fortunati e cristallini, visto che anche la procura di Arezzo ha messo il 46enne sardo nel mirino per evasione fiscale. E tra gli affari di Mureddu, quello che ora lo ha portato alla ribalta è quello combinato per conto di Pierluigi Boschi, all'epoca in cui il padre della ministra cercava un direttore generale da piazzare nella Banca dell'Etruria. Come e perché babbo Boschi si sia ridotto a cercare la consulenza di uno come Mureddu è allo stato inspiegabile, e ancora di più lo è la circostanza che si sia fatto convincere a partecipare a un summit nell'ufficio romano di Carboni. E ad accogliere l'idea suggerita dalla coppia Mureddu-Carboni, quella del banchiere Fabio Arpe, portata all'esame del cda, ma bloccata poi dall'ufficio di vigilanza della Banca d'Italia.

L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano" del 20 gennaio 2016. Da ragazzo spaccava ossa giocando a rugby nelle Fiamme oro della Polizia di Stato, oggi le aggiusta nei centri di riabilitazione di cui è proprietario. La voce è gioviale: «Premetto: non sono massone. Io non c’entro nulla». Inizia così la conversazione con il quarantaduenne romano Riccardo Starace, l’uomo che avrebbe dovuto trovare un direttore generale e un fondo arabo per salvare la Banca dell’Etruria. 

Lei conosce Valeriano Mureddu, il «grembiulino» indagato a Perugia per associazione segreta e amico di Flavio Carboni?

«Non l’ho mai visto. Carboni invece lo avevo conosciuto, due settimane prima degli incontri dell’estate del 2014 di cui voi di Libero state scrivendo in questi giorni, al Piccolo mondo antico, un ristorante vicino al suo ufficio romano di via Ludovisi. Il proprietario del locale mi presentò questo signore anziano... era con la figliola». 

Lei sapeva chi fosse Carboni?

«All’inizio no, ammetto la mia ignoranza (ride ndr). Il mio amico mi disse: “Guarda Riccardo è una persona con una grande esperienza, ti può essere utile conoscerlo”. Ho detto: “Va bene”. È cominciata così questa storia».

Perché è rimasto in contatto con Carboni?

«Chiacchierando gli dissi che avevo rapporti con un fondo impegnato nel settore della sanità, l’Enterprises di Sheikh Bin Ahmed Al Hamed. Allora mi parlò subito di un suo progetto, il grafene, un materiale rivoluzionario che dovrebbe servire a pulire e rendere potabile l’acqua, risolvendo il problema della sete in Africa, e mi disse di andare a trovarlo in ufficio. Il suo fu in pratica un monologo. Però prima di andare controllai su Internet chi fosse e vidi che era una persona di un certo peso per la storia dell’Italia, nel bene e nel male».

Ha una condanna di tipo definitivo per il crac del Banco Ambrosiano ed è imputato per la P3...

«Ecco... appunto. Si trattava di cose abbastanza delicate e visto che io ho lavorato sette anni nella Polizia di Stato, ci andai cauto. In ufficio mi coinvolse subito riparlandomi di questa storia del grafene e chiedendomi informazioni sul fondo di Abu Dhabi. Poi mi disse che c’era una banca in difficoltà finanziaria e io gli risposi: “M’informo con gli arabi”».

Non doveva andarci cauto?

«La verità è che io non ho avuto nemmeno il coraggio di parlare di questa cosa a Sheik Alamed, ma con Carboni non potevo essere scortese. Con me fu subito gentilissimo, avvolgente, non avevo motivo per essere scortese con lui. L’avevo visto dieci minuti al tavolo e improvvisamente mi chiedeva di salvare una banca. Le sembrerò un ballista, ma è andata così».

Però lei non parlò solo del fondo con Carboni, ma anche del nuovo direttore generale...

«A un certo punto, in quella chiacchierata di mezz’ora, Carboni mi accennò a una nomina da fare per la banca. Quindi mi chiese il numero di telefono e io a una persona tanto gentile come potevo negarlo? Pensavo che avrei saputo difendermi dalla sue avances... Invece iniziò a bombardarmi di telefonate, anche la domenica: mi chiedeva di questo fondo e poi di ritornare nel suo ufficio. Mia moglie in quel periodo non mi telefonava così tante volte. Poi un giorno ci siamo rivisti, casualmente, in via Ludovisi, subito dopo pranzo. Mi acchiappò sul marciapiede e mi disse: “Come stai carissimo, sali un attimo con me, ti devo parlare della posizione della banca”. E io salii con lui...».

In ufficio c’era anche lo scienziato russo, il presunto coinquilino di Carboni?

«Non ho mai incontrato russi in quello studio. Quando entrammo mi disse: ho delle persone che mi attendono, vieni che te le presento. Io ero nell’imbarazzo più totale».

Chi c’era insieme a Carboni in ufficio?

«Tutti quelli che ha raccontato nell’articolo, così facciamo prima».

L’ex presidente Lorenzo Rosi, il suo vice Pier Luigi Boschi e l’imprenditore Mauro Cervini?

«Sì c’erano loro tre».

E Gianmario Ferramonti, l’imprenditore amico di Licio Gelli?

«Non in quell’occasione, forse in altre...»

Dove erano Boschi e Rosi?

«Erano seduti amabilmente in una grande sala riunioni e Carboni mi ha presentato come un amico imprenditore con ottimi contatti con un fondo arabo».

I due banchieri che persone le sembrarono?

«Timidi e taciturni. Ricordo che erano vestiti elegantemente, con l’abito. Sembravano stupiti, quasi imbarazzati per la mia età. Probabilmente non si immaginavano un “salvatore” così giovane. Quando Boschi mi ha detto il suo cognome, visto che la figlia era appena stata nominata ministro, ho fatto due più due e ho intuito chi fosse».

Che cosa vi siete detti?

«Ci siamo solo salutati. Anche in quell’occasione ci fu quasi un monologo di Carboni».

Perché hanno chiesto a lei il nome del direttore generale?

«Non ne ho idea, ma la cosa mi lasciò incredulo. Era come se mi dicessero: tu ci trovi il fondo che porta i soldi e noi facciamo un favore a un tuo amico».

Lei propose il vicedirettore generale della Popolare del Frusinate Gaetano Sannolo...

«L’ho conosciuto quando era direttore della filiale della Cassa di risparmio di Firenze di cui ero cliente. Con me è sempre stato carino e corretto. Io feci il suo nome così, in modo quasi goliardico, anche se pensavo che fosse una persona giovane e dinamica. Inizialmente non avevo dato peso a quella richiesta».

Neanche quando le presentarono Pier Luigi Boschi?

«In quel caso rimasi veramente stupito. Dentro di me pensai: “Andiamo bene”, perché non aveva senso tutto quello che stava accadendo. Capisco che le possa sembrare assurdo, ma andò così».

Che spiegazione si è dato?

«Forse venni presentato a Rosi e Boschi come una persona più importante di quella che in realtà fossi. A Carboni, invece, devo essere entrato in simpatia e per questo fatto del fondo mi si era pure un po’ attaccato, questo sì».

Quanto durò l’incontro con Boschi e Rosi?

«Pochi minuti, meno di una decina. Poi andai via».

Avete discusso anche del direttore generale?

«Sulla questione venne fatto un accenno, ma non ne parlammo approfonditamente in quell’occasione».

E quando lo avete fatto?

«In un terzo incontro, in cui presentai il mio amico Gaetano al dottor Carboni. Sorridendo gli dissi: “Dai andiamo a sentire”. Ma successivamente Sannolo fu chiamato davvero a fare il colloquio ad Arezzo. Non ci potevamo credere. In quei giorni ci sentivamo in continuazione per scherzare. Gli suggerii di chiedere un super stipendio, pensavamo che il mondo si fosse capovolto. Il suo nome è uscito pure sul Sole24ore».

Quella mi risulta sia stata una fuga di notizie orchestrata all’interno della banca per bruciare il nome del suo amico...

«Lo immaginavo. In ogni caso Carboni improvvisamente cambiò atteggiamento».

Forse perché lei gli aveva detto che il fondo non era disponibile...

«Infatti. Da quel momento iniziò a diradare le chiamate, quindi ha proprio smesso. Non lo vedo e non lo sento più dalla fine di quell’estate».

Non la stupì che Rosi e Boschi si fossero messi nelle mani di Carboni?

«Molto. Mi sembrò una situazione surreale».

Quando capì che il padre della ministra era lì a farsi consigliare il direttore generale della sua banca da lei che cosa pensò?

«“Non è possibile”. Non ci volevo credere, era inverosimile...».

Ha conosciuto Ferramonti l’uomo che consigliò il nome dell’altro candidato alla direzione generale, il banchiere Fabio Arpe?

«Sì, nel 2014, a Roma, mentre ero impegnato nel lancio di un neonato movimento politico. Si presentò lui, mostrandosi interessato a quella mia iniziativa. L’ho rivisto qualche volta nella Capitale. In una di quelle occasioni incontrammo casualmente Carboni nel solito ristorante. Sembrava che i due non si vedessero da tempo e si scambiarono il numero di telefono davanti a me. Parlarono anche di questa cosa della banca».

In pratica la Popolare dell’Etruria era una delle ossessioni di Carboni?

«Con me ha discusso solo di quella e del grafene».

E per salvarla si è affidato a due che aveva incontrato al ristorante?

«Lei ride, ma all’epoca ho riso di più io. Certo non vorrei apparire come una persona incapace di intendere e di volere, ma è andata proprio così». Di Giacomo Amadori.

Il terreno di papà Boschi in odore di 'ndrangheta. Il manager nel 2010 venne indagato per estorsione e riciclaggio per l'acquisto di una fattoria: il pm Rossi archiviò tutto ma adesso rischia un'azione disciplinare. La strana compravendita e quei 250mila euro in nero, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi ha fatto di tutto per non farsi salvare dal Csm. La prima bugia su Pier Luigi Boschi e Banca Etruria gli è stata perdonata, ma la seconda fa riaprire il suo caso, che sembrava avviato all'archiviazione. E non rischia solo il trasferimento d'ufficio, ma anche un'azione disciplinare. Il procuratore generale della Cassazione ha infatti chiesto gli atti al Csm, evidentemente per una preistruttoria disciplinare. Rossi, infatti, potrebbe aver violato l'obbligo di astensione dall'inchiesta su Banca Etruria ed essere accusato di dichiarazioni infedeli al Csm. Ma i suoi guai potrebbero non fermarsi qui. Perché sembra che da Arezzo stia uscendo nuovo fango dalle vecchie inchieste sul padre del ministro Maria Elena e il pm ha fatto archiviare, forse con troppa facilità. Prima di diventare procuratore e di diventare consulente di Palazzo Chigi. A cambiare le carte in tavola sono le notizie di Panorama sul fatto che il titolare dell'inchiesta su Banca Etruria quando era sostituto procuratore ha indagato Boschi nel 2010 per turbativa d'asta e riciclaggio, poi per estorsione nel 2013. A febbraio il papà viene iscritto nel registro degli indagati e Maria Elena diventava ministro, a luglio Rossi inizia la consulenza con il governo, a novembre archivia tutto. Eppure al Csm Rossi, sotto esame per la possibile incompatibilità tra il suo ruolo di inquirente del padre del ministro e la consulenza con Palazzo Chigi, disse di non conoscere nessuno della famiglia. Ieri il pm è corso ai ripari inviando una lettera a palazzo De' Marescialli, spiegando: «L'ho indagato, ma non lo conoscevo». Troppo tardi. La prima commissione aveva creduto alle sue giustificazioni quando aveva negato che papà Boschi facesse parte del consiglio «informale» della banca che rifiutò l'opa della Banca Popolare di Vicenza senza informare il Cda, mentre Bankitalia sosteneva il contrario. Una confusione tra la prima gestione Forsasari e la seconda Rosi, aveva assicurato. Ma stavolta, la fiducia ottenuta al Csm evapora. E tra i consiglieri c'è molta irritazione per la sua seconda e più pesante bugia. Ha taciuto di aver già indagato Boschi, un personaggio molto noto ad Arezzo anche al di là del ruolo politico della figlia. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico di un ennesimo equivoco in cui sembra essere caduto il procuratore», ironizza il laico di Fi Pier Antonio Zanettin. È lui, che aveva voluto l'apertura della pratica su Rossi a chiedere ora una nuova istruttoria. La delibera assolutoria, che aspettava solo l'ok del plenum, viene sospesa. «A tutela della trasparenza e della credibilità dell'operato della magistratura la prima Commissione ha deciso all'unanimità un ulteriore approfondimento sulla vicenda Rossi, alla luce di circostanze che emergerebbero da articoli di stampa», spiegano i togati di Area Piergiorgio Morosini (relatore) e Antonello Ardituro. Gli atti sono già stati inviati al Pg della Cassazione per gli accertamenti disciplinari, mentre per verificare l'incompatibilità il Csm ha chiesto informazioni al procuratore generale di Firenze. La relazione potrebbe arrivare per la riunione di lunedì. E si potrebbe anche convocare di nuovo Rossi. Dovrà spiegare come mai ha dimenticato che 6 anni fa ha indagato Boschi (con altre 8 persone) per irregolarità nell'acquisto della grande tenuta Fattoria di Dorna per 7,5 milioni (era valutata almeno 9), da parte della coop Valdarno superiore che presiedeva, poi diventata una società di cui Pier Luigi aveva il 90 per cento e il resto era del crotonese Francesco Saporito, in odore di 'ndrangheta. E anche di aver indagato una seconda volta nel 2013 Boschi, perché un certo Apolloni che acquistò un podere della tenuta lo accusò di essersi fatto pagare in nero 250mila euro su 460 mila.

Pier Luigi Boschi, già indagato (e prosciolto) sei anni fa. Le archiviazioni per le accuse di turbativa d'asta e estorsione, furono del pm che oggi indaga su Banca Etruria: lo scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. La posizione di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, è al vaglio della Procura di Arezzo insieme a quella di altri membri del disciolto consiglio d’amministrazione. Non sarebbe comunque la prima volta che il padre del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, si trova indagato. Nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio, il settimanale Panorama ricostruisce nei dettagli una vicenda giudiziaria risalente a sei anni fa, nella quale Boschi padre fu indagato ad Arezzo per i reati di turbativa d’asta ed estorsione, e venne per due volte prosciolto su richiesta del magistrato Roberto Rossi, oggi divenuto procuratore della città toscana, nonché lo stesso magistrato che oggi indaga sul dissesto di Banca Etruria e che è stato consulente del governo Renzi. La vicenda, che fino al 2014 coinvolse Pier Luigi Boschi e altri otto indagati, riguardava la compravendita, nel 2007, di una grande tenuta agricola posseduta dall’Università di Firenze. Malgrado il proscioglimento, restano senza risposta due domande, relative a 250 mila euro in contanti che un successivo acquirente di parte della tenuta affermò di avere personalmente consegnato a Boschi. Da una parte non si sa dove siano effettivamente finiti quei soldi, ma non si sa nemmeno perché la Procura di Arezzo non abbia mai indagato per calunnia chi affermava fossero stati versati.

Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive "Panorama" il 21 gennaio 2016. Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S. 

I pasticci del signor Boschi. Il padre del ministro fu indagato per estorsione. In un'inchiesta archiviata dal pm del crac di Etruria. Che al Csm aveva giurato di non conoscerlo, scrive il 25 gennaio 2016 Antonio Rossitto su Panorama. Ecco il testo integrale dell'inchiesta di copertina di Panorama sulle indagini del pm Rossi (poi archiviate) che hanno coinvolto papà Boschi. L'inchiesta ha consentito la riapertura di un'istruttoria sul pm, prima archiviata (come spieghiamo qui).

Da giorni, il tormentone giudiziario che inzacchera la politica italiana è sempre lo stesso: "Papà Boschi sarà indagato?". Il riferimento è all’inchiesta sul fallimento di Banca Etruria. E al ruolo che in quel crac avrebbe avuto Pier Luigi Boschi: dal 2011 consigliere d’amministrazione dell’istituto aretino, poi membro del comitato esecutivo e infine vicepresidente dal 2014 fino al febbraio 2015. Un accostamento che reca più di qualche imbarazzo alla "figliola" Maria Elena, ministro delle Riforme, già costretta a misurate prese di distanza mentre si sta avvicinando la delicata discussione al Senato della mozione di sfiducia al governo, prevista per martedì 26 gennaio e presentata da Forza Italia, cui si è aggiunta il 19 gennaio una mozione presentata dal Movimento 5 stelle: "Se mio padre venisse indagato" ha dichiarato l’11 gennaio il ministro "come qualunque altro cittadino dovrebbe trovarsi un avvocato, e seguire ovviamente tutta la vicenda, ma questo non avrebbe un impatto su di me".

L'inchiesta del 2010. Una trafila che l’ex vicepresidente di Banca Etruria, suo malgrado, ha già sperimentata esattamente sei anni fa. Panorama è in grado di rivelare i dettagli di un’inchiesta della Procura di Arezzo in cui il padre del ministro è stato indagato prima per turbativa d’asta e poi per estorsione. Un procedimento penale aperto nel gennaio 2010 e concluso nel novembre 2014 grazie a una serie di archiviazioni, sollecitate da Roberto Rossi: lo stesso pubblico ministero oggi divenuto procuratore della Repubblica della città toscana e titolare del fascicolo su Banca Etruria nonché consulente, dal novembre 2013 allo scorso dicembre, per gli affari giuridici dei governi Letta e Renzi, cioè lo stesso esecutivo di cui fa parte Maria Elena Boschi. L’indagine ricostruita da Panorama vede Pier Luigi Boschi, più di sei anni fa, nelle inedite vesti di mediatore immobiliare. Si tratta di una vicenda che, alla luce degli ultimi episodi che lo hanno visto protagonista, confermano la propensione di Boschi senior a finire invischiato in vicende poco trasparenti. E la sua tendenza a farsi consigliare da persone di discutibile fama, come svelato dal quotidiano Libero, dal sedicente massone e agente segreto Valeriano Mureddu al faccendiere Flavio Carboni, a processo come presunto capo della P3: a loro e a Gianmario Ferramonti, vecchio amico di Licio Gelli, Boschi chiese aiuto per la nomina del nuovo direttore generale nel pieno della bufera sull’istituto di credito. Che finora gli è costata una sanzione di 144 mila euro, comminata dalla Banca d’Italia nel novembre 2014 per la "mala gestio" della cassa aretina. Multa alla quale si potrebbe aggiungere tra poco un’ulteriore, salatissima sanzione, dopo le dieci nuove contestazioni mosse da via Nazionale.

Il socio "legato alla 'ndrangheta". Nell’inchiesta della Procura di Arezzo partita nel 2010, il padre del ministro si trova coinvolto in un girone assai fosco: socio di un imprenditore calabrese dipinto dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze come "legato alla ‘ndrangheta", promotore e garante di un affare milionario su cui si allunga l’ombra del riciclaggio, accusato di aver ricevuto in nero 250 mila euro per la vendita di un podere. Circostanze che non sono approdate ad alcun processo. Un anno fa Boschi è uscito di scena. Lasciando però dietro, come confermato a Panorama da chi prese parte a quell’affare, molte domande ancora senza risposta.

La Fattoria di Dorna. "Procedimento penale 499/2010" dettagliano gli atti dell’inchiesta, intestata a "Boschi più 8": nove persone indagate per turbata libertà degli incanti e riciclaggio. L’asta oggetto delle verifiche è la cessione della "Fattoria di Dorna" di Civitella Val di Chiana, a pochi chilometri da Arezzo: 303 ettari di terreno, tra vigneti, oliveti, seminativi e boschi. E 12 immobili: un edificio padronale, sette case coloniche e quattro fabbricati. È una grandissima tenuta, posseduta dall’Università di Firenze. Che nel luglio 2005 la mette all’asta: la base di gara è 9 milioni di euro. La proprietà viene poi venduta più di due anni dopo, il 12 ottobre del 2007. Ma con una trattativa privata. Così la "Fattoria di Dorna" è acquistata dalla "Valdarno superiore società cooperativa agricola", su iniziativa del presidente del suo consiglio d’amministrazione, Pier Luigi Boschi.  Il prezzo è d’occasione: 7,5 milioni. La cifra, annoterà la Guardia di finanza di Arezzo, è notevolmente inferiore rispetto ai valori di mercato. È soprattutto più bassa rispetto a precedenti offerte ricevute dall’ateneo fiorentino. La cooperativa guidata da Boschi si aggiudica comunque il lotto, dichiarando però di "partecipare per sé o persona da nominare". L’indicazione dell’acquirente avviene il 9 novembre 2007: il preliminare e il successivo rogito saranno sottoscritti dalla "Fattoria di Dorna società agricola". Un’impresa ufficialmente nata poco dopo, il 29 novembre 2007, di cui è socio al 90 per cento lo stesso Boschi. Le altre quote sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare originario di Petilia Policastro, in provincia di Crotone. È proprio il suo ingresso in un affare così importante, assieme a moglie e figli, a mettere in allerta gli inquirenti. Sempre la Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, descrive i Saporito come "soggetti che risulterebbero essere i referenti nella provincia di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta". Una successiva nota dei finanzieri, del 5 febbraio 2010, dettaglia altri investimenti milionari della famiglia calabrese: fabbricati, uliveti e terreni. "Gli esigui redditi della famiglia non sono sufficienti ad affrontare uno solo degli innumerevoli acquisti" analizza l’informativa, che "ipotizza sistematiche operazioni di riciclaggio", visti anche "gli importanti precedenti penali dei compenti della famiglia". E sottolinea addirittura la circostanza di un "tentativo di omicidio in capo a Saporito Mario", il figlio di Francesco.  

Il ruolo attivo di Boschi senior. Eppure Boschi senior non si lascia impensierire dalla fama dei Saporito. Anzi, è proprio lui a proporre al capofamiglia di costituire la «Fattoria di Dorna» società agricola. Lo sostiene lo stesso Francesco Saporito, interrogato il 21 aprile 2010: "Un compaesano che conosco da 40 anni mi presentò a tale Pier Luigi Boschi, che era il presidente della Cantina Valdarno superiore. Mi informò che dei terreni di Dorna, che la sua cooperativa aveva in affitto erano in vendita. E mi prospettò l’idea di costituire una società tra me e lui, per acquistare l’intero complesso. Boschi mi disse anche che, per quell’operazione, la Cantina aveva già versato all’università 800 mila euro. Per questo, a novembre del 2007, costituimmo la Fattoria di Dorna con Boschi al 90 e io al 10 per cento". Nei mesi seguenti, però, la quota del padre del ministro si ridurrà progressivamente. Fino al maggio 2009, quando Boschi esce dalla società per fare posto a Carmela Londino, moglie di Saporito. L’imprenditore calabrese racconta anche di aver ottenuto, per l’acquisto della fattoria, un mutuo agrario di quasi 4 milioni di euro dall’agenzia di Montevarchi del Monte dei Paschi di Siena e di esserci riuscito "grazie all’interessamento del Boschi". Il ruolo di Boschi sarebbe andato però anche oltre. A Dorna c’erano 42 mila metri quadri di zona edificabile. "Mi assicurò che avrebbe fatto da tramite con la politica e i professionisti del posto" dice adesso Saporito a Panorama. "Mi fece incontrare due volte un sindaco. Ma nessuno mi ha mai permesso di toccare una pietra. Perché sono calabrese. E noi calabresi siamo tutti mafiosi. Appena ci sono stati i primi problemi, Boschi è sparito. Ho ipotecato tutto e m’hanno rovinato".

L'iscrizione nel registro degli indagati. L’ex presidente di Banca Etruria si adopererà però anche, come emerge chiaramente dall’inchiesta della Procura di Arezzo, per trovare persone ed enti interessati ad acquistare piccole parti dell’immenso podere rilevato con Saporito. E proprio per una di queste compravendite che il procuratore Rossi, a febbraio del 2013, iscrive l’ex vicepresidente di Banca Etruria nel registro degli indagati con l’accusa di estorsione, in concorso con Tulio Marcelli, presidente in Toscana della Coldiretti, l’associazione per cui Boschi senior ha lavorato a lungo. Come emerge dalle carte investigative, sarebbe stato proprio Marcelli a presentare Boschi a M.A., possibile acquirente di un podere. Ma il numero 1 dell’associazione toscana degli agricoltori, contattato da Panorama, svicola: "È una vicenda in cui ho avuto un ruolo del tutto marginale" dice. "Dell’inchiesta mi aveva parlato Pier Luigi, di cui sono amico. Ma non sapevo nemmeno di essere stato indagato". È Marcelli però, racconta M.A. sentito dagli investigatori il 17 marzo 2010, a prospettargli l’acquisto di un podere di due ettari. Per questo, lo mette in contatto con Boschi, "come rappresentante della cooperativa agricola “Fattoria di Dorna”. M.A. nell’interrogatorio chiarisce: "Lo stesso Marcelli mi rappresentò le richieste di Boschi e del suo socio, Saporito: mi venne richiesta la cifra di 480 mila euro. Con la specifica che, di questa cifra, 270 mila euro dovevano essere dati in contanti". Dopo una contrattazione, il prezzo viene abbassato a 460 mila euro. Il 19 dicembre 2008, nello studio del notaio Fabrizio Pantani di Arezzo, si procede dunque all’atto: il prezzo indicato è di 210 mila euro. "La differenza tra l’importo rogitato e quello effettivo, pari a 250 mila euro" rivela M.A. "fu consegnata da me nelle mani del Boschi Pier Luigi. Io manifestai il mio dissenso rispetto a un’operazione da cui non traevo nessun beneficio. Ma il messaggio, arrivatomi tramite il Marcelli, fu che questa era la condizione “sine qua non” per la vendita". Una versione confermata agli inquirenti da M.D.B., la compagna di M.A., interrogata l’8 luglio 2010: "Prima del rogito, in un incontro avvenuto ad Arezzo nello studio del Marcelli, il Boschi disse testualmente che “i soldi hanno un colore”. La frase, al momento, non ci disse nulla. Ma poi la ricollegammo a un altro episodio. Marcelli ci disse che per concludere l’affare avremmo dovuto versare 250 mila euro in contanti, come pagamento in nero". E, sentito nuovamente dai finanzieri il 21 aprile 2010, M.A. aggiunge: "La dazione del denaro al Boschi avvenne nello studio di Marcelli ad Arezzo, in via Veneto, a cui si accede entrando dal portone adiacente il Bar Magi. Eravamo presenti solo io, Boschi e Marcelli".

Le prove dei finanzieri. "I soldi hanno un colore": nero, quindi. I finanzieri, il 24 marzo 2010, durante una perquisizione a casa dell’acquirente, ritengono di aver trovato le prove: "Per mia garanzia, feci le fotocopie delle banconote consegnate al Boschi, che avete rinvenuto nella mia abitazione" riferisce M.A. Lo stesso giorno i finanzieri perquisiscono casa Boschi, a Laterina: sequestrano una cartellina gialla e un assegno di 95 mila euro emesso da Saporito e intestato alla Valdarno superiore. Poi bussano alla porta proprio della cooperativa diretta da Boschi, dove requisiscono altri documenti. "Asserita la dazione dei 250 mila euro in contanti nelle mani del Boschi", analizza l’informativa del 22 aprile del 2010, firmata dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Arezzo, resta però un mistero: dove sono finiti i soldi? Saporito nega, nel suo interrogatorio, versamenti in contanti. E la nota investigativa esclude anche che quei soldi "siano la parte in nero" dell’affare. Dove sono finiti dunque quei 250 mila euro? Rossi, il 4 febbraio 2013, chiede l’archiviazione dall’accusa di turbativa d’asta in carico ai nove indagati: oltre al padre del ministro, la famiglia Saporito e tre acquirenti dei terreni. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive nel registro degli indagati Boschi e Marcelli per estorsione: parte offesa, in questo processo-stralcio, è proprio M.A., che ha dichiarato di essere stato costretto a pagare 250 mila euro.  Tre settimane dopo, il 21 febbraio 2013, comincia la travolgente ascesa politica di Maria Elena Boschi, eletta deputato del Pd. Nel luglio di quello stesso anno, intanto, Rossi è nominato consulente del governo. Ed è proprio la Procura di Arezzo, di cui allora Rossi è reggente, a organizzare nell’Auditorium di Arezzo, il 24 ottobre 2013, un convegno dal titolo: "Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile". Oltre a Rossi, al convegno partecipano Andrea Orlando, ai tempi ministro dell’Ambiente, e l’onorevole Maria Elena Boschi, figlia di Pier Luigi, allora indagato per estorsione. Ma pochi giorni dopo, il 7 novembre 2013, Rossi chiede l’archiviazione per papà Boschi. L’accusa di aver ricevuto quei 250 mila euro in nero rimane però un enigma: Boschi, come confermato a Panorama dallo studio legale Fanfani, che difende l’ex vice presidente di Banca Etruria, non ha mai sporto querela per calunnia. A questo punto, però, la logica si incrina. Per la Procura quella dazione non è stata un’estorsione. Allora perché il magistrato non ha indagato Boschi per evasione? Lo riteneva, al contrario, vittima di infamanti accuse? Allora avrebbe dovuto procedere d’ufficio contro M.A., accusandolo di calunnia. Ma questo non è successo. Il dubbio, quindi, rimane intonso: dove sono finiti quei 250 mila euro? Panorama ha tentato di chiedere ragguagli al procuratore Rossi. Il magistrato ha opposto un cortese ma fermo rifiuto: "Mi scusi, non posso parlare. Cerchi di capire il momento" dice mentre porge la mano. "Veramente volevamo chiederle di una vicenda legata al padre di Boschi...". Mezzo sorriso di circostanza: "Peggio ancora". Poi Rossi sparisce nel suo ufficio. Mentre nell’aria continua ad aleggiare il mistero dell’ennesimo pasticcio di papà Boschi.

Tutte le bugie del caso Boschi. Dal ministro a suo padre, dal pm all'avvocato, lo scandalo che imbarazza il Governo è pieno di omissis. Il testo integrale dell'inchiesta di Panorama, scrive Antonio Rossitto l'1 febbraio 2016 su Panorama. È ancora buio quando tre marescialli e un luogotenente della Guardia di finanza bussano alla porta di una villa alle porte di Laterina, piccolo borgo sperso nella campagna aretina. È il 24 marzo 2010. Sono le 7 del mattino. Gli agenti del Nucleo di polizia tributaria mostrano il tesserino e si presentano a Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, futuro ministro delle Riforme. Esibiscono il «decreto di perquisizione locale e personale» firmato dall’allora procuratore di Arezzo, Carlo Maria Scipio, e dal pm Roberto Rossi. Poi notificano all’uomo il provvedimento dell’autorità giudiziaria. Boschi è indagato per turbativa d’asta in un’inchiesta che vede anche l’ipotesi di riciclaggio a carico di altre persone. L’incanto cui l’atto si riferisce è quello della Fattoria di Dorna, un podere di 303 ettari venduto il 12 ottobre 2007 dall’Università di Firenze alla «Valdarno superiore», la cooperativa guidata da Boschi dal 2003 al 2014. Assieme a Boschi, al momento della perquisizione, ci sono la moglie, Stefania Agresti, e due figli: Pier Francesco ed Emanuele. Manca invece Maria Elena. Lei lavora in un affermato studio legale di Firenze. Mantiene però la residenza nella villa di famiglia a Laterina. I quattro finanzieri chiedono a Pier Luigi Boschi se vuole farsi assistere da un avvocato. Lui, però, spiega che «non intende avvalersi di tale facoltà». Consegna spontaneamente ai militari alcune cartelle di documenti e una copia fotostatica dell’assegno di 95 mila euro «emesso da Saporito Francesco all’ordine della Valdarno superiore». Vengono poi controllate le due auto in garage. Concluse le ricerche nei tre piani della casa, i finanzieri passano a perquisire le sedi di due società amministrate da Boschi nella zona: la Progetto Toscana e la cooperativa Valdarno superiore. Negli uffici, gli agenti sequestrano due raccoglitori pieni di carte e verbali di consigli d’amministrazione. Il materiale è talmente voluminoso da costringere i militari ad annotare: «Vista la copiosità, nell’impossibilità di procedere a una immediata repertazione, la documentazione è stata progressivamente numerata e fatta siglare su ciascun foglio». L’operazione della Guardia di finanza aretina si conclude alle 15,30. La perquisizione dura otto ore e mezza. Ma sembra non aver lasciato traccia nella memoria del ministro Boschi. Nelle ultime settimane non ha mancato di sottolineare la rettitudine del genitore, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario dopo il crac di Banca Etruria, di cui è stato vicepresidente dal giugno 2014 al febbraio 2015. «Mio padre è una persona perbene» ha sillabato il ministro, lasciando intendere candidi trascorsi. L’indagine archiviata sul padre del ministro, pubblicata da Panorama la scorsa settimana, rivela invece un quadro più nebuloso. Maria Elena Boschi non è però l’unica colta da dimenticanze, in questa storia. Anche il pm Rossi, ascoltato il 28 dicembre dalla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, non ha riferito di essersi occupato dell’ex vicepresidente di Banca Etruria: «Non conosco nessuno della famiglia Boschi» ha dichiarato. «Non sapevo neanche come fosse formata». Una dimenticanza che, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, costringe il magistrato a una tardiva ammissione. Il 20 gennaio 2016 invia una lettera al Csm. E conferma di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Boschi, ma di non conoscerlo di persona. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico che le dichiarazioni rese non corrispondono ai fatti» commenta Pierantonio Zanettin, membro dell’organo che governa la magistratura. Così, la prima commissione del Csm riapre l’istruttoria sul procuratore. Ma in questo groviglio c’è anche un’altra persona colta da lapsus: è Giuseppe Fanfani, altro componente del Csm dal settembre 2014. Anche lui sapeva. Il 29 marzo 2010, cinque giorni dopo le perquisizioni, Pier Luigi Boschi lo nomina suo difensore di fiducia nell’inchiesta sulla fattoria di Dorna. Eppure, anche lui, sceglie il silenzio. Boschi, Rossi e Fanfani. Omissioni che mettono a repentaglio il prestigio di tre istituzioni: politica, giustizia e governo della magistratura. Boschi viene indagato per turbativa d’asta nel gennaio 2010. Il suo ruolo nell’acquisto della tenuta è determinante. Prima, nell’ottobre 2007, da presidente del cda della «Valdarno superiore», compra i 303 ettari per 7,5 milioni. Un mese dopo la sua cooperativa indica che l’acquisto sarà fatto dalla «Fattoria di Dorna», un’azienda agricola che però viene creata solo il 29 novembre 2007. Boschi ne è socio al 90 per cento: la quota, sei mesi più tardi, scenderà al 34 per cento. Le altre azioni sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare calabrese. La Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, lo segnala come referente, assieme alla famiglia, «di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta». La società di Boschi e Saporito, dopo aver comprato la tenuta, cede alcuni lotti a privati e istituzioni. Una di queste compravendite convince Rossi a contestare a Boschi padre anche il reato di estorsione. Il padre del ministro, secondo quanto emerge dalle carte lette da Panorama, avrebbe preteso e ottenuto da un successivo acquirente il pagamento di 250 mila euro in nero. Un reato implicitamente ammesso dallo stesso Boschi che, ad aprile del 2014, paga una multa di quasi 40 mila euro all’Agenzia delle entrate. Il resto dell’imposta evasa sarebbe stato imputato a Saporito, che all’epoca della vendita aveva quasi il 64 per cento dell’azienda agricola. L’imprenditore calabrese, intervistato dal Fatto quotidiano, ha però spiegato di aver fatto ricorso contro la sanzione: «Questi soldi non li ho mai avuti. Io ho firmato e basta. La trattativa l’ha fatta Boschi. E penso che debba pagare lui». Una versione, tra l’altro, già confermata dalla Finanza di Arezzo in un’informativa del 7 maggio 2010: quei denari non sono andati a Saporito. Così, il 4 febbraio 2013, Rossi chiede l’archiviazione dal reato di turbativa d’asta per Boschi e altre otto persone. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive però nel registro degli indagati Boschi per estorsione. Due settimane dopo, il 21 febbraio 2013, Maria Elena Boschi viene eletta deputato. E il 18 luglio 2013 Rossi viene chiamato dal governo Letta come consulente per gli affari giuridici. Tre mesi più tardi, il 24 ottobre 2013, ad Arezzo si tiene il convegno «Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile». L’evento è organizzato dalla Procura di cui Rossi è già reggente. Quella tavola rotonda è l’ennesima riprova delle amnesie del magistrato. Un mese fa, di fronte alla prima commissione del Csm, aveva assicurato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi: «Ho conosciuto solo l’attuale ministro in un’occasione pubblica, istituzionale, quando era parlamentare». I giornali scovano allora le foto di un dibattito del 31 ottobre 2015, ad Arezzo. Panorama, invece, ha trovato evidenze più datate. E compromettenti. Al convegno del 24 ottobre 2013, coordinato da Procura e Prefettura, viene invitata anche l’onorevole Boschi. Della sua presenza deve essersi inevitabilmente accorto anche Rossi. Che, da padrone di casa, apre l’incontro alle 10,30 con una dissertazione sui «reati ambientali». Maria Elena Boschi sale sul palco dell’Auditorium poco dopo, a mezzogiorno in punto, per un intervento dal titolo: «Prevenire è meglio che curare». Finito di parlare, si accomoda in prima fila, a fianco della senatrice Loredana De Petris e dell’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando. Tailleur blu, sottogiacca grigio abbinato a scarpe tacco 12, capelli raccolti: la futura ministra, ripresa dalle telecamere delle tv locali, sembra quasi spaesata. Tre file più indietro, appollaiato su una poltroncina c’è un distinto signore con i capelli grigi e gli occhiali spessi. Indossa un abito blu, la camicia azzurra e una cravatta vinaccia: è Pier Luigi Boschi, allora sotto inchiesta per estorsione. Davanti a lui, sul palco, seduto al tavolo dei conferenzieri, c’è Rossi, il suo «inquisitore». Che due settimane dopo, il 7 novembre 2013, chiede però l’archiviazione del fascicolo. Il procedimento avrà una coda cinque mesi più tardi, con il pagamento della multa di Boschi all’Agenzia delle entrate per l’Iva evasa sul pagamento in nero. I destini dei due torneranno a incrociarsi il 21 marzo del 2014 quando, su ordine di Rossi, viene perquisita la sede aretina della direzione generale di Banca Etruria. E Boschi, mai indagato per il crac dell’istituto, siede nel consiglio d’amministrazione dell’istituto. Diventando vicepresidente poco dopo: il 4 aprile 2014. L’ultimo tassello del puzzle è la nomina del suo avvocato al Csm. Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo e «nipotissimo» del leader della Dc Amintore, viene eletto il 9 settembre 2014 dal Parlamento, su indicazione del Pd di Matteo Renzi. La Nazione, quotidiano di riferimento della Toscana, scrive: «La candidatura, spinta dal ministro Maria Elena Boschi, cui il sindaco è unito da aretinità e fedeltà renziana, potrebbe fare breccia anche col premier in persona». Breccia che diventa un varco. Poco dopo, 18 dicembre 2014, il governo Renzi affida una nuova consulenza (la precedente era scaduta cinque mesi prima, il 21 luglio 2014) a Rossi, ancora come esperto degli affari giuridici. L’ incarico dura meno di due settimane, ma il 24 febbraio 2015 viene rinnovato fino al 31 dicembre 2015. Queste due nomine avevano spinto la prima commissione del Csm a verificare eventuali incompatibilità tra il ruolo di Rossi, coordinatore delle indagini su Banca Etruria, e quello di consulente dell’esecutivo. L’audizione del magistrato, il 28 dicembre 2015, lascia molte perplessità. Anche la frase così definitiva sulla conoscenza dei Boschi sembra inveritiera: «Non conosco neppure la composizione del nucleo familiare». La sua versione viene riportata da tutti i giornali italiani. Mentre Fanfani, controparte di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Boschi, continua a tacere. Così il Csm, il 19 gennaio 2016, propone l’archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, Rossi trasecola. Spedisce una lettera al Csm in cui conferma di aver indagato su Boschi, ma di non conoscerlo personalmente. E l’istruttoria viene riaperta. Panorama, per la seconda settimana di fila, rivela nuovi documenti e circostanze. Fatti che mettono i protagonisti di questa storia di fronte alle loro responsabilità. Il ministro, il procuratore e il togato: in gioco c’è molto di più della solita disfida politica. 

Banca Etruria e le altre: la caccia ai responsabili della crisi. L'ultima valanga di fango colpisce il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, ma come nei migliori polizieschi, non è ancora chiaro chi sia il vero colpevole, scrive il 4 dicembre 2017 Stefano Cingolani su Panorama. È cominciato come il più tradizionale dei polizieschi: il delitto è stato commesso dal maggiordomo, nella fattispecie il guardiano, il vigilante, cioè la Banca d’Italia. Ma più va avanti, più la commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi bancaria assomiglia al giallo di Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express”: molte mani hanno inferto la coltellata (ben dodici nel racconto della scrittrice inglese) tanto che è impossibile decidere quale sia stata davvero letale. Troppi colpevoli, nessun colpevole? Il rischio che finisca così esiste. L’ultima valanga di fango travolge il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, già consulente di palazzo Chigi, il quale ha omesso di rivelare che Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena, è stato indagato nel caso Banca Etruria insieme ad altri amministratori per aver fornito informazioni false alla clientela e lacunose alla Consob. A questo punto, non resta che indossare le vesti di Poirot, ghette incluse, e mettere in ordine tutti gli indizi.

I non performing loans. In cima ci sono i non performing loans, cioè i crediti marci (deteriorati secondo la diplomatica definizione ufficiale) che in Italia ammontano a 200 miliardi di euro molto più che in qualsiasi altro paese europeo. Gli npl sono l’equivalente nostrano dei mutui subprime che tra il 2007 e il 2008 hanno fatto saltare le banche americane. Diversi nella tecnica, sono simili nella sostanza: prestiti concessi a chi, per una serie di ragioni, non li avrebbe mai restituiti. Una parte di questi prestiti sono marciti perché, con la recessione, imprese e famiglie hanno visto crollare il loro reddito. Emergono nomi altisonanti: la Sorgenia controllata dalla Cir di Carlo De Benedetti, l’Alitalia, Ligresti, Zunino, Coppola, la serie è davvero molto lunga ed è ormai pubblica. In alcuni casi come per Sorgenia e Alitalia, le banche hanno trasformato i crediti in azioni, ma ciò non ha alleggerito i bilanci. I grandi debitori sono la punta, ma l’iceberg è ben più grande e finora stava nascosto sott’acqua.

La gestione delle banche. La crisi, però, è il detonatore, non la causa prima che va ricercata nel modo in cui sono state gestite le banche. Si diceva che il sistema italiano era sano e solido perché non aveva giocato con i derivati, tuttavia i prestiti concessi in modo clientelare hanno avuto un effetto anche peggiore. Basta leggere i bilanci del Monte dei Paschi di Siena che con 40 miliardi di euro guida ancora la classifica dei crediti marci. Circa un terzo delle sofferenze è dovuto ai grandi clienti, il resto è diffuso in mille rivoli per sostenere il territorio, o meglio per alimentare il consenso politico-elettorale. Ciò vale anche per la Popolare di Vicenza, per Veneto banca, per la Banca dell’Etruria e tutte le altre. L’intero sistema delle banche locali e popolari era bacato e il verme si chiama proprio clientelismo. Quando la crisi ha rivelato che non c’era capitale a sufficienza per andare avanti, i banchieri sono ricorsi a ogni escamotage possibile: veri e propri trucchi contabili come il Montepaschi con i contratti Alexandria o Santorini, un sostegno artificioso al valore dei titoli come a Vicenza, la vendita di obbligazioni alla clientela minuta (la Banca dell’Etruria), forzando le regole se non violando apertamente le norme come nel caso delle cosiddette operazioni baciate (prestiti concessi ai clienti per indurli a comperare le azioni della banca).    

I vigilanti. E le autorità di vigilanza? In molti casi hanno chiuso gli occhi. La Consob, per esempio, non ha preteso che nei prospetti informativi si avvertisse chiaramente che anche le obbligazioni subordinate erano a rischio in caso di crac bancario. In altre hanno indagato, hanno multato, hanno avvisato i banchieri, hanno inviato i loro bei rapporti alla magistratura che, come è accaduto a Vicenza, talvolta li hanno messi nel cassetto. Ma non hanno lanciato l’allarme, forse per paura di non creare il panico in una economia già molto indebolita. In ogni caso, hanno preferito che i panni sporchi venissero lavati in famiglia. Come nel caso della Popolare di Vicenza. Nonostante una lunga serie di ispezioni e di allarmi che risalgono indietro negli anni, ancora nel 2014 la Banca d’Italia riteneva che potesse rimettersi in piedi con le proprie gambe. Non solo. Quando la Bpv ha proposto di comperare la Banca dell’Etruria, ha consigliato di stare attenti, ma non ha detto chiaramente che un cieco voleva guidare uno storpio sull’orlo dell’abisso. 

Come è finita. E qui veniamo al grande equivoco che attraversa i lavori della commissione. Si sta discutendo sul perché non sono state salvate in tempo banche le quali, stando ai loro bilanci e al modo in cui erano gestire, non avevano più alcuna ragione di esistere. Tanto che, dopo anni di tergiversazioni e di pasticci, non esistono più. Vicenza e Veneto Banca sono state assorbite da Banca Intesa, le quattro banchette del Centro Italia cedute per un euro. Il Monte dei Paschi è stato nazionalizzato. Era meglio chiudere subito i battenti, salvare i depositanti e i risparmiatori imbrogliati (quelli che davvero sono stati turlupinati, non chi ha perso in soldi e adesso vuole essere rimborsato dai debitori onesti e dai contribuenti), mettere i bancari in cassa integrazione e ricominciare su basi nuove. Secondo alcune stime i costi dei salvataggi superano già i 30 miliardi di euro. Il falso dogma che una banca non debba fallire ha solo coperto l’azzardo morale e la cattiva gestione.

I responsabili. Le responsabilità dei guardiani, dunque, esistono. Consob e Bankitalia sono già sotto tiro e nel mirino entra anche il Tesoro che ha sottovalutato la crisi delle banche insistendo con il mantra che il sistema è saldo. Ma ci sono, grandi come palazzi, anche le responsabilità politiche. Le ispezioni della Banca d’Italia a Vicenza e Montebelluna venivano tacciate come intrusioni dal governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia. Tutta Siena si è arroccata a difesa del Montepaschi (e qui è in ballo il Pd). Il conflitto d’interessi su Banca Etruria ha coinvolto Maria Elena Boschi e, per la proprietà transitiva, Matteo Renzi. Mentre a Genova la crisi della Cassa di Risparmio che ha portato in prigione i vecchi amministratori è stata accompagnata da un incredibile silenzio di Beppe Grillo e del suo movimento. La commissione continua, questa settimana verranno ascoltati altri testimoni e protagonisti, ma tutti attendono il neo confermato governatore Ignazio Visco (verrà convocato la prossima settimana? Per ora si parla di martedì 12). Dunque, non possiamo mettere fine al nostro giallo, rinviamo gli appassionati del genere alla prossima puntata.

Banca Etruria, Boschi indagato. Il pm di Arezzo a Casini: "Non ho nascosto nulla". Il procuratore che sta indagando sulla vicenda accusato di omissione sulle indagini a carico del padre della sottosegretaria. La replica in una lettera a Casini: "Ho risposto a tutte le domande senza alcuna omissione", e allega il verbale. E il presidente della Commissione gli dà ragione: "Ha chiarito tutto". Frecciate M5S ai renziani: "Cosa dicono oggi i soloni che esultavano?" Scrivono Rosaria Amato e Fabio Tonacci il 4 Dicembre 2017 su "La Repubblica". Procura di Arezzo nella tempesta dopo che è emerso che Pierluigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena, è iscritto nel registro degli indagati per la vendita delle obbligazioni subordinate alla clientela retail di Banca Etruria. Il procuratore Roberto Rossi, che viene accusato da diversi componenti della Commissione d'inchiesta sulle banche di aver omesso parte della verità, ha scritto in queste ore una lettera al presidente della Commissione Pier Ferdinando Casini per smentire di aver nascosto informazioni rilevanti. Spiegazioni che vengono ritenute da Casini convincenti: "La lettera odierna del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo, Roberto Rossi, fornisce una risposta chiara ed esauriente. Tutto il resto afferisce ai giudizi politici che ciascun Gruppo ha il diritto di formulare", ha aggiunto Casini, che ha precisato che domani nell'Ufficio di Presidenza si parlerà comunque dell'eventualità di richiamare il pm davanti alla commissione. Il magistrato di Arezzo nella lettera definisce gli addebiti che gli vengono mossi da diversi commissari "gravemente offensivi", e di aver risposto "a tutte le domande che mi sono state formulate senza alcuna reticenza né omissione". E aggiunge: "Ho chiarito che l'esclusione di Boschi riguardava il processo per bancarotta attualmente in corso, mentre per gli altri procedimenti ho precisato che non essere imputati non significava non essere indagati. Null'altro mi è stato chiesto in merito". Rossi nella missiva al presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche parla anche del filone di indagine che contesta il falso in prospetto e il ricorso abusivo al credito a carico del Cda di Etruria del 2013, nel quale sedeva Boschi in qualità di consigliere: "Non ho nascosto nulla circa la posizione del consigliere Boschi in relazione alle domande che mi venivano poste. Le domande hanno riguardato i fatti in oggetto e non, in alcun modo, le persone iscritte nel registro degli indagati". E a conferma della sua tesi, il pm allega uno stralcio del verbale dell'audizione del 30 novembre (che Repubblica è in grado di mostrarvi). Il procuratore, rispondendo giovedì scorso alle domande di deputati e senatori nel corso dell'audizione della Commissione d'inchiesta sulle banche, aveva escluso qualunque coinvolgimento di Boschi solo nelle indagini per bancarotta fraudolenta, nonostante il padre dell'allora ministro del governo Renzi sia stato vicepresidente della banca liquidata nel novembre 2015. Alle sue dichiarazioni erano seguiti commenti in toni trionfalistici di Matteo Renzi e di molti esponenti del Pd, e scettici da parte di esponenti politici dell'opposizione. Nelle ultime ore, in seguito a un'inchiesta del quotidiano "La Verità", è emerso invece che c'è un nuovo fascicolo aperto dalla procura di Arezzo sulle vicende della ex Banca Etruria: si tratta di uno spezzone di indagine che riguarda la vendita di obbligazioni subordinate alla clientela retail, l'emissione del 2013. Di questo filone d'inchiesta si era parlato nel corso dell'audizione, ma senza chiarire in modo esplicito quali fossero gli indagati. Tuttavia il pm non si era sottratto alla domanda, e tutti avevano capito che Boschi poteva essere indagato, conferma il deputato M5S Alessio Villarosa. Le obbligazioni subordinate sono titoli estremamente rischiosi per i piccoli risparmiatori, perché il rimborso non è previsto nel caso di fallimento della banca. Tra gli indagati per non aver fornito le necessarie informazioni alla Consob (e duque il reato ipotizzato è "falso in prospetto") c'è anche Boschi, e alcune settimane fa i magistrati di Arezzo hanno chiesto una proroga delle indagini. L'apertura del fascicolo è scaturita dalle sanzioni comminate dalla stessa Consob agli ex amministratori di Banca Etruria nel settembre scorso, per complessivi 2,76 milioni di euro. E riguarda il periodo 2012-2014, incentrato proprio sulle violazioni riscontrare nei prospetti informativi. "Ci sembrava strano che la figura di Boschi non fosse in alcun modo più legata alle indagini, dato che il ruolo che aveva avuto nelle attività di Banca Etruria. - dice Letizia Giorgianni, presidente e fondatrice dell'Associazione Vittime del Salvabanche, la principale organizzazione dei risparmiatori travolti dal fallimento di Banca Etruria, Carife, Carichieti e Banca Marche - Noi saremo auditi dalla Commissione giovedì, e parleremo anche di quello che è successo dopo il fallimento della banca, compresa l'ipersvalutazione dei crediti deteriorati che ha danneggiato mltissimo i risparmiatori: se la svalutazione fosse stata più equa, sul modello di quella adottata per Montepaschi, si sarebbero potuti salvare almeno gli obbligazionisti subordinati. Abbiamo presentato un esposto contro Fonspa, la società che sta procedendo al recupero dei crediti". In Commissione Banche il senatore Andrea Augello (Idea) ha presentato al presidente Pier Ferdinando Casini una richiesta formale per verificare l'esistenza di un filone d'indagine sulla denuncia della Consob. "Se sarà confermato - ha annunciato Augello domenica nel corso del dibattito conclusivo della due giorni organizzata a Modena da Idea - proporrò alla Commissione di trasmettere l'audizione del dottor Rossi al Consiglio superiore della magistratura affinché ne sanzioni il comportamento reticente e omissivo davanti al Parlamento italiano". La richiesta di Augello è stata respinta da Casini. E intanto sul Pd, che solo pochi giorni fa aveva esultato per l'estraneità del padre di Maria Elena Boschi dalle indagini, si abbattono le critiche e le frecciate dell'opposizione, a cominciare dal Movimento Cinque Stelle: "Ce le ricordiamo benissimo le esternazioni da parte dei renziani nei giorni scorsi, subito dopo l'audizione in commissione Banche da parte del procuratore di Arezzo che sembravano scagionare papà Boschi da ogni ulteriore coinvolgimento nella vicenda Banca Etruria. Vogliamo ascoltare cosa hanno da dire oggi gli stessi soloni che ieri esultavano", dice Villarosa. "Qualcuno usa questa vicenda da due anni per attaccare me e il Pd.Io penso che sarebbe più giusto fare chiarezza sugli errori fatti da tanti per non sbagliare più - ha scritto su Facebook Maria Elena Boschi. L'ex ministra ha anche annunciato un'azione legale per diffamazione contro Ferruccio De Bortoli: "Ho firmato oggi il mandato per l'azione civile di risarcimento danni nei confronti del dottor Ferruccio de Bortoli. A breve procederò anche nei confronti di altri giornalisti".

Etruria, la lettera del procuratore Rossi alla commissione banche. Ecco il testo con cui il pm di Arezzo, Roberto Rossi, si difende dall'accusa di non aver riferito dell'indagine sul padre di Maria Elena Boschi: "Ho risposto puntualmente alle domande", scrive il 4 Dicembre 2017 "La Repubblica". "On.le Presidente, sono costretto a scriverLe in relazione alle notizie riportate da alcuni organi di informazione secondo cui avrei omesso di riferire, in occasione della mia audizione del 30 novembre u.s., notizie in merito ad un presunto status di indagato del Consigliere BPEL Pierluigi Boschi. Considero tali addebiti gravemente offensivi: ho risposto puntualmente a tutte le domande che mi sono state formulate senza alcuna reticenza od omissione, così come è facilmente riscontrabile dall'ascolto della audizione pubblica ed in particolare dai punti che, estratti dalla stessa, mi permetto di trascriverLe (con indicazione dei tempi del file audio) e sottoporre alla sua attenzione.

Ora: 1.11.00

Villarosa: "grazie presidente, volevo anzitutto, Procuratore, una precisazione, forse ho capito male io, lei ha detto che ci sono 14 persone del CdA che non risultano indagate (nrd precedentemente alla domanda del perché il Boschi non fosse stato rinviato a giudizio era stata data la risposta che 14 membri dei CdA, tra cui il Boschi, non erano stati attinti da richiesta di rinvio a giudizio)

Rossi: No, rinviati a giudizio

Villarosa: "quindi potrebbero essere indagati?"

Rossi: "sì e fa cenno di sì con la testa"

Villarosa: "ok"

Ora: 3.18.10

Rossi: cerco di... (interruzione) cerco di essere più chiaro possibile, qui non stiamo parlando di indagati, stiamo parlando di rinviati a giudizio...

Ora: 3.20.00

Le domande proseguono sulla questione del falso in prospetto e il Procuratore chiede che si proceda in audizione secretata proprio perché trattasi di fascicolo in fase di indagini preliminari e quindi coperto dal segreto istruttorio. Nel corso di tale sessione nessuno rivolge domande sulla identità delle persone oggetto di indagini. Come si evince da questa breve ricostruzione, non ho nascosto nulla circa la posizione del consigliere Pierluigi Boschi in relazione alle domande che mi venivano poste. Ho anzi chiarito e ribadito che la Sua esclusione riguardava il processo per bancarotta attualmente in corso, mentre per gli altri procedimenti, a domanda, ho precisato che non essere imputati non significava non essere indagati. Null'altro mi è stato chiesto in merito. Evidenzio altresì che, non appena mi sono state fatte domande sull'ipotesi di reato di falso in prospetto, ho chiesto la secretazione dell'audizione in quanto vi sono in corso indagini preliminari sul punto. Le domande in merito hanno riguardato i fatti oggetto di indagine e non, in alcun modo, le persone iscritte nel registro degli indagati. Ho chiarito i punti che mi venivano sollecitati riferendomi ovviamente allo stato delle indagini in corso. Rimango a disposizione della Commissione per ogni ulteriore chiarimento, e l'occasione mi è gradita per porgerLe deferenti saluti. Arezzo, 04 dicembre 2017. Roberto ROSSI"

Procuratore Rossi: “Tra 2008 e 2010 le dissipazioni più gravi. Bancarotta Etruria, Boschi estraneo”, scrive l'1 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Secondo il procuratore ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, è eclatante il caso dello Yacht Etruria. Su Vicenza: peggio che ad Arezzo dove non ci sono stati finanziamenti baciati”. I teoremi accusatori insussistenti di Marco Travaglio (dovrà ancora una volta pagare in sede civile?) sono stati smentiti dai fatti. Infatti intervenendo dinnanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, ha precisato che Pierluigi Boschi, il padre dell’on.Maria Elena Boschi, non ha partecipato alle riunioni degli organi di Banca Etruria che hanno deliberato i finanziamenti finiti poi in sofferenza e che costituiscono “il reato di bancarotta”. Per la Banca d’Italia la Popolare di Vicenza era un “un partner di elevato standing” ai fini dell’aggregazione con Banca Etruria, ha affermato il Procuratore Capo di Arezzo, Roberto Rossi in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Banche. Un giudizio che al procuratore Rossi appare oggi “singolare” dopo aver appreso “da fonti aperte”, ossia dalle audizioni di Banca d’Italia sulle Banche Venete alla stessa Commissione banche, la situazione critica in cui versava la Popolare di Vicenza già nel 2012. “Sembrava di leggere la stessa relazione ispettiva di Banca Etruria”, ha detto Rossi, anzi peggio considerato che i finanziamenti baciati ad Arezzo non ci sono stati. Banca d’Italia chiese nel 2014 all’Etruria di trovare un partner di elevato standing e l’unica trattativa avviata fu quella con la Banca Popolare di Vicenza che offrì un euro per azione. La Banca d’Italia, ricorda Rossi, sanzionò tutto il CdA per aver lasciato cadere l’offerta della Popolare di Vicenza senza averla neanche proposta all’assemblea dei soci. Per la precisione il procuratore Rossi ha dichiarato testualmente: “L’allora vicepresidente di Banca Etruria Pierluigi Boschi non ha partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza e che costituiscono il reato di bancarotta”, in risposta al deputato Carlo Sibilia (M5S) che gli chiedeva del ruolo di Boschi nel crac dell’istituto aretino. Rossi ha voluto fare una premessa: “Faccio questo lavoro da 30 anni, sono della vecchia scuola, le persone si distinguono non per di chi sono figli o padri, per il loro orientamento sessuale o politico, ma per i comportamenti. Boschi entra in cda nel 2011 come amministratore senza deleghe diventa uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Rosi. Noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato bancarotta”. Il procuratore di Arezzo ha ricordato come la Banca d’Italia chiese nel dicembre 2013, a seguito di ispezioni e azioni di vigilanza, “ad Etruria di integrarsi in gruppo di elevato standing con ‘le necessarie risorse patrimoniali e professionali” E qui, spiega il magistrato, “abbiamo tracce documentali di tentativi di ricerca di un gruppo che possa risollevare le sorti di Etruria, vengono investiti diversi organi e advisor come Mediobanca per un’operazione che Bankitalia definisce operazione prioritaria. Bankitalia ci dà notizia di alcuni contatti, fra cui una banca israeliana, ma nessuno concreto. L’unica trattativa concreta fu quella con Bpvi che aveva fatto un’offerta da 1 euro per azione”. Rossi ha spiegato poi come “dalla relazione Bankitalia a noi inviata, la terza ispezione su Etruria, si legge che è stata lasciata inevasa la richiesta dell’organo di vigilanza di operazione con partner di elevato standing, non è stata portata all’attenzione dell’assemblea dei soci l’unica offerta giuridicamente rilevante cioè quella avanzata da Bpvi”. Per il procuratore di Arezzo quindi Bankitalia nel febbraio 2015, stigmatizza l’operato dei vertici di Etruria e, come si legge, “il ruolo contraddittorio del presidente Rosi che nelle trattative con Vicenza, a fronte di rassicurazioni che forniva, teneva comportamenti che hanno portato all’interruzione della trattativa”. Subito dopo, ha ricordato il procuratore Rossi, arriva il commissariamento e sanzioni al CdA di Etruria proprio per non aver proceduto all’aggregazione. “Dobbiamo ritenere – aggiunge Rossi – che Bpvi era ritenuto un partner di elevato standing. Alla fine noi abbiamo questo quadro e e poi abbiamo letto dichiarazioni dell’ispettore Bankitalia in cui ci venivano relazionati condizioni di Bpvi non dissimili da Etruria L’abbiamo trovato un pò singolare che venisse incentivata questa aggregazione. Nella relazione ispettiva, già quella del 2012 su Vicenza, sembra di leggere le relazioni su Etruria. Ci sono l’inadeguatezza degli organi, i crediti deteriorati e anche le azioni baciate che almeno noi (ad Arezzo) non ce l’avevamo. L’impressione è che questo sia stato determinante nel commissariamento”. “Ora approfondiremo, abbiamo fatto già richiesta ai colleghi di Vicenza di mandarci i documenti. Da quello letto a fonti aperte – conclude Rossi – qui da voi nella Commissione ci è sembrato un pochino strano“.

"Quel pm è equivoco Il Csm lo ha già graziato ma può indagare ancora". Il membro laico di Fi attacca il procuratore di Arezzo: "Su Boschi minimizza ogni volta", scrive Anna Maria Greco, Martedì 05/12/2017, su "Il Giornale". «Guarda caso, ogni volta che lo interrogano su Pierluigi Boschi, il dottor Rossi crea equivoci e minimizza il suo ruolo. Alza una nebbia e francamente certe posizioni sono inspiegabili. Lo ha fatto prima al Csm e ora alla Commissione parlamentare sulle banche». Pierluigi Zanettin, laico di Fi al Csm, ci ha provato già una volta a far emergere le incongruenze del lavoro del procuratore di Arezzo su Banca Etruria, ma a Palazzo de' Marescialli nell'estate del 2016 tutto è stato archiviato. «Per oscuri motivi», disse allora il consigliere. Che torna alla carica, dopo l'accusa a Rossi per aver omesso nell'audizione alla Commissione di informare che il padre del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi è di nuovo indagato.

A questo punto, Roberto Rossi rischia che il Csm torni a indagare su di lui?

«Questo si vedrà. Mi pare di assistere al film di quanto già è avvenuto in Prima commissione del Csm due anni fa. Il dottor Rossi sembra, infatti, soffrire di una sorta di idiosincrasia per le audizioni. Ne furono necessarie ben tre per chiarire i contorni della sua consulenza al dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi di Palazzo Chigi, iniziata nel 2013. Nell'audizione del 28 dicembre 2015 io gli chiesi se Boschi faceva parte del comitato ombra della Banca Etruria e lui rispose di no. La volta successiva gli abbiamo portato la relazione di Bankitalia che diceva il contrario e lui ha dovuto precisare che, in realtà, era componente di una commissione consiliare informale. Sempre il 28 dicembre aveva detto di non conoscere nessuno della famiglia Boschi, ma riconvocato la terza volta ha ammesso di aver indagato nel passato sul padre di Maria Elena più volte».

Il sospetto era di un conflitto d'interessi che potesse offuscare la sua imparzialità nelle indagini su Banca Etruria. Ma il Csm chiuse tutto: ha l'impressione che Rossi sia intoccabile?

«Intoccabile non lo so, certo sono rimasto solo in plenum a chiedere il suo trasferimento d'ufficio, attirandomi critiche piuttosto aspre da parte di altri consiglieri, che mi hanno accusato di avere un pregiudizio politico sul suo caso. Io resto convinto che già allora il procuratore di Arezzo avrebbe dovuto essere trasferito per incompatibilità ambientale o funzionale, ma il plenum preferì invece graziarlo ed io fui l'unico a votare contro l'archiviazione».

Si ritrovò isolato e ora non vuole essere lei a sollevare di nuovo la questione. Ma Rossi si trova ancora nei guai per le sue reticenze.

«Se ho compreso bene la commissione parlamentare presieduta da Pierferdinando Casini intende richiamare per chiarimenti il dottor Rossi, considerate le incongruenze emerse sul ruolo avuto da Pierluigi Boschi nel crack Banca Etruria».

Come finirà, secondo lei?

«Immagino che, come allora, il dottor Rossi dichiarerà, se tornerà in commissione, che non aveva compreso del tutto la domanda».

In realtà, già ha negato in una lettera inviata alla Commissione di aver fatto alcuna omissione nella sua audizione. E per Casini la sua precisazione è «esauriente».

«Non posso giudicare quel che decide la Commissione, ma ho visto che molti componenti insistono perché venga richiamato. Noi, al Csm, quando abbiamo avuto dubbi sulle sue dichiarazioni lo abbiamo sempre ascoltato di nuovo».

Per Andrea Augello, membro della Commissione, la lettera è «ridicola» e chiede di trasmettere verbali delle audizioni e missiva al Csm.

«Può farlo la Commissione o anche un singolo commissario, sotto forma di esposto. In quel caso il Comitato di presidenza dovrà valutare se aprire una pratica per incompatibilità e se lo farà di nuovo dovrà occuparsene la Prima commissione del Csm».

L’obbligo del Csm: essere all’altezza di un patrimonio che si chiama indipendenza, scrive Astolfo Di Amato il 3 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La rinuncia alla toga di Maria Giovanna Romeo, presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, chiama in causa il Csm. Gli indizi sono molti. Nelle ultime elezioni della Associazione nazionale magistrati Davigo ha dato vita, partendo dal nulla, a una corrente, che in sede elettorale ha avuto notevole successo, in virtù di un programma che, ridotto all’osso, si sostanziava nella richiesta di una gestione più corretta e trasparente dei poteri del Consiglio superiore della magistratura. Nel mese di agosto Andrea Mirenda, presidente della I sezione civile del Tribunale di Verona, rinunciava a questa carica per diventare giudice di sorveglianza presso lo stesso tribunale “per andare ad occuparmi degli ultimi della terra da ultimo dei magistrati”, denunciando un sistema giudiziario improntato ad un carrierismo spietato, arbitrario e lottizzatorio. La copertura del posto delicatissimo di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha richiesto addirittura un anno per la decisone, nonostante l’importanza dell’ufficio e la palese incongruenza della sua mancata copertura pur in presenza di candidati di grande spessore professionale e di riconosciuto prestigio. Da ultimo Maria Giovanna Romeo, da cinque anni presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, rinuncia alla toga denunciando che “le scelte del Csm rispondono in primo luogo a logiche di lottizzazione da perfetto manuale Cencelli della Prima Repubblica”. Gli episodi sopra riportati sono solo quelli che hanno avuto una qualche forma di diffusione perché segnalati all’attenzione del grande pubblico, in quanto riportati dalla stampa. In realtà, nell’ordine giudiziario il sentimento di una gestione, da parte del Consiglio superiore della magistratura improntata a criteri clientelari e correntisti è estremamente diffusa. Si tratta di una situazione che presenta aspetti di pericolosità molto maggiori di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In gioco non è affatto un mero ulteriore degrado delle istituzioni su cui si fonda la democrazia italiana. In gioco è la credibilità di uno degli ultimi presidi della democrazia. La magistratura italiana è oggetto di molte critiche, ed alcune anche condivisibili. Ma vi è un punto sul quale il riconoscimento è unanime, anche da parte dei critici più severi. Il giudice italiano è indipendente, sia nella forma e sia nella sostanza. Quando si ha occasione di raffrontare l’esperienza giudiziaria italiana con quella di altri paesi, emerge con chiarezza il privilegio di cui godono i cittadini italiani per avere dei giudici che non sono assoggettati a fonti di potere esterne. Il che significa che davanti al giudice italiano può essere portata, senza remore, qualsiasi denuncia, anche nei confronti dell’uomo più potente, e che nella controversia contro un qualsiasi potentato, si può far fare affidamento su di un giudice non condizionato da tale potenza. Questo è possibile proprio perché vi è un organo, il Consiglio superiore della magistratura, istituzionalmente preposto a tutelare, contro qualsiasi intromissione ed attacco, l’indipendenza della magistratura.

Tuttavia, se il principio della indipendenza viene ad essere leso proprio dall’organismo costituzionalmente demandato a attuarlo, se alla logica del merito si sostituisce quella dell’appartenenza e del favore personale, il rischio è che vi sia una erosione di quella cultura della indipendenza, che ha costituito sino ad ora uno dei valori più condivisibili del patrimonio gelosamente difeso dalla magistratura italiana. L’attuale Consiglio superiore della magistratura è prossimo al termine del suo mandato. Sarà capace di raddrizzare la scadente immagine che sinora ha dato di sè?

Banca Etruria, l’atto di accusa contro Pierluigi Boschi: le «omissioni del pm». Durante l’audizione del 30 novembre scorso a palazzo San Macuto il magistrato aveva minimizzato sulla posizione del banchiere lasciando intendere che gli accertamenti sul suo conto fossero terminati e lui fosse di fatto fuori, scrive Fiorenza Sarzanini il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Le verifiche su Pierluigi Boschi e sugli altri componenti del Cda di Etruria «sono di elevatissima complessità perché hanno come oggetto fatti tra loro collegati e di eccezionale complessità tecnica». È questa la motivazione che ha spinto il procuratore di Arezzo Roberto Rossi a chiedere la proroga dell’indagine per bancarotta fraudolenta. La documentazione trasmessa dallo stesso magistrato alla commissione parlamentare banche rivela che gli amministratori dell’istituto di credito sono tuttora sotto inchiesta e i motivi che hanno convinto gli inquirenti ad andare avanti. Ma svela anche un dettaglio fondamentale proprio sulla posizione del padre della sottosegretaria alla presidenza Maria Elena.

Il gip e la data. Durante l’audizione del 30 novembre scorso a palazzo San Macuto il magistrato aveva minimizzato sulla posizione del banchiere lasciando intendere che gli accertamenti sul suo conto fossero terminati e lui fosse di fatto fuori. «Boschi - aveva spiegato - non è tra i rinviati a giudizio per bancarotta. Non so perché si dimentica sempre che Boschi entra nel Cda nel 2011 come amministratore senza deleghe. Diventa uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Rosi. Noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato bancarotta». Dichiarazioni che avevano provocato la reazione entusiasta dei commissari Pd e dello stesso Matteo Renzi.

Il sì della Camera alla mozione. Adesso si scopre invece che la proroga delle indagini era stata richiesta il 28 settembre 2017 e accolta dal gip due mesi dopo il 28 novembre 2017. Dunque, esattamente due giorni prima che Rossi si presentasse in Parlamento. Perché il magistrato non ne ha fatto cenno? Eppure nella sua richiesta di autorizzazione a svolgere ulteriori controlli aveva sottolineato proprio «l’elevato numero degli indagati, la pendenza di varie deleghe di indagine alla polizia giudiziaria ancora in corso di esecuzione, nonché - ad ulteriore illustrazione della straordinaria complessità del procedimento - gli stralci definiti con richiesta di rinvio a giudizio a carico di 29 imputati e con 50 capi di imputazione». Un nuovo mistero che si aggiunge alle “omissioni” sull’altro fascicolo per l’accusa di falso in prospetto che vede Boschi tra gli indagati e del quale il magistrato non aveva parlato.

Richiesta di chiarimenti. Ecco perché dalla commissione è partita una nuova richiesta di chiarimenti per Rossi. Su richiesta del parlamentare di Idea Andrea Augello, accolta dall’ufficio di presidenza, il procuratore dovrà adesso trasmettere «tutti gli atti relativi ai filoni di inchiesta ancora aperti». Si tratta dei tre capitoli principali sui quali i magistrati di Arezzo stanno ancora lavorando per individuare le responsabilità di amministratori e manager che avrebbero portato Etruria al dissesto. Il primo riguarda appunto la bancarotta fraudolenta «e i comportamenti che dovrebbero, almeno in ipotesi, o aver recato danno patrimoniale o aver contribuito a sottrarre ai creditori la possibilità di recuperare le somme dovute». Il secondo attiene alle «consulenze per 13 milioni di euro di cui si parla in un dettagliato rapporto della Guardia di Finanza pubblicato dai giornali ma di cui non c’è traccia in commissione». E infine quello sul falso in prospetto «per cui è necessario ottenere copia della delibera del Cda con le raccomandazioni al direttore generale sulle emissioni obbligazionarie del 2013. E questo anche per valutare l’efficacia del ruolo svolto dagli organi di vigilanza».

Maria Elena Boschi, via libera alla querela contro De Bortoli: la reazione nel giorno delle indagini sul padre per Etruria, scrive il 4 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Maria Elena Boschi ha lanciato la controffensiva a chi l'ha accusata finora di avere un conflitto di interessi nel caso di Banca Etruria. Nel giorno della notizia sulle nuove indagini a carico di suo padre, già ex vicepresidente dell'istituto aretino, la sottosegretaria ha deciso di passare alle vie legali per difendersi dagli attacchi personali: "Ho firmato oggi il mandato per l'azione civile di risarcimento danni nei confronti del dottor Ferruccio De Bortoli. A breve - ha aggiunto la Boschi su Facebook - procederò anche nei confronti di altri giornalisti". Nel suo ultimo libro Poteri forti (o quasi), l'ex direttore del Corriere della sera aveva scritto che la Boschi fece pressioni sull'ex numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, per salvare la Banca Popolare dell'Etruria, di cui il padre della sottosegretaria è stato per alcuni mesi vice presidente. Ghizzoni non ha mai confermato né smentito e attende una convocazione in audizione in Parlamento, la costituzione di una commissione parlamentare sulle banche slitta e difficilmente si farà in tempo a farla nascere prima della fine della legislatura.

Maria Elena Boschi e Ferruccio De Bortoli, il botta e risposta su Twitter dopo l'annuncio della causa civile, scrive il 5 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". La notizia ha tenuto banco lunedì sera: sette mesi dopo la pubblicazione del libro Poteri Forti, Maria Elena Boschi ha deciso di fare causa a Ferruccio De Bortoli. Ma, attenzione: causa civile, perché i termini per presentare l'annunciata denuncia per diffamazione - sei mesi (3 mesi ndr)- sono scaduti. Insomma, Maria Elena (sulle presunte pressioni sull'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, per acquisire Banca Etruria) non vuole un confronto in tribunale, ma soltanto soldi. Una circostanza che non è sfuggita, affatto, a De Bortoli, il quale ha commentato su Twitter: "Mi aspettavo l'annunciata querela per diffamazione, che non è mai arrivata. Dopo quasi sette mesi apprendo che l'onorevole Boschi mi farà causa civile per danni. Grazie". Pronta la replica della Boschi, che appare più che mai nervosa e stizzita, anche un pizzico arrogante: "Grazie a Lei, Direttore. Ci vediamo in tribunale, buona serata". Già, ci vediamo in tribunale...

DE BORTOLI CADE DAL PERO, scrivono Elide Rossi e Alfredo Mosca il 5 dicembre 2017 su L’Opinione. Sembra che Ferruccio de Bortoli sia caduto dal pero per aver scoperto quanto gli italiani siano “illusi e ingannati” dalla politica. Ovviamente sembra, perché l’acuto ex direttore del Corriere della Sera sa bene che i cittadini, da sempre, sono stati oggetto di ipocrisie, ambiguità e tranelli. Dunque, l’esempio che de Bortoli descrive nell’editoriale di domenica scorsa, relativo al caso in cui la Finanziaria fosse approvata, è solo l’ultimo di una serie ultradecennale di esempi a carico della gente. Del resto, è solo di pochi giorni fa il richiamo del vice presidente della Commissione europea, Jyrki Katainen, sulla necessità che agli italiani si dica la verità sullo stato di salute del Paese. Eppure contro Katainen anziché l’applauso per l’ovvietà, è scattato il coro delle critiche ipocrite per “l’intromissione” negli affari italiani, da parte della maggioranza, del Governo e di un bel pezzo dell’informazione. Se tanto ci dà tanto, anche contro l’autorevole ex direttore avrebbero dovuto piovere smentite e strali, eppure, non ci risulta (fortunatamente). A questo punto delle due l’una, o Katainen aveva e ha ragione, oppure con de Bortoli si è fatto finta di non vedere. La verità, cari amici, è che sia il vice presidente della Commissione europea e sia il noto giornalista dicono bene; agli italiani spesso, troppo spesso, si nasconde la realtà, oppure la si mistifica con un po’ di zucchero filato per tenerli buoni. Ecco perché anche questa legge di stabilità punta al consenso piuttosto che alla riduzione dei problemi concreti del Paese. Non è vero, infatti, che l’Italia sia uscita dal tunnel, che il benessere sia pronto a invadere il Paese, che la crescita sia forte e strutturale. Non solo questo, ma non è vero nemmeno che ci sia bisogno di ulteriori decine di migliaia di statali, che i bonus funzionino, che il debito sia in discesa, che sulle pensioni sia stata fatta giustizia ed equità. Insomma, non è vero quasi niente di ciò che ci dicono e la realtà si tocca con mano tutti i giorni del calendario. L’apparato pubblico è enorme, inefficiente e un po’ furbetto (per non dire peggio), i servizi non funzionano, la giustizia neanche, il fisco è un groviglio di follie, il debito resta stellare e l’occupazione stabile latita. Ecco perché gli italiani, o almeno quella parte che ancora crede alla politica, vengono illusi oppure ingannati sullo stato dell’arte. Su questo tema resta però una certezza, che la quantità di gente disposta ad abboccare alle chiacchiere dei governi sia fortunatamente in via d’estinzione. Per questo sale la protesta, la sfiducia, il malumore, l’astensionismo, per questo i grillini sono il primo partito. Del resto basterebbe vedere quanto, dal Governo Monti in poi, i Cinque Stelle siano cresciuti elettoralmente. Sono bastati sei anni, quattro governi e quattro premier, quattro maggioranze trasformiste, quattro esperienze ambigue, devastanti e incoerenti, per far crescere i pentastellati vicino al 30 per cento. Questo è il risultato delle bugie, degli inganni e delle illusioni sulle necessità del Paese e sui rimedi che servirebbero. Bene, tra qualche mese si tornerà al voto e forse allora a cadere dal pero, fragorosamente, saranno tutti quei politici di cui il Paese non ha proprio bisogno e non sentirà la mancanza.

Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".

Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".

Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.

Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.

Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.

Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.

De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.

La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.

La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…

Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.

Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.

Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.

Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco. 

Tutte le ultime baruffe di carta fra Scalfari, de Bortoli, Feltri e Cerasa, scrive Francesco Damato su "Formiche.net" il 20 maggio 2017. Il Foglio è notoriamente un giornale che supplisce alle poche copie vendute con la fantasia del fondatore Giuliano Ferrara, fra le altre cose ex ministro per i rapporti col Parlamento, nella ormai lontana stagione dell’esordio politico dell’amico Silvio Berlusconi. Una fantasia, quella di Ferrara, brillante, prolifera e mai inosservata perché il suo giornale, oltre ad arrivare nelle edicole, con le incognite e gli inconvenienti di un mercato un po’ avaro con tutti i quotidiani, è diffuso con le rassegne stampa negli ambienti che contano, fra quelli che l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, di cui tornerò a scrivere, chiama “i poteri forti, o quasi”. Poteri, per esempio, come quelli di Carlo De Benedetti e di Eugenio Scalfari, rispettivamente editore e fondatore di Repubblica. Si sa quanto sia difficile di gusti Scalfari, intervenuto pochi giorni fa a bacchettare e un po’ a dileggiare Claudio Cerasa, subentrato da qualche tempo a Giulianone nella direzione del giornale e azzardatosi a strappare a Matteo Renzi la prima intervista come risegretario del Pd, precedendo Repubblica. Ma per una questione personale, di cui vi dirò più avanti, il buon Scalfari ne ha appena tessuto gli elogi confrontandolo col “teppista” Vittorio Feltri, di Libero. Da qualche tempo tuttavia Il Foglio non è più soltanto un giornale. Sembra diventato una specie di sala parto di quel grande ospedale dove è ricoverata la politica italiana. In questa sala parto si cerca affannosamente, ogni volta che la politica offre un emergente, quello che Ferrara anni fa chiamò “royal baby”, inteso come erede del suo già ricordato amico Berlusconi. Dei cui anni che passano lo stesso Berlusconi non si accorge, ma Ferrara sì. Il primo royal baby del Foglio è stato notoriamente Matteo Renzi, con tanto di libro scritto dallo stesso Ferrara e più fortunato del suo quotidiano nelle vendite. Ma Renzi, per quanto risorto come segretario del suo partito dopo la mazzata invernale del referendum costituzionale, non ha più la brillantezza di una volta. Pertanto al Foglio hanno cominciato a cercare qualche altro baby da promuovere a royal. E Cerasa ha dato la sensazione di averlo trovato o intravisto in un sessantenne vigoroso e promettente, paragonandolo proprio a Berlusconi, di cui fu peraltro collaboratore da giovanissimo e potrebbe ripetere il percorso politico, se solo lo volesse. E’ Urbano Cairo, proprietario di una squadra di calcio, che il vecchio Berlusconi ora non ha più; di un giornale – addirittura il Corriere della Sera – altro che quello diretto da Alessandro Sallusti; e di una televisione. Che è la 7 e, pur non avendo gli ascolti delle tre reti del Biscione, fa più politica di tutte quelle messe insieme. E la fa in un modo che all’ex royal baby Renzi deve piacere sempre meno.

Ferruccio de Bortoli – vi ricordate? Vi avevo promesso che sarei tornato ad occuparmene ed eccomi qua – pubblica un libro che, volente o nolente, crea un bel po’ di problemi a Renzi, fra banche, massoneria e altro? E qual è la televisione che lo invita per prima a parlarne, avendo peraltro come spalla un Massimo Cacciari in grandissima forma? La 7 naturalmente, nello studio di Lilli Gruber, dove l’ex direttore del Corriere raccoglie e rilancia la minaccia della renziana sottosegretaria ed ex ministra Maria Elena Boschi, sfidandola a querelarlo davvero per averne rivelato un incontro politicamente galeotto con Federico Ghizzoni, quando questi era amministratore delegato di Unicredit e la Banca Etruria vice presieduta del papà della stessa Boschi ambiva ad essere acquistata, e salvata, proprio da Unicredit. Romano Prodi si fa intervistare da Repubblica mostrandosi assai scettico, se non contrario all’ipotesi che Renzi riconquisti la guida del governo, oltre alla segreteria del partito, e quale televisione lo chiama subito ad approfondire il tema cogliendo l’occasione anche per lanciarne un libro fresco di stampa? La 7, sempre nello studio di Lilli Gruber, che affonda continuamente il coltello nella piaga di Renzi possibile premier, contando sempre sul sorriso complice dell’ospite. La sera dopo quella birichina sempre o simil giovane Lilli, coetanea comunque del suo editore, chiama nel suo salotto un altro ex illustre: Walter Veltroni. Di cui la conduttrice deve presentare non un libro ma un film, dedicato ad un tema allettante come quello della felicità. Ma il tema principale della conversazione finisce -guarda caso- per diventare quello di Renzi e della sua ambizione, vera o presunta, a tornare anche a Palazzo Chigi, dopo essere rimasto al Nazareno. Il povero Walter, che peraltro ammette di avere votato alle primarie per Renzi, pur essendo quel giorno in viaggio -se non ho capito male- in Sudamerica, cerca più volte di sottrarsi all’assedio ma la Lilli non molla, anche a rischio di dimenticarsi del film. Che alla fine però arriva al pettine lo stesso, anche con la visione di qualche scena. Sbaglierò, ma l’impressione che ho ricavato è che la Gruber valuti personalmente l’ipotesi di Renzi di nuovo a Palazzo Chigi come Prodi, cioè male.

Vi avevo promesso che sarei tornato a scrivervi di Scalfari, che ha dato del “teppista” a Vittorio Feltri. Egli ha così reagito al rimprovero fattogli su Libero, in occasione del 45.mo anniversario – ahimè – dell’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi, vicino ora alla Beatificazione di Santa Romana Chiesa, di avere firmato l’anno prima del delitto un manifesto destinato ad eccitare ancora di più i malintenzionati di Lotta Continua. Dove accusavano il povero Calabresi, contro le stesse risultanze giudiziarie, di avere quanto meno contribuito nel 1969 alla mortale caduta da una finestra della Questura di Milano dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per la strage di Piazza Fontana. A parte l’insulto a Feltri, che un po’ – bisogna riconoscerlo – se la va a cercare con quel modo troppo urticante di scrivere e di titolare, Scalfari ha finalmente colto l’occasione per sciogliere un dubbio manifestato anche da me qui, su Formiche.net, quando egli non gradì quanto meno le modalità della nomina del figlio di Calabresi, Mario, a direttore della “sua” Repubblica. Dove peraltro Mario, prima di assumere la guida della Stampa, aveva lavorato con ruoli di rilievo, compreso quello di redattore capo. Scalfari ci ha ora rivelato di essersi pentito subito, sia pure solo in privato, della firma a quel manifesto, vista la strumentalizzazione cui si era prestato. Di avere inutilmente cercato di chiarirsi con lo stesso commissario, con cui tuttavia non riuscì a parlare, riuscendo invece con la moglie Gemma. Che incontrò personalmente nel 2007 nella via di Villa Torlonia appena dedicata alla memoria di suo marito, presente l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni, rinnovando le sue scuse e abbracciandola, entrambi commossi. Un abbraccio col quale Scalfari ha forse un po’ troppo enfaticamente scritto di avere ritenuto di “fare pace con la storia”. Ma se tutto questo lo avesse raccontato in occasione della nomina di Mario Calabresi a direttore della “sua” - ripeto – Repubblica, Scalfari non avrebbe fatto male. Nè avrebbe sbagliato ritirando quella maledetta firma pubblicamente, visto che il manifesto contro Calabresi fu a lungo riproposto dall’Espresso, e non solo, in ogni avversario della morte di Pinelli.

Domande alle banche solo con il sì di Casini, scrive Alessandro Di Matteo il 06/10/2017 su "La Stampa". I lavori veri e propri non sono ancora iniziati, ma è già polemica sulla commissione parlamentare d’inchiesta incaricata di indagare sulle banche italiane. L’organismo, nato per far luce sui fallimenti del sistema creditizio, parte con uno scontro tra maggioranza e opposizioni già sulle regole del gioco e, in particolare, sulla norma che affida al presidente della commissione Pier Ferdinando Casini il potere di decidere quali domande si potranno fare ai testimoni che verranno chiamati. Norma passata con il sì di Pd e Fi con l’opposizione di M5s, Scelta civica e Fratelli d’Italia. Già la nomina di Casini a presidente era stata letta da molti come un modo per garantire una gestione prudente di un organismo che rischia di aprire molti vasi di Pandora. Basti pensare che solo pochi giorni fa Matteo Orfini (Pd) aveva chiesto che la commissione partisse dall’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps, operazione avvenuta quando alla guida di Bankitalia c’era Mario Draghi. Senza contare le tensioni sul rinnovo del governatore di Banca d’Italia. Il rischio che la commissione diventi una rissa tutti contro tutti è temuto da molti, anche dal Quirinale, e ora la norma che affida a Casini l’ultima parola sulle domande è per molti la conferma che si vuole che la situazione non sfugga di mano. Non solo, ma anche la secretazione o meno degli atti verrà decisa dal solo ufficio di presidenza composto da Casini, dai suoi due vice Renato Brunetta (Fi) e Mauro Maria Marino (Pd) e dai segretari Paolo Tosato (Ln) e Karl Zeller (Autonomie). Secondo Enrico Zanetti di Scelta civica, questa norma «è la cartina di tornasole del perché è stato voluto in quel ruolo chi (Casini, ndr) pensava che la commissione d’inchiesta sulle banche fosse addirittura meglio non farla». Giovanni Paglia, di Sinistra italiana, attacca dicendo che «il patto del Nazareno è ancora vivo». Per M5s «è evidente l’intento della maggioranza di insabbiare tutto». Giorgia Meloni, poi, si dice «pessimista» sulla commissione e parla di un «gioco delle tre carte».  Il Pd respinge le critiche, Gian Carlo Sangalli parla di obiezioni «pretestuose» e Renato Brunetta rivendica: «Ricordo all’amica Giorgia che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche l’ho chiesta io per primo, quasi tre anni fa». In serata il clima sembra tuttavia distendersi, tanto che viene approvata all’unanimità la delibera sul regime di classificazione degli atti. 

Commissione banche, sarà Casini a decidere quali domande fare. Approvato il Regolamento. Pd e Forza Italia blindano i poteri di inchiesta. E potranno secretare gli atti a piacimento, scrive Massimo Franchi su “Il Manifesto il 6 ottobre 2017. L’uomo secondo cui la commissione d’inchiesta sulle banche sarebbe stata un «impasto di demagogia e pressappochismo» ora deciderà a suo insindacabile giudizio sulle domande da porre ai testimoni. E c’è da scommettere che respingerà le più delicate. Ad esempio quelle sulle pressioni di Maria Elena Boschi su Banca Intesa per salvare la Banca Etruria di cui era vicepresidente suo padre. Il presidente Pier Ferdinando Casini è stato investito di questo enorme potere dall’ufficio di presidenza, formato dai suoi due vice – Renato Brunetta (Forza Italia) e Mauro Maria Marino (Pd) – e dai segretari Paolo Tosato (Lega) e Karl Zeller (Autonomie). Sono loro ad aver messo a punto il regolamento approvato ieri nella prima riunione della commissione bicamerale. La maggioranza qui è formata da Pd, centristi e Forza Italia, con Brunetta che solo in rari casi si è distinto dalle posizioni del Pd. La proposta del Movimento 5 Stelle di eliminare questa procedura di ammissibilità è stata infatti respinta e il regolamento di commissione è rimasto così come era già stato scritto. Nonostante le critiche di uno come Enrico Zanetti, lungamente viceministro all’Economia: «È la cartina di tornasole del perché come presidente sia stato nominato presidente», attacca. Con questo sistema di ammissibilità delle domande, il presidente Casini potrà autorizzare un testimone a non rispondere a questioni poste da un commissario «impedendo di fatto la ricerca della verità», fa notare il deputato di Sinistra Italiana-Possibile, Giovanni Paglia, aggiungendo che sulle banche il Pd «ritrova un vecchio alleato: Forza Italia che vota sistematicamente con la maggioranza. Sulle cose serie, per loro, il Patto del Nazareno non esce mai di scena». Critiche «pretestuose» secondo Gian Carlo Sangalli (Pd) che invece ricorda come «il vaglio sulle domande ci sia in tutte le commissioni d’inchiesta al mondo». «Il problema va visto nell’insieme – gli risponde Maurizio Migliavacca di Mdp –. E, a parte il potere del presidente sulla legittimità delle domande, quello che viene fuori dal regolamento approvato è un atteggiamento di chiusura da parte del Pd. Danno l’idea di aver paura di quello che potrà uscire», conclude Migliavacca. Che cita ad ulteriore esempio la bocciatura di tutti gli emendamenti che riguardavano l’imposizione del segreto su atti e documenti. «È logico che in alcuni casi la secretazione è giusta e opportuna – spiega Migliavacca – ma il Pd ha votato contro la possibilità di motivarla e di allargare la decisione dal solo Ufficio di presidenza ai rappresentati dei vari gruppi». La commissione che doveva «procedere spedita», insomma, non è ancora partita. Nei prossimi giorni, probabilmente già entro martedì, i rappresentanti dei gruppi forniranno alla presidenza una proposta di metodo di lavoro (quali casi trattare) che comprenderà anche una possibile lista di «auditi». Sulla base di queste proposte, il presidente Pier Ferdinando Casini costruirà uno schema di sintesi su cui poi far partire i lavori della commissione. Il M5s è già partito alla carica. E punta a chiamare a testimoniare sia il presidente della Bce Mario Draghi che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Per non parlare dei casi più spinosi su banche popolari, con la richiesta di ascoltare Federico Ghizzoni, l’ad di Unicredit citato da Ferruccio De Bortoli come persona su cui Maria Elena Boschi fece pressioni per salvare Banca Etruria. Ma ad oggi è molto probabile che tutte le audizioni più scottanti verranno bocciate. Come implicitamente ammette anche Brunetta: «Non si sa ancora da dove si partirà e chi sarà audito per primo». Insomma, i primi passi della commissione banche confermano quanto già si sapeva: non porterà da nessuna parte. Pessimista è anche il procuratore di Milano Francesco Greco, il magistrato che in Italia ha più indagato sui reati bancari: «Penso che una Commissione dovrebbe evitare di fare del gossip, ma deve pensare al problema delle norme finanziarie e intervenire sul sistema bancario. Alcune leggi sono assurde e altre mancano, ad esempio, nel rapporto tra banche e centrale rischi con i grandi gruppi che non vengono mai segnalati», spiega Greco.

Da Bankitalia alla Commissione oltre 4200 fascicoli, una mole sterminata di pagine: le prime anomalie della Vigilanza su BPVi, scrive VicenzaPiù il 21 ottobre 2017. L'elenco definitivo dei documenti di Bankitalia, scrive Gianluca Paolucci su la Stampa che riprendiamo parzialmente per i contenuti che riportava sempre ieri anche CorSera a firma di Fiorenza Sarzanini, arriverà (alla Commissione d'inchiesta parlamentare sulle banche, ndr) solo lunedì. Poi passerà ancora qualche giorno prima che i tutti i documenti arrivino a palazzo San Macuto, sede della commissione d'inchiesta sul sistema bancario. Giorni necessari per catalogare, in via Nazionale la grande mole di documenti - oltre 4200 fascicoli, una mole sterminata di pagine - che saranno messi a disposizione dei parlamentari. I documenti, si spiega, saranno classificati secondo tre categorie: consultabili, riservati (protetti dal segreto bancario) e secretati (perché riguardanti indagini in corso e dunque coperti da segreto istruttorio). Questi ultimi saranno consultabili dai componenti della commissione secondo una procedura di sicurezza e alla presenza degli uomini della Guardia di finanza. Solo una volta terminata la consultazione dei documenti ci sarà l'audizione del governatore, Ignazio Visco. I fascicoli conterranno tutta la corrispondenza intrattenuta con le sette banche oggetto dell'esame della commissione, le segnalazioni alle procure competenti, la corrispondenza con Bce e la Consob. Una mole sterminata, che dovrebbe dimostrare come Banca d'Italia ha fatto sempre il proprio dovere, mentre le eventuali mancanze sono avvenute da altre parti...Ma con il clima attuale, con le critiche nei confronti dell'operato di via Nazionale che arrivano praticamente dall'intero arco costituzionale, non è escluso che qualcosa possa ritorcersi contro la stessa Bankitalia (e la sua... Vigilanza gestita da Carmelo Barbagallo - nella foto -, ndr). Ad esempio, le comunicazioni con la Banca Popolare di Vicenza della primavera del 2013, relative all'operazione di aumento di capitale da oltre 500 milioni di euro che l'istituto guidato da Gianni Zonin si apprestava a lanciare. Bankitalia approva l'operazione, in parte destinata dichiaratamente ad «ampliare la base sociale» anche finanziando i promessi soci con soldi della banca. Via Nazionale ricorda però che le azioni comprate con i soldi della banca vanno scomputate dal patrimonio. Esattamente quello che Vicenza non farà, che non aveva fatto per anni e che è alla base del disastro dell'istituto. Controllerà Bankitalia che a Vicenza abbiano seguito le sue indicazioni? Sì certo. Due anni dopo, quando il cappello del controllare passa alla Bce ed esplode il bubbone. Solo che ormai è troppo tardi. Sempre nel 2013, Bankitalia segnala a Vicenza come il fondo per l'acquisto di azioni proprie fosse troppo «pieno», malgrado le regole imponessero l'autorizzazione di via Nazionale per superare il 5% del capitale e questo limite fosse superato. Cosa succede poi non si sa. Si sa solo che il fondo azioni proprie veniva riempito con gli acquisti dai soci che chiedevano sempre più numerosi di uscire e svuotato per comunicare i dati a Bankitalia. Una pratica talmente consolidata da avere anche un nome commerciale nelle mail interne dei manager: «Campagna svuotafondo». Ma anche questo si saprà solo due anni dopo quella lettera di Bankitalia.

Tutti contro Renzi su Bankitalia. Ma a non volere più il Governatore Visco è un folto partito trasversale, scrive il 20 ottobre 2017 Stefano Sansonetti su "La Notizia Giornale”. Ammettiamo pure che nel metodo, come dicono i critici, la mozione del Pd contro il Governatore della Banca d’Italia non sia stata proprio da manuale. Ma nel merito della critica all’operato di Ignazio Visco trova condivisione? E quanto ampia? Domande non peregrine, visto che finora si è stagliato nitidamente solo il partito dei difensori di Visco, da Sergio Mattarella a Giorgio Napolitano, passando per Carlo Calenda, Walter Veltroni e via dicendo. A dir la verità anche i “difensori” si sono tenuti ben lontani dal nocciolo della gestione degli ultimi sei anni a palazzo Koch. Ma forse adesso è interessante andare a vedere quali e quanti sono gli “accusatori” del Governatore. E scoprire che sono tanti. Un critico, seppur felpato, è il procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Il quale, in occasione di una delle primissime audizioni davanti alla Commissione d’inchiesta sulle banche, l’altro giorno ha puntato l’indice sulle incredibili sovrapposizioni tra Autorità di controllo sulle banche. Il fendente – Alludendo poi a via Nazionale, Greco ha puntualizzato che “spesso c’è stato un approccio prudente” da parte della vigilanza di Bankitalia.  Prudenza che “è un atteggiamento spesso giustificato dalla necessità di evitare danni sistemici”. Poi però, e qui è arrivata una stoccatina, “quando c’è il reato bisogna avvisare le procure perché se poi lo scopro da solo è ancora peggio”. Critiche che invece diventano bordate in altre consistenti fette del Parlamento. Eh sì, perché agli archivi della Camera questi giorni infuocati hanno consegnato non soltanto la mozione Pd, poi approvata, ma anche quelle di molte altre forze (successivamente respinte). Si prenda l’iniziativa dei Cinque Stelle, firmata da pezzi grossi del Movimento come Vito Crimi, Paola Taverna e Nicola Morra. Secondo l’atto pentastellato “nell’ultimo decennio Banca d’Italia avrebbe esercitato un controllo carente su determinate gestioni del credito e del risparmio”. E tale “cattiva gestione avrebbe contribuito a determinare numerosi casi di crac finanziario, ben 7 negli ultimi 9 anni”. Stesso tenore – E che dire della mozione della Lega Nord? Anche questo atto, firmato da massimi esponenti del Carroccio come Giancarlo Giorgetti, Massimiliano Fedriga, Paolo Grimoldi e Umberto Bossi, picchia duro sul Governatore. In un passaggio vi si legge che “la vigilanza operata negli ultimi anni ha presentato numerose falle derivanti proprio dalla mancata individuazione e, ancora peggio, in alcuni casi dalla mancata interruzione e sanzione delle condotte poco trasparenti”. Stesso tenore delle accuse contenute nella mozione di Fratelli d’Italia, tra i cui firmatari vi sono Giorgia Meloni e Fabio Rampelli. Fdi scrive che “negli ultimi anni il sistema bancario e finanziario nazionale è stato scosso da crisi che hanno investito numerosi istituti”. Situazioni che “hanno messo in luce una fragilità del sistema nella quale, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, la carente o addirittura omessa vigilanza ha giocato un ruolo determinante”. Ancora, nel gruppone dei critici del Governatore della Banca d’Italia c’è anche Scelta Civica-Ala, la formazione dei reduci montiani uniti alla pattuglia verdiniana, spesso nella vesti di stampella del Governo. In una loro mozione, firmata da fedelissimi di Denis Verdini come Ignazio Abrignani, Francesco Saverio Romano, Luca D’Alessandro e Massimo Parisi, c’è scritto che “ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo risulterebbe oltremodo incoerente e sospetta agli occhi dei cittadini una posizione che da un lato ritiene addirittura opportuna la costituzione di una Commissione bicamerale di inchiesta sull’attività della vigilanza bancaria, e dall’altro ritenesse auspicabile, invece di un fisiologico e non traumatico ricambio, la conferma alla naturale scadenza dei vertici apicali” della Banca d’Italia. Le richieste – Ebbene, per tutte queste mozioni, così come per quella del Pd ispirata da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, la conclusione è sempre la stessa: impegnare il Governo a valutare l’opportunità di non confermare Visco sulla poltrona più importante di Bankitalia. Il dato non può non far riflettere, soprattutto sulla convenienza strategica di alcune scelte. Sul punto c’è chi dice che un Visco confermato Governatore, con queste premesse parlamentari dai non felicissimi auspici, rischierebbe di farsi “scorticare” in Commissione banche. O comunque di alimentare un tiro al bersaglio che lo dipingerebbe con il banchiere attaccato a ogni costo alla poltrona. Anche perché dall’esterno le stoccate non mancano, e presumibilmente continueranno a non mancare. Si pensi al fronte caldo delle associazioni dei consumatori. Qualche mese fa l’Adusbef guidata da Elio Lannutti, secondo alcuni in predicato di candidarsi con il Movimento Cinque Stelle, ha addirittura lanciato una petizione contro Visco. Qui si chiede al presidente della repubblica e a quello del Consiglio di non confermare il Governatore “per l’incapacità di prevenire crac e dissesti bancari che hanno bruciato 110 miliardi di euro nelle ultime 7 bancarotte di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Mps, gettando sul lastrico 350 mila famiglie”. Senza contare che nei mesi scorsi un bel fastidio a Visco era stato arrecato dal banchiere Pietro D’Aguì, ex numero uno di Banca Intermobiliare, che ha presentato contro Bankitalia un esposto alla procura di Roma, basato addirittura su un memoriale depositato dall’avvocato Michele Gentiloni Silveri, cugino del premier. Certo, D’Aguì ha il dente avvelenato per alcune sanzioni subìte dalla Vigilanza negli anni passati e per alcune operazioni che Palazzo Koch non gli ha avallato. Ma la sua iniziativa non è certo stata indolore per via Nazionale. E per finire nei giorni scorsi a puntare l’indice sul Governatore sono stati anche altri ambienti bancari. A Ferrara, scottata dal tracollo di Carife, ha fatto rumore l’accusa di Riccardo Maiarelli, presidente della Fondazione Carife, il quale si è detto stupito “che solo ora, e con tutto quello che è accaduto, ci si accorga che Visco non aveva la qualità per guidare l’istituto”.

Silvio Berlusconi: "Su Bankitalia dal Pd opportunismo fuori luogo". Dopo le critiche dell'ex Cav al Governatore Visco: "Da sinistra solo cupidigia di potere, vuole le poltrone", scrive il 20/10/2017 "L'Huffington Post". Il primo giorno sono stati i colonnelli azzurri a riempirsi la bocca di distinguo sull'operazione anti-Visco messa in campo dal Pd. Ieri Silvio Berlusconi ha sparato ad alzo zero, addossando al governatore della Banca d'Italia le responsabilità della crisi degli istituti di credito. Oggi, terzo giorno, ennesima giravolta. Con il leader di Forza Italia che si è rispostato al di là della barricata, a fare da argine alle critiche contro Visco. Ecco le sue parole: "Sul caso Bankitalia la mia posizione è stata di massima trasparenza e chiarezza: ho denunciato l'antico vizio della sinistra per l'occupazione dei posti e ribadito, allo stesso tempo, che è comprensibile la volontà di controllo su quello che è successo in questi anni", sottolineando che "non c'è alcun 'asse con Renzi', come qualche giornale ha maliziosamente insinuato". "Proprio per questo abbiamo chiesto per primi la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle banche che ha appena iniziato i suoi lavori. Spetterà proprio alla Commissione Parlamentare indagare su comportamenti di banche e banchieri, e naturalmente anche su quello degli Organi di Vigilanza", sottolinea Berlusconi che, sulla sinistra attacca: "Un comportamento che svela appunto quell'antica cupidigia di potere della sinistra che mira solo ad occupare i posti. Prima lo faceva dopo le elezioni, adesso lo fa anche prima".

Poi, all'ora di pranzo, addirittura una nota ufficiale, se qualcuno non avesse bene inteso il cambio secco di posizione: "La Banca d'Italia, come tutti sappiamo, appartiene all'Eurosistema e la sua indipendenza è sancita nei trattati che hanno istituito la Banca Centrale Europea. Quando si intacca in qualche modo l'autorevolezza di Bankitalia si scalfisce l'intero sistema bancario europeo e si incide, negativamente, sulle relazioni internazionali del nostro Paese, messe ai margini dall'improvvida iniziativa parlamentare dei giorni scorsi del Partito democratico e del suo segretario, Matteo Renzi. La sinistra ha da sempre avuto nel suo Dna la voglia spasmodica di occupare tutte le posizioni di potere. Una volta lo facevano dopo le elezioni, stavolta, sentendo l'odore della sconfitta, lo stanno provando a far prima, anche con comportamenti disdicevoli e istituzionalmente scorretti. In merito alle vicende legate alle crisi che hanno colpito il nostro sistema bancario e finanziario negli ultimi anni, la posizione di Forza Italia è sempre stata cristallina. Siamo stati noi, per primi, a chiedere e volere con forza l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta per far luce su quanto accaduto. Vogliamo trasparenza e verità, sulla finta crisi e la relativa speculazione sullo spread, su Banca Etruria, su Monte dei Paschi, sulle Banche Venete, sui conflitti di interessi all'interno del governo in questi ultimi anni. Su tutto. Vogliamo trasparenza e verità per le centinaia di migliaia di risparmiatori e di piccoli azionisti che in questo disastro hanno perso tutto. Cerchiamo le risposte per loro, e per capire chi ha sbagliato. Vogliamo capire chi doveva vigilare e non l'ha fatto abbastanza, e su questo non faremo sconti a nessuno. Chiarezza e risposte per gli italiani. In merito a Banca d'Italia noi siamo per il totale rispetto di una nostra fondamentale istituzione e per salvaguardare in ogni modo la sua autonomia. Mai trascinare Via Nazionale in scontri tra gruppi politici o partiti. Per questa ragione non abbiamo accettato l'atteggiamento avuto in Parlamento dal Partito democratico e abbiamo denunciato il loro opportunismo fuori luogo e pericoloso per la nostra democrazia. Abbiamo tenuto, noi, un comportamento limpido. Siamo Forza Italia, una forza politica popolare, responsabile e coerente. Dalla parte dei cittadini, ma difendendo sempre e comunque le nostre istituzioni repubblicane. Non siamo e non saremo mai come la sinistra".

E Gianni Letta disse: "Non voteremo mai contro Visco e Draghi". Il principe della diplomazia berlusconiana frena gli animal spirits del suo gruppo sulle banche. Il dialogo sul governo oggi per le larghe intese domani, scrive il 18/10/2017 "L'Huffington Post". Accade qualche ora prima del dibattito parlamentare sulle banche, quando è costretto a intervenire il Gianni Letta, il principe della diplomazia berlusconiana, per sedare gli animal spirits che si erano impadroniti del gruppo alla Camera. Anche con una certa irritazione: "Sarebbe una follia... Noi non possiamo e non dobbiamo votare contro Visco e Draghi". Nasce così la posizione dell'astensione che il capogruppo Renato Brunetta spiega in Aula, suo malgrado, attaccando il Pd e la mossa "indecente" di Renzi. Perché in verità, proprio sulle banche, la posizione del capogruppo di Forza Italia, basta scorrere lo storico delle agenzie di questi mesi, è assai critica sul governatore che, sei anni fa, fu nominato proprio dal governo Berlusconi. Così come, in questi mesi, lo stesso capogruppo è stato tra i principali sostenitori della commissione di inchiesta sulle banche. E, raccontano fonti informate, la tentazione sedata da Gianni Letta, era quella di dare in Aula un segnale in tal senso. Da questa dialettica nasce la posizione dell'astensione, decisa solo dopo che il governo era intervenuto per mitigare il testo. In questa storia che sembra minore ma minore non è, c'è l'affermazione del partito delle larghe intese, incarnato dal principe della diplomazia berlusconiana, che considera ai limiti della follia una posizione che porta allo scontro istituzionale con il capo dello Stato e soprattutto appare un affronto a Mario Draghi. In parecchi ricordano quando il presidente della Bce si presentò ad ascoltare Visco nelle sue Considerazioni finali a maggio, presenza irrituale – la prima volta in sei anni – e ad alto significato "politico", proprio in un momento in cui – anche allora – tutte le polemiche sulla commissione di inchiesta impattavano sulla credibilità di via Nazionale. Proprio quella presenza fu letta come un sostegno pubblico nei confronti di Visco e comunque una difesa dell'immagine e della reputazione di Bankitalia. Ecco, "non possiamo votare contro Draghi" dice Letta mentre nei Palazzi che contano rimbalzano voci di una irritazione del presidente della Bce e di suoi contatti col Quirinale, costretto a sua volta a intervenire con una nota ufficiosa, con l'intento anche di rasserenare i mercati. Larghe intese non significa sostegno a Renzi, significa sostegno al governo oggi, per candidarsi a essere perno di un governo di domani. E non è un caso che Paolo Gentiloni in Aula oggi cita il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, il vero candidato di Berlusconi (e Letta) a palazzo Chigi: "Condivido la posizione di Tajani contraria alla proposta Bce sui crediti in sofferenza". Il riferimento è alla battaglia che tutte le banche italiane vogliono che il governo faccia, in opposizione alla richiesta della vigilanza Bce, a maggioranza tedesca, di aumentare il livello di capitale delle banche per coprire crediti garantiti e non garantiti. Questione che non è stata toccata dalle mozioni di ieri. E non è un caso che, non solo sulla legge elettorale, Forza Italia si sia comportata, in queste settimane, quasi come una stampella parlamentare del governo: gli assenti sulla nota di scostamento, la non partecipazione al voto sulla legge europea, il voto bipartisan sui vaccini. Il governo è il principale interlocutore, più di Renzi. Anche di Mediaset. Ed è evidente che l'interlocuzione è a doppio senso, perché la mossa della golden power su Telecom è certo la mossa di un ministro virtuoso, che pone il governo in una posizione terza e di garanzia, ma anche un'arma per il prossimo governo al fine di tutelare Mediaset dalle pretese di Vivendi. Perché con Berlusconi torna anche il suo gigantesco conflitto di interessi.

LA VERITÀ SULLE BANCHE. La sinistra ha lucrato sul credito e ora ha paura delle indagini, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 21/10/2017, su "Il Giornale". La verità sulle banche è semplice, e va ben oltre le eventuali responsabilità dell'attuale governatore Ignazio Visco, entrato da qualche ora nel mirino di Matteo Renzi guarda caso poco dopo aver osato chiedere ingenti danni patrimoniali al padre della ministra Maria Elena Boschi, sciagurato amministratore di Banca Etruria. È una verità che viene da lontano e che ha sempre ostacolato o limitato l'attività di controllo e vigilanza. Si tratta di questo: pur essendo un istituto di diritto pubblico, i proprietari di Banca d'Italia sono le banche stesse, che una volta erano in maggioranza pubbliche o semi pubbliche ma che nel tempo sono diventate tutte private. Per intenderci: gli azionisti di Bankitalia si chiamano Intesa San Paolo, Unicredit, Ubi, Monte dei Paschi, Carige e decine di altri medi e piccoli istituti di credito. In sostanza il controllore (Bankitalia) è di proprietà dei controllati (le banche). È vero che la legge garantisce al governatore (nominato dal presidente della Repubblica su indicazione del governo) la piena e assoluta autonomia, è altresì vero che di recente si è cercato di mettere una pezza a questa imbarazzante anomalia. Ma il problema resta, come dimostra la storia. Può nella pratica l'amministratore delegato di una società fare un mazzo tanto ai suoi azionisti? In teoria, non nella pratica o almeno non sempre con la libertà, la severità e la celerità necessarie. Seconda verità. Le banche sono società per azioni che operano, o almeno dovrebbero, secondo regole di mercato e nell'interesse esclusivo degli azionisti. Ma non è così, perché dagli anni Novanta sono controllate - il motivo è complicato e noioso da spiegare - dalle rispettive Fondazioni che sono di fatto istituzioni politiche. Adesso non è più così. Ma questo spiega, per esempio, come il Pd abbia potuto fare carne di porco con il Monte Paschi di Siena fino a farlo fallire. Altro che Draghi o Visco. I guai delle banche arrivano dall'intrusione della politica - meglio dire della sinistra - nella gestione disinvolta e interessata delle banche. E la polemica di questi giorni ne è la prova. Non è normale che un membro del governo (la Boschi) chieda le dimissioni del governatore di Bankitalia per non aver controllato le malefatte di suo padre (Pier Luigi Boschi, vice presidente di Banca Etruria) del quale a suo tempo lei garantì con orgoglio la correttezza davanti a tutto il Parlamento. C'è qualche cosa che non torna nella logica di Maria Elena Boschi. Tanto che viene un sospetto: e se Renzi fosse innervosito non dai mancati controlli ma dal fatto che qualcuno ha cominciato a controllare e a chiedere i danni? A pensar male spesso la si azzecca.

La Banca d'Italia di chi è? E' un istituto di diritto pubblico ma in mano a privati, scrive Franco Corleone il 20 ottobre 2017 su “L’Espresso”. La storia della banca d’Italia è assai interessante. Nasce alla fine del 1800 dalla fusione di quattro banche e le riflessioni a tal proposito di Giustino Fortunato sono ancora oggi di estrema attualità. E’ solo nel 1926 che la Banca d’Italia vide riconosciuta l’esclusiva prerogativa dell’emissione della moneta (escludendo Banco di Napoli e Banco di Sicilia) e nel 1936 diventò istituto di diritto pubblico e di proprietà pubblica. Non è questa la sede di affrontare le successive vicende fondamentali per la storia economica e sociale d’Italia con il ruolo spesso decisive dei Governatori eccezionali da Menichella a Einaudi, da Carli a Baffi, da Ciampi a Draghi. Il prestigio della Banca di via Nazionale è caduto con Mario Fazio e la tradizione dell’intangibilità del mostro sacro fu intaccata. Ora la sgangherata mozione del Partito Democratico svela ipocrisie e tentazioni di potere. La caratteristica dell’indipendenza e dell’autonomia della Banca d’Italia è un valore da salvaguardare, ma questa volta potrebbe essere l’occasione per riprendere i contenuti d del disegno di legge del 1999 sulle norme della proprietà della Banca d’Italia e sui criteri di nomina del Consiglio superiore a cui compete la proposta di nomina del Governatore, assunta dal Presidente del Consiglio e fatta dal Presidente della Repubblica. Allora chi sono i partecipanti al capitale della Banca d’Italia? Wikipedia riprende i dati dal sito della Banca di Palazzo Koch e ci mostra una realtà paradossale: Il 30,3% appartiene a Intesa San Paolo, il 22.1% al Unicredit, il 6,3% a Assicurazioni Generali, il 6,2% alla Cassa di Risparmio di Bologna, il 3% all’INPS, il 2,7 all’INAIL, il 4% alla Banca Carige, il 2,8 alla BNL, il 2,5 al Momte dei Paschi di Siena, il 2,1 alla Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli e il 2 alla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza. I 13 membri del Consiglio Superiore sono Orietta Maria Varnelli, Nicola Cacucci, Gaetano Maccaferri, Francesco Argiolas, Franca Maria Alacevich, Carlo Castellano, Donatella Sciuto, Marco Zigon, Giovanni Finazzo, Marco D’Alberti, Lodovico Passerin d’Entreves, Andrea Illy, Ignazio Musu. Tutto chiaro, limpido e trasparente? Sarebbe bello che dallo sgarrettamento tipico del codice barbarino operato dall’onorevole Rosato si passasse alla discussione di una riforma seria per dare credibilità e autorevolezza alle istituzioni repubblicane.

L'ex dirigente di banca svela la grande truffa: così ci hanno sempre fregato sui risparmi, scrive il 21 Ottobre 2017 Francesco Specchia su "Libero Quotidiano". La domanda - diceva il poeta - sorge spontenea: ma Bankitalia, nella sua romanzesca propensione all' omesso controllo ci è o ci fa? Il massimo della negligenza di Palazzo Koch si ebbe, forse, nel 2007 con l' autorizzazione (del 17/3/2008 firmata direttamente dall' allora governatore della Banca d' Italia Mario Draghi) all' acquisto da parte del Monte dei Paschi di Siena della Banca Antonveneta che ufficialmente doveva essere comprata per 9 miliardi ma che finì per costare 17 miliardi; e questo perché c' erano, in realtà, altri 7,9 miliardi che il "Monte" dovette saldare per il debito di Antonvenata con gli olandesi di Abn Amro. Fu l'inizio della fine del "Monte". Una superficialità degli organi di sorveglianza mediaticamente formidabile. Ma, al di là dei casi mediatici, pare quasi vi sia un uso comune, una prassi, un senso di consuetudine che scorre sotto la pelle del sistema bancario incentrato sull' elusione accurata dei controlli verso i nostri istituti di credito. Questo scopro sfogliando Sacco Bancario (Chiarelettere, pp176, 14 euro) firmato da Vincenzo Imperatore, ex dirigentissimo di banca poi pentito, e da Ugo Biggeri, fondatore di Banca Etica. «Per esempio ci sono documenti e rivelazioni del risk manager e responsabile audit della Banca Popolare delle Province Molisane - un gioiellino d' efficienza- che ci dimostrano come i controlli degli organi di vigilanza sono solo formali, basate su autocertificazioni» mi racconta Imperatore «le sto parlando del cosiddetto mitico "piano di risanamento" delle banche a fare previsioni strategiche su come riequilibrare la situazione patrimoniale e finanziaria in caso di scenari particolarmente avversi. Che non è altro che un modulo attraverso cui Palazzo Koch chiede, praticamente, alla banca: sei a posto? La banca risponde: sì. Vabbuò. Punto. E i controlli lì finiscono...». L' importanza ontologica dell'autocertificazione. Così in caso di crac si potrà sempre obbiettare che si erano chieste preventivamente le opportune verifiche. Poi, c' è il caso di un importante indice NSFR sigla che sta per Net Stable Funding Ratio (coefficiente netto di finanziamento stabile), che in sintesi definisce il rapporto tra i soldi disponibili di una banca (chiamiamolo tesoretto) e gli impieghi (cioè prestiti e capitale investito). Indicatore terribile che parte da Basilea 3 e dalla BCE e che dovrebbe garantirci la solidità delle banche; ma a cui dal 2018 sarà quasi impossibile attenersi. Ma la Bce, e indirettamente lo Stato e Bankitalia, suggeriscono, nello stesso tempo, il sistema per aggirare quei medesimi strettissimi parametri che loro stessi hanno imposto. «E lo fanno perché il debito pubblico è detenuto prevalentemente dalla banche; quindi o le banche si liberano del debito vendendo subito i titoli di Stato, e lo Stato crolla, o si crea della fuffa», commente sempre Imperatore. Omessi controlli o controlli inutili, dunque. Che avvengono, guarda caso soprattutto per le Less Significant Institutes, le banche territoriali che dovrebbero essere sorvegliate a vista da Palazzo Koch, mentre le vigilanza delle "grandi banche" italiane spetta alla Banca centrale europea. Nel libro si squadernano le stupefacenti inazioni di entrambi gli organi di vigilanza. Per esempio si parla del sistema violento delle «operazioni baciate» (la pratica di condizionare l'erogazione di finanziamenti all' acquisto di azioni dell'istituto) denunciato ma mai «visto» veramente, sia da Bankitalia che da Consob. Oppure si imperlano le inutili ispezioni di Bankitalia alla banca partenopea Promos; la quale, pur con capitale sociale di soli 10mila euro, finanza l'acquisto di una società aerospazionale -sempre a Napoli- per 1.720.000 euro. La suddetta società è documentalmente tuttora inattiva, ma Bankitalia nonostante un'ispezione nell' ultim' anno, ancora non se n' è accorta. Poi c' è la storia dell'anatocismo che non è mai scomparso; e che, nonostante le dolorose denunce dei clienti delle banche e nonostante le renzianissime norme antiusura, la nostra banca di controllo per eccellenza fatica assai a rilevare. E fanno capolino, in una triste processione, decine di altri spaventevoli esempi. Il che ci riporta alla domanda iniziale: Bankitalia ci è o ci fa? «Un po' e un po'» continua Imperatore «la colpa dell'impreparazione dei funzionari di Bankitalia di fronte alle sempre più sofisticate strategie commerciali delle banche che si affidano a consulenti iperspecializzati nel falsificare i bilanci. Ma è pure colpa -non la chiamo collusione- di una strana superficialità...». Quindi Bankitalia va chiusa? «Oddio, Bankitalia più che chiudere deve azzerare totalmente i vertici, come ha fatto a Unicredit Mustier uno che ha tagliato l'intero management sennò non sarebbe mai riuscito a ricapitalizzare con 13 miliardi». Scommettiamo che non accadrà nulla?

Ma Bankitalia non si ferma con una mozione, scrive Lanfranco Caminiti il 19 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Pare che nella tempesta scatenata dalla mozione del Pd su Visco, con il governo che si affanna a limare e rivedere il testo, il presidente della Repubblica che mette i puntini sulle i, il premier che si defila, gli editorialisti dei quotidiani che lanciano allarmi, “personalità varie” che temono per la nostra stabilità e si stracciano le vesti, il più tranquillo sia proprio lui, Visco Ignazio. Il fatto è che a Palazzo Koch sono abituati alle tempeste, e a tenere dritta la barra. Il fatto, pure, è che se entri in Bankitalia sei di Bankitalia per sempre. Un po’ come per l’Arma dei carabinieri. D’altronde fino al governatore Fazio – e a tutto l’ambaradam che ne venne – la carica era “a vita”, come per la Corte costituzionale americana, e ora è un mandato di sei anni, rinnovabile per un’altra sola volta. Se c’è un’istituzione in Italia che premia il merito – non importa di dove discendano i tuoi lombi, non importa se hai frequentato o meno le più prestigiose università, non importa se conti o no amicizie importanti – quella è Bankitalia. Che sa coltivare i talenti, li tiene stretti, li allena e li mette alla prova perché un giorno possano regnare, e finalmente un giorno li incorona. A leggere l’elenco dei primi direttori generali dal 1893 al 1928 – quando ancora non c’era la carica di governatore – è proprio così: Bombrini, il primo, mazziniano da giovane, chiama in Banca d’Italia Grillo, un orfano cresciuto dalle monache, che gli succede e chiama in Banca d’Italia Marchiori, garibaldino da giovane, che gli succede e chiama in Banca d’Italia Stringher, un figlio di immigrati, che poi succede a se stesso, perché diventa il primo governatore. E da allora la musica non è quasi mai cambiata: dei dieci governatori dal 1928 a oggi, otto hanno prima servito l’incarico di direzione generale. Con due sole eccezioni, e che eccezioni: Luigi Einaudi e Mario Draghi. E, a parte la prima genia “nordica”, senza riguardo all’area geografica di provenienza: Azzolini era napoletano, Menichella era foggiano, Fazio era di Alvito, Frosinone, e lo stesso Visco Ignazio è napoletano. Il prestigio internazionale di cui gode – per la serietà, la professionalità, la competenza – nasce da qui, dal lavoro duro: è come l’Accademia di West Point, come il pugno di università della Ivy League, ma senza il fardello sospetto di aver potuto frequentare quelle austere e storiche aule solo perché papà aveva i dollaroni necessari per fare enormi donazioni, oltre a pagare rette con cui puoi varare una finanziaria di un paese europeo. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E allora pensate a Bombrini e Grillo che si trovarono di fronte alla circolazione di cinque tipi diversi di banconote, emesse oltre che dalla Banca Nazionale anche dal Banco di Napoli, dal Banco di Sicilia, dalla Banca Nazionale Toscana e dalla Banca Toscana di Credito. Ricordate E’ spingule francese, la celeberrima canzone di Di Giacomo? Fa così: «Nu juorno mme ne jètte da la casa / jènno vennenno spíngule francese / Mme chiamma na figliola: ‘ Trase, trase / quanta spíngule daje pe’ nu turnese? ”» È del 1888, e c’erano ancora i tornesi, i baiocchi, i quattrini, gli scudi, il grano, in giro per l’Italia appena unita. Se uno pensa alla “flessibilità dei cambi” di qua e di là del Garigliano, c’è di che far tremare i polsi. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E quando nel marzo 1979 incriminarono Paolo Baffi, il governatore, e arrestarono Sarcinelli, direttore generale, per favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio nel corso di un’inchiesta sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito – proprio lui che aveva intensificato l’attività ispettiva, tanto da essere chiamato “il governatore della Vigilanza”, ricorda qualcosa? Certo, in realtà era una lotta ai coltelli forse legata allo scandalo dei prestiti della Banca di Roma verso la banca di Michele Sindona poco prima che fosse posta in liquidazione coatta amministrativa, o all’enorme “buco nero” di Italcasse che aveva continuato a fornire liquidità agli “amici degli amici” democristiani, e li prosciolsero entrambi; ma dopo due anni, e Baffi già in agosto aveva deciso di dimettersi dall’incarico. Non senza aver prima suggerito al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, il nome del suo successore che era poi il direttore generale dell’Istituto, tale Carlo Azeglio Ciampi. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E quando nel 2005 scoppiò lo scandalo del ruolo “improprio” assunto dal governatore Fazio nella vicenda tra Antonveneta e Banca popolare Lodi per cui fu costretto a dimettersi e gli succedette – questa, una vera “discontinuità” – un uomo che proveniva dalla finanza privata, da Goldman Sachs, Mario Draghi? E quando il primo numero del 2004 di «Famiglia cristiana» pubblicò l’elenco dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia con le relative quote, una lista di nomi e imprese fino a quel momento considerato riservatissimo, e che solo l’anno dopo divenne pubblico e trasparente? E quando nel 1982 Andreatta e Formica, rispettivamente ministro del Tesoro e delle Finanze, litigarono “come comari” rispetto il “divorzio” tra il Tesoro e la sua banca centrale e Bankitalia si trovò nel mezzo? A ripercorrere la storia della Banca d’Italia, si ripercorre la storia politica, prima ancora che economica, di questo paese, dalla sua unità fino al grande boom degli anni Sessanta, l’istituzione della Cassa per il mezzogiorno (benedetto sia Menichella), e poi l’inflazione e poi l’ingresso in Europa. E pensate che questa storia possa entrare in fibrillazione per una mozione, primo firmatario Silvia Fregolent?

Migliore: «Il Parlamento ha il diritto di giudicare Bankitalia», scrive Giulia Merlo il 20 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". «La mozione spiega la posizione della maggioranza, ora nessun totonomi: il successore lo sceglieranno Gentiloni e Mattarella e noi lo appoggeremo con convinzione». «Visco? Chiunque si trovi in posizione di vertice ha il dovere di sottoporsi al giudizio sereno del Parlamento». Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia del governo Gentiloni e fedelissimo del segretario dem Matteo Renzi, ribadisce la linea della maggioranza del suo partito sulla questione Bankitalia e conferma: «La mozione è stata pienamente condivisa dal governo». E dopo lo scontro di ieri l’altro, il premier Gentiloni prova a gettare acqua sul fuoco confermando piena fiducia alla sottosegretaria Maria Elena Boschi, individuata da molti come l’ispiratrice della mozione anti- Visco. 

INTERVISTA A GENNARO MIGLIORE. «Visco? Chiunque si trovi in posizione di vertice ha il dovere di sottoporsi al giudizio sereno del Parlamento». Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia del governo Gentiloni e fedelissimo del segretario dem Matteo Renzi, ribadisce la linea della maggioranza del suo partito sulla questione Bankitalia e conferma: «La mozione è stata pienamente condivisa dal governo».

La mozione del Partito Democratico contro il governatore di Bankitalia Ignazio Visco è stato un fulmine a ciel sereno, che ha alzato la tensione nella maggioranza. Come mai questa sferzata inattesa?

«Guardi, chiariamo subito che la mozione del Pd non è stata una sua iniziativa, ma è intervenuta su un ordine del giorno fissato da una mozione sullo stesso argomento del Movimento 5 Stelle».

Quindi è stata una risposta ai 5 Stelle e non un’iniziativa premeditata?

«Su un tema come Bankitalia la maggioranza, ovviamente, non poteva limitarsi ad esprimere un sì o un no ad una mozione di altri, senza argomentare. Il tema è troppo delicato, quindi si è scelto di realizzare una mozione che spiegasse la posizione della maggioranza e che ha ricevuto ampia condivisione al momento del voto».

Anche il governo ha dato l’impressione di essere stato colto alla sprovvista.

«Non direi, visto che la mozione del Pd ha trovato la convergenza e l’accordo da parte del Governo, espresso attraverso il parere favorevole dato dal delegato del Ministero dell’Economia. Questo è il contesto in cui oggettivamente va collocata la discussione».

Eppure, altrettanto oggettivamente, le reazioni sollevate dalla mozione sono state molto forti anche da parte di voci interne al Pd.

«Io ritengo si sia data enfatizzazione eccessiva alle reazioni, che non corrisponde alla realtà. Ripeto, non c’è alcun contrasto tra Pd e governo: il Pd sostiene questo esecutivo e non ha mai messo in discussione l’autonomia della Banca d’Italia. E’ anche vero, però, che noi abbiamo l’obbligo di individuare quali siano stati gli elementi che non hanno funzionato, in particolare in relazione alle cause del fallimento di varie banche, sulle quali è bene ricordare che il governo sostenuto dal Pd è intervenuto».

Polemiche sterili, quindi?

«Più che altro per nulla appassionanti. Anche perché molte delle reazioni riportate come indiscrezioni e retroscena da varie testate sono poi state puntualmente smentite dai protagonisti».

Però l’attacco al governatore Visco è stato diretto e preciso. Come mai un affondo così personalizzato?

«Io credo che ciascuno, nello svolgere la propria attività di vertice, ha anche il dovere di sottoporsi al giudizio del Parlamento. Un giudizio pacato, circostanziato e sereno ma pur sempre un giudizio».

Personalizzazione c’è stata, quindi.

«L’idea che ci possa essere stata una personalizzazione fa parte della cattiva abitudine giornalistica di trattare ogni cosa come se ogni istituzione fosse interpretata semplicemente da chi ne è al vertice. Io insisto nel dire che noi non abbiamo mai esitato a dire che ci sono stati passaggi sbagliati da parte della politica ai tempi del governo Monti e ora una commissione d’inchiesta sulla questione banche è al lavoro per approfondire proprio questo».

Esiste il timore che l’Europa e in particolare la Banca centrale non apprezzino lo scossone al vertice di Bankitalia?

«No, anche perché l’Italia è il paese che più di altri ha fatto le riforme necessarie per la modernizzazione ed è anche tra i paesi che non hanno fatto ricorso al fondo Salvastati. Non è in alcun modo in discussione la stabilità dell’istituzione Banca d’Italia».

Inevitabilmente, questa mozione innescherà il toto- nomi per il dopo- Visco. Il Pd non rischia di incamminarsi lungo un crinale pericoloso nelle dinamiche interne?

«Scegliere i nomi è una responsabilità che spetta al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Io sono abituato al rispetto dei ruoli e noi appoggeremo il nostro governo. Il Pd sosterrà con convinzione la scelta che farà il premier Paolo Gentiloni».

Così Renzi ha sabotato il patto Colle-Gentiloni-Bankitalia, scrive Antonella Rampino il 19 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il giorno dopo la mozione del Pd con la quale lo si voleva sconfessare e azzoppare, il primo effetto è il rafforzamento di Ignazio Visco sulla via della successione a se stesso. Son stati costretti a dichiararlo un po’ tutti, nessun problema sul suo nome. Ed è calato il grave monito dell’unico padre nobile che al Pd sia rimasto in vetrina, Walter Veltroni, che ha bollato la mossa come «incomprensibile e ingiustificabile». Ma quel che resta, oltre al vulnus arrecato a un’istituzione storicamente strategica da parte di un partito di governo (che ieri il Wall Street Journal ha sbrigativamente annoverato di colpo tra i «populist party»), è la generale sorpresa. Soprattutto al Colle. Perché nelle scorse tre settimane una soluzione era stata trovata, e con l’accordo di tutte le parti in causa: Banca d’Italia, Quirinale, Palazzo Chigi. Occorre pensare che sono ormai alcuni mesi che il Colle aveva istruito il dossier. Si era cercato se all’interno dell’istituto vi fosse una figura di possibile successore a Visco, allo stesso livello di competenza, autorevolezza, e proiezione di entrambe le qualità a livello internazionale. La si era cercata, questa figura, senza trovarla, in una girandola di contatti allargati, che hanno inevitabilmente coinvolto anche Mario Draghi, che del resto conosce bene Via Nazionale essendone stato a sua volta governatore. E come la pensi Draghi lo si è visto con chiarezza quando, il giorno dell’annuale Relazione, è sceso da Francoforte fino a Roma – fatto del tutto inusuale – e si è fatto fotografare mentre si complimentava con Visco – cosa ancor più inusuale. E invece, con un blitzkrieg nel quale appare in controluce l’impronta digitale di Maria Elena Boschi, di cui la deputata Gregolet prima firmataria della mozione è una fedelissima, si è cercato di far saltare tutto. La sottosegretaria e plenipotenziaria renziana di Palazzo Chigi non ha mai fatto mistero della propria contrarietà davanti alla possibilità di riconferma del mandato all’attuale governatore. Visco no, ci ha creato troppi problemi, era la sostanza del ragionamento. Concetto peraltro esplicitamente ribadito da Renzi, rivendicando che «la crisi delle banche non è colpa del Pd», «chi doveva vigilare non ha vigilato» e, ancora ieri, con l’interrogativo retorico «il problema sarà mica Banca Etruria?». Davanti a tutte queste contrarietà, una ventina di giorni fa Ignazio Visco, che è un galantuomo di carattere, aveva dato a Mattarella la disponibilità a fare un passo indietro. In fondo, alla fine del prossimo mandato avrei quasi 75 anni, sono troppi, la responsabilità è gravosa… E in una nuova girandola di contatti, la soluzione individuata al Colle era stato un compromesso. Un compromesso con un precedente storico, quando alla nascita della Bce, come non volendo decidere tra Francia e Germania, si scelse come primo presidente un olandese gradito a Berlino, il quale poi dopo alcuni anni avrebbe ceduto il passo a un francese: la staffetta Wim Duisemberg- Jean Claude Trichet. L’idea era riconfermare Visco almeno per un paio d’anni, anche perché una mancata riconferma suonerebbe stonata assai in Europa. Invece, di fronte al patatrac della mozione, Mattarella è stato costretto a intervenire (ma i sismografi registravano anche una discreta attività dietro le quinte di Giorgio Napolitano, e secondo alcune fonti si sarebbe mosso anche Mario Draghi), e a farlo attraverso l’agenzia di stampa Reuters proprio per tranquillizzare i mercati internazionali. Adesso, dovrà passare la nottata. Ma quel che san tutti coloro che si occupano di banche e vigilanza, in Italia e altrove, è che il sistema bancario italiano è sano, come ha spiegato in dettaglio Visco due giorni fa al Wall Street Journal. E, soprattutto, che alla Banca d’Italia non si può rimproverare di non aver fatto i Carabinieri: la Vigilanza opera infatti di fronte a fatti compiuti, e si ferma davanti alle decisioni delle banche stesse, altrimenti si configurerebbe la preminenza di un ente pubblico sull’intero sistema creditizio. Né la Vigilanza comporta superpoteri d’altro genere: come disse Visco in un’intervista, e come non tarderà a ribadire alla Commissione d’inchiesta sulle crisi bancarie, vi sono poi decisioni che sono solo nelle mani di un governo. O, se del caso, della magistratura.

La Commissione d’inchiesta sulle banche è nelle mani di Mattarella, scrive Antonella Rampino l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio". Mattarella ha trenta giorni di tempo per firmare il decreto, quando l’organismo si insedierà Ghizzoni potrà essere convocato. È alla controfirma del presidente della Repubblica (che a termine di Costituzione ha trenta giorni tempo) il disegno di legge che istituisce una commissione d’inchiesta parlamentare sulla crisi delle banche. Non è un mistero che Sergio Mattarella avrebbe preferito un organismo di indagine, e non dotato degli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, senza alcuna possibilità di opporre segreti professionali o bancari (fatto salvo naturalmente quello insito nel mandato della difesa). Fu chiaro già nel corso di una vera e propria riunione, nel dicembre 2015 al Quirinale con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che sarebbe stato bene evitare di mettere a repentaglio con attacchi politici la reputazione consolidata all’estero di una delle non molte solide e credibili istituzioni italiane. Perché sin da subito fu chiaro che lo scopo politico di quella Commissione all’epoca chiesta a gran voce da Renzi fosse scaricare su Banca d’Italia e Consob le responsabilità politiche del crack di Banca Etruria e Popolare di Vicenza a danno dei risparmiatori. Il non celato obiettivo finale era poi di evitare il rinnovo del mandato da governatore a Ignazio Visco ( in scadenza il prossimo novembre: la procedura prevede un decreto di nomina del capo dello Stato, su proposta del presidente del Consiglio) col progetto – all’epoca – di sostituirlo con il banchiere fiorentino Lorenzo Bini Smaghi ( consorte dell’ex consigliera economica di Renzi Veronica de’ Romanis, e indimenticato nelle Cancellerie europee per aver strenuamente e inutilmente difeso il proprio posto in Bce a fronte dell’arrivo di Mario Draghi, arrivando a scrivere anche una lettera all’allora presidente della Repubblica francese Nicholas Sarkozy). Da quel lontano 2015 molte altre crisi bancarie sono scoppiate, e di fatto per vedere la luce la Commissione sulle banche ha dovuto far affidamento sui grillini, che hanno incalzato un riluttante Pd in Senato solo nel marzo del 2017: i sì furono poco più del necessario, appena 167. E ci sono voluti altri 3 mesi per il voto alla Camera dove in provvedimento si era are-È nato, per poi passare trionfante: 426 voti favorevoli. Adesso, quando probabilmente in settembre Grasso e Boldrini nomineranno i 20 componenti e la Commissione si insedierà, per il Pd potrebbe essere un vero boomerang: le crisi bancarie saranno sui media quotidianamente, e potrà essere convocato Ghizzoni (mai querelato da Maria Elena Boschi) per confermare o smentire le rivelazioni dell’ultimo libro di Ferruccio De Bortoli, e cioè se l’ex ministra delle Riforme gli abbia mai chiesto di dare una mano a Banca Etruria, della quale papà Boschi era vicepresidente ( nominato con Renzi e Boschi già al governo). E il tutto per arrivare forse solo a produrre un’unica relazione non conclusiva: la Commissione ha il mandato di un solo anno, ma scadrà con le elezioni in primavera. Banca d’Italia, intanto, è già alla controffensiva. Per l’annuale relazione del governatore, a fine maggio, è eccezionalmente sceso da Francoforte Mario Draghi: la Bce fa da scudo, non solo simbolicamente. Soprattutto è partita una vera strategia di comunicazione, fatto ancor più inedito per un’istituzione da sempre orgogliosamente non soggetta ad accountability. A Via Nazionale è arrivato Orazio Carabini, un giornalista economico di lunga esperienza e puntuto carattere (entrambe doti utili nell’affiancare, a suo tempo, Mario Sarcinelli in Bnl). Gli effetti cominciano a vedersi, soprattutto in rete. I riservatissimi briefing per i giornalisti sono oggetto di selfie (istituzionali, ma sempre selfie). Paolo Mieli ha colloquiato per il sito la vicedirettrice generale di Via Nazionale. Soprattutto Ignazio Visco ha dato una lunga intervista al Corriere della Sera nella quale, decrittato dal linguaggio sofisticato del banchiere centrale, dice: noi abbiamo ispezionato, commissariato e liquidato le banche in crisi. Ma ci sono decisioni che la Banca d’Italia non può prendere perché semplicemente non rientrano nelle sue competenze. Decisioni che spettano al governo, e ci sono punti dell’Unione bancaria europea che solo un governo può sottoporre alla Ue. Decisioni politiche che, c’è da aggiungere, si sono fatte attendere per mesi, aspettando il risultato che si credeva trionfale del referendum sulla riforma costituzionale. Come è andata, per referendum e crisi bancarie, è purtroppo noto.

[La polemica] Tredici banche fallite e risparmiatori sul lastrico, ma è demenziale incolpare Bankitalia. La colpa è dei politici. Tutta questa discussione, un po’ assurda e venata di populismo, ha avuto il torto di mettere in ombra la vera questione, e cioè le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Responsabilità storiche e molto gravi, scrive Giuseppe Turani su Tiscali il 22 ottobre 2017. Inutile fare pronostici. Troppe sono le carte in tavola e troppe le volontà in gioco. Per ora sembrerebbero certe solo due cose (fino a un certo punto…), e cioè: Visco non se ne vuole andare spontaneamente da Bankitalia e Gentiloni e Mattarella vorrebbero riconfermarlo, anche a costo di dare un dispiacere a Renzi, che invece aveva chiesto una sostituzione. Il perché dell’atteggiamento di Mattarella e Gentiloni (gli unici due a cui spetta decidere. Il parlamento non ha titolo in questa vicenda) è presto spiegato. Nonostante Visco sia sotto accusa da più giorni, contro di lui non sono emerse accuse specifiche. Si è detto che in questi anni sono fallite tredici banche, ma non si è detto quante per colpa di Bankitalia: forse nemmeno una.

Mattarella e Gentiloni avrebbero fatto volentieri a meno di questa tegola. Poi c’è la seconda ragione. In queste settimane si stanno discutendo, in sede internazionale, le nuove regole dell’Unione bancaria europea e i vertici italiani (appunto Mattarella e Gentiloni, ai quali si aggiunge da Francoforte Draghi) sono contrari a creare terremoti in Via Nazionale. E, probabilmente, è per questo che Visco non ha ancora gettato la spugna: sa di avere dalla sua parte forti elementi (le trattative in sede europea) per ottenere una conferma. Inoltre, anche se non è venuto allo scoperto, sembra che sia davvero molto appoggiato da Draghi, che lo stima e che forse pensa di averne bisogno nelle discussioni in sede Bce. Capo dello Stato e capo del governo avrebbero fatto volentieri a meno di questa tegola, e infatti si apprestavano a riconfermare Visco senza perdere altro tempo. Ma la tegola è arrivata. E si è trasformata in una specie di maremoto, di tsunami.

Renzi si è presentato come il Robin Hood che difende i risparmiatori. Renzi, incurante del fatto che non spetta al Parlamento indicare cosa fare con la nomina del governatore, è partito all’attacco e si è presentato come il Robin Hood che difende i risparmiatori dai raggiri dei banchieri. Non si sa, ovviamente, quanto questo pagherà in termini elettorali, ma rimane il fatto che il “popolo di Renzi” vuole la cacciata di Visco, identificato come colui che ha coperto e protetto i banchieri disonesti. Poco importano i fatti. Bankitalia non può mettere un ispettore alle spalle di ogni banchiere e i suoi controlli sono solo, ovviamente, ex post. La credenza popolare ormai lo identifica come protettore di banchieri avidi e disonesti, la categoria forse più odiata da tutti gli italiani.

La mozione con il quale il Pd ha sfiduciato Visco "illegittima e inopportuna". Come non importa che Sabino Cassese, presidente emerito della Corte Costituzionale, abbia definito la mozione con il quale il Pd ha sfiduciato Visco “illegittima e inopportuna”, per la semplice e ovvia ragione che parlamentarizza una questione che invece la legge ha deciso di tenere lontano dalla politica parlamentare. E’ in questo quadro agitato, irreale, un po’ da curva sud, che Mattarella e Gentiloni il 27 devono decidere. Le ultime voci dicono che potrebbero sfidare Renzi e riconfermare Visco, con la richiesta però di innovazioni e di più incisività nell’attività di sorveglianza bancaria.

Le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Tutta questa discussione, un po’ assurda e venata di populismo, ha avuto il torto di mettere in ombra la vera questione, e cioè le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Responsabilità storiche e molto gravi. E’ demenziale l’idea che le banche italiane siano andate in crisi perché Bankitalia non ha vigilato abbastanza: sono andate in crisi perché c’è stata la crisi (come ovunque). Ma la politica, invece di intervenire rapidamente, nulla ha fatto, per anni. E, prima, aveva comunque lottizzato le banche, favorendone la mala gestione. Insomma, Visco forse poteva fare di più e urlare di più. Ma anche la politica ha le sue brave colpe. Quella stessa politica che oggi ne chiede la cacciata.

BANKITALIA/ Giornalisti, pm, vecchi banchieri: le fratture nel muro a difesa di Visco. Non sono mancati anche ieri interventi di un certo peso sulle pagine dei quotidiani italiani riguardo la vicenda legata alle nomine di Bankitalia, scrive Nicola Berti il 22 ottobre 2017 su "Il Sussidiario". Sui grandi quotidiani di ieri era significativo il contrasto fra le "frontline" quasi unificate nella difesa il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e l'estrema complessità degli spunti offerti dallo sfoglio. Su Repubblica, ad esempio, anche l'editoriale principale — firmato dal direttore emerito Ezio Mauro — riconosce che in Italia c'è stato "un problema di vigilanza bancaria", ma di questo accusa "la politica": che non avrebbe quindi "vigilato il vigilante". Tre colonne dopo, sempre in prima pagina, Federico Rampini dagli Usa ha raccontato come il casting finale per la nuova presidenza della Fed è considerato fisiologia istituzionale: perfino se il capo dell'amministrazione è Donald Trump. E questo ha introdotto — "visto da Wall Street" — un giudizio pesantemente negativo su via Nazionale, con una sottolineatura: il vigilante è parso troppo spesso catturato dalle banche vigilate, tuttora partecipanti al capitale della banca centrale. Bisogna però andare a pagina 24 per trovare in un trafiletto economico la notizia che la Consob ha negato il via libera alla ri-quotazione in Borsa di Mps. Piccola cronaca finanziaria? Montepaschi è stato l'epicentro della crisi politico-bancaria italiana: anche se la commissione parlamentare d'inchiesta lo ha per ora emarginato dai lavoro, a favore dei più recenti crac delle popolari venete. A proposito di Consob, è comunque comprensibile che il presidente Giuseppe Vegas, negli ultimi giorni di mandato, non voglia assumersi la responsabilità di "normalizzare" la situazione Siena dopo il maxi-salvataggio statale. Un suo lontano predecessore, Guido Rossi, ci rimise il posto e un pezzo di reputazione per aver autorizzato nel 1981 l'approdo al listino del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non più tardi di un anno dopo era già una gigantesca bancarotta appesa a un ponte di Londra. Ma l'offerta informativa di Repubblica su Bankitalia, ieri, aveva in serbo anche la copertina di Donna, il supplemento femminile del sabato. "Le leggi dei numeri e le ragioni del cuore" era lo strillo su un ritratto molto intenso di Lucrezia Reichlin: l'economista della London School of Economics, molto sussurrata come possibile wild card per il dopo-Visco. Una "quota rosa" che — si dice — potrebbe riscuotere gradimenti molto diversificati: dal presidente della Bce, Mario Draghi, al leader Pd Matteo Renzi; dalla City alla vecchia aristocrazia del Pci (anzitutto il senatore a vita Giorgio Napolitano). L'establishment scalfariano del giornale-partito romano sta facendo muro su Visco, ma impostando già la partita della successione? Il Corriere della Sera non è stato da meno. La difesa istituzionale di Visco — affidata in prima al costituzionalista Sabino Cassese — non ha impedito che a pagina 49 — in uno spazio di notizie brevi — uscisse un articolo di cronaca giudiziaria. In esso — a partire da un'inchiesta di "mala banca" — è stato sintetizzato un punto di vista forte del procuratore capo di Milano Francesco Greco, decano nazionale dell'investigazione finanziaria, ascoltato l'altro giorno dalla commissione presieduta da Pierferdinando Casini. Spesso le Procure hanno dovuto confrontarsi con "un approccio prudente della Vigilanza": un eufemismo per trasmettere l'impressione che via Nazionale è stata sempre poco collaborativa coi magistrati che indagavano su banche e banchieri indiziati di aver "ostacolato la vigilanza". Insomma: per la Procura della piazza finanziaria italiana, per gli storici inquirenti di Mani Pulite, la Banca d'Italia di Visco è stata lontana dalla sufficienza sia sul fronte dell'efficacia della vigilanza, sia su quello della trasparenza verso altre autorità pubbliche in azione a tutela del risparmio. E che dire, per finire, di un articolo del Foglio in cui ricompare fra virgolette Cesare Geronzi? L'ex presidente di Capitalia, ex dirigente Bankitalia e poi storico "banchiere politico", è reduce della conferma di una dura condanna per il crac Parmalat. Nel mezzo del "caso Visco" rilascia giudizi apparentemente scontati sull'appannamento di via Nazionale nella globalizzazione finanziaria. Cita Menichella e Ciampi, Geronzi: non Antonio Fazio di cui fu sodale di ferro fino alla drammatica cacciata del governatore, nel 2005. Dodici anni dopo è un silenzio che appare assordante. Come — sembra dire Geronzi — nel 2017 la "nuova vigilanza" imposta dalla finanza liberista anche in Bankitalia ha portato a questi disastri in banca e a questo gioco al massacro attorno a Palazzo Koch?

Dopo eventi drammatici che hanno travolto col sistema bancario anche BPVI e Veneto Banca, è un dovere rinnovare i vertici di Bankitalia, scrive Ubaldo Alifuoco il 22 ottobre 2017 su "Vicenza Più". Nella seduta parlamentare del 17 ottobre scorso sono state presentate varie mozioni riguardanti la nomina del governatore della Banca d’Italia, e più o meno tutte si esprimono decisamente contro la rinomina di Ignazio Visco. In particolare, la tanto citata mozione del PD* sottolinea che “si tratta di una scelta particolarmente delicata in considerazione del fatto che l'efficacia dell'azione di vigilanza della Banca d'Italia è stata, in questi ultimi anni, messa in dubbio dall'emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche, che … avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione delle crisi bancarie.” In coerenza con tale valutazione, i firmatari impegnano il Governo “ad adottare ogni iniziativa utile a rafforzare l'efficacia delle attività di vigilanza sul sistema bancario ai fini della tutela del risparmio e della promozione di un maggiore clima di fiducia dei cittadini nei confronti del sistema creditizio, individuando a tal fine, nell'ambito delle proprie prerogative, la figura più idonea a garantire nuova fiducia nell'istituto.” Se pensiamo a quanto è accaduto negli ultimi anni in molte banche, e soprattutto nella Banca Popolare di Vicenza, non possiamo che condividere la conclusione del documento, indipendentemente da chi lo ha presentato. Sono i fatti oggettivi ad aver messo in evidenza un’azione della Banca d’Italia che non ha protetto appieno il sistema del risparmio. Su ciò basta ricordare cose che i vicentini ormai conoscono a memoria: il gonfiamento della quotazione del titolo ben al di là del suo valore reale, le cosiddette operazioni “baciate” con cui si concedevano finanziamenti a patto che venissero automaticamente sottoscritte azioni della stessa Banca, la vendita di titoli a gente il cui profilo di rischio avrebbe suggerito altri tipi di investimento, l’investimento in fondi internazionali di dubbia affidabilità, l’estensione degli sportelli prescindendo dalla loro redditività, ecc. Nonostante queste concretissime evidenze, si è sollevata una rete di protezione attorno al governatore Visco assolutamente incomprensibile. Per tutti basti leggere il contraddittorio articolo di Ezio Mauro, su La Repubblica del 21 ottobre scorso, il quale esordisce con questa affermazione: “Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell'impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore …”. Dopo tale giudizio non certo lusinghiero, invece di associarsi a chi chiede un ricambio, Mauro fa seguire un generico attacco alla politica che sfocia, di fatto, in un sostegno al rinnovo del mandato a Visco, e dunque ad una assoluzione complessiva dell’azione svolta dall’intero vertice della nostra Banca centrale. Stupefacenti poi sono le argomentazioni di alcuni politici, come Bersani e Brunetta, la cui unica preoccupazione è quella di bastonare il nemico Renzi prescindendo così totalmente dal merito della vicenda, e sorvolando sulla storia recente del sistema creditizio italiano, e veneto in particolare, dove alcuni personaggi hanno potuto spadroneggiare con il risultato di mettere sul lastrico decine di migliaia di azionisti, di risparmiatori, di professionisti e di imprese. Tra gli argomenti sollevati da questa eterogenea combriccola di fans del governatore, il più irritante riguarda il “principio di indipendenza” che deve salvaguardare la Banca d’Italia e quindi il suo governatore. Per valutare questo assunto è bene ricordare la riorganizzazione dei sistemi bancari dopo la grande crisi degli anni ’29-’30 del secolo scorso. Allora, per sottrarre la politica monetaria e del credito alle bizze della politica, anche in Italia fu redatta la Legge Bancaria del 1936, la quale stabilì regole molto rigide che ingessarono il sistema, spartirono il territorio e le modalità di erogazione del credito in modo da impedire la concorrenza a favore della stabilità. A tutela di tale impianto, si deliberò una indipedenza della Banca Centrale suggellata dalla nomina a vita del suo governatore. Regole comprensibili e opportune in una fase storica in cui la stabilità era la il bene primario da garantire. Nell’ultimo ventennio le priorità sono cambiate e la nuova legge bancaria (262/2005) ha avviato una fase di competizione volta a creare maggiore efficienza. Tra le nuove regole, vi è quella secondo cui il governatore viene nominato con decreto del Presidente della Repubblica su indicazione del Governo, per una durata di sei anni, rinnovabili per un solo mandato. E’ chiaro che il Legislatore ha voluto superare definitivamente il criterio dell’inamovibilità del vertice della Banca, e quindi della insindacabilità della sua azione. In parole più semplici, ciò significa che l’indipendenza della Banca è garantita nel corso del mandato, ma non certo che alla fine di questo non sia possibile stilare un bilancio ed esprimere una valutazione di opportunità partendo dai fatti concreti. Se si ignorano i fatti, e si procede con principi astratti come se nulla fosse accaduto in questi anni, ci troveremmo di fronte all’ennesima beffa ai danni dei risparmiatori che si sono fidati nelle capacità di controllo di una istituzione fondamentale per lo sviluppo del Paese.

*17 Ottobre 2017 – Mozione Fregolent e altri su Banca Italia.

La Camera, premesso che:

o   la Banca d'Italia, banca centrale della Repubblica italiana, parte integrante del Sistema Europeo di Banche Centrali, è un istituto di diritto pubblico, regolato da norme nazionali ed europee, indipendente nell'esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze;

o   le principali funzioni della Banca d'Italia sono dirette ad assicurare la stabilità monetaria e finanziaria, anche attraverso il concorso alle decisioni della politica monetaria unica nell'area dell'euro e lo svolgimento dei compiti propri di una banca centrale componente dell'Eurosistema per garantire la sana e prudente gestione degli intermediari;

o   inoltre, a seguito dell'istituzione dell'Unione bancaria tra i Paesi dell'eurozona, la Banca d'Italia ha assunto dal novembre 2014 la funzione di autorità nazionale competente nell'ambito del Meccanismo di vigilanza unico (MVU o Single Supervisory Mechanism, SSM) e dal 2016 di Autorità nazionale di risoluzione delle crisi nell'ambito del Meccanismo di risoluzione unico (MRU o Single Resolution Mechanism, SRM), funzioni estremamente complesse da esercitare in un ambiente caratterizzato da difficoltà crescenti e cambiamenti profondi e che richiedono un'azione efficiente, responsabile e imparziale;

o   la nomina dell'attuale Governatore risale al novembre del 2011 ed è, pertanto, imminente l'obbligo di procedere al rinnovo della carica che, ai sensi dell'articolo 19, comma 8, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia;

o   si tratta di una scelta particolarmente delicata in considerazione del fatto che l'efficacia dell'azione di vigilanza della Banca d'Italia è stata, in questi ultimi anni, messa in dubbio dall'emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche, che a prescindere dalle ragioni che le hanno originate – sulle quali si pronunceranno gli organi competenti, ivi compresa la Commissione d'inchiesta all'uopo istituita – avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione delle crisi bancarie;

o   rilevato che le predette situazioni di crisi o di dissesto hanno costretto il Governo e il Parlamento ad approvare interventi straordinari per tutelare, anche attraverso l'utilizzo di risorse pubbliche, i risparmiatori e salvaguardare la stabilità finanziaria, in assenza dei quali si sarebbero determinati effetti drammatici sull'intero sistema bancario, sul risparmio dei cittadini, sul credito al sistema produttivo e sulla salvaguardia dei livelli occupazionali,

impegna il Governo 1)   ad adottare ogni iniziativa utile a rafforzare l'efficacia delle attività di vigilanza sul sistema bancario ai fini della tutela del risparmio e della promozione di un maggiore clima di fiducia dei cittadini nei confronti del sistema creditizio, individuando a tal fine, nell'ambito delle proprie prerogative, la figura più idonea a garantire nuova fiducia nell'istituto, tenuto conto anche del mutato contesto e delle nuove competenze attribuite alla Banca d'Italia negli anni più recenti.  «Fregolent, Pelillo, Cinzia Maria Fontana, Tancredi».

(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).

Matteo Orfini: "Desecretiamo gli atti di Bankitalia". Il presidente del Pd vede all'opera le "manine" di via Nazionale e annuncia una lettera a Casini. E sulla Boschi: "Nessun conflitto d'interesse", scrive il 21/10/2017 Alessandro De Angelis su L'Huffington Post. Matteo Orfini, in questa battaglia su Bankitalia, indossa l'elmetto da combattimento. Appena letti i giornali, parte all'attacco, nel corso di una conversazione con l'HuffPost: "È inquietante che dentro Bankitalia ci sia una manina che passa documenti riservati prima che arrivino a una commissione di inchiesta. Sto scrivendo al presidente Casini per chiedere la desecretazione degli atti".

Si riferisce al pezzo del Corriere sui report della Vigilanza? Come leggete la parola Etruria sui giornali scattate.

«Capisco la difesa corporativa tra colleghi, ma la questione è seria. Quei documenti di Bankitalia dovrebbero essere in teoria segreti e riservati. Per questo credo di interpretare una preoccupazione anche dell'attuale Governatore nel dire che è piuttosto inquietante leggerli sui giornali. E siccome non vorrei che su questo terreno si giocasse una partita opaca lunedì invierò una lettera formale al presidente Casini».

Per chiedere?

«Di verificare con Bankitalia la possibilità di desecretare le loro carte oggetto dell'attività della commissione, in modo da rendere ancor più trasparente il nostro lavoro. Credo che nessuno possa avere paura della ricerca della verità. Così capiremo chi davvero ha paura di scoprirla e chi non ne ha. E mi chiedo se il coro unanime che in queste ore si è levato dai giornali per criticarci si assocerà a questa mia richiesta».

Desecretiamo anche il cdm.

«Diciamo che, come noto, non c'è nulla di segreto nei cdm. Praticamente i verbali si leggono sui giornali il giorno dopo».

Qualcosa di poco trasparente c'è. Chi ha deciso sulla mozione per sfrattare Visco?

«È evidente che in Parlamento contano gli atti e su quella mozione c'è il parere positivo del governo.

Sta evitando il punto: Gentiloni è stato informato a cose pressoché fatte o ha condiviso, assieme al cdm, la decisione di Renzi e dalla Boschi?

«Nel momento in cui c'è il parere positivo del governo, per me il dibattito è chiuso: c'è condivisione. Ma io trovo surreale, con tutto il rispetto per le sue domande, che da giorni si parli di procedure».

Mica sono procedure...

Mi lasci finire. La sostanza è che quella mozione dice quello che tutti gli italiani sanno, e cioè che il sistema non ha funzionato al meglio. Sa cosa mi ha impressionato, De Angelis, in questi giorni di estenuante discussione sulla mozione?»

Che cosa?

«Che nessuno di quelli che ci criticano ha difeso nel merito l'operato di Bankitalia. L'esercito degli indignados dei salotti pone solo una questione di eleganza di metodo, ma nessuno sta al merito delle nostre critiche».

Neanche voi, mi permetta, fate una riflessione seria e rigorosa nel merito dell'operato di Bankitalia e della Consob. Ma fate un'operazione politica tesa a cercare un capro espiatorio per la campagna elettorale.

«Non è vero. E infatti ci occuperemo anche della Consob in commissione. Quello che colpisce è la tesi per cui, per tutelare l'indipendenza di Bankitalia, il Parlamento non dovrebbe valutarne l'operato. Questo è un argomento ridicolo. Segnalo che Draghi va al Parlamento europeo ogni tre mesi, a sottoporsi a un durissimo question time. L'operato della Bce è oggetto di appassionati discussioni parlamentari, interrogazioni con obbligo di risposta, critiche. E in Europa nessuno considera tutto questo né lesa maestà né una lesione dell'autonomia della Bce, ma semplice fisiologia democratica. Evidentemente poco apprezzata nel nostro paese».

A proposito di Europa. In Europa sui conflitti di interesse sono molto rigorosi. Lei non vede in questa vicenda un enorme conflitto di interessi di Maria Elena Boschi?

«Proprio no. E in verità quando era ministro per le Riforme si è deciso di commissariare banca Etruria, a dimostrazione che non c'è mai stato conflitto di interesse».

Stiamo al punto però. Bankitalia e Consob hanno multato due volte il papà della Boschi. E la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio si occupa della nomina di chi deve vigilare e controllare. Cioè di chi in teoria potrebbe attenuare o cambiare quelle multe. Questo lei non lo chiama conflitto di interesse?

«Io dico che per noi parlano i fatti. E sulle banche abbiamo operato con serietà come dimostra anche la vicenda di Etruria».

Ritiene che la Boschi debba partecipare o no al consiglio dei ministri del 27 che indicherà il prossimo governatore di Bankitalia, organo appunto che ha multato suo padre per la gestione di Banca Etruria?

«Lo valuterà il presidente del Consiglio. Ma trovo questo argomento francamente ridicolo. Noi abbiamo detto una cosa che tutti gli italiani sanno oppure, caro De Angelis, vuole sostenere che le crisi se le sono sognate? Lei e altri siete guidati da una certa ossessione verso il gruppo dirigente del Pd che vi allontana dalla comprensione della realtà».

Sempre sull'argomento: la querela a De Bortoli non è arrivata da parte della Boschi, e ormai sono scaduti i termini.

«Non abbia fretta. Adesso abbiamo una strumento che ha i poteri della magistratura per acclarare tutto. Alcune forze di opposizione hanno chiesto di audire i manager delle principali banche, gli editori dei principali giornali italiani, e tanti altri. Sono liste di persone interessanti che ascolteremo con attenzione».

Ascolterete Ghizzoni?

«Le rivelo una notizia: io ho chiesto di partire dalle crisi bancarie più recenti, non da quelle più lontane. E questa settimana partiamo dalla Venete, in ordine cronologico inverso, poi c'è Mps, poi le quattro tra cui Etruria. Le sembra l'atteggiamento di un partito che ha qualcosa da nascondere?»

Dice Renzi: va bene anche se Gentiloni nomina Visco. È un cambio di atteggiamento rispetto ai giorni scorsi?

«È quello che abbiamo sempre detto: nomina il presidente dalla Repubblica su indicazione del presidente del Consiglio. Accetteremo qualunque indicazione di Gentiloni, ma c'è bisogno di far dormire sonni tranquilli non agli editorialisti ma ai risparmiatori. Ho letto Sabino Cassese che parla di fulmine al ciel sereno, a proposito della nostra mozione. Probabilmente il cielo sereno lo vedeva lui, ma dubito che i risparmiatori fulminati dalle crisi condividano il suo excursus meteorologico».

Se la scelta cadesse su Visco, voi comunque continuerete a criticare, il minuto dopo, il suo ruolo come avete fatto in questi giorni?

«Noi siamo persone serie e rispetteremo la scelta ma in Parlamento c'è una commissione d'inchiesta che non si può silenziare, condizionare, fermare. E dunque continuerà nel suo lavoro di analisi della adeguatezza nella gestione delle crisi da parte degli organismi di vigilanza. Come richiesto dalla legge che l'ha istituita».

Banche, truffe e giochi di prestigio, scrive Vittorio Bobba il 22 ottobre 2017 su "WeeklyMagazine". Se vuoi nascondere un albero, mettilo in una foresta. Questa massima di antica saggezza sembra sia stata fatta propria dal ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan. Infatti, insieme al facente funzioni di Renzi nonché Premier Paolo Gentiloni, il ministro pochi giorni or sono ha presentato la nuova manovra da 20 miliardi inserita nella legge di stabilità, dichiarando che essa non conteneva alcuna nuova tassa. Sospettavamo che per l’occasione, data anche l’insolita somiglianza con un gong, che l’ineffabile inquilino di via XX Settembre avesse indossato la più inossidabile delle facce di bronzo, tuttavia – ben consci che a pensar male si fa peccato ma di solito s’indovina – abbiamo preferito attendere le conferme prima di sciorinare accuse ingiustificate. E le conferme, manco a dirlo, sono puntualmente arrivate. E’ di oggi al notizia che è stata istituita una tassa del 2 per mille su tutte le polizze vita, sia di nuova sottoscrizione che già in essere! In pratica una mini patrimoniale che andrà a colpire indistintamente ricchi e poveri, secondo uno dei più sacrosanti principi che guidano la sinistra italiana: appiattimento verso il basso dei redditi e verso l’alto dei coefficienti di rapina. Come scriveva Montanelli, la sinistra ama così tanto i poveri che ogni volta che va al potere ne crea di nuovi. Proprio vero, caro Indro. Aspettiamo di vedere quali altre sorprese si celano nel testo della manovra, perché non ho dubbi che ve ne siano altre! Nel frattempo, però, i nostri governanti non si limitano al gioco dei bussolotti con i nostri borsellini, ma si dedicano con solerte applicazione agli esercizi di magia, cercando addirittura di far sparire le prove di quello che è forse il più grande raggiro perpetrato ai danni dei risparmiatori nella storia italiana. Ancora più infame se si pensa che è stato orchestrato non da promotori finanziari privati, ma addirittura da banche ben radicate sul territorio. Veniamo ai fatti: ieri, 18 ottobre, si è svolto a Palazzo San Macuto, sede della neonata commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, un incontro a porte chiuse in cui il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha consegnato al presidente della commissione, Pier Ferdinando Casini, e ai vicepresidenti, Mauro Maria Marino e Renato Brunetta circa 4200 pagine di documentazione sulla vigilanza che Palazzo Koch avrebbe svolto sulle dodici (sì, dodici in totale!) relativi a sette crisi bancarie: le due banche venete, il Monte dei Paschi di Siena e le quattro banche poste in risoluzione due anni fa: Etruria, Ferrara, Chieti e Marche. Ma quel che è peggio in questo gioco delle parti è che l’incontro a porte chiuse non è previsto dai regolamenti della commissione, e i colloqui dovrebbero sempre avvenire in presenza del plenum dei commissari. Per spiegarci meglio, sarebbe come se un magistrato incontrasse un indagato nel segreto del suo ufficio sena la presenza dei legali e delle parti. Vi pare possibile? No, infatti. Però è accaduto, e a quanto pare soli i pentastellati hanno criticato pesantemente il fatto. Secondo il Corriere della Sera, tuttavia, questi documenti saranno a disposizione dei commissari solo dopo che il servizio legale della banca centrale avrà indicato i vari livelli di segretezza per proteggere quelli classificati che, se divulgati, comportano responsabilità penali. Traduzione per il volgo: vi diremo cosa potete leggere e cosa no. Altra mazzata alle regole di una commissione d’inchiesta che non serve comunque a nulla, essendo stata istituita con tempi cronometrati per poter far sì che non avesse i tempi, a fine legislatura, per fare alcunché. Va fatto anche notare che l’incontro si è svolto a seguito del documento che il PD ha presentato in Parlamento chiedendo al Governo di non confermare la nomina del governatore Visco, in scadenza tra pochi giorni. Pare che ciò abbia fatto imbestialire Gentiloni, dato che un suo viceministro, la sempre-in-piedi Maria Etruria, pare fosse a conoscenza del documento ma ne abbia taciuto i contenuti al suo superiore. A questo punto è chiaro che si tratta di un gioco delle parti: Renzi sconfessa Visco e gli addossa le colpe del multicrack. Visco si difende dicendo che è dal 2013 che gli ispettori di Bankitalia hanno scoperto e denunciato le magagne di Banca Etruria (in effetti le relazioni del 23 settembre e del 5 dicembre erano roventi!) e anziché presentare le proprie dimissioni, come farebbe qualunque non-italiano al suo posto, forte del sostegno del Quirinale porta quintali di carta a Casini dicendogli: “Toh! Leggi qua che intanto finisce la legislatura!”. Nel frattempo la Banda della Finocchiona si mette a litigare al proprio interno (segno di inizio dello sgretolamento che dovrà fatalmente colpirli, prima o poi) e crea ad arte attriti tra gli stessi membri del governo al solo scopo di rendere più credibile il teatrino del Grande Pinocchio: incolpare Visco (che comunque non è del tutto innocente, sia chiaro) per coprire le proprie colpe e facendogli pagare il fatto di non essere riuscito a coprire i guai causati dalla famiglia Boschi. Il padre di Maria Elena, infatti, nella riunione del consiglio di Banca Etruria del 29 dicembre 2014 uscì deliberatamente dall’aula quando il responsabile dei rischi, Davide Canestri, spiegò che c’erano migliaia di clienti con i bond in portafoglio e c’era quindi un serio “rischio reputazionale”, proponendo di scambiare quei titoli con prodotti coperti dal Fondo Interbancario. Canestri disse anche che Bankitalia non era stata informata ma che avrebbero informato la Consob! Ecco: con questo gioco delle tre carte si ottennero tre grossi risultati. Primo: spostare il fulcro dell’azione di sorveglianza dalla Banca d’Italia alla Consob, che in realtà c’entra come i cavoli a merenda. Secondo: adesso il signor Boschi può tranquillamente dire: “Ah, ma io non c’ero, non lo sapevo e nessuno me lo ha detto.” Credibile come l’offerta di Poltronesofà che scade domani.

Infatti il liquidatore della banca lo ha compreso nel novero di coloro che dovrebbero rendere circa 400 milioni di Euro ma che alla fine si scopriranno (vedrete!) nullatenenti. Terzo, ma non meno importante, trovare un possibile capro espiatorio da esporre al pubblico ludibrio qualora le cose si fossero messe al peggio. E infatti ecco che Superpinocchio sbandiera il povero Visco gridando “Ve lo avevo detto!” e facendoci pure la bella figura della Cassandra che avrebbe potuto salvare i risparmi degli italiani. I quali italiani però non dimenticano che questo è lo stesso Renzi che in un Faccia a faccia de 6 novembre 2016 disse testualmente: “Oggi la banca (Montepaschi, N.d.R.) è risanata, e investire è un affare”. Ed è anche lo stesso fenomeno che pochi giorni prima del 4 dicembre disse: “Nel caso in cui perdessi il Referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica. Credo profondamente in un valore che è il valore della dignità. Io non sono come tutti gli altri”. Vogliamo commentare? Non credo che ce ne sia bisogno. A meno di voler sottolineare che oltre a un albero nascosto in una foresta, ora abbiamo anche un burattino di legno nascosto nei Boschi. Vorrei invece alimentare ancora un po’ il vostro amore per il Governo spendendo qualche riga sull’ultima perla, in ordine cronologico, sfuggita dalle labbra del ministro Padoan (ancora lui!). Questo baldo giovanotto ha seraficamente asserito che la colpa del dissesto dei conti dell’INPS è degli italiani: “Muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”. Idea geniale e affettuosa nei confronti dei decani, evidentemente considerati dei parassiti a carico dello Stato, non persone che hanno lavorato anni e anni, versando contributi ed essendo pertanto meritevoli di vederseli restituire al momento della quiescenza. Ebbene, proporrei al suddetto ministro, data la sua non più verde età, di incominciare lui stesso a darci il buon esempio. Grazie.

Eroe o spaccone, il pm di Trani divide i garantisti. Gli azzurri lodano l'operato di Ruggiero. Cerasa e la Chirico ironizzano sull'esito del processo, scrive Massimo Malpica, Sabato 01/04/2017, su "Il Giornale".  La solitudine si rivela all'alba, cinque minuti prima delle sei. «È davvero incredibile quanto talvolta ci si possa sentire soli nel fare il proprio dovere», confessa su Facebook il pm di Trani Michele Ruggiero, poche ore dopo la sentenza di primo grado che ha mandato assolte le agenzie di rating che la toga aveva trascinato alla sbarra nel tribunale della cittadina pugliese. Un lungo post, amaro e con tanti spunti polemici (come quello sulla mancata costituzione di parte civile dello Stato), perfettamente in linea col personaggio, capace questa volta di spaccare persino il fronte dei garantisti. Se la sua presa di posizione a favore del «popolo sovrano» (e con tanto di dedica «a tutti i miei fratelli d'Italia») è piaciuta a molti, tanto che il suo post nel pomeriggio di ieri è stato rilanciato come notizia di apertura del blog di Beppe Grillo, e se la sua battaglia dal sapore donchisciottesco contro la finanza internazionale (con corollario di ipotesi di complotto ai danni dell'ultimo governo Berlusconi) ha conquistato i cuori, tra gli altri, degli azzurri Renato Brunetta ed Elvira Savino, qualcuno, invece, non la smette di attaccare Ruggiero e tutta la procura di Trani, quest'ultima peraltro frequentemente al centro di scandali e pasticci negli ultimi anni, col Csm chiamato più volte a occuparsi degli uffici giudiziari affacciati sulla cattedrale di San Nicola Pellegrino. Ieri si è arrabbiata, per dire, la presidente della commissione Giustizia della Camera, la dem Donatella Ferranti, tra l'altro collega di Ruggiero, criticando anche la loquacità social della toga. Ma tra i nemici del pm c'è pure Annalisa Chirico, garantista doc e presidente di «Fino a prova contraria», che due giorni fa ha ironizzato sulla «misera fine» del «processo contro il rating assassino». Ed è nel gruppo pure il direttore del Foglio Claudio Cerasa, che ha suonato così il de profundis ai teoremi complottisti sulla fine dell'esecutivo del Cav: «Cadde non per un gomploddo ma semplicemente perché non si reggeva in piedi». Quanto al leader di Forza Italia, Ruggiero deve parte della sua celebrità proprio al fatto d'aver indagato Berlusconi esattamente sette anni fa, per le presunte pressioni sull'Agcom per far chiudere Annozero. Inchiesta poi trasferita a Roma e finita in una bolla di sapone. Insomma il fronte garantista continua a dividersi tra fan e detrattori del pm immortalato mentre aspettava la sentenza sfoggiando una cravatta tricolore, omaggio alla sovranità del Paese, violata secondo lui dalle manipolazioni di Standard&Poor's e di Fitch. Il Tribunale di Trani, però, non era d'accordo. Ora i tanti che guardavano con interesse all'esito del processo aspettano di capire se Ruggiero deciderà o meno di presentare appello contro l'assoluzione di tutti gli imputati. Che la risposta sia affermativa pare scontato: anche nel post di ieri, oltre che per la solitudine, il pm tranese sospirava per l'«amarezza di non aver raggiunto - per ora - l'obiettivo». Un «per ora» che fa presumere che la battaglia contro i giganti della finanza - o contro i mulini a vento, a seconda dei gusti - di Ruggiero sia tutt'altro che finita, e che la seconda puntata sia solo dietro l'angolo. Resta da capire chi lo seguirà. E che effetto avrà l'endorsement di Beppe Grillo.

Sulla cravatta si scherza, sul calzino no, scrive "Il Giornale" Sabato 01/04/2017.  Ha fatto scalpore la cravatta tricolore del pm di Trani Michele Ruggiero. Tanto che nessun quotidiano ha mancato di sottolinearlo con ironia. Quando invece il programma Mattino5 si soffermò sul calzino azzurro del giudice Raimondo Mesiano - quello della maxi condanna contro Fininvest - il direttore Claudio Brachino subì 2 mesi di sospensione. L'ironia non è uguale per tutti (gli indumenti).

Il pm Ruggiero si sfoga su Fb «Lo Stato mi ha lasciato solo». Rischia il trasferimento d'ufficio, scrive il 31 marzo 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Sono stato lasciato solo. Evidentemente ci sono verità che è bene restino sullo sfondo. E' davvero incredibile quanto talvolta ci si possa sentire soli nel fare il proprio dovere». All’indomani della sentenza del tribunale di Trani che ha assolto tutti gli imputati nel processo alle agenzie di rating, il pm che ha sostenuto l'accusa, Michele Ruggiero, esterna tutta la sua amarezza. Con un lungo intervento su Facebook che non passa inosservato, anche perché lo riprende sul suo blog Beppe Grillo. Uno sfogo che potrebbe però inguaiare il magistrato, esponendolo al rischio di un trasferimento d’ufficio. Il consigliere del Csm Pierantonio Zanettin, laico di Forza Italia, ha annunciato infatti che lunedì chiederà al Comitato di presidenza di Palazzo dei marescialli l’apertura di una pratica in Prima Commissione «per valutare eventuali profili di incompatibilità ambientale e/o funzionale». Un’iniziativa che sembra stridere con il ringraziamento rivolto al magistrato dal capogruppo di Fi alla Camera, Renato Brunetta, «per lo straordinario lavoro fatto per accertare la verità e per fare trasparenza sul periodo 2011-2012, in cui sostanzialmente il nostro Paese fu sottoposto a un’enorme e spaventosa speculazione finanziaria con conseguenze sulla nostra democrazia». Su Facebook Ruggiero scrive che i ripetuti declassamenti operati dalle agenzie di rating nei confronti del debito italiano «manipolando il mercatò, hanno calpestato la dignità del nostro Stato sovrano». E si sofferma soprattutto sul suo senso di solitudine; un sentimento provato «non solo durante le udienze», e dunque mentre si scontrava «contro un autentico esercito di esperti avvocati e blasonati consulenti». Ma che «si faceva più forte» al termine di quelle maratone dibattimentali, per «l'inspiegabile assenza processuale dello Stato» , che non si è costituito parte civile. Ruggiero spiega di aver tenuto duro grazie a chi fuori dalle aule giudiziarie gli ha mostrato vicinanza, «un popolo silenzioso che sentivo straordinariamente vicino; uomini e donne che lottavano nel lavoro di ogni giorno, faticando e rischiando, soli anche loro, forse molto più di me. Era per quella gente semplice e silenziosa, il Popolo Sovrano, che dovevo farmi coraggio, resistere e andare avanti in quell'ardua battaglia giudiziaria». Toni «decisamente autocelebrativi», per il consigliere Zanettin, che ricordando l’intervento di qualche giorno fa su facebook del gip di Trieste contro Debora Serracchiani, invoca un «solenne intervento del CSM, per richiamare i magistrati italiani a canoni di maggiore prudenza, sobrietà e riservatezza nell’uso dei social network». Le affermazioni di Ruggiero sono «gravissime», rilancia la senatrice Pd Francesca Puglisi, che presenterà un’interrogazione parlamentare al ministro Orlando.

Banca Etruria, la preferita dalla P2. L'istituto di Arezzo tornato di recente al centro delle cronache economiche, giudiziarie e politiche ha un precedente di tutto rilievo: ospitava il conto di Licio Gelli per raccogliere le quote di adesione alla loggia, scrive Paolo Biondani il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". Licio Gelli in una foto del 1988La massoneria nera ha inquinato la storia di Banca Etruria? Questo interrogativo, rilanciato con il tracollo dell’istituto di Arezzo e le polemiche contro il governo Renzi, è stato spesso drammatizzato dalle più fantasiose teorie complottistiche. Eppure una risposta chiara e documentata esiste da più di trent’anni: la Popolare dell’Etruria era la banca che custodiva il conto segreto della P2 di Licio Gelli. Il 17 marzo 1981, quando i magistrati di Milano scoprono la lista degli affiliati alla loggia, nell’ufficio di Gelli viene infatti sequestrato anche un libretto di risparmio, numero 218/G, nome in codice “Primavera”. In quegli anni i libretti al portatore, poi vietati dalle leggi anti-riciclaggio, erano il mezzo più usato per gestire fondi neri in modo anonimo. Gelli ha usato lo stesso sistema, appoggiandosi alla banca di Arezzo, per incassare e depositare, dal maggio 1977 al febbraio 1981, centinaia di versamenti che non poteva ufficializzare: le quote d’iscrizione pagate dagli affiliati. La commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi indica proprio quel libretto, analizzato dalla Guardia di Finanza dopo aver perquisito la sede di Banca Etruria, come «una prova documentale inconfutabile» dell’affiliazione di almeno 276 piduisti. Tra quegli iscritti compaiono protagonisti dell’epoca come il banchiere Roberto Calvi o gli ufficiali dei servizi che depistarono le stragi nere, ma anche personaggi poi diventati ancora più potenti, tra cui Silvio Berlusconi. Gli atti dell’inchiesta P2 sono oggi consultabili anche su Internet grazie a una meritoria associazione per la memoria storica, la “Rete degli archivi per non dimenticare”. Gelli è morto nel 2015 dopo essere stato condannato in tutti i gradi di giudizio, tra l’altro, come principale responsabile e primo beneficiario della bancarotta da 1.192 miliardi di lire dell’Ambrosiano, il più grave crack bancario dell’Italia repubblicana. Ma per nascondere i soldi degli affiliati, il burattinaio della P2 si fidava solo di Etruria.

Derivati, Corte dei Conti: 4,1 miliardi di danni. Per la prima volta viene resa nota la ripartizione delle contestazioni tra Morgan Stanley (2,9 miliardi) e i dirigenti del Tesoro (1,2 miliardi) per i contratti rivelati da L'Espresso. Ora si attendono le argomentazioni dei soggetti chiamati in causa, scrive Luca Piana il 19 febbraio 2017 su "L'Espresso". Le parole più pesanti sono quelle pronunciate da Donata Cabras e da Massimiliano Minerva, procuratori della Corte dei Conti del Lazio: alcuni dei derivati sottoscritti dal Tesoro con la banca d'affari Morgan Stanley, che nel 2012 sono costati 3,1 miliardi di euro allo Stato, «evidenziavano profili speculativi». Dunque i contratti non potevano servire per l'unica finalità consentita dalle norme per questo genere di strumenti finanziari, e cioè la «ristrutturazione del debito pubblico», visto che «non è ammissibile per lo Stato assumere rischi rilevantissimi». Rischi speculativi che, invece, quei derivati avevano determinato. Pochi giorni dopo la pubblicazione da parte L'Espresso dei contratti firmati con Morgan Stanley, un nuovo colpo alla linea difensiva del Tesoro sui motivi che hanno spinto lo Stato a sottoscrivere contratti derivati con diverse banche, che stanno costando miliardi di euro alle casse pubbliche, è arrivato venerdì 17 febbraio dalla presentazione della relazione annuale della Corte dei Conti. Per la prima volta è stato quantificato il danno erariale complessivo ipotizzato dalla Procura per il caso Morgan Stanley, che sale a 4,1 miliardi: ai 3,1 miliardi di euro pagati dal Tesoro alla banca americana a inizio 2012, si sommano circa 700 milioni di euro di costo dei debiti fatti dal Tesoro per poter sostenere quei pagamenti, più altri 270 milioni di oneri finanziari versati negli anni precedenti la chiusura anticipata dei derivati, che la banca aveva deciso di esigere alla fine del 2011 e che vennero appunto pagati nei primi giorni dell'anno successivo. Della cifra complessiva, 2,9 miliardi sono stati chiesti all'istituto, mentre i restanti 1,2 miliardi vengono contestati ad alcuni dirigenti pubblici. I nomi non sono stati fatti ma, secondo fonti citate dall'agenzia Reuters, sarebbero confermati quelli di due ex ministri come Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, ai quali si aggiungono due dirigenti del Tesoro, Maria Cannata e Vincenzo La Via. Il procedimento della magistratura contabile non è ancora concluso: la banca e le persone coinvolte sono state invitate a presentare le loro argomentazioni, una fase necessaria per arrivare a eventuali contestazioni definitive.

Derivati, il nuovo scandalo: profitti miliardari delle banche sull'Alta velocità. L’Espresso ha rivelato nel numero scorso i contratti segreti che stanno seppellendo l’Italia sotto un mare di debiti. E mentre governo e banche continuano a tacere, lo scandalo non finisce: ecco come l'Italia ha perso una montagna di quattrini grazie alla finanza creativa dell'era di Tremonti e Siniscalco, scrive Luca Piana il 19 febbraio 2017 su "L'Espresso". Nei pochi dati che il Tesoro ha iniziato a diffondere per rispondere alle pressioni dell’opinione pubblica sui prodotti derivati che stanno costando ai cittadini italiani miliardi e miliardi di euro, ce n’è uno che pochi finora hanno potuto approfondire. È contenuto nel rapporto annuale sul debito pubblico che i tecnici del ministro Pier Carlo Padoan hanno cominciato a redigere dopo le richieste arrivate dal parlamento. In poche righe molto scarne si dice che esiste una specifica categoria di derivati su cui il Tesoro sta perdendo 1,3 miliardi di euro. I numeri più aggiornati sono fermi a fine 2015 e possono sembrare poca cosa rispetto al buco potenziale di tutti i contratti sottoscritti dal governo, che arriva a 36,6 miliardi. Ma non è questo il punto. Il problema è che quel genere di derivati, chiamati dal ministero “ex Ispa” e ben poco spiegati nello stesso rapporto annuale, nasconde una di quelle vicende che solo l’Italia sembra capace di regalarsi. Lo rivelano, ancora una volta, i contratti firmati dal Tesoro con Morgan Stanley, che l’Espresso ha pubblicato in esclusiva la scorsa settimana. La banca americana faceva parte di un pool di istituti che si erano infilati in un’operazione voluta da Giulio Tremonti, l’ex ministro dell’Economia dei governi di Silvio Berlusconi che oggi ama cavalcare l’onda anti-establishment di Donald Trump. “Ispa” era infatti il nome contratto di una società battezzata nel 2002, chiamata “Infrastrutture Spa”, che nei programmi di Tremonti avrebbe dovuto finanziare la costruzione dell’Alta Velocità fra Torino e Napoli. In quegli anni il ministro più potente dell’era berlusconiana aveva varato diversi progetti che i sostenitori amavano dipingere come «innovativi», mentre ai critici sembravano piuttosto «creativi». In breve: Ispa nasce sotto il controllo di una società pubblica (la Cassa Depositi e Prestiti), viene dotata di un suo patrimonio e, forte di quello, formula un piano di finanziamento sul mercato per prestare 25 miliardi di euro al progetto dell’Alta Velocità. Nel frattempo, mentre compie questi passaggi, non manca però di sottoscrivere con alcune banche d’affari una montagna di derivati, sui quali - secondo un copione che sembra ripetersi sempre uguale a se stesso - finirà per perdere un sacco di quattrini. Anzi, come vedremo, non saranno l’Ispa o la controllante Cassa Depositi a doversi sorbire la fetta più consistente delle perdite bensì, anche in questo caso, direttamente lo Stato italiano. A ben guardare, con la costruzione dei binari dei futuri Frecciarossa, l’intera operazione ha poco a che fare. Fin da subìto, infatti, l’operazione viene letta dagli osservatori come un modo per spostare fuori dai conti pubblici - o almeno da quelli rilevanti ai fini delle regole europee - i debiti fatti per compiere le opere. A erigere viadotti e scavare tunnel pensano infatti altri soggetti, mentre Infrastrutture Spa, stando al mandato, deve trovare i soldi necessari. Morgan Stanley entra in gioco nel 2003, quando assieme a due altre banche - la svizzera Ubs e l’italiana Mediocredito Centrale - partecipa alla progettazione di un piano di finanziamento da 25 miliardi di euro. Come abbiamo detto, dell’operazione che Tremonti cuce addosso a Ispa fanno parte anche dei derivati, che nelle intenzioni dichiarate dovrebbero servire per coprire i rischi di un’evoluzione negativa dei tassi d’interesse o dei cambi. La Corte dei Conti, in una relazione dai toni molto duri redatta più tardi, ne conterà ben undici, per un valore nominale di 5 miliardi di euro. Sono quasi tutti datati 2005, anche se per alcuni contratti prevedono che le parti firmatarie inizino a scambiarsi i flussi di pagamento stabiliti dagli accordi molti anni più tardi, addirittura nel 2026. Morgan Stanley, con cinque contratti, fa la parte del leone, seguita da Lehman Brothers e Ubs con due e da J.P.Morgan e Ubs con uno. Non si può dire che per Tremonti e per il successore Domenico Siniscalco, che prenderà il posto del professore di Sondrio il 16 luglio 2004, restituendogli la poltrona il 22 settembre 2005, i derivati Ispa rappresentino una medaglia da appuntarsi sul petto. Calcola la Corte dei Conti che, nei pochi anni in cui sono rimasti in carico alla società controllata dalla Cassa Depositi quei prodotti siano costati alla società un flusso di interessi netto negativo per 126 milioni di euro. Poi, alla fine del 2006, il nuovo governo di Romano Prodi decide di smantellare Ispa, trasferendo i debiti della società direttamente al Tesoro. L’operazione avviene sotto una forte pressione da parte dell’allora numero uno delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, il quale sostiene che il gruppo ferroviario rischia di fallire: i canoni pagati da Trenitalia e dalle altre compagnie di trasporto per l’utilizzo della Rete ferroviaria erano infatti congelati presso Ispa, che li utilizzava come leva per indebitarsi. Moretti vuole rientrare in possesso di quella liquidità, e nella finanziaria per il 2007 il governo toglie di mezzo Ispa. Ma qui, dove inizia il secondo capitolo della storia, avviene il patatrac. Già per la defunta Infrastrutture Spa, i derivati fatti con Morgan Stanley erano quelli che stavano causando il maggior esborso in termini d’interessi. Quando vengono trasferiti al Tesoro, per certi versi la situazione peggiora ulteriormente. Nel contratto originario fra la banca e Ispa, infatti, non esisteva la tanto discussa clausola presente invece nell’accordo quadro che all’epoca regolava tutti i derivati sottoscritti con Morgan Stanley dal Tesoro. Si tratta del cosiddetto “master agreement” del 1994, i cui contenuti sono stati rivelati dall’Espresso nel numero di domenica scorsa. Che cosa dice la clausola? Che l’istituto di New York può chiedere la chiusura di tutti i contratti in essere con il governo italiano, se il valore di mercato complessivo degli stessi supera la soglia di 50 milioni di dollari. Ebbene, nel 2007 quella stessa quota di 50 milioni è già stata superata, quindi Morgan Stanley è già tecnicamente nelle condizioni di esigere la chiusura anticipata dei contratti - anche se la loro scadenza naturale è prevista trent’anni più tardi - incassando il valore di mercato. Eppure i derivati ex Ispa vengono lo stesso trasferiti al Tesoro, e il valore della clausola contestata viene esteso anche a loro. Il passaggio è cruciale. Per fare un paragone, è come se Morgan Stanley si ritrovasse in mano un asso che prima non aveva, che gli dà la possibilità di far saltare il banco: anche sui derivati ex Ispa, infatti, ha ora la possibilità di incassare tutto e subito un valore di mercato che, in teoria, il passare del tempo e il cambiamento delle condizioni di mercato potrebbe diminuire in misura sostanziale. Ma perché il Tesoro ha accettato di estendere una clausola tanto sfavorevole anche a contratti che prima ne erano privi, accrescendo il rischio di vedersi chiedere un maxi esborso? È questo l’aspetto che, nell’intera vicenda, colpisce maggiormente. È infatti solo nel 2007, quando si accollano i contratti di Infrastrutture Spa, che i dirigenti del Tesoro dicono di accorgersi dell’esistenza di quel codicillo presente negli accordi del 1994. «Ci siamo accorti della clausola quando abbiamo dovuto trasferire le posizioni ex Ispa nel nostro portafoglio. Personalmente non (ne) avevo conoscenza sino al momento in cui non abbiamo dovuto assorbire quel pacchetto di contratti», dirà la responsabile della direzione debito pubblico del Tesoro, Maria Cannata, durante una testimonianza, i cui contenuti sono citati dal perito incaricato dalla procura di Roma di esaminare i contratti, Ugo Pomante. Nella sua perizia, scritta nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria chiusa con l’archiviazione, Pomante critica la «mancata gestione» di un problema come quello rappresentato dalla soglia di 50 milioni di dollari, che invalida qualsiasi logica possa avere, per uno Stato, il sottoscrivere strumenti finanziari come i derivati, conosciuti per la loro portata speculativa e per i rischi che si portano appresso. Ma c’è di più: anche dopo aver assorbito i contratti ex Ispa, i dirigenti del Tesoro non paiono preoccupati dal fatto di aver ormai superato il livello critico, e di essere dunque nelle condizioni in cui Morgan Stanley può passare all’incasso: «C’è sempre stata la convinzione che la clausola non era da esercitarsi (…) si era convinti e certi che la stessa non sarebbe mai stata attivata», dichiarerà Maria Cannata nella testimonianza già citata. Sui mercati finanziari, fare troppe previsioni espone sempre al rischio di essere smentiti dai fatti. E, in effetti, alla fine del 2011, la banca americana compie l’atto che i dirigenti del Tesoro dicevano di non aspettarsi: comunica di voler chiudere i contratti e esige il pagamento di 3,1 miliardi di euro, che verrà effettuato all’inizio del 2012 dal governo di Mario Monti, insediatosi da poche settimane e alle prese con una durissima crisi finanziaria. Badate bene: lo fa quando il valore di mercato dei derivati in essere è di 3,5 miliardi di dollari, settanta volte la soglia di allarme che già le dava la possibilità di esercitare la clausola. Tra gli altri, viene chiuso anche uno degli “Interest rate swap” ereditati da Ispa. Il contratto originario del 2005 prevedeva che, per un periodo di vent’anni, fino al 2026, la società a controllo pubblico pagasse una somma annuale pari al 5,48 per cento su un valore nominale di 1 miliardo di euro (ovvero 54,8 milioni). Contestualmente, Morgan Stanley le avrebbe versato una somma pari al tasso di mercato Euribor, maggiorato dello 0,235 per cento. Queste stesse identiche condizioni vengono trasferite anche nel contratto, firmato l’11 luglio 2007, in cui il Tesoro subentra a Ispa. Quello che cambia, è la clausola di chiusura anticipata che Morgan si ritrova in mano. Prima, per incassare i profitti generati dall’operazione, avrebbe dovuto arrivare anno dopo anno fino al 2026, aspettando che anno dopo anno affluissero gli interessi pagati dal Tesoro. Ora, invece, può calare l’asso, come fa alla fine del 2011, costringendo il governo italiano - per quel singolo Interest rate swap che proviene dall’Ispa - a sborsare sull’unghia 305,9 milioni. Questi trecento e passa milioni potrebbero sembra un’eredità sufficiente della finanza creativa dei primi anni Duemila. Purtroppo, però, non è finita qui. Per capirlo basta tornare al dato citato all’inizio dell’articolo: sui derivati ex Ispa le perdite potenziali sono ancora pari a 1,3 miliardi di euro. Che cosa vuol dire? Significa che da qui a quando scadranno tutti i derivati della defunta società, in base alle attuali condizioni di mercato, il governo dovrà sborsare interessi netti per 1,3 miliardi di euro. Quando finirà questo stillicidio non si sa, perché il Tesoro non ha mai comunicato quali dei contratti originali con Lehman Brothers, Ubs, Depfa, J.P. Morgan e di quelli residui con Morgan Stanley sono effettivamente terminati o, magari, sono stati ristrutturati. In teoria, alcuni di quei vecchi contratti sarebbero scaduti soltanto nel 2045. Quando i Frecciarossa correranno sui binari dell’Alta Velocità ormai da quasi quarant’anni.

Derivati, ecco i contratti segreti che hanno svenduto l’Italia alle banche. Pubblichiamo per la prima volta i contratti con la banca americana Morgan Stanley che nel 2013 ci sono costati più di tre miliardi di euro. Sull'Espresso in edicola domenica 12 l'inchiesta integrale, scrive Luca Piana il 10 febbraio 2017 su "L'Espresso". Cade il segreto che le istituzioni hanno cercato di porre per impedire la divulgazione dei contratti derivati fatti dal Tesoro con le banche d'affari, e che stanno costando miliardi di euro alle casse pubbliche. Nel numero in edicola domenica 12 febbraio, L'Espresso pubblica infatti per la prima volta i contratti che nei primi giorni del 2012 hanno costretto il governo di Mario Monti a versare 3,1 miliardi di euro alla banca americana Morgan Stanley, per effetto di strumenti finanziari ad alto rischio che erano stati sottoscritti negli anni precedenti. Si tratta di quattro famiglie di derivati molto complessi, che l'istituto ebbe la facoltà di terminare in largo anticipo rispetto alla data di scadenza prevista, per effetto di una discussa clausola di chiusura anticipata prevista in un vecchio accordo del 1994, mai esercitata in precedenza. Nei dettagli i contratti chiusi erano due “Interest rate swap” e due “swaption”, che vengono descritti nell'articolo dell'Espresso assieme ad altri documenti relativi ai rapporti fra il Tesoro e Morgan Stanley. Ci sono i memorandum con i quali, proprio in concomitanza con l'avvicendamento a Palazzo Chigi tra il premier uscente Silvio Berlusconi e Monti, la banca americana comunicava al governo la decisione di rientrare di una cifra di 3,5 miliardi di dollari. E ci sono i contenuti di una perizia richiesta dalla procura di Roma nel corso di un'indagine giudiziaria avviato nel 2015 e poi archiviato. Il professor Ugo Pomante, l'esperto interpellato dai magistrati romani, nella sua ricostruzione sostiene che per effetto di quella clausola del 1994 i vertici del Tesoro avrebbero dovuto astenersi dal fare nuovi contratti con Morgan Stanley. Al contrario negli anni che vanno dal 2004 al 2008 vennero rinegoziati derivati precedenti o ne vennero fatti di nuovi, come dimostrano i documenti rilevati da L'Espresso, perché i vertici del Tesoro non erano a conoscenza o sottovalutarono gli effetti della clausola in mano alla banca americana.

Deriva di Stato, i contratti segreti che hanno svenduto l'Italia alle banche. Pubblichiamo per la prima volta i contratti con la banca americana Morgan Stanley che nel 2013 ci sono costati più di tre miliardi di euro. Il governo li ha sempre nascosti. L’Espresso ora li rivela, scrive Luca Piana il 13 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Il linguaggio è l’inglese standard delle banche d’affari. I termini utilizzati sono spesso tecnici, com’è naturale quando si tratta di strumenti finanziari complessi. Le cifre in gioco appaiono astronomiche, un miliardo di dollari, un miliardo e mezzo di sterline: tre miliardi di euro. Soprattutto, però, ci sono tutti gli elementi per ricostruire un suicidio finanziario a cui l’Italia si è sottoposta, accettando di incassare alcune decine di milioni di euro come contropartita di contratti che, nel giro di pochi anni, l’hanno poi costretta a sborsare trenta volte tanto. Si presenta così, in un fascicolo di quasi 300 pagine, la soluzione a uno dei misteri meglio custoditi d’Italia: gli strumenti derivati sottoscritti dal Tesoro con alcune banche internazionali che, anno dopo anno, stanno costando alle casse pubbliche un flusso ininterrotto di perdite miliardarie. Per la prima volta, infatti, l’Espresso è in grado di pubblicare i contenuti di un pacchetto di contratti che nei primi giorni del 2012 misero il governo di Mario Monti con le spalle al muro, costringendolo a versare 3,1 miliardi di euro nelle casse della banca americana Morgan Stanley. Quando la notizia trapelò, a dispetto dei tentativi del Tesoro di far passare l’operazione sotto silenzio, la questione dei derivati esplose con virulenza, determinando indagini parlamentari, inchieste da parte della magistratura e dando il via a un accertamento da parte della Corte dei Conti, che sta valutando una richiesta danni miliardaria. Nonostante il pressing dell’opinione pubblica, però, fino a oggi i contratti siglati dallo Stato con Morgan Stanley o con le altre banche internazionali non hanno mai passato la barriera di riservatezza eretta dal Tesoro. Il governo e le istituzioni respingono le richieste che arrivano da più parti per poterli visionare, al fine di capire come ha fatto il ministero a impelagarsi in una serie di operazioni finanziarie che diversi osservatori giudicano eccessivamente rischiose. I derivati, infatti, sono strumenti che permettono a chi li sottoscrive di muovere cifre enormi, impegnando un capitale iniziale ridotto. Possono avere una loro utilità, se concepiti per proteggersi dagli scossoni dei mercati. Ma possono anche rivelarsi estremamente rischiosi, se utilizzati con un fine speculativo. Di qui gli interrogativi che sono nati sull’operato del Tesoro: soltanto nel quinquennio dal 2011 al 2015, stando agli ultimi dati noti, i derivati hanno avuto un impatto negativo sui conti pubblici di 23,5 miliardi di euro, fra interessi netti pagati alle banche e altri oneri connessi. E ancora: gli ultimi conteggi disponibili dicono che gli strumenti tuttora in essere nel portafoglio del Tesoro presentano perdite potenziali per ulteriori 36 miliardi di euro. Fatti due conti si può dedurre che al governo di Paolo Gentiloni basterebbe non avere questa zavorra per evitare la manovra di aggiustamento da 3,4 miliardi di euro che l’Unione europea ha chiesto all’Italia. Alla luce di questi numeri, in molti hanno provato a capire che cos’è davvero successo in questa zona segreta dell’attività dello Stato. Con un’azione pilota, il giornalista Guido Romeo, fondatore della onlus “Diritto di sapere”, ha chiesto di accedere ai contratti prima al Tesoro, poi al Tar del Lazio, infine al Consiglio di Stato. Niente da fare, su tutti e tre i fronti. Nel 2015 la Commissione Finanze della Camera ha condotto un’indagine conoscitiva sul fenomeno, senza ottenere i documenti. Infine un gruppo di parlamentari del Movimento 5 Stelle si è rivolto alla Commissione che a Palazzo Chigi regola l’accesso agli atti della pubblica amministrazione. Zero risultati. Oggi, finalmente, eccoli. Quando Morgan Stanley bussò alla porta del neo-premier Mario Monti, nelle ultime settimane del 2011, era un periodo già di per sé difficile: la crisi dello spread stava mettendo a dura prova i conti pubblici e molti paventavano un default dell’Italia. Il maxi esborso da 3,1 miliardi di euro fece sensazione ma, da quel momento, le preoccupazioni non sono diminuite, viste le nuove perdite che sono andate materializzandosi su altri derivati. Le banche coinvolte in questo genere di operazioni sono diciannove, da J.P. Morgan a Ubs, da Deutsche Bank a Goldman Sachs, stando a una lista diffusa qualche tempo fa dal ministero. Ma al di là dei nudi nomi, poco si sa. Non sono note le posizioni del Tesoro con ognuno degli istituti interessati, con quali ci sta guadagnando e con quali perdendo, quali motivi hanno determinato la scelta di firmare alcuni specifici contratti e quali analisi di rischio sono state condotte prima di farlo. Ecco perché il caso Morgan Stanley, al di là del tempo trascorso, resta di grandissima attualità. Quei derivati ormai chiusi rappresentano infatti la punta di un iceberg costituito da decine e decine di contratti per ora ignoti, che i vari governi hanno sempre voluto mantenere il più possibile sotto il pelo dell’acqua. «La divulgazione», è la posizione espressa da Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, «avrebbe riflessi pregiudizievoli che determinerebbero uno svantaggio competitivo» dell’Italia rispetto alle banche e agli «altri Stati che fanno uso di questi strumenti». Tuttavia, anche senza rivelare i particolari più minuti, nel faldone di documenti che hanno portato al maxi esborso del 2012 balzano agli occhi alcuni aspetti che meriterebbero risposte più precise. I contratti che hanno determinato il maxi salasso di cinque anni fa sono principalmente quattro. Due sono di un genere chiamato “interest rate swap”, spesso indicato con le iniziali “Irs”; gli altri due nel gergo finanziario vengono invece definiti “swaption”. L’Irs è un accordo che vincola le due parti a scambiarsi un flusso d’interessi, a scadenze e tassi prefissati. Nel più tipico dei casi, il Tesoro si impegna una volta l’anno a versare alla banca un tasso fisso pari, ad esempio, al 4 per cento di una cifra indicata come riferimento (tipo un miliardo di euro); la banca al contrario versa al Tesoro un tasso variabile, ad esempio l’Euribor. Se l’Euribor vale più del 4 per cento, ci guadagna lo Stato; se vale meno, la banca. A questa struttura, le swaption aggiungono un tassello. Si tratta di opzioni che il Tesoro ha venduto alle banche e che, in un momento successivo, permetteranno loro di entrare in un Irs o in un altro genere di swap, a tassi definiti già in partenza. Ovviamente, quando l’opzione sarà esercitabile, la banca lo farà solo se le condizioni di mercato saranno a lei favorevoli. I documenti che l’Espresso ha potuto consultare, in realtà, mostrano che le operazioni intraprese con Morgan Stanley non sono state fissate una volta e mai più toccate. I contratti sono infatti stati ridiscussi a più riprese, in alcuni casi quando la versione precedente aveva poche settimane di vita. È quindi più corretto parlare di quattro “famiglie” di derivati, incatenati l’uno all’altro. Anche qui il lessico della finanza prevede una parola ad hoc: si dice che i contratti vengono “ristrutturati”, cioè che le condizioni vengono modificate cambiando l’entità degli interessi, piuttosto che la durata. Perché in alcuni casi questo sia avvenuto nel giro di pochissimo tempo, accrescendo in misura sensibile i rischi a cui il Tesoro si sottoponeva, è uno dei misteri che la semplice lettura degli atti non chiarisce. Per inquadrare bene i fatti, bisogna partire dalla fine, e cioè dai drammatici giorni di metà novembre 2011 in cui stava cadendo l’ultimo governo di Silvio Berlusconi. Con i mercati in subbuglio e il fiato dei grandi organismi internazionali sul collo del successore Monti, Morgan Stanley invia al Tesoro una serie di sei memorandum «strettamente privati e confidenziali» nei quali affronta una discussione delicata. Il primo è datato 14 novembre, il giorno stesso dell’incarico di governo a Monti, l’ultimo risale invece al 20 dicembre. In quei documenti la banca americana sottopone ai dirigenti del ministero dell’Economia la decisione di esercitare una clausola presente in un vecchio accordo di 18 anni prima, datato 10 gennaio 1994, chiudendo anticipatamente tutti i contratti derivati sottoscritti da allora con il Tesoro e incassando sull’unghia svariati miliardi di dollari. Che cosa diceva quella clausola? La risposta si trova nel documento originale del 1994, anzi in un allegato del cosiddetto “Isda master agreement”, una specie di accordo quadro firmato quando il direttore generale del Tesoro era Mario Draghi, oggi presidente della Banca centrale europea. A pagina 7 dell’allegato è esplicitato quello che viene definito “Exposure Limit”. Semplificando al massimo, il senso è questo: se il valore di mercato dei derivati sottoscritti con il Tesoro è favorevole a Morgan Stanley e supera la soglia di 50 milioni di dollari, la banca può decidere di chiudere in anticipo tutti i contratti, esigendo dal governo il pagamento dell’intera cifra. Per inquadrare bene il peso specifico di questa clausola, bisogna capire che cos’è il valore di mercato di un derivato, detto anche “mark to market”. Come abbiamo visto in precedenza, questo genere di strumenti prevede uno scambio di quattrini fra le due parti. Il valore di mercato del contratto, dunque, è la stima del flusso netto dei pagamenti che avverranno fra il Tesoro e la banca per l’intera durata del derivato, calcolato in base alle attuali condizioni di mercato. Quando si dice che il “mark to market” dei derivati del Tesoro è negativo per 36 miliardi, significa che, con le correnti condizioni dei tassi, il governo durante la vita residua dei contratti pagherà alle banche 36 miliardi in più di quanto riceverà da loro in termini di interessi. Le condizioni di mercato naturalmente variano, e il Tesoro ha sempre sostenuto che parlare di perdite future è fuorviante, perché la situazione potrebbe migliorare. Vero, come però è altrettanto vero che gran parte di quelle perdite sono attese verificarsi negli anni più prossimi, quando la probabilità che effettivamente si concretizzino è più elevata. Ecco il punto: quando Morgan Stanley si rivolge al Tesoro, nel novembre 2011, il valore di mercato dei derivati supera già in maniera abnorme la soglia di 50 milioni di dollari definita nel 1994. Il dettaglio viene messo nero su bianco in uno dei rari documenti scritti in italiano nella corrispondenza fra le due parti, un memorandum datato 22 novembre 2011. In questo appunto vengono elencati sei contratti che la banca intende chiudere o trasferire a altre controparti, il cui valore di mercato è negativo per il Tesoro per 3,5 miliardi di dollari, settanta volte il livello d’allarme di 50 milioni indicato nel “master agreement”di 18 anni prima. Date le sue dimensioni, è del tutto evidente che quel “buco” non si era formato nel giro di pochi giorni, ma in un periodo ben più lungo, e che quota 50 milioni era stata superata già da diversi anni. Perché allora la banca americana ha aspettato così tanto tempo per presentarsi all’incasso? E perché il Tesoro ha lasciato che il “mark to market” dei derivati sottoscritti con Morgan Stanley si gonfiasse fino a un livello così insostenibile ma nel frattempo, come vedremo più avanti, non ha smesso di fare nuovi contratti con l’istituto? Nei documenti della banca americana una risposta alla prima domanda si rintraccia in una lettera spedita a cose fatte a Maria Cannata, responsabile della direzione debito pubblico del Tesoro, nella quale Morgan Stanley sostiene che le autorità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna avevano acceso un faro sui rischi presenti nel suo portafoglio, di fatto chiedendo all’istituto di esercitare la clausola per mettere al sicuro i profitti maturati. La lettera, inviata su richiesta della stessa Cannata, si chiude con una frase che suona come un atto di disponibilità, dopo una vicenda che al Tesoro doveva essere rimasta sullo stomaco: «Speriamo di lavorare con voi per raggiungere una soluzione accettabile per entrambi». Più difficile da digerire rischia di essere la risposta alla domanda sul perché il Tesoro non aveva smesso di fare derivati con l’istituto, quando già erano state superate le condizioni della clausola che metteva Morgan Stanley in una posizione di forza. Si tratta di un fatto importante, perché invalida qualsiasi motivazione tecnica potessero avere i contratti: che senso ha stipulare un accordo che dovrebbe, ad esempio, garantire il Tesoro da un’evoluzione indesiderata dei tassi o dei cambi, se già al momento della firma la banca è nelle condizioni di chiudere il contratto e esigere il pagamento del valore di mercato? Per spiegare ciò che sembra apparentemente inspiegabile, bisogna ricorrere a un documento diverso dai contratti e dalle lettere della banca. Si tratta di una perizia scritta all’inizio del 2015 per la procura di Roma da un professore dell’Università di Tor Vergata, Ugo Pomante. I magistrati della capitale avevano avviato un’indagine nei confronti di Monti e Padoan sul caso Morgan Stanley, sollecitati dalle denunce presentate da due associazioni dei consumatori, Adusbef e Federconsumatori. L’indagine si è conclusa con una richiesta di archiviazione, accolta dal Tribunale dei ministri, ma la perizia presenta lo stesso alcuni passaggi di grande interesse, che fanno nascere un dubbio: al Tesoro non tutti erano a conoscenza della clausola incriminata. E chi doveva occuparsene, forse non ne ha valutato le conseguenze con la necessaria attenzione. Nella sua perizia Pomante non esclude che, al momento del master agreement del 1994, la clausola avesse una sua legittimità. Osserva però che una soglia così bassa com’erano i 50 milioni di dollari rendeva necessario come minimo un monitoraggio costante della situazione dei contratti, al fine di essere coscienti dei rischi che si correvano. E sostiene che, una volta avvicinata la soglia, il Tesoro avrebbe dovuto «evitare di stipulare nuovi contratti con Morgan Stanley, in quanto ciò avrebbe accresciuto il valore nominale complessivo dell’esposizione in derivati, accrescendo di conseguenza il rischio di allontanarsi ulteriormente dalla soglia stessa». Il problema, dice il perito, è che, in base alla documentazione esaminata, nessuno sembra aver preso in considerazione le possibili conseguenze del contratto. «È lecito ipotizzare che tale indifferenza sia figlia del fatto che il Ministero dell’Economia ignorasse l’esistenza della suddetta clausola», scrive Pomante, citando una testimonianza di Maria Cannata, nella quale la dirigente sostiene di «non aver avuto conoscenza di tale clausola sino al momento in cui il Tesoro ha dovuto assorbire il pacchetto di contratti della ex Infrastrutture Spa», e cioè nel luglio 2007. A conferma di una mancata valutazione che si è rivelata fatale, Pomante cita anche una e-mail inviata alla stessa Cannata da un altro funzionario del Tesoro, Fabrizio Tesseri: «Ritengo doveroso sottolineare come ci si sia ritrovati in questa “difficile” situazione per l’esistenza stessa della clausola (…) per la mancata enfasi posta dalla controparte sull’importanza della stessa fino a pochissimo tempo fa», scrive Tesseri nel documento, sottolineando - con tanto di punto esclamativo finale - come «con altre controparti abbiamo lavorato anni per l’eliminazione di clausole ben meno importanti!». Dopo gli appartamenti e le polizze vita a insaputa dei beneficiari, scopriamo così che in Italia esistono anche i contratti con clausole ignote a chi dovrebbe gestirli. Da altre testimonianze già emerse in precedenza, si sa che il Tesoro si è sempre detto convinto che quella clausola non sarebbe stata esercitata e che la soglia di 50 milioni di dollari era già stata superata «da almeno dieci anni», come ha avuto modo di raccontare Maria Cannata. Mettendo insieme questi elementi con quelli che emergono ora dai documenti esaminati dall’Espresso, dunque, il problema è che gran parte del salasso di 3,1 miliardi subìto dal Tesoro nei primi giorni del 2012 è dovuta a derivati stipulati o rinegoziati in anni in cui la clausola era, per così dire, già “attivata”. E avrebbe dovuto, di conseguenza, sconsigliare la firma di nuovi accordi con la banca americana. Nel dicembre 2003, ad esempio, viene rinegoziata una swaption venduta a Morgan Stanley nel 1999. Anche qui è necessario semplificare un po’, perché si tratta di accordi molto complessi. Il vecchio contratto permetteva alla banca di entrare, a partire dal 2014, in un Irs del tipo classico: se lo avesse esercitato, Morgan Stanley per i successivi 25 anni avrebbe pagato al Tesoro un tasso variabile pari al Libor a 6 mesi su un valore nominale di un miliardo di sterline, incassando in cambio un fisso pari al 5 per cento. Quando dopo quattro anni il contratto viene rinegoziato, il Tesoro sembra fare una scommessa ancora più impegnativa su un futuro andamento rialzista dei tassi. Posticipa al 2028 la data in cui Morgan Stanley potrà esercitare la swaption; allunga la durata dello swap che ne nascerebbe di altri cinque anni, portandola a complessivi trent’anni; e soprattutto gonfia da 1 a 1,5 miliardi di sterline il valore nominale a cui si applicano i tassi per determinare i pagamenti che ne verrebbero. Una serie di rinegoziazioni caratterizza anche un’altra swaption, venduta dal Tesoro nel 2002, modificata leggermente nel settembre 2006 e in maniera più radicale appena due anni più tardi, nell’agosto 2008. Anch’essa verrà chiusa, esattamente come la precedente, con l’accordo di fine 2011, con un pesante esborso per il Tesoro. Dalla lettura dei contratti e dalle considerazioni di Pomante emerge una possibile ragione di questi due contratti. Entrambi sono collegati a altri derivati, degli swap sulle valute. Vendere le opzioni a Morgan Stanley, una mossa che il perito definisce «poco prudente», aveva come contropartita una riduzione degli oneri che il Tesoro pagava su questi ulteriori swap. Sta di fatto che, come abbiamo visto dal memorandum del 22 novembre 2011, tutti e quattro i contratti alla fine presentavano valori di mercato fortemente negativi per il Tesoro (in totale: oltre 2 miliardi di dollari), che è stato costretto a sborsare cifre consistenti per chiudere entrambe le swaption e rimodulare i contratti sulle valute. Insomma, in cambio di un beneficio di cassa immediato, il ministero ha accettato di caricarsi di rischi che, al dunque, gli si sono scatenati contro. Certamente poteva andare diversamente ma, come osserva Pomante, per coprirsi dai rischi le opzioni andrebbero comprate, non vendute. Questa strategia traspare in maniera ancora più evidente dal più pesante dei contratti che Morgan Stanley ha deciso di chiudere in quelle prime, durissime settimane del governo Monti. L’operazione nasce il 12 luglio 2004, quattro giorni prima che l’allora premier Berlusconi promuovesse ministro dell’Economia il professore torinese Domenico Siniscalco, che conserverà insieme alla nuova carica quella di direttore generale del Tesoro, dove l’aveva portato Giulio Tremonti. Visti a posteriori, i termini dell’operazione mettono i brividi. Il Tesoro vende all’istituto americano una swaption che potrà essere esercitata appena un anno più tardi, il 26 agosto 2005. Passano poche settimane e il 28 ottobre l’opzione viene rinegoziata, cambiando in parte i termini dell’Irs che Morgan Stanley potrà imporre esercitandola. Se con il primo contratto il valore nominale a cui applicare i tassi era pari a 2 miliardi di euro, con il secondo sale a 3 miliardi. Questo significa che aumenteranno in maniera cospicua i flussi d’interessi che le due parti si scambieranno ma è chiaro che la banca ha il coltello dalla parte del manico: eserciterà la swaption soltanto se i tassi saranno a sua favore, dando vita a un contratto che legherà le due parti fino al 2035. Ma perché il Tesoro si è invischiato in un’operazione del genere? Forse per i premi che ha incassato: 29 milioni con la vendita della prima opzione, più altri 18 con la rinegoziazione. Il totale fa 47 milioni. Purtroppo l’estate successiva i nodi vengono al pettine: Morgan Stanley esercita la swaption, entra in un Irs che al Tesoro costa moltissimo: alla fine del 2011 il suo valore sarà negativo per 1,57 miliardi di dollari. Per chiuderlo la banca americana esigerà l’intera cifra, incassando 1,35 miliardi di euro. Quale poteva essere la ratio di una simile operazione? Il professor Pomante tenta un’interpretazione: «Può essere una strategia di gestione del debito pubblico in grado di definire, in ipotesi di esercizio dell’opzione, un tetto massimo all’indebitamento a tasso fisso in euro». Una sottigliezza che si scontra con un conto più banale ma, forse, non meno vero: nel 2004 il Tesoro ha voluto incassare 47 milioni di euro, puntando sul fatto che i tassi sarebbero saliti. Non è successo, e la scommessa gli è costata una perdita pari a 33 volte tanto. La lettura dei contratti originali, dunque, fa nascere molti interrogativi. Uno di questi riguarda la natura della riservatezza che il Tesoro ha imposto sui derivati. Il ministro Padoan, che dalla sua ha il merito di aver rinunciato a questo genere di strumenti, limitandosi a ristrutturare quelli che i predecessori gli hanno lasciato in scomoda eredità, ha certamente le sue ragioni per motivare il rifiuto. Ma resta forte il sospetto che qualcosa, negli anni della finanza creativa, non abbia funzionato. E per scardinare il segreto un suggerimento potrebbe venire proprio dalla clausola di riservatezza presente nel già citato allegato del “master agreement” del 1994. Dice che i contenuti dell’accordo possono essere divulgati solo con l’autorizzazione di Morgan Stanley. Ma che la “parte B”, ovvero il Tesoro, può divulgarli se a chiederli sono alcune istituzioni, fra le quali è citato un “order” di un “legislative body”. Forse, dunque, basterebbe una mozione del parlamento per iniziare a fare chiarezza. Chissà se una simile clausola è presente in tutti i contratti, anche quelli sottoscritti con le altre banche.

Derivati, in un libro il perché dello scandalo. “La voragine”, scritto dal giornalista dell’Espresso Luca Piana e appena pubblicato da Mondadori indaga il complicato mondo dei derivati, strumenti finanziari che nel silenzio generale hanno scavato un buco enorme nei conti pubblici italiani, e i cui effetti rischiano di farsi sentire ancora per molti anni sulla vita pratica dei cittadini, scrive Stefano Vergine il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". L’Italia non è stata l’unica a scommettere sui derivati. Delle nazioni che fanno parte dell’Unione europea, però, il nostro Paese è quello messo peggio. È questo uno dei dati più impressionanti contenuti nel libro “La voragine”, scritto dal giornalista dell’Espresso Luca Piana e appena pubblicato da Mondadori. Con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, il libro indaga il complicato mondo dei derivati, strumenti finanziari che nel silenzio generale hanno scavato un buco enorme nei conti pubblici italiani, e i cui effetti rischiano di farsi sentire ancora per molti anni sulla vita pratica dei cittadini. I derivati in teoria dovrebbero servire per assicurarsi contro i rischi, come per esempio l’aumento dei tassi d’interesse. Se i tassi aumentano, infatti, crescono generalmente anche i costi per chi si è indebitato. Poiché l’Italia ha uno dei maggiori debiti pubblici al mondo, può non sorprendere il fatto che il nostro Paese abbia sottoscritto parecchi derivati. I rischi connessi a questi strumenti sono però altissimi. E noti da tempo. Warren Buffett, considerato unanimemente il più grande investitore di Borsa di tutti i tempi, già nel 2002 li aveva definiti «armi finanziarie di distruzione di massa». Armi che hanno procurato ferite pesantissime al bilancio pubblico italiano, ma non a quello degli altri Paesi europei che li hanno sottoscritti. Gli unici dati ufficiali che permettono di tracciare un confronto con le altre nazioni risalgono al 2013, quando la situazione dei contratti firmati dal nostro ministero dell’Economia non era ancora degenerata ai livelli raggiunti negli anni successivi. Già allora, tuttavia, la situazione era grave. Per capirlo bisogna prendere in considerazione il “mark to market”, valore che indica il guadagno o la perdita potenziale dei derivati comprati da un Paese. Ebbene, nel 2013 il mark to market dei derivati sottoscritti dall’Italia era negativo per 28,9 miliardi di euro. Tralasciamo pure il fatto che solo un anno dopo il rosso teorico era già arrivato a 42 miliardi. Il punto è un altro. E cioè che ai nostri vicini la scommessa è andata meglio, a volte molto meglio. Nel 2013 le perdite potenziali della Germania erano infatti pari a 16 miliardi, quelle della Grecia sfioravano i 4 miliardi, quelle del Portogallo ammontavano a poco più di 1 miliardo. Alcuni Paesi, come Spagna e Belgio, non hanno mai sottoscritto derivati, mentre tra quelli che hanno deciso di scommettere c’è anche chi potrebbe guadagnarci.

Nazioni come la Danimarca, l’Olanda, la Svezia, la Finlandia, l’Irlanda e la Francia segnavano infatti – sempre nel 2013 - mark to market positivi, ovvero potenziali profitti su quei contratti. Com’è possibile? I governi che si sono succeduti in Italia negli anni passati sono stati sfortunati nelle loro scommesse finanziarie o hanno consapevolmente scaricato le perdite sui loro successori? Risposte precise a queste domande sono impossibili da dare perché, come spiega Piana nel suo libro, «a dispetto degli interessi in gioco e del diritto degli italiani a essere informati sul modo in cui i loro quattrini vengono spesi, sui derivati esiste di fatto un segreto di Stato». Insomma, non si possono conoscere i dettagli di tutti i derivati sottoscritti con le banche d’affari, e non si possono di conseguenza attribuire con certezza eventuali responsabilità dei politici o dei dirigenti che si sono succeduti al ministero dell’Economia. Di sicuro c’è un fatto. Come emerso grazie all’indagine della Commissione Finanze della Camera e ai calcoli contenuti ne “La voragine”, solo dal 2011 al 2015 l’Italia ha subito un costo di 23,5 miliardi di euro per effetto degli interessi netti pagati sui derivati e degli altri oneri connessi. In media equivalgono a 4,7 miliardi l’anno. Una somma enorme. Basti dire che per aiutare i cittadini più poveri lo Stato spende 1 miliardo l’anno. La scommessa persa sui derivati ha dunque privato il Paese di risorse importanti in un momento di crisi. E potrebbe non essere finita qui. I contratti attivi restano molti, anche se non si sa con precisione quanti siano. Gli ultimi scadranno nel 2062.

Derivati, dizionario di una catastrofe. Cosa sono, quando nascono e quanto costano: tutto quello che bisogna sapere sui contratti, scrive Luca Piana il 13 febbraio 2017. I contratti derivati sono strumenti che impongono alle parti che li sottoscrivono di scambiarsi flussi finanziari, a condizioni e a scadenze predeterminate. Prendono il nome dal fatto che il loro valore “deriva” dalle quotazioni di mercato di alcuni fattori a cui sono legati, come i cambi di una valuta o i tassi d’interesse.

I più presenti nel portafoglio del Tesoro sono i cosiddetti “Interest rate swap” (o Irs), che significa “scambio di tassi d’interesse”. In genere sono del tipo “tasso fisso” contro “tasso variabile”. Un esempio può essere questo: dato un valore di un miliardo di euro, detto nominale, prevedono che una volta l’anno il Tesoro verserà alla banca il 4 per cento di un miliardo (il “tasso fisso”), mentre la banca verserà al Tesoro il tasso Euribor applicato a un miliardo (il “variabile”). Se l’Euribor sarà sopra il 4 per cento, ci guadagnerà il Tesoro; se sarà sotto, la banca.

Se ben costruiti, possono avere una finalità assicurativa: quando i tassi d’interesse aumentano, il Tesoro è costretto a corrispondere agli investitori che comprano titoli di Stato interessi più elevati. In linea teorica, un Irs può dunque scaricare sulla banca controparte il costo aggiuntivo di un irrigidimento dei tassi.

Come si intuisce dall’esempio, i derivati possono muovere enormi quantità di denaro senza investimenti iniziali. Ci si può guadagnare molto, se i mercati si muovono nelle condizioni a noi favorevoli; allo stesso modo si possono perdere cifre colossali. La loro rischiosità è nota da tempo, visto il ruolo avuto in alcuni casi di fallimento che hanno fatto storia, dalla banca inglese Barings (1995) alla compagnia energetica texana Enron (2001). I derivati sono stati chiamati in causa anche per il default della Grecia, che li ha utilizzati per nascondere le vere condizioni dei conti pubblici.

Il governo italiano inizia a fare ricorso ai derivati negli anni Ottanta, per proteggersi dalle perdite potenziali sui titoli di Stato emessi in valuta estera, in un periodo in cui la lira era soggetta a forti svalutazioni. I primi sono del tipo “cross currency swap”, legati dunque al cambio della lira (e poi dell’euro).

Il 10 novembre 1995 il premier Lamberto Dini firmò un decreto con regole più precise per la sottoscrizione dei derivati, ampliando il tipo di quelli utilizzabili. Venne così formalizzata la possibilità di utilizzarli per ristrutturare i prestiti in lire, ovvero per cambiare il flusso degli interessi previsto dai tassi d’interesse dei titoli di Stato. Da allora si intensificano gli swap.

A metà degli anni Novanta gli enti locali iniziano a indebitarsi sempre più e, nel 1996, il governo di Romano Prodi li obbliga a coprirsi con un derivato dal rischio cambio, nel caso emettano prestiti in valuta. La svolta arriva però dal 2001 con Giulio Tremonti ministro dell’Economia. Regioni, Province e Comuni sottoscrivono un numero crescente di derivati, così come fa lo Stato. Come ha spiegato in parlamento Maria Cannata, dirigente del Tesoro, tra il 2000 e il 2005 attraverso i derivati il governo aveva perseguito il duplice obiettivo di contenere il fabbisogno di cassa e di allungare la vita del debito.

Per ottenere questi obiettivi, oltre agli “Interest rate swap” vengono utilizzati anche dei contratti più complessi, chiamati “swaption”. Si tratta di opzioni che le banche comprano versando al Tesoro una certa cifra (il cosiddetto premio), ottenendo la possibilità di entrare in seguito un Irs a condizioni prefissate. In pratica, pagando il premio, la banca si assicura la possibilità di accendere un nuovo swap, e di farlo se e soltanto l’andamento dei tassi lo renderà conveniente, a danno dello Stato.

Nel 2006, con l’arrivo di Tommaso Padoa-Schioppa al ministero dell’Economia, viene ristretta la possibilità degli enti locali di fare nuovi derivati e, stando a quanto riferito da Maria Cannata, abbandonata la strategia di contenere il fabbisogno di cassa del Tesoro. Stando ai dati ufficiali, è dal 2006 che la gestione dei derivati smette di generare un flusso netto d’interessi positivo per le casse dello Stato. Quanto questo dipenda dai contratti firmati negli anni precedenti e quanto da quelli successivi, in base alle informazioni rivelate finora è però impossibile da sapere. L’allarme derivati scoppia all’inizio del 2012, quando il Tesoro è costretto a chiudere una serie di contratti fatti con Morgan Stanley, versando alla banca 3,1 miliardi di euro in due tranche. L’operazione nasce da un accordo quadro del gennaio 1994 che regola questo genere di strumenti fra il Tesoro e l’istituto; nell’accordo è presente una clausola unilaterale che permette alla banca di chiudere in anticipo tutti i contratti sottostanti, nel momento in cui le condizioni di mercato fanno prevedere incassi futuri favorevoli all’istituto superiori a 50 milioni di dollari. Come si scoprirà in seguito, la soglia era stata superata da tempo, senza che la clausola fosse esercitata. Nel 2012 il responsabile di Morgan Stanley in Italia è Domenico Siniscalco, che tra il 2001 e il 2005 è stato direttore generale del Tesoro.

Negli anni successivi emerge un dato che suscita preoccupazioni ulteriori. Il valore di mercato (o “mark to market”) dei derivati del Tesoro in essere peggiora sempre più, raggiungendo alla fine del 2014 un picco di 42 miliardi.  Il Tesoro sostiene che non si tratta di un fatto a cui dare troppo peso, visto che le condizioni di mercato potrebbero cambiare, riducendo le perdite. Su questa linea si schiera anche il ministro Pier Carlo Padoan, che sottolinea allo stesso tempo come i derivati siano un problema ereditato dal passato e che non ne verranno più fatti di nuovi. Questa spiegazione nasconde però due problemi. Il primo è che ogni anno, tra oneri finanziari netti versati alle banche e costi connessi, le perdite si materializzano via via in costi reali. I dati relativi al quinquennio 2011-2015 dicono che si tratta di 23,5 miliardi in totale, con una media annua di 4,7 e un record di 6,7 miliardi nell’ultimo anno del periodo, il 2015 (vedi figura a pagina 25). Il secondo è che le perdite future, almeno negli anni più vicini, non sono soltanto potenziali ma molto probabili.

Il Tesoro e le altre istituzioni finora si sono sempre rifiutati di mostrare i contratti dei derivati a chi ne faceva richiesta. Il giornalista Guido Romeo, co-fondatore dell’organizzazione non governativa “Diritto di Sapere” ha fatto una richiesta di accesso agli atti al Tesoro, senza ottenere risposta. Si è dunque appellato prima al Tar, poi al Consiglio di Stato, venendo sempre respinto. Ci hanno provato anche alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle, la cui richiesta è stata respinta dalla Commissione per l’accesso ai documenti della Pubblica amministrazione. Tra gli esponenti del Tesoro, l’ultimo a rispondere negativamente è stato il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, durante l’indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Finanze della Camera nel 2015.

L’anno scorso la Corte dei Conti del Lazio ha fatto sapere di aver avviato un’indagine sui derivati sottoscritti fra il Tesoro e Morgan Stanley, costati alle casse pubbliche 3,1 miliardi di euro. In un documento pubblico ha ipotizzato un danno a carico dello Stato pari a 3,8 miliardi, che tiene conto anche dei costi sostenuti per reperire la somma miliardaria versata nel 2012 alla banca americana. Lo scorso luglio Morgan Stanley ha reso noto in bilancio di aver ricevuto una prima contestazione da parte della Corte, nei confronti della quale ha annunciato di volersi difendere, ritenendola non corretta. Il 14 settembre scorso, poi, il sito del quotidiano la Repubblica ha rivelato che un pubblico ministero della Corte, Massimiliano Minerva, ha convocato la banca e quattro fra dirigenti del Tesoro e ex ministri, avviando le audizioni per portare, eventualmente, a contestazioni formali. Si tratta degli ex ministri Siniscalco e Vittorio Grilli, oltre ai dirigenti La Via e Cannata.

"C'è il tesoro di Mussolini in quel caveau". La verità su 2 mila sacchi e 419 plichi: inestimabile. In una stanza di sicurezza della Banca D'Italia è conservato, anche se letteralmente abbandonato, il tesoro di Benito Mussolini. Ci sono 419 plichi e circa duemila sacchi di juta, tutto con sigillo ministeriale. Dentro sono racchiusi documenti dal valore storico inestimabile, ma anche oggetti preziosi. Come riporta il Giornale, in quel caveau c'è il collare della Santissima Annunziata donato dai Savoia a Mussolini, la tuta da meccanico che indossava Claretta Petacci nella fuga verso la Svizzera, oltre alle banconote che lei e Mussolini avevano con sé. E poi brillanti dell'ordine dell'Aquila tedesca, prodotta in un unico esemplare, una medaglia celebrativa dei patti Lateranensi, senza dimenticare la montagna di oggetti di valore sequestrati a casa Savoia e quelli contenuti nella cassaforte di donna Rachele della villa Mantero di Como. Solo nel 2006 era stata fatta una ricognizione, ma parziale. Dopo tre tentativi da parte dell'ex grillino Giuseppe Vacciano, pochi giorni fa il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan ha riferito in Parlamento, mantenendosi però vago e confuso. Quel tesoro apparterrebbe al ministero dell'Economia, ma la sua valutazione deve passare da un altro ministero. Da qui il buco burocratico che tiene bloccato nel dimenticatoio un tesoro che potrebbe riempire ben più di un museo, oltre che raccontare dettagli storici finora sconosciuti.

Inchiesta Ubi Banca: le intercettazioni di Napolitano con Bazoli. Una conversazione tra l’ex presidente della Repubblica e il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo nell'ambito dell'inchiesta coordinata dalla Procura di Bergamo, scrive l'1 febbraio 2017 Panorama. Una conversazione tra l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta su Ubi Banca coordinata dalla Procura di Bergamo. Lo rivela Panorama in un articolo pubblicato nel numero in edicola dal 2 febbraio 2017. La telefonata risale al 19 marzo 2015 (circa due mesi dopo le dimissioni dal Quirinale di Napolitano). Panorama riporta la trascrizione del colloquio così come riassunto dalla Guardia di Finanza dove, tra l’altro, si legge: «Napolitano dice che come gli aveva anticipato, aveva fissato un incontro con il presidente (Mattarella) per alcuni argomenti urgenti per cui ha colto l’occasione per rappresentargli la situazione». In quel momento Giovanni Bazoli è ufficialmente indagato dalla procura di Bergamo per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di vari reati e impegnato in prima persona nella battaglia per il controllo di Rcs e Corriere della Sera, che si concluderà con la vittoria di Urbano Cairo, editore e patron de La 7. Dal contenuto della telefonata, partita da un’utenza direttamente in uso al Quirinale, e dalla lettura di tutte le trascrizioni emerge un ruolo attivo di Napolitano nelle questioni più delicate del paese. Per esempio la guerra per il controllo del Corriere della Sera. Riassumono le Fiamme Gialle: «Napolitano specifica di aver fatto riferimento (con Mattarella, ndr) anche al dialogo di questi anni tra loro (e cioé tra Napolitano e Bazoli, ndr) e prima ancora con Ciampi. Napolitano dice che questi (Mattarella) ha apprezzato, ed ha detto che considera naturale avviare uno stesso tipo di rapporto “schietto”, informativo e di “consiglio”. Napolitano suggerisce di formulare, attraverso la segreteria, una richiesta di incontro che sicuramente accetterà. Bazoli dice che lo cercherà per i canali ufficiali nei prossimi giorni. Napolitano dice speriamo bene, anche perché ha sentito fare un nome “folle”, ovvero di quel signore che si occupa o meglio è il factotum de La 7». Nell’ampio servizio pubblicato da Panorama vengono inoltre ricostruite tutte le conversazioni nella quali il banchiere, tra il 2014 e il 2015, fa riferimento con diversi interlocutori all’allora Capo dello Stato poi divenuto senatore a vita. In uno di questi colloqui, risalente all’aprile del 2014, Bazoli rivela di avere avuto un incontro “al Colle” ed aggiunge «io gli ho chiesto espressamente ed ho avuto da lui l’assicurazione che quantomeno fino alla fine dell’anno lui rimane». Un mese prima, al telefono con Giulia Maria Crespi, afferma che «quando parla dei suoi problemi 'in alto, al colle', trova sempre una grande corrispondenza». In un’altra telefonata, questa volta del marzo 2015 con una persona non identificata in cui si fa riferimento ad una udienza in Cassazione, «Bazoli riferisce che andrà a Roma da Napolitano, in quanto "avrei una cosa importante su cui lui forse può dare un consiglio"».  

Giorgio Napolitano intercettato con Bazoli: le mani sul Corriere della Sera, scrive il 2 febbraio 2017 "Libero Quotidiano". Nel marzo 2016 Giorgio Napolitano organizza un incontro tra il suo successore Sergio Mattarella e Giovanni Bazoli, all’epoca presidente di Intesa e attivo nella battaglia per il controllo del Corriere della Sera. Lo rivela Panorama in edicola oggi, riportando i contenuti di un’intercettazione sull’utenza di Bazoli, indagato nell’inchiesta su Ubi banca. La telefonata parte da un’utenza in uso al Quirinale (Napolitano si era dimesso da due mesi). L’incontro Bazoli-Mattarella avrebbe dovuto affrontare "alcuni argomenti urgenti", scrive la Guardia di Finanza che riassume la conversazione. Tra questi argomenti, la lotta per il controllo del Corriere. Scrivono le fiamme gialle: "Napolitano specifica di aver fatto riferimento (con Mattarella, ndr) anche al dialogo di questi anni tra loro (e cioé tra Napolitano e Bazoli, ndr) e prima ancora con Ciampi. Napolitano dice che questi (Mattarella) ha apprezzato, ed ha detto che considera naturale avviare uno stesso tipo di rapporto schietto, informativo e di consiglio. (...) Napolitano dice speriamo bene, anche perché ha sentito fare (riguardo al Corriere) un nome folle, ovvero di quel signore che si occupa o meglio è il factotum de La 7". Quell'Urbano Cairo che poi le ha messe, le mani sul Corsera. Dopo la conversazione, il banchiere, passando per la segreteria del Quirinale, fissa un incontro con Mattarella: il faccia a faccia avviene il 27 marzo. Dieci giorni prima, il 17 marzo, l'ex Capo dello Stato è anche oggetto di una conversazione tra Bazoli, azionista del Corsera, e l'allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro, la concorrenza: "Se tu lo tieni in mano (il Corsera, ndr) io sono tranquillo", afferma Mauro. Dunque l'invito a Bazoli a "non lavarsene le mani di queste scelte". Poi spunta Napolitano: "La situazione ha ancora un margine di incertezza e ti spiegherò se ci vediamo perché, niente, devo vedere Napolitano...insomma, devo, tengo rapporti con lui". Sempre lui. Sempre Re Giorgio, che dimostra di avere rapporti consolidatissimi con Bazoli. I due infatti si incontrano al Colle il 13 marzo 2014, quando Napolitano è ancora Capo dello Stato. E ancora, il 15 aprile dello stesso anno, in una telefonata tra il patron di Intesa San Paolo e Gian Maria Gros-Pietro, presidente del consiglio di gestione della stessa banca, Bazoli, notano gli inquirenti, "fa presente che giovedì sarà al Colle per un tema diverso dalle banche". Tre giorni dopo, sempre al telefono con Gros-Pietro, Bazoli "riferisce di essere stato a Roma e di aver avuto un incontro col Colle ed aggiunge 'io gli ho chiesto espressamente ed ho avuto da lui l'assicurazione che quantomeno fino alla fine dell'anno lui rimane. Mi pare una notizia molto rassicurante'...". Le mani di Napolitano, insomma, erano ovunque: Colle, banche, Corriere della Sera.

Banche, le sette sorelle malate. Da Monte Paschi a Pop Vicenza, radiografia degli istituti in crisi, scrive il 4 gennaio 2017 "L'Espresso".

Veneto Banca. La notizia è arrivata poco prima di Natale: il prossimo 5 gennaio il fondo Atlante, attraverso il quale il sistema finanziario ha condotto il salvataggio dell’istituto di Montebelluna, effettuerà un versamento di 628 milioni «in conto futuro aumento di capitale». La ricapitalizzazione verrà decisa più avanti dagli organi sociali di Veneto Banca e potrebbe essere più ampia, alla luce delle valutazioni che il management sta facendo su due fronti: un’approfondita valutazione sul bilancio e il progetto di fusione con la Popolare di Vicenza.

Pop Vicenza. Altra banca, stesso azionista, stesso schema. Anche a Vicenza il fondo Atlante è dovuto intervenire negli ultimi giorni del 2016, annunciando sempre un’iniezione da 310 milioni, in vista di un prossimo aumento di capitale. Il nuovo amministratore delegato Fabrizio Viola è entrato anche nel consiglio di Veneto Banca, con l’obiettivo di definire il piano di fusione. Le questioni aperte sono diverse: dalle operazioni per rafforzare il capitale alle procedure per rimborsare i vecchi azionisti privati di una parte delle perdite subite con la crisi delle due banche.

Unicredit. L’operazione è mozzafiato: Unicredit deve trovare 13 miliardi, che in febbraio chiederà ai soci con un aumento di capitale. Ma i vertici del gruppo e il numero uno Jean Pierre Mustier, impegnati in una profonda riorganizzazione, sono tranquilli. Il termine chiave della ricapitalizzazione è “consorzio di garanzia”: diciannove banche internazionali hanno firmato un pre-accordo per comprare le azioni che non saranno eventualmente sottoscritte dagli investitori, garantendo il successo dell’aumento. Mustier si è detto dunque sicuro: i 13 miliardi arriveranno, senza la necessità di aiuti pubblici.

Banca Etruria. Trattativa all’ultimo respiro per Popolare Etruria, Banca Marche e CariChieti, le tre banche salvate un anno fa dal governo di Matteo Renzi assieme a CariFerrara. Il negoziato per la cessione dei tre istituti è andato avanti fino agli ultimi giorni dell’anno, al fine di comporre un puzzle estremamente complesso: il piano prevede la cessione a terzi dei crediti deteriorati che non erano stati girati nel 2015 alla “bad bank”, oltre a un aumento di capitale da parte del Fondo di risoluzione della Banca d’Italia, l’arrivo delle autorizzazioni e, infine, l’ingresso negli istituti del nuovo azionista.

CariFerrara. Oggi Carife si chiama Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara ma i problemi sono lontani dall’essere risolti. Ubi non ha voluto comprarla e chi ha fatto un tentativo (era circolato il nome di Cariparma) si è tirato indietro. Il 21 dicembre la banca ha incontrato i sindacati e annunciato una dura ristrutturazione: si prevede un dimezzamento dei 900 dipendenti «con ricorso prioritario a strumenti agevolativi». Solo a quel punto si farebbe avanti «un primario gruppo», che pare essere la Popolare dell’Emilia Romagna. Prima, però, Cariferrara verrebbe acquistata dal Fondo interbancario.

Carige. Un mese di tempo in più. Lo ha dato la Bce all’istituto ligure, spostando dal 31 gennaio al 28 febbraio prossimo il limite per presentare «un piano strategico e operativo» per ridurre i crediti deteriorati. Per Carige, che ha trovato nell’imprenditore Vittorio Malacalza un nuovo socio di riferimento (ha il 17,5 per cento), è una boccata d’ossigeno. Da mesi la banca sta preparando la cessione di un pacchetto di crediti deteriorati da 1,8 miliardi, grazie al meccanismo di garanzie statali pensato da Pier Carlo Padoan, chiamato Gacs. Novità attese nel giro di poche settimane.

Popolare Bari. Le questioni più urgenti sono due. La prima è un’indagine della magistratura, per ora contro ignoti, per i prestiti concessi a imprenditori che acquistavano anche azioni della Popolare. La seconda è la trasformazione in società per azioni, i cui termini nelle ultime settimane hanno visto crescere i margini d’incertezza a causa di alcuni ricorsi (ma il 21 dicembre la Corte costituzionale ha riconosciuto la validità del decreto voluto dal governo Renzi). Il fatto che collega le due questioni è l’irrequietezza dei soci, che lo scorso aprile hanno visto scendere da 9,5 a 7,5 euro il prezzo a cui la banca s’impegna a riacquistare i suoi titoli, non quotati in Borsa.

Mps, chi si è arricchito col panico dei piccoli risparmiatori. Qualcuno ha guadagnato tanto con il Monte dei Paschi. Rastrellando bond a prezzi da saldo negli ultimi giorni prima della sospensione. Un caso di allarmismo finanziario per ottenere un profitto politico e, viceversa, di allarmismo politico per ottenere profitti finanziari, scrive Gianfranco Turano il 02 gennaio 2017 su "L'Espresso". Il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena dominerà le cronache finanziarie del 2017. È un pasticcio che poteva essere risolto già a luglio con la statalizzazione della banca. Ma è soprattutto un caso di allarmismo finanziario per ottenere un profitto politico e, viceversa, di allarmismo politico per ottenere profitti finanziari. Negli scorsi mesi, mentre il governo, gli economisti, la stampa nazionale e internazionale prevedevano disastri sui mercati se non fosse passata la riforma costituzionale, si è scrutato l’orizzonte in cerca di una soluzione privata per la banca più antica del mondo. I cavalieri bianchi non si sono mai palesati. Chi sa se ci sono mai stati e se l’autunno caldo di Rocca Salimbeni non è una colossale manipolazione del mercato. Ma partiamo dalla cronaca degli ultimi giorni. Venerdì 23 dicembre il titolo e le obbligazioni Mps vengono sospesi dalle contrattazioni poche ore dopo che il consiglio dei ministri ha emanato il decreto di salvataggio statale per il Monte. La sospensione arriva al termine di un trimestre catastrofico che ha visto crollare i bond Mps fino a un valore di 45 sul nominale di 100. In borsa si chiama junk, spazzatura. A titolo di paragone, i “bonos” del Venezuela sull’orlo del default viaggiano intorno a quota 60. Il crollo verticale delle obbligazioni Mps in dicembre è dovuto all’annuncio del burden sharing, la condivisione degli oneri con i risparmiatori che si accompagna all’intervento dello Stato e che, si dice, avrà un impatto disastroso sul valore dei bond subordinati che, in ordine crescente di rischio, sono classificati come lower tier 2, upper tier 2 e tier 1. Eppure nei giorni a ridosso del decreto i volumi di contrattazione sono stati molto superiori alle medie, considerando che le emissioni obbligazionarie Mps sono spesso di poche centinaia di milioni di euro e dunque difficili da scambiare o, in gergo tecnico, illiquide. In altre parole, qualcuno vende a qualunque prezzo e in larga perdita terrorizzato dallo spauracchio di una conversione a prezzi di mercato. Ma qualcuno sta comprando, perché scommette o sa che la conversione a prezzi di mercato non può esserci per legge. Le informazioni diffuse fino al 23 dicembre indicano che il burden sharing risparmierà solo gli obbligazionisti cosiddetti retail che nel 2008 hanno sottoscritto l’Upper tier 2, finalizzato alla sciagurata acquisizione di Antonveneta e venduto a un taglio minimo di 1.000 euro. Per restare alla terminologia pittoresca di piazza Affari, il retail è composto dagli orfani e dalle vedove indotti ad acquistare prodotti troppo rischiosi. Loro saranno salvati e rimborsati al 100 per cento. Venerdì 23 dicembre, ultimo giorno di contrattazioni prima della pausa natalizia, accade un’altra cosa che va contro ogni logica apparente. I bond subordinati di tre banche in difficoltà, il cui destino è legato a doppio filo al Monte e al decreto statale da 20 miliardi, vanno alla grande. L’emissione Carige 2020 sale del 9 per cento fino a sfiorare quota 79. La Popolare Vicenza 2025 cresce del 13 per cento da 50 a circa 61. Veneto Banca 2025 strappa da 46 a 62 con un +35 per cento in una sola giornata. Come mai? Chi compra ha letto con attenzione la direttiva europea Brrd e le altre norme Ue che regolano il burden sharing e il bail-in. Sono leggi complesse ma fissano alcuni principi chiave tutto sommato semplici. Ribadiscono la gerarchia di rischio degli investimenti dall’obbligazione senior (rischio basso), all’obbligazione subordinata o junior (rischio medio) e infine all’azione (rischio alto). L’altro principio è quello del no creditor worse off: nessun creditore deve perdere più di quanto gli accadrebbe in caso di fallimento della banca che, però, ha patrimonio netto positivo e possibilità di rimborso al 100 per cento. I 40 mila acquirenti dell’Upper tier 2 emesso nel 2008 non potevano essere trattati meglio degli altri in base a una differenza fra investitore retail e il cosiddetto high street investor che va vista caso per caso su decine di migliaia di conti titoli e ha già mostrato la corda nei casi delle quattro banche in crisi (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara). Comprare un bond junior a 50 mila euro non significa essere nella categoria di Warren Buffett e un’emissione lower tier 2 può essere in mano a un gambler oppure a un pensionato, magari altrettanto avido. Inoltre, solo 4 mila dei 40 mila sottoscrittori dell’Ut2 a 1000 euro il pezzo hanno tenuto nel cassetto l’obbligazione dal 2008. Gli altri l’hanno messa sul mercato. Chiunque può averla comprata sulle piattaforme Mot o Etlx e trovarsi premiato dallo Stato. Chi ha giocato alla lotteria del 23 dicembre ha scommesso che anche i bond della Veneto, della Carige e della Popolare Vicenza avranno lo stesso trattamento di quelli Mps, pena un’ondata di cause di risarcimento, anche se alla riapertura del 27 dicembre i subordinati sono tornati a scendere di prezzo dopo che la Bce ha portato da 5 a 8,8 miliardi di euro l’aumento Mps. Questa altalena si poteva evitare. Per mesi i manager e i consulenti di Mps hanno detto che oltre alla cessione dei crediti deteriorati e alle conversioni degli obbligazionisti, andato oltre ogni aspettativa a quota 2,45 miliardi di euro, era indispensabile chiudere il cerchio con un anchor investor, un privato che mettesse fino a 1,5 miliardi di euro. Per Jp Morgan e Mediobanca, le due banche d’affari incaricate di garantire l’aumento di capitale, era in gioco una commissione mostruosa a rischio zero: 550 milioni di euro, pari all’11 per cento dell’aumento di capitale chiesto allora dalla Bce. Non solo. Il contratto originale consentiva alle due merchant di incassare anche senza il buon fine dell’aumento di capitale. Lo ha rivelato l’ad Mps Marco Morelli al Sole 24 ore: solo grazie a lui è stata annullata questa clausola capestro. Ma anche lui ha cercato fino alla fine il fantomatico anchor investor fra la Qia (Qatar investment authority, il fondo sovrano degli al Thani), George Soros, un consorzio di undici banche europee o altri investitori coperti come nel caso della proposta di Corrado Passera, rigettata dal cda della banca. Nessuno dei pretendenti ha mai confermato. Alla fine la Bce si è stancata e ha negato l’ennesima proroga chiesta dai manager del Monte dopo il referendum del 4 dicembre, quando presumibilmente è bastata una telefonata in Qatar o a Soros per sentirsi dire: non siamo interessati. Lo sono mai stati? Il presidente di Mps, Alessandro Falciai, è certo di sì e ha così spiegato la sparizione dell’anchor in un’intervista al Corriere della sera del 24 dicembre. «È innegabile che gli investitori istituzionali scottati dall’esito del referendum sulla Brexit, dalla poco prevedibile vittoria di Trump in Usa, ponessero il problema di capire come poteva evolvere la situazione post referendum in Italia». È evoluta così: continuità di governo assoluta, stesso ministro dell’Economia, indice di Borsa che dopo il 4 dicembre è cresciuto di circa il 20 per cento in tre settimane, uno spunto che non si vedeva da parecchio. Le otto banche che dovevano fallire secondo il Financial Times, Mps incluso, sono ancora aperte. La vittoria di The Donald ha fatto schizzare tutti gli indici di Wall Street, con una crescita nell’indice settoriale delle banche da 75 a 93 punti. E sei mesi dopo Brexit non risulta che, salvo la svalutazione della sterlina, ci siano tumulti per il pane nelle piazze del Regno Unito. La vicenda Mps è ancora lontana da una conclusione. Da qui a qualche mese i bond convertiti in azioni saranno negoziabili. Si spera che non ci siano nuovi crolli e che l’istituto senese possa essere risanato e di nuovo privatizzato, magari con un profitto dello Stato come negli Usa con le nazionalizzazioni post-subprime. Tornando alla questione posta all’inizio: il governo poteva intervenire prima? Certo. Secondo alcuni, il decreto di salvataggio di Mps era pronto a giugno. Perché aspettare allora? Per esempio, perché il referendum è stato caricato di valenze finanziarie che non ha mai avuto. Eppure era improbabile che gli investitori istituzionali fossero messi in fuga dal permanere del Cnel. Oltre a questo, c’era il provincialismo dell’americano a Roma, il personaggio di Alberto Sordi che vuole essere più a stelle e strisce degli stessi Usa. Quindi, mercato, mercato e ancora mercato, anche se Barack Obama ha messo in sicurezza il sistema creditizio con fondi pubblici. È stata una catena di gesti spregiudicati e di incompetenze, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore c’è stato dolo. Non una novità nella gestione Monte Paschi degli ultimi dieci anni.

Che cosa ci insegnano Mps e le altre. Il mancato salvataggio. Il “bail in”. Un sistema del credito basato sulle relazioni. Tutti gli errori della crisi senese, fino all’ingerenza del premier, scrive Bruno Manfellotto il 30 ottobre 2016 su “L’Espresso”. Non è ancora finita, i tempi sono stretti, intralci possono essercene ancora, certo, ma finalmente il piano per mettere in sicurezza il Monte dei Paschi di Siena c’è: filiali e dipendenti saranno tagliati; una parte delle obbligazioni convertite in azioni e 28 miliardi di crediti in sofferenza ceduti sul mercato, premessa per un aumento di capitale di 5 miliardi che dovrebbe scattare dopo il referendum di dicembre, decisivo giro di boa dal quale si fa ormai dipendere ogni cosa, pure la sorte delle banche e il sì o il no dell’Europa alla manovra 2017. Bene, era ora, si riparte. Nell’attesa, gli unici a gongolare sono i raider che, giocando sui boatos che s’inseguivano lungo l’asse Bruxelles-via XX Settembre-Rocca Salimbeni, hanno scommesso sulle azioni Mps raddoppiando l’investimento in poche settimane. Vallo a raccontare ai risparmiatori di Banca Etruria che aspettano di sapere se e quando verranno risarciti... Ora però c’è da augurarsi che la questione non finisca in archivio e che si sfrutti l’occasione per capire cos’è successo, chi ha sbagliato, che cosa non ha funzionato. E quali sono i veri mali del sistema. Che restano. In principio fu una clamorosa sottovalutazione. Forse per dovere istituzionale o per spirito nazionale, governi e authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano, anche fidando nel fatto che le banche italiane, a differenza di quelle tedesche, non sono imbottite di titoli tossici. E così ogni intervento è stato rimandato mentre gli altri correvano ai ripari: la Spagna con 52 miliardi di euro, la Grecia con 40, l’Irlanda 42, la Germania 238... E la povera Italietta? Non servono soldi, proclamò il premier Mario Monti. Orgoglio? Leggerezza? Vincoli di bilancio? Come che sia, alla fine lo Stato tirò fuori appena un miliardo. Poi però Mps si è mangiato da solo 15 miliardi di ricapitalizzazioni, e ormai l’Europa ha provveduto a vietare aiuti di Stato. Su come stanno le cose si è saputo qualcosa di più solo un anno fa, dopo il default di Banca Etruria e delle casse di Marche, Ferrara e Chieti quando governo e partiti si sono trovati ad affrontare le conseguenze del famigerato “bail in” che scarica su obbligazionisti e anche i correntisti il peso del crac e che essi stessi avevano avallato a Bruxelles nel 2014. E sono emerse le magagne. La prima è che le autorità di vigilanza o non hanno fatto fino in fondo il loro dovere (Consob), o non si sono spinte oltre la semplice denuncia formale (Banca d’Italia). Poi Renzi ci ha messo il suo addebitando loro buona parte delle responsabilità. L’altra verità è che il sistema bancario è appesantito da crediti incagliati, cioè difficili o impossibili da riscuotere, per 350 miliardi. Né ci fanno dormire sonni tranquilli le rassicurazioni del governatore della Banca d’Italia secondo il quale le sofferenze vere, cioè non garantite da accantonamenti, non arrivano a 90 miliardi. Perché al di là della cifra, pur sempre pari a tre-quattro manovre finanziarie, la crisi ha rivelato un tessuto debolissimo di piccole e medie imprese finite a gambe all’aria perché tenute in vita solo da un sistema del credito schiavo del familismo finanziario, del capitalismo di relazione e dei prestiti facili riservati agli amici degli amici. Così andavano le cose anche a Siena, naturalmente, dove agli eccessi di campanilismo creditizio si aggiunge pure il peccato originale di un incauto acquisto favorito da Bankitalia, quello di Antonveneta, a carissimo prezzo, a debito, e con l’ausilio di un complicato e oscuro prodotto finanziario dal nome di dentifricio (Fresh) accreditato dall’autorevole timbro di Vittorio Grilli, allora alto dirigente del Tesoro, oggi salvatore della patria come capo in Italia della Jp Morgan chiamata a curare, a carissimo prezzo, l’aumento di capitale del Monte. Corsi e ricorsi. Per non dire dell’«odor di massoneria» evocato da Alessandro Profumo, uomo generalmente attento a pesare gesti e parole. Che pasticcio. Anche in questo caso Renzi se n’è fatto carico in prima persona, a costo di mettere il naso dove forse non doveva, convocando a Palazzo Chigi gli uomini di Jp Morgan, disponendo rimozioni e nomine ai vertici di Mps, annunciando e promettendo. Insomma, personalizzando. Del resto le vicende Banca Etruria e Mps lo hanno segnato, coincidendo perfino con un punto di svolta nella sua immagine di rottamatore e nei suoi rapporti con l’opinione pubblica. Insomma, anche il “piano banche” lo vive in qualche modo come un referendum: non c’entra la Costituzione, ma la fiducia nel sistema del credito e in chi lo governa, sì.

Consorte, la verità dell'ex capo di Unipol: "Perché non hanno salvato Mps ed Etruria", scrive il 4 gennaio 2017 Pietro Senaldi su “Libero Quotidiano”.

«Non stiamo pagando un funerale, anche se sono assolutamente inaccettabili le modalità e le argomentazioni con le quali ora la Bce impone che l'aumento di capitale per Monte dei Paschi salga dai 5 miliardi prospettati per mesi, agli 8,8 miliardi chiesti improvvisamente. La motivazione è che negli ultimi giorni c' è stata un'ulteriore perdita di liquidità: i risparmiatori hanno ritirato 20 miliardi dalla banca...La Bce ha gestito in modo ambiguo il veto ad allungare i termini dell'aumento di capitale ai privati e ora chiede un ulteriore sacrificio imprevisto con argomentazioni discutibili. Sono i tipici comportamenti che allontanano i cittadini dall' Unione Europea».

Perché la gente non capisce. Non è una difesa di bandiera?

«In realtà i problemi di Mps non sono certo dovuti all' Europa Nel resto d' Europa, dalla Spagna alla Germania, le nazioni hanno affrontato il problema delle banche in difficoltà nella loro globalità, subito prima dell'approvazione del bail-in, ma da noi non è stato fatto. Abbiamo votato per l'introduzione del bail in senza valutare gli effetti che avrebbe avuto sul nostro sistema del credito e senza pretendere dalla Ue un'introduzione graduale della norma. Gli altri prima si sono ripuliti e poi hanno cambiato le leggi in senso rigido mentre noi continuammo a finanziare le banche con bond onerosi, aggravandone la situazione (basti pensare ai Monti bond del 2013 per Mps), e poi acconsentimmo a una legge che strozzava chi le aveva sostenute».

Com' è stato possibile?

«I nostri rappresentati in Europa non sono stati all'altezza. Non avevano, a mio parere, le caratteristiche professionali per discutere le norme alle quali dovevano attenersi le banche. Torniamo ai guai di Mps I problemi nascono da acquisizioni mal condotte, fatte senza valutarne l'impatto industriale e patrimoniale e pagando cifre esagerate. Non mi riferisco solo ad Antonveneta, acquistata a 10,3 miliardi da Mussari (oltre tre miliardi in più di quanto era stata pagato due anni prima da Santander) dopo un solo anno di presidenza del Monte, un uomo che non aveva nessuna esperienza bancaria; ma anche all' acquisizione di Banca Agricola Mantovana nel 1998, alla quale seguì l' anno dopo quella di Banca del Salento per 1,2 miliardi, che ritenevo a quel tempo una cifra molto alta, sotto la presidenza del Prof. Fabrizi e dell' Ing. De Bustis che proveniva dalla banca del Salento. Successivamente la Banca del Salento vendette delle filiali a MPS, che erano già state pagate in sede di acquisizione della Banca. Credo che un'indagine parlamentare sarebbe auspicabile per definire responsabilità e ridare fiducia a clienti e investitori di Mps».

Che ricordo ha di Mussari?

«Quando da presidente Unipol gli telefonai per suggerirgli di far comprare Bnl da Mps, garantendogli il nostro appoggio, mi rispose gelido: "Anche a Siena abbiamo il pallottoliere". Certo non l'ha usato nell' acquisto Antonveneta, fatto senza una due diligence che ne verificasse lo stato di salute: una cosa senza precedenti nel panorama bancario e industriale, che ha legittimato dubbi e perplessità; ma non dimentichiamo che poi Mussari venne promosso presidente dell'Abi. Se avesse fatto tutto da solo, poi non avrebbe fatto tanta carriera».

Quindi i 27 miliardi di crediti inesigibili (NPL) non sono decisivi?

«In buona parte sono anche eredità delle onerose acquisizioni senza i dovuti approfondimenti sullo stato dei crediti. Poi certo, è possibile anche che Mps sia stata usata in una logica di toscanità per sostenere un sistema che imprenditorialmente non stava più in piedi; saranno stati concessi crediti sulla base di valutazioni che immagino più di politiche locali che di merito creditizio. Si sapeva che c'era la polvere ma la si metteva sotto il tappeto pensando che tutto si sarebbe ripulito da sé. Ma io non ho mai visto nulla ripararsi senza sudore e fatica. La sensazione però è che sul salvataggio Mps più che la Bce abbia perso tempo l'Italia: ci siamo affidati per mesi ad una trattativa con Jp Morgan ma poi la banca d' affari americana ci ha lasciati in braghe di tela Si è sottovalutato il problema della diversità degli interessi in campo: Jp Morgan non aveva problemi di tempo e voleva fare affari e pagare poco, Mps aveva necessità di chiudere rapidamente e al massimo del realizzo. Jp Morgan, avendo compreso l'urgenza del problema Mps, ha provato a forzare l'operazione, tirando giù il prezzo d' acquisto. Chi ha trattato con gli americani ha sottovalutato questi aspetti: forse si pensava che da Jp Morgan Grilli ci avrebbe aiutato ma da quelle parti gli affari sono una cosa seria. In Italia ci siamo illusi che il problema sarebbe stato risolto solo perché andava risolto a ogni costo. C' è stata buona fede, ma ancora più ingenuità. Per mesi abbiamo pensato che il titolo di Mps crollasse perché c'era un compratore alla finestra che ne manovrava l'andamento Non era così: il titolo è stato in balia della speculazione ribassista».

Perché l'offerta di Passera non è stata presa in considerazione?

«Non la conosco nel merito ma sono rimasto molto sorpreso che neppure la stampa abbia dato informazioni di dettaglio sulla proposta di Passera. Credo che abbiano giocato ancora una volta fattori politici e territoriali: è stato fermato perché è un big, e per di più italiano, e avrebbe avuto molta voce in capitolo».

È stata giusta alla fine la scelta della nazionalizzazione?

«Più che giusta, indispensabile. Solo andava fatta prima, perché tra la speculazione in atto e le pressioni della Bce è stato un errore illudersi che qualche privato avrebbe comprato».

Di Mps si sa da anni che è in crisi, di Etruria prima che fallisse si conosceva a stento l'esistenza: le pare giusto che i privati che hanno investito in Mps vengano salvati e quelli che hanno investito in Etruria abbiano perso tutto?

«La domanda è a effetto ma le situazioni sono differenti. In entrambi i casi il governo ha sbagliato. Con Etruria è entrato nel panico e ha applicato pedestremente il bail in perché sotto schiaffo dell'Europa a cui non ha osato ribellarsi. Andava chiesta un'applicazione spostata nel tempo: non si può far pagare gli obbligazionisti in base a una legge che non era in vigore quando questi sottoscrissero i titoli».

È lì che il governo Renzi ha cominciato a perdere popolarità?

«Sì. Nessuno ha valutato che lo scandalo Etruria sarebbe stato pagato dal governo in modo così grave. Anche perché ha coinvolto mediaticamente il padre della Boschi, il ministro più vicino al premier. Renzi aveva compreso la pericolosità politica della vicenda rispetto a qualsiasi decisione avesse preso e, per inesperienza specifica nel settore bancario, ha preferito la mera e semplicistica applicazione del bail in che lo metteva al riparo dalle critiche e avrebbe avuto il consenso della Ue. Ma è stato un errore. E pensare che Etruria si sarebbe potuto tentare di salvarla con un piano di ristrutturazione alternativo che scongiurasse l'applicazione immediata del bail in. Questa non l'ho mai sentita...Se avesse ceduto in una logica di sistema, coinvolgendo banche e Assicurazioni le sue partecipazioni: la sua compagnia Vita (120 milioni), trasformava i bond in capitale come è stato proposto e perseguito per Mps (390 milioni), vendeva a un prezzo di mercato e non di pronto realizzo i crediti inesigibili (470 milioni anziché 370), chiedeva ai soci di aderire ad un aumento di capitale (100 milioni) cedeva la Banca di risparmio gestito Del Vecchio, chiedeva 300 milioni di intervento al fondo interbancario, Etruria era salva. E con lei l'immagine del premier e della sua sinistra».

Su Mps invece lei sostiene che c' è stato un errore opposto?

«Ma sempre originato dal timore di scontentare l'Europa. Ha giocato la carta dell'ottimismo. Quando il titolo era a 0,3 euro ha detto che l'avrebbe comprato anche a 1,20 ma i mercati, e gli italiani, non gli hanno creduto».

Ma l'Europa cosa c' entra?

«La campagna per il referendum ha determinato il prolungamento dell'agonia di Mps. Il premier temeva un nuovo effetto Etruria e ha congelato la situazione. Sapeva che aprire davvero il capitolo Mps gli sarebbe costato un nuovo bagno di sangue in termini di popolarità. E poi l'Europa era la sua grande alleata nel referendum, certo non poteva sfidarla in piena campagna referendaria aprendo il tavolo Mps e chiedendo l'immediata nazionalizzazione della Banca, a cui la Bce si opponeva. Dietro le cattive gestioni del caso Etruria e Mps ci sono sempre il timore di scontentare l'Europa e la debolezza del nostro governo».

Ma le nostre banche le abbiamo messe in ginocchio noi. Di chi è la colpa: politici, banchieri, industriali, Bankitalia, organi di vigilanza?

«La politica nazionale c' entra poco. Dal Veneto, a Mps ai quattro istituti del Centro Italia, la crisi bancaria ha messo in evidenza che il sistema era nelle mani di potentati locali che coprivano ruoli chiave non in quanto professionalmente capaci ma perché rappresentativi di forze politiche e sociali di territorio. In questo senso sono tutti colpevoli. Soprattutto gli organi di vigilanza nazionali, le società di revisione, la Consob, che per tirare avanti la baracca hanno avallato per anni situazioni fallimentari. Mi pare impossibile che nessuno se ne sia accorto».

Chi compra Banco Veneto?

«Non vedo all'orizzonte nessun investitore, se prima non si chiarisce qual è la situazione effettiva patrimoniale e finanziaria, e la struttura costi-ricavi della banca. Fatto fuori dalla giustizia delle procure e non dei tribunali quando era al timone di Unipol, la gigantesca società per azioni quotata in borsa controllata dalle coop dell'Emilia rossa, Giovanni Consorte oggi ha risolto i problemi della giustizia, con 14 tra assoluzioni e archiviazioni, e non ha mollato il colpo. Anche il giorno di Santo Stefano è nel suo ufficio nel centro di Bologna, dove ha sede la Network Consulting & Private Equity, società di consulenza che si occupa di ristrutturazioni, acquisti e cessioni di imprese. Mi occupo di economia reale - spiega - ma non è che prima non lo facessi. Quando io e Sacchetti prendemmo Unipol partimmo da una situazione di perdite per centinaia di miliardi di lire accumulatesi nell' allora Unipol Finanziaria (oggi Finsoe). Di Unipol Assicurazioni ne abbiamo fatto un gioiello, il secondo gruppo assicurativo italiano. Nel 2005 chiudemmo il bilancio con 11 miliardi di fatturato, 350 milioni di utile netto e 6 miliardi di mezzi propri. Forse siamo stati poco abili nei settori in cui le varie abilità hanno portato altri a compiere grandi disastri. Poi arrivarono l'avviso di garanzia per il tentativo di scalata di Unipol a Bnl e le dimissioni. Non avevo esperienze giudiziarie, racconta senza rimpianto Consorte, feci un errore a dimettermi, anche se sono stato spinto dalla proprietà a farlo, oggi non lo rifarei».

Perché le chiesero di dimettersi sulla base di un avviso di garanzia?

«Io e Sacchetti non eravamo amati dalle Coop di consumo, ma facevamo grandi risultati ed erano obbligati a tenerci. Quando ci arrivò l'avviso di garanzia, che a quel tempo era considerato già una condanna, a certa gente non parve vero di liberarsi di noi con l'obiettivo di far assumere il controllo del gruppo alle cooperative di consumo. Cosa che è avvenuta. Oggi forse non le sarebbe più richiesto: il governo ha confermato sottosegretari indagati Lo considero un fatto positivo. L' Italia ha pagato un prezzo enorme, il potere della magistratura ha avuto riflessi pesanti sull' economia. Per i processi di contenuto economico e finanziario occorrerebbe prevedere specializzazioni nel mondo della giustizia».

Perché la sinistra mangia i suoi figli e fa fuori i migliori?

«Come mi disse un suo collega di lunga militanza rossa: "La sinistra è tenuta insieme da potere e invidia e tu ne hai troppo e devi morire". Quando mi sono ammalato, all'inizio delle indagini, pensai fosse una sentenza definitiva. Per fortuna non fu così».

Visti i risultati di Unipol perché il partito non l'ha difesa?

«Quando intervennero i pm, i Ds ritennero che era più utile defilarsi piuttosto che prendere posizione. A fare scandalo fu la sua super consulenza: 50 milioni (Consorte e Sacchetti) per il passaggio di Telecom dalle mani pubbliche a Gnutti e Colaninno, quelli che D' Alema definì "I capitani coraggiosi" La Procura di Milano ci ha restituito le somme sequestrate. La parcella era congrua. Era un'operazione da 11 miliardi con un utile di 5 miliardi, io e Sacchetti abbiamo partecipato a vario titolo al successo dell'operazione. Per il nostro lavoro siamo stati remunerati con lo 0,45%, ma i partecipanti dell'operazione hanno guadagnato centinaia di milioni pro capite a partire da Unipol. Dovrebbero fare più scandalo le liquidazioni per decine di milioni riconosciute ai manager di banche, anche se ricoprono per brevi periodi i suddetti ruoli. La super consulenza fu associata alla scalata di Unipol a Bnl Sì ma le indagini poi smentirono ogni accusa. Di fatto la mia messa in stato d' accusa servì solo a farmi fuori da Unipol e a compromettere l'acquisto di Bnl. La magistratura ebbe un ruolo anticipatorio, io e Sacchetti fummo indagati d' ufficio: l'operazione fu bloccata non in base a una sentenza, ma sulla base di un avviso di garanzia, e lo scenario economico e politico del Paese cambiò per sempre».

Ma perché da presidente Unipol decise di acquistare una banca?

«Inizialmente non era nostra intenzione ma dopo la trattativa fallita con Bbva ci decidemmo a lanciare l'opa. Unipol aveva sei milioni di clienti e Bnl quattro milioni; il progetto di acquisizione di Bnl partiva con l'obiettivo di realizzare una integrazione tra l'attività bancaria e quella assicurativa, e quindi perseguire una sinergia di clientela, nonché di ricavi e di costi. Unipol sarebbe diventato il secondo gruppo finanziario italiano con delle prospettive di sviluppo enormi».

Che errori si rimprovera?

«Più che un errore, non ho fatto i conti con il sistema di potere dell'epoca. Avevamo le risorse finanziarie, ritenevamo che avremmo avuto il sostegno della sinistra, il progetto era valido e solo per questo pensavamo che sarebbe andato a buon fine. Non avevamo calcolato che aumentando il nostro potere in settori chiave come quello bancario e assicurativo, avremmo rotto equilibri politici e finanziari consolidati. Pensavamo che tutte le forze progressiste avrebbero visto con favore l'operazione di Unipol su Bnl, una banca nata come banca dei lavoratori. Peccammo di ingenuità e fummo affossati da fuoco amico e nemico».

Nel dettaglio, chi la sabotò?

«Oltre ai soliti nomi che facevano riferimento alla Margherita e a Rutelli, si schierarono contro importanti esponenti Ds allora all' opposizione e alcune frange del sindacato. E poi Montezemolo, Della Valle ed altri. Ma allora è vero che tentò una sorta di golpe economico-finanziario con i furbetti del quartierino? I furbetti del quartierino prima dell'operazione ossia 1 luglio 2005, neanche li conoscevo, come hanno dimostrato le intercettazioni. E quando li conobbi, nell'ambito della trattativa con il contropatto Bnl, ebbi un rapporto conflittuale. Unipol non fece mai nessuna operazione con i cosiddetti furbetti del quartierino, che invece erano finanziati per centinaia e centinaia di milioni di euro da importanti banche nazionali ed estere, che nessuno ha mai menzionato».

Il Pd fu accusato per il famoso abbiamo una banca di Fassino: ma è una frase così sbagliata?

«È sbagliata l'espressione ma l'entusiasmo per un'operazione del genere era comprensibile».

Il Pd voleva le nozze tra Unipol e Mps, perché lei si oppose?

«Visto come sono andate le cose, meno male che mi opposi, non trova? Storia e origini delle due entità erano troppo diverse. Avevamo la banca più antica al mondo e un gruppo assicurativo controllato dalle Coop che in 20 anni era diventato importante, non c'erano le condizioni per amalgamare le due realtà. Si poteva al più perseguire un'alleanza strategica. Fondere Unipol e Mps sarebbe stato come fondere Ds e Margherita in politica, guarda caso nello stesso periodo. Quello che poi è successo Ma non ha portato a nulla di buono ed è costato a Prodi due volte la poltrona di premier e una quella di presidente della Repubblica. Ds e Margherita avevano un unico solo comune denominatore, la base popolare, ma questa non basta quando si arriva da storie e valori totalmente diversi. Litigarono subito sul patrimonio Ds, affidato a delle fondazioni, fu una fusione a freddo che ancora non ha cessato di fare danni».

Crede che il Pd si spaccherà?

«Spero di no ma penso di sì: ci saranno un partito di sinistra e uno di centro di Renzi. E poi la destra, tutto come vent' anni fa».

E Berlusconi dove lo mette?

«Con Renzi non ci può stare. Non lo vuole Matteo e non lo vogliono gli elettori di entrambi. Gli conviene radunare i cocci della destra e provare a restare primus inter pares. Lui però ora tifa governo per salvaguardare Mediaset Non so se esistono i presupposti giuridici per fermare la scalata dei francesi di Bolloré a Mediaset. Il caso Mediaset va guardato nella filiera Telecom-Generali-Mediobanca: i francesi ci comprano, d' altronde loro hanno quell' orgoglio nazionale che a noi manca e li porta a scalare gli altri. Non ci siamo giocati Alitalia, Parmalat. E Fiat: qualcuno non crederà mica che è ancora un'azienda italiana?. Ma come: Silvio è europeista e pro immigrati mentre Salvini e Meloni sono sovranisti Sono cose che si aggiustano. Se il Cavaliere vuole rimanere influente deve cercare assolutamente di portare dalla sua Lega e Fratelli d' Italia».

La resistenza di D' Alema a Renzi è eroica o patetica?

«Nessuna delle due, direi personalistica. Se Renzi si fosse schierato per il No al referendum, D' Alema avrebbe sostenuto la campagna del Sì. D' Alema ha vinto e si è vendicato ma certo il referendum, a mio parere non lo rilancia politicamente. Però deve aver provato una grande soddisfazione, e si vive anche per queste cose».

E Bersani, qual è stato il suo errore più grande?

«Fare, per anni e anche in campagna elettorale, una politica incentrata contro Berlusconi, come nemico da abbattere, perché poi gli ha impedito di cercare l'accordo con lui e l'ha costretto a umiliarsi in streaming con Grillo. Evidentemente il caso Bnl non gli ha insegnato molto. Anche chiedere aiuto a Renzi per le elezioni e farsi fotografare al ristorante con lui subito dopo averlo battuto non gli ha giovato, ha rilanciato subito Matteo».

Renzi ha ancora un futuro?

«Sarà il prossimo candidato premier: la debolezza degli altri è la sua migliore assicurazione sul futuro».

E vincerà?

Se ce la farà, non sarà certo un trionfo. Per anni ha detto di avere con sé il 41% degli italiani, ma alle Europee del 2014 votò solo il 50% degli elettori. In realtà al massimo del suo fulgore, Renzi aveva con sé un italiano su cinque. Occhio poi, se perde il referendum sul Jobs Act potrebbe prendere una tranvata definitiva».

Renzi pagherà per aver promosso la Boschi o gli sarà perdonato?

«La gente capisce che non si è fatto indietro e che Gentiloni ha alle calcagna una persona di massima fiducia di Renzi, in grado di informarlo in tempo reale di qualsiasi mossa del governo. Non è una bella immagine».

Il ministro Poletti, che venendo dalle Coop lei conosce bene, deve dimettersi per aver definito una zavorra di cui è bene liberarsi i giovani che vanno via per lavorare?

«La frase è infelice, tanto più se detta da un uomo di sinistra. È contraria alla cultura di qualunque uomo contemporaneo e di buon senso. Sono rammaricato ma non stupito che Poletti l'abbia detta. Ma non credo che sia il caso di parlare di dimissioni».

Per l'Italia la moneta unica è un vantaggio o uno svantaggio?

«Visto che abbiamo un debito di oltre 2200 miliardi con paletti rigidi da rispettare, forse è ancora un vantaggio. Ma se avessimo avuto l'accortezza di ridurre il debito, oggi potrebbe essere uno svantaggio».

Cosa ne pensa del referendum per lasciare l'euro?

«Non è un'espressione di coscienza come per il divorzio: occorre un'attenta valutazione economico finanziaria prima di esprimersi, serve un piano su cui votare. La Brexit è stata un successo Non credo che avrà le conseguenze nefaste che si prevedevano perché Ue e Gran Bretagna troveranno delle mediazioni. Ma anche perché Londra ha la sterlina, e il governo inglese può stampare autonomamente moneta».

Perché il mondo si è ripreso dalla crisi e l’Europa ancora no?

«La Ue manca di unità politica e gli Stati non decidono insieme le politiche economiche ma solo i vincoli. È stato un errore posporre l'unità politica a quella monetaria. E poi la Germania è un comandante che esercita un'azione di freno rispetto a tutte le altre economie dei i Paesi Ue». Pietro Senaldi

Banche in paradiso, contribuenti all'inferno: salvate dallo Stato eludono il fisco. Dall’istituto di Siena a Intesa, da Unicredit a Mediolanum: ecco come i grandi gruppi del credito eludono il fisco italiano attraverso le loro controllate in Lussemburgo, a Bermuda e nelle Cayman.  Ma quando le cose vanno male, lo Stato deve intervenire con miliardi di soldi pubblici, scrive Stefano Vergine il 4 gennaio 2017 su "L'Espresso". Hanno incassato all’estero decine di milioni di euro. Hanno gonfiato di profitti filiali registrate nei più aggressivi paradisi fiscali. Uffici senza nemmeno un dipendente. Eppure, lo Stato italiano corre in loro soccorso. Le aiuta mettendo a disposizione denaro pubblico. Soldi di chi ha pagato le tasse in Italia usati per salvare chi le tasse le ha pagate spesso fuori dai confini nazionali. È il paradosso di Monte dei Paschi di Siena, Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Too big to fail, direbbero gli americani. Troppo importanti per essere lasciate al loro naturale destino, è l’argomentazione del governo italiano. Fatto sta che le tre grandi banche salvate al grido di «tuteliamo i risparmiatori» fanno parte della lista degli istituti con il vizietto dell’offshore. Big del credito che per anni hanno dichiarato buona parte dei propri guadagni in Stati o Staterelli dove le imposte sono basse, bassissime, a volte addirittura inesistenti. Dai grandi classici europei come Irlanda e Lussemburgo ai paradisi esotici a sovranità britannica tra cui Cayman e Bermuda. Fino a Singapore ed Emirati Arabi, le nuove piazze asiatiche tax-free. Premessa. La tendenza a fatturare offshore non è una specificità tricolore. Lo fanno un po’ tutte le banche d’Europa. Per dire: l’anno scorso la francese Bnp Paribas ha incassato in nazioni a fiscalità agevolata o nulla il 12 per cento dei suoi utili, la tedesca Deutsche Bank è arrivata a un quarto del totale. Per l’Italia, però, la questione è oggi decisamente più rilevante. Il Fondo Atlante, finanziato in parte con i soldi della Cassa depositi e prestiti, è infatti diventato proprietario della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. E dalle casse dello Stato arrivano direttamente anche i 20 miliardi di euro messi recentemente a disposizione dal governo di Paolo Gentiloni per salvare le altre a rischio, prima fra tutte Mps. Con il conseguente aumento del debito pubblico nazionale, già altissimo rispetto a quello dei concorrenti europei. Ecco perché è importante sapere se finora le banche hanno pagato le tasse in Italia, soprattutto quelle che resteranno in piedi grazie al denaro dei contribuenti. I dati emergono da un’analisi dei bilanci condotta da l’Espresso. Un’inchiesta possibile grazie all’obbligo, imposto dall’Unione europea a partire dal 2015, di pubblicare il rendiconto dei principali dati finanziari relativi a tutti i Paesi in cui l’istituto ha delle attività. Novità assoluta a livello mondiale, il cui scopo è proprio quello di limitare il trasferimento di utili verso Paesi dove la pressione fiscale è più bassa. Contrastare l’elusione fiscale, insomma, fenomeno che toglie alle finanze pubbliche del Vecchio Continente dai 50 ai 70 miliardi di euro ogni anno, secondo le stime della stessa Commissione. I risultati dell’indagine dell’Espresso dimostrano che l’obbligo di trasparenza ha portato alla chiusura di alcune filiali offshore, ma il ricorso ai paradisi fiscali rimane fondamentale per i protagonisti della finanza nostrana. «Una situazione preoccupante soprattutto adesso che vengono usati soldi pubblici per aiutare le banche», sottolinea Tommaso Faccio, esperto di fiscalità internazionale e docente di Economia aziendale alla Nottingham University Business School, in Inghilterra. Il timore del professore «è che questi fondi possano essere spostati all’estero invece che tornare nelle casse dello Stato, tramite utili tassati in Italia, una volta che le banche si saranno rimesse in carreggiata». Partiamo da Mps, la grande malata d’Europa. I bilanci dimostrano che fra il 2014 e il 2015 il gruppo ha chiuso due società in Irlanda e una in Olanda. Offshore, però, ne rimangono aperte ancora parecchie: due controllate in Lussemburgo, una in Irlanda e ben otto nel Delaware, rifugio tax-free a stelle e strisce. Risultato? Gli utili pre-tasse registrati in paradisi fiscali l’anno scorso sono stati 107 milioni di euro. Equivalenti a quasi un terzo del totale: il 27,9 per cento. Che una grande azienda abbia filiali in tutto il mondo, e paghi perciò una fetta delle imposte all’estero, è più che normale. A sorprendere, però, è la sproporzione fra attività economica e numero di lavoratori. Prendiamo la Mps Preferred Capital I Llc, società del gruppo con base fiscale nel Delaware. L’anno scorso ha fatto 44,9 milioni di euro di utili. Con zero dipendenti. Praticamente un miracolo. Più limitato il ricorso ai paradisi da parte della Popolare di Vicenza. L’istituto per anni presieduto da Gianni Zonin, ora finito sotto il cappello del Fondo Atlante, a fine 2015 aveva una sola filiale all’estero, in Irlanda. È la Bpv Finance International Plc, cinque impiegati in tutto. Dopo aver macinato utili per anni, ha chiuso l’ultimo bilancio con un rosso di 99,8 milioni di euro. «Cesserà di esistere definitivamente all’inizio del 2017», assicurano da Vicenza. Clamoroso il caso dell’altro istituto salvato dal Fondo Atlante: Veneto Banca. A differenza dei cugini vicentini, l’istituto guidato per anni da Vincenzo Consoli ha aperto filiali in diverse nazioni. Albania, Croazia, Romania, Moldavia. Un tentativo di allargarsi nei promettenti mercati nell’Est Europa, dove sono state assunte oltre 600 persone. Al contempo sono state aperte succursali anche in mercati non proprio emergenti: Svizzera e Irlanda. E dalla patria di James Joyce sono arrivati gli unici guadagni consistenti incamerati negli ultimi due anni: 103 milioni di euro in totale, incassati grazie ai soli sei dipendenti della filiale. Gli irlandesi, evidentemente, sono dei gran lavoratori. A fatturare offshore sono però soprattutto i grandi istituti italiani, quelli più in salute. Le prime tre banche commerciali convogliano nei paradisi fiscali quote dei loro guadagni che variano da un sesto fino alla metà del totale. Per un totale, nel solo 2015, di quasi 2 miliardi di euro. Intesa Sanpaolo, il principale istituto del nostro Paese per capitalizzazione di Borsa, ha registrato in Paesi a fiscalità agevolata il 23 per cento degli utili pre-tasse del gruppo. Eppure in quei posti è impiegato solo lo 0,5 per cento dei dipendenti totali. Emblematico il caso di Dubai. Nell’Emirato più famoso al mondo, il gruppo guidato da Carlo Messina ha fatturato 49 milioni di euro (senza versare un euro di tasse) con solo 18 dipendenti. Una produttività da record. Significa che ogni lavoratore in media ha fatto incassare alla banca 2,7 milioni. In Italia, per capirci, la media fatturata da ogni impiegato è di 315 mila euro. Quasi nove volte meno. Ancora più evidente la sproporzione in casa Unicredit. Le controllate di Bermuda, Cayman e Jersey non hanno nemmeno un dipendente all’attivo. Stesso discorso per le succursali domiciliate a Malta e nel Regno Unito, altre nazioni in cui il carico fiscale per le imprese può arrivare a livelli minimi. A cosa servono allora delle società in quei luoghi? Attività finanziarie, è la generica spiegazione fornita nel documento ufficiale. Di certo c’è un dato. Nei Paesi a fiscalità agevolata Unicredit ha incassato l’anno scorso circa il 15 per cento dei suoi utili pre-tasse. La fetta più grande appartiene a Irlanda e Lussemburgo, paradisi nel cuore del Vecchio Continente. Una tendenza valida per quasi tutte le banche italiane, comprese Ubi e Banca Generali, che nei due Stati europei piazzano spesso le società che gestiscono obbligazioni e fondi comuni. Proprio cavalcando questo fenomeno Mediolanum è diventata già da anni, come raccontato più volte dall’Espresso, la regina italiana dell’offshore. Il gruppo controllato da Ennio Doris e Silvio Berlusconi non ha filiali a Panama o alle British Virgin Islands. La “banca costruita intorno a te”, come si presenta negli spot pubblicitari, punta tutto sugli evergreen europei: Irlanda e Lussemburgo, appunto. Da qui l’anno scorso è arrivato infatti il 52,5 per cento degli utili pre-tasse del gruppo. Vuol dire che oltre la metà dei guadagni di Mediolanum non è stato tassato in Italia. Come succede all’irlandese Mediolanum International Funds Ltd, che si occupa di gestione di fondi d’investimento ed è la vera gallina dalle uova d’oro del gruppo. Con soli 26 lavoratori a tempo pieno, la succursale di Dublino ha un fatturato di 531 milioni di euro e un utile pre imposte di 527 milioni. Nessun costo, in pratica. E grazie al regime fiscale locale, che tassa normalmente le imprese al 12,5 per cento contro il 30 per cento italiano, la finanziaria dei Doris a fine anno ha guadagnato 461,9 milioni di euro netti. Una redditività da record. Con tanti saluti all’Agenzia delle Entrate.

Così le banche italiane hanno spedito centinaia di milioni in Lussemburgo. Grazie a un broker con decine di clienti cifre importanti sono transitate nelle filiali di Intesa e Ubi. La procura di Milano indaga, e poi archivia. Ma la Cassazione può riaprire il caso. E qui riveliamo i nomi coinvolti, scrive Vittorio Malagutti e Gloria Riva il 30 giugno 2016 su "L'Espresso". Questa è una storia di straordinario malaffare. Centinaia di milioni di euro decollati dall’Italia per rimbalzare fino in Lussemburgo, via Svizzera, Montecarlo e i paradisi offshore dei Caraibi. I documenti che "l’Espresso" ha potuto consultare raccontano una trama con un cast davvero assortito. Un ruolo decisivo viene svolto da grandi banche come Intesa e Ubi. E tra i protagonisti della storia troviamo imprenditori, manager e professionisti. Nomi già noti alle cronache come il gruppo guidato da Giuseppe Pasini, l’immobiliarista milanese coinvolto e poi assolto sei mesi fa in primo grado nel processo per le tangenti del cosiddetto "sistema Sesto" di Filippo Penati, pezzo grosso del Pd lombardo anche lui prosciolto. E poi Marco Marenco, imprenditore arrestato un anno fa per un crac da 3,5 miliardi e titolare, tra l’altro, della Borsalino, il famoso marchio dei cappelli. Nella lista troviamo anche l’azienda meccanica friulana Brovedani con il patron Benito Zollia, le acciaierie Valbruna della famiglia Amenduni, la Laworwash un tempo quotata in Borsa. La grande centrifuga del denaro nero ha girato a pieno regime per almeno una dozzina di anni. Fino a quando, nel 2012, una lite tra gli eredi del gruppo piemontese Giacomini ha portato alla luce gli ingranaggi del sistema. La procura di Verbania e poi quella di Milano hanno raccolto e analizzato migliaia di documenti che disegnano i contorni di quella che appare come una gigantesca frode fiscale. Si è scoperto che grandi marchi del credito nazionale come Intesa e Ubi hanno fatto soldi a palate aprendo le porte delle loro filiali in Lussemburgo ai clienti italiani in fuga dalle tasse. C’è di più. I file raccolti dagli investigatori rivelano che all’occorrenza Intesa inviava propri dirigenti ad amministrare le società lussemburghesi da cui transitavano i flussi di denaro sospetti. Nelle carte della procura di Milano compare anche il nome del banchiere Giuseppe Castagna, da poco promosso amministratore delegato del nuovo grande gruppo che nascerà dalla fusione tra Popolare Milano e Banco Popolare. All’epoca dei fatti, cioè tra il 2003 e il 2009, Castagna era un manager di punta della divisione Corporate and investment banking (Cib) di Intesa nonché consigliere di amministrazione della Société Européenne de banque (Seb), filiale lussemburghese del gruppo bancario all’epoca guidato da Corrado Passera. Nell’estate del 2012 i riflettori della cronaca hanno illuminato solo la vicenda dei Giacomini, che nell’arco di una ventina di anni avevano nascosto all’estero oltre 200 milioni di euro. "L’Espresso", sulla base di documenti giudiziari e carte riservate, è però in grado di rivelare che molti altri imprenditori e professionisti hanno utilizzato sistemi simili per trasferire denaro all’estero. Tutti i nomi della lista, a cominciare dai Giacomini, avevano un unico broker di riferimento, uno spallone d’alto bordo in grado di garantire ai suoi clienti un servizio rapido, discreto ed efficiente. L’uomo del Lussemburgo si chiama Alessandro Jelmoni, 49 anni, un veneto di San Donà di Piave che ha imparato in banca i segreti del mestiere per poi mettersi in proprio come consulente. Era lui, Jelmoni, il capo di quella che i pm di Milano, Giordano Baggio e Andrea Civardi, descrivono come un’organizzazione criminale creata allo scopo di favorire l’evasione fiscale. La giostra del denaro nero ruotava attorno a una società lussemburghese, la Titris, organizzata come una scatola con molti cassetti, ciascuno dei quali era intestato a un cliente, oppure serviva per uno specifico affare. Un report di un centinaio di pagine agli atti dell’inchiesta segnala 38 comparti in totale. Secondo questo rapporto, affidato dalla Procura di Milano al consulente tecnico Roberto Pireddu, gran parte dei movimenti di denaro transitavano su conti bancari di Ubi international. Diverse operazioni risalgono molto indietro negli anni, fino al 2004 e a volte la documentazione recuperata dagli investigatori è incompleta, probabilmente distrutta o messa al sicuro prima dell’inizio delle indagini. In alcuni casi diventa quindi difficile associare una persona a un singolo affare sospetto. C’è un comparto (numero 21) denominato Borsalino, che fa riferimento al già citato Marco Marenco. Un altro, il numero 15, è intestato all’immobiliarista milanese Michele Carasi. Alla famiglia Di Leo, proprietaria della Astor immobiliare di Atella (Potenza) era stata messa disposizione la piattaforma 28, su cui sono transitati 8 milioni di euro. All’azienda Brovedani, guidata da Benito Zollia, comparto numero 29, è invece associata un’operazione del valore di 21,4 milioni. Il "cassetto" 25 della grande scatola Titris risulta assegnato a Paolo Monteverdi, uomo d’affari finito sui giornali qualche anno fa come il titolare del residence in via Olgettina a Milano dove Silvio Berlusconi ospitava le sue amiche, da allora in poi meglio conosciute come "Olgettine". Giunti ai numeri 36 e 37, gli investigatori sono inciampati in un rebus difficile da risolvere. Si legge infatti nella relazione tecnica agli atti dell’indagine che quei comparti erano intestati al commercialista Lorenzo Barbone insieme a un non meglio identificato Maurizio Lupi. Nome e cognome corrispondono a quelli del parlamentare del Nuovo Centrodestra, nonché ex ministro del governo di Matteo Renzi. Nelle carte però non compare nessun altro elemento utile a individuare la persona: niente data di nascita, residenza, professione. Solo quel nome e cognome. Va però segnalato che Barbone è socio di studio del tributarista Raffaello Lupi ed entrambi hanno assistito Jelmoni per alcuni affari all’estero. L’intestazione dei comparti 36 e 37 potrebbe essere quindi il frutto di un errore materiale: un Lupi al posto di un altro. Maurizio invece di Raffaello. L’ipotetico errore è stato ripetuto più volte, almeno quattro, in diverse pagine dello stesso faldone di atti, dove non compare mai Raffaello Lupi, ma sempre e soltanto Maurizio. Il nome dell’ex ministro ha ovviamente incuriosito i magistrati che hanno chiesto spiegazioni a Jelmoni. Interrogato dal pm Civardi il 12 settembre 2012, il broker risponde che «Lorenzo Barbone è in rapporti stretti di lavoro con il professore Raffaello Lupi. Sicché per me è un errore l’indicazione di Maurizio». Caso risolto? Non proprio, perché Jelmoni era in ottimi rapporti con gli ambienti milanesi di Comunione e Liberazione, gli stessi da cui proviene il politico Lupi. Quei rapporti si erano a suo tempo trasformati in una relazione d’affari. La società di gestione di fondi di proprietà di Jelmoni, la RMJ sgr, compariva infatti tra i finanziatori di "Tempi", periodico di riferimento di Cl. In quello stesso interrogatorio del settembre di quattro anni fa, il finanziere ha liquidato la questione come una semplice coincidenza. «Replico che non conosco nemmeno il parlamentare (cioè Lupi, ndr)», ha tagliato corto il patron di Titris, aggiungendo però che forse in passato l’aveva «conosciuto in una occasione» con Simone (Antonio Simone, ciellino, a processo con Roberto Formigoni per le tangenti sulla clinica Maugeri, ndr) senza che però siano «stati presentati». La vicenda, a quanto pare, si è chiusa qui. Dagli atti dell’inchiesta non risulta che i pm abbiano svolto ulteriori approfondimenti. Sta di fatto che i comparti 36 e 37 sono serviti a gestire alcuni affari immobiliari in Germania, a Berlino, conclusi attraverso la società tedesca Capital Investment spv 2. Quest’ultima è solo una delle tante operazioni descritte nella relazione del consulente della procura. Semplificando al massimo, il canovaccio seguito da Jelmoni era il seguente. I soldi in arrivo dal cliente in Italia venivano triangolati dal Lussemburgo verso sigle offshore nei Caraibi per poi affluire su conti bancari, anche questi all’estero, riferibili ai presunti evasori fiscali. Anche lo studio panamense Mossack Fonseca aveva dato una mano: alcune delle società schermo risultano costituite con l’assistenza dei legali diventati famosi nel mondo per via dello scandalo dei Panama Papers. Il processo contro Jelmoni e i suoi principali collaboratori (Nerina Cucchiaro, Mario Iacopini e altri) è iniziato ai primi di giugno, quattro anni dopo l’arresto del broker. Procedimenti separati, anche in altre città italiane, sono invece stati avviati contro gli imprenditori e i professionisti accusati di aver dribblato il Fisco nostrano. È il caso dei fratelli Giacomini (Andrea, Corrado ed Elena) che però potranno essere giudicati per frode fiscale solo per i fatti successivi al 2011. Tutte le altre accuse, che riguardano giochi di sponda finanziari per decine di milioni di euro, sono già state azzerate dalla prescrizione. E le banche? Nel 2012 i pm Baggio e Civardi hanno iscritto nel registro degli indagati anche Intesa e la sua controllata in Lussemburgo, la Seb, insieme all’amministratore delegato di quest’ultima, Marco Bus, e al già citato Castagna. In sostanza, i manager erano sospettati di riciclaggio per aver gestito il denaro frutto dell’evasione fiscale dei Giacomini. Gli istituti di credito erano invece chiamati a rispondere in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. A ottobre dell’anno scorso, però, i due pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione del filone d’inchiesta che riguarda Intesa, un provvedimento deciso dal giudice per le indagini preliminari (Gip), Cristina Di Censo. La partita non è ancora chiusa. L’avvocato Mario Zanchetti, il legale di parte civile che assiste l’azienda Giacomini spa, ha fatto ricorso in Cassazione contro l’archiviazione. Motivo: il decreto del Gip, datato 19 ottobre 2015, non ha tenuto conto dell’opposizione formulata da Zanchetti a tutela delle ragioni del gruppo Giacomini. Secondo l’accusa infatti, l’azienda novarese, che ha un migliaio di dipendenti e filiali in tutto il mondo, sarebbe stata depredata dai suoi proprietari che hanno nascosto all’estero un vero tesoro. Il ricorso della parte civile riguarda il solo Bus. Il 12 luglio la Cassazione deciderà quindi se rimandare al Gip gli atti che riguardano l’ex amministratore delegato di Seb, che ha lasciato il suo incarico in Lussemburgo ma lavora ancora nel gruppo Intesa come manager di Imi. In teoria è quindi possibile che l’archiviazione venga annullata. Di conseguenza ripartirebbero le indagini sul banchiere che quindi rischia di andare a processo. Numerose testimonianze, decine di documenti societari e anche un rapporto riservato redatto dagli ispettori interni della banca, confermano che Intesa aveva rapporti strettissimi con i Giacomini. Nei file agli atti dell’inchiesta giudiziaria vengono ricostruiti versamenti e prelievi per milioni di euro, anche in contanti, senza che i funzionari abbiano mai segnalato queste operazioni sospette all’antiriciclaggio di Bankitalia. In una nota della direzione internal audit di Intesa, si legge che tra il 2002 e il 2005 dai conti della Giacomini spa in Italia sono usciti 22 milioni verso la società lussemburghese The Net. Nei sei anni successivi, fino al 2011, sono volati in Lussemburgo 33 milioni, questa volta a favore di un’altra società del Granducato, la J&Be. La famiglia piemontese aveva collaudato un sistema per portare all’estero milioni di euro all’anno mascherandoli come pagamenti di fatture per prestazioni inesistenti. Ed erano Jelmoni e i suoi collaboratori a gestire il flusso di denaro attraverso le lussemburghesi The Net e J&Be. Quest’ultima aveva un conto corrente a Ubi bank international, filiale nel Granducato della bergamasca Ubi banca. Lo stesso Bus, interrogato a più riprese dei magistrati, ha parlato dei fondi offshore gestiti da Seb per conto dei Giacomini. Nei verbali viene tra l’altro citata una società delle British Virgin Island, la Henderson services group, costituita, dichiara Bus ai pm, «su incarico di Seb» per conto di Alberto Giacomini (deceduto l’anno scorso). E il Fisco? «In pratica non ci era richiesto di verificare che le somme che gestivamo fossero effettivamente dichiarate», ha precisato il manager alla domanda dei pm milanesi. Nel 2009, secondo Bus, «la sensibilità su questo tema si sarebbe modificata». Risultato: solo allora alla Seb di Lussemburgo sarebbero cessati i rapporti con le società situate nei paradisi offshore. Per il gruppo bancario italiano, però, il colpo grosso porta la data del 2006. Nei primi mesi di quell’anno, infatti, la famiglia Giacomini decide di riportare sui conti di Intesa nel Granducato oltre 100 milioni di euro che cinque anni prima aveva ritirato e accreditato presso altri istituti. L’operazione viene gestita da Bus insieme a Jelmoni. Il patron di Titris era una vecchia conoscenza nei corridoi della Seb. Per anni infatti, fin dal 1993, il broker poi finito agli arresti, aveva lavorato per conto di Cariplo International in Lussemburgo, poi diventata Intesa e infine Société Européenne de banque. Nel 2001 Jelmoni si mette in proprio, ma continua a fare da consulente per i Giacomini che in quell’anno avevano deciso di azzerare i loro depositi alla Seb. Nel 2006 gli industriali piemontesi fanno marcia indietro e circa 116 milioni tornano sui conti della filiale lussemburghese di Intesa. I soldi arrivano dall’isola di Man, un altro paradiso fiscale, dove erano nella disponibilità del "Giacomini trust". Jelmoni recita più parti in commedia. È consulente della famiglia e allo stesso tempo è il protector del trust all’isola di Man, cioè il garante della correttezza della gestione del patrimonio. In pratica il broker di San Donà di Piave doveva controllare se stesso. Per Intesa quei soldi di un cliente come i Giacomini significano milioni di euro di profitti sotto forma di commissioni. Per questo i vertici di Seb decidono di premiare Jelmoni. La banca sigla un contratto di consulenza con Rmj, la piccola società di gestione del broker. È lo stesso Bus, interrogato dai pm, ad ammettere che quello fu il prezzo da pagare «per recuperare il cliente». A due anni di distanza, quei 116 milioni, a cui se ne sono aggiunti nel frattempo un’altra quarantina, vengono utilizzati come garanzia per un prestito di 129 milioni erogato da Seb ad Alberto Giacomini e ai suoi tre figli Andrea, Corrado ed Elena. I soldi del finanziamento servivano per liquidare altri due rami della famiglia e invece di smontare il trust si decise di indebitarsi con la banca. Di lì a poco, però, Andrea comincia a litigare con Corrado ed Elena. L’azienda diventa un ring dove i parenti si parlano a suon di carte bollate. La fine è nota. Nel 2011, arriva la Guardia di Finanza e poi i pm. Tutti a processo, salvo la banca e i banchieri. Secondo i pm Baggio e Civardi, non sarebbe infatti possibile sostenere in giudizio l’ipotesi d’accusa di riciclaggio perché non «si può ritenere raggiunta la prova» che quei 116 milioni confluiti nel Giacomini trust e accreditati a Seb siano di «provenienza delittuosa». In altri termini, non è detto che i soldi volati via da Intesa Lussemburgo nel 2001, denaro frutto di evasione fiscale, siano gli stessi che i Giacomini hanno poi collocato nel trust dell’isola di Man con il conto (dal 2006) alla Seb. Quindi, secondo i pm, Bus poteva non sapere che i soldi che gestiva, intestati a un trust offshore, erano provviste in nero. Eppure, lo stesso Bus in uno dei suoi interrogatori ammette la "sostanziale identità" tra le somme uscite nel 2001 e rientrate cinque anni dopo. Niente da fare. Per Baggio e Civardi il processo al manager d’Intesa non s’ha da fare.

Lo strano rapporto M5S-banche dalle finte guerre alle nomine. Dopo l'incontro confermato con Widiba (100% Mps), i grillini fanno le prove generali con San Paolo a Torino, scrive Giampiero Timossi, Mercoledì 04/01/2017, su "Il Giornale". Tutte le banche dei Cinque Stelle. Sognate, ereditate, annusate e usate, comunque. Ieri Beppe Grillo ha confermato l'incontro di fine anno tra Davide Casaleggio e Andrea Cardamone, amministratore delegato di Widiba, la banca online di Mps, il Monte dei Paschi di Siena. Il leader pentastellato ha scritto sul suo blog: «Una falsità totale, che stravolge un fatto vero». Infatti l'incontro c'è stato ed è confermato da quanto scritto su beppegrillo.it, dove viene spiegato (testualmente) anche «il fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l'ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l'innovazione tecnologica, utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sulla Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative». Perfetto, così trapela anche la verità grillina sul possibile argomento dell'incontro. Certo, poi il comico fa il proprio mestiere, difende la creatura e «propone una giuria popolare per le balle dei media», attaccando notizie che lui stesso definisce «un fatto vero». Il post difende l'operato del figlio di Gianroberto Casaleggio, ma tralascia di scrivere che l'appuntamento milanese di fine dicembre era stato fissato con l'ad di una banca online controllata al 100% da Monte dei Paschi. La stessa banca che, sempre sul suo blog, Grillo definiva «banca di riferimento del mondo della sinistra». Era il 16 settembre 2015. Un altro fatto vero. Come è vero che il salvataggio di Mps costerà 8,8 miliardi di euro, dei quali 6,6 a carico dello Stato e quindi di tutti i contribuenti italiani. Non solo banche annusate, incontrare e accettate da anni come inserzionisti pubblicitari sul sito del leader. Ci sono, certo, le banche ereditate. Siena la «rossa» era la città del Monte? Torino la «grillina» è la città di Intesa San Paolo, la prima banca italiana, e della sua fondazione, la Compagnia di San Paolo. Ed è la stessa città della Fondazione Crt, azionista di Unicredit: il comune nomina due consiglieri in Compagnia di San Paolo e tre nella Fondazione Crt: è in questa città che nasce in maniera diretta il rapporto tra banche e Movimento Cinque Stelle. A giugno, appena insediata, la sindaca Chiara Appendino aveva chiesto le dimissioni del presidente Francesco Profumo, nominato nel consiglio generale insieme a Barbara Graffino. Erano i due nomi indicati dall'ex sindaco Piero Fassino. «Dimettermi, non ci penso neppure», aveva risposto Profumo. La ragionevolezza e il senso civico della sindaca pare abbiano fatto scoppiare la pace. E intanto, in estate, è arrivata la prima nomina grillina nella Compagnia. La regola dice che il presidente eletto decade dalla carica sottostante? Bene, Profumo liberava dunque un posto in consiglio generale. Dove Appendino ha indicato la ricercatrice universitaria Valeria Cappellato. Selezionata in base «al curriculum», dissero in Comune. Curriculum che al momento non è presente sul sito della Compagnia di San Paolo, ma non è certo colpa del sindaco. Appendino che, probabilmente, dovrà aspettare altri quattro anni per vedere il nome del suo candidato alla presidenza della Fondazione. Perché una regola «non scritta», una sabauda consuetudine, vuole che il vertice della piramide si scelga tra i candidati indicati da sindaca o sindaco. A Torino ci aveva già pensato Fassino, anche per questo esplose il caso-Profumo, poi sistemato. Ed eccoci alle banche sognate. E qui basta prendere un grillino qualsiasi e chiedergli quale modello di banca sogna per un mondo migliore. La risposta? Una sola, comprensibile: «La Grameen Bank, invenzione dell'economista bengalese Muhammad Yumus, Nobel per la Pace nel 2006, il padre del microcredito alle imprese». Ecco, questa è la linea ideale, la suprema simpatia ideologica, il migliore dei modelli da seguire. La banca sognata, diversa dalla Widiba annusata e pure da quelle ereditate.

Da De Benedetti alla Marcegaglia: Mps prestava i soldi ai ricchi, loro non li ridavano, scrive di Nino Sunseri il 28 dicembre 2016 su “Libero Quotidiano”. Fra i debitori che non hanno onorato i debiti verso il Montepaschi c’è anche Giuseppe Garibaldi. Incidenti che capitano alla banca più antica del mondo. Evidentemente anche in tempi non sospetti, a Siena sentivano il fascino della camicia rossa. Ma soprattutto rivelavano una certa reverenza nei confronti dei poteri forti. Preferibilmente in odore di massoneria. Nell'archivio della banca c'è questa lettera dell'Eroe dei Due Mondi: «Signor Esattore mi trovo nell'impossibilità di pagare le tasse. Lo farò appena possibile». Correva l'anno 1863 e non sapremo mai il destino di quel debito. C'è anche da dire che a Siena avevano una certa dimestichezza con i protagonisti del Risorgimento. Fra il 1928 e il 1932, infatti, la banca era entrata in possesso della tenuta di Fontanafredda che Vittorio Emanuele II aveva regalato alla Bella Rosina. Gli eredi se l'erano fatta espropriare per un debito non pagato. Un npl (non performing loans) in versione reale. Giuseppe Garibaldi e i nipoti della moglie del Re che non poteva diventare Regina. A Siena sono sempre stati molto trasversali nella scelta dei loro clienti. E anche le sofferenze rifiutano il monocolore. Così fra i clienti che non hanno rimborsato figurano la Sorgenia della famiglia De Benedetti e Don Verzè che, grazie anche all'amicizia con Silvio Berlusconi aveva fondato l'ospedale San Raffaele portandolo anche al dissesto con un buco di duecento milioni. Dagli archivi risultava anche, almeno fino all'anno scorso, una fidejussione di 8,3 milioni che il Cavaliere aveva rilasciato a favore di Antonella Costanza, la prima moglie del fratello Paolo. La signora aveva acquistato, per nove milioni, una villa da sogno in Costa Azzurra e poi aveva dimenticato di pagarla. A Siena, però, conoscevano bene la famiglia Berlusconi e si fidavano. Erano stati i primi a credere nella capacità imprenditoriali di Silvio e non se n'erano certo pentiti. Non altrettanto bene però, sono andate le cose con il gruppo che fa capo a Carlo De Benedetti, l'eterno rivale del Cavaliere. Sorgenia, il gruppo elettrico guidato da Rodolfo, primogenito dell'Ingegnere, ha lasciato un buco da 600 milioni. Le banche hanno trasformato i debiti in azioni. Ora sperano di trovare un compratore. Il cuore di Sorgenia è rappresentato da Tirrenia Power le cui centrali sono localizzate in gran parte fra la Liguria e l'Italia centrale. Naturale che Mps fosse in prima linea nel sostenere l'investimento e oggi a dover contabilizzare le perdite. Ma i problemi di Mps non si fermano alla Toscana e zone circostanti. La forte presenza in Lombardia attraverso la Banca Agricola Mantovana ovviamente l'ha portata in stretti rapporti d'affari con il gruppo Marcegaglia che ha sede da quelle parti. Fra l'altro Steno, fondatore dell'azienda siderurgica, era stato uno dei soci della Bam che aveva favorito l'ingresso di Siena. Tutto bene fino a quando al timone è rimasto il vecchio. Poi è toccato ai figli Antonio ed Emma. Complice la crisi economica, hanno accumulato un'esposizione di 1,6 miliardi che le banche hanno dovuto ristrutturare aggiungendo altri 500 milioni. Ma a parte questi nomi eccellenti chi sono gli altri debitori che hanno mandato in crisi la banca più antica del mondo? La ricerca non è facile. Il gruppo dei piccoli azionisti del Monte guidato da Maria Alberta Cambi (Associazione del Buongoverno) ha cercato l'identità delle insolvenze. I dirigenti della banca si sono rifiutati di rispondere schermandosi con le regole della privacy. Qualcosa, però, hanno detto. Non i nomi ma almeno la composizione. Viene fuori che il 70% delle insolvenze è concentrato tra i clienti che hanno ottenuto finanziamenti per più di 500mila euro. In totale si tratta di 9.300 posizioni e il tasso di insolvenza cresce all'aumentare del finanziamento. La percentuale maggiore dei cattivi pagatori (32,4%) si trova fra quanti hanno ottenuto più di tre milioni di euro. Ovviamente un tasso di mortalità così elevato sulle posizioni più importanti apre molti interrogativi sulla gestione. Anche perché la gran parte dei problemi nasce dopo l'acquisizione di Antonveneta. Prestiti concessi nel 2008 che finiscono a sofferenza nel 2014. Certo sono gli anni della grande crisi. Ma non solo. La scansione dei tempi dice anche un'altra cosa: Mussari e Vigni hanno concesso i crediti. Profumo e Viola hanno dovuto prendere atto che erano diventati fuffa. Nino Sunseri

Ecco chi sono i debitori del Monte dei Paschi. Dai costruttori romani Mezzaroma al Comune di Colle Val d’Elsa, tutti i crediti a rischio dell’istituto in cui entrerà lo Stato, scrive Mario Gerevini il 10 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". I costruttori romani Mezzaroma hanno un problema: alla loro holding sono state protestate 111 cambiali per milioni di euro da maggio fino a ieri. Ma chi rischia un bagno di sangue per averli copiosamente affidati? Banca Monte dei Paschi. Al Comune di Colle Val d’Elsa (Siena), stabile roccaforte del centrosinistra, si è aperto un buco (nei bilanci) per il fallimento di una costosa iniziativa immobiliare. A pagarne il prezzo maggiore, però, è chi l’ha finanziato: Mps. Antonio Muto voleva costruire alberghi e parcheggi a Mantova, con i soldi di Siena. Sono arrivati 27 milioni, 13 utilizzati. Degli altri 14 non si sa più nulla. Ma esiste anche una società dove Mps, peggior cliente di sé stesso, riesce ad autoinchiodarsi. Si chiama Valorizzazioni Immobiliari. Storie di soldi che evaporano e di vicende paradigmatiche che hanno contribuito ad affondare la banca. Certo, occorre distinguere tra sofferenze vere, incagli, crediti ristrutturati eccetera. E poi tra debitore e debitore. Ma, in sostanza, cambia solo la quantità di soldi persi. Mps in pool con altre banche ha finanziato, come noto, aziende poi entrate in crisi: la Risanamento di Luigi Zunino o Sorgenia del gruppo De Benedetti (600 milioni di esposizione complessiva Mps a fine 2014 trasformati, dopo la ristrutturazione di parte del debito, in 88 milioni di strumenti finanziari partecipativi e 44 milioni di obbligazioni convertende). Anche Giuseppe Statuto, proprietario di lussuosi hotel come il Four Season e il Mandarin a Milano o il San Domenico di Taormina sta dando grattacapi al Monte (in pool con Popolare Emilia e Aareal Bank) che dopo diverse rate del mutuo da 160 milioni non pagate gli ha pignorato l’Hotel Danieli di Venezia. Ora per Siena rischia seriamente di aprirsi il fronte Mezzaroma. La Impreme, holding di famiglia, è insolvente e starebbe cercando la protezione di un concordato. Mps (soprattutto) e Unicredit sono esposte per centinaia di milioni. Già nel 2013 era stato firmato un accordo di ristrutturazione ma i successivi piani industriali sono stati clamorosamente «bucati» (100 milioni di perdite tra il 2014 e il 2015). In più l’azienda ha ricevuto decreti ingiuntivi, istanze di fallimento e ipoteche giudiziali su una parte significativa del patrimonio immobiliare. Tanti soldi del Monte (tra un po’, quando entrerà lo Stato, anche «nostri») sono a rischio. Già qualche anno fa se n’erano andati una cinquantina di milioni per la scalata a debito di Massimo Mezzaroma al Siena calcio, fallito un anno fa. A Mantova il costruttore calabrese Antonio Muto, accusato di legami con la ‘ndrangheta ma assolto nel filone principale dell’indagine perché il fatto non sussiste, aveva ottenuto 27 milioni da Mps nel 2011 per costruire su un’area di 21mila metri quadrati in piena città. Secondo le informative dei carabinieri aveva relazioni ad altissimo livello a Siena dove andò più volte. Nel 2015 l’allora presidente del consiglio comunale di Mantova, Giuliano Longfils, presentò un esposto in procura: la società di Muto — denunciava — è fallita nel maggio 2015, sono stati sostenuti costi di circa 13 milioni per i lavori (cifra confermata da una perizia del tribunale); dunque che fine hanno fatto gli altri 14 milioni? Nessuna notizia, per ora. E intanto Mps dovrà salutare quei 27 milioni. Così come i 20 milioni destinati a un progetto immobiliare promosso anni fa dal Comune di Colle Val D’Elsa attraverso la controllata Newcolle, poi fallita. Solo che la Newcolle è partecipata al 49% dal Monte. Un imbarazzante intreccio: Mps per far valere i suoi diritti di creditore dovrebbe danneggiare se stesso. Con la Valorizzazioni Immobiliari (Vim) è andata anche peggio: 166 milioni di perdita negli ultimi tre bilanci. Era del Monte fino al 2008, gestiva un pacchetto di immobili non strumentali. Quell’anno fu venduta alla coppia Lehman Brothers-Sansedoni (Fondazione Mps) che pagarono con i soldi prestati dal Monte. Poi il mercato immobiliare è crollato e Lehman pure. Vim ora è in liquidazione e invece di essere un problema della Fondazione è attaccata all’ossigeno della banca che l’aveva venduta. Ma lasciandoci dentro 150 milioni di crediti.

Mps, dalle Coop all'Atac: ecco gli altri debitori eccellenti, scrive Martedì, 10 gennaio 2017, "Affari Italiani”. Mps, trapelano altri nomi dalla lista segreta dei 600 debitori inesigibili. La polemica prosegue e l'elenco dei nomi dei debitori eccellenti di Mps ormai trapelati continua ad allungarsi. In attesa che, dopo la aperture del governo, la lista dei 600 clienti inesigibili della banca senese salvata con i soldi dello Stato venga pubblicata, ecco un'altra serie di società debitrici. Non solo De Benedetti con la sua Sorgenia o Zunino e Zaleski come rivelato ieri da Affaritaliani.it, insomma, ma anche altre famiglie di peso, senza contare poi le coop rosse e le municipalizzate, stando a quanto pubblica Libero. Tutti a chiedere soldi senza mai restituire, tutti casi simili a quello di e Benedetti e la sua Sorgenia, con la banca costretta a trasformare il credito vantato in capitale azionario. E' il caso del gruppo Marcegaglia, ad esempio, debitrice per decine di milioni con la Banca agricola mantovana, controllata da Siena. Quello del colosso dell'acciaio, si fa notare dalla stessa azienda però, è un caso diverso da quello degli altri debitori eccellenti finiti nella lunga lista delle sofferenze di Mps. I prestiti elargiti al gruppo Marcegaglia sono stati infatti sempre restituiti. L'azienda guidata dai due figli del patron Steno non risulta dunque insolvente nei confronti di Palazzo Sansedoni. Tante cooperative rosse del mondo delle costruzioni e dei servizi, che nel corso degli anni sono andate a chiedere soldi e che alla fine si sono ritrovate la Fondazione Mps nel capitale, sono finite nella black list. Tra i casi più importanti c'è quello della Sansedoni Siena spa, gruppo nato in Unieco e poi diventato parte di Mps proprio per non aver saldato i debiti. Qui parliamo di 25,9 milioni, diventati il 21,75% del capitale. Stesso giochino per altre tre controllate, direttamente o indirettamente, della Sansedoni Siena spa: Marinella spa (26,9 milioni), Sviluppo e Interventi Immobiliari spa e la Beatrice srl (48,4 milioni, ora congelati perché la società è in liquidazione). Insomma, l'esposizione totale della Sansedoni Siena nei confronti del Montepaschi, a fine 2016, ammontava a ben 104,7 milioni di euro. Altro debito non saldato riguarda la società emiliana La Robinie spa, controllata all'80% da Unieco e il cui 20% è ora in mano a Mps, sempre per lo stesso motivo. Non sono rientrati nelle casse senesi neppure i 20 milioni concessi alla concittadina NewColle srl, ormai dichiarata fallita dopo che la banca era entrata nel capitale, né gli 11,3 milioni prestati al gruppo Fenice della famiglia Fusi e alle relative controllate come Una spa, quella degli hotel, Euro srl e Il Forte spa. Tralasciando il caso Menarini, per il quale è stata aperta anche un'inchiesta, c'è anche il settore pubblico a mungere la vacca Mps. Soprattutto le municipalizzate e società regionali toscane, ma non solo. Partiamo dalla Fidi Toscana spa, che al 31 agosto scorso ha ricevuto l'ok ad un altro prestito da 98 milioni di euro, con Mps già al 27,46% del capitale. Poi ci sono le Terme di Chianciano, esposte per 10 milioni, e i 4,8 dell'Interporto Toscano A. Vespucci spa. Ma a Siena arrivano anche da altre parti d'Italia. Ecco allora che spuntano i nomi delle romane Atac e Metro C. Nei confronti della società di trasporto locale il Montepaschi, che nel 2013 aveva partecipato ad un pool di banche che concessero un finanziamento per oltre 200 milioni, poi rischedulato a 163 milioni, rischia circa 30 milioni.

Mps, i grandi debitori: spuntano altri nomi, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano" il 10 gennaio 2017. Per ora chi dovrebbe fare luce sui crediti facili concessi da Mps non ha alcuna intenzione di svelare chi non ha restituito il dovuto all’istituto senese, e continua a difendere la privacy dei bidonisti, come ha fatto anche il nuovo amministratore delegato della banca, Marco Morelli: «Non possiamo fare quei nomi, altrimenti rovineremmo la loro reputazione». Di più: i vertici della banca hanno avvertito con una mail-circolare anche i propri dirigenti e dipendenti: se uscirà qualcuno di quei nomi, scatteranno inchieste interne e provvedimenti disciplinari. Ma il pressing mediatico e politico-istituzionale per fare pubblicare la lista di chi ha preso i soldi e non li ha restituiti è così alto e continuo che difficilmente lo scudo di Morelli potrà resistere a lungo. Anche perché se Mps si trova in queste condizioni e ancora una volta bussa alla porta dello Stato chiedendo un salvataggio pagato dai contribuenti, non poco è dovuto a quei 47 miliardi di sofferenze lorde che si sono accumulate in modo esponenziale negli ultimi anni proprio per il credito facile concesso a medie e piccole aziende. Mentre il Monte si blinda, però qualche nome di quell’elenco Libero è in grado di farlo, grazie alla consultazione dei bilanci di alcuni clienti della banca senese e alle doverose comunicazioni alle autorità di vigilanza fatte in questi anni quando si è trattato di ristrutturare la posizione debitoria di alcuni di loro. Si tratta sempre di imprese che non hanno restituito quello che avevano ricevuto dalla banca, che in molti casi ha dovuto condonare parte del debito e concedere nuove linee di credito nella speranza di non perdere proprio tutto. In altri casi ha escusso i pegni che aveva, non rientrando quasi mai però dell’esposizione. In altri ancora Mps è stata costretta a trasformare il credito vantato in capitale azionario, concedendo poi nuova finanza a quella che era divenuta una parte correlata e partecipando alla copertura annuale delle perdite quando la situazione non si raddrizzava. Casi simili, dunque, a due di quelli già emersi in questi giorni: quello di Sorgenia, in cui Mps fu costretto ad entrare dopo avere dato senza possibilità di riaverli indietro 650 milioni di euro al gruppo che all’epoca era di Carlo De Benedetti, e quello del gruppo Marcegaglia esposto per decine di milioni di euro con la Banca agricola mantovana, controllata da Mps. Nelle stesse condizioni si trovano altri rilevanti gruppi pubblici e privati. Così in quell’elenco dei cattivi pagatori sono entrati una dopo l’altra negli anni le più importanti cooperative rosse del mondo delle costruzioni e in qualche caso anche nel settore del consumo. Siccome non riuscivano a restituire più i soldi ricevuti essendo andato in crisi il loro mercato di riferimento, sia Mps che la omonima Fondazione sono entrate nel capitale di società di quei gruppi, iniziando una disavventura che di anno in anno è diventata più drammatica. Uno dei casi più significativi è stato quello del gruppo Sansedoni Siena spa, nato all’interno di Unieco e oggi proprio per i soldi non restituiti divenuto parte correlata della banca senese. Mps ha trasformato il credito vantato (25,9 milioni) nei confronti della capogruppo nel 21,75% del capitale, e poi ha concesso altri prestiti. Anche perché la stessa cosa è accaduta con società controllate a valle: Marinella spa, che non era in grado di restituire 26,9 milioni. Stessa situazione nei confronti di altre due controllate dirette o indirette dalla Sansedoni Siena: la Sviluppo ed Interventi immobiliari spa e la Beatrice srl in liquidazione, per cui è stato congelato un debito di 48,4 milioni di euro. L’esposizione complessiva del gruppo Sansedoni Siena nei confronti di Mps ammontava a giugno 2016 a 104,7 milioni di euro. Per restare ai difficili rapporti finanziari con il cliente Unieco, un altro debito di 20 milioni è in ristrutturazione fra Mps e la società di Reggio Emilia Le Robinie spa, che all’80% è controllata dalla coop di costruzioni e dove il restante 20% è diventato di proprietà di Mps proprio per la trasformazione dei crediti in azioni. Altri 20 milioni di euro sono finiti nel calderone delle sofferenze non più recuperabili e riguardavano una società senese, la New Colle Srl, che è stata dichiarata fallita un anno fa dopo anni di tentativi di ristrutturazione da parte del gruppo Mps, che avevano anche portato a un ingresso nel capitale di Mps Capital services spa. Cifre inferiori, pari a 11,3 milioni di euro riguardano invece il gruppo Fenice della famiglia Fusi (quella della Baldini Tognozzi Pontello- Btp) e soprattutto le relative controllate immobiliari Una spa (hotel), Euro srl, Il Forte spa. Anche in questo caso prima di cercare di ristrutturare il debito Mps ha convertito parte dei prestiti non restituiti in quote di capitale, arrivando al 20,54% della Fenice holding spa sia attraverso la banca capogruppo (4,16%) che attraverso Mps Capital services (16,38%). Altri problemi con i privati sono arrivati dall’antico rapporto con il gruppo farmaceutico Menarini, ma in questo caso si è messa di mezzo anche una indagine della magistratura con il sequestro di beni e liquidità dell’azienda. C'è poi il settore pubblico, che è una vera idrovora per Mps. Le società regionali o le municipalizzate toscane si sono rivelate un pozzo senza fondo, continuando a pompare risorse dalla banca, poi costretta ad entrare nel loro capitale quando i soldi non venivano restituiti. Così è accaduto con Fidi Toscana spa (27,46% del capitale in mano a Mps), per cui ancora il 31 agosto scorso è stato garantito un ulteriore affidamento di 98 milioni di euro. C’è una esposizione di poco inferiore ai 10 milioni di euro, già più volte ristrutturata e allungata con la concessione di nuova finanza, con le Terme di Chianciano, e analoghi problemi ci sono stati con l’Interporto Toscano A. Vespucci spa, dove è stato convertito in azioni un credito vantato e non pagato di 4,8 milioni di euro. Per restare al settore pubblico una delle maggiori spine di Mps viene dalla capitale: le municipalizzate del comune di Roma oggi guidato da Virginia Raggi (che c’entra poco però con quei debiti). Ci sono state rimodulazioni del debito con Acea e Metro C, ma i veri problemi vengono dall’Atac, la società di trasporto locale della capitale. Mps aveva partecipato con altre 3 banche a un finanziamento in pool nel 2013 per più di 200 milioni di euro, che è poi è stato rischedulato a 163 milioni di euro nell’autunno scorso, davanti alla evidente impossibilità di Atac di ripagare il dovuto. Il rischio per la banca senese in questo caso è intorno ai 30 milioni di euro. Ma i casi qui citati sono solo una piccola punta di quell’iceberg che sta per venire fuori.

Franco Bechis su “Libero Quotidiano" l’8 gennaio 2017: noi diamo i soldi a Mps e loro proteggono chi li ha messi ko. L'unico atto di rilievo finora firmato dal governo di Paolo Gentiloni è la variazione di bilancio e il successivo decreto salva banche che autorizza lo Stato ad indebitarsi di 20 miliardi in più per quello scopo. Più di un terzo di quella somma- 8 miliardi- servirà al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, l'istituto di credito messo peggio di tutti. Con i soldi dei contribuenti italiani verrà messa una toppa a una pessima gestione del credito che oggi conta 47 miliardi lordi di sofferenze. In gran parte soldi prestati a grande imprese per amicizia o per storici legami, senza chiedere le adeguate garanzie. Quelle non hanno restituito il dovuto, e la banca oggi affoga nei suoi guai. Da cronache giornalistiche sappiamo che in quell'elenco c'è il gruppo Sorgenia che all'epoca apparteneva a Carlo De Benedetti, e - attraverso la controllata Bam- il gruppo Marcegaglia guidato da Emma Marcegaglia. Nè l'uno nè l'altra hanno chiesto scusa per i guai causati al sistema pubblico, anzi. Entrambi continuano pure a fornire prediche sui mali e guasti dell'Italia di cui proprio loro sono responsabili. La Marcegaglia è stata pure premiata come manager e chiamata alla presidenza dell'Eni dal governo di Matteo Renzi. Ma chi sono gli altri che hanno preso i soldi da Mps e non li hanno mai restituiti? La domanda è stata fatta più volte invano in assemblea dai piccoli azionisti Mps, che hanno sempre trovato di fronte un muro di gomma. E' accaduto anche il 24 novembre scorso, quando a rispondere era il nuovo amministratore delegato di Mps, Marco Morelli, il manager che avrebbe dovuto salvare con capitali privati la banca e che oggi invece bussa alla porta dello Stato per avere il salvagente. Morelli ha risposto così: "Faccio presente che ai sensi della disciplina vigente e precisamente per la legge sulla privacy, non è possibile fornire i nominativi dei soggetti cui si riferiscono i crediti in sofferenza, che riceverebbero un significativo danno reputazionale dalla diffusione di tali informazioni". Capite? Il danno causato da quei signori lo pagano i contribuenti italiani, che nessuno protegge. Ma chi ha preso i soldi ed è scappato via è tutelato più di ogni altro, perché mai si sapesse in giro che è solito comportarsi così, si rovinerebbe la sua reputazione. Una tesi grottesca. Ancora di più se si pensa che in questi anni le banche hanno dato soldi solo a gente così. Chiudendo la porta in faccia ai piccoli o ai giovani che cercavano finanziamenti per una buona idea con cui gli istituti di credito avrebbero sicuramente rischiato assai meno...

Mps, altro che i cento debitori: fuori i nomi di chi ha permesso i finanziamenti, scrive Massimo Famularo il 10 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso che l’entità della problema Monte Dei Paschi comincia a diventare più chiaro, si fanno sentire le grida indignate di chi vorrebbe individuare e punire i responsabili. In particolare, un utile capro espiatorio potrebbe essere costituito dai primi 100 debitori in sofferenza che “sicuramente” costituiscono dei perfidi approfittatori a cui chiedere conto del dissesto dell’istituto e avrebbero la conveniente caratteristica di essere relativamente pochi, facilmente individuabili e, verosimilmente, diversi da noi e dai politici per i quali simpatizziamo. Fermiamoci un istante e proviamo ad accendere il cervello: è più importante sapere chi i soldi li ha ricevuti oppure identificare chi ha preso le decisioni di erogare i finanziamenti? Cosa viene fuori se tiriamo fuori i più grandi debitori insolventi di una banca? In primo luogo è probabile che si tratti di imprese perché raramente i finanziamenti di grande importo sono concessi a persone fisiche. Inoltre è probabile che grandi imprese insolventi siano da tempo soggette a procedure concorsuali o di crisi aziendale e dunque che le informazioni sul loro dissesto siano di fatto pubblicamente disponibili. Last but not least, è probabile che i finanziamenti più rilevanti siano stati concessi in pool con altri istituti, dunque quando alcuni dei top debitori insolventi sono condivisi tra più istituti complicando l’analisi delle responsabilità in sede di erogazione. A che serve allora pubblicare l’elenco maggiori debitori insolventi? A ribadire informazioni che probabilmente sono già pubbliche e che poco o nulla ci dicono sulle reali responsabilità del dissesto della banca che ha finanziato. Dove andrebbe allora indirizzata la legittima indignazione di chi troppe volte è costretto a saldare il conto della cattiva gestione pregressa? Anche questo non è molto difficile, proviamo a indicare tre obiettivi. Obiettivo 1: i pesci grossi. Dall’acquisizione di banca 121 a quella di Antonveneta, passando per intricate e discutibili manovre di bilancio e operazioni disinvolte in derivati, tutte le decisioni maggiormente dannose per l’istituto sono agevolmente attribuibili. Un bel documento sintetico, indicante le dieci o venti scelte manageriali più esecrabili, ordinate per importo di valore distrutto con l’indicazione di tutti i soggetti interni ed esterni coinvolti, inclusi consulenti e autorità che avrebbero dovuto vigilare, sarebbe moto utile per comprendere le reali responsabilità del dissesto. Sarebbe anche un buon punto di partenza per avviare eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimento oltre che per evidenziare pubblicamente anche quanto hanno funzionato i meccanismi di nomina indirizzati dalla politica. Obiettivo 2: i pesci medi. Il processo di erogazione di un fido è sicuramente articolato e non è agevole risalire a delle responsabilità individuale. Si può tuttavia verificare se, alcuni organi deliberanti hanno performato in modo peggiore rispetto alla media, concedendo crediti a soggetti che poi si sono rivelati inadempienti con una frequenza maggiore rispetto allo standard dell’intero portafoglio. Questa non deve essere una lista di condanna, ma ancora una volta un punto di partenza per avviare delle indagini sui soggetti che hanno “prodotto più sofferenze” rispetto ai loro colleghi. Obiettivo 3: i pesci piccoli. A questo livello non è possibile fare elenchi di colpevoli perché le responsabilità sono troppo diffuse. Val la pena tuttavia considerare che casi come quello di Mps hanno distrutto tanto valore per la collettività anche con la collaborazione silenziosa di tanti piccoli risparmiatori ed elettori delle amministrazioni locali che hanno espresso la governance dell’istituto. Se queste moltitudini di elettori fedeli di un partito o investitori fiduciosi nei consigli della filiale di riferimento avessero avuto qualche dubbio, è plausibile che una parte del danno si sarebbe potuta evitare. A questo proposito vale anche la pena ribadire l’importanza dell’educazione economica e finanziaria sulla quale i percorsi di studi del nostro paese sono ancora troppo carenti. In sintesi, serve a poco puntare il dito contro i debitori insolventi, grandi o piccoli che siano, giacché le responsabilità del dissesto di Mps e degli altri istituti per i quali si è reso e si renderà necessario l’intervento dello Stato, fanno capo a chi ha preso le decisioni di gestione degli istituti e autorizzato le pratiche di affidamento. Occorre altresì evitare troppo facili semplificazioni: non è sufficiente osservare la dinamica di deterioramento di un credito, occorre anche ricostruire le condizioni sia di controparte che di mercato esistenti al momento in cui il credito è stato erogato, per stabile se e in che misura vi sono stati degli abusi.

Vittorio Feltri il 12 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”: Mps, i partiti difendono i paraculi. Quale era la cosa più inutile (e stupida) che si potesse fare davanti allo scandalo del Monte dei Paschi, la banca più puttana del mondo che rubava ai poveri per regalare ai ricchi? Istituire una Commissione parlamentare di inchiesta. Un tipo di iniziativa diventata famosa perché totalmente inefficace ai fini di ricostruire e denunciare le magagne italiane. Tanto è vero che già mezzo secolo fa negli ambienti della Camera e del Senato si diceva scherzosamente (ma non tanto) che il modo migliore per affossare una vergogna nazionale fosse appunto quello di dare vita a una Commissione parlamentare di inchiesta. In effetti di Commissioni del genere ne abbiamo viste a decine e non ce n’è mai stata una che sia riuscita a fare chiarezza, informando i cittadini delle peggiori porcherie commesse nel nostro vituperato Paese. Sarà così anche stavolta? Ovvio. Tanto più che stavolta tale Commissione, bene che vada, camperà poco tempo e non sarà in grado di combinare alcunché. Per il semplice motivo che verrà sciolta contestualmente alla scadenza naturale della legislatura, cioè entro un anno. Mettere in piedi un ambaradan simile pur sapendo che non porterà ad alcun risultato pratico è una idiozia. Anzi. Una presa per i fondelli. Non è gratuito il sospetto che i partiti siano ricorsi a questa “non soluzione” per proteggere i paraculi che hanno svaligiato il Monte senese, da cui si sono fatti prestare svariati milioni senza avere alcuna intenzione di restituire un euro. La politica in pratica invece di mirare a fare chiarezza e a svillaneggiare coloro che hanno depredato la banca dei misteri, fa di tutto e di più per nascondere sotto il tappeto i loro misfatti, che poi sono ladrocini della peggiore specie. Ci eravamo illusi che gli apparati statali, prima di salvare l’istituto toscano in agonia, si premurassero di rendere noti i nomi dei saccheggiatori e provvedessero a perseguirli civilmente e penalmente; viceversa si stanno rivelando loro complici, il che ci induce a pensare che tra furfanti si sia stabilita una alleanza truffaldina. Non è una ipotesi, ma una certezza, a questo punto. Ma la cosa che più ci sorprende è la constatazione che anche i partiti di destra (Forza Italia compresa), avversari della sinistra che ha amministrato per anni il Monte, stanno al gioco sporco della Commissione di inchiesta, ossia il mezzo più idoneo per stendere un velo di oblio su quelli che non è esagerato definire furti o almeno inadempienze. Cosicché la situazione si aggrava suscitando allarme nella opinione pubblica, i cui interessi noi cerchiamo di tutelare, reclamando ancora la pubblicazione immediata dei nomi e dei cognomi degli insolventi, i quali si godono il bottino sottratto alla banca che hanno assaltato senza pagare il fio. Ecco perché non demordiamo. Il governo esponga al pubblico ludibrio i personaggi che hanno approfittato della bischeraggine dei banchieri, e solamente dopo averli puniti adeguatamente provveda a tappare i buchi di bilancio con i nostri quattrini. E sottolineo nostri. Siamo dispiaciuti dell’infarto che ha colpito il premier Gentiloni e gli auguriamo una pronta guarigione, ma anche dal suo letto di dolore egli agisca in favore della gente sacrificando l’onorabilità dei ricchi che hanno troppo sgraffignato a danno della collettività. 

PARENTELE TOGATE.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale o viceversa: consentito o no? Scrive Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story. Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico. Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è. Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense. Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie. Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ’ 41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”. Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente. E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire. Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti. Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

«Il compito della magistratura? Sottomettere la politica», scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2017, su "Il Dubbio".  Ho letto con molto interesse – e qualche apprensione… – il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica. La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che – finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo – potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. «Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica». Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano). Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato. Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali. Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine – è il punto chiave – riguarda il compito e la missione della magistratura. Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima ( destra Dc), e poi Falcone ( che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino ( ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata – se capiamo bene – perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere…Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano). Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che – temo – va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. «Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)». E più avanti: «I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno… Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia». La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: «Non è carcere duro – mi hanno detto ogni volta – è solo una forma diversa di detenzione…». Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. E’ probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo – non so se anche da Scarpinato – o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli.

Davigo: “Renzi è confuso. Per cacciare un politico basta la sua difesa”. Il magistrato - “Il leader Pd mi dà del khomeinista, ma è per andare in cella che servono le sentenze. Per andare a casa, bastano certe autodifese indecenti”. Intervista di Marco Travaglio del 16 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano".

Piercamillo Davigo, l’uscita della sua corrente Autonomia e Indipendenza dalla giunta dell’Associazione magistrati continua a far discutere. Il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte della corrente Area e il leader di Unicost Antonio Sangermano la accusano di “populismo giudiziario”.

«Ridicolo. È la stessa accusa che mi hanno sempre mosso i peggiori politici e giornali. Ora vedo che la usano anche alcuni colleghi. La prendo come una medaglia alla mia indipendenza. Io indico la luna e questi guardano il dito».

Quale sarebbe la luna?

«Le nomine lottizzate, poco trasparenti e incomprensibili di magistrati negli incarichi giudiziari direttivi e semidirettivi da parte del Csm, che sconcertano buona parte dei nostri colleghi, oltre ai settori più avveduti dell’opinione pubblica. E la risposta qual è? Che io le denuncio per guadagnare voti con la mia componente associativa. Ma santo cielo, se mi dicono così significa che lo sanno anche loro che molti magistrati la pensano come me. O credono che la loro base sia formata da un branco di idioti?»

Qual è oggi il rischio più grave per la magistratura italiana?

«Quello del carrierismo e quello del conformismo verso il potere politico, che il Csm dovrebbe arginare, non incentivare. Le nomine dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti dovrebbero rispondere a criteri più chiari e stringenti e avvenire con procedure più trasparenti e comprensibili. Chi concorre a un incarico deve presentare un’auto-relazione, che poi viene confrontata con quelle degli altri per la scelta finale del Csm. Ecco, queste relazioni devono essere online, a disposizione di tutti. Per un’esigenza profilattica: così uno evita di tessere lodi infondate o esagerate di se stesso; chi vota per lui risponderà della sua scelta a tutta la magistratura e ai cittadini; e tutti capiranno se il Csm ha scelto il più bravo oppure no. Non c’è privacy che tenga. Oggi purtroppo non è così, il che provoca una crescente disaffezione dei magistrati verso il loro organo di autogoverno: io vengo accusato di colpire il Csm, mentre voglio difenderlo, aiutandolo a evitare errori».

Lei contesta la lottizzazione correntizia delle nomine “a pacchetto”. Perché?

«Se si decide contemporaneamente su un mazzo di incarichi da riempire, senza trasparenza né criteri stringenti, il rischio è che non si scelga il migliore per ogni posto, ma che si segua la logica dell’“uno a me, uno a te, uno a lui”. Mettano tutto online: a parole sono tutti d’accordo, perché non lo fanno? Un collega mi ha detto: “Ormai ci stupiamo se ogni tanto il Csm nomina uno bravo”. E purtroppo sono in molti a pensarlo. Ma si può andare avanti così?»

Voi avete contestato le nomine dell’ex assessore della giunta siciliana di Lombardo, Giovanni Ilarda, a Pg di Trento, e l’indicazione dell’ex deputato Pd Lanfranco Tenaglia a presidente del Tribunale di Pordenone.

«Ci siamo sentiti presi in giro. La giunta unitaria dell’Anm si era data un programma, che comprendeva il monitoraggio delle nomine direttive e semidirettive del Csm, per verificare il rispetto delle regole. Dopo durissime discussioni, abbiamo creato questo gruppo di lavoro. E c’era un’intesa sui “fuori ruolo” che arrivano dai ministeri: almeno un anno di pausa, prima che possano concorrere a incarichi direttivi. Inoltre il Comitato direttivo centrale dell’Anm approvò una richiesta al Parlamento per stabilire che chi rientra da un’esperienza politica non abbia funzioni giurisdizionali. Su questi punti quasi tutte le correnti dell’Anm, a cominciare da Area, avevano posizioni intransigentissime. Ma se poi chiediamo al Csm di attenersi, per coerenza, a questi criteri nelle sue nomine, cominciano i distinguo, le resistenze, e si continua a fare come se niente fosse. Addirittura si fa saltare la fila ai “fuori ruolo” di ritorno, che passano davanti a quelli che hanno sempre tenuto la toga in spalla. Ma con quale credibilità? Ecco: se non mi fido di chi gioca con me, non gioco più».

Non è strano che il favorito al Csm per fare il capo della Procura di Napoli sia Giovanni Melillo, capo di gabinetto uscente del ministro Orlando?

«Non voglio parlare dei casi singoli, ma dei princìpi: se abbiamo ritenuto che i “fuori ruolo” per un anno non possano diventare dirigenti di uffici giudiziari, quella nomina violerebbe questo principio. È una cosa ovvia: persino gli ambasciatori, che non hanno doveri di indipendenza, dopo un certo periodo all’estero devono rientrare in Italia per il cosiddetto “bagno”: altrimenti diventano cittadini stranieri. A maggior ragione questo deve valere per i magistrati che vengono cooptati dai politici per incarichi ministeriali: badi bene, non scelti per concorso, ma per rapporti fiduciari di natura politica. Prima di tornare in incarichi giudiziari delicati, devono respirare di nuovo l’aria della cultura della giurisdizione, per essere e anche per apparire di nuovo “indipendenti da ogni altro potere”: come prescrive la Costituzione. Altrimenti si dà un segnale devastante ai magistrati».

Quale?

«Che vale di più stare fuori ruolo, in posti più prestigiosi e meno stressanti, che non fare i giudici o i pm sotto montagne di fascicoli, spesso sull’orlo del tracollo psicofisico, ed esposti a rischi disciplinari per ritardi fisiologici o errori formali».

Ieri Sangermano, sul Giornale, trova gravissima la frase che le viene attribuita, secondo cui: “Non esistono politici innocenti, ma solo colpevoli su cui non sono state raccolte le prove”.

«Sì, è la stessa che mi attribuisce anche Renzi nel suo ultimo libro: sorprendente questa assonanza, non trova? Evidentemente i due hanno le stesse fonti, o leggono la stessa pessima stampa. In realtà io parlavo di un processo specifico: quello di Mani Pulite sulla linea 3 della metropolitana milanese, dove si dimostrò fino in Cassazione che tutte le imprese consorziate versavano la loro quota di tangenti all’impresa capofila, che poi versava l’intera mazzetta al cassiere unico della politica, che poi la distribuiva pro quota a ogni rappresentante dei partiti, di maggioranza e di opposizione. È colpa mia se poi sono stati tutti condannati? È il solito giochino che una volta facevano solo certi politici e certi giornalacci: prendere una frase e isolarla dal contesto per buttartela addosso. Un giorno il capitano di una nave scoprì che il primo ufficiale di guardia era ubriaco e lo scrisse nel giornale di bordo. Quello, per vendicarsi, scrisse a sua volta: “Oggi il comandante non era ubriaco”. Era la verità, ma quella frase, estrapolata dal contesto, sembrò un atto di accusa, come a dire che tutte le altre volte il comandante era ubriaco. Ecco, questi fanno così. Sono ridicoli».

Renzi scrive anche che lei non sa cos’è il garantismo, non conosce Cesare Beccaria. Le rinfaccia una frase di Giovanni Falcone contro i “khomeinisti” della “cultura del sospetto”. E le rammenta che, per decidere se uno è colpevole o innocente, bisogna attendere la sentenza definitiva.

«Deve avere le idee molto confuse. Io, come tutti i magistrati, non mi sognerei mai di condannare qualcuno sapendolo innocente, perché sono stato educato alla cultura della prova. Noi magistrati esistiamo proprio per distinguere fra colpevoli e innocenti. Ma sappiamo anche che non sono le sentenze che debbono selezionare la classe dirigente e politica: è la politica che deve fare le sue valutazioni autonome sul materiale giudiziario e decidere se certe condotte già dimostrate in fase di indagine, a prescindere dalla rilevanza penale, sono compatibili o meno con la “disciplina” e “l’onore” richiesti dall’art. 54 della Costituzione a chi ricopre pubbliche funzioni. Per mandare in carcere qualcuno a espiare la pena, ci vuole la condanna definitiva. Ma per mandarlo a casa, a volte non c’è bisogno nemmeno della condanna di primo grado. Anzi, non c’è neppure bisogno dell’accusa: basta la sua difesa».

Addirittura?

«Certo. Certi politici si difendono in modo talmente vergognoso che andrebbero mandati a casa solo per quello. Prenda quel dirigente di una Asl lombarda accusato di mafia (e poi condannato) che, quando emersero le sue intercettazioni, si difese dicendo: “Io fin da ragazzo mi diverto a sembrare un mafioso”. C’è bisogno della condanna, per cacciarlo? Ecco: se i politici facessero pulizia al loro interno quando vengono a sapere cose del genere, le nostre indagini e sentenze non creerebbero alcuna tensione fra giustizia e politica, perché noi processeremmo solo degli “ex”. Invece se li tengono tutti fino alla condanna definitiva, e spesso anche dopo».

Sangermano dice pure che la legge Severino non poteva essere applicata “retroattivamente” a Berlusconi per espellerlo dal Senato.

«Sono allibito. Non c’è stata alcuna applicazione retroattiva. La decadenza da parlamentare prevista dalla Severino non è una sanzione penale, ma un requisito di onorabilità: se la legge dice che i condannati a certe pene per certi reati non possono andare o restare in Parlamento, vale per tutti i condannati, per reati commessi sia prima sia dopo la legge».

Renzi però scrive che prima di entrare in politica né lui né la sua famiglia avevano mai subito indagini, mentre dopo sì. E che un ex deputato di Forza Italia l’aveva avvertito dopo la sconfitta referendaria: “Ora partirà l’attacco delle procure ai renziani”. E subito arrivò l’inchiesta Consip.

«A parte il fatto che l’inchiesta mi pare sia partita diversi mesi prima, questo lo diceva già Berlusconi, con la medesima attendibilità. Ma poi bisogna intendersi: è ovvio che, quando assumi una carica pubblica, sei più esposto di un passante al rischio di indagini giudiziarie. Nel senso che diventi pubblico ufficiale, o incaricato di pubblico servizio, funzioni che ti prescrivono una serie di regole in più di quelle previste per un privato, e ti espongono anche al rischio di essere denunciato dai cittadini per i tuoi atti. Se invece Renzi vuol dire che per chiunque vada al governo, o perda le elezioni, scatta il complotto giudiziario, dice cose insensate».

Lei ha mai avuto offerte ministeriali?

«Quella che sanno tutti: nel 1994 Ignazio La Russa mi voleva ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi. Risposi “no grazie”. Poi non si azzardò mai più nessuno: o sto antipatico a tutti, oppure tutti mi ritengono politicamente inaffidabile. In ogni caso, me ne vanto».

Ultimamente la volevano i Cinque Stelle.

«Nessuna proposta formale. E, a scanso di equivoci, al loro recente convegno alla Camera ho ribadito che i giudici non dovrebbero mai fare politica, anche se sarebbe assurdo vietarlo per legge (nelle democrazie serie lo si proibisce ai pregiudicati, non ai magistrati). Però un protagonista di Tangentopoli, condannato in via definitiva, ha dichiarato che, se vincono i 5Stelle, Mattarella non darà mai l’incarico a Di Maio, ergo il M5S indicherà me come premier, e sarà la fine. A parte il fatto che è fantascienza, mi inorgoglisce che un pregiudicato pensi questo di me…»

Perché i magistrati non devono fare politica?

«Perché non sono capaci, della qual cosa esistono evidenze empiriche. Ha mai visto uno che ha fatto a lungo il magistrato diventare un grande statista? I politici sono, o dovrebbero essere, scelti (cioè eletti) col criterio della rappresentanza. I professionisti, con quello della competenza, tant’è che nessuno si farebbe operare da un chirurgo che passa per bravo solo perchè è stato eletto dal popolo. Noi magistrati siamo un’altra cosa: abbiamo le guarentigie di indipendenza proprio per potercene infischiare delle critiche dell’opinione pubblica: come potremmo gestire il consenso, se non l’abbiamo mai fatto prima in vita nostra?»

La prova empirica sarebbe la produzione legislativa delle commissioni Giustizia e del ministero della Giustizia, infarciti di magistrati (oltreché di avvocati)?

«Anche. Roba da mettersi le mani nei capelli. Da anni si dice alle procure che, non potendo smaltire tutti i fascicoli, devono privilegiare quelli per reati più gravi e poi, a scalare, tutti gli altri. Ma ora, nella riforma penale Orlando che entra in vigore il 3 agosto, c’è l’avocazione obbligatoria da parte delle Procure generali per tutti i fascicoli che i pm non hanno chiuso con una richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione entro 3 mesi dalla scadenza dei termini. Solo che le Procure generali hanno organici molto più ridotti di quelli delle Procure…»

E allora?

«E allora come fanno a smaltire per tempo i fascicoli che non sono riusciti a evadere nemmeno le Procure? I Pg applicheranno nei propri uffici i pm delle Procure per farsi aiutare. Cioè: prima dici ai pm di dare la precedenza a certi fascicoli, poi gli fai levare quelli che non han fatto in tempo a smaltire, e infine li chiami a smaltire quelli che gli hai fatto levare. Ma si può andare avanti così? È l’idea balzana che si risolvano i problemi dando degli ordini, peraltro inapplicabili, come le gride manzoniane del governatore Ferrer. Tipo quando Renzi annunciò una legge per fare durare i processi non più di un anno. E perché – risposi io – non sei mesi? O due settimane? Poi c’è l’obbrobrio delle pensioni».

Quale?

«Il decreto del governo Renzi che ha anticipato il nostro pensionamento dai 75 ai 70 anni e ha lasciato repentinamente scoperti 500 incarichi direttivi, portando i vuoti di organico a quota 1200. Siccome, da quando viene bandito un concorso per nuovi magistrati a quando questi entrano in servizio dopo la nomina e il tirocinio, passano 4 anni, noi dell’Anm abbiamo detto: prima reclutate i giovani, poi mandate a casa i vecchi. Conservo la lettera del ministro Orlando che, a nome del governo, si impegnava con l’Anm a prorogare il pensionamento di tutti i magistrati a 72 anni fino alla completa copertura dell’organico. Impegno poi incredibilmente disatteso. Alla Camera, il ministro ha spiegato che l’impegno l’aveva assunto il governo Renzi e ora il governo era cambiato. Pensi se lo stesso discorso l’avesse fatto sui titoli di Stato il ministro dell’Economia e delle Finanze: gli impegni non valgono più perché è cambiato il governo. Sarebbe saltata l’economia italiana su tutti i mercati internazionali».

Rimpiange i governi Berlusconi?

«Diciamo che il centrosinistra non li fa rimpiangere, però ha fatto più danni. Il centrodestra faceva leggi terribili, che fortunatamente perlopiù non funzionavano, o venivano dichiarate incostituzionali dalla Consulta, o sortivano effetti opposti a quelli sperati. Ma allora almeno il centrosinistra votava contro, protestava, chiamava la gente in piazza. Ora che quello che non era riuscito a fare il centrodestra lo fa il centrosinistra, il centrodestra glielo vota e quasi nessuno protesta».

Ora il governo di centrosinistra si dibatte fra gli annunci di linea dura sull’immigrazione e lo Ius soli.

«Se avessero disciplinato per tempo l’immigrazione, con la politica dei visti per i Paesi e le posizioni che servivano alla nostra economia (mai sentito proteste per le domestiche filippine), non ci troveremmo a questo punto. Per anni non si sono concessi i visti a nessuno, costringendo i migranti a entrare clandestinamente in Italia. Così poi sono arrivate le sanatorie indiscriminate, che generano aspettative di nuovi colpi di spugna, come i condoni edilizi e fiscali. E ora il fenomeno appare incontrollato, anche perché le annunciate espulsioni degli irregolari sono solo sulla carta: non si fanno perché mancano sempre i soldi. Si lasciano incancrenire i problemi e poi li si scaricano sui cittadini. E anche sui magistrati, con reati inutili come quello di clandestinità. Che ancora non è stato abolito, anche non risolve nulla, anzi complica le indagini sugli scafisti: non possiamo più sentire i migranti come testimoni, con l’obbligo di dire la verità, ma dobbiamo ascoltarli come indagati, con la facoltà di mentire e di non rispondere».

Lei ripete spesso che l’Anac di Raffaele Cantone serve a poco: non crede nella prevenzione anticorruzione?

«Non credo che la corruzione si combatta con questo tipo di prevenzione, che previene poco o nulla. I problemi si prevengono conoscendoli, e la corruzione si conosce solo facendo le indagini, gli arresti e i processi, non controllando la regolarità delle pratiche amministrative e burocratiche. L’esperienza insegna che, quando uno vuole delinquere, sta molto attento a curare la forma per lasciare tutte le carte a posto».

Com’è oggi la magistratura rispetto a 25 anni fa, cioè al tempo di Mani Pulite?

«Molto più genuflessa e intimidita di allora. La situazione complessiva creata dalla classe politica ha avuto l’effetto di spaventare e piegare molti magistrati. Tra carichi di lavoro massacranti, sanzioni disciplinari durissime per vizi formali e ritardi naturali, leggi penali e regole processuali cambiate per mandare in fumo i processi ai colletti bianchi, attacchi politici e mediatici, nomine non trasparenti, hanno creato un ordine giudiziario sempre meno forte, sereno e indipendente e sempre più affetto dal carrierismo e dalla tentazione di cercare santi protettori. Cioè sempre più conformista verso chi comanda».

Davvero non si sente un khomeinista?

«Si figuri. Ho sempre fatto il magistrato allo stesso modo e sono stato attaccato da tutte le parti. Mi han dato ora del comunista, ora del fascista, del servo della Cia e dei servizi segreti, adesso pure del populista e del grillino. Il che, per me, significa essere imparziale. Lo scrisse Piero Calamandrei a proposito del giudice Aurelio Sansoni, bollato di “pretore rosso” perché nel 1922 faceva rispettare la legge dalle camicie nere: se non sei disposto a servire una fazione, devi rassegnarti all’accusa di essere al servizio della fazione contraria. E dire che, da giovane, quando abbaiavo ai ladri, mi battevano le mani. Poi, salendo il livello dei ladri, ogni volta che abbaiavo hanno cominciato a prendermi a calci».

Quella frase di Davigo che lo inchioda da 25 anni. Dei politici disse: "Solo colpevoli non ancora scoperti". Ora si smarca, ma ha consegnato l'Italia ai giustizialisti, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 17/07/2017, su "Il Giornale". Ci sono persone che diventano proverbi. Piercamillo Davigo, uno dei più celebri magistrati tricolori, potrebbe essere raccontato attraverso due massime che hanno fatto il giro del mondo: «Rivolteremo l'Italia come un calzino» e l'altra, altrettanto dirompente, «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». O, per dirla con modi spicci, non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti. Queste due «filastrocche», scandite ai tempi gloriosi di Mani pulite quando Davigo militava nel Pool, sono diventate negli anni inni semiufficiali del giustizialismo all'italiana. Veri e propri mantra ripetuti a occhi chiusi, quasi in trance, da generazioni di girotondini, grillini, manettari. Del resto, dopo un quarto di secolo in prima linea, Davigo è sempre lo stesso. Intransigente, quasi apocalittico, durissimo nei confronti del potere che pure ha molto da farsi perdonare e spesso ha fatto di tutto per dargli ragione. Passi per lo stivale formato calzino. Stupisce invece che ora l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati cerchi di smarcarsi dall'altro concetto, diventato evidentemente troppo ingombrante. Non può negare di averlo pensato e compresso come un sandwich dentro uno slogan, e ci mancherebbe, ma prova a circoscriverlo, a collocarlo in un angolo della cronaca dove non appaia per quello che è: eccessivo, fuori misura, buono per quella cultura del sospetto che ha avvelenato i pozzi per una lunga stagione. Dunque Davigo non può smentire ma prende le distanze da se stesso in una chilometrica intervista apparsa ieri sul Fatto quotidiano a firma del direttore Marco Travaglio. Travaglio ricorda all'ex pm che quelle parole sono state contestate persino da uno dei leader dell'Anm, Antonio Sangermano, in un colloquio con Luca Fazzo sul Giornale. Davigo ne approfitta per spargere un po' di sale, alla sua maniera: «Sì, è la stessa» frase «che mi attribuisce anche Renzi nel suo ultimo libro: sorprendente questa assonanza, non trova? I due hanno le stesse fonti o leggono la stessa pessima stampa». Così, dopo aver messo insieme e maltrattato a freddo il Giornale e l'ex premier, il giudice arriva finalmente al punto: «In realtà io parlavo di un processo specifico: quello di Mani pulite sulla linea 3 della metropolitana milanese, dove si dimostrò fino in Cassazione che tutte le imprese consorziate versavano la loro quota di tangenti all'impresa capofila, che poi versava l'intera mazzetta al cassiere unico della politica, che poi la distribuiva pro quota a ogni rappresentante dei partiti di maggioranza e di opposizione». È quello il fondale da cui partì il viaggio di quella fortunatissima affermazione. «È colpa mia - tira le fila il giudice - se poi tutti sono stati condannati?» Siamo alle solite. Davigo s'improvvisa filologo di se stesso, s'immerge nel proprio passato, come aveva fatto pure a Porta a Porta piazzando la solita didascalia sul «contesto specifico» sotto quel frammento di storia della magistratura tricolore, salvo poi ricordare con una punta di compiacimento che erano tutti colpevoli, dal primo all'ultimo. Davigo ha più di un merito: ha condotto brillantemente indagini difficilissime e oggi guida senza peli sulla lingua, come è nel suo stile, la battaglia contro il male dei mali della corporazione in toga: la lottizzazione degli incarichi. Ma è anche il campione di quella mentalità manichea che ha trasformato l'Italia in una riserva di caccia per magistrati e investigatori. Con errori gravissimi, ricadute devastanti sulla nostra economia, l'indebolimento complessivo di quel potere politico che lui continua a combattere. E la scoperta infine del contrario esatto di quel che lui va predicando da sempre: esistono colpevoli che invece erano innocenti per davvero. Ma hanno avuto vita e carriera rovinate per sempre.

Se Davigo sa dei reati e non denuncia. L'attacco della toga, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 17/07/2017, su "Il Giornale".  Piercamillo Davigo, il magistrato giustiziere, in una lunga intervista concessa al Fatto Quotidiano bolla come «pessima stampa» e «giornalacci» i giornali - cioè noi - che lo hanno criticato per le sue posizioni integraliste, compresa quella per cui «un imputato assolto non è innocente ma un colpevole che l'ha fatta franca» e che gli «errori giudiziari non esistono». Se leggesse più spesso certi «giornalacci», Davigo prenderebbe coscienza di quante persone, famiglie e aziende sono state rovinate, quante reputazioni sono state distrutte e patrimoni azzerati da abbagli di suoi colleghi, convinti come lui di essere degli dei. E leggerebbe storie di casi psichiatrici, di miserie umane e professionali che vedono coinvolti magistrati ai quali, ciò nonostante e a differenza di quanto accade in altre categorie, viene permesso di rimanere in servizio come se nulla fosse. Niente, a Davigo la libera stampa e le opinioni contrarie alle sue fanno schifo. La parola «giornalacci» ricorda il fascismo in modo molto più pericoloso di quelle («ordine e disciplina») affisse nel suo stabilimento di Chioggia dal bagnino nostalgico. Con la differenza che uno (il bagnino) è indagato, l'altro (Davigo) è un possibile candidato premier dei grillini. Detto ciò, questo «giornalaccio» avrebbe qualche domanda da fare a Davigo che riguarda il passaggio della stessa intervista a Il Fatto in cui lui si lamenta di «nomine lottizzate, poco trasparenti, senza criteri e incomprensibili di magistrati da parte del Csm». Che ne sappia, nella pubblica amministrazione questo sospetto costituisce un indizio di reato sufficiente ad aprire una inchiesta, come è capitato ad esempio per le nomine fatte dal sindaco di Roma Virginia Raggi. E allora domanderei a Davigo: come mai non è corso in procura a denunciare queste gravi «opacità»? Perché da magistrato a conoscenza di una possibile notizia di reato non applica «l'obbligatorietà dell'azione penale» invocata in altri campi? Perché l'azione giudiziaria a tutela del rigore morale e procedurale (la famosa trasparenza) esercitata nei confronti della classe politica e delle sue lobby i giudici non la applicano su se stessi? Insomma, ci può spiegare, dottor Davigo, perché i suoi colleghi possono fare nomine opache e noi tutti no, altrimenti ci arrestate? Mi perdoni, ma i «giornalacci» servono anche a fare queste domande e a pensare che se lei non passa dalle parole ai fatti in realtà è complice (moralmente e penalmente) dello schifo che finge di denunciare.

Chi fa le leggi davvero? IL METODO WOODCOCK E LE STORTURE DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO. La politica si è lasciata influenzare da una magistratura che vuole coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione, scrive Giovanni Fiandaca l'11 Luglio 2017 su "Il Foglio". Recenti vicende, giudiziarie e parlamentari, convergono nel sollecitare qualche considerazione sull’attuale modo d’atteggiarsi dei rapporti tra politica, magistratura e sistema mediatico. A ben vedere, emergono in proposito sia elementi di continuità, sia segnali di potenziale discontinuità invero già messi in evidenza da Claudio Cerasa in un articolo del 5 luglio che prendeva spunto da due casi senz’altro sintomatici, e che perciò vale la pena riprendere: da un lato, le indagini della procura romana sul pubblico ministero napoletano Woodcock nell’ambito della nota vicenda Consip; dall’altro, il dibattito occasionato dall’approvazione in Senato della riforma del codice antimafia. L'indagine romana sul pm Woodcock e due culture magistratuali in conflitto "oggettivamente incompatibili". Cominciando dal primo caso, non è superfluo ribadire la novità – anche simbolica – di una procura che, nell’indagare sui metodi di un’altra procura, intende far luce anche sul possibile ruolo attivo avuto dal pm inquirente rispetto alla diffusione di notizie riservate alla stampa. Come spiegare questa inedita volontà di scovare i responsabili di un fenomeno così diffuso e tollerato come la fuga di notizie? Nei primi commenti, sono state avanzate anche ipotesi più o meno dietrologiche alludenti a possibili fattori politici di condizionamento, o a dinamiche conflittuali interne alle procure di Roma e Napoli. Ma non sono mancate ipotesi esplicative più impegnative a livello addirittura sistemico, come ad esempio quella – prospettata da Carlo Bonini su Repubblica dello scorso 28 giugno – che fa leva sulla contrapposizione tra “due culture della giurisdizione agli antipodi”, rispettivamente rappresentate da un modello-Pignatone rispettoso della più rigorosa legalità processuale, e da un modello-Woodcock invece assai disinvolto nella raccolta delle prove, nell’utilizzazione della polizia giudiziaria e nello sfruttamento mediatico delle indagini: queste due culture magistratuali in conflitto (argomenta sempre Bonini), mentre nel ventennio dell’emergenza berlusconiana sarebbero state costrette a convivere per una sorta di stato di necessità politico-istituzionale di fronte ai rischi di deriva democratica e alla “manomissione sistematica delle regole del processo”, nell’attuale situazione politica disordinata, priva di padroni e di bussola, risulterebbero “oggettivamente e semplicemente incompatibili”. A prescindere dal suo merito intrinseco, una spiegazione come questa presuppone l’idea che gli orientamenti della prassi giudiziaria risentano sensibilmente, al di là dei principi e delle regole di diritto, del quadro politico generale e delle mutevoli valutazioni di necessità od opportunità che di volta in volta vi si riconnettono. Questa convinzione – peraltro diffusa anche a prescindere dagli schieramenti – sembra per un verso realistica, ma entra in contraddizione con alcuni postulati che per altro verso stanno, o dovrebbero stare a cuore ai moltissimi difensori (almeno a parole!) dello Stato democratico di diritto: com’è intuibile, si tratta dei principi della divisione dei poteri e del vincolo dei giudici alla sola legge, i quali dovrebbero garantire la tendenziale autonomia della funzione giudiziaria dalla politica. Se così è, l’enfatizzare – come fanno Bonini e i molti che opinano nello stesso senso – la tesi che la legalità processuale costituisce una variabile dipendente dal carattere emergenziale o meno della situazione politica contingente, finisce di fatto con l’avallare quella subordinazione della giustizia alle esigenze della politica che in linea teorica si dovrebbe invece scongiurare.

Stiamo assistendo davvero a una reazione alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star? Proponendo nell’articolo che abbiamo richiamato all’inizio una chiave di lettura nella sostanza analoga ma meno complicata, e – direi – di segno senz’altro ottimistico, Claudio Cerasa dal canto suo ravvisa nell’indagine romana sul pm Woodcock l’attesa reazione – finalmente dall’interno stesso della magistratura – alla giustizia mediatica, alla cultura del sospetto e al protagonismo dei magistrati-star. Il che, a suo giudizio, farebbe il paio con le reazioni critiche di significato equivalente manifestate (oltre che da alcuni giuristi accademici) da una parte qualificata della magistratura contro l’estensione legislativa della confisca preventiva antimafia ai reati di corruzione: estensione caldeggiata invece, e non a caso, da altra parte della magistratura specie antimafia e, con particolare enfasi, da quella celebre schiera di magistrati di orientamento giustizialista-populista ostinata nel reclamare una indifferenziata assimilazione normativa tra mafia e corruzione, nel presupposto drammatizzante – ma in realtà finora indimostrato – che i due fenomeni ormai ampiamente convergano. In effetti, anche a mio avviso la modifica del codice antimafia assume rilievo non soltanto per diagnosticare gli atteggiamenti e orientamenti in atto rinvenibili all’interno della magistratura, ma anche per comprendere attraverso quali modalità e percorsi le forze politiche di maggioranza oggi concepiscono le riforme penali da portare avanti.

La politica vuole dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione. Premesso che la politica è sempre meno in grado di fare da sola nel progettare riforme, e ciò vale anche per il settore penale, la domanda è questa: da quale fonte essa ha originariamente attinto il suggerimento di rendere applicabile la confisca allargata antimafia al soggetto indiziato anche di un solo reato contro la pubblica amministrazione? In realtà, è stata la Commissione parlamentare antimafia ad avere per prima – se ben ricordiamo – questa idea, recependola proprio da quella nota parte della magistratura antimafia che suole privilegiare, più che l’osservanza dei principi giuridici di fondo e l’equilibrio tra efficacia repressiva e garanzie, una logica sostanzialistica di risultato nella lotta a tutto campo alla criminalità. Che poi le proposte di legge ispirate a questo punitivismo grezzo e onnivoro, comunque potenzialmente redditizio oggi in termini di consenso elettorale, risultino confuse e approssimative, o per di più in contrasto con i princìpi costituzionali e con i princìpi di garanzia elaborati dalla Corte europea di Strasburgo, pazienza! Secondo i politici che ne sono fautori, e i magistrati favorevoli all’estremismo repressivo, la nuova norma sulla confisca antimafia ai corrotti necessiterebbe infatti di essere definitivamente approvata in ogni caso, anche se difettosa e a rischio di incostituzionalità: proprio per dare ai cittadini un segnale politico di rafforzamento della lotta al presunto mix mafia-corruzione e per dotare quei magistrati che ne hanno fatto appositamente richiesta di un un’arma in più nella loro attività di contrasto. E, di fronte all’obiezione che potrebbe trattarsi di un’arma spuntata appunto perché mal costruita e di dubbia legittimità, non sono mancate da parte di politici pro-riforma, come lo stesso guardasigilli Orlando, o ad esempio di un magistrato antimafia (oggi consigliere Csm) come Antonio Ardituro reazioni volte a minimizzare il problema, in base a questa comune e ottimistica convinzione (cfr. le rispettive interviste a Repubblica del 7 e dell’8 luglio): che cioè spetta in ogni caso alla Cassazione, ed eventualmente alla Corte costituzionale, fornire a posteriori l’interpretazione più precisa e corretta delle novità normative approvate dal Parlamento, specie quando queste risultano formulate in maniera generica o approssimativa, e appaiono perciò – aggiungiamo noi – simili a prodotti semilavorati o a semplici linee-guida che spetta inevitabilmente ai giudici specificare. Ma ci si accorge che, delegando di fatto sempre più alla Cassazione il compito di dare un volto e un significato definiti e giuridicamente legittimi a quelle nuove norme che la parte oltranzista della magistratura d’accusa richiede, e che il ceto politico dal canto suo non riesce a formulare in maniera puntuale e ineccepibile, si assiste alla morte del modello di ordinamento consacrato nella nostra Carta costituzionale perché – in definitiva – è il potere giudiziario che finisce, così, con l’esercitare nella sostanza la vera funzione legiferante?

Se il potere giudiziario finisce con l'esercitare la vera funzione legiferante si assiste alla morte del nostro modello costituzionale. Ma il caso dell’estensione della confisca antimafia assume un rilievo emblematico nell’evidenziare le distorsioni (anche costituzionali) dell’attuale politica penale per una ragione ulteriore, già accennata: i politici favorevoli a questa riforma hanno cioè deciso di far propria una richiesta proveniente dalla corrente estremista dei magistrati antimafia, ma non condivisa da altri esponenti del mondo della magistratura non meno autorevoli ed esperti in materia di crimine organizzato e di contrasto della corruzione. Se così è, la politica – priva, ribadiamo, di conoscenze e competenze proprie per prendere partito con autonoma capacità critica – si è lasciata influenzare non da una magistratura unanime, ma da quella parte di essa più propensa a coniugare l’allarme-mafia con l’allarme-corruzione, senza che peraltro a tutt’oggi si disponga di rigorosi riscontri empirici circa il livello di reale fondatezza di questo allarme congiunto: così stando le cose, le forze di maggioranza hanno dunque finito con l’accordare una sorta di preferenza fideistica al pregiudiziale estremismo drammatizzante di alcuni magistrati-star, ignorando o sottovalutando l’esistenza di non poche e autorevoli voci critiche all’interno di quei settori della magistratura che hanno, forse, avuto il torto – in verosimile omaggio a esigenze di riserbo e di rispetto della autonomia del Parlamento – di non opporsi sin dall’inizio in forma pubblica agli orientamenti dei colleghi di opinione opposta. Proprio in considerazione della corriva disponibilità delle attuali forze politiche di governo a recepire in particolare le indicazioni e le richieste provenienti dai settori più estremisti e mediaticamente esposti del mondo giudiziario, sarebbe necessario che d’ora in avanti al dibattito pubblico in materia di giustizia penale la magistratura partecipasse attivamente dando voce a tutte le posizioni presenti al suo interno. E sarebbe altresì indispensabile, in vista di un miglioramento qualitativo della politica penale, che il ceto politico nel suo insieme acquisisse almeno i fondamenti basilari di una cultura penalistica all’altezza delle sfide del tempo presente e, prima di deliberare, si confrontasse criticamente con gli esperti di ogni tendenza e provenienza.

L'ILLUSIONE DI CHI PENSA CHE SI POSSA OTTENERE GARANTISMO SENZA TOCCARE I PM. Tra Woody Allen e l'avvocato romano dei nazisti, scrive Guido Vitiello l'8 Luglio 2017 su "Il Foglio". "Sarò giustiziato domattina alle sei. Dovevo andarmene alle cinque, ma ho un avvocato in gamba: ho ottenuto clemenza”. Così Woody Allen nelle prime battute di “Amore e guerra”, film su un giovane russo condannato alla fucilazione dai francesi per aver tentato di assassinare Napoleone. E in effetti, se hai cospirato contro l’imperatore e ti sei intrufolato a corte con una pistola, per giunta travestito da diplomatico spagnolo, un avvocato che ti guadagna un’ora di vita in più è uno che sa fare il suo mestiere. Conoscete parabola più comica e più disperata, e dunque più inscalfibilmente vera, per illuminare la misera cosa a cui può ridursi il diritto di difesa quando tutte le armi sono in pugno all’accusa? Io forse ne conosco una. Me l’ha raccontata anni fa Mauro Mellini, avvocato ed ex parlamentare radicale, rammaricandosi che nessuno ne avesse fatto un film, tra i tanti ambientati nella Roma occupata. E’ la storia di un ometto strambo, impazzito e ridotto in miseria dopo che il patrimonio della moglie, una ricca ereditiera tedesca, era stato confiscato dal governo del kaiser durante la Grande guerra. Mellini lo conobbe negli anni Cinquanta: “Era un avvocato, ma si era ridotto a vivere come un barbone, dormendo nei vagoni letto alla stazione Termini. Durante l’occupazione nazista, conoscendo benissimo il tedesco, si presentò a fare il difensore davanti al Tribunale di guerra installato all’Hotel Flora in via Veneto. Qualcuno raccontava che avesse fatto delle dotte arringhe per chiedere che i suoi (si fa per dire) difesi fossero fucilati nel petto anziché nella schiena. Tanto i ‘clienti’ il tedesco non lo capivano”. Ecco, mi disse Mellini, questa è la storia da tenere a mente tutte le volte che si sente invocare, in condizioni come le nostre, più garantismo: “Voler porre la questione del garantismo davanti a tribunali obbedienti alla logica del partito dei magistrati equivale, più o meno, a prodigarsi in arringhe come quelle compitamente pronunziate dal poveretto”. Beccarsi una pallottola nel petto: se non proprio a questo, a poco più si riducono le aspirazioni di qualche benintenzionato. Di disarmare il plotone non se ne parla neppure più, anzi negli ultimi mesi si sta facendo di tutto per rifornire il suo arsenale. Finita la chiassosa e inconcludente stagione berlusconiana, riprende piede tra i migliori – ed è tutto dire: perché i peggiori neppure ci pensano – una pericolosa illusione: l’idea che si possa ottenere qualcosa di “garantista” senza toccare i poteri abnormi dei pubblici ministeri. Mi ricordano quelle madri compassionevoli, mogli di uomini irascibili, che vanno in segreto nella stanza del figlio punito ingiustamente o con troppo rigore, e lì lo consolano e all’occorrenza lo medicano; ma che mai si sognerebbero di far la voce grossa contro il marito. A ripensarci, l’esponente più nobile di questa illusione è stato proprio Stefano Rodotà; che negli anni Ottanta si prodigò per la causa del detenuto Giuliano Naria, ma capeggiò anche il fronte del no al referendum Tortora, convinto che fosse una manovra di gruppi politici corrotti per attentare all’autonomia della magistratura; e che coerentemente, qualche lustro più tardi, da un lato tutelava la privacy dei cittadini e dall’altro le mani libere degli intercettatori, arringando il popolo viola e altre cattive compagnie contro la “legge bavaglio”. Illusione, beninteso, e non doppiezza. L’illusione di poter negoziare qualcosa di meglio di una pallottola in petto. Ricordatevi del povero Fornaretto, ma anche dell’ometto strambo di Mellini.

Adesso basta con la politica succube dei pm, scrive Matteo Renzi, Domenica 09/07/2017, su "Il Giornale". Ultimo punto, negativo: le vicende giudiziarie, gli scandali, i processi, le polemiche. Non giriamoci attorno. Veniamo da venticinque anni di subalternità culturale della politica rispetto alla magistratura. E la colpa è dei politici, non dei giudici. Da Mani pulite in poi appunto un quarto di secolo fa la politica si è come ripiegata. Impaurita. Si è affermata la presunzione di colpevolezza, anziché d'innocenza. Si è accettata l'equazione folle per la quale un avviso di garanzia comporta le dimissioni del politico. Il che è incostituzionale, illogico, immorale. Vi sono due approcci completamente sbagliati a questo tema. Da un lato quello del centrodestra al governo per dieci anni, che, partendo dalle critiche generali al sistema della magistratura, arrivava a fare norme spesso incentrate sui propri interessi piuttosto che sulle reali necessità del mondo giudiziario leggi ad personam, che producevano nell'opinione pubblica e nel dibattito politico l'effetto opposto; dall'altro lato quello antiberlusconiano, che brandiva l'arma giudiziaria come strumento per mandare a casa l'allora premier, in nome di un principio comprensibile dal punto di vista etico ma controproducente dal punto di vista politico. Io ho sempre detto che volevo vedere Berlusconi fuori dalla politica non a causa delle sue vicende giudiziarie, ma perché sconfitto alle elezioni. Mi piace l'idea di mandare a casa gli avversari, non di mandarli in carcere. Quando però qualcuno dei nostri ha ricevuto richieste di interrogatori o avvisi di garanzia, nessuno ha evocato il legittimo impedimento o richiesto norme ad hoc: noi abbiamo detto, sempre, che stavamo dalla parte dei giudici. Ecco perché nel delicato rapporto giustizia-politica abbiamo compiuto una inversione a U, arrivando a rovesciare il paradigma. Tra le svolte che rivendico al mio governo c'è quella di andare in aula e dire ad alta voce e con forza: per noi un sottosegretario che riceve un avviso di garanzia non deve dimettersi automaticamente. Se ha motivi di opportunità politiche, che sia o meno indagato, allora fa bene a dimettersi. Ma non può essere scontato che lo faccia. Contemporaneamente, abbiamo fatto di tutto per accelerare i processi, assunto finalmente nuovo personale nei tribunali, implementato la digitalizzazione. Non ci siamo chiusi a riccio contro la giustizia, ma abbiamo rispettato la separazione dei ruoli collaborando attivamente in modo che i tempi dei processi si abbreviassero. Anche perché la grande maggioranza dei magistrati italiani è composta da professionisti impeccabili, formati in modo molto serio e dotati di competenze e preparazione. Poi ci sono le eccezioni, è ovvio: poche persone obnubilate dal rancore personale che collezionano indagini flop e che provano a salvare la propria immagine attraverso un uso spasmodico della comunicazione e del rapporto privilegiato con alcuni giornalisti. È vero che il sistema di autogoverno che si sviluppa intorno al Csm potrebbe funzionare meglio: c'è qualcosa che non torna in Italia se le correnti, che sono state esautorate nella vita dei partiti, rimangono decisive per la carriera dei magistrati. Ma è anche vero che ci sono alcune professionalità straordinarie nel mondo togato che ci hanno consentito di ottenere come sistema-paese successi anche a livello internazionale. Tuttavia c'è un vezzo culturale che per me è vizio sostanziale nell'atteggiamento di alcuni magistrati. Me ne rendo conto in Sala verde di Palazzo Chigi quando incontro l'Associazione nazionale magistrati guidata dal suo presidente, Piercamillo Davigo. E dopo i giudici pretendo di incontrare allo stesso modo anche gli avvocati, perché la giustizia non la esercitano soltanto i magistrati ma tutti i professionisti del diritto. L'incontro con Davigo e la sua delegazione parte con molta freddezza ma si mantiene civile e cortese nei toni; però la sostanza concettuale che Davigo ribadisce ma che in realtà ha più volte già espresso in tutti i luoghi, in tutti i libri, in tutte le interviste è che «un cittadino assolto non è detto che sia innocente, ma solo un imputato di cui non si è dimostrata la colpevolezza». Questo principio per me è un monstrum giuridico, un'assurdità costituzionale e filosofica. E mi spiace che il capo di tutti i giudici la pensi così. Ci sono secoli di civiltà giuridica che cozzano contro la convinzione di Davigo e contro una cultura che seppellisce l'approccio del Beccaria e i principi costituzionali ispirati a un rigoroso garantismo. Io non ho mai ricevuto nemmeno un avviso di garanzia in tredici anni di politica. Non parlo dunque per un fatto personale, ma per convinzione: non accetterò mai l'assunto per cui non esistono cittadini innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti. Perché questa è barbarie, non giustizia. «La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità: la cultura del sospetto è l'anticamera del khomeinismo», diceva Giovanni Falcone. Per me sono parole che andrebbero scolpite in ogni tribunale accanto all'espressione «La legge è uguale per tutti». Il 5 dicembre, giorno successivo alla sconfitta referendaria, un volto noto nei dibattiti televisivi della politica quale Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa e parlamentare del centrodestra, pubblica un tweet molto polemico: «Se conosco bene questo paese, nel giro di qualche settimana partirà l'attacco delle procure ai renziani doc. È uno schema classico e collaudato». Dopo tre mesi e dopo l'avviso di garanzia al ministro Lotti per presunta rivelazione di segreto d'ufficio e l'avviso di garanzia a mio padre per «concorso esterno in traffico di influenze», mi chiama Crosetto e mi fa notare la sua singolare profezia. Io però non credo ai complotti. Lo dico in tutte le sedi, in tutte le salse. Se c'è un'indagine non si grida allo scandalo, si chiede di andare a processo. Ci siamo già passati, a vari livelli. Mio padre riceve un avviso di garanzia il primo della sua vita alla tenera età di sessantatré anni, sei mesi dopo che io sono diventato primo ministro. Tutti i giornali nazionali mettono la notizia in prima pagina, alcuni internazionali hanno quantomeno un trafiletto, e almeno tre leader stranieri mi chiedono se sono preoccupato. Vado in tv e dico chiaramente che io voglio bene a mio padre, che sono sicuro che sia pulito, ma che nella mia veste di uomo delle istituzioni sono dalla parte dei giudici: per due volte il rappresentante dell'accusa chiederà l'archiviazione, che dopo due anni finalmente è arrivata. Nulla, non aveva fatto niente. Quindici giorni prima di un referendum sulle trivellazioni petrolifere scoppia un (presunto) scandalo in Basilicata con apertura di un fascicolo impegnativo e la richiesta di interrogare ben quattro membri su sedici del Consiglio dei ministri, uno dei quali il sottosegretario De Vincenti viene convocato come persona informata sui fatti, neanche a farlo apposta, nello stesso momento in cui deve svolgersi il Consiglio dei ministri. Forse che il sottosegretario che per legge è chiamato a verbalizzare le riunioni di Consiglio invocherà il legittimo impedimento? Non sia mai. Noi vogliamo consentire il corso dei processi, non accampiamo alcuna scusa per ostacolare le indagini: il professor De Vincenti viene invitato a lasciare il Consiglio dei ministri e a farsi interrogare immediatamente. Fatto sta che per una settimana questa notizia apre tutti i giornali e i notiziari ma poi un mese dopo, passato il referendum tutto finisce nel dimenticatoio e si scopre che l'inchiesta sul governo che aveva «le mani sporche di petrolio e denaro» non porta a nessuna sentenza passata in giudicato.

«È dal ’92 che in Italia comandano i magistrati». Intervista di Errico Novi del 30 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Intervista al filosofo ed ex europarlamentare del Pci: «Siamo una repubblica giudiziaria, se ne esce solo con le riforme e la separazione delle carriere». «Eccome si potrebbe mai negare che oggi l’Italia è una Repubblica giudiziaria? Che in Italia i magistrati hanno il potere? E che per ribaltare la situazione ci vorrebbe una classe politica autorevole, capace, tra l’altro, di non compromettersi con storie di ordinaria corruzione, che una classe politica così non si vede e che siamo quindi in un vicolo cieco?». Il tono di Biagio de Giovanni sa essere lucidamente analitico ma anche, se necessario, inevitabilmente esasperato. Il filosofo ed ex europarlamentare del Pci vede con chiarezza la gravità della situazione e condivide in gran parte il discorso fatto due giorni fa da Luciano Violante, che in una lectio magistralis alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa ha detto «stiamo entrando in una società giudiziaria». L’ex presidente della Camera individua un punto di deragliamento: la legge elettorale del 2005, il porcellum, che ha sterilizzato i rapporti tra eletti ed elettori, con i primi «chiusi nella cerchia del capo anziché aperti alla relazione con i cittadini». Da qui a un sistema in cui «il codice penale è la nuova Magna Charta dell’etica pubblica» il passo è stato brevissimo.

È così, professor de Giovanni? È il sistema di voto con le liste bloccate ad aver aperto la strada alla società giudiziaria?

«Io farei partire le cose da un momento decisamente anteriore: le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. In quel passaggio si è assistito a un fatto che non ha riscontri nelle altre democrazie occidentali: l’annientamento di un intero sistema politico. È lì che i rapporti tra politica e magistratura si spostano e da quel momento la situazione non è stata più ribaltata. Il nostro sistema è stato distrutto da Mani pulite e non è più rinato».

Da Tangentopoli ad oggi non c’è soluzione di continuità?

«Non c’è nel senso che l’equilibrio, appunto, non è stato più ripristinato. Poi non c’è dubbio che alle vicende dei primi anni Novanta si aggiungano altri elementi. Ed è verissimo che tutto quanto può accentuare il distacco tra eletto ed elettore favorisce il diffondersi di una critica radicale alla politica e il dilagare dell’antipolitica. C’è un attacco violento che di fatto punta alla fine della democrazia rappresentativa».

In questo c’è una deriva autoritaria?

«Intanto penso si possa dire che qui non si tratta di aggiustare un sistema elettorale: la propaganda antipolitica spinge per l’abbandono della democrazia rappresentativa in favore della cosiddetta democrazia diretta, che si realizzerebbe attraverso la rete».

Com’è possibile che vinca un’opzione del genere?

«Non possiamo sottovalutare un altro fattore che genera sfiducia nella rappresentanza politica classica: lo spostamento delle decisioni. Se la società non coincide più con lo Stato nazionale ma oltrepassa i confini, acquisisce una dimensione indeterminata se non globale, e se gran parte delle decisioni sono prese al di là dei confini nazionali, è chiaro che le società si sentono meno rappresentate politicamente. Cosa può decidere, ormai, un Parlamento nazionale? Al massimo può enfatizzare un aspetto del governo anziché un altro, ma le scelte di fondo vengono prese altrove. E questo ovviamente crea un terreno favorevolissimo per chi sostiene che la democrazia rappresentativa non serva più a nulla, non sia in grado di rappresentare gli elettori e che perciò bisogna aprire alla democrazia diretta».

La purezza opposta dai cinquestelle al resto della politica immondo e corrotto costituisce una forma di fascismo?

«I fenomeni non tornano mai uguali e io non allargherei troppo la consistenza storica di categorie come il fascismo. Certo, la critica violenta alla democrazia rappresentativa finisce per rivolgersi in concreto al Parlamento, e questa modalità è stata caratteristica di determinati movimenti di destra del Novecento. Intendiamoci: nessuno pensa che in Italia stia per arrivare il fascismo, e poi c’è la cornice dell’Europa che costituisce comunque una garanzia».

Siamo al sicuro, allora.

«Ma siamo anche in una situazione in cui la critica al Parlamento e al parlamentarismo ci mette un attimo a generare una dinamica pubblica confusa in cui emotività e parole d’ordine prevalgono sulla competenza, sulle soluzioni equilibrate. E non è che tra questo e le emozioni di massa di cui parlava Gustave Le Bon più di un secolo fa ci sia tanta differenza».

Il grado di preparazione medio dei parlamentari non fa certo da argine a questa deriva.

«E qui ci risiamo con la distruzione del sistema avvenuta a inizio anni Novanta e a cui non si è ancora posto rimedio».

In questa situazione c’è anche un cedimento rassegnato all’invadenza della magistratura? Il Pd per esempio paga un eccesso di vicinanza ai giudici praticato dai suoi “precursori”?

«Non c’è alcun dubbio che tutte le forze politiche siano in ginocchio davanti alla magistratura, chi sostenendola e chi subendola. Sarebbe urgente una vera riforma di sistema: separare le carriere, fermare l’osceno viavai tra la toga e i partiti, superare l’obbligatorietà dell’azione penale. Se non si fa questo non se ne esce: ora la magistratura ha il potere in Italia. L’Italia è una Repubblica giudiziaria. Mi sembra di non essere solo, in quest’analisi: perfino l’equilibratissimo Sabino Cassese, nel suo ultimo lavoro, scrive che lo squilibrio tra politica e magistratura è diventato un fatto patologico. Ma poiché ci vorrebbe una classe politica autorevole per ribaltare tutto questo, si ha la netta impressione di essere in un vicolo cieco».

Da Roma a New York, i 222 magistrati prestati ai «palazzi» del governo. Un universo di toghe distaccate alla diretta dipendenza dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu o al Quirinale. Brunetta chiede l’elenco dei giudici «fuori ruolo», scrive Dino Martirano il 20 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Sotto la punta dell’iceberg — i pochi magistrati eletti in Parlamento oppure chiamati al governo — c’è un universo di toghe fuori ruolo. Si tratta di magistrati distaccati nei palazzi del governo «alla diretta dipendenza» dei ministri, nella presidenza del Consiglio, nell’ambasciata di Washington, all’Onu a New York, in Marocco e in Albania per il «collegamento» con la giustizia locale, al Quirinale, alla Corte costituzionale, nelle commissioni parlamentari, alle Corti di Strasburgo, nelle Autorità di controllo, nelle strutture della Ue, di Eulex, di Eurojust, di Europol e dell’Olaf. Comunque, il gruppone dei magistrati che hanno abbandonato temporaneamente il ruolo presta servizio al ministero della Giustizia e al Csm, come impone la legge. Si restringe, invece, la pattuglia degli eletti con la toga negli enti locali: Michele Emiliano (ex pm), governatore della Puglia, una magistrata assessore in Sicilia e poco altro. Nel giorno in cui la Camera avvia, con la relazione di Walter Verini (Pd), la discussione sulla legge Palma approvata tre anni fa dal Senato — il testo varato per stringere i bulloni delle «porte girevoli» che mettono in comunicazione i ruoli della magistratura e il mandato politico o fiduciario del governo — il capogruppo di Forza Italia, Renato Brunetta, ha chiesto al Csm l’elenco dei magistrati fuori ruolo. I numeri e i nomi che saranno forniti a Brunetta dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, vengono aggiornati nello «schedario elettronico» curato dal Consiglio: nell’elenco appaiono i nomi di ben 818 toghe che dalla fine degli anni 80 (la ministra Anna Finocchiaro, del Pd, è in aspettativa dall’88) hanno smesso temporaneamente di fare il giudice o il pm. Al netto dei rientri, ora sarebbero 222 i magistrati fuori ruolo: 196 distribuiti tra i ministeri, il Parlamento, il Csm (16), la Scuola della magistratura, le istituzioni internazionali, il Quirinale (3), la Corte costituzionale (23). Altri 16 sono i togati del Csm eletti dalla magistratura ordinaria; 6 sono gli eletti in Parlamento (c’è anche la parlamentare europea Caterina Chinnici del Pd), 2 sottosegretari del governo Gentiloni (Cosimo Ferri e Domenico Manzione), il governatore Michele Emiliano e una magistrata in aspettativa perché ha raggiunto il marito all’estero. Nell’elenco del Csm (prima della periodica revisione avvenuta ieri sera) emergevano alcune posizioni datate: quella dell’ex deputato di Forza Italia Alfonso Papa, arrestato e condannato in primo grado a Napoli, che risulta «in aspettativa per mandato parlamentare». Non è aggiornata anche la posizione di Stefano Dambruoso, oggi questore della Camera eletto in Scelta civica nel 2013, che è in «aspettativa per elezioni politiche». Aggiornata, invece, la casella di Giovanni Melillo, capo di gabinetto del Guardasigilli Andrea Orlando, che dal 15 marzo 2017 è alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma. A questo universo sommerso, conferma il relatore della legge Walter Verini (Pd), vanno applicate le regole già vigenti per i togati del Csm: cioè, un anno di «congelamento» a fine mandato prima di poter ottenere una promozione con un incarico direttivo o semi direttivo. Il problema sono i magistrati chiamati direttamente dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, capo dell’ufficio legislativo, consulente o esperto giuridico in una ambasciata; ma anche le toghe elette in Parlamento sono sottoposte a un periodo di decantazione alla fine del mandato: pure i 5 anni di «purgatorio» necessari per poter ottenere una promozione (deliberati dal Senato) ora sono ridotti a 3 nel testo giunto in aula alla Camera. Per il quale, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd), prevede tempi rapidi di approvazione alla Camera. Anche se poi il ddl dovrà tonare al Senato.

Edward Luttwak il 18 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”: "Perché i giudici sono la malattia dell'Italia". Babbo Renzi, Luca Lotti e Consip. L'inchiesta di cui si è discusso nell'ultimo mese, il caso che in un qualche modo fa tremare il governo e mina il futuro di Matteo Renzi, l'ex premier che pare essere l'obiettivo di questa "caccia grossa" dei magistrati. E un parere, duro, sull'intera vicenda piove da Edward Luttwak, il politologo americano intervistato da Il Foglio, il quale spiega senza troppi giri di parole che "il rapporto tra giustizia e politica è un antico grattacapo nel vostro paese. Agli inizi degli anni Novanta Mani pulite usò metodi bruschi, ai limiti della legge, per combattere la corruzione dilagante nella classe politica - ricorda -. Questa esperienza, per certi versi traumatica, ha generato uno squilibrio tra i poteri con un esecutivo debole e una magistratura strapotente. La politica si è spogliata di prerogative e immunità, la magistratura ha esteso il proprio raggio d’azione. Il risultato è una democrazia malata". Dopo la lunga introduzione con gli occhi rivolti al passato, Luttwak passa al presente. All'ultimo "blitz" delle toghe. "Il filone politico del Consip-gate mi sembra fragile. Quale sarebbe la smoking gun? C’è un manager che accusa e un ministro che respinge le accuse. Si tira in ballo il padre dell’ex premier, un escamotage impiegato in diverse democrature latinoamericane: quando si vuole delegittimare un politico - ricorda Luttwak - si coinvolge pretestuosamente un familiare. Il traffico di influenze è una fattispecie fumosa, non tipizzata e priva di specificità, che accresce a dismisura la discrezionalità del magistrato". Anche Luttwak, dunque, critica il reato contestato a Tiziano Renzi, i cui confini appaiono assai lacunosi. Ma l'attacco di Luttwak ai giudici non è ancora finito. "Le porte girevoli - rimarca il politologo - sono un fattore inquinante che lede l’indipendenza della magistratura. Non c’è da stupirsi per il Consip-gate: l’idea di una strumentalità politica connessa all'esercizio dell’azione giudiziaria è accettata nell'opinione comune. Ho operato in decine di paesi ma solo in Italia il mio nome è finito sui giornali per intercettazioni telefoniche nell'ambito di un’inchiesta in cui non ero neppure indagato". E ancora, l'accusa ai media: "La verità è che esiste un vasto clima d’impunità testimoniato dalla disinvoltura con cui certi giornali violano quotidianamente il segreto istruttorio. Nel paese dove l’azione penale è obbligatoria nessun magistrato apre un fascicolo", conclude.

Emiliano: non mi dimetto da magistrato neanche morto, scrive Il Quotidiano di Puglia (Brindisi) il 14 marzo 2017. Etichetta come «nulla lucente» la kermesse renziana del Lingotto di Torino, getta l’ombra delle «intimidazioni politiche» sul gioco di incastri, alleanze e posizionamenti congressuali nel Pd e rintuzza a muso duro le “invasioni di campo” sul suo futuro: «La magistratura? Io non mi dimetto neanche morto, non c’è ragione per consegnarmi al ricatto di chi mi vuole trasformare in un professionista della politica», dice Michele Emiliano. Questione spinosa e latente da 13 anni, da quando cioè il candidato alla segreteria nazionale del Pd ha temporaneamente dismesso la toga di pm per tuffarsi sulla scena politica. Questione, ora, ritornata prepotentemente alla ribalta, anche perché davanti al Csm giace un procedimento disciplinare circa la presunta incompatibilità tra carriera politica e status in magistratura (dal 2004 Emiliano è in aspettativa, senza percepire stipendio). «Non c’è nessuna ragione per cui uno debba dimettersi dal suo lavoro per candidarsi, è pazzesco che un magistrato sia incompatibile con la politica, questa è la teoria di Davigo (il presidente dell’Anm, che è terrorizzato e considera la politica una suburra in cui c’è il rischio di contaminarsi». Al momento refrattario ­ per scelta e strategia ­ a convention oceaniche, il governatore pugliese sta sciorinando il suo piano congressuale in altro modo: presidio dei media nazionali e assemblee sui territori.

Da Scalfaro a De Magistris: tanti i magistrati entrati in politica. De Magistris, che si candiderà per le prossime elezioni europee con l'Italia dei Valori, è l'ultimo dei molti ex-magistrati folgorati sulla via parlamentare. Alcuni di loro hanno anche ricoperto incarichi politici tra i più alti dello Stato. Ecco l'elenco dei più noti, scrive "Panorama". "Una scelta di vita, non tornerò indietro", dice l'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris spiegando perché si candiderà per le prossime elezioni europee con l'Italia dei Valori. E mentre il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, commenta: "I magistrati che scelgono la politica non dovrebbero più tornare in magistratura", è lungo l'elenco degli ex-magistrati che hanno scelto di fare il salto e in politica: sia a sinistra (molti) sia a destra (alcuni). Ricoprendo anche incarichi politici tra i più alti dello Stato. Tra i più famosi Oscar Luigi Scalfaro, magistrato solo dal 1942 al 1946, che iniziò la sua carriera politica nel 1946 come membro dell'Assemblea Costituente, per poi essere eletto in Parlamento dal 1948 al 1992, anno in cui è prima presidente della Camera, per due mesi, e poi presidente della Repubblica. Altri nomi eccellenti: Luciano Violante , magistrato fino al 1979 quando diventa deputato per il Pci e poi presidente della Camera; Franco Frattini , ex magistrato amministrativo diventato vicesegretario alla presidenza del Consiglio nel 1993 e poi ministro degli Esteri e commissario Ue; Antonio Di Pietro , ex pm di "Mani pulite", che lasciò la toga nel 1994 in diretta tv per diventare poi ministro dei Lavori pubblici nel Governo Prodi, senatore dell'Ulivo e infine fondatore dell'Italia dei valori; Gerardo D'Ambrosio eletto per Ds quando era già in pensione, dopo una prestigiosa carriera giudiziaria che lo ha visto protagonista delle inchieste sulla strage di piazza Fontana, sul Banco Ambrosiano, fino al pool 'mani pulite e all'incarico di procuratore capo di Milano. Ma i nomi da citare sono tantissimi, dall'andreottiano Claudio Vitalone recentemente scomparso a Enrico Ferri, il ministro dei lavori pubblici famoso per il limite dei 110 all'ora e segretario Psdi; dal pretore d'assalto Gianfranco Amendola (eletto per i Verdi) a Ferdinando Imposimato (eletto in varie liste di sinistra); da Tiziana Parenti , passata dal pool di "Mani pulite" a Forza Italia e diventata presidente della commissione Antimafia, a Felice Casson , che dalle indagini su Gladio è passato alla candidatura a sindaco di Venezia e poi all'elezione in Parlamento nelle liste dei Ds prima e del Pd poi, ad Adriano Sansa, eletto sindaco di Genova e poi rientrato in magistratura. L'elenco completo sarebbe troppo lungo, ma non si può fare a meno di nominare Francesco Nitto Palma, eletto in Forza Italia e sottosegretario all'Interno; Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd in Senato; Giuseppe Ayala, eletto senatore Ds e poi tornato in magistratura come consigliere alla Corte d'appello di L'Aquila; Alfredo Mantovano, parlamentare di An e sottosegretario all'Interno.

Anche i giudici contestano: «Basta giudici in politica», scrive Errico Novi il 19 Marzo 2017 su "Il Dubbio". Dopo il caso Minzolini, che fu condannato da un ex parlamentare, torna in primo piano il dibattito sui pm in politica. Slegare il caso Minzolini da quello dei magistrati in politica? Impossibile. Anzi il voto che ha impedito la decadenza del senatore costringe lo stesso Pd a scongelare la legge sulla candidabilità delle toghe, ibernata da 3 anni a Montecitorio. E soprattutto è la stessa magistratura a scuotersi per vicende come quelle di Giannicola Sinisi, il giudice ed ex deputato che ha condannato l’avversario Minzolini, o di Michele Emiliano, che da pm in aspettativa vuol fare il segretario di partito. L’ultima, pesante presa di posizione è quella di Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia: «Non ho nulla contro i magistrati che scelgono la politica ma non dovrebbero più tornare all’attività giurisdizionale, una volta cessati dal mandato», dice. Una richiesta pesante che va ben oltre il ddl atteso per lunedì nell’aula di Montecitorio. Lì si prevede che un magistrato non possa candidarsi nel distretto in cui ha esercitato le funzioni negli ultimi 5 anni. Una volta finito il mandato di parlamentare – o di premier, ministro, assessore o consigliere nelle amministrazioni locali – il giudice è ricollocato in Cassazione, se ne ha i requisiti, altrimenti in distretto diver- so da quello in cui è stato eletto. Non è certo la barriera invalicabile prospettata da Roberti. Nell’intervista a Tv2000 che andrà in onda oggi, il superprocuratore dice che a fine mandato «si dovrebbe essere assegnati in ruoli della pubblica amministrazione diversi da quelli di giudice o pm». Il Csm lo suggeriva in una delibera dell’estate 2015, ignorata dal Parlamento. Carlo Nordio lo ha ripetuto in interviste e nei suoi editoriali sul Messaggero. C’è chi come Gherardo Colombo prefigura una soluzione light come quella di Montecitorio ma, in un’intervista a Repubblica, chiarisce: «Io, se mai avessi deciso di entrare in politica, prima di candidarmi mi sarei dimesso». La schiera di chi è per soluzioni drastiche è ben presidiata. Annovera anche il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che le porte girevoli tra magistratura e partiti non le tollera proprio. Chi come Gianrico Carofiglio ha da tempo smesso la toga è altrettanto netto. La magistratura più avvertita non vuole farsi più prendere in castagna. Magari da casi come quello di Minzolini, dietro cui si nascondeva in realtà l’incredibile parabola del giudice ed ex deputato che lo aveva impallinato.

Giustizia: Roberti (procuratore antimafia), “magistrati in politica non tornino indietro”, scrive il 17 marzo 2017, "Agensir". “Non ho nulla contro i magistrati che scelgono di passare in politica, ma dovrebbero non tornare più nell’attività giurisdizionale una volta finita la vita politica, tornando nel settore pubblico e nella pubblica amministrazione, con ruoli diversi da quelli di giudice o pubblico ministero”. Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, in un’intervista a “Soul”, il programma-intervista di Tv2000 condotto da Monica Mondo in onda sabato 18 marzo alle ore 12.15 e alle 20.45 in occasione anche della Giornata per le vittime della mafia che si celebra il 21 marzo. “Non scenderei mai in politica – ha rivelato Roberti – non ho mai pensato a farlo. Ho molto rispetto per la politica, è la più nobile delle attività umane quando è volta al bene comune e dei cittadini. Quando ha interessi personali, di gruppo o di lobby, invece, è la più bassa. La gente ha questa percezione, ma ho conosciuto tanti esponenti politici che sono persone veramente intenzionate a ben operare nell’interesse dei cittadini. Spesso prevalgono le logiche dei partiti, di gruppo, di appartenenza o quelle mafiose. Questo inquina la vita politica, come quella civile, l’economia e il mondo delle professioni. Bisogna combattere contro tutto questo”. “Bisogna distinguere caso per caso – ha sottolineato Roberti – le situazioni di sovrapposizione tra legge e giustizia. I magistrati hanno giurato fedeltà alla Costituzione: siamo chiamati a tutelare i diritti di tutti i cittadini che è l’essenza dell’attività giurisdizionale. I magistrati non si sostituiscono al legislatore, ma cercano di raccogliere la domanda di giustizia che proviene dai cittadini. Credo che in un rapporto di reciproca e leale collaborazione i magistrati devono anche dare indicazioni al legislatore, quando non interviene a dovere prima, senza fare qualcosa di creativo ma in una interpretazione estensiva non spinta da ideologie”.

Intervista a Carlo Nordio: “Pm e politica? La legge si fa in un giorno”. Intervista di Errico Novi il del 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio".  Il magistrato Carlo Nordio commenta il ritardo accumulato dal Parlamento sulla norma che dovrebbe limitare le candidature dei giudici, reclamata dal Consiglio d’Europa.

«Disegno preordinato contro la magistratura? No, non è l’idea che mi sono fatto. Non è che ci vogliono affossare: vedo solo incapacità di comprendere i problemi della giustizia e sostanziale indifferenza». Carlo Nordio è disincantato, non scorge perfide macchinazioni, non cede al dietrologismo neppure ora che la mancata estensione della proroga lo mette a un millimetro dalla pensione, prevista il 6 febbraio e a questo punto, per lui, quasi inevitabile. Semplicemente diffida della capacità del legislatore «in materia di codice penale come di trattamento di noi magistrati». Aggiunto a Venezia, svolge funzioni di capo perché il 1° gennaio è già andato in pensione il procuratore Luigi Delpino: dopo una brillante carriera di inquirente assapora il gusto un po’ agrodolce di una funzione direttiva da svolgere per altre due settimane appena.

«Ma il pensionamento arriva per me a un età giusta. Il problema non è personale ma ordinamentale: senza la proroga sono già andati in pensione 100 magistrati a gennaio, ancora di più si congederanno nei prossimi mesi, si tratta di uno tsunami senza precedenti per i vertici degli uffici, del tutto insensato: non si risparmia una lira, i magistrati anziani al massimo della carriera percepiscono una pensione identica all’ultimo stipendio. Almeno una parte di noi andrà sostituita, le nuove assunzioni hanno un costo e poi non è che si entra in servizio il giorno dopo aver vinto il concorso…».

Il suo scetticismo riguarda anche le regole sull’attività politica dei giudici: reclamate l’altro ieri dal Gruppo anti– corruzione ( Gr. e. co.) del Consiglio d’Europa.

«Quella che giace ora in Parlamento si può approvare in mezza giornata».

È ferma da quasi tre anni.

«Partiamo dal richiamo di Strasburgo. Tra richieste di trasparenza sul reddito dei giudici e di controlli sulla gestione dei fascicoli, si adombra lo spettro di magistrati corruttibili o almeno pesantemente condizionabili. E questo, me lo lasci dire, non ha senso. Alla magistratura italiana si possono cointestare tante cose, ma a parte casi rarissimi non è la corruzione il problema. Casomai lo sono certe scelte improprie come quella di fare politica.

La proposta di legge è passata al Senato ed è ferma a Montecitorio da quasi tre anni, come ha ricordato il laico del Csm Zanettin.

«Premessa: resto convinto che ai magistrati l’attività politica vada impedita persino quando sono ormai in pensione. Diventa un problema a maggior ragione quando si tratta di inquirenti che hanno condotto inchieste ad altro coefficiente politico: la loro attività può finire per essere letta come un preordinato disegno per prepararsi una cuccia calda prima di andare a riposo. E poi c’è un’altra ragione, più sottile ma altrettanto importante.

Quale?

«Un magistrato che magari si è guadagnato una certa fama con la propria attività, se entra in politica finisce per sfruttare quell’immagine alterando così la par condicio con gli altri candidati.

È un’ammissione che le fa onore.

«Non ho problemi a riconoscerlo perché lo verifico di persona: mi capita cioè di essere fermato per strada e di sentirmi dire ‘ ah, è stato proprio bravo con quell’inchiesta sul Mose, dovrebbero fare tutti come lei…’. Vero o falso che sia, ho fatto semplicemente il mio dovere e non credo che da questo sia giusto ricavare vantaggio.

Il Csm suggerisce di impedire il rientro in magistratura a chi è stato in Parlamento.

«Certo che non dovrebbe rientrare. L’unico problema è che per limitare l’ingresso in politica o il ritorno alle funzioni giurisdizionali credo serva almeno inserire in Costituzione una riserva di legge. Con la Carta vigente si rischia di violare il principio di uguaglianza».

La legge ferma a Montecitorio si limita a vietare per due anni l’esercizio della funzione di magistrato nello stesso collegio dove si era stati eletti.

«E per una norma del genere non serve ritoccare la Costituzione: la si approva in mezza giornata».

Ma i deputati della commissione Giustizia dicono: abbiamo accantonato quel testo perché nel frattempo abbiamo cambiato il codice antimafia, le norme sulle confische, le pene per il caporalato e tanto altro ancora.

«Ho presieduto una commissione per la riforma del codice penale: parliamo di strutture complesse e organiche, ed è sempre un errore modificarle in modo frazionato, o le si rende sempre più instabili. Il nostro codice porta ancora le firme di Mussolini e Vittorio Emanuele III, su materie come la disponibilità del diritto alla vita è tipicamente fascista. Meriterebbe di essere cambiato radicalmente, non di volta in volta con l’eliminazione di discriminanti sui diritti di difesa, con nuove aggravanti, nuovi reati o nuove pene».

E invece questo si è fatto.

«Se uno apre il codice trova più frasi in corsivo che in grassetto, vuol dire che soppressioni e aggiunte superano la norma originale: così la certezza del diritto va a ramengo. Ai politici d’altra parte interessa finire sui giornali con le leggine ad hoc, che assecondano l’emotività del momento, come per l’omicidio stradale».

D’accordo, si è esagerato che l’introduzione di nuovi reati, ma se per regolare almeno un po’ l’attività politica di voi giudici basta mezza giornata, perché non lo hanno fatto? Avevano timore di mettersi contro di voi?

«Questo è di gran lunga il governo che ci ha maltrattato di più. Altre volte abbiamo subito aggressioni, ma da quelle è più facile difendersi. Stavolta siamo stati semplicemente presi in giro, e almeno su questo sono d’accordo con Davigo. Parlo delle norme sui trasferimenti come di quelle sulle pensioni».

Condivide la decisione dell’Anm di disertare la cerimonia in Cassazione?

«Sì, la risposta dell’Anm è stata la migliore, sono sempre stato contrario allo sciopero e d’altra parte un segnale forte andava dato: non partecipare alle inaugurazioni è la cosa più giusta».

Due giorni prima Davigo vedrà Orlando.

«L’incontro del 24 rischia di essere una barzelletta: nell’occasione precedente c’era anche il presidente del Consiglio e agli impegni presi non è seguito nulla, stavolta c’è solo il ministro che è sempre lo stesso. Non vedo l’utilità ma chissà, spero si rendano conto dell’errore sulle pensioni».

Va a finire che la proroga arriva il giorno dopo che si sarà dovuto congedare lei.

«Eh già, ma vede, siamo preparati a tutto. Avremmo preferito ci fosse risparmiato un trattamento che non usano neppure le persone maleducate nei confronti delle colf. So solo che Venezia resterà nelle mani di un aggiunto costretto a fare il lavoro di tre persone, e che ci vorrà un anno per nominare un nuovo capo. Qui e in tanti altri uffici, e nessuno ha spiegato che senso abbia tutto questo».

Lo strano senso di Davigo per la politica. Il numero uno della Anm critica Michele Emiliano: "I magistrati non devono mai fare politica". Ma lui, pur non iscritto ad alcun partito, sono anni che la fa, scrive Ermes Antonucci su “Il Foglio” il 2 Marzo 2017.  “Sono dell’opinione che i magistrati non debbano fare politica mai”. A dirlo, in maniera molto tranchant, è stato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, intervenendo martedì sera alla trasmissione DiMartedì su La7. Il riferimento era al caso che sta coinvolgendo il governatore pugliese Michele Emiliano, frutto prevedibile dell’anomalo groviglio tutto italiano tra magistratura e politica, dove nella stessa persona (Emiliano) troviamo riunite le figure di magistrato, di candidato alle primarie di un partito politico (il Pd) e di testimone di un processo in cui è coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio (vicenda Consip). Dunque, parlando del caso Emiliano, Davigo ha sbarrato la strada a ogni sconfinamento della magistratura in politica. E lo ha fatto non celando un certo senso di superiorità, come se i magistrati oggi possano fare politica solo se iscritti a un partito e come se lui spesso non avesse svolto attività sostanzialmente qualificabile come “politica”. Ci pare, infatti, che il presidente dell’Anm, pur non essendo iscritto a un partito, la politica – in senso lato e in forme diverse da quelle partitiche – la faccia da un pezzo. Non è politica dire, come ha fatto Davigo due minuti prima di lanciare il proclama anti-Emiliano, che la rottamazione delle cartelle esattoriali alla quale starebbe pensando il governo, nella sua piena autonomia di scelta di politica economica, “è una vergogna”? Non è politica negoziare per mesi con il governo per convincerlo a cambiare la legge sul pensionamento dei magistrati, tanto da minacciare il blocco delle aule di giustizia e disertando l’inaugurazione dell’anno giudiziario? Non è politica invocare l’introduzione per la lotta alla corruzione di “alcune norme che valgono per i mafiosi” (13 febbraio)? Non è politica chiedere di anticipare a prima del referendum costituzionale la discussione parlamentare sulla riforma penale (8 novembre)? Non è politica dire che “le nostre leggi sono fatte apposta per poter salvare i colletti bianchi” (7 novembre)? Non è politica dire che “se la riforma della giustizia viene approvata così com’è con un voto di fiducia per noi non va bene, aggrava i problemi e non li risolve”, se cambia “possiamo discutere” (2 ottobre)? Non è politica affermare che “la riforma della giustizia è inutile, se non dannosa” (25 settembre)? Non è politica dichiarare che “le leggi che aumentano le pene senza sapere a chi darle sono inutili” (19 giugno)? Non è politica dire che “è inutile la legge su chi segnala i reati nella Pubblica amministrazione” (17 giugno)? O descrivere il nuovo codice degli appalti come “tutta roba che non serve a niente” (10 giugno)? O affermare di “non vedere la necessità di una legge sulle intercettazioni” (20 aprile)? O sostenere che non serve una riforma della disciplina sulle intercettazioni perché “basta aumentare le pene per la diffamazione, il resto è superfluo” (10 aprile)? Non rappresenta uno sconfinamento nella politica per un magistrato dichiarare pubblicamente, pochi giorni dopo essere stato eletto alla guida dell’Anm, che a distanza di oltre due decenni da Mani pulite “i politici continuano a rubare, ma non si vergognano più” (21 aprile)? La verità è che un magistrato può fare politica in tanti modi e l’iscrizione a un partito è solo la via di sconfinamento più evidente. In fondo, non erano iscritti a partiti i magistrati della corrente di Magistratura democratica che diversi mesi prima del referendum costituzionale decidevano di aderire e cavalcare pubblicamente la campagna per il “No”, con tanto di manifesto in cui veniva definita come “autoritaria” la riforma voluta dal governo Renzi. Ciò vuol dire che un magistrato non può in alcun modo intervenire pubblicamente per fornire la propria opinione su tematiche di interesse generale? Nessuno sta dicendo questo. L’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha indossato la toga per quarant’anni, commentando spesso – e nell’ultimo periodo con buona frequenza, tanto da diventare quasi “editorialista” di un giornale nazionale – i fatti e le questioni di attualità (dal terrorismo alle forme di repressione penale), ma lo ha fatto sempre con la discrezione e la sobrietà che il rilievo pubblico della funzione di magistrato dovrebbe imporre. E senza mai mostrare simpatie o iscriversi a questo o quel partito, ma anzi ribadendo fino all’ultimo – anche nell’intervista al nostro giornale pubblicata lo scorso 7 febbraio – la sua assoluta contrarietà a ingressi in politica da parte dei magistrati persino dopo il loro pensionamento. È comprensibile, va ammesso, che una simile riflessione sull’esigenza di un atteggiamento di self restraint da parte dei magistrati, fatichi ad affermarsi nel nostro paese. Dopotutto, sono passate quasi inosservate le dichiarazioni espresse dalla deputata-magistrata Donatella Ferranti nei confronti dello stesso Emiliano (“Scelga: o il partito o la toga”), lei che non solo è una toga eletta con il Pd, ma presiede la commissione Giustizia della Camera. Quella chiamata, invano, ad esaminare da due anni una proposta di legge sulla candidabilità e l’eleggibilità dei magistrati in occasione delle elezioni politiche.

Chi critica l’ingiustizia dei giudici in politica, scrive Sabato 11 marzo 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Diceva Piero Calamandrei: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». Sante parole. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia, bacchetta a dovere il governatore Michele Emiliano: «È un caso limite. Per un magistrato un conto è partecipare attivamente alla vita politica, mettendosi ovviamente in aspettativa. Altro è non solo iscriversi a un partito, ma entrare nella sua direzione, al punto da candidarsi alla guida». Difficile darle torto. C’è un però. Anche la Ferranti è magistrato. Prima al Csm ai tempi di Rognoni e Mancino e poi il salto in politica nel 2008: capolista Pd nel collegio Lazio 2. Non sono pochi i magistrati in aspettativa che siedono al Parlamento: Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro, Stefano Dambruoso, Cosimo Ferri, Domenico Manzione… In aspettativa, ma con avanzamenti di carriera! Una vera ingiustizia. La Costituzione all’articolo 51 garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini, anche ai magistrati, ma prevede, all’articolo 98, che la legge limiti per le toghe, come per i militari, le forze dell’ordine, i diplomatici (di mio aggiungerei i giornalisti), l’iscrizione a un partito. Si può, certo, ma poi uno cambia mansione. Per certe professioni occorre essere e apparire al di sopra delle parti. E qui sta la fatale distinzione fra ciò che è legale e ciò che è legittimo. Si può imporre la legge, ma non la prudenza. 

Mattarella a giovani toghe: "Non smarrire mai senso del limite". Il Presidente della Repubblica al Quirinale per la cerimonia con i 610 giudici ordinari in tirocinio, alla presenza del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del ministro della Giustizia Andrea Orlando, scrive il 6 febbraio 2017 "La Repubblica". "Anch'io ho svolto il ruolo di giudice costituzionale e ho avuto modo di constatare il valore del confronto e della dialettica. Eppure in quegli anni ho sentito anche la tensione di dover rendere giustizia. Non fatevi condizionare da nulla se non dall'applicazione della legge. Neppure da quel sottile senso di solennità che deriva da questo ambito in cui operiamo. Occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti particolarmente di quelli istituzionali". Così, a braccio, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale per la cerimonia con i 610 magistrati ordinari in tirocinio, alla presenza del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Mattarella, rivolgendosi alle giovani toghe, ha sottolineato come sia "un'esortazione che rivolgo innanzi tutto a me stesso perché in questo salone così solenne tutto esprime un senso di autorevolezza e, operando in questo ambiente, occorre non smarrire mai il senso dei propri limiti, particolarmente di quelli istituzionali. Nel corso della vostra carriera ogni tanto, se vi è possibile, cercate di rammentare questo mio sommesso suggerimento". "I magistrati hanno un compito molto importante" dice il capo dello Stato ricordando la sua esperienza di giudice costituzionale, "ho apprezzato fortemente la grande, fondamentale utilità del confronto dei punti di vista e della dialettica delle opinioni: fa conseguire un arricchimento progressivo". Il Presidente spiega che "l'equilibrio nell'esercizio della funzione giudiziaria consiste nel sapere evitare il duplice rischio di applicazioni meccanicistiche delle norme o di letture arbitrariamente 'creative' delle stesse". "Equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo sono virtù che, al pari della preparazione professionale, devono guidare l'agire del magistrato in ogni sua decisione. Lo spirito critico verso le proprie posizioni e l'arte del dubbio, l'utilità del dubbio, sorreggono sempre una decisione giusta - spiega Mattarella - frutto di un consapevole bilanciamento tra i diversi valori tutelati dalla Costituzione". La magistratura, nella nostra recente storia, sono ancora le sue parole, "ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. È un bene che sia sempre più orgogliosa della sua funzione insostituibile, ma anche consapevole della grande responsabilità che grava sulla sua azione". La giustizia, rileva il capo dello Stato, "è una risorsa fondamentale, ancor più per un Paese integrato nella comunità internazionale. È un servizio che contribuisce a garantire l'ordinato sviluppo civile e sociale". Secondo Mattarella, proprio al fine di assicurare la più efficace tutela dei diritti "al magistrato è garantita autonomia e indipendenza nelle sue decisioni che, per essere credibili, devono essere sorrette da una solida preparazione, frutto di un assiduo impegno professionale". In questo modo, conclude il Presidente, "evitando di correre il rischio dell'arbitrio si tutela al meglio l'autonomia e l'indipendenza della magistratura".

Parlamento in attesa di giudizio. Così il destino di una legislatura è nelle mani delle sentenze, scrive Michele Ainis il 22 gennaio 2017 su "L'Espresso". Chi comanda a Roma? Dipende dalle vendemmie, dalle annate. Nel 2011 comandava il capo dello Stato (Napolitano); nel 2014 il presidente del Consiglio (Renzi); nel 2017, a quanto pare, comanda la Consulta. L’11 gennaio, negando il referendum sui licenziamenti, ha allungato la vita della legislatura; il 24 gennaio, decidendo sull’Italicum, può stabilirne i funerali. Nel frattempo ogni sentenza genera un clima di suspense, s’iscrive in un giallo aperto a ogni finale; mentre la politica attende trattenendo il fiato, inerte, come paralizzata. Il vuoto d’iniziative sulla legge elettorale ne è la prova più eloquente. Ma è normale quest’alone d’incertezza sulle pronunce giudiziarie? In qualche misura, sì: il diritto non è una scienza esatta, altrimenti non ammetterebbe appelli e contrappelli. Oltremisura, no: un conto è la discrezionalità degli organi politici, un conto è il capriccio degli organi giurisdizionali. Quando i tribunali si sostituiscono invece ai Parlamenti, quando ne insidiano il primato, si manifesta un pericolo che può ben essere letale per le democrazie: il governo dei giudici, «government by judiciary». Quest’espressione risale all’alba del secolo passato, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Venne coniata nel 1914 dal Chief justice della Corte suprema del North Carolina, per denunciare i rischi del controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi («una perversione della Costituzione»); in Europa fu esportata da un libro francese del 1921. Da allora in poi s’aprì una storia di baruffe, di colpi incrociati. Memorabile il conflitto che oppose il presidente Roosevelt alla Corte suprema degli Stati Uniti, durante gli anni Trenta, quando quest’ultima respinse alcune tra le riforme più significative del New Deal. Anche in Italia, però, non sono state rose e fiori. Non per nulla la Consulta rischiò d’essere abortita già in Assemblea costituente, per la veemente opposizione di Togliatti; ma la Dc difese con tenacia la creatura, salvo pentirsene alla prima occasione. Era il 1956, l’anno di “Lascia o raddoppia?”; la Corte costituzionale esordiva nel nostro ordinamento, sia pure con 8 anni di ritardo rispetto alla Costituzione; e calò subito la scure su alcune norme poliziesche ospitate nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Da qui l’ira di Tambroni, ministro democristiano dell’Interno; peraltro imitato perfino dal papa, Pio XII. Nei decenni successivi la protesta si è trasformata non di rado in rissa, in insulto, in improperio. Per esempio da parte di Pannella: «Corte Beretta» (1981), «strumento del regime» (1985), «suprema cupola della mafiosità partitocratica» (2004). Da parte di Berlusconi, con il suo ritornello sulla «Corte comunista». Da governatori regionali come Formigoni (nel 1997 dipinse la Consulta come un «organo partigiano, ulivista, anzi della parte peggiore e più retriva dell’Ulivo»). O anche da ministri come Guido Carli, che nel 1990 mise alla berlina le sentenze costituzionali «di spesa», presentando il conto dinanzi all’opinione pubblica: 53 mila miliardi in un decennio, quasi un quarto dell’intero deficit dell’epoca. D’altronde due anni prima, nel 1988, un’accusa analoga era risuonata per bocca di chi l’aveva preceduto al ministero del Tesoro. Il suo nome? Giuliano Amato, che adesso siede proprio alla Consulta. La vita è una giostra, come no. Ma su quella giostra i giudici costituzionali non si limitano a incassare calci e ceffoni dai politici; talvolta li restituiscono, aggiungendo qualche grammo di curaro. Come fece, per esempio, il presidente Granata, in una conferenza stampa del febbraio 1999: la Consulta aveva riscritto le norme sui pentiti, sollevando critiche e dissensi; lui reagì con parole di fuoco al fuoco sparato dal Palazzo. O come fece, con toni ancora più furenti, il giudice Romano Vaccarella. Nel maggio 2007 si dimise, puntando l’indice contro tre ministri (Chiti, Mastella, Pecoraro Scanio) e un sottosegretario (Naccarato). La loro colpa? Pressioni sull’inammissibilità del referendum elettorale, uno dei tanti su cui la Corte costituzionale si è trovata a giudicare in questi anni. Secondo Vaccarella, insomma, nell’occasione il controllato cercò di controllare il proprio controllore. In Italia può succedere, ma può anche succedere il contrario. Ossia che l’arbitro diventi giocatore, che una sentenza prenda il posto della legge. Specie se la legge latita per l’impotenza o per la negligenza dei politici. È il caso della stepchild adoption: negata dal Parlamento, concessa dalla Cassazione (sentenza n. 12962 del 2016). Ma già nel 1975 furono i giudici ordinari a codificare il diritto alla privacy (la legge intervenne soltanto nel 1996). E sempre i giudici, ben prima dei politici, nel 1988 offrirono tutela al convivente more uxorio. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. È esattamente questo il morbo che intossica la nostra vita pubblica; e la Consulta, da parte sua, non è affatto vaccinata. Altrimenti non si spiegherebbero certe iniziative, certe scelte politiche travestite da responsi oracolari. Come il rinvio dell’udienza sull’Italicum: era fissata al 4 ottobre, ma un paio di settimane prima (il 19 settembre) sbucò un comunicato di rinvio, senza uno straccio di motivazione. Anche se la motivazione trapelava fra le righe: il referendum costituzionale di dicembre, guai a sovrapporre l’una e l’altra decisione. Così adesso, a referendum consumato (e fallito), la politica riprende il centro della scena. Ma è politica giudiziaria, è sentenza costituzionale, l’unica forma di politica che resta ancora in auge.

Prontuario post-democratico per il Paese dove è vietato votare, scrive Tommaso Cerno il 23 gennaio 2017 su "L'Espresso". Siamo l’unico Stato occidentale senza una legge che consenta le urne. E la Consulta ha il dovere di indicarci una via d’uscita: ma è normale? L’Espresso, dopo il flop elettorale di Matteo Renzi al referendum e la straripante vittoria dei No (non dico del No, perché le sfaccettature erano molte), titolò facendo il verso alla storica frase attribuita a Ernesto Che Guevara: “Hasta elezioni siempre!” Significa, letteralmente: “Sempre fino alle elezioni!”. In quel frangente, qualche cerchiobottista e qualche spaventato esponente del Pd ridotto com’è ridotto, ci criticò dicendo che non avevamo a cuore la democrazia rappresentativa, quella dei Padri, per intenderci, perché adesso c’era da fare un governo tecnico-politico, c’era da pensare un nome, c’era da riflettere sul senso di responsabilità e sulle scadenze, sul G7 di Taormina e via elencando. Insomma, c’era da prendere tempo. Tutto giusto e tutto vero. Salvo per un dettaglio che, soprattutto dopo avere pontificato per mesi sulla Costituzione e il suo valore simbolico prima ancora che materiale, dopo avere tirato in ballo i partigiani e la memoria delle dittature, pesa come un macigno sull’Italia furbetta che cerca una strada per recuperare elettorato e credibilità politica. E non è nemmeno questione di vitalizio, come vanno molti ripetendo per strappare un applauso qua e là. Certo c’è del vero nell’onorevole ingordigia di prebende, basta guardare lo storico delle legislature. Ma, in questo caso, per un liberale, c’è in gioco qualcosa di più profondo, su cui vale la pena fare una riflessione. Detta in poche parole: è vero che in Italia, paese democratico (dove cioè governa il popolo attraverso una delega) la Costituzione non prevede che si vada al voto dopo un No al referendum, essendoci una maggioranza parlamentare che sostiene un governo. Ma è altrettanto vero che mai i padri costituenti si sarebbero immaginati un Paese dove, all’improvviso, è vietato votare. Non vi è cioè una legge elettorale in vigore. Ora mi domando se questo sia normale. Pur senza arrivare al modello americano, alle prese con il passaggio Obama-Trump, che ha fissato in Costituzione tanto la legge elettorale quanto la data delle elezioni (si sa già oggi con certezza in che giorno si voterà fra quattro, otto, dodici, sedici anni), il caos italiano ci porta a essere privati a tempo, ma nella sostanza, di un diritto delle democrazie. Eppure il diritto - per essere tale - deve essere “di tutti” e “sempre”. Altrimenti si classifica come privilegio. Deve cioè vivere sia quando serve esercitarlo, sia quando non è necessario. Qualcuno dirà: di leggi non ne abbiamo una, ma tre. Inutili, però. C’è l’Italicum giudicato dalla Consulta che - in ogni caso - si sarebbe potuto applicare a una sola Camera, vista la sicumera di chi lo presentò e approvò, all’epoca convinti che l’abolizione del Senato (poi bocciata dagli italiani) fosse scritta nelle stelle. Ne abbiamo un’altra, abrogata da quest’ultima, l’ex Porcellum poi Consultellum, che non potrebbe essere usata in caso di emergenza come estintore democratico. Ne abbiamo poi una terza, sepolta nella Seconda repubblica, il Mattarellum, che per curiosa coincidenza porta oggi il nome del Capo dello Stato garante della Carta. Ma nemmeno essa esiste nella realtà. Per questo, la settimana che si apre è fondamentale. Dobbiamo mettere fine a questa anomalia, ben più grave del rapporto deficit-Pil sforato, ben più perniciosa per il nucleo caldo della convivenza democratica di quanto possa essere la modifica (più o meno riuscita) del Senato della Repubblica. Sappiamo che Non basterà la sentenza. Non basterà in se stessa e non basterà al parlamento avido di mettere le mani sulla materia elettorale, in quanto meccanismo diabolico capace di perpetuare o meno le poltrone di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ma l’importante è che l’Italia comprenda che le regole del voto sono una priorità democratica. E si smetta di ripetere che abbiamo altre urgenze. È ovvio che lottare contro la disoccupazione e la criminalità, rispondere all’emergenza immigrazione, prevenire i disastri naturali con politiche urbanistiche è il compito concreto di uno Stato moderno. Ma solo dentro una democrazia compiuta, sana e matura, libera da legacci, questo Stato può trovare la forza (e la credibilità) di presentarsi al popolo per fare delle proposte. Uno Stato che al contrario considera il diritto di voto una questione secondaria non può farlo. Per sua stessa natura insalubre. Perché riduce la delega popolare a pura formalità.

L'Italicum e la Consulta, quella piccola corte sempre più potente. La decisione sulla legge elettorale la prenderà un conclave silente e paludato. Che vive di riti e rifiuta la trasparenza. Ma conta sempre di più, nel vuoto del Parlamento, scrive Denise Pardo il 24 gennaio 2017 su "L'Espresso". L’archivio è previsto persino dal regolamento, ma chi avrebbe avuto il potere si è ben guardato dal costituirlo. Non c’è traccia dell’attività della Corte Costituzionale. «Coperta dall’oblio eterno in ossequio a una sbagliata concezione del segreto» ha scritto il giudice emerito Sabino Cassese, «la Corte ha deciso di cancellare i documenti della sua storia. Nessuno dei più segreti atti di Stato è mai rimasto coperto per sempre dal segreto». Una prassi che non esiste in nessun’altra Corte al mondo, il contrario di quella Suprema americana, inno alla trasparenza. Il sontuoso palazzo della Consulta, secoli fa di proprietà pontificia rimesso a nuovo un attimo dopo il tramonto dei Borgia, resta inespugnabile all’esterno. Ma, nessun altro luogo in questo momento è più centrale. E più misterioso. In uno scenario globale dove tutto si svela, la Corte costituzionale continua a rimanere un enigma. Il papa ha un account Twitter, il Quirinale anche, persino l’ultranovantenne regina d’Inghilterra non si è sottratta. Ma la Corte non informa. Se trapela qualcosa è un oltraggio. Al massimo materializza un laconico comunicato stampa firmato «dal Palazzo della Consulta» a opera forse di un Belfagor del posto, ossessiva custode della delicatezza del ruolo. E delle implicazioni e possibili chine di pressioni politiche, ben conscia che davanti a lei si staglia l’ombra del Quirinale, con il monito presidenziale di un ex giudice costituzionale, Sergio Mattarella, il primo a aver attraversato la strada. C’è la fitta nebbia del potere intorno ai riti, ai ritmi, alle segrete stanze, alle posizioni dei suoi giudici, giuristi, magistrati, politici, spesso quirinabili, come Cassese, Conso, Amato, riuniti nella sala del consiglio, un tavolo ovale, i microfoni neri, gli affreschi alle pareti. Pochi alieni a quel mondo hanno varcato il portone. Molti hanno scritto dei privilegi, gli stipendi, le auto blu, gli autisti, l’immunità, il costo del funzionamento oltre 60 milioni di euro all’anno. Se ne conoscono i componenti e anche i patimenti ogni volta che vanno scelti e nominati, 31 sedute e altrettante votazioni un anno fa per assegnare dal Parlamento tre posti vacanti da mesi. Per il Pd il costituzionalista Augusto Barbera, massimo esperto di leggi elettorali, non un fan del Mattarellum; per i Cinque Stelle il suo collega Franco Modugno, e per Area Popolare Giulio Prosperetti, giuslavorista e giudice della Corte d’Appello della Città del Vaticano. Con una politica sempre più debole, incapace di dare risposte e certezze, la Corte è diventata l’unico topos risolutivo. Nel Palazzo che protegge e ripara, i tredici giudici, dovrebbero essere quindici, un trio di cinquine nominate dal Colle, dal Parlamento e dalle alte magistrature, abbigliati due-tre volte l’anno come una pièce in costume, Giuliano Amato con i volants della camicia e la toga d’ordinanza è da dipinto di Goya, hanno studiato la costituzionalità delle leggi più importanti degli ultimi anni (ogni norma può essere rimessa alla Corte), gli ultimi governi hanno dato molto lavoro, Berlusconi in testa. E ora il segno della futura governance del Paese spetta di nuovo alla Corte con il responso più atteso di quel che resta dell’amministrazione Renzi: la costituzionalità dell’Italicum, relatore il giurista Nicolò Zanon, ex laico del Csm, vicino al Pdl, anche consultato dall’ex Cavaliere per un parere pro veritate. Il 24 gennaio il giorno x, data di partenza in un senso o nell’altro della legge elettorale di una sconosciuta nuova era politica. I giudici hanno l’obbligo della discrezione, ha ricordato questa settimana incupito il presidente emerito Gustavo Zagrebelski dopo che sulla sentenza clou dell’11 gennaio, quella sul Jobs Act, ancora il governo Renzi sulla graticola, chiusa con un no al referendum della Cgil sull’articolo 18, un sì per quelli su voucher e appalti, sono scappati all’esterno particolari scandalosi. Per esempio che la relatrice Silvana Sciarra, giuslavorista di Firenze indicata dal Pd, seguace, secondo alcuni colleghi più moderati, più di Maurizio Landini che del suo vero maestro Gino Giugni, avrebbe voluto allargare la consultazione referendaria anche all’articolo 18. Posizione contraria a quella di Amato, il vincitore del confronto, in campo con Prosperetti e Mario Rosario Morelli, magistrato della Corte di Cassazione, i relatori degli altri due referendum. Sui giornali è uscita anche la conta dei voti, otto a cinque, una proporzione di contrari troppo alta per la media tacitamente consentita perché «il punto essenziale per capire il lavoro della Corte è il principio di collegialità», ha specificato una volta la vice presidente Marta Cartabia, allieva del presidente emerito Valerio Onida, scelta da Giorgio Napolitano (come Amato, Daria De Pretis e il presidente Paolo Grossi) segnalata a un certo punto perfino come quirinabile. E così stimata da provocare uno sconquasso dopo la nomina a vice presidente che sarebbe spettata a due giudici ben più anziani. Tanto che ora, pazienza per il regolamento, i vice presidenti sono dovuti diventare tre, oltre a lei, Giorgio Lattanzi, presidente di sezione della Corte di Cassazione e Aldo Carosi, consigliere dalla Corte dei Conti. In realtà, la promozione era propedeutica alla poltrona più alta della Corte secondo un brain storming di Napolitano e Cassese uno dei pochi giudici a rifiutare lui la presidenza arrivata di diritto per anzianità di nomina ma di brevità di durata rispetto alla naturale scadenza. Dettaglio che non turba tutti, visto che il circolo dei presidenti emeriti è affollatissimo da chi ha accettato di presiedere soltanto per poche settimane: un mese e 14 giorni Vincenzo Caianiello, tre mesi e due giorni Giuliano Vassalli, tre mesi e 4 giorni Giovanni Maria Flick, tre mesi e dieci giorni Giuseppe Tesauro, battezzati nello slang della Corte i “balneari”. Con i suoi legni dorati, i damaschi di seta, i lampadari dalle cento luci, i corridoi silenziosi, la Consulta ha un clima da conclave. Per le cerimonie i commessi aiutano la vestizione, la toga nera rassettata a Diana De Petris, ex potente rettore dell’università di Trento, il collare dorato da posizionare a regola d’arte al presidente Paolo Grossi, professore di Storia del diritto italiano, stimatissimo anche se, per segnalare lo snobismo giuridico dell’ambientino, alcuni costituzionalisti puri non dimenticano l’argomento della sua tesi discussa nel 1955, secondo le biografie, sul regime giuridico delle abbazie benedettine nell’Alto Medioevo italiano. Per Cassese la Corte è un misto tra un convento e un collegio di studenti. Nel 2015 ha osato l’inosabile scrivendo “Dentro la corte”, diario sulla sua esperienza di giudice, intento apprezzato e normale nelle aule di Yale, meno alla Consulta. Senza citare nemmeno un nome ha memorizzato i nove anni «incandescenti» segnati da sentenze storiche. Sul tavolo della Camera di consiglio, tra pennichelle, bigliettini che passano da un giudice all’altro, giudici che hanno studiato e altri meno diligenti, sono stati esaminati il lodo Alfano, l’ammissibilità dei referendum sulla legge elettorale, il caso delle intercettazioni al Presidente della Repubblica, la costituzionalità del Porcellum. Ma anche leggi che segnano pesantemente la vita privata delle persone, com’è stato il via libera alla fecondazione eterologa o le udienze pubbliche sulla “Rettificazione giudiziale di attribuzione di sesso” o persino la “Mancata depenalizzazione dell’ingiuria tra i militari”. I giudici si danno subito del tu e si chiamano per nome. In Camera di consiglio il “vicino di banco”, soprannominato così come alla scuola materna, del primo giorno rimane lo stesso per nove anni. La Corte diventa un gruppo. I padroni del diritto sono molto competitivi sulla qualità giuridica delle argomentazioni e meno esigenti sul menù che trovano alla buvette all’ultimo piano del palazzo mentre il secondo è riservato solo ai loro uffici. L’obiettivo è favorire la comunicazione lontano da occhi indiscreti quando durante “la settimana bianca”, che non è dedicata al pattinaggio su ghiaccio, ma è quella senza sedute pubbliche e di consiglio, si studia, ci si confronta in incontri a due, massimo a tre. Secondo le fonti, anonime perché terrorizzate, non c’è affiliazione automatica tra i giudici di nomina parlamentare, tra i giuristi o i magistrati. Valerio Onida, invece, stando a Milano nella “settimana bianca” percepiva al suo ritorno che i romani si erano scambiati idee e punti di vista. La prima donna nominata alla Corte è stata Fernanda Contri, poi Maria Rita Saulle. Per lungo tempo, la Cartabia è stata l’unica in mezzo a soli colleghi maschi, solo dopo sono arrivate Sciarra e De Petris. «La Corte non è tra gli organi più solleciti a realizzare la parità di genere», ha ammesso Amato. «Ora su 15 giudici tre sono donne. E sono fiducioso perché c’è stato anche un momento in cui se ne vedeva una sola circondata da quattordici maschi come non capitò nemmeno a Biancaneve perché i nani erano sette, esattamente la metà». Adesso, via via che la data del responso sull’Italicum si avvicina, l’atmosfera si surriscalda e la Corte entra nel mirino di chi teme la contaminazione politica, il condizionamento (difficile dimenticare, l’episodio, rivelato dall’Espresso, del giudice Luigi Mazzella a cena con Silvio Berlusconi al tempo del lodo Alfano, eccezione non commentabile). Ritornano a galla annosi interrogativi. In un paese in cui si cambia legge elettorale quanto i premier è giusto ricorrere ogni volta alla Corte? Poi, si domanda qualcuno, è stata una scelta tecnica o politica aspettare il 24 gennaio allontanando così le elezioni anticipate? Forse è arrivato anche il momento di costituire un archivio, magari prendendo esempio dal Conseil constitutionnel francese che dopo venticinque anni rende pubblici i suoi verbali, evitando misteri e arcani. Molti anni fa in America Bob Woodward, quello del Watergate, e Scott Armstrong hanno pubblicato un memorabile libro sulla Corte suprema, titolo «The Brethren» i confratelli. Chissà cosa scriverebbero della Consulta.

“Ma quale pensione! A noi magistrati piace il potere…”. Intervista a Guido Salvini, giudice al Tribunale di Milano che interviene nella polemica tra l’Anm e il ministro Orlando, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 febbraio 2017 su "Il Dubbio". Abbiamo chiesto al dottor Guido Salvini, attualmente giudice del Tribunale di Milano, la sua opinione su alcuni temi che in questi giorni stanno facendo molto discutere. Non ultima, la rinnovata polemica sulla modifica delle prescrizione del reato.

Consigliere, l’Associazione nazionale magistrati ha disertato l’inaugurazione dell’Anno giudiziario per protesta contro il governo che non ha portato a 72 anni il pensionamento dei magistrati. Cosa pensa di questa scelta?

«Anche a me il pensionamento a 72 anni sembra una via di mezzo ragionevole tra i 70 e i 75, ma da qui sino a minacciare anche uno sciopero contro il governo ne passa. Giudico l’enfasi di questa protesta un caso di falsa coscienza, di quelli in cui non si vuole riconoscere nemmeno dinanzi a sé stessi le ragioni di un comportamento e lo si riempie con qualcosa di non vero».

Si spieghi meglio.

«La magistratura è l’unica categoria di lavoratori che chiede con insistenza di lavorare più a lungo. E la strenua opposizione dei magistrati all’abbassamento dell’età della pensione mi convince poco, forse non riguarda che marginalmente l’attenzione per i cittadini. Più semplicemente esprime lo sgomento per l’accorciarsi del tempo del proprio prestigio e potere personale. Negli anni il potere della magistratura si è molto espanso, tocca tutti i campi della società, come ha ricordato anche il ministro Orlando, e le aspettative dei singoli sono la conseguenza di questa espansione. In questo senso parlo di falsa coscienza».

Lei partecipa di solito all’inaugurazione dell’Anno giudiziario?

«No, l’inaugurazione dell’Anno giudiziario mi sembra una cerimonia ormai superata, anche sul piano estetico: quelle toghe d’ermellino rosse credo suscitino più che interesse un senso di lontananza, sembra un anti- co conclave, qualcosa che per il cittadino assomiglia più ad un rito che a un momento di servizio in suo favore».

Andrebbe abolita la cerimonia?

«Basterebbe un incontro meno paludato e più asciutto, solo con qualche relazione, magari in una sala del Consiglio comunale o in un altro luogo più aperto alla città».

Tornando alle pensioni quindi per lei la mancata posticipazione non è una catastrofe per la giustizia?

«Non credo, anche perché quando si parla di giudici che mancano si evita sempre di considerare le decine e decine di magistrati che, anche da moltissimi anni, non svolgono le funzioni giurisdizionali, perché sono collocati fuori ruolo in incarichi ministeriali, politici, internazionali spesso superflui e per i quali basterebbe di norma un buon funzionario».

Come spiega questa corsa al “fuori ruolo”?

«Questo avviene perché incarichi di questo genere sono un prestigio per i prescelti e, per la categoria, una delle porte girevoli tra politica e giustizia, porte che non dovrebbero esistere o essere ridotte al minimo».

In effetti ci sono magistrati che svolgono compiti che nulla hanno a che vedere con la giurisdizione…

«Infatti. Non si parla mai, quasi nessuno lo sa, delle centinaia di magistrati che svolgono funzioni giurisdizionali ridotte perché fanno parte delle numerose strutture di supporto che il Csm ha voluto: è il caso dei magistrati segretari del Consiglio, di coloro che fanno parte delle Commissioni organizzative, delle Commissioni per l’informatica, delle Commissioni scientifiche. Anche qui basterebbe a seconda dei casi un buon tecnico, un funzionario o uno studioso e negli altri gli incarichi non dovrebbero ridurre le presenze in udienza».

Possiamo dire che far parte di questo mondo parallelo alla giurisdizione serva a far carriera?

«La partecipazione a queste strutture, in cui si entra per cooptazione, è quasi sempre un passaggio obbligato per ottenere poi dallo stesso Csm gli agognati posti direttivi».

Cambiamo argomento. Diritto all’informazione e processo mediatico, un valore e un disvalore che secondo lei dovrebbero essere meglio bilanciati?

«La giustizia spettacolo e gli show in televisione che partono già all’inizio dell’indagine e rischiano di condizionarne gli sviluppi sono un problema tutto italiano. Non credo che negli altri Paesi europei dopo ogni delitto eclatante si assista in televisione a processi paralleli con opinioni senza alcun freno. Chi vi partecipa è complice di questa stortura. A parte questo, un problema ormai irrisolvibile, si dibatte da anni sui limiti reciproci tra giustizia e informazione».

È pessimista, a riguardo?

«Il problema è complesso ma credo che vi sia un punto essenziale: nessuno, grande o piccolo, antipatico o simpatico che sia, deve avere notizia per la prima volta dalla stampa di una sua iscrizione nel registro notizie di reato, di una proroga indagini, di una intercettazione, di un atto che lo riguarda».

Come si potrebbe fare?

«Non dovrebbe esserne consentita la pubblicazione sino ad un momento preciso, non troppo avanti rispetto alla notizia, ma ben definito. Quello in cui l’interessato, indagato o testimone, abbia avuto la possibilità davanti a un magistrato di dare la sua versione su ciò di cui è accusato o su quanto stanno dicendo di lui. Una soluzione civile che dovrebbe essere studiata anche con l’aiuto dell’Ordine dei giornalisti, il quale non credo debba essere contento che i suoi scritti funzionano da semplici postini».

Un’ultima domanda. Cosa ne pensa del dibattito sulla prescrizione?

«Non bisogna dimenticare che vi sono due piani e che anche se si allunga la prescrizione rimane il problema della ragionevole durata dei processi, questione spesso offuscata dalla prima. Si può allungare la prescrizione per certi reati anche a 15 anni, ma se il processo di primo grado si celebra dopo 7 o 8 anni chi viene condannato e soprattutto chi viene assolto è sottoposto ad un meccanismo che non può riconoscere come una giustizia accettabile. L’esigenza non è solo quella di allungare la prescrizione ma anche di avvicinare i processi, altrimenti il processo stesso diventa una pena aggiuntiva anche per l’innocente».

L'intoccabile "irresponsabilità" dei magistrati. Il ministero della Giustizia: in due anni 115 citazioni, una sola condanna finora in appello. Intanto gli errori giudiziari dal 1992 ci costano 691 milioni, scrive Maurizio Tortorella il 23 gennaio 2017 su Panorama. Il ministro della Famiglia, Enrico Costa, ha reso noti i costi esorbitanti che la giustizia italiana si trova a pagare per risarcire gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni. Soltanto nel 2016, ha rivelato Costa, sono stati spesi per queste due voci 42,1 milioni di euro. Il computo totale dal 1992 al 2016 è di 648,3 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e di altri 43,4 milioni per errori giudiziari. La polemica di Costa, che ieri ha dichiarato "dovremmo dibattere meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale", riaccende inevitabilmente il faro sul tema, più che annoso, della responsabilità civile delle toghe. Quando nel febbraio 2015 il Parlamento varò la legge 18, che modificava la norme sulle responsabilità civile dei magistrati, quella riforma venne trionfalmente presentata dall'allora presidente del Consiglio Matteo Renzi come una mezza rivoluzione, l'intervento che avrebbe finalmente sbloccato l'anomalia italiana dell'assenza di sanzioni per i danni causati da una toga, e insieme la norma che avrebbe rimediato all'inganno legislativo rappresentato dalla legge Vassalli del 1988, che aveva tradito il voto popolare rappresentato da una schiacciante maggioranza di consensi al referendum popolare proposto dai radicali. Va ricordato, infatti, che la Legge Vassali era stata così pienamente ed eccessivamente garantista, nei confronti dei magistrati, che dal 1989 e fino a tutto il 2014 gli italiani avevano presentato in tutto 410 citazioni per responsabilità civile. Se si considera che in quei 26 anni soltanto i procedimenti penali aperti sono stati all'incirca 52 milioni, le citazioni presentate rappresentano appena lo 0,0008% del totale. Ma gli italiani avevano piena ragione di essere scettici: le loro citazioni ammesse al vaglio dell'autorità giudiziaria furono appena 35, nemmeno una su dieci. E quelle che vennero reputate degne di essere accolte furono in tutto sette. Sette, in 26 lunghissimi anni. Nelle settimane precedenti all'entrata in vigore della riforma del febbraio 2015, l'Associazione nazionale magistrati manifestò tali spropositate reazioni ("questo è un attacco mortale alla nostra autonomia"), che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, promise avrebbe messo in piedi un sistema per controllare che la riforma non straripasse in eccessi puntivi nei confronti della categoria. «Faremo un tagliando», garantì Orlando. Vale la pena di ricordare sommessamente che due anni fa, ascoltate le grida di giubilo da una parte, e le terrorizzate lamentele dall'altra, Panorama sostenne che i magistrati non avevano nulla da temere e che i politici non avevano nulla da festeggiare, perché nulla in realtà sarebbe cambiato. Ora siamo arrivati a un primo redde rationem. Eccessi puntivi? Autonomia uccisa? Risate. A distanza di due anni, purtroppo, i dati danno ragione al pessimismo di Panorama. Perché è vero che (udite, udite!) sono aumentate le azioni di responsabilità per "dolo o colpa grave" nei riguardi dei magistrati, ma il numero delle condanne resta del tutto "insignificante". Il ministero della Giustizia, dopo i controlli eseguiti in omaggio alla promessa di Orlando, rivela con evidente soddisfazione che "non si è, finora, verificato il temuto aumento esponenziale del contenzioso". Ed è proprio il governo a utilizzare l'aggettivo "insignificante" per descrivere il numero delle condanne: nemmeno una in tutto il 2015; e una sola condanna d'appello nel 2016. Dall'entrata in vigore della legge, infatti, è vero che gli esposti sono più che raddoppiati, passando da 35 (nel 2014) a 70 nel 2015 e a 80 del 2016. Ma la quota di condanne - tutte non definitive, perché finora parliamo di sentenze di Corte d'appello e nessuna vicenda è ancora arrivata al giudizio finale - è pari allo 0,01%. Insomma, la riforma della responsabilità civile si è risolta in una farsa, forse in un inganno anche peggiore rispetto a quella che era stata varata nel 1988. I magistrati dell'Anm possono quindi riposare in pace: l'autonomia della categoria non ha subito alcun attacco, tantomeno l'assalto mortale che temevano due anni fa. Le toghe restano pienamente, irriducibilmente "irresponsabili".

Magistrati premiati con stipendi più alti. Anche quelli che sbagliano tanto, scrive Annalisa Chirico, Martedì 24/01/2017 su "Il Giornale". Ci sono dei numeri che, considerati isolatamente, non destano sorpresa, ma accostati gli uni agli altri fanno una certa impressione. La Ragioneria dello Stato ci informa che in dieci anni la retribuzione media per chi lavora alla presidenza del Consiglio è cresciuta del 45 percento, per i diplomatici del 37 percento, per chi indossa una toga del 28,4. In particolare, rispetto al 2005 la remunerazione dei magistrati è aumentata, in media, di otre 30mila euro toccando quota 138.481 euro. Com'è noto, gli stipendi dei magistrati non dipendono dal numero di sentenze prodotte o di ore trascorse in ufficio, la produttività non c'entra nulla, i loro salari sono il risultato di automatismi previsti dalla legge. Sulle colonne di Repubblica compaiono i dati aggiornati relativi ai risarcimenti che lo stato versa nei casi di ingiusta detenzione ed errore giudiziario. Si apprende che dal 1992 a oggi il ministero dell'Economia ha sborsato 648 milioni di euro per il carcere ingiustamente inflitto agli innocenti, e 43 milioni per gli errori di pm e giudici nell'interpretazione di fatti e norme. Se guardiamo soltanto allo scorso anno, scopriamo che lo Stato - vale a dire noi contribuenti - ha pagato dieci milioni di euro per risarcire le persone danneggiate da un errore giudiziario ad opera degli stessi magistrati i cui stipendi nel frattempo sono aumentati progressivamente. Ammontano invece a trenta milioni gli indennizzi corrisposti alle vittime di arresti preventivi sproporzionati e ingiusti. In altre parole, in questi anni sono aumentate le spese per le vittime e contestualmente si sono gonfiati i salari degli autori degli errori. Vale la pena notare che mentre i casi di errore giudiziario acclarati nel 2016 sono in tutto sei (con cifre esorbitanti come i sei milioni e mezzo in un singolo caso a Reggio Calabria), gli episodi di detenzioni ingiuste che hanno dato luogo al risarcimento sono quasi settecento. Viene da chiedersi se qualche sanzione sia stata comminata nei confronti dei magistrati che hanno sbagliato, travisato una prova, richiesto o autorizzato l'arresto, poi annullato, di una persona innocente. Sono domande tanto più urgenti alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Se l'appuntamento annuale non vorrà ridursi a una rituale sfilata di ermellini ed establishment, sarà bene che i vertici della magistratura affrontino, senza infingimenti, la stridente anomalia di stipendi che aumentano al pari dei risarcimenti per errori e arresti facili. Colpisce che a far emergere i dati sull'entità dei risarcimenti sia stato Enrico Costa, avvocato appassionato e ministro della Famiglia e degli Affari regionali. «Se dibattessimo meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale, non sarebbe male», ha commentato Costa nelle stesse ore in cui il ministro della Giustizia in carica, Andrea Orlando, prosegue lungo la via del tenace dialogo con il numero uno dell'Anm Piercamillo Davigo. Chissà se, tra un discorso e un altro, tra una lamentazione corporativa e un'altra, il vertice del sindacato delle toghe formulerà una riflessione sul paradosso di stipendi e indennizzi. Qualcuno dovrebbe chiedergliene conto.

Corruzione, il Consiglio d'Europa all'Italia: "Roma limiti i giudici in politica". Il Gruppo di stati anticorruzione (Greco) rende pubblico un rapporto con dodici raccomandazioni rivolte al nostro Paese, tra cui anche regolare i "conflitti di interessi" dei politici e salvaguardare l'integrità delle commissioni tributarie, scrive il 19 gennaio 2017 "La Repubblica". Limitare la partecipazione dei magistrati alla politica. E regolare con norme più stringenti i "conflitti di interessi" dei deputati. Sono due delle dodici raccomandazioni che il Gruppo di stati contro la corruzione (Greco), organo del Consiglio d'Europa, ha rivolto all'Italia in un rapporto dedicato al nostro Paese, approvato il 21 ottobre 2016 ma reso noto solo oggi. Magistrati. E allora per prima cosa Roma deve introdurre leggi che pongano limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, e mettere fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico se vengono eletti o nominati per posizioni negli enti locali. "È chiaro che la legislazione italiana contiene diverse lacune e contraddizioni a tale riguardo, che sollevano dubbi dal punto di vista della separazione dei poteri e della necessaria indipendenza e imparzialità dei giudici" recita il dossier di Greco. L'organismo afferma che pur "riconoscendo l'indiscutibile reputazione, professionalità e impegno dei singoli magistrati" è suo compito "segnalare l'effetto negativo che qualsiasi presunta politicizzazione della professione può avere sulla percezione che i cittadini hanno dell'indipendenza dell'intera magistratura". Parlamentari. Quanto ai politici, invece, bisogna che l'Italia introduca norme "chiare e applicabili" per regolare "la spinosa questione" del conflitto d'interessi dei parlamentari. Perché, si legge ancora nel rapporto, "questa situazione insoddisfacente si traduce in un processo piuttosto difficile di verifica delle possibili cause di ineleggibilità e incompatibilità, che rischia di compromettere l'efficacia dell'intero sistema". Secondo gli esperti, infatti, "le regole esistenti sono difficili da applicare" e questo "va a scapito della complessiva trasparenza e efficienza del sistema". Nel documento si sottolinea che "l'alto numero di leggi e disposizioni, i relativi emendamenti e una generale mancanza di consolidamento e razionalizzazione delle norme, conduce a un quadro confuso del conflitto d'interessi".  Questo "crea problemi per l'applicazione delle regole esistenti e anche della loro comprensione". Tribunali fiscali. Il Consiglio d'Europa accende un faro anche sui tribunali fiscali, sottolineando la necessità di applicare più misure e strumenti per assicurare l'integrità dei membri delle commissioni tributarie, anche a causa "degli scandali in cui recentemente sono stati coinvolti i componenti non appartenenti alla magistratura", dice ancora il rapporto. Greco raccomanda dunque di adottare "misure appropriate per migliorare il controllo sulla professionalità e l'integrità dei componenti delle commissioni tributarie, con l'introduzione di un sistema di valutazione periodico e corsi di formazione regolari anche su questioni etiche e sulla prevenzione della corruzione". Prescrizione. Greco non manca poi di evidenziare "l'allarmante" numero dei processi penali non conclusi a causa della prescrizione. Nonostante vengano riconosciuti gli sforzi italiani - come l'introduzione di sanzioni più dure, l'ampliamento delle definizioni dei reati, l'istituzione dell'autorità nazionale anticorruzione - tuttavia vi sono ancora diverse questioni da risolvere, tra cui "il problema dei tempi di prescrizione dei reati". Una "seria preoccupazione" già espressa nei rapporti precedenti, per "l'impatto negativo sui casi di corruzione". Il gruppo d'esperti che ha valutato l'Italia "si rammarica che una riforma di una questione così cruciale non sia stata ancora attuata".

Il regime di Orlando o il regime di Davigo? Scrive Piero Sansonetti l'1 Febbraio 2017. C’è una stampa di regime che fiancheggia il ministro Orlando nella sua crociata contro la magistratura? Lo sostiene il giornale ufficioso dei Pm – Il Fatto Quotidiano – nell’editoriale del direttore, pubblicato ieri in prima pagina. Prima di tutto bisognerebbe capire bene cosa si intende per regime. Il “regime Gentiloni”? O addirittura il “regime Orlando”? Non credo che ci voglia moltissima fantasia per capire che in Italia, in questo momento, il rischio politico è il caos e l’ingovernabilità, non certo il regime. Ci sono almeno tre schieramenti in corsa per vincere le elezioni politiche (con pari possibilità). E’ il regime del ministro Orlando o di Davigo e dei maestri dell’Etica? Epoi ci sono un bel gruppetto di partiti e sottopartiti che cercano un loro spazio, voci di scissioni, di riaggregazioni, eccetera. Non succedeva esattamente così né nell’Italia di Mussolini né nella Russia di Breznev. In genere nei regimi c’è una sola lista elettorale che è in grado di vincere le elezioni (se ci sono le elezioni), non è legale l’opposizione. Ma allora perché il Fatto, e il suo “vate”, il dottor Davigo, si ostinano a parlare di regime? Credo che ci siano due ragioni.

La prima è la necessità di difendere una richiesta corporativa dell’Anm (l’associazione magistrati guidata da Davigo) e cioè l’aumento dell’età della pensione. Richiesta praticamente indifendibile davanti all’opinione pubblica.

La seconda è una ragione di potere. Se ci fate caso, è quasi sempre così: quando, in democrazia, si parla di regime, chi ne parla serba in qualche angolo del suo animo una sua propria aspirazione al regime. O comunque a un forte aumento del proprio potere. C’è un settore importante – anche se forse non maggioritario, ma egemone – della magistratura, che si è convinto della necessità di aumentare il proprio potere. Non è detto che questo desiderio sia originato semplicemente da ambizioni personali o da fini oscuri; anzi, molto probabilmente dipende in larghissima parte da un altro fattore: la convinzione che la società sia corrotta e che sia corrotto lo Stato, e che dunque occorra una drastica azione di pulizia, e che questa azione non possa essere condotta in un regime fortemente democratico e di equilibrio di poteri, ma solo in presenza di un soggetto forte – e cioè la magistratura – che possa agire indisturbato, che possa far prevalere il sospetto sul diritto, che non debba rispondere a nessuno. E’ una specie di pulsione autoritaria originata da una spinta etica. E non è detto che l’aspetto più pericoloso di questo fenomeno sia l’aspetto autoritario: forse è proprio l’aspirazione all’etica, che in alcuni casi diventa la culla del fondamentalismo e dell’integralismo.

Nel caso specifico, Davigo e Travaglio contestano al ministro Orlando di volersi scegliere lui i giudici che gli fanno comodo. Fingendo di non sapere che nessun Pm e nessun giudice e nessun procuratore o presidente di nessun luogo o grado della magistratura è nominato dal governo, né in alcun modo il governo, o il ministro o chi per lui può influenzarne o pretenderne la nomina. In questo caso la polemica di Davigo e Travaglio è esplicitamente contro il Presidente della Cassazione, Giovanni Canzio. Per quale ragione? Canzio è un interprete molto rigoroso del diritto e un difensore dello Stato di diritto, e dunque – comprensibilmente e legittimamente – non sta molto simpatico a Davigo e Travaglio, che hanno un’idea diversa di giustizia, abbastanza lontana dallo Stato di diritto. Ma chi lo ha nominato Canzio? Il Consiglio superiore della magistratura. E da chi è composto questo consiglio superiore? Lo abbiamo già detto nei giorni scorsi: per i due terzi da magistrati scelti dagli altri magistrati secondo le indicazioni (per la verità un po’ partitocratiche o correnti– cratiche) dell’Anm, cioè del cosiddetto partito dei Pm guidato da Davigo. Sulla nomina di Canzio il governo ha avuto un peso pari a zero, l’Anm un peso enorme.

Diciamo che il governo, e Orlando, per ragioni di opportunità e per non lasciare la Cassazione senza una guida, quando è stato varato il provvedimento sulle pensioni a 70 anni per i magistrati (che ha fatto infuriare molti magistrati che in pensione non ci vogliono andare), ha concesso una proroga (non di un decennio: di un anno!) alle massime cariche in modo da non provocare traumi. Una proroga ai magistrati nominati dal Csm e scelti dall’Anm! E questa sarebbe l’ingerenza? E così si metterebbe in discussione l’autonomia della magistratura?

Ma avete una idea vaga di quale sia il potere dei governi, rispetto alla magistratura, negli altri paesi occidentali, dalla Francia agli Stati Uniti? Dieci volte superiore al potere dell’esecutivo in Italia. E allora di quale regime e di quali giornali di regime, si parla? Beh, forse qualche giornale di regime c’è, se posso fare un paradosso. In qualunque altro paese, dove la stampa è critica e autonoma, una sollevazione corporativa e scombiccherata come quella di Davigo e di una parte dell’Anm per ‘ sto fatto delle pensioni, sarebbe stata massacrata di critiche e di ironia, su tutti gli organi di informazione. Qui da noi silenzio. Perché la stampa, in larghissima parte, è subordinata alla magistratura e non osa criticarla o metterla in burla. Tutto qui. (E tuttavia, anche in questo caso, se parliamo di regime lo facciamo per puro spirito polemico).

P. S. Nello stesso articolo del “Fatto” del quale riferivamo, c’era un altro elemento interessante. Si diceva che per mettere in prigione, in Italia, tutti quelli che se lo meriterebbero, altro che le attuali carceri, “non basterebbero gli stadi! “. Oddio: Gli stadi? Come faceva Pinochet? Gli sarà scappata, d’accordo, però certe espressioni, quando scappano…

Orlando: «La magistratura ha in pugno le nostre vite», scrive Errico Novi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel suo intervento sullo stato della giustizia, il ministro rivendica l’importanza delle ispezioni sui magistrati. È una relazione ricca di traguardi raggiunti e obiettivi ancora da cogliere, quella che il guardasigilli Andrea Orlando ha proposto ieri alle Camere sullo stato della giustizia. Ma è anche l’occasione per riaffermare alcuni aspetti decisivi del sistema, a cominciare dall’enorme peso della magistratura. «La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione dei poteri», ha affermato il ministro nei due rami del Parlamento a proposito dell’attività ispettiva di via Arenula, «e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini». Andrea Orlando affronta per prima l’aula del Senato. È lì di fatto che apre l’anno giudiziario, considerato che la relazione al Parlamento letta in mattinata a Palazzo Madama e poi a Montecitorio, è il primo atto delle inaugurazioni. L’assemblea presieduta da Pietro Grasso è d’altronde croce e delizia per il guardasigilli, luogo di confronti «proficui» ma anche di fatale paralisi del ddl penale. E se tra le obiezioni dell’emiciclo c’è anche un «difetto di franchezza» rilevato da Corradino Mineo, che pure apprezza complessivamente il ministro, va detto che Orlando dosa toni secchi e abili perifrasi anche quando parla del peso della magistratura. Quando cioè all’inizio della sua relazione ne segnala l’immenso potere e la necessità di controllarlo: «La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione», dice il ministro, «e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini». È un passaggio che si intreccia con ripetuti richiami al populismo penale, all’eccessivo numero di reati e alla demagogia con cui se ne invocano sempre di nuovi. La cifra del garantismo e della ricerca di un equilibrio che faccia argine allo strapotere giudiziario, segna quella che potrebbe essere l’ultima relazione di Orlando da ministro della Giustizia. Non solo perché non è detto che la legislatura arrivi fino a gennaio 2018, ma anche perché il leader dei “giovani turchi”, in qualche accenno, lascia trapelare l’aspirazione a occuparsi di giustizia anche in senso lato, la necessità di «agire perché non sia fortemente diseguale la ricchezza della nazione», come dice alla fine delle sue comunicazioni. Obiettivi da aspirante segretario del Pd più che da guardasigilli. Non a caso, a proposito del ddl penale, di cui invoca di nuovo l’approvazione in Senato, afferma che se diverrà legge, determinerà «un passo di qualità che consentirà, al prossimo ministro della Giustizia, di fare una relazione in cui molti problemi possano essere considerati alle spalle». Sui magistrati e la necessità di non tralasciare la vigilanza sul loro operato, il ministro torna più volte, sia nella relazione sia nelle repliche agli interventi in Aula. Quando parla di controllori si riferisce in particolare al sistema delle ispezioni, condotte «senza ricerca di sensazionalismo» e accompagnate da un «monitoraggio statistico» sulle «performance degli uffici». Sarebbe bene che «il Csm voglia sempre più affidarsi a simili criteri» nella scelta dei capi degli uffici, «che deve procedere senz’altro con maggiore speditezza». E dovrebbero essere più celeri, sostiene Orlando, anche «le pronunce disciplinari» che lo stesso Coniglio superiore è chiamato a emettere sulla base dell’attività ispettiva di via Arenula: «Spesso arrivano troppo tempo dopo che è stato segnalato l’illecito». A proposito di responsabilità civile, il guardasigilli allude a un possibile effetto deterrenza, invisibile nelle statistiche a quasi due anni dall’approvazione della riforma: «Ora i magistrati sanno che in caso di negligenza inescusabile sono sottoposti a valutazione di merito come qualunque altro cittadino». Ma alla magistratura come a tutti gli altri soggetti chiamati ad assicurare il servizio giustizia, Orlando rivolge il suo ringraziamento. Lo fa anche nei confronti dell’avvocatura, che «credo possa salutare con soddisfazione il completamento dell’attuazione della riforma forense». Agli avvocati il ministro assicura anche di voler portare fino in fondo l’impegno per assicurare compensi decorosi pur in un quadro ormai privato da anni delle tariffe minime: «Ho già mandato un disegno di legge a Palazzo Chigi sul tema dell’equo compenso: lo ritengo un elemento caratterizzante dell’attività di governo. C’è ormai una sperequazione inaccettabile nel rapporto tra professioni e grandi soggetti finanziari ed economici». Ci sono, dice senza mezzi termini il guardasigilli, delle «compressioni dell’autonomia del professionista dettati da posizioni dominanti che credo siano da contrastare». Nell’intervento a più riprese del ministro c’è spazio per la difesa degli interventi compiuti sul carcere, dei riscontri anche internazionali alla deflazione del contenzioso sia penale che civile e al diffondersi delle soluzioni alternative al processo (i passaggi salienti sono riportati in altro servizio, nda) . E non manca l’impegno a portare al traguardo progetti di legge come la delega sul fallimentare e la riforma civile, entrambi necessari per «dare sistematicità all’intervento realizzato finora per via amministrativa e con strumenti normativi diffusi». Ma è inevitabile che Orlando, soprattutto a Palazzo Madama, insista sui contenuti del ddl penale: ricorda che il testo sulla prescrizione è «un compromesso positivo», e che la delega sulle intercettazioni «è necessaria nonostante le circolari delle Procure vadano nella direzione auspicata: non si può essere esposti al rischio di usi impropri solo perché nella città dove si vive il capo dell’ufficio non ha dato le stesse istruzioni». Nella replica non manca di rispondere sui nodi sollevati dall’Anm con l’annunciata protesta contro il decreto Cassazione: «Sui termini per i trasferimenti siamo venuti incontro alle richieste e abbiamo posticipato l’applicazione del nuovo regime quadriennale. Sulle pensioni, la reazione mi pare eccessiva: è l’unico punto che resta e ora c’è un presidente del Consiglio diverso». Il che conferma l’impressione che alcune scelte compiute con Renzi premier siano state concepite a Palazzo Chigi più che a via Arenula.

Se il totalitarismo è giudiziario, scrive Pierluigi Battista il 15 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Roma non si sa dove e quando e come potranno essere collocate le bancarelle dei libri (che ci sono da sempre, e sono un meraviglioso momento di sosta) perché lo deve stabilire la magistratura. Nel Texas la Apple è stata messa sotto accusa giudiziaria perché un automobilista, usando FaceTime mentre era alla guida, aveva violentemente urtato un’altra macchina provocando la morte di una bambina che era a bordo. La colpa è di aver inventato la app per le videochiamate senza la funzione che la disattiva nei veicoli in movimento. Cioè la colpa non è solo del deficiente criminale che fa videochiamate mentre guida, ma della società che non ha previsto l’esistenza di un deficiente criminale che guarda dentro al telefonino ammazzando la gente con la macchina che guida. Intanto in Italia si stabilisce che le leggi elettorali non le fa il Parlamento ma la Corte Costituzionale. La quale Corte Costituzionale aveva già deliberato su importanti provvedimenti di politica economica del governo, come l’intervento sulle pensioni. Con l’approvazione della legge sulle unioni civili, pare non abbia molta importanza la disciplina della stepchild adoption perché valuteranno i magistrati caso per caso. E del resto, l’assenza di una legge sul testamento biologico demanda alla magistratura anche l’ultima parola sui temi decisivi come la vita e la morte. La magistratura francese può decidere se a un intellettuale è permesso di sottolineare i pericoli dell’islamismo politico senza essere portato in tribunale come «islamofobo». In Italia la magistratura può disporre il sequestro giudiziario, con conseguenze economiche notevolissime, della centrale termoelettrica di Vado Ligure mentre in un’altra regione un’altra centrale identica può continuare a lavorare con gli stessi livelli di inquinamento accertati dalle autorità sanitarie e ambientali. Cosa ci dice questa macedonia di casi tanto diversi tra loro? Cosa hanno in comune tutti questi episodi? Hanno in comune in tutto il mondo lo strapotere della dimensione giudiziaria su ogni altro aspetto della vita pubblica. La «giuridicizzazione» radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici in cui si imbatte l’umanità. L’idea che l’ultima parola spetti sempre a un’autorità giudiziaria. In Italia e ovunque. Vi sentite tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario?

Toghe alla guerra dei privilegi: disertano l'anno giudiziario. Anm contro il governo: protesta per pensioni e trasferimenti. Ma è scontro tra le varie correnti, scrive Anna Maria Greco, Domenica 15/01/2017, su "Il Giornale". L'Anm accusa il governo di non aver rispettato gli impegni e per protesta diserterà la cerimonia d'apertura dell'anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione. Per la prima volta il «sindacato» dei magistrati non sarà dunque presente tra gli ermellini nell'Aula magna del Palazzaccio di Roma, luogo finora non investito dai venti di contestazione perché il dissenso si esprimeva solo alle inaugurazioni nelle Corti d'appello. Due elementi, nel corso della riunione di ieri del Comitato Direttivo Centrale, hanno fatto decidere l'associazione delle toghe a rompere la tradizione: pensioni e trasferimenti dei magistrati. Il Guardasigilli Andrea Orlando si dice disponibile a discutere, ma ormai è tardi. «La Giunta aveva condotto con il governo e con il ministro della Giustizia - spiega il presidente dell'Anm, Piercamillo Davigo - una trattativa per ricondurre l'età pensionabile, anche se in via transitoria, a 72 anni e a riportare il vincolo di permanenza dei magistrati di prima nomina da 4 a 3 anni. Gli impegni non sono stati rispettati, nonostante la dichiarata continuità del governo attuale con quello precedente». Si riferisce al fatto che è ristretta ad un pugno di alti magistrati l'ultima proroga per allontanare l'età della pensione, che l'ex premier Matteo Renzi ha portato per tutti da 75 a 72 anni. E il suo governo aveva assicurato che almeno sui giovani di prima nomina non sarebbe pesato l'allungamento da 3 a 4 anni del periodo minimo di permanenza in un ufficio prima di chiedere un trasferimento, ma non è andata così. Nella base delle toghe monta un grande scontento, le correnti fanno a gara per raccogliere le lamentele e ad infervorare ancor più il dibattito ci sono le elezioni al Csm del 2018 che si avvicinano. Il direttivo dell'Anm è stato già convocato per il 18 febbraio, per valutare altre iniziative prima della conversione in legge del Milleproroghe. C'è chi preme per lo sciopero, ma finora Davigo ha tenuto insieme i gruppi. Non senza danni, però, e proprio nella stessa corrente nata attorno al nome dell'ex star di Mani pulite, Autonomia&Indipendenza. Ieri, infatti, c'è stato un duro scontro nella riunione tra Davigo e il coordinatore di A&I, che insisteva sullo sciopero bianco. Lo aveva proposto anche Magistratura indipendente, l'altra corrente moderata, ma poi ha accettato il compromesso per consentire un accordo con le correnti di centro, Unicost e di sinistra, Area. Davigo ha lavorato per mantenere l'unità della magistratura, ma a Pepe la protesta in Cassazione non bastava. Voleva che A&I uscisse con un suo documento chiedendo lo sciopero bianco e rompendo di fatto l'unanimità. Il presidente dell'Anm alla fine si è imposto, nell'associazione e nella sua corrente, ma poi ha lasciato la seduta prima della fine, molto irritato dallo scontro con il suo secondo, al vicepresidente di Area Luca Poniz. Anche perché sembra che le liti con Pepe siano frequenti. La notizia è anche questa, dunque: la neonata corrente A&I rischia di implodere, per contrasti interni, proprio mentre Davigo si appresta a concludere ad aprile il suo anno di presidenza dell'Anm.

Pensioni e trasferimenti, toghe infuriate: il gesto estremo dei magistrati, scrive “Libero Quotidiano" il 14 gennaio 2017. L’Associazione nazionale magistrati diserterà la cerimonia, fissata per il 26 gennaio, di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. È la forma di protesta, approvata all’unanimità dal direttivo del sindacato delle toghe, adottata dall’Anm per il "mancato rispetto degli accordi" da parte del Governo sui correttivi, chiesti dai magistrati, al decreto sulla proroga dei pensionamenti solo per alcuni (tra cui il presidente e il pg della Suprema Corte, Gianni Canzio e Pasquale Ciccolo) e sulla legittimazione ai trasferimenti. I rappresentanti dell’Anm parteciperanno invece alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario nelle Corti d’appello sabato 28 gennaio. Si tratta della prima volta che viene attuata una protesta delle toghe durante la cerimonia in Cassazione, dove i vertici dell’Anm non svolgono di regola un intervento ma sono presenti tra gli ospiti nell’Aula magna di Palazzaccio. Negli anni passati, invece, iniziative di protesta si erano svolte durante le inaugurazioni nelle Corti d’appello. Il 26 gennaio, inoltre, il sindacato delle toghe predisporrà un documento che sarà anche illustrato ai giornalisti con una conferenza stampa e che sarà letto dai rappresentanti delle sezioni distrettuali dell’Anm durante le cerimonie nelle Corti d’appello. Sabato 28 gennaio, la Giunta centrale del sindacato delle toghe parteciperà a una delle inaugurazioni in Corte d’appello, presumibilmente la stessa a cui prenderà parte il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il direttivo dell’Associazione nazionale magistrati tornerà a riunirsi il 18 febbraio: in quella sede, discuterà ancora di eventuali iniziative di protesta, anche alla luce degli sviluppi dell’iter di conversione in legge del decreto Milleproroghe, a cui il Governo dovrebbe presentare un emendamento per modificare le norme in materia di legittimazione ai trasferimenti per le toghe.

Il Pm Gratteri: «E' pronta la rivoluzione giudiziaria», scrive Piero Sansonetti l'8 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Nel luglio del 1948, a Roma, in piazza Esedra, si tenne una gigantesca manifestazione comunista. Avevano sparato a Togliatti, che era in fin di vita, e i militanti del Pci erano furiosi. Sul palco salì per il comizio Edoardo D'Onofrio, dirigente amatissimo, stalinista di ferro, alle spalle 10 anni nelle carcere fasciste. La gente cominciò a gridare: «Edo, dacci il là!». Volevano dire: dai un segnale e noi iniziamo l'insurrezione. D'Onofrio però aveva ricevuto un ordine preciso da Luigi Longo, il vice di Togliatti: «Niente rivoluzione». E allora rispose alla folla, scandendo le parole: «Non è questo il momento storico». La rivoluzione non ci fu, non ci fu la guerra civile (anche se ci furono violenze, scontri morti e arresti). Togliatti si salvò e la democrazia uscì salva e forte. Beh, colpisce il fatto che il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (che pure non dà per niente l'impressione di essere comunista) abbia usato esattamente la stessa espressione: «Ho in testa una rivoluzione sul sistema giudiziario, ma non è ancora il momento storico». Naturalmente Edo d'Onofrio aveva ben chiaro che prima o poi la rivoluzione si sarebbe fatta. Poi invece, qualche anno dopo, nel 1956, ci fu la destalinizzazione, e Togliatti lo emarginò. Chissà come andrà a finire, invece, con Nico Gratteri...Il Procuratore di Catanzaro ha annunciato la rivoluzione (e il suo rinvio) nel corso di una intervista rilasciata a Lucio Musolino del "Fatto Quotidiano". È una intervista che inizia con una frase non nuovissima (per Gratteri) ma sempre abbastanza sorprendente. La trascrivo: «L'articolato di legge che abbiamo elaborato per aggredire maggiormente corruzione e mafie è nei cassetti del Parlamento, ma al momento nessuna forza politica lo ha preso in considerazione». Di che "articolato" si tratta? Gratteri spiega che si tratta di un vero e proprio disegno di legge, che prevede la modifica di circa 850 articoli tra codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario. A occhio croce la riforma riguarda almeno la metà dell'intero impianto legislativo che riguarda il diritto penale, visto che il codice penale e il codice di procedura, sommati, contengono attualmente circa 1500 articoli, dei quali però non più di 8 o 900 sono quelli davvero importanti. Di conseguenza Gratteri ci dice una cosa molto semplice: la sua commissione ha preparato una riforma radicale della giustizia. Noi non sappiamo bene cosa intenda Gratteri per rivoluzione giudiziaria, né per "momento opportuno". Certo sono espressioni molto preoccupanti, specialmente se pronunciate da un magistrato così potente, così famoso, così importante. Però sappiamo qualcosa sullo Stato di diritto e sulla separazione dei poteri. E allora ci vengono alcune domande, alle quali, magari, qualche autorità potrebbe anche rispondere. La prima domanda è questa: elaborare un articolato di legge non è compito che spetta al potere legislativo? La stessa Costituzione non prevede una separazione netta tra potere legislativo e potere giudiziario? E allora, è cosa normale che un magistrato elabori i disegni di legge?  (A me sembra un po' come se si chiamassero i deputati a fare le sentenze, o almeno a dirigere le indagini preliminari sui delitti....). La seconda domanda è più spigolosa. La riassumo così: il compito della magistratura è quello di accertare i reati e perseguirli, o è invece quello di combattere alcune battaglie politiche? Gratteri parla della sua intenzione di "aggredire corruzione e mafie", ma è giusto che un magistrato si ponga l'obiettivo di combattere fenomeni sociali negativi? Non è forse, il compito di aggredire corruzione e mafia, un compito che spetta alla politica - sul piano dell'azione legislativa e culturale - e alla polizia sul piano militare? Non sono domande provocatorie, né sofismi: si tratta di capire quale sia l'orientamento politico e costituzionale prevalente nelle classi dirigenti italiane. Se bisogna gratterizzare la magistratura, e anche il Parlamento, sarà inevitabile porre mano, seriamente, alla Costituzione. Non con la piccola riforma Boschi, ma con un rivolgimento profondo, che cambi la natura dello Stato di diritto e ne riduca fortemente i confini. Vogliamo istituire una repubblica giudiziaria, che sostituisca la Repubblica parlamentare? Discutiamone, se volete, però bisogna avere il coraggio di dire le cose chiare, non basta sperare in quella riforma della "Costituzione materiale" che, in realtà, è già largamente in corso.

Aspettando la Terza Repubblica. Il saggio di Agostino Giovagnoli «La Repubblica degli italiani 1946-2016» (Laterza) ripercorre la storia dell’Italia postbellica: il vero «partito della nazione» è stato la Dc, scrive Andrea Riccardi il 20 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". La Repubblica ha settant’anni. Non c’è festa però, anzi — osserva lo storico Agostino Giovagnoli — tra gli italiani «è diffusa l’insoddisfazione». Soprattutto per il presente, ma anche per il passato repubblicano, considerato, per i suoi errori e scelte sbagliate, all’origine dei problemi dell’oggi. Il debito pubblico appare il monumento degli errori del passato, che pesa sul futuro. Una storia sbagliata, che non si ama ricordare. Anche perché non è facile farlo, complessa com’è, con tanti attori e combinazioni: cangiante ma, alla fine, con una stabilità di fondo. È quanto emerge dal ricco volume di Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, edito da Laterza, che spazia da De Gasperi «padre della Repubblica» fino al big bang del sistema tra il 1992 e il 1994, alla Seconda Repubblica e a quello che considera l’attuale passaggio a un nuovo assetto. È una storia, per tanti aspetti, bella e avvincente: non solo un succedersi di governi fragili né un gioco di alchimie politiche. Leggere questo volume riconcilia con la nostra storia appassionandoci a essa: gli italiani sono cresciuti sotto tanti punti di vista. Anche la disaffezione dalla politica o la protesta sono il frutto di un processo storico per cui gli abitanti della penisola sono divenuti pienamente cittadini. Non è una storia sprecata o solo una trama di errori. I primi decenni sono quelli della Repubblica dei partiti, per usare l’espressione di Pietro Scoppola: si passa dalla nazionalizzazione fascista delle masse alla partecipazione politica ed emotiva al destino della nazione attraverso i partiti. In questo quadro si staglia la Dc, «partito della nazione» (Alcide De Gasperi è il primo a usare l’espressione): il perno di un sistema di alleanze con un particolare rapporto con lo Stato. La classe dirigente democristiana, pur nella rapida successione dei governi, costituisce il presidio della stabilità e della continuità delle politiche nazionali e internazionali. La tensione, con ostacoli e battute di arresto, è allargare l’area di governo fino alla solidarietà nazionale con il Pci. Questo si accompagna a due aspetti rilevanti della Prima Repubblica: da una parte le ideologie e il dibattito delle idee che permeano la politica e, dall’altra, il radicamento capillare nella società e la mobilitazione degli italiani alla politica. In questo processo, Giovagnoli mette in luce il ruolo della Chiesa, l’istituzione più radicata nel Paese, preoccupata del pericolo comunista e sostenitrice della Dc. La svolta del Vaticano II scompone il solido blocco Chiesa-Dc. «Il mondo è cambiato» — scrive l’autore in un denso capitolo dedicato agli anni Ottanta. «Dalla società agli individui»: è un processo lungo (dal Sessantotto alla globalizzazione) che mette in discussione identità organiche e strutture che erano l’architettura della politica. Gli italiani cambiano prima della politica, tanto che questa, con la caduta del Muro e la globalizzazione, viene travolta. Sono il discredito dei partiti e la protesta a travolgerla, quasi una corrente carsica destinata più volte a riemergere e guadagnare consenso sino a oggi. La domanda è se siano ingredienti bastevoli a creare un’alternativa. Metà della Repubblica degli italiani è dedicata alla Seconda Repubblica: «È tramontato, in particolare, il rapporto tra élites e masse, mediato dai partiti…». Si disarticolano gli «universi politico-culturali» che, per quasi mezzo secolo, sono stati i pilastri della democrazia: quello comunista, laico-socialista, cattolico. Quest’ultimo, con il tramonto della Dc, è destinato a giocare un ruolo con la Cei del cardinale Camillo Ruini per il rapporto con Silvio Berlusconi e per l’affermazione del ruolo etico-culturale della Chiesa. Il bipolarismo non ricuce la «persistente frammentarietà» della politica e porta a «un sistema politico iperconflittuale». Se la Prima Repubblica, alla luce della storia e nonostante i problemi, non è un «buco nero» per Giovagnoli, i due decenni successivi sono quasi un interludio. Così crede l’autore, che dedica pagine acute in una prospettiva storica (tra i primi) a Berlusconi come un misto di antipolitica, di vecchia politica e d’interessi anche disparati: il decennio berlusconiano, poi, dal 2001 al 2011, parte nel clima dello scontro di civiltà dopo l’11 settembre 2001 e si solidifica nel «bipolarismo etico» del Paese. Nonostante i governi guidati da Romano Prodi abbiano inciso per varie decisioni e ancoraggio all’Europa, gli anni della Seconda Repubblica sono dominati dal clima impresso da Berlusconi, anche per chi gli si oppone. La lunga storia repubblicana, però, non è smarrita. In un certo senso parla dal Quirinale che, con gli anni Novanta, diventa un’istituzione cardine della democrazia, perdendo quel carattere notarile e cerimoniale che l’aveva in parte caratterizzato. Oscar Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano: tre storie personali diverse, ma tutte radicate nella cultura politica repubblicana, come si vede dai loro richiami e impulsi. Ma non solo: «Si deve a questi tre presidenti della Repubblica un impegno per contrastare il ripiegamento provincialistico della società italiana». La Seconda Repubblica ha rappresentato più una fase di assestamento che il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Agostino Giovagnoli è convinto che questa storia, quella della Prima e della Seconda Repubblica, non debba essere consegnata però a una damnatio memoriae: senza conoscerla e senza sentirla come nostra, non si capiscono i problemi attuali, ci si abbandona a semplificazioni emotive. Per Giovagnoli, dal 2011 siamo oltre il secondo tempo della Repubblica. Il governo Monti è stato una rottura e una ricollocazione europea dell’Italia. Con Renzi, «molti aspetti dell’assetto bipolare, prevalsi per un ventennio, sono… definitivamente tramontati». Sorge, sul crinale del settantennio repubblicano, nonostante le difficoltà, una voglia di estroversione italiana nel mondo globale, anche se assediata da problemi e disaffezioni. La domanda è se si possa già parlare di una Terza Repubblica, anche con un nuovo assetto costituzionale.

Ma quale repubblica parlamentare? La nostra è una repubblica giudiziaria, scrive il 19 ottobre 2016 Francesco Damato su "Il Dubbio". Da 24 anni il Parlamento si è piegato al potere togato. Da quando Scalfaro decise che per formare il governo si doveva consultare il Procuratore di Milano...È un vero spreco di energie quello che si sta facendo nella campagna referendaria in difesa della Repubblica parlamentare voluta dai costituenti e minacciata, secondo gli avversari di Matteo Renzi, dalla sua riforma. Che farebbe diventare la Repubblica "oligarchica", ha sentenziato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky fra la sorpresa e le proteste di Eugenio Scalfari, convinto che l'oligarchia, intesa però solo come "classe dirigente", sia compatibile con la democrazia. In fondo - si potrebbe dire seguendo il ragionamento filologico di Scalfari - anche il Parlamento è oligarchico, poco importa se composto di quasi 1000 esponenti, come oggi, o di 730, come avverrebbe con l'approvazione della riforma. Alternativa all'oligarchia, sempre secondo il ragionamento di Scalfari, sarebbe la dittatura, non la Repubblica parlamentare che i critici di sinistra della riforma sentono minacciata. I critici di destra invece, preferendo la Repubblica presidenziale, ritengono che nella Costituzione riformata da Renzi rimanga ancora troppa Repubblica parlamentare, in cui i poteri del capo dello Stato e del presidente del Consiglio rimangono invariati. Eppure questi stessi critici di destra, convergendo con quelli di sinistra, accusano Renzi di avere voluto e portato a casa col cosiddetto Italicum una legge elettorale su misura delle sue ambizioni di potere: una legge peraltro ch'egli non difende più con l'ostinazione di qualche mese fa, disponendosi a cambiarla, ma anche prevedendo che potrebbe essere modificata da interventi della Corte Costituzionale, com'è accaduto alla legge precedente voluta dal centrodestra. Ma sono proprio sicuri, a sinistra e a destra, di vivere ancora in una Repubblica parlamentare, rispettivamente, da difendere o da superare? Né da una parte né dall'altra sembrano essersi resi conto che da almeno 24 anni, come documenteremo, viviamo in una Repubblica giudiziaria. Eppure a destra, almeno dalle parti di Silvio Berlusconi, è sistematico il richiamo al ruolo smisurato assunto dalla magistratura, alla quale la politica si arrende sistematicamente, anche dopo essersi proposta, come con Renzi appena approdato a Palazzo Chigi, di riprendersi il proprio "primato". Il fresco rinvio a dopo il referendum del 4 dicembre della riforma del processo penale dopo le proteste dell'associazione nazionale dei magistrati parla da solo. Non è soltanto la "società" ad essere diventata "giudiziaria", come ha lamentato l'ex presidente della Camera Luciano Violante commentando le recenti assoluzioni, nei tribunali, di troppi politici condannati invece nei processi mediatici avviati con gli avvisi di garanzia. Purtroppo è la Repubblica, con le istituzioni di vario livello, ad essere diventata giudiziaria, senza che la sinistra e la destra, alternatesi al governo o addirittura associatesi nelle cosiddette larghe intese, abbiano saputo o addirittura voluto porvi rimedio. Il primo passaggio dalla Repubblica parlamentare a quella giudiziaria risale al 1992, quando i magistrati di Milano impegnati nelle indagini sul finanziamento illegale dei partiti protestarono contro l'ipotesi di una commissione d'inchiesta parlamentare, appunto, su quel fenomeno generalizzato. Il Parlamento vi rinunciò, dopo avere indagato su tutto: dalle banane alla mafia, da Sindona alla P2, dalla costruzione dell'aeroporto di Fiumicino ai soccorsi nell'Irpinia terremotata. Il secondo passaggio lo indicherei nella decisione di Oscar Luigi Scalfaro, fresco di insediamento al Quirinale, sempre nel 1992, di estendere al capo della Procura della Repubblica di Milano le consultazioni per la formazione del primo governo dopo il rinnovo del Parlamento. Seguì l'anno dopo il rifiuto, sempre di Scalfaro, peraltro ex magistrato, di firmare un decreto legge approvato dal primo governo di Giuliano Amato, e contestato dal capo della Procura milanese, sempre lui, per la cosiddetta "uscita politica", e non solo giudiziaria, da Tangentopoli. Eppure quel decreto legge era stato varato in una lunghissima riunione del Consiglio dei Ministri, più volte interrotta per consultazioni fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale sugli articoli via via esaminati. E sul provvedimento uscì la mattina dopo un commento positivo di Eugenio Scalfari, prima che arrivassero il pronunciamento della Procura ambrosiana e l'annuncio del rifiuto del capo dello Stato di firmare. Il 1993 fu anche l'anno della modifica a tamburo battente dell'articolo 68 della Costituzione per togliere dalle immunità parlamentari la richiesta delle "autorizzazioni a procedere" nelle indagini. Ma già degli indagati eccellenti come Giulio Andreotti, intimiditi dagli umori di quella che Violante chiamerebbe "la società giudiziaria", avevano votato a scrutinio palese a favore dei processi a loro carico. Su Bettino Craxi erano state già buttate monetine, accendini, ombrelli in piazza, e i ministri del Pds-ex Pci erano usciti dal governo di Carlo Azeglio Ciampi per protesta contro la Camera -ripeto, contro la Camera, e quindi contro il Parlamento- per avare concesso a scrutinio segreto non tutte ma solo alcune delle autorizzazioni a procedere chieste da varie Procure contro il leader socialista. Un cappio infine era già stato sventolato nell'aula di Montecitorio dai leghisti, che si sentivano gli interpreti più autentici delle toghe. La musica non migliorò, anzi peggiorò decisamente l'anno dopo col primo governo del pur garantista Silvio Berlusconi. Che esordì offrendo il Viminale ad Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo allora delle indagini sui politici. Poi il Cavaliere si arrese ai leghisti, sempre loro, presenti nel suo governo col ministro dell'Interno Roberto Maroni e arresisi a loro volta alla protesta corale, con minacce di dimissioni, dei magistrati della Procura milanese, sempre loro, contro un decreto legge che limitava il ricorso alle manette durante le indagini preliminari. Eppure a quel decreto Scalfaro aveva fornito la propria firma senza fare storie. Ed erano seguite alcune scarcerazioni. Le proteste della Procura ambrosiana fecero scoprire a Maroni, pur avvocato, parti del provvedimento che aveva sottoscritto, per sua penosa ammissione, senza rendersene conto. Il decreto fu lasciato decadere, senza peraltro che Berlusconi riuscisse dopo pochi mesi ad evitare la caduta del suo governo per mano proprio della Lega sul terreno già allora scivoloso della riforma delle pensioni, anche se è ancora opinione diffusa che la causa della crisi fosse stata un avviso giudiziario a comparire per corruzione: avviso anticipato dal Corriere della Sera e notificato al presidente del Consiglio mentre faceva col sindaco di Napoli Antonio Bassolino, che ha rievocato recentemente la vicenda in una intervista a Il Dubbio, gli onori di casa ai partecipanti ad una conferenza delle Nazioni Unite sulla lotta alla criminalità organizzata. Per assistere a qualche serio, per quanto insufficiente, tentativo di liberare la Repubblica parlamentare dall'assedio giudiziario si sono dovuti aspettare gli anni di Giorgio Napolitano al Quirinale, dopo che la Procura di Palermo ne aveva clamorosamente violato la riservatezza garantitagli dalla Costituzione intercettandolo al telefono, sia pure "accidentalmente", con Nicola Macino, allora indagato e oggi imputato di falsa testimonianza nel processo in corso da più di tre anni sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Poi la Procura resistette alla richiesta di distruggere le intercettazioni, peraltro ritenute irrilevanti ai fini processuali dagli stessi inquirenti, senza passare per un'udienza che ne avrebbe potuto compromettere la segretezza. Il buon Napolitano, per non lasciare compromesse ai suoi successori - come tenne a spiegare con un comunicato- le prerogative del presidente della Repubblica, anch'esse minacciate da un esercizio invasivo delle funzioni giudiziarie, dovette clamorosamente ricorrere alla Corte Costituzionale. Che gli diede ragione. Ma una rondine, si sa, non fa primavera. Napolitano è ormai un presidente emerito. E il suo successore è già alle prese con l'ipotesi di rendere testimonianza pure lui a quello stesso processo, la cui sola durata è un'enormità. Il riscatto della Repubblica parlamentare dagli assedi giudiziari, altro che dai presunti assalti di Renzi, deve ancora venire. Non è un caso che il presidente del Consiglio abbia deciso di portarsi appresso alla Casa Bianca, per la cena di commiato dal presidente uscente degli Stati Uniti, anche il magistrato Raffaele Cantone, che come capo dell'Autorità anticorruzione è stato considerato fra le personalità più rappresentative dell'Italia, accanto a Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, lo stilista Giorgio Armani la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, la campionessa paralimpica Bebe Vio, la direttrice del Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, e l'architetta Paola Antonelli, del Museo internazionale dell'arte moderna.

IL 2016 ED I FLOP GIUDIZIARI.

I flop giudiziari del 2016, tra “prove inadeguate” e “suggestioni mediatiche”. Dal proscioglimento di Ilaria Capua all’assoluzione di Calogero Mannino. Quando la giustizia non funziona, scrive il 2 Gennaio 2017 “Il Foglio”. Si è concluso un anno costellato da innumerevoli flop giudiziari. Ecco un breve riepilogo dei principali casi emersi nel corso del 2016.

Gennaio. A essere protagonista del primo flop dell’anno è Luigi de Magistris, ex pubblico ministero di Catanzaro, oggi sindaco di Napoli. Il 13 gennaio, infatti, vengono assolti tutti i politici imputati nel processo per associazione a delinquere scaturito dalla maxi inchiesta “Why not”, sui presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria. Passano alcuni giorni e la quinta sezione penale del tribunale di Napoli annulla, dopo otto anni, il rinvio a giudizio nei confronti dell’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, anche qui per presunta associazione a delinquere. L’inchiesta portò alla caduta del governo Prodi, ma per i giudici è viziata addirittura da “indeterminatezza della descrizione del fatto”. Dopo cinque anni di calvario, infine, il gup di Catania archivia l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa a carico dell’ex senatore Nino Strano (Pdl).

Febbraio. Il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, viene assolto in appello dall’accusa di abuso d’ufficio nel processo relativo alla costruzione di un termovalorizzatore (assoluzione che verrà confermata dalla Cassazione in settembre). La condanna in primo grado aveva determinato la sua sospensione da governatore per effetto della legge Severino. Sempre a febbraio, il senatore Salvatore Margiotta (Pd) viene assolto in Cassazione dall’accusa di corruzione e turbativa d’asta per degli appalti relativi alla costruzione del centro petrolifero Tempa Rossa in Basilicata. Dopo la sentenza di secondo grado si era autosospeso dal partito e si era dimesso da vicepresidente della commissione di Vigilanza Rai.

Marzo. La Cassazione smentisce le accuse contro l’imprenditore Andrea Bulgarella, ritenuto dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze colpevole di aver commesso reati finanziari con l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra. Ercole Incalza, ex dirigente del ministero delle Infrastrutture e Trasporti, viene prosciolto in un’inchiesta per corruzione relativa alla Tav di Firenze. Per lui è la quindicesima assoluzione in quindici processi. Paolo Cocchi, ex sindaco di Barberino ed ex assessore regionale toscano alla Cultura, Turismo e Commercio, viene assolto dalla Cassazione dall’accusa di corruzione dopo sei anni di accanimento giudiziario. Nel frattempo ha abbandonato la carriera politica e ha cominciato a fare il pasticcere.

Aprile. Vengono tutti assolti in primo grado – nel silenzio quasi unanime degli organi di informazione – i dirigenti e i funzionari del ministero dell’Agricoltura accusati tre anni e mezzo prima di aver costituito una “cricca” per la spartizione dei fondi pubblici. Tra gli imputati c’è chi, come Ludovico Gay, ha trascorso 120 giorni in carcere in stato di semi isolamento. A Salerno vengono tutti assolti i sei imputati accusati di aver ordito un complotto per far sì che le inchieste “Why not” e “Poseidone” fossero sottratte a Luigi de Magistris quando questi era pm di Catanzaro.

Maggio. La Corte d’appello di Palermo conferma l’assoluzione nei confronti dell’ex generale dei carabinieri Mario Mori e del colonnello dei carabinieri Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. La Corte di Cassazione scrive la parola fine sul processo per l’urbanizzazione dell’area di Castello a Firenze, durato otto anni, annullando la condanna a carico dell’ex patron di Fondiaria Sai, Salvatore Ligresti, e gli altri imputati, tra cui gli ex assessori comunali Gianni Biagi e Graziano Cioni. Dopo quattro anni di indagini e processi, Antonio Conte viene assolto dall’accusa di frode sportiva per una presunta combine.

Giugno. La Corte d’appello di Bologna assolve l’ex presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, dall’accusa di falso ideologico nel processo d’appello bis per il caso “Terremerse”. La travagliata vicenda giudiziaria, durata sei anni, nell’estate del 2014 aveva portato Errani alle dimissioni da governatore.

Luglio. Ilaria Capua, ricercatrice di fama internazionale e deputata di Scelta civica, viene prosciolta dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus. Per due anni è stata dipinta da alcuni giornali, in particolare L’Espresso, come una pericolosa “trafficante di virus”. Due mesi dopo, la Camera dei deputati accetterà la sua richiesta di dimissioni da deputata. Sempre a luglio, viene assolto, in uno dei filoni del processo Mafia Capitale, Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Agosto. Scoppia la polemica per una foto pubblicata dal Giornale che ritrae Simona Merra, pm della procura di Trani e componente del pool che cura l’inchiesta sull’incidente ferroviario avvenuto tra Andria e Corato un mese prima, in compagnia dell’avvocato del capostazione indagato, intento a baciare scherzosamente i piedi del magistrato. All’annuncio dell’apertura di una pratica da parte del Consiglio superiore della magistratura, il magistrato decide di lasciare l’inchiesta.

Settembre. E’ il mese del “concorso esterno”. Vengono infatti scagionati dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, in procedimenti separati, il deputato Luigi Cesaro (Fi), il senatore Antonio D’Alì (sempre Fi), dopo un rito “abbreviato” durato sei anni, e il consigliere regionale Stefano Graziano, che a causa dell’inchiesta si era dimesso da presidente del Pd campano. E mentre Vincenzo De Luca incassa una nuova assoluzione, stavolta nel processo “Sea Park” per le accuse di associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio (che gli erano costatate l’attributo di “impresentabile” alle elezioni amministrative), nel processo Mafia Capitale viene chiesta l’archiviazione della posizione dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, per il reato di associazione di stampo mafioso.

Ottobre. L’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, viene assolto dalle accuse di truffa e peculato nell’inchiesta che aveva contribuito alla sua caduta dalla poltrona più alta del Campidoglio nell’ottobre 2015. Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, viene assolto insieme ad altre quindici persone dall’accusa di truffa per le cosiddette “spese pazze” in regione (le famose mutande verdi). Continua a crollare il castello accusatorio del processo Mafia Capitale, con la richiesta, da parte della stessa procura romana, dell’archiviazione per 116 indagati. Ercole Incalza viene scagionato per la sedicesima volta, stavolta per associazione a delinquere e svariate altre accuse nell’inchiesta “Grandi opere”. La Corte d’appello di Perugia assolve, nel processo di revisione, il somalo Hasci Omar Hassan dall’accusa di avere partecipato all’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin nel 1994. Omar Hassan, che si è sempre proclamato innocente, ha scontato in carcere sedici dei ventisei anni che gli erano stati inflitti nel 2002. Vengono depositate, dopo un anno, le motivazioni della sentenza con cui Calogero Mannino è stato assolto nel processo con rito abbreviato sulla presunta trattativa stato-mafia: prove “inadeguate” ed “enorme suggestione mediatica”.

Novembre. Sandro Frisullo, ex vicepresidente della giunta regionale pugliese guidata da Nichi Vendola, viene assolto dopo sei anni dall’accusa di turbativa d’asta per presunti appalti truccati nel settore sanitario. Per questa vicenda aveva trascorso cinque mesi in carcere e agli arresti domiciliari.

Dicembre. La Cassazione annulla con rinvio la condanna nei confronti dell’ex governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco, per associazione per delinquere nell’inchiesta sulla sanità abruzzese. La procura di Pavia apre una nuova inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, per il quale è stato condannato in via definitiva Alberto Stasi, dopo le rivelazioni sull’individuazione di campioni di Dna appartenenti a un’altra persona sul corpo della vittima.

Non voltarti indietro. Quando la Giustizia è colpevole. “Chi subisce una pena ingiusta, non ne esce più”, scrive Claudio Rosmino il 31 12 2016 su “Euronews”. A raccontare la sua esperienza di malagiusitizia è Daniela Candeloro, commercialista, assolta, nel 2013, dalle accuse di bancarotta, riciclaggio, associazione a delinquere e appropriazione indebita, dopo aver trascorso quattro mesi e mezzo in cella e altri 7 mesi e mezzo agli arresti domiciliari. E’ una delle cinque storie raccontate dal docufilm di Francesco Del Grosso “Non voltarti indietro”. Gli altri compagni di questa odissea nell’ingiustizia sono tutte persone comuni: l’impiegato delle poste Vittorio Raffaele Gallo, lo stilista Fabrizio Bottaro, l’assessore comunale Antonio Lattanzi e la dipendente pubblica Lucia Fiumberti. Cortocircuiti della giustizia che hanno portato in carcere cittadini innocenti, riconosciuti come tali solo dopo lunghe sofferenze e battaglie legali. Dal 1992 a oggi, almeno mille innocenti sono stati incarcerati ogni anno. Ingiustamente. Lo Stato italiano ha speso, in totale, più di 600 milioni di euro in risarcimenti per errori giudiziari e ingiuste detenzioni. All’origine di questo “j’accuse” nei confronti della giustizia italiana vi sono i contenuti di errorigiudiziari.com, sito ideato e realizzato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, in collaborazione con l’avvocato Stefano Oliva. “Non voltarti indietro” è stato presentato in una quindicina di festival cinematografici, ricevendo ovunque ottimi riscontri. Recentemente ha ottenuto importanti apprezzamenti anche dal pubblico del festival del cinema italiano di Tolosa, “Rencontres du Cinéma Italien”. Il documentario si apre col momento dell’arresto, raccontato dai diretti protagonisti, e tutto quanto ha fatto seguito: il trasferimento alla prigione, senza conoscere neanche l’accusa; la vita in cella, le relazioni con quel mondo nuovo e con gli altri detenuti; come mantenere l’equilibrio psicologico, come trovare il cammino verso la giustizia e, alla fine, verso la libertà. Impossibile per lo spettatore non identificarsi con una delle diverse umanità dei protagonisti: Antonio, che decide di marcare l’anno nero della sua vita con qualcosa di positivo, e chiede alla moglie di fare un figlio non appena sarà uscito di prigione; Daniela, che dopo la sera dell’arresto, non potrà più sopportare il suono del campanello di casa; Vittorio che ha perso lavoro e moglie in seguito a causa della vicenda che lo ha investito. Il ritmo della narrazione è incalzante, si vive il dramma in diretta. La telecamera scruta i volti delle vittime con intensi primi piani, alternati a piani laterali in chiaro scuro che accentuano la sensazione di drammaticità. Il montaggio e la musica accompagnano con coerenza e rispetto lo sviluppo delle storie. Quando l’ingiustizia sfuma verso un ritorno della giustizia, la luce diventa protagonista, i personaggi concludono all’aria aperta la loro storia per simbolizzare il ritorno alla libertà. Le loro cicatrici, invece, resteranno dentro di loro nonostante il “lieto fine”, nonostante i risarcimenti economici. Perché fin dalla prima immagine di “Non voltarti indietro” è chiaro che “chi subisce una pena ingiusta, non ne esce più”.

Errori giudiziari, in 24 anni 24 mila innocenti in cella. Costa: «Numeri patologici». Docufilm dall’idea di due giornalisti e un avvocato. Cifre sconcertanti: dal 1992 lo Stato ha pagato 630 milioni per ingiusta detenzione. A Napoli record-indennizzi: 144 casi nel 2015. A Torino «solo» 26. Le disavventure di gente famosa e cittadini sconosciuti, scrive Alessandro Fulloni il 31 12 2016 su "Il Corriere della Sera”. Nomi e cognomi. Condanne. Poi il dietrofront: ci siamo sbagliati, siete liberi. In Italia è successo 24 mila volte a partire dal 1992, quando venne introdotto l’istituto per la riparazione per ingiusta detenzione. In cella tanti sconosciuti: Fabrizio Bottaro, designer di moda, accusato di rapina, un mese in carcere, 9 ai domiciliari: assolto perché il fatto non sussiste. Daniela Candeloro, commercialista, 4 mesi e mezzo in carcere, 7 e mezzo ai domiciliari per bancarotta fraudolenta: assolta con formula piena dopo un processo di 6 anni. Lucia Fiumberti, dipendente provinciale, arrestata per falso in atto pubblico, 22 giorni di custodia cautelare: assolta per non aver commesso il fatto. Vittorio Raffaele Gallo, dipendente delle Poste, 5 mesi di carcere, 7 ai domiciliari per rapina: assolto per non aver commesso il fatto dopo 13 anni. Antonio Lattanzi, assessore comunale, arrestato per tentata concussione e abuso d’ufficio 4 volte nel giro di due mesi, 83 giorni di carcere: sempre assolto. Non mancano volti noti, se non celeberrimi: Enzo Tortora, Lelio Luttazzi, le attrici Serena Grandi e Gioia Scola. Bisogna partire da questo sconfinato elenco per inquadrare «Non voltarti indietro», un docufilm presentato ai festival di Pesaro e di Ischia, incentrato sulle storie di 5 vittime di errori giudiziari, scelte fra le centinaia e centinaia di casi che ogni anno si verificano in Italia. «Numeri patologici» li definisce il ministro agli Affari Regionali Enrico Costa che li ha resi noti annualmente, sin da quando era vice ministro alla Giustizia sempre nel governo Renzi. I loro nomi e le accuse compaiono alla fine, prima dei titoli di coda. Perché in fondo la sostanza di quelle accuse è falsa, non esiste. Esiste, invece, il viaggio materiale, psicologico e umano che una persona che sa di essere innocente compie quando è privata della libertà. Un’esperienza che chiede di non voltarsi indietro, appunto, anche se certi segni - l’ansia per gli spazi chiusi, alla vista di un furgone della penitenziaria o del lampeggiante di una sirena - non si possono cancellare. Storie che sono tratte dal sito errorigiudiziari.com curato da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, e un avvocato, Stefano Oliva. Tutte e tre romani. Tutti e tre sulla cinquantina. E tutti liceali negli stessi anni nello stesso classico, il Giulio Cesare di Roma: amici che si appassionarono al caso che vide ingiustamente arrestato per la violenza nei confronti della figlia, una bimbetta di anni, un professore di matematica, Lanfranco Schillaci. Era il 23 aprile 1989. Si scoprì poi che quei lividi sul corpicino della piccola erano dovuti a una patologia tumorale che ne causò la morte tempo dopo. E non ad abusi. Una vicenda di cui si parlò nelle case di tutta Italia. Prima per il delitto commesso dal presunto mostro. Poi per le conseguenze del clamoroso abbaglio giudiziario. Lattanzi e Maimone successivamente raccolsero le storie in un saggio edito da Mursia - «Cento volte ingiustizia» - poi «aggiornato» nel sito, divenuto un imponente e aggiornatissimo database che non ha eguali in Europa. Ma prima del film ci sono i numeri. Sconcertanti. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione. Il docufilm, attraverso le storie dei protagonisti, racconta tutte e due le facce della medaglia. Dove non arrivano le immagini 8girate da Francesco Del Grosso che ha diretto il docufilm) nelle carceri e le interviste, scelte e montate con ritmo narrativo e supportate dalle musiche originali di Emanuele Arnone, sono i disegni di Luca Esposito a ricostruire le vicende di malagiustizia.

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che dà conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

L’ITALIA SPORCA AL CINEMA: SESSO, DROGA E CORRUZIONE.

Sesso, droga, corruzione. L’Italia sporca…al cinema, scrive il 09/01/2017 Giuditta Elettra Lavinia Nidiaci su "Il Giornale". La corruzione ci attende sempre dietro l’angolo, pronta a saccheggiare e insidiare l’Italiamediante un cospicuo campo minato, ad infestare i tg come una scia chimica, come nelle più recenti notizie. A raccontarla ci ha pensato anche il grande schermo, sputandoci in faccia immagini talvolta spettacolari ed impattanti, di quelle storie che solo apparentemente sembrano finzione. Menzione inevitabile, quando si parla del sacco di Roma, è quella di Suburra, film del 2015 di Stefano Sollima (regista anche di ACAB – All Cops Are Bastards e delle serie televisive Romanzo criminale e Gomorra), che dipinge il nero più nero della capitale, la cui triste attualità è destinata a perdurare: Roma diviene il tragico teatrino non solo di una classe politica ammarcita, bensì anche del tessuto sociale che le gravita intorno: uomini potenti e meno potenti, dal Vaticano alle strade battute da escort e PR come arrampicatori sociali, luoghi in cui cade una pioggia incessante, “leitmotiv” di tutto il film, che non lava via il male. “Non devo essere io a rassicurare il pubblico, dev’essere lo Stato, quella sullo schermo è solo la rappresentazione della realtà, la cosa terribile è quando succede davvero: è quello che deve farci indignare” dichiarava il regista nel luglio del 2015, pochi mesi prima dell’uscita del suo film; “Suburra risponde a una domanda: dopo Romanzo criminale Roma oggi com’è? Non mi sorprende che il film si sia sovrapposto con l’indagine della magistratura e le inchieste giornalistiche, quando indaghi sui meccanismi, ti trovi a stare parallelo alla realtà”. Una sorta di gangster movie, un film metropolitano dal gusto a tratti noir. C’è poi Il ministro di Giorgio Amato, recentissimo film del 2016, che si fa forte dell’espressività di Gian Marco Tognazzi per raccontare con amara ironia monicelliana il rovescio di una parabola confezionata a puntino per corrompere: una serata organizzata da uno scaltro imprenditore “in onore” del ministro, durante la quale il più bieco clientelismo viene deriso e stravolto dalle dinamiche relazionali dei personaggi: sesso e identità di genere si mischiano alla politica, in un affresco di esistenzialismo patinato. Ecco infine che anche i fratelli Vanzina, ben lontani da raccontare gli yuppie con il Rolex degli anni ’80, portano sul grande schermo la loro Mafia Capitale: il loro ultimo Non si ruba a casa dei ladri rivela le due facce della medaglia della società, una onesta e l’altra disonesta, nella quale la prima inizialmente soccombe alla seconda per mano della politica: magistrale l’interpretazione di Fabrizio Buompastore del tronfio onorevole Maronaro, affiancato dalla sfrontatezza del faccendiere Simone Santoro, interpretato da Massimo Ghini. Il film si risolve in un esilarante intreccio ad esito “karmico”, forte della dimestichezza dei Vanzina con la commedia. Cosa accade quando invece è il cinema ad anticipare i risvolti della società, addirittura a prevederli? E’ il caso di film di grande impegno civile come Le mani sulla città di Francesco Rosi, che porta con sé un messaggio purtroppo sempre attuale: il film, vincitore nel 1963 del Leone d’Oro a Venezia, è approdato in home video nel novembre del 2014, appena un paio di settimane prima che si accendesse la miccia di Mafia Capitale, la pellicola in questione ci appare quindi profetica, come se lo stesso Rosi fosse un veggente pronto a sollevare il velo di Maya: un pilastro di denuncia della corruzione, della speculazione edilizia italiana degli anni ’60, un male incancrenito tutt’ora restio a regredire, una malavita eternamente imperante. Mafia Capitale è la più lampante dimostrazione che un film come Le mani sulla città ancora stride di un’attualità malata, perché, proprio come sosteneva Schopenhauer, la storia è non altro che il ripetersi del medesimo dramma.

IL PROIBIZIONISMO E LO STATO PATERNALISTA.

Lavagna, sedicenne si getta dalla finestra di casa e muore durante una perquisizione, scrive Stefano Origone il 13 febbraio 2017 su "La Repubblica". Un mese senza calcio perché andava male a scuola. La guardia di finanza che perquisisce la sua camera alla ricerca di droga dopo che gli erano stati trovati in tasca una decina di grammi di hashish durante i controlli all'uscita dell'istituto scolastico di Lavagna che frequentava. Si è sentito perduto davanti alla mamma che piangeva e si sentiva colpevole di non aver fatto abbastanza quando ha iniziato a sospettare che il rendimento scolastico del figlio fosse calato per via della droga. Divise militari, l'auto con il lampeggiante acceso sottocasa. La gente che mormora in piazza. Il rischio di una segnalazione in prefettura come consumatore di sostanze stupefacedenti. Marchi indelebili per Carlo (il nome è di fantasia per tutelare il minore e la sua famiglia) che non ha retto il peso della vergogna e di aver tradito la fiducia dei genitori. Si è tolto la vita a 16 anni, lanciandosi dalla finestra della sua abitazione di Lavagna. Tutto è iniziato in mattinata durante un controllo anti droga a scuola. Gli trovano una decina di grammi di hashish. Scatta il sequestro e i finanzieri avvisano i genitori per convocarli a casa poiché, come è previsto, deve essere eseguita una perquisizione. Il ragazzo rischiava solo una segnalazione al prefetto. In casa, la perquisizione dà esito negativo. I due finanzieri, secondo una prima ricostruzione, stavano parlando con i genitori quando il ragazzo ha aperto la finestra e si è lanciato dal terzo piano. Era ancora vivo quando è stato soccorso. Viene chiamato l’elicottero per un trasporto urgente al San Martino. La Finanza carica in auto i genitori e si dirige al pronto soccorso. Ma quando l’ambulanza arriva all’appuntamento con l’elicottero il sedicenne è già morto. "Se si poteva evitare la perquisizione? E' d'obbligo in tutti i casi e ancora di più in caso di un minore, il nostro compito è tutelarlo", interviene il tenente colonnello Emilio Fiora, comandante del Primo Gruppo della Guardia di Finanza da cui dipende la compagnia di Chiavari che ha eseguito i controlli nell'abitazione del giovane. Certo è che la morte del ragazzo, riapre il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere. "Chi glielo spiega ora, ai genitori del sedicenne di Lavagna, cui erano stati sequestrati dieci grammi di hashish, che la normativa sulle sostanze stupefacenti mira a tutelare la salute e l'integrità fisica e psichica dei giovani? Legalizzare i derivati della cannabis". Lo dichiara il senatore del Pd, Luigi Manconi.

I dieci grammi del ragazzo di Lavagna e i miliardi della mafia. Il suicidio è un gesto privato, ma le responsabilità sono pubbliche, scrive Roberto Saviano il 15 febbraio 2017 su "La Repubblica". Ha sedici anni e all'uscita da scuola viene perquisito dalla Guardia di Finanza. Ha addosso dieci grammi di hashish, i classici cinquanta euro di fumo che comprano i ragazzi. Avrebbe ammesso di averne ancora un po' a casa. Quindi la Guardia di Finanza perquisisce la sua cameretta ed effettivamente trova, dove lui stesso aveva indicato, altro fumo. La cronaca ci dice che il ragazzo, durante la perquisizione o mentre uno dei finanzieri stava parlando con sua madre, si alza dal divano dove era seduto, apre la finestra e si butta giù, dal terzo piano. Viene trasportato in elicottero in ospedale, ma non ce la fa. Muore. I fatti sono questi. Forse è utile localizzare l'evento per un solo dato: Lavagna è un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Genova. A Lavagna ci si conosce un po' tutti e magari il peso di ciò che la comunità pensa di te ancora si sente forte, fortissimo. Posso ipotizzare che in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino. Questi i fatti a cui non mi va di aggiungere dettagli emotivi. Inutile parlare di quelli che noi presumiamo essere i rapporti con la famiglia: questo non è un romanzo e quindi guardiamoci dall'interpretare i pensieri del ragazzo e dal riempire il vuoto di parole che crediamo siano state pronunciate ma che non hanno, ai fini della nostra valutazione, alcun peso. Concentriamoci, invece, sulle responsabilità politiche che si celano dietro un gesto privato. Concentriamoci sui motivi che portano i media a interessarsi di droga solo quando ci sono sequestri enormi, arresti eccellenti o morti tragiche come questa. Interroghiamoci su cosa uno Stato paternalista possa davvero fare per salvare vite. Concentriamoci sul fallimento della proibizione in materia di stupefacenti, in ogni luogo e in ogni tempo. E mentre scrivo ho davanti agli occhi il corpo martoriato di Stefano Cucchi e in mente i motivi che hanno condotto al suo arresto. Il 15 ottobre 2009, Cucchi viene fermato dai Carabinieri perché era stato visto cedere droga in cambio di soldi. Lo portano in caserma e addosso gli trovano 21 grammi di hashish, divisi in 12 confezioni, e tre dosi di cocaina. Durante la custodia cautelare accade quello su cui da anni si cerca di fare chiarezza. Perché ho citato Cucchi? Per un motivo preciso. Stefano muore dopo una settimana, mentre è affidato allo Stato Italiano. Stefano muore perché trattato da tossico, da spacciatore, non mancano al riguardo commenti agghiaccianti. Ricordo Giovanardi che disse che tra spacciatori e carabinieri sceglieva i carabinieri, di fatto fotografando un clima da guerra civile tanto assurdo quanto ingiustificato. E poi il "mi fai schifo" di Salvini rivolto a Ilaria Cucchi che aveva deciso, coraggiosamente, di mostrare le immagini terribili del corpo martoriato di suo fratello. Ma cosa ha raccontato, al nostro Paese, la morte di Stefano Cucchi? Che se sei uno spacciatore e un tossico meriti di morire. E che se ti trovano in possesso di droga, sei una merda e ti sei rovinato la vita. La tua e quella della tua famiglia. Non c'è appello. Non c'è possibilità di riscatto. È questo che hanno raccontato la morte di Federico Aldrovandi e poi quella di Stefano Cucchi. Ecco perché oggi, di nuovo e con urgenza, dobbiamo riflettere sulla necessità di avviare un dibattito parlamentare serio sulla legalizzazione della cannabis e lo facciamo ancora una volta sul corpo di un altro ragazzo la cui vicenda solo apparentemente non c'entra nulla con le altre che ho citato. In realtà con loro ha in comune il contesto, un contesto che condanna senza processo. Ma ci pensate mai? Solo alla presenza di un corpo morto, ci si distrae per un attimo dalla politica fatta di messaggi mandati via chat intercettati, interpretati, smentiti e per qualche ora si raccolgono idee e dichiarazioni per dirci quanto anche sulla legalizzazione delle droghe l'Italia sia in colpevole ritardo. Poi si seppellisce il corpo e tutto torna alla normalità. E intanto stupisce l'impiego di una tale solerzia militare su un sedicenne, è ovvio che si tratta di procedure, ma non ci si può esimere dal constatare la spropositata attenzione in questo caso su un dettaglio, rispetto al problema. E anche qui si tratta di valutazione politica e non militare. Di valutazioni generali che prescindono dalle responsabilità dei singoli. Che prescindono dal numero di finanzieri che hanno effettuato la perquisizione, ma hanno a che fare con una logica doppia che non può non saltare all'occhio. Da dove arriva il fumo che si spaccia a Lavagna? Da quelle piazze di spaccio a cielo aperto delle periferie romane o napoletane dove le forze dell'ordine hanno difficoltà a effettuare i seppur minimi controlli. E le scuole di mezza Italia, oggi come ieri, sono piazze di spaccio dove arriva qualunque tipo di droga. Allora mi domando: ha più senso tracciare il fumo prima che arrivi nelle mani dei sedicenni o ha più senso punire il sedicenne consumatore? E ancora: è più accettabile che un sedicenne possa acquistare fumo in un coffee shop o da spacciatori che hanno anche altro da vendere e soprattutto hanno a che fare con un sottobosco criminale dal quale sarebbe consigliabile tenersi alla larga? Il fumo che si spaccia davanti alle scuole, nelle discoteche, negli stadi e ovunque ci siano ragazzi è fornito dai cartelli criminali. Il problema sono loro o sono gli studenti che fumano? Si dirà: ma se non parti dal piccolo come arrivi al grande? Questo non è assolutamente vero, perché il rischio è che si parta dal piccolo per fare gran numero di fermi e di perquisizioni, perché arrivare alla gestione delle basi è molto complicato. Si parte dal piccolo spacciatore per rimanere al piccolo spacciatore. Per smantellare piazze di spaccio si rischia di lavorare a vuoto per mesi. E invece ci vogliono fatti concreti, bisogna fare numero, fermi, droga perquisita, grammi su grammi da comunicare nei dati che a fine anno verranno pubblicati affinché l'opinione pubblica si convinca che le forze dell'ordine fanno il loro lavoro. Quando Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi hanno avuto il coraggio di mostrare le immagini dei volti tumefatti di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, io ho sentito verso di loro enorme gratitudine. Lo hanno fatto, certo, per un figlio, per un fratello, morti in circostanze odiose, ma lo hanno fatto anche perché sapevano che i diritti si ottengono utilizzando corpi, corpi che diventano campi di battaglia. Oggi però mi assale lo sconforto nel constatare che il corpo morto, quello senza vita (che sia il corpo del piccolo Aylan trovato esanime sulla costa turca, quello di Federico o quello di Stefano) ci indigna, ci fa incazzare, rabbrividire, commuovere, ma ci restituisce anche la tristissima consapevolezza che ormai più nulla è dato fare. Che oltre la morte non c'è più niente. Che ogni nostro gesto, ogni nostra azione è ormai vana. La nostra distrazione è quindi giustificata, naturale conseguenza, quasi ovvia, scontata, dovuta. Normale. Chi si occupa di mafie questo lo sa bene: non si spiegherebbe altrimenti l'indifferenza ai morti in terra di camorra, morti giovani, minorenni, morti innocenti, morti colpevoli. E penso a Marco Pannella e all'intuizione che ha avuto, intuizione geniale, da politico di razza, sulle battaglie politiche, che andavano necessariamente condotte utilizzando il corpo vivo, il suo corpo vivo. Gli scioperi della fame per i detenuti e la distribuzione di marijuana e cannabis. Oggi prendiamo la sua eredità perché è sui corpi dei vivi che vanno combattute e vinte le battaglie. Dei corpi morti ci dimentichiamo in poco tempo. È il suo metodo che dobbiamo utilizzare, un metodo analitico che dal particolare va subito all'universale e non indugia sui turbamenti intimi dell'animo umano, ma punta dritto alle responsabilità collettive e su quello che c'è da fare. Qui, dunque, non è minimamente in discussione l'incapacità che un sedicenne ha, per inesperienza, di relativizzare ciò che gli accade, ma la necessità di porre seriamente le basi perché gli innocenti, ma anche i colpevoli, non vengano condannati a morte dalla pubblica morale. E se il decesso di Stefano Cucchi è stato procurato, il ragazzo di Lavagna ha anticipato il giudizio sociale e, in una manciata di minuti, si è autoprocessato, si è trovato colpevole, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudicarlo. Non giriamoci troppo attorno, lui è l'ennesima vittima di un sistema criminogeno, di un sistema che non funziona per calcolo, inerzia, incompetenza, comodità. E rendiamoci conto che uno Stato paternalista, che pretende di preservare i suoi figli vietando, è uno Stato destinato a fare un numero incalcolabile di vittime e che regala alle organizzazioni criminali un mercato stimato tra 4 e 9 miliardi di euro all'anno. Questo è il valore della cannabis consumata. Smettiamo, quindi, di fare regali alle mafie e legalizziamo, ora. Legalizziamo. Anzi, in realtà bisognava averlo già fatto, ieri.

Lavagna: quel ragazzo, sua madre e il paese dell'incomprensione. Vi starete chiedendo cosa sarebbe cambiato se la cannabis fosse stata legale. La madre non avrebbe potuto chiamare la Guardia di finanza, non solo, non ne avrebbe forse nemmeno sentito la necessità, scrive Roberto Saviano il 17 febbraio 2017 su "La Repubblica". I senatori Carlo Giovanardi e Maurizio Gasparri replicano al mio articolo dell’altro ieri sul dramma di Lavagna dimostrando di non aver letto o, peggio, di non aver compreso quello che ho scritto. Parlano di legalizzazione di stupefacenti come fossero due sprovveduti e non due senatori, uno dei quali ha dato finanche il nome alla peggiore legge in materia che l’Italia abbia mai avuto, la Fini-Giovanardi, finalmente incostituzionale. Ma questo sarebbe ancora niente in confronto al dubbio che mi viene, che invece, pur conoscendo a fondo la materia, Gasparri e Giovanardi continuino con dolo a fare disinformazione. Voglio fugare ogni dubbio: non ho alcun vantaggio personale nel proporre la legalizzazione, non è un argomento nazionalpopolare, ma che piuttosto divide l'opinione pubblica, e a parlarne ci si fa più nemici che amici. Perdo simpatie e non ne acquisto schierandomi a favore della legalizzazione. Tuttavia mi sfugge il motivo per cui Gasparri e Giovanardi vogliano continuare a regalare miliardi alle mafie (esattamente tra i 4 e i 9 ogni anno ed essendo un mercato illegale si tratta di stime solo approssimate per difetto) sulla pelle di piccoli spacciatori e dei consumatori, le uniche vere vittime delle politiche proibizioniste in Italia. Io continuo a pensare, e le parole della mamma del ragazzo mi confermano in questa mia idea, che di droghe leggere e dei loro effetti si parli poco e che, essendo illegali, prima ancora che nocive vengano considerate una vergogna sociale, un tabù. Un ragazzo che fumi cannabis viene considerato un tossico da recuperare e se ci sono tormenti e angosce — dinamiche tipiche dell'adolescenza — non è la cannabis a costituirne la causa, né tantomeno il luogo immateriale in cui si cerca rifugio. Dov'è il cortocircuito nella tragedia di Lavagna (non sto qui a dire che poteva essere evitata)? Per cinquanta euro di fumo interviene la Guardia di finanza su segnalazione della madre del ragazzo. In caso di abuso d'alcol, per esempio, o di sigarette, entrambe sostanze più nocive della cannabis ma legali e quindi non in contrasto con la morale pubblica, tutto si sarebbe risolto in maniera diversa. Magari il ragazzo si sarebbe suicidato lo stesso, questo non possiamo saperlo, ma non certo in seguito all'intervento della Guardia di finanza. Dov'è il cortocircuito, quindi? Lo Stato, attraverso la Guardia di finanza, è intervenuto per spaventare e punire. Non è stato di supporto e non poteva del resto esserlo, non essendo preparato per farlo e non essendo quella la sua finalità che, ripeto, è repressiva. Una vicenda che palesava un disagio anche familiare si è trasformata in tragedia pubblica e ci impone riflessioni sul ruolo dello Stato e del suo braccio armato, le forze dell'ordine. Vi starete chiedendo cosa sarebbe cambiato se la cannabis fosse stata legale. La madre non avrebbe potuto chiamare la Guardia di finanza, non solo, non ne avrebbe forse nemmeno sentito la necessità. Perché se un sedicenne fuma un pacchetto di sigarette al giorno, la mamma gli toglie la paghetta, lo controlla maniacalmente perché smetta di farlo, ma non chiede l'aiuto delle forze dell'ordine. Eppure le sigarette uccidono, le canne no. Ma le sigarette sono legali, e allora vedere un ragazzo o una ragazza che fumano sigarette, magari molte, non provoca vergogna sociale, non provoca scandalo. È sulla parola scandalo che dobbiamo concentrarci e su come lo Stato debba creare le condizioni perché non vi sia scandalo, ma comprensione e risoluzione dei problemi attraverso il dialogo, senza repressione. E invece vietare significa creare scandalo, significa mettere alla berlina, fare in modo che si possa puntare il dito, giudicare e punire. Uno Stato che si comporta così è uno Stato potenzialmente criminale. Di cui è vittima il ragazzo e di cui è doppiamente vittima sua madre. Lo Stato deve essere aiuto per il soccorso e non deve aiutare a punire. Deve aiutare a comprendere, tendere una mano, non può essere strumento per spaventare e reprimere. In Italia (fonte l'Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro) i dati riguardanti le aree coperte dai Registri tumori indicano come prima causa di morte oncologica nella popolazione il tumore del polmone (20%). Ogni giorno, oltre 485 persone muoiono a causa del cancro, ciò significa che tra queste 97 muoiono per tumore ai polmoni, di cui, a voler fare una stima al ribasso, il 15% causato direttamente dal fumo di sigarette: più di 14 ogni giorno. Sapete qual è il numero delle persone che muoiono ogni giorno per consumo di droghe leggere? Zero. Dirò di più: i dati diffusi nel 2015 dal ministero della Sanità danno un quadro molto più drammatico calcolando tra i 70.000 e gli 83.000 i decessi in Italia causati dal fumo di sigarette. Oltre il 25% di questi decessi riguarda persone di età compresa tra i 35 e i 65 anni. E poi c'è l'alcol, che è un killer altrettanto spietato. Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, è responsabile del 4% di tutti i decessi nel mondo (2 milioni e mezzo di morti ogni anno) e sebbene il consumo sia in calo, non diminuiscono le vittime. È la prima causa di morte tra i giovani fino a 24 anni e in Italia provoca 30.000 decessi ogni anno, tra incidenti stradali (il 30 per cento è legato all'alcol) e malattie (cirrosi epatica, pancreatite, tumori, aumento della pressione arteriosa). Gasparri e Giovanardi questi dati si guardano bene dal citarli. Credo li conoscano, quindi è con dolo che fanno disinformazione. Quindi è con dolo che puntano il dito sui giovani che fumano cannabis facendoli sentire tossici, reietti, sporchi, da giudicare. La tragedia che è accaduta a Lavagna ci deve insegnare a essere onesti, a chiamare le cose con il loro nome e a sbugiardare quella politica ignorante e bigotta che ci vuole armati l'uno contro l'altro, giovani contro meno giovani, genitori contro figli, professori contro studenti, in una spirale che ha come esito ultimo solo una disumana incomprensione. Di cannabis non è mai morto nessuno, di incomprensione, ignoranza, disinformazione, cattiva politica e superficialità, invece, sì.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” il 17 febbraio 2017: ma a Lavagna non c'è nessuna madre coraggio. Per chiamarla «madre coraggio» ci vuole coraggio, lo stesso che tanti commentatori non hanno avuto, ieri, nel trincerarsi dietro un pilatesco «non giudicare» che sapeva decisamente di ignavia e di imbarazzo. Stiamo parlando della madre di Lavagna che di fronte a un figlio che si faceva le canne (poi suicida) aveva preferito chiamare le guardie. Molti hanno trasvolato l'argomento per via del rispetto, dell'insondabilità del suicidio e del dolore straziante di una madre: ma che non può diventare un esempio, ora. Una madre che per 10 grammi di hashish chiama la Guardia di Finanza, beh, non può essere un esempio: comunque sia andata. Non può esserlo una madre - adottiva - che poi sale sul pulpito del funerale di suo figlio e ha il fegato, senza rendersene conto, di colpevolizzarlo ancora, tagliando giudizi su come i ragazzi dovrebbero vivere, su come i genitori devono educare, su che cosa è giusto o sbagliato, tirando in ballo i cellulari e WhatsApp. Occorre avere la forza, ora, di non commettere lo stesso errore, di mettersi a obiettare che anziché i finanzieri la madre doveva chiamare i servizi sociali, o uno psicologo, un medico, un prete; occorre non mettersi a sdottorare senza ammettere, come invece è vero, che tra i sicuri responsabili c' è la spaventosa ignoranza di questo Paese in tema di droghe. La legge non funziona - Le ignoranze sono due, e in Italia hanno entrambe forti rappresentanze culturali e parlamentari. La prima è quella di chi demonizza pateticamente "la droga" e non opera nessun tipo di distinguo, equiparando una canna a qualcosa che in tre secondi distrugge la vita o addirittura uccide. Ne è figlia la malfamata legge Fini-Giovanardi, che ha reso opaca la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti e ha creato un bacino di potenziale criminalità che coinvolge tutti gli strati sociali - anche gli adolescenti, dunque - oltretutto stipando le carceri all' inverosimile. Si è liberissimi di vedere nella cannabis un nemico culturale, ma resta innegabile che la legge non funziona, e siamo fermi a questo. Questo genere di proibizionisti spinti, non di rado ama pontificare su quale sia il miglior modello di vita, anche se magari entrasse in contraddizione con altri stili che lo Stato certo non incoraggia - le sigarette, l'alcol, certi cibi, il gioco d' azzardo - ma al tempo stesso non proibisce. Alla categoria appartiene anche una genìa di benpensanti che, esattamente come i commentatori dei giornaloni, ritiene che la legalizzazione della cannabis sia probabilmente la cosa più logica: ma non lo dice, non lo scrive, perché teme di passare per amico dei drogati o di minoranze che si abbruttiscono di canne da mane a sera. Più banalmente, se è un politico, teme di perdere voti. Il secondo tipo d' ignoranza riguarda gli amici della cannabis che vorrebbero legalizzarla perché ne sono consumatori o lo sono stati, o perché sono appunto ignoranti e la sottovalutano come altri la demonizzano. Sono quelli che ai figli cannaioli non dicono nulla o quasi, non si preoccupano: lo considerano quasi un passaggio formativo. L' hashish non è il male assoluto, come pensano troppe madri che dovrebbero essere meno coraggiose e più intelligenti, più informate: ma certo non fa bene, e i danni da consumo sono provati da studi scientifici. Le canne implicano una forte dipendenza psicologica e uno straniamento esistenziale, e pazienza se il consumo e la dipendenza da alcol producono danni assai peggiori, il benaltrismo qui non serve. L' hashish non fa bene: anche se la maggior parte dei consumatori ne fa uso in gioventù e poi smette gradualmente, senza strappi o drammatiche decisioni: lo stordimento diventa pericoloso (alla guida, per esempio) e comunque è poco compatibile con una vita lavorativa o di relazione. In effetti, qualche canna da adolescenti preoccupa meno di chi volesse stordirsi anche da adulto. È probabilmente in questo quadro che la madre di Lavagna intravedeva «qualcuno che vuole soffocarvi, facendovi credere che sia normale fumare una canna». Ma c' è soffocamento e soffocamento, e molte madri purtroppo se ne intendono. Tra queste due ignoranze schizoidi, ecco, cerca di farsi largo anche una terza via: l'essere a favore della legalizzazione della cannabis senza essere a favore del consumo di cannabis. Non è un ossimoro. È più meno la stessa posizione di quegli Stati che la legalizzazione la stanno tentando: non per stordire l'umanità, ma per debellare i narcos e colpire al cuore i cartelli del traffico. Ma senza che - qui il punto - aumentino i consumatori. La vera scommessa infatti è questa, verificare se la legalizzazione possa far calare i consumi eliminando l'aura del proibito - come accadde a suo tempo per l'alcol, ovviamente dopo una prima fase di euforia - o se invece le cose peggiorerebbero e basta. In genere non peggiorano. Anche perché è difficile che peggiorino, visto che farsi una canna oggi è la cosa più semplice del mondo e la proibizione, appunto, non fa che regalare status a un consuetudine tutto sommato banale: ma sufficiente a farti entrare in casa la Guardia di Finanza chiamata da tua madre, se perdi la testa.

Così gli spinelli mi hanno salvato…, scrive Francesco Redig de Campos il 18 Febbraio 2017 su "Il Dubbio". I fatti di Lavagna e il tragico cortocircuito culturale e affettivo che ha portato un ragazzino di 16 anni a togliersi la vita. La vicenda di Lavagna è tragica. Un sedicenne si getta dal balcone perché, dopo essere stato trovato in possesso di una misera quantità di hascisc, i militari della guardia di finanza sono andati a casa sua e si sono fatti consegnare dieci grammi che teneva in un nascondiglio. Mentre stavano parlando con i genitori il ragazzo, che non rischiava nulla di più di una segnalazione, è andato in un’altra camera e ha deciso di mettere termine alla sua giovane vita. Subito si sono alzate le voci sull’assurdità di una legge che, per compiacere il narcisismo dei Salvini o dei Giovanardi di turno, rende oggetto di attenzione delle forze dell’ordine il tre percento (due milioni di persone) di consumatori abituali di cannabis, ma anche il sei percento che ne ha fatto uso nell’ultimo anno (circa tre milioni e mezzo di persone) o anche coloro (ventidue per cento, circa tredici milioni) che l’hanno provata almeno una volta nella vita secondo le prudenti stime del dipartimento delle politiche antidroga della presidenza del consiglio dei ministri. All’inizio la propensione generale era quella di dire che i genitori erano all’oscuro di tutto e quindi che il giovane ha compiuto il suo gesto per la vergogna di dover ammettere tutto. Durante il funerale poi la madre ha voluto ringraziare i militari della guardia di finanza: “Grazie di aver accolto il grido di disperazione di una madre che non poteva sopportare di vedere il figlio perdersi”. Quindi è emersa una storia che aveva altri contorni. La madre preoccupata dal calo del rendimento scolastico del figlio e avendo il sentore che la droga fosse la causa di questo mutamento si è rivolta alla guardia di finanza. Il resto purtroppo è cronaca. Ora bisogna capire se realmente gli spinelli siano la causa di ciò. Non conosco la storia del sedicenne, però posso raccontare la mia. Quando andavo a scuola la parte di studenti che faceva uso di cannabinoidi era divisa in due. C’era chi voleva svagarsi, ma poi riusciva in un modo o nell’altro a recuperare e farsi promuovere, magari dicendo che dopo aver fumato si studiava più concentrati e chi invece cadeva in una spirale di brutti voti che terminava con la bocciatura. Io appartenevo alla seconda. Al terzo anno di liceo scoprii in rapida successione: la marijuana, la musica e il sesso. A quel punto divenne davvero poco interessante per me cogliere le sfumature ironiche del Parini ne La vergine Cuccia. Così per due anni smisi di frequentare la scuola verso aprile. E l’anno successivo non potendo iscrivermi in alcuna scuola pubblica all’atto pratico non feci niente e non ebbi alcun’altra preoccupazione se non quella di trovare il “fumo”, di come pagarlo e come consumarlo. Ma fu davvero la cannabis a portarmi in quella situazione? A posteriori posso affermare con buona sicurezza che in realtà l’hascisc non fu la causa del disagio, ma l’effetto. Anzi gli psicoterapeuti che, per altri problemi mi hanno seguito anni dopo, considerano quel periodo come il momento di rottura nel quale io mi sono salvato da alcune dinamiche distruttive della mia pur rispettabilissima famiglia. E in effetti, (all’epoca sarei impazzito piuttosto che ammetterlo), tutti gli amici che come me lasciarono la scuola venivano da situazioni altrettanto “distruttive” , mentre quelli che, pur fumando, poi riuscivano ad andare avanti negli studi, vivevano in contesti più lineari. Mi sono perso? No, ho preso una sbandata. Per due anni mi sono divertito a sperimentare qualcosa di diverso dal mio mondo di provenienza, poi dovendo iniziare a studiare seriamente la musica, esperienza che probabilmente mi motivava assai di più che non la lettura de La vergine Cuccia, il mio interesse e le mie azioni si sono spostate su un altro oggetto. Avrei voluto parlare con quella madre che in chiesa ha ammonito gli amici di non considerare “normale”una canna e di cercare lo “straordinarietà” in piccoli gesti quotidiani per dirle che forse a sedici anni può anche essere normale farsi qualche spinello e che non necessariamente chi ne fa uso si è “perso”. Anzi, magari come è successo a me ne è uscito più sano e forte di prima: in molti casi la ribellione adolescenziale, anche se indecifrabile e rabbiosa, è l’anticamera di una vita più equilibrata e funzionale.

La Cannabis fa male o no? Ecco tutto quello che può dirci la scienza sulle droghe leggere. Il dibattito sulla marijuana è tornato di attualità, alimentando lo scontro tra chi vorrebbe legalizzarla e i proibizionisti. Vediamo cosa è emerso fino a oggi dai diversi studi e cosa c'è di vero e di falso sui pericoli per la salute, scrive Rita Rapisardi il 17 febbraio 2017 su "L'Espresso". Quasi quattro adolescenti italiani su dieci l’hanno provata almeno una volta nella vita, è il cuore di uno dei più grandi traffici illegali al mondo e le sue proprietà portano beneficio a migliaia di pazienti. La cannabis resta una materia ambivalente, accesa a intermittenza senza una vera discussione. Non solo la recente discussione alla Camera, subito ricacciata nel cassetto, ha portato al centro del dibattito la sua legalizzazione, ma anche il fatto di cronaca che ha visto al centro il suicidio di un sedicenne di Lavagna, dopo che la Guardia di finanza ha perquisito la sua abitazione perché in possesso di una decina di grammi di marijuana. Per quella che è la sostanza illecita più consumata d’Europa e con la maggiore probabilità di essere utilizzata da tutte le fasce di età, ancora oggi dopo decenni le idee non sono chiare. Studi discordanti e opinioni diffuse, spesso fasulle, non aiutano. La cannabis crea dipendenza? Si può morire? È assimilabile alle cosiddette droghe pesanti? Quali danni alla salute? È il primo passo verso il consumo di cocaina, eroina o pasticche? Umberto Veronesi, proprio dalle pagine dell’Espresso, lanciò un appello per la legalizzazione chiedendosi se avesse senso criminalizzare la sostanza. Nel 2000 come ministro della Sanità aprì alla possibilità di oppiacei e cannabinoidi contro il dolore. Scontrandosi però contro un muro ideologico, lo stesso che oggi frena il ddl firmato da oltre 200 deputati. "Siamo un Paese che vieta inorridito la marijuana (che non ha mai ucciso nessuno) ma che lucra senza vergogna su una droga che causa 50.000 morti l’anno: il fumo di sigaretta", spiegò l’oncologo. Già, perché fumando cannabis non si va in overdose, la mortalità di cui parlano alcuni studi si riferisce infatti agli incidenti stradali che possono essere provocati. Le ricerche seguite da Veronesi, che nominò una commissione scientifica a riguardo, conclusero che i "danni da spinello" sono inesistenti. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha invitato più volte i governi a depenalizzare, magari non tout-court, ma almeno l’uso personale. Considerato che droghe legali come alcol e tabacco uccidono invece ogni anno milioni di persone.Per questo molti credono che il proibizionismo non sia la risposta e demonizzare non serva. Ma il primo passo è una buona informazione. Tra l’altro i dati dimostrano che nei paesi che hanno liberalizzato, il consumo è progressivamente diminuito. Come confermano studi condotti negli Stati Uniti e che riguardano in particolare i giovani.

COSA SUCCEDE IN ITALIA. In Italia secondo un’indagine di Espad Italia (The European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), contenuto nella Relazione annuale del Dipartimento politiche antidroga, il 34 per cento degli studenti italiani di 15-19 anni (maschi 38 per cento, femmine 28 per cento) ha provato la "maria" almeno una volta nella vita. Piemonte, Emilia Romagna, Marche, Lazio e Sardegna sono le regioni in cui è stata più consumata. Se si allarga lo spettro all’Europa si sale a 16,6 milioni di giovani (15-34 anni), pari al 13,3 per cento, che hanno consumato cannabis nell’ultimo anno. Dalla parte del proibizionismo convinto c’è la Comunità di San Patrignano che proprio in questi giorni ha ricordato le proprie linee guida: la prevenzione prima di tutto, contro ogni legge a favore e contro quella che definiscono la cultura dello sballo. Il centro non ha risparmiato poi ricerche in merito. Fece discutere una del 2001 condotta da Eurispes in cui si affermava che le droghe leggere sono un ponte di passaggio per quelle pesanti e nel 23 per cento dei casi provocano episodi psicotici. Uno studio giudicato "scientificamente indecente" da uno dei massimi esperti sul tema, Gian Luigi Gessa, psichiatra e farmacologo, responsabile del gruppo italiano sullo studio delle dipendenze da droghe e farmaci, in passato alla direzione del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cagliari e nel Consiglio Nazionale delle Ricerche. Se è vero che i dati dimostrano che gran parte degli eroinomani ha fumato spinelli, non è certo invece che la correlazione sia automatica. "Se così fosse, le statistiche non mostrerebbero circa 200.000 dipendenti da droghe pesanti in Italia, più o meno come 10 anni fa", affermò Veronesi. Gessa, ammettendo l’agire della sostanza sul cervello, esclude un danneggiamento alla sua normale attività, e anche su chi ne ha fatto uso per decenni in modo costante, non si forma una sindrome di astinenza. Un appunto va fatto per adolescenti e preadolescenti, nei quali l’uso di droghe, anche leggere, potrebbe causare deficit cognitivi soprattutto per quanto riguarda la memoria.

LA CANNABIS FA MALE O NO? La stessa Oms nella sua ultima pubblicazione sull’argomento - che non ha riguardato i casi di utilizzo di cannabis a scopi medici - ha specificato che con un consumo a lungo termine possono esserci effetti su memoria, pianificazione, processo decisionale, velocità di risposta, coordinazione motoria, umore e cognizione. Lo studio ha poi cercato di rispondere anche alla questione della dipendenza. Perché se gli studiosi sono d’accordo su quella da cocaina o crack, i pareri divergono sulla cannabis, difficile da "misurare". Una dipendenza cosiddetta psicologica, legata all’abitudine o alla gestualità, assimilabile anche alle sigarette, è ben diversa da una fisica, dettata quindi dalla sostanza. In generale l’Oms ha evidenziato che il rischio c’è ed è pari al 10 per cento, che varia da 1 su 6 tra gli adolescenti, a 1 su 3 tra chi consuma cannabis giornalmente. In ogni caso, se si vuole stilare una classifica, Gessa non ha dubbi: prima della cannabis vincono in quanto a pericolosità e grado di tossicità le droghe legali come alcol e nicotina, ma anche eroina, cocaina, morfina e altre sostanze. Solo in Europa nel 2014 si contano 6.800 decessi per overdose, soprattutto di eroina e i suoi metaboliti, e la tendenza è in aumento. Altra questione è quella dei tumori. Qui la risposta si gioca in realtà sulla presenza del tabacco, visto che è la canna il modo più diffuso per consumare la ganja, il termine hindi per cannabis. A riguardo l’Oms conclude: "Fumare un mix di cannabis e tabacco può aumentare il rischio di cancro e di altre malattie respiratorie, ma è stato difficile capire se i fumatori di cannabis hanno un rischio più elevato, al di là di quella di fumatori di tabacco". Anche se uno studio dell’Università della California ha negato del tutto la connessione tra i due, anzi affermando che la marijuana uccide le cellule di invecchiamento impedendo loro di diventare cancerose. L’ultima "Relazione europea sulla droga" condotta dall’Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze (EMCDDA) dedica un paragrafo sui danni fisici prodotti dalla marijuana, non chiarendo però se esiste un rapporto causa effetto: "pur essendo difficile dimostrare un nesso causale tra il consumo di cannabis e le sue conseguenze a livello socio-sanitario, gli studi osservazionali consentono di individuare alcune associazioni". Per associazioni s’intendono disturbi psicotici e un più elevato rischio di avere problemi respiratori per i consumatori a lungo termine. Mentre durante l’adolescenza crescerebbe il rischio di schizofrenia, anche se in questi casi, è specificato, la genetica ha un ruolo cruciale. Queste incertezze invece scompaiono quando si parla di uso terapeutico. Della cannabis si riconoscono i benefici sul dolore cronico, artrite, tremori del Parkinson, malattie come la Sla, gli effetti collaterali della chemioterapia e nei malati terminali. Oltre che per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress e dell’ansia. I rischi per la salute, evidenzia la ricerca, sono per lo più da collegarsi ai cannabinoidi sintetici decisamente più tossici, droghe che si legano agli stessi recettori cerebrali su cui agisce il THC, uno dei principali composti attivi presenti nella cannabis naturale, ma che nella cannabis trattata può raggiungere percentuali molto elevate. "Tanto che a loro carico sono stati segnalati avvelenamenti di massa e addirittura decessi", conclude lo studio.

IL PERICOLO DELL'ILLEGALITA'. Nel mercato illegale la cannabis trattata chimicamente circola senza controlli. Un pericolo soprattutto per la salute dei consumatori, che in Italia sono almeno quattro milioni. Lacannabis contaminata può contenere ogni tipo di sostanza: piombo, alluminio, ferro, cromo, cobalto ed altri metalli pesanti altamente nocivi. Secondo i favorevoli alla liberalizzazione è togliendo il controllo alla criminalità organizzata che si potrebbe risolvere il problema. A riguardo si è espressa anche la Direzione Nazionale Antimafia che ha evidenziato come si cancellerebbe un monopolio che regala alle mafie fino a 9,5 miliardi di euro l’anno solo dalla vendita di cannabis.

LA LEGGE IGNORATA. Certo è che a incidere sulla percezione della marijuana non ha aiutato la Fini-Giovanardi, che ha legiferato in tema dal 2006 fino al 2014 quando è stata giudicata incostituzionale dalla Consulta, causa della comparazione tra droghe pesanti e leggere (le seconde non classificate a rischio dipendenza). Secondo i critici questo non ha fatto altro che riempire le carceri di semplici consumatori non intaccando il grande traffico criminale. Basti pensare che in Europa il consumo o possesso per uso personale rappresenta circa i tre quarti di tutti i reati connessi alla droga. Ma dal 25 luglio 2016, da molti indicata come giornata storica, in cui per la prima volta il disegno di legge per la liberalizzazione è approdato alla Camera, non c’è stato nessun passo avanti. Rispedita in commissione senza alcuna discussione e con trenta parlamentari in aula, il ddl spera almeno in un ok ai suoi emendamenti, tra cui un’unica legislazione per l’uso terapeutico, oggi diversa da regione a regione.

Droga e droghe, scrive Gualtiero Michelucci. Un figlio prigioniero della "legge" sulla droga. E' lo Stato che uccide. In sintesi ciò che voglio dire, è che se non c'è un nemico, se non c'è qualcosa da combattere, lo si può sempre creare. E il sistema militare non può sopravvivere senza qualcosa da combattere. In Italia e non solo in Italia, i veri narcotrafficanti passano per persone che lottano contro la droga. Infatti in Italia abbiamo mafiosi devòti e narcotrafficanti che dicono No alla droga. La prima tossicodipendenza: "Si comincia sempre dalla sigaretta, poi magari l'alcol, la marijuana non è roba da tossicodipendenti; qualcun altro prova pure con l'eroina e la cocaina". Chi sono i narcotrafficanti di tabacco e come mai la fanno franca? Com'è che chi vende questa sostanza che danneggia la salute e da dipendenza, è una persona onesta e rispettata? Perché alcuni venditori di morte sono protetti dallo Stato mentre su altri lo Stato si accanisce? Si dice che all'estero brutti ceffi armati difendono le piantagioni di oppio. Perché usare criteri diversi per i brutti ceffi armati che proteggono i campi di tabacco, le piantine di tabacco, le tabaccherie, i tabaccai? Perché sono poliziotti! Questa è la vera ingiustizia. Perché il tabaccaio è un onesto cittadino e non uno sporco spacciatore? Perché le polizie difendono l'industria del cancro? Parte il ricavato sull'alcol e sul tabacco finisce nel portafogli di ministri, di magistrati e dei loro protettori, appunto, i militari. Ci sono molte contraddizioni? No non ci sono contraddizioni. Apparentemente, è in atto una spietata lotta alla droga. Ovviamente non a tutta la droga, soltanto ad alcune sostanze, sostanze che qualcuno ha deciso debbano essere illegali e controindicate. Com'è possibile che ogni giovane riesce a trovare molto facilmente uno spacciatore di droga e la polizia no? I militari, per giustificare la loro esistenza, hanno bisogno di un nemico, di qualcosa da combattere. I vertici militari e tutto l'apparato bellico, costano cifre inimmaginabili, e questa gente vuole esistere. E a questa gente bisogna pagargli pure i calzini, va mantenuta a tutto tondo. Ecco il perché di tutto questo accanimento contro le piantine di marijuana. Provate però a toccargli le distillerie. Se non c'è nulla contro cui combattere lo si può sempre creare no!? I militari, con le loro portaerei, missili, bombe e tutto l'apparato bellico, belligerante, armifero, costano miliardi di miliardi di miliardi di miliardi e ancora ce ne vogliono, mentre i poveri si prendono solo calci nel sedere. Non è venalità la mia. Se tutto questo servisse davvero lo comprenderei. Ma è una truffa. E' una presa per i fondelli. Fa difetto, in realtà, il fatto che, i militari, non hanno abbastanza nemici per giustificare né se stessi né tantomeno le spese alle quali ci sottopongono. Ecco che allora, insieme ai politici e ai magistrati, creano un falso proibizionismo, qualcosa contro cui combattere, qualcosa che ci obbliga a sborsare sacchi di denaro, che in realtà servono a mantenergli acceso il Luna Park. In realtà prendono tangenti dai trasportatori di sostanze che lasciano passare: non a caso abbiamo l'Italia piena di droga con sempre più drogati e alcolizzati. Ma è questo quello che ci vuole, quello che a loro serve. Questo per loro è positivo, perché i militari in questo modo sanno che la loro presenza è garantita dalla necessità di combattere un nemico, la mafia, che col traffico di droga diventa sempre più forte. E ben venga che diventi sempre più forte. Più forte sarà la mafia, più ci sarà necessità di combatterla e la presenza militare sarà dunque necessaria. Il solito gatto che si morde la coda. Sfido io che la mafia diventa sempre più forte, la ingrassano loro ai propri fini.

Parliamo di terrorismo. Con la droga i terroristi comprano armi. E questa cosa è qualcosa di meraviglioso per i militari. E' positività. Perché in questo modo devono combattere un terrorismo sempre più forte. Se il terrorismo non c'è lo creano. Se è debole lo rafforzano o dandogli aiuti economici, armi o lasciando che si arricchisca con la vendita della droga. All'apparato bellico, basta avere qualcosa contro cui combattere, non gli serve altro. Mentre su alcol e sigarette non c'è nulla da combattere, c'è la pace. Sono loro gli spacciatori. Il falso proibizionismo è mediatico. I mezzi di comunicazione trasmettono in continuazione la lotta contro la droga che non va al di là dei media. E' una truffa. I politici sono lo specchietto per le allodole: eseguono gli ordini imposti dai vertici militari. Fanno e dicono quello che gli si ordina di fare e di dire, come un qualsiasi altro attore. I media trasmettono sempre la stessa canzoncina: la droga fa male, la polizia ha arrestato Pierino con 100 grammi di sostanza, ci sono le comunità. Ogni sei mesi arrestano la grande banda, quella che è proprio quella, che senza di lei, guarda, che il narcotraffico è sconfitto. Poi tutto ricomincia da capo. Con tappe di sei mesi in sei mesi. Mentre i militari da una parte appoggiano il narcotraffico e dall'altra fingono di lottare contro la droga per criminalizzare la gente, per avere un nemico, dall'altra tengono la popolazione soggiogata, impaurita, alla loro mercé e la sfruttano più e quanto possono, insieme agli altri potenti. Come abbiamo potuto vedere: se servono dei criminali, basta crearli. (Diceva Platone. la giustizia non è altro che la convenienza del più forte). E' come se i pompieri, in odore di licenziamento si mettessero a incendiare i boschi. In America prima del proibizionismo sull'alcol chi lo vendeva era un onesto cittadino, poi è diventato un losco trafficante, cioè un criminale da combattere e infine, tolto il proibizionismo è tornato ad essere di nuovo un onesto commerciante. Come vedete, è tutta una burla, una truffa. Basta cambiare i termini, le parole, i significati, i punti di vista. Non è realtà. E' una questione di linguaggio. Cambi questo e tutto cambia. Chi protegge col mitra i campi di tabacco è gente onesta? Chi vende sostanze cancerogene è gente onesta? 

Il problema della droga serve a mantenere eserciti, polizie, preti, politici e tantissimi altri, quindi bisogna che resti un problema e che venga percepito come un problema. Create le condizioni il resto sono tutte conseguenze e il gioco è fatto. Tutto va da sé. Basta imporre una legge. 

Ovvio che lo Stato abbia convenienza a far sì che la gente si droghi. Ci sono sanzioni amministrative per chi spinella o usa eroina. In realtà sono chiare estorsioni di stampo mafioso ma comunque le chiamano sanzioni. Ci sono tasse per chi fa uso di alcol e di tabacco. Ovvio che lo Stato ci tenga a mantenere se stesso in questo modo. Fosse invece che politici, magistrati e forze di pubblica sicurezza, pagassero loro delle sanzioni ogni qual volta un drogato muore, la storia cambierebbe. E non parlo solo di morti per eroina ma pure di quelli per nicotina e per alcolismo, poiché cancri e cirrosi sono all'ordine del giorno.  Certo, attraverso i mezzi di comunicazione, complici anch'essi dei narcotrafficanti, lo Stato fa credere il contrario ma lo Stato è formato da veri professionisti della menzogna, da gente che pensa in un modo, parla in un altro e agisce in un altro ancora. Per dirla alla Leopardi. Molti vogliono e condursi teco vilmente, e che tu ad un tempo, da un lato sii tanto accorto, che tu non dia impedimento alla loro viltà, dall'altro non li conoschi per vili. 

Il proibizionismo sull'alcol ha fatto scuola. Non solo chi beveva ha aumentato la dose ma a foraggiare le squadre degli alcolisti si sono aggiunte le nuove leve fra cui donne e minori. Proibire la marijuana, sostanza pressoché sconosciuta, voleva dire reclamizzarla in tutto il mondo senza spendere un quattrino. Una pacchia per i Governi che già sapevano quali sarebbero stati gli effetti. L'impatto sulle persone fu di mera curiosità e spesso di sfida. Una pacchia quindi dominare le genti attraverso questa sostanza che avrebbe portato le masse a farne uso di altre molto più deleterie, più moleste. Così l'uso di droghe si è diffuso. Spacciatori di Stato. Scrive Gualtiero Michelucci su “Intorno al Drago”. Federico mi scrive una lettera dopo avere visto i miei video sui S.E.R.T.: i parassiti del tossicodipendente. (Ovviamente, tossicodipendente è l'etichetta che la società degli asini ha messo a questi ragazzi per poterli emarginare e manipolare a proprio comodo). Alla fine della lettera gli chiedo come mai, essendo riuscito a smettere col metadone non si è tenuto lontano dal Ser.t.  e allora Federico mi ha risposto poi con una seconda lettera. Ringrazio Federico per avere avuto il coraggio di esporsi e parlare. Il che non è una cosa facile in questo frangente.

PRIMA LETTERA 

«Ciao...Mi chiamo Federico, ed ho 23 anni. Innanzitutto volevo farti (posso darti del tu?) i complimenti per l’avatar rappresentante Orson Wells nel film "La ricotta" di Pasolini. Quella poesia e quel monologo sull'uomo medio sono sicuramente tra i miei più bei ricordi cinematografici (insieme a "Che cosa sono le nuvole?" di Pasolini, "L'enigma di Kaspar Hauser" e tutti i film di W. Herzog, "il posto delle fragole" di Bergman, "il cielo sopra Berlino" di Wenders, "l'angelo sterminatore" di Bunuel e tantissimi altri...). "Mostruoso è chi è nato dal ventre di una donna morta! Ed io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercar fratelli che non sono più"... Pasolini aveva capito tutto, e noi, ovviamente, lo abbiamo additato, offeso, e censurato...Comunque dicevo: Mi chiamo Federico, ed ho 23 anni. Sono nato e vivo tuttora a Modena. Credo tu sia il primo a cui scrivo qualcosa del genere, e forse ti annoierò enormemente, ma proverò comunque a scrivere, perché sento una forte, anche se scontata, necessità di farlo. A 14 anni ho iniziato, come molti, a fumare qualche normalissima canna. Ma il mio carattere, le mie paure e migliaia di altre cose mi hanno portato a conoscere l'eroina alla tenera età di 17 anni. Ho iniziato fumandola; dopo tre mesi, ho iniziato ad usarla endovena. Dopo 6 mesi i miei genitori avevano giustamente messo in strada, ed io non riuscivo più a farne a meno. Di Modena si parla poco nei nostri telegiornali e nelle nostre presunte fonti informative... Modena è bastarda perché è subdola...Muta. Ha partorito migliaia di ragazzi come me. Vittime di noi stessi. E' una delle città con il maggior consumo di Eroina. Solo che non lo facciamo sapere in giro. Comunque, come dicevo, mi sono trovato in strada... E trovarsi in strada a 18 anni non è affatto semplice. All'inizio non sembra, ma un inverno pesa sulle ossa almeno quanto l'astinenza del mattino...Ho conosciuto il mondo delle persone inesistenti: quelle che vivono in strada, che rubano, che vendono, che usano sostanze. Ognuno per sé, ognuno come gli altri...Noi "bambini antalgici" sappiamo che niente ci è dato né dovuto, quindi non abbiamo mai avuto grandi pretese...Forse perché dormiamo sulle panchine, o nelle cantine in mezzo ai topi... Forse perché giochiamo a scacchi con la morte ogni giorno, ed ogni giorno sfioriamo il nulla della vita. Forse è perché siamo così silenti, forse perché quando piangiamo non urliamo forte, e le nostre lacrime sono ghiacciate, e sordo il loro suono come quello di una voce in fondo a un fiume... Forse sì... E' per questo che la situazione è ancora quella di una volta... Sempre la stessa. Colpa nostra. E così si impara che davanti all'Eroina siamo tutti uguali... Io andavo bene a scuola, ho fatto il liceo Classico, avevo quasi il massimo dei voti. Avevo una ragazza che mi amava, avevo una famiglia che mi voleva bene... Adoro scrivere, leggere, AMO disegnare... In ogni caso, davanti all'Eroina perdi tutto...Se piangi non piangi più come prima. E se non piangi forte il mondo non ti sente perché distratto dalle urla di un Grande Fratello che purtroppo non è quello di Orwell...Però io non ho mai preteso attenzione. Il mondo è convinto della nostra colpevolezza, e a volte credo che abbia ragione: "la vittima è la vita, l'accusa è di omicidio"... Nella mentalità della gente il tossico è uno che non vuole uscire dalla sua situazione, e spesso è vero, è proprio così; ma c'è una cosa che il mondo non vede, che il mondo NON VUOLE vedere, ed è il momento in cui il tossico decide di smettere. Il mondo non vede questo passaggio perché fa male agli occhi e al cuore. Perché il soggetto della scena sarebbe una persona disposta ad accettare di tutto pur di uscire dal buio. Proprio qui entra in ballo il S.E.R.T., ed il metadone...Ed è così: accettiamo il passaggio da tossici di strada a tossici di clinica, nella quale andremo a ritirare la nostra solita dose, ogni giorno, da un nuovo spacciatore legalizzato...Proprio come in piazza. Ma voglio essere più chiaro: Il metadone è un oppiaceo importantissimo per il trattamento dell'astinenza, e sarebbe miracoloso se venisse utilizzato in dosi ragionevoli solo nei 7 giorni di astinenza, o anche, mettiamo, per 2-3 settimane... Quello che i S.E.R.T. non raccontano è che obbligano i pazienti ad utilizzarlo per anni, decenni. "OBBLIGARE?" Direte voi... Sì, ti obbligano, cioè, in realtà puoi scegliere anche di perdere il lavoro, la patente, ed apparire alla società come un "non guarito" se non fai quello che loro vogliono... Così ogni anno avranno gli incentivi per il metadone dallo stato, e tu butterai soldi per rinnovo della patente come minimo 3 volte all'anno (ogni volta sono 250 euro…)... Ma sinceramente, a me, dei loro intrallazzi non interessa... Forse la mia famiglia è segnata con una cazzo di croce sulle teste... Mio zio, ovvero il fratello minore di mia madre, è morto a 27 anni di AIDS. La malattia era stata scoperta da poco, e non esistevano le medicine che oggi ci permettono di convivere con questa malattia... Passarsi le siringhe non era considerato pericoloso, quindi lui lo faceva, come tutti del resto... Prima di morire era riuscito a smettere con l'eroina, ma il S.E.R.T. non lo aveva mai lasciato... Io sono stato fortunato in confronto a lui... Ho scambiato siringhe, ho usato siringhe vecchie anche di 2 settimane, con gli aghi arrugginiti, incrostati e spuntati... Ma non ho preso nessuna malattia, mentre mio zio è morto giovane per colpa di qualcosa di sconosciuto ... Ma questa è un’altra storia...Io voglio portarti la mia storia. A 20 anni (dopo 2 anni in strada), ho deciso di smettere, ed ho tirato fuori una forza che nemmeno io sapevo di avere. Così è iniziata la cura con il metadone, i colloqui, poi 1 anno di comunità, di lavoro duro su me stesso...Beh, quando sono uscito ero felicissimo...Ci ero riuscito, avevo vinto! Ero di nuovo il Federico di una volta...Ed ero convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, certo, con i soliti problemi della vita, ma li avrei affrontati...Morale della favola: Dopo 2 anni e mezzo di trattamento, ad 1 anno e mezzo dalla fine del mio percorso comunitario, avevo persino tolto il metadone da 6 mesi...sarei dovuto essere un uomo libero, un qualunque cittadino perso nei meandri della vita. Legato solo a sé stesso...Invece ero ancora legato al SE.R.T...Mi tenevano ancorato con colloqui tra psicologi, medici, educatori e compagnia bella. Ti dicono che non devi più usare sostanze, ma mentre tu cerchi di cambiare, loro continuano a tirarti verso un ambiente che è quello della tossicodipendenza... E tu muori dentro, perché ti rendi conto che questa storia di merda non finirà mai, andrà avanti finché sarai in vita, perché sei un tossico e ti meriti solo questo... Non usi più niente da 2 anni e mezzo, ma continui a dover frequentare gli stessi posti, con le stesse persone che usano sostanze, continui ad aggirarti in questi "non-luoghi" propri della tossicodipendenza e a sentire le stesse cazzate da psicologi sul tuo conto... Allora fai 2 conti, ti accorgi che peggio di così non può andare (sbagliando i calcoli), e torni a fare l'ERRORE. Proprio così: Dopo 2 anni e mezzo sono ricaduto, come un coglione. E' stata una ricaduta veloce ma pesante, comunque, ovviamente, il S.E.R.T. non aspettava altro, mi hanno prescritto il metadone, mi hanno detto "vedi che facevamo bene a tenerti qui... Sono tornato in comunità per tre mesi, ed oggi non so ancora se questa storia avrà mai una fine...Io porto con me la mia storia... Porto i volti di mille ragazzi che non hanno voce in una città morta per metà... Li porto nel cuore, perché per il mondo sono soltanto drogati, ladri. Per me sono vittime della vita. Vittime del pensiero. Sono ragazzi buoni, non ne conosco di cattivi. Vivono come vivevo io... In mezzo ai topi, usano siringhe vecchie di una settimana come le usavo io... Quindi sono sangue del mio sangue, perché siamo stati partoriti dalla stessa madre: La Paura... Non la paura che conosce il mondo... Parlo della paura fredda, triste, la paura così viva da tendere alla morte, la paura fatta lacrima, la paura che teme se stessa. La paura di pensare, di vivere, quella di addormentarsi la notte e svegliarsi ancora vivi nell'apatia di un nuovo giorno... La paura di non riuscire a vedere tutti i colori dell'iride, La paura di non trovare amore, la paura di se stessi, paura di esistere, parlare, pensare,mangiare e bere. Paura Sorda. Perché per me è condanna piangere di tutto, e soffrire per tutto come si soffre solo per l'amore. Per me è condanna piangere davanti ad una musica dolce... Ma so che è così, e non cambierò mai. Solo quando disegno io mi trovo, e mi perdo, e mi ritrovo... senza stancarmi mai. Dimenticavo... Io lavoro come fotografo, ma il mio sogno è di riuscire a diventare illustratore di libri per bambini... Lo faccio già, ed ho vinto qualche concorso, ma vorrei poterlo fare a tempo pieno... Ora sto finendo di illustrare Pinocchio, triste storia a cui tengo particolarmente...Comunque probabilmente ti ho annoiato allo sfinimento, quindi scusa... Probabilmente non mi sono neanche espresso benissimo, ma è difficile quando in ballo c'è qualcosa che ti torce l'anima...Grazie dell'attenzione, e se vuoi rispondere mi farà molto piacere...Ciao,Federico».

SECONDA LETTERA 

«Ciao! Innanzitutto grazie dei complimenti, ed ovviamente se ti fa piacere puoi pubblicare tranquillamente la lettera...Ora proverò a rispondere alla tua intelligente domanda senza perdermi in altri discorsi...Dunque, premettiamo che, quando entrai in comunità la mia famiglia mi riprese in casa... Come ti ho scritto, dopo avere finito il percorso comunitario, iniziai lo scalaggio del metadone, e lo portai a termine con successo, ma secondo il S.E.R.T. avrei comunque dovuto continuare i vari colloqui con psicologi, educatori e medici di turno, al fine di prevenire eventuali ricadute... Ovviamente io ho provato a dire la mia...Gli dissi quindi che, a mio parere, tutti quei colloqui non avrebbero fatto altro che favorire eventuali ricadute, poiché continuavano a rendermi prossimo ad un ambiente proprio della tossicodipendenza, e sicuramente inadatto a chi ne vorrebbe uscire...La loro risposta fu molto semplice: "Così è. Se fai come diciamo bene, altrimenti saremo costretti a scrivere sul tuo fascicolo che a nostro avviso non sei guarito, e non hai portato a termine il percorso medico qui al S.E.R.T...." Poco male. pensai io, ma non è così semplice...Per esempio, ogni volta che, in quanto ex tossicodipendente, devo rinnovare la patente, devo portare un foglio del S.E.R.T., contenente una relazione del medico incaricato, il quale scriverà ciò che pensa riguardo alla mia situazione: Nel caso io avessi deciso di "abbandonarli", loro non avrebbero scritto una relazione positiva, e quelli della commissione patenti avrebbero potuto rinnovarmi la patente per soli 3-6 mesi, il che significa una spesa di 296 Euro ogni 3-6 mesi....Spesa insostenibile per le mie tasche, e spesa che non voglio far sostenere alla mia famiglia... Se invece continuo a frequentare il S.E.R.T., quindi se continuo a farmi tenere sotto costante controllo, la loro relazione sarà positiva, e la patente mi rimarrà per 2-5 anni invece di 3-6 mesi... Io questo lo chiamo ricatto, loro non so come lo chiamino...Poi sono molte le cose che ti possono tenere legato al S.E.R.T.... Ti posso giurare che puntano anche sul terrore delle famiglie, convincendo i genitori che se il figlio abbandona non guarirà mai...E io rimango, per lasciare un pò di tranquillità ai miei genitori, e il bello è che loro (quelli del S.E.R.T.) sanno che lo farò, per i sensi di colpa portati dalle sofferenze che ho causato alla mia famiglia... Sanno tutto questo, e puntano a renderti alieno alla vita, puntano a farti sentire perso senza il loro aiuto, fino a quando diventerai come gente di mia conoscenza, che a 65 anni va a fare l'operatore comunitario, perché pur essendo lucido da 30 anni non riesce a vivere nel mondo esterno per colpa loro...Gente intelligente, gente che rideva, scherzava, gente che amava e odiava... Gente che oggi soffre di una sorta di agoràfobia, terrorizzati dalla vita esterna...Io sono giovane, e non ho intenzione di finire a quell'età legato dalla loro schiavitù...Forse in realtà non ho neanche intenzione di arrivare a quell'età... Ma quello che voglio dire è: Non so cosa ci guadagnino da tutto ciò, non lo so proprio, ma so che hanno un sacco di sogni marciti sulla coscienza... Progetti di una vita abbandonati, sorrisi spezzati, vite sprecate, desideri in cancrena... Io non vorrei essere in loro...E purtroppo sono finito ad essere vittima loro. Spero di essere stato esauriente... Se hai altri dubbi chiedi pure tranquillamente! Ciao e grazie, Federico».

Gualtiero Michelucci: VERSO LA FINE D'UNA INUMANA SOFFERENZA. Tutti vogliono il vostro bene non fatevelo portar via. 1999-2000.

La vita non è bella e la gente è malvagia. L’eroina esiste e come tutto ciò che esiste, esiste e non lo si può ignorare. Che lo si voglia o no. E’ illusorio pensare che un bel giorno l’eroina scompaia dal pianeta. Ed è illusorio pensare che, a differenza di qualsiasi altra cosa, o sostanza esistente, usabile, sfruttabile, l’eroina possa fare caso a sé, essere cosa a parte, eccezione all’esistente “il non c’è” o “il non ci sarà più”. Risulta così inimmaginabile pensare che la natura umana, così curiosa e desiderosa non vi si dedichi. Soprattutto sapendo che questa sostanza da a chiunque la possibilità di evadere e di eludere completamente, per un certo lasso di tempo, il disagio sempre più presente e pressante che si annida dentro gli animi più giovani, fragili, sensibili e ovviamente inesperti della vita e ignari delle cose. I vari temi sul disagio giovanile, sociale, sono più che trattati da specialisti e non. Non occorre che io qui aggiunga. La speculazione fatta in precedenza, spero serva, per chi è interessato all’argomento, a fare capire meglio il mio punto di vista. Ritornando al tema eroina: ci sono giovani che hanno già cominciato a farne uso, ci sono giovani che cominciano oggi e giovani che cominciano domani. Smettere? Sì certo, smettere, oppure non cominciare, queste sono le parole d’ordine. Ma le persone difficilmente riescono a sbarazzarsi dei propri vizi, di qualsiasi natura essi siano; pure se si tratta di quelli che conducono alla morte. Sia che siano legali, sia che siano illegali. In quanto a non cominciare, ci credete voi che mai più nessuno inizierà a bere e più nessuno inizierà a fumare? L’eroina c’è, esiste. Come esiste il tabacco, come esiste l’alcol. Il problema non è l’eroina, il problema è il proibizionismo. Prendiamo ad esempio i tossicodipendenti da nicotina e guardiamoli. Ci sono persone tra questi che si sono fatte strada nella vita e che hanno ottenuto sicurezza economica, rispetto e altri vantaggi ancora. Alcuni sono personaggi famosi; gente di grande successo, amata, vezzeggiata e ricca, alla quale la vita ha offerto moltissime possibilità, eppure fumano e non possono smettere e a volte capita che tumore o enfisemi stronchino le loro vite.  Per quanto riguarda la tossicodipendenza da alcol, cito il caso piuttosto conosciuto di Richard Burton e di Liz Taylor, due figure con una vita lastricata di successi. E poi altri, che comunque lavorano e, soprattutto vivono nella legalità, questo è il fattore principale che dobbiamo osservare; teniamo conto che l’uso di alcol è spesso causa di liti che hanno conseguenze gravi e di incidenti automobilistici anche mortali. Ho conosciuto alcolisti che sono morti giovani a causa dell’alcol nell’inefficienza e nel degrado. Questo però va. Lo si tollera. Allora chiedo: perché chi fa uso di eroina è condannato e costretto da “noi” a rubare e a prostituirsi? Condannato a spezzare doppiamente il cuore ai suoi genitori e spesso a rovinarli pure economicamente? Perché deve andare con il capo chino a comperare eroina da spacciatori malavitosi, quando sia il tossico da nicotina e quello da alcol possono acquistare le loro droghe in negozi, specializzati, reclamizzati ed entrarvi ed uscirvi a testa alta? Con quale diritto noi ci imponiamo decidendo per lui, per la sua vita? Forse perché noi vogliamo bene alla mafia e amiamo contribuire ad accrescere il suo patrimonio? E per quanto riguarda i nostri giovani, perché non si facciano illusioni, tengo buona e cito loro la frase di Schopenhauer: “La vita non è bella e la gente è malvagia”. E noi lo siamo veramente malvagi, poiché stiamo facendo sì che questi ragazzi, sciupino tutte le loro energie e i loro giovani anni, obbligati da noi alla cultura del crimine. Costretti a dover trovare a qualunque costo i soldi che gli permettono di ottenere nel minor tempo possibile quel poco di eroina, quasi sempre tagliata male, e lasciamo che talvolta, sporchi, distrutti, soli e barcollanti, si accascino sul marciapiede e lì muoiano. 

Io la droga non gliela do. Il proibizionista. Sì, potrei evitare che i tossicodipendenti da eroina vadano a rubare e che si prostituiscano; potrei evitargli di elemosinare, o spacciare e morire ad angoli di strada per la vita tribolata di tutti i giorni alla quale sono costretti per procurarsi la dose offertagli da spacciatori spesso senza scrupolo che mettono veleni nella sostanza per gonfiarla e guadagnare il triplo. Sì, potrei evitare gran parte della sofferenza anche ai loro genitori che oltre al resto a volte vedono loro figlio incarcerato. Incarcerato perché? Sì, potrei evitare tutto questo ma non lo faccio perché io sono un proibizionista e io so cosa è bene e cosa è male, e non solo per me ma anche per gli altri. La mia idea è la più giusta di tutte. Sì! So io cosa si deve fare e cosa no. Se io gli dessi l’eroina quelli continuerebbero e io non voglio. Vogliono farsi? E io non gliela do. Che vadano pure dai criminali a comprarsela. Io non gliela do. Perché io ho ragione e so cosa si deve fare. E poi, perché io decido per tutti. Che vadano pure a rubare, che finiscano pure in carcere: ben gli sta. Scippano le vecchiette? Le vecchiette cadono e si fratturano il femore. E chi se ne frega. Io la roba non gliela do, perché io so cosa è giusto e cosa no. E tutti devono fare quello che dico io e se non lo fanno, peggio per loro. E chi se ne frega. 

“Stupefacenti, un “male ineliminabile”? “Droga: così gli svizzeri hanno risolto il problema”. Ero distratto. Lo siamo stati tutti. Non abbiamo sentito i campanelli d’allarme. Era tanto evidente, lampante, che sostenere il proibizionismo serviva ai narcotrafficanti per ingrassare e proliferare ma noi eravamo distratti, forse perché non pensavamo che tale situazione potesse degenerare tanto. Ed ora ne paghiamo, chi più chi meno, le conseguenze. Il buco in Svizzera costa solo tremila lire. I tossicodipendenti, van-no, lo fanno e poi possono andare al lavoro. Non sono costretti a perdere tutta la giornata per procurarsi la roba. Si fa tutto nelle norme igieniche e si è seguiti da medici e infermieri. Quindi anche i ragazzi si sentono in qualche modo tutelati, protetti, seguiti, amati. Fino a che non accetteremo l’idea che l’essere umano da sempre usa sostanze che lo alterano: come gli indiani d’America fumano il calumet, gli stregoni e gli indigeni del Messico usano il peyotl, gli anziani delle campagne romagnole fumavano la cannabis, i militari degli anni cinquanta e sessanta sniffavano la trielina, i cinesi l’oppio, gli indù l’hascisc ecc. ecc. E poi c’è sempre chi assume alcolici e chi psicofarmaci. Se mi chiedo: “Ma tutto questo potrà mai finire?” Aldilà della considerazione che non capisco perché dovrebbe finire visto che non si presentano altre vie, la risposta che trovo è: “No. Assolutamente no”. L’essere umano ha bisogno di alterare la percezione della realtà per poterla in qualche modo rendere più accettabile, ma non solo: anche perché così facendo, egli crede di scoprire attraverso i meccanismi dell’alterazione il mistero della vita, della trascendenza, della morte e dell’eterno. Oggi, con il mercato fuori di testa, la situazione si è snaturata. Di-fatti c’è un’invasione di tutto e quindi anche di droghe, droghine e droghette. E siccome il mercato lo stiamo alimentando noi, non dobbiamo, o non dovremmo, lamentarcene. Accettare. Ecco, accettare l’evidenza, la realtà nuda e cruda, la realtà dell’essere umano così com’è: incompleto, limitato. E non, Immaginare. Una volta che si sarà riusciti ad accettare il fatto che la droga, l’alcol, il tabacco e gli ansiolitici non sono per l’essere umano, allo stato attuale, eliminabili; allora e solo allora si potrà cominciare a pensare e a lavorare per far si che diventino meno pericolosi e nello stesso tempo, cercare nuove soluzioni alternative: sia per l’individuo che li assume, che per la società che lo ospita. E qui sta il punto: finché le droghe resteranno sotto il controllo della criminalità, avranno un potere devastante e naturalmente incontrollabile, sia dal punto di vista economico, questo si comprende, che dal punto di vista della qualità e pure questo si comprende. Se si pensa che, siccome le Forze dell’Ordine, ora danno caccia spietata ai narcotrafficanti, fra un mese fra un anno, due anni, tre anni o quanti ne vogliamo, non ci saranno più né tossicodipendenti né spacciatori, si è degli illusi. Ritengo che tutto questo darsi da fare in tale direzione sia uno spreco di energie, denaro e poca voglia di concludere. Reprimere un’esigenza umana alla fine si dimostra sempre controproducente. 

Questi governanti ci vogliono ignoranti. Sono ormai più di trent’anni che i governanti obbligano chi fa uso di eroina a rubare, a prostituirsi, a divenire a loro volta degli spacciatori. Costretti dal governo a frequentare ambienti criminali divengono a loro volta dei piccoli delinquenti. Non essendo sufficientemente sfortunati subiranno poi anche il carcere. Quello che producono questi governanti con la loro negligenza, con il loro menefreghismo, cinismo ed egoismo, è disperazione (intere famiglie travolte), disagio, aumento della criminalità e mantenimento del narcotraffico allo stato attuale, cioè quello di sempre, anzi con maggiore incremento e maggiori spese di forze armate, pressoché inutili, visto che, come i narcotici legali: tabacco, alcol, psicofarmaci, calmanti, ansiolitici, anfetamine per uso dimagrante, tutte droghe che portano l’individuo alla dipendenza, anche il “tranquillante” chiamato eroina è sempre reperibile, 24 ore su ventiquattro, il ché vuole dire giorno e notte, non manca mai. Il potere per governare, ha come compito, il dovere, di tenere il più possibile l’individuo nell’ignoranza e all’oscuro di molte faccende che invece lo riguardano. L’eroina è un nuovo prodotto, ma non è niente di più né di meno di un “tranquillante”, tanto è vero che la si potrebbe chiamare benissimo “Tranquillamon oppure Calmolix”. Voglio dire che questa sostanza non racchiude in sé l’essenza della delinquenza, o l’essenza della prostituzione; queste sono balle alle quali in un certo qual modo vogliono che noi ci si creda.

Famiglie distrutte. Vediamo a che situazione amara e di degrado conducono questi nostri illustri potenti: famiglie distrutte economicamente e psicologicamente, ridotte al silenzio (ecco perché i governanti la fanno franca), alcuni casi di genitori che si suicidano, pensate a quanta violenza è sottoposta una madre che si ritrova ridotta a denunciare il proprio figlio o la propria figlia perché non ce la fa più, e non a causa della sostanza, come si può pensare ma a causa dell’alto prezzo che il proibizionismo impone . Ragazzi per strada allo sbando e senza norme igieniche. Ma pensate anche a quanta violenza dovrebbe sottoporsi vostro figlio o vostra figlia se un domani per puro caso o per sfortuna, poiché la porta è sempre aperta grazie ai nostri governanti, se, a quindici, sedici, diciassette anni divenisse consumatore e dipendente di sostanze illecite anziché lecite fosse costretto a rubare e a prostituirsi. Questi ragazzi, nella maggior parte dei casi non sono dei delinquenti, ma hanno la sfortuna di essere dipendenti di una sostanza non lecita che però è libera poiché è venduta dappertutto. Queste che ho raccontato sono solo alcune delle disgraziate situazioni che coloro i quali, sono bravissimi ad aumentarsi stipendi e pensioni senza domandare permesso ad alcuno e chiedono poi a noi di votare ridicoli referendum, solo per verificare quanto siamo rincitrulliti e di quanto è ancora la nostra sudditanza portano al furto e alla malattia i poveri dipendenti da sostanze che chi governa ha deciso siano illecite. Cosicché anche il servizio medico se ne frega parecchio, se non quando l’individuo è giunto allo stato cronico-terminale. Altro che prevenzione. E tutto questo avviene principalmente per motivi di interesse economico. Il potere incute terrore, e tanto più si è deboli, tanto più lo incute. E lui lo sa e ne approfitta. Questa è la sua forza. Mantenere l’individuo il più possibile nel disagio, nella paura e nell’ignoranza. Io non ho lo spirito del martire e non starò qui a guardare inerte che mio figlio subisca un giorno di carcere o che debba morire, grazie a gente che non produce alcunché, e va solo mantenuta assieme con le loro famiglie. Attori potrebbero svolgere tranquillamente e magari con un po’ più di sentimento e coinvolgimento emotivo lo stesso tipo di lavoro, se lavoro si può chiamare. 

Un dolore senza prezzo. Il proibizionista. Così ho esposto denuncia presso la Procura di Brescia chiedendo ai magistrati che i governanti italiani vengano giudicati e condannati poiché una situazione che dura da più di trent’anni è certamente voluta e non può essere attribuita al caso o ad un fattore di inconsapevolezza; ho chiesto inoltre lire dieci miliardi per potere affrontare e risolvere in modo adeguato questa situazione e come risarcimento ad un dolore che prezzo non ha. Se al governo ci sono dei “mostri” che compiono in continuazione, sistematicamente e in questo caso, subdolamente, delle atrocità, io dico che qualcuno li deve fermare. Confido e spero nell’aiuto di genitori che hanno ragazzi e ragazze dipendenti da sostanze illecite, ai quali è stata tolta tutta l’allegria, la volontà di vivere ma spero non del tutto, e si sentano in dovere di raccontare quale terrificante realtà aspetta le nuove famiglie che si troveranno ad essere coinvolte, a dovere fare i conti con questa dolorosissima concretezza e perché comprendano da subito il dramma e la paura. Confido poi in tutti gli italiani. Io cercherò di far capire che tutta questa grande sofferenza è confusione, e non è procurata dalla sostanza, ma da un losco progetto portato avanti da più di trent’anni. Noi tutti dobbiamo prenderne coscienza e visione, divenire consapevoli di quali e quante barbare atrocità vengono commesse a nostra insaputa dietro le quinte nel segno di, “tanto la gente non vede e se vede, per paura o per vergogna sta zitta, ferma senza mai agire, affinché inutili, umilianti brutti sacrifici umani debbano cessare”. Lo sforzo per aprire gli occhi e svegliarsi mi sembra oltre che lecito, doveroso. 

Come scacciare la “scimmia”? La mostruosa “scimmia” dell’eroina. La “Scimmia”, la chiamano così i tossicodipendenti da eroina. E’ il ritorno animale, l’esigenza primordiale. Quella del difendersi dal dolore forte acuto, lancinante, insopportabile, impossibile. Sopravvivere ai terribili crampi allo stomaco, a quelli alle gambe, a quelli dappertutto. Sopravvivere al sentimento di morte: alla tachicardia causata dal senso di soffocamento per il continuo e inarrestabile starnuto. La vista che scompare, le palpebre che sbattono, la bava alla bocca, la pupilla che si dilata all’infinito, nausea, vomito, diarrea, gli occhi che ruotano all’indietro. Il tatto che se ne va: afferrare e trattenere un oggetto è pressoché impossibile, se ci si pettina ci si danneggia poiché manca la sensibilità. Queste sono alcune delle più evidenti forme di un attacco di astinenza da eroina. Lo sapevate? Questa la spinta che li fa muovere prima, ed agire, disposti a tutto. E’ la “Scimmia”. E’ la “Scimmia”, che si presenta ed ha inizio ogni 12 ore, due volte al giorno, 730 volte l’anno. Possiamo capire benissimo a che vitaccia è costretta giornalmente una persona che si trova in questa condizione. L’eroina a differenza di tutte le altre droghe “fa caso a sé”. L’eroina e il proibizionismo formano una miscela devastante, letale: non per i proibizionisti, che se ne fregano, ma bensì per gli eroinomani. Vediamo cosa devono fare questi ragazzi per evitare la scimmia. A causa del proibizionismo certo non possono andare in tabaccheria o in farmacia a comprare una dose. Tradire i genitori, tradire gli amici, tradire se stessi, divenire altro, allontanati che si allontanano, rubare, prostituirsi, fare forti leve sui sentimenti di persone care (non pensiamo gli eroinomani siano insensibili e non stiano male per questo), creare rimorsi e sensi di colpa, minacciare il suicidio, distruggere, e non solo se stessi ma anche l’ambiente che li circonda e quello che li accoglie. Spacciare per ottenere la dose, vendere qualsiasi oggetto di casa propria che possa valere: quadri, mobili, oro, televisori, rasoi, giradischi, libri, candelieri, ecc. Gridare, dare fuori da matti, rompere, dare pugni e calci a qualsiasi cosa, chiedere denaro, minacciare, elemosinare, ricattare, scippare, fino e oltre la nausea di tutti i giorni, fino a trovarsi soli, non voluti, (comunque pianti), fuori casa o arrestati, per poi una volta tanto entrare in comunità per un certo periodo, uscire, ricominciare a farsi e quindi ricominciare da capo il già citato, ogni volta più deboli: più deboli loro e più deboli i loro genitori, abbandonati a se stessi nella vergogna e nel dolore. Sembra che per la maggior parte di questi ragazzi la storia non debba mai finire. Spesso muoiono o restano storpiati. Questi accadimenti speciali e particolari sono peculiari di coloro che si iniettano eroina e non di quelle persone che fanno uso di marijuana, di ecstasi, di nicotina, di mescalina e di LSD. Ripeto, quel che ho dimostrato: che la vitaccia da cani dell’eroinomane a causa della forte dipendenza connessa al proibizionismo non la fa nessun altro tossicodipendente. Ora pare che alcune istituzioni si stiano muovendo. Pur comprendendo che, dovranno applicarsi parecchio, dato il digiuno pressoché totale in tale materia, prima di ottenere dimestichezza in questo tipo di esperienza, una domanda sono obbligato a farla e chiedo loro: come intendono preoccuparsi dei ragazzi ridotti a dormire in stazione, esposti ad ogni sorta di pericolo, ammalati, non curabili così messi, e malnutriti, e degli altri che vivono, fino a quando la situazione non degenera, ancora con i genitori: i quali hanno gli occhi fuori dalle orbite, i capelli elettricamente ritti, il portafoglio praticamente vuoto e sono sull’orlo di un esaurimento. Vorrei sapere come intendono affrontare questo problema impellente dei ragazzi disperati e costretti come ho detto prima, a dedicarsi a tutto pur di ottenere una dose. 

Droga, il calvario delle famiglie. I ragazzi che sono dipendenti da eroina non si possono tenere in casa perché rubano e sono ingestibili. Fuori casa sono costretti a rubare a mendicare a prostituirsi e a condurre una vita malsana. I genitori sono disperati, i figli si distruggono più che per la droga, per la vita che sono obbligati a fare. Le forze dell’ordine continuano a fermare carichi di droga e questo non serve a nulla, tanto è vero che la droga c’è sempre. Quindi questo risulta una buffonata e una presa per i fondelli: solo i tonti e ce ne sono molti, riescono a credere che questa è la via per fermare il traffico di droga. Quelli al governo chissà quanto mangiano di tutti i denari che “noi” spendiamo in queste ridicole operazioni che servono solo a far giocare a guardia e ladri gli interessati. Invece di dare la sostanza a chi è dipendente e non può farne a meno, e di rendere umana l’esistenza di chi vive questa situazione, giocano ai buoni e ai cattivi, ai giusti e agli ingiusti, solo per il loro esclusivo tornaconto e perverso piacere, visto che hanno trovato noi, tonti, che non solo li lasciamo fare ma li manteniamo pure. E spezzando un attimo il discorso vorrei dire: cosa si crede, che la benzina aumenti perché aumenta il petrolio? Non è questa la causa. La benzina aumenta perché aumentano le esigenze dei capi di stato. E chissà quanti sotterfugi e quanti intrallazzi hanno con il traffico di droga. Questa è verità. Per forza succede questo. Quelli al governo, che in fin dei conti sono degli estranei, e soprattutto estranei al lavoro, se la godono e fanno vita di lusso, con tutti i denari che gli diamo per prenderci meglio in giro se lo possono permettere. Intanto la cultura vigente, quella che circola e permea ogni mente è questa imposta dal potere, quella di fare e lasciare credere che tutto il danno sia causato dalla sostanza: e invece non è così: E’ il proibizionismo che crea caos, delinquenza, malessere, malumore e sporcizia a tutti i livelli. Questa è una situazione intollerabile e bisogna che la magistratura ne prenda presto atto e inizi le indagini per smascherare e far venire alla luce tutti i vantaggi che i capi di stato hanno ed hanno avuto fino ad ora lasciando la droga sotto il controllo della criminalità, fregandosene davanti anche al fatto che le famiglie colpite sono spesso totalmente e per sempre mostruosamente rovinate e comunque sfregiate e che tutta la società ne è colpita e umiliata. (Quando allora scrissi questo mi illudevo: nessun organo di potere è affidabile). Tutto mi fa pensare che certa alta criminalità abbia molto potere nel governo. Ecco che allora diviene chiaro perché l’eroina rimane a prezzo altissimo e nessuno smuove la situazione. Denaro o paura. E capisco così il perché è proibita anche a chi ne dipende, soprattutto perché è chi ne dipende che porta guadagno. E’ proibita ma la si trova sempre, non manca mai e chi ne è dipendente deve fare di tutto per pagarne l’alto prezzo. Per spillarci sacchi di quattrini, i capi di stato sono dei veri specialisti, tant’è che continuano a far dare la caccia ai narcotrafficanti e questa costa: non a loro, a noi. Ma la droga c’è sempre. Ciò vuole dire anche lì ci guadagnano. La magistratura deve indagare e punire per tutto questo perché nemmeno in Kosovo la vita è tanto brutta come da più di trent’anni lo è e lo è stata per i tossicodipendenti e le loro famiglie. Voi tutti dovreste accorgervi ed arrabbiarvi solo per la fatica che siete obbligati a fare per mantenere il governo che non vi ama. I ragazzi che si drogano devono poter stare in casa loro con i loro genitori come chi è dipendente dall’alcol e dal fumo e dagli psicofarmaci; curarsi e fare una vita da essere umano. Ma il proibizionismo che è il principio massimo della criminalità, non lo permette. (Certo che la condizione più pesante da sopportare è quella di convivere con un alcolista). Mai avrei immaginato tanta sofferenza e disperazione, e forse è una fortuna questa, di essermici trovato in mezzo; mi permette di agire, di approfondire e spero, di modificare la situazione (è ora di mettersi dalla parte del più debole, ma non con la lingua, con i fatti) poiché per me oggi è inammissibile pensare che un’altra famiglia domani sia ancora coinvolta in questo disastro e debba soffrire tanto. Nuove famiglie ogni giorno sono coinvolte e vengono distrutte emotivamente, psicologicamente ed economicamente: per forza di cose, poi, così indebolite, non reagiscono, tacciono e lasciano che sia. E’ la storia infinita. Che invece deve finire! perché non si può tollerare. E non si può, nel modo più assoluto, tollerare per sempre. Io voglio far conoscere alla popolazione la grandezza del danno arrecato dal proibizionismo; danno che non solo colpisce economicamente, che già non è cosa da poco, ma, e, soprattutto, danno che colpisce e che offende umiliando la vita di tanti giovani ragazzi che la cultura meschina e di parte tace. Prima che l’energia tramonti e la paura prenda il posto del coraggio a causa della disperata situazione, come è successo a chi da tanti anni ha i figli che usano eroina, invito le nuove famiglie ad unirsi ed organizzarsi subito per combattere e punire senza esitare chi vuole che la situazione continui a rimanere la stessa; i proibizionisti sono interamente e totalmente colpevoli del disastro che oggi si abbatte su di noi. (Non dobbiamo dimenticare mai da quanta violenza siamo stati investiti: l’atroce dolore). Non c’è rispetto per i tossicodipendenti. Né per loro né per le loro famiglie: è ora che non ci sia rispetto neanche per i reali colpevoli. Il tossicodipendente non è un ladro, non è una prostituta e nemmeno un mendicante o un truffatore ma lo diventa poiché obbligato. Il proibizionismo impone il crimine. Quando un tossicodipendente finisce in carcere la colpa è del governo che comodamente lascia la gestione delle droghe al crimine e poi beffa i genitori dei tossicodipendenti: il carcere gli manda a casa il conto da pagare. I governanti devono pagare per tutto questo. Devono pagare per tutti coloro che hanno dovuto fino ad oggi soffrire e subire a causa delle loro malefatte. Le famiglie colpite devono essere risarcite.

Proibizionismo? Comunità?. Ecco … il problema della droga finalmente prende forma? Coscienza e trasmuta? Diventa il problema del “Proibizionismo”. Il proibizionismo che crea sofferenza e affonda le sue tortuose radici come lame nelle famiglie di coloro che dipendono dall’eroina. Che cosa accadrà quando la sostanza in questione sarà controllata dallo stato? Forse che i tossici non andranno più a rubare e inizieranno pure a lavorare vista la grande quantità di tempo che gli rimarrà e vista anche la tranquillità interiore che permetterà loro di riuscire a pensare anche a qualcos’altro che non sarà solo ed esclusivamente il – come – procurarsi enormi quantità di denaro per acquistare l’eroina. E dicendola più lunga: forse, quando più non esisterà l’ossessionante pensiero del come procurarsela, forse allora, qualcuno penserà anche a come smettere. Cosa accadrà? Ovvio che ci resteranno malissimo narcotrafficanti e tutti coloro che per una ragione o per l’altra ne sono collegati e ne traggono ora dei vantaggi. Difatti c’è gente che ancora vi si oppone, gente che vuole la repressione, che vuole proibire questo e quello ad altre persone: molti per ignoranza o per tornaconto perché ci guadagnano sfruttando la situazione come coloro che hanno aperto comunità di recupero. Questi oltre al lavoro hanno trovato uno scopo di vita, ancora grazie alle disgrazie di alcuni. Tutte queste persone dovrebbe ringraziare i tossicodipendenti e invece li sfruttano. Sia ben chiaro che le comunità non hanno mai salvato nessuno e sono potute sopravvivere solo grazie al proibizionismo. Difatti non esistono comunità per i tossicodipendenti da alcol, da nicotina e da altre droghe legali. Ora non posso fare a meno di menzionare Muccioli, poiché è il nome più conosciuto per quanto riguarda il settore: “Comunità italiane”, il quale, si schiera deciso dalla parte dei proibizionisti, ed è ovvio, perché l’anti-proibizionismo gli toglierà denaro, potere, ammirazione ed onori. Dovete sapere che quando la televisione andò a San Patrignano per chiedere a Muccioli se: visto quello che l’alcol causava fosse il caso di proibirlo…Le riprese erano effettuate davanti alle grandi botti di vino nelle cantine situate nella comunità stessa. Capito il produttore…? La risposta più o meno fu questa: “Eh, ma no… il vino… è tradizione eh, il vino è costume e poi c’è sempre stato eh”. Quando si toccano gli interessi sono guai, tutti uguali. In quel programma come ogni oppurtunista si è guardato bene dal parlare degli effetti devastanti dell’alcolismo poiché questo avrebbe intaccato il suo patrimonio - San Patrimonio altro che San Patrignano - In questo modo allora diamo ragione anche i narcotrafficanti. Il Muccioli aggiunge che chi si è fatto di eroina se guida è pericoloso. Ma Muccioli… suvvia, lo sanno anche i bambini che chi è fatto di eroina non va in automobile e che sono i tossicodipendenti da alcol che vanno in auto e provocano disastri! Che dire poi della produzione (antianimalista) di pellicce che si fa a S. Patrignano? Qui Muccioli ha detto: “Eh sì… ma le donne. Eh, le donne, da sempre usano le pellicce e cosa c’è di male? Quindi… di cosa dobbiamo preoccuparci? Cosa vuoi mai…!?”. L’essere umano da sempre, qualsiasi cosa faccia giustifica se stesso, ma un po’ di esame di coscienza, una volta tanto…Muccioli dice anche, che anzi, dovremmo investire sulle comunità, modernizzare quelle già esistenti e costruirne di nuove. E’ proprio vero che chi più ha più vuole. Chi vuole costruire nuovi ghetti? Il tutto, tradotto da me in poche parole, suona così: “Sì, lasciamo per sempre il controllo dell’eroina ai narcotrafficanti, lasciamo a loro il completo dominio della sostanza che così a me gli affari vanno a gonfie vele”. Le comunità fanno il gioco dei narcotrafficanti, anzi, sono parte di quel gioco. Alle comunità servono narcotrafficanti e proibizionismo poiché questi forniscono eroina ai tossicodipendenti a prezzo altissimo e di conseguenza forniscono clienti disperati alle comunità. Queste prendono sovvenzioni dallo stato, cioè da noi, poi prendono donazioni ed infine prendono i soldi del lavoro dei tossicodipendenti. Ecco perché ci tengono a far sì che nulla cambi. In casa Muccioli si perde ogni tipo di libertà, pure quella di voto: è lui che decide per chi si deve votare e i deboli obbediscono. Le mafie politiche, è ovvio, sostengono le comunità. Parlerei volentieri malissimo di tutti, compreso me stesso per non essermi interessato prima, poiché il danno c’è stato e molti hanno molto sofferto, causa il proibizionismo, il grandissimo male, ma d’altronde la nuova droga è nuova e le nostre vecchie teste sono ancora ancorate al medioevo e fanno fatica ad orientarsi nell’oggi, nel nuovo. Per quanto riguarda coloro che governano il paese, devo dire che anch’essi hanno le loro droghe, i loro narcotici, e non ultimo l’Europa. E quanto ci costa!? E quanto ci costano!? E mi viene proprio da dire: “Vedrete che imbottonata prendiamo”. Hanno una smania irreversibile, una passione sfrenata per questa entrata in Europa. – loro hanno la passione a noi tocca il calvario – Siccome per entrarci ci vogliono quattrini e tanti, e i quattrini li dobbiamo tirare fuori noi, i capi di stato fanno di tutto per farci accettare l’idea, con (pro)rompente pubblicità, da noi pagata e continuano a spararci balle del tipo: “Che l’Europa è bello ed entrarvi è importante e salutare”, stanno facendo un gran chiasso e confusione mostrandoci un sacco di esaltanti cambiamenti. Cambiamenti a destra e a sinistra, cambiamenti su e cambiamenti giù; tutto questo però avviene solo ed esclusivamente forse nelle loro teste; sicuramente in tv, radio, quotidiani e riviste, mentre qui da me e in me e nella città in cui vivo, non avviene niente, niente di niente. E che strano: mi capita ogni tanto di parlare con amici, conoscenti e qualche volta anche persone che non conosco e pure per loro è così, non avviene nulla, nessun cambiamento. Alla fine del discorso anche la musica è sempre quella, anche la musica non cambia mai perché ci diciamo che quello che cambia è soltanto il solito prezzo delle cose; quello cambia, lievita in continuazione, s’innalza, e fra non molto si ergerà sopra vette inimmaginabili ora, ad altezze mai raggiunte, dove tra noi e quel punto esisterà l’estremo, esisterà l’abisso. E salendo sempre più in alto, senza eccezione che conferma la regola: mai che cada eh! e noi (s)contenti lo paghiamo. Ma allora …? Mi accorgo che ho dei governanti che mi rendono infelice, che ci rendono e ci fanno del male. E non sono il solo ad accorgermene: le voci sono quelle che sono, e circolano, copiose. Ecco che per analogia, invece, questi governanti avrebbero dovuto portarci, erudendoci, cioè dicendoci quella verità scomoda, ma indispensabile per il raggiungimento di risultati positivi per quel che riguarda la tossicodipendenza da eroina ma. Non è forse il proibizionismo la causa del grave disagio sociale che coinvolge sempre più, nuove famiglie, conducendole verso il logorante declino, sempre più consapevoli dell’impotenza causata dalle leggi adottate dai proibizionisti? Leggi che non permettono a chi fa uso di eroina di uscire dal giro. Non è forse il proibizionismo la causa della sempre più dilagante criminalità? Non è forse il proibizionismo a far diventare il traffico di eroina un lavoro assai alettante perché molto redditizio? Non è forse il proibizionismo a moltiplicare le forze criminali permettendo ai narcotrafficanti di comperarsi e possedere ogni tipo di arma: fucili, pistole, mitra, bombe a mano, dinamite? Non è forse il proibizionismo che fa morire, prostituire, ammalare, scippare, spacciare? Non è forse il proibizionismo a dare una chance vera e propria, quella di poter spacciare, a quegli extracomunitari, non solo senza permesso di soggiorno, ma già criminali nel loro paese, che se invece non potessero spacciare, qualora l’eroina fosse sotto il controllo del governo, avrebbero grosse difficoltà a rimanere? Ecco, dicevo, che questi governanti avrebbero dovuto… ma invece, ci hanno lasciato e hanno contribuito o a tacere, o a farci credere, per loro interesse - che è l’eroina il grande male - Pensateci bene. Un calmante, un tranquillante, non può essere la causa di tutto il male che molti hanno subito e ancora subiscono; questo male che l’intera società subisce e che ancora dovrà sopportare finché ci sarà il proibizionismo. Suvvia, non è forse questa la frase ricorrente, cultura totalmente errata, che ci spinge a dire: “Maledetta eroina, maledetti spacciatori”, al posto di: “Maledetto proibizionismo, maledetti proibizionisti”.  Il proibizionismo disumanizza. Comunque, so che ora, come sempre, i nostri (a chiamarli nostri è un guaio) governanti se la faranno in chiacchiere a più non posso e a me e a voi non resterà altro che attendere. Attendere cosa? L’unica cosa che il governo riesce a produrre: i nuovi aumenti delle cose che ci servono per vivere. 

Droga, un flop. Io all’inizio di questo mio percorso ho cercato di coinvolgere genitori, associazioni, gente interessata, che si opponesse a questo sistema che tratta chi dipende dall’eroina in modo barbaro, disdicevole, senza rispetto, come se si trattasse di un oggetto da manipolare e da sbattere qui e là a piacimento e da usare esclusivamente per il proprio tornaconto. Chi fa uso di eroina non è trattato da essere umano e neppure è considerato una vittima ma sfruttato per benino e etichettato come delinquente. Il proibizionismo è il gioco del potere e del narcotraffico che criminalizza questi ragazzi e li perseguita sfruttandoli in misura disumana. Sembra che non freghi niente a nessuno che in questo modo chi usa eroina è messo in condizioni di diventare effettivamente un criminale; dal momento che non solo deve magari rubare ecc. ma che comunque il rapporto con la malavita e gli spacciatori esiste. (E’ obbligato). E così i giovani tossici entrano nella logica malavitosa. Si dovrebbe impedire questo! poiché non soltanto non è umano ma disgustoso e immorale. A quanto vedo, a parte me, nessun altro è interessato a far cessare questo stato di cose. Noncuranti del fatto si lascia che altre famiglie e altri ragazzi vivano le stesse medesime drammatiche situazioni, uguali identiche ad oggi, come 10 anni fa, come 20 anni fa, come 30 anni fa: anzi, oggi è peggio. Nessuno vuole cambiare nulla? Sicuramente vi sono persone che amano nutrirsi e nutrire gli altri di sofferenza. E così si tace e si fa il gioco di chi spaccia. Innovativo sicuramente lo sono stato, io denuncio, sperando in un risveglio, però da solo ma…, speravo che qualcuno ci fosse, che qualcuno si unisse. Mi sono detto: o che nessuno ha sentito, o che nessuno ha capito, o che c’è paura. Certo, lo so, non è cosa da poco scontrarsi con il governo, contro le istituzioni Da soli poi. Contro il governo? Ma… visto l’andazzo, mi sa contro tutti. Visto che anche la solidarietà è per i vincenti: in questo momento i vincenti sono il governo e i narcotrafficanti. 

Fumo e droga, due pesi e due misure. C’è chi insiste nel dire che la droga non deve essere legalizzata, perché lo stato non può fare di se stesso uno spacciatore: spacciatore di droga e quindi di morte. Non so se queste persone sanno cosa dicono e se si rendono conto che accusano lo stato di spaccio e di morte. In realtà non fanno altro che evidenziare quello che lo stato è. A noi può anche sembrare una morte allegra quella per enfisema polmonare, oppure una passeggiata tranquilla in campagna la morte per cancro ai polmoni. Possiamo pure, volendo, giungere a pensare che la mal circolazione causata dall’indurimento delle vene e delle arterie, e le operazioni ad esso connesse e i dolori prodotti, soprattutto negli arti inferiori, siano un toccasana, un incentivo per rimanere più tempo a letto e per non andare a quelle noiosissime feste che tanto odiamo. Posso continuare parlando dei mal di gola, dei tumori alla gola, delle bronchiti, delle fitte ai bronchi e degli infarti, continuamente causati dai prodotti a base di nicotina e di catramina ma, allora…? Non vorremo forse dire che lo stato è uno spietato e insensibile dispensatore di morte, nonché spacciatore incurante della sofferenza che esso procura spacciando sostanze nocive alle persone che lo compongono? Ebbene sì! Lo stato è dispensatore di morte. E le persone, che come unica ragione al loro essere proibizionisti portano la frase: “Non oso pensare che lo stato si faccia spacciatore, ne sarei scandalizzato”, per non dir di peggio, dirò che fanno solo della spontanea inutile retorica, buona per i polli. Sarebbe meglio imparassero a pensare prima, e a lavorare poi, se è vero che gli sta a cuore il problema della sofferenza umana legato alla droga. E neppure in questo scritto voglio mancare di dire che penso invece che queste persone scrivano per partito preso e che io personalmente li ritengo falsi, oppure ignoranti. Comunque sia, lo stato è sotto accusa. Lo stato spaccia morte. Non so quanti tabagisti sarebbero contenti e d’accordo, se in questo preciso momento, anziché scrivere, scendessi in strada e pretendessi di arrestare tutti coloro che vendono, pardon, che spacciano, prodotti a base di nicotina e se strappassi dalle mani di chi sta fumando, la sigaretta, oh, scusate, la droga. Ma già dimenticavo che per noi questa non è droga e che chi la usa non è tossicodipendente ma è uno, o una, che ha il vizio, come si suole dire vero!? E questo vale anche per l’alcol. Tutto questo cosa vuole dire? Vuole dire che le nostre menti abitudinarie - pur sapendo - non riconoscono come droga il tabacco e l’alcool, e neppure i pericoli ad esse connessi. Questo avviene poiché tali sostanze sono state usate dai nostri avi prima che da noi e sono entrate a far parte del nostro patrimonio culturale: patrimonio del cavolo. Sono diventate un abitudine e le si usa con naturalezza e disinvoltura e in questo modo sfuggono alla nostra attenzione, alla nostra dubbia consapevolezza e di conseguenza al nostro controllo. L’eroina invece, ancora così giovane, ci sconvolge e ancora non sappiamo accettarla nella sua semplicità di sostanza tranquillante, perché nella nostra mente è il nuovo, è l’apparso dal nulla, l’alieno; non sappiamo ancora darle dei connotati precisi, non riusciamo a configurarcela come sarebbe se gestita bene, non riusciamo a domarla, a codificarla, a farla nostra. Così la stiamo lasciando in mano al crimine. So che esagero quando chiamo l’eroina un semplice tranquillante, ma lo faccio volutamente, per ridimensionarne la visione ossessionante ed esagerata che abbiamo della stessa. Facciamoci un esame di coscienza: come stiamo trattando coloro che dipendono da questa sostanza? Se a noi sembra una festa fumare sigarette, e il regno di tutti i mali farsi di eroina, capiremo un domani, forse, spero, il danno che abbiamo procurato a chi dipende da eroina e alle loro rispettive famiglie, nonché a noi stessi criminalizzando chi ne fa uso. Cosa pensano della società repressiva, cioè di noi, i tossicodipendenti? Sebbene sembra non conti gran ché il loro pensiero, anzi nulla, visto che socialmente sono trattati zero, lo voglio rivelare affinché in parecchi lo possiate conoscere. Questo lo posso fare perché ho la capacità naturale di non creare un ambiente frenante con chiunque io parli, almeno questo è stato fino ad oggi. Ecco cosa dicono i tossicodipendenti, forse non tutti, ma quelli che ho sentito parlano così: “Che l’eroina bisogna dargliela e che noi siamo, e qui partono un sacco e una sporta di calmi insulti”. Secondo me non hanno tutti i torti, anzi, secondo me hanno oltremodo ragione. Sarà questione di tempo e di capacità da parte nostra di comprendere a fondo, ma d’altronde non si può imporre a chi dipende da eroina la propria volontà all’infinito, svuotandoli di tutto e criminalizzandoli. Un mio amico musicista, un talento, ex talento ora, quando è stato in carcere si è preso l’AIDS, e oggi è paralizzato a letto. Questo è successo perché anziché alcolizzarsi usava l’eroina. E adesso chi lo ripaga? Chi gliela paga l’esistenza? Dieci o cento miliardi, o altro, e che altro? Criminalizziamo, criminalizziamo, continuiamo così, se questo ci fa sentire potenti, intelligenti e migliori di loro. Visto che forse in famiglia, la vita non ci va troppo bene e le frustrazione non le contiamo ormai più, sfoghiamoci sui più deboli, diamo un calcio al cane, picchiamo moglie e figli e poi se questo non basta diventiamo ferrei proibizionisti. Siccome ci sono i Sert e le comunità, possiamo sempre dire che ci stiamo anche prendendo cura di loro. Più bello di così. Abbiamo tutte le carte in regola e le giustificazioni che vogliamo. L’individuo qualsiasi cosa fa si giustifica. Qualsiasi cosa! Anche quando uccide. Intanto loro soffrono, e non come chi usa alcol o tabacco, o psicofarmaci; poiché loro, soffrono oltre: di un male chiamato proibizionismo e di un altro chiamato menefreghismo e di un altro chiamato tangenti (la droga non sta girando e distruggendo da trent’anni per niente: c’è chi ci ha tenuto all’oscuro di ciò che stava accadendo, quatto quatto, zitto zitto). Non dobbiamo tenere fisso lo sguardo sullo spacciatorino, ma dobbiamo guardare in alto. State guardando in alto? Allora di più, di più, ancora di più, e poi ancora di più ancora, anche se ne ha paura, perché si rischia oltretutto di andare contro alla nostra amata morale e a molte delle nostre consolidate convinzioni. Sempre sia vero che vogliamo eliminare il problema veramente e definitivamente. Pensate, sono trent’anni che va avanti questa storia. Ho calcolato che un’azione rapida e decisa di tutte quante le nostre (le nostre, magari le nostre), forze armate, servizi segreti e via dicendo, in soli tre mesi… e non trovi più nè un filino di droga nè uno spacciatore. Solo che c’è chi non vuole. C’è chi lo impedisce.

Non basta dire no alla droga. Dire no alla droga non basta, se poi si continuano a riproporre gli stessi schemi irrisolutivi. Dire no alla droga va bene, e fino ad adesso cosa abbiamo fatto? Abbiamo detto no alla droga, e non ne abbiamo cavato un bel niente, anzi la situazione è peggiorata: sia per l’evento di nuove sostanze, sia per l’immigrazione; fatto sta che se prima non si era fatto nulla per togliere alla criminalità il potere di controllare il traffico di stupefacenti, ora non si fa nulla perché il tessuto sociale è sempre più complesso e a noi piace un gran tanto chiacchierare e se è appena appena possibile, niente fare. Così continuiamo a dire no alla droga: sono più di trent’anni che lo diciamo, andiamo avanti così che ci piacciamo. Il punto è che, c’è invischiato il governo nel traffico di stupefacenti. Certo, per vie traverse s’intende, ma c’è dentro. Figuriamoci se con tutti i soldi che investiamo nelle Forze Dell’Ordine, attrezzandole di tutto punto: uomini, automezzi, elicotteri, ogni tipo d’arma, computer, strutture, collegamenti con l’estero, periti, psicologi, e ogni sorta di specialisti del crimine e poi chissà quant’altro, dopo trent’anni non siamo riusciti a produrre un bel niente. Ma va là, che non è vero. Ecco, dico anch’io no alla droga, e cosa ottengo: mi fate una carezza, mi vedete più simpatico, mi date un bacetto? Là sotto, c’è una persona che sta facendo una vita d’inferno perché è dipendente da eroina. E per lui, tutti i giorni sono così, costretto a rubare a noi, per poi andare a porgere il denaro su di un piatto d’argento al crimine che diventa ogni giorno più potente e più insolente. E noi cosa facciamo? No, noi non facciamo, noi diciamo: diciamo no alla droga. Gestiamola noi la droga e non umiliamo i tossicodipendenti. Se non vi è ancora ben chiaro: sono vite, importanti come la nostra. Che valore diamo a noi stessi? 

Non ho votato perché. Il teatrino del narcomercato. A parte alcune scelte soggettive, nulla accade in un paese senza che questo sia stato deciso da chi il paese lo governa. E’ più di trent’anni che parte della droga viene lasciata al controllo della criminalità, con conseguente aumento e ricchezza della stessa. Non c’è modo migliore di questo per rafforzarla. Intanto i giovani che dipendono dall’eroina pagano, essendo costretti, dato l’alto prezzo della sostanza, a rubare, prostituirsi, mendicare e diventare a loro volta spacciatori, con conseguente, ancora, aumento della criminalità. Mi chiedo come mai chi ci governa fa di tutto per incrementare e rafforzare la delinquenza. Fatemi una cortesia, chiedetevelo anche voi. Tabacco, alcol, psicofarmaci, anfetamina e calmanti si possono acquistare in qualunque ora, sia del giorno che della notte ad una cifra irrisoria, cosicché, i tossicodipendenti, poiché di tossicodipendenti si tratta, che usano queste sostanze non hanno difficoltà a reperirle, grazie al governo che le concede e possono quindi fare vita tranquilla. Anche l’eroina è nella stessa posizione, o quasi, anch’essa la si trova in qualsiasi momento del giorno o della notte, ma ad un prezzo tanto elevato che è fuori dalla portata di gente comune; ed è a causa di questo che esiste il dramma: incluso la mancanza di rispetto per chi ne fa uso e conseguente disumanizzazione degli stessi. Come mai l’eroina c’è sempre? Eppure continuiamo a leggere sui nostri giornali: “Scacco al narcotraffico… Arrestati spacciatori… Sequestrati quaranta chili di… ecc. ecc.”. Questo teatrino - chi è stato attento lo sa - pensate, dura da più di trent’anni ed è tutto da ridere, sembra nessuno se ne accorga che è una presa per i fondelli. Ed è proprio questo il suo scopo: quello di farci credere che così facendo, a forza di dai e dai, la droga scomparirà e poi e in secondo luogo, serve anche e soprattutto a mantenerla all’altissimo prezzo quale essa è. I ragazzi che dipendono dalla sostanza fanno qualsiasi cosa per averla nonostante il caro prezzo e il narcotraffico rimane fortissimo e fiorentissimo. Meglio di così… o peggio di così? Politici e governanti lasciano il controllo dell’eroina ai criminali poiché credono in questo modo di non sporcarsi le mani, mentre proprio in questo modo se le sono macchiate di delitti ben più grandi di quello dello spaccio. Ed anche qui sembra che nessuno se ne accorga o che tutti si faccia finta di nulla: paura? E’ ovvio che anche i criminali se potessero vendere indisturbati, per essere concorrenziali tra di loro, sarebbero costretti ad abbassare i prezzi e vendere roba più sicura, roba che fa molto meno male di quella attuale, rendendo così la vita più umana a coloro che poveretti, dipendono dalla sostanza sopraccitata. Tutto questo lavoro evitabile che il governo da più di trent’anni impone alle forze dell’ordine costa a noi - e non a loro - pozzi di miliardi. Se persone sensibili al problema, i familiari o chi altro, fosse interessato e volesse appoggiare o conoscere meglio la mia linea, sappia che a questa operazione ho dato il titolo-speranza: “Verso la fine di un’inumana sofferenza”, affinché nuove famiglie non debbano mai più subire un calvario senza fine. Perché questa porta sull’incubo, tuttora aperta, possa finalmente essere definitivamente chiusa. Ecco perché non ho votato: il 14 maggio di quest’anno ho sporto denuncia alla Procura della Repubblica di Brescia presso il Tribunale di Brescia, denunciando i governanti italiani. Figuratevi se ho voglia di andarli a votare. I tossicodipendenti non sono in grado di proteggersi, difendiamoli noi.

Per salvarsi dall’eroina. Sono contento che qualche lettore si sia accorto di me che scrivo e tratto esclusivamente il tema della tossicodipendenza da eroina e mi tenga in considerazione, magari lo facessero pure le istituzioni; così da poco tempo a questa parte inizio a ricevere telefonate e lettere di persone che mi parlano del loro sentire, della loro esperienza, di alcune loro preoccupazioni e di ciò per cui maggiormente rimangono scioccate. Viviamo in un mondo dove l’incomprensione e la guerra sono la regola. Stanno avvenendo fatti nuovi, dove troviamo genitori che sempre più spesso uccidono i loro figli tossicodipendenti a causa delle continue ed esasperanti richieste di denaro. A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, due genitori uccidono il figlio e una madre eroinomane, molto giovane, che sente di non farcela, uccide se stessa con il suo bambino. Chissà quanti altri casi identici si stanno verificando. La “disumanizzazione” è in atto e pare che più si parli di pace e d’amore e più si verifichino barbarie. Sembra che parlandone operiamo una sorta di sortilegio che agisce al contrario: più parliamo d’amore e più esso scompare, più parliamo d’amore e più esso si annulla. E’ successo che, queste e molte altre parole, le abbiamo portate a livelli talmente bassi che sarebbe meglio, anziché pronunciarle, meditarle in silenzio. La parola “amico” viene usata in TV da venditori e presentatori di ogni genere: “Amici” dicono. Possiamo vedere e comprendere a quali bassi livelli risuoni poi nell’esperienza “amico, amore, amicizia”, ed è solo un esempio. Se dovessi dare una spiegazione al fenomeno direi che suddette parole sono logore, vecchie e ambigue e così rimangono senza memoria, o meglio, perdono memoria e consistenza nell’attesa che qualcosa loro, d’altro, sopraggiunga. Dal libro “Droga” di Enrico Malizia, nella tabella delle dipendenze, l’eroina è al primo posto ed è l’unica sostanza che da assuefazione sia fisica che mentale al 100 x 100 sia nell’uno che nell’altro caso. Il proibizionismo, in sinergia con la sostanza, fa a pezzi, eroinomani e familiari, lasciandoli serrati in una morsa dove chi detta legge è, non il governo che in Italia non esiste ma il racket della droga e umilia la società. Sono contento che qualche lettore si sia accorto di me che scrivo e tratto esclusivamente il tema della tossicodipendenza da eroina e mi tenga in considerazione, magari lo facessero pure le istituzioni; così da poco tempo a questa parte inizio a ricevere telefonate e lettere di persone che mi parlano del loro sentire, della loro esperienza, di alcune loro preoccupazioni e di ciò per cui maggiormente rimangono scioccate. Viviamo in un mondo dove l’incomprensione e la guerra sono la regola. Stanno avvenendo fatti nuovi, dove troviamo genitori che sempre più spesso uccidono i loro figli tossicodipendenti a causa delle continue ed esasperanti richieste di denaro. A distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, due genitori uccidono il figlio e una madre eroinomane, molto giovane, che sente di non farcela, uccide se stessa con il suo bambino. Chissà quanti altri casi identici si stanno verificando. La “disumanizzazione” è in atto e pare che più si parli di pace e d’amore e più si verifichino barbarie. Sembra che parlandone operiamo una sorta di sortilegio che agisce al contrario: più parliamo d’amore e più esso scompare, più parliamo d’amore e più esso si annulla. E’ successo che, queste e molte altre parole, le abbiamo portate a livelli talmente bassi che sarebbe meglio, anziché pronunciarle, meditarle in silenzio. La parola “amico” viene usata in TV da venditori e presentatori di ogni genere: “Amici” dicono. Possiamo vedere e comprendere a quali bassi livelli risuoni poi nell’esperienza “amico, amore, amicizia”, ed è solo un esempio. Se dovessi dare una spiegazione al fenomeno direi che suddette parole sono logore, vecchie e ambigue e così rimangono senza memoria, o meglio, perdono memoria e consistenza nell’attesa che qualcosa loro, d’altro, sopraggiunga. Dal libro “Droga” di Enrico Malizia, nella tabella delle dipendenze, l’eroina è al primo posto ed è l’unica sostanza che da assuefazione sia fisica che mentale al 100 x 100 sia nell’uno che nell’altro caso. Il proibizionismo, in sinergia con la sostanza, fa a pezzi, eroinomani e familiari, lasciandoli serrati in una morsa dove chi detta legge è, non il governo che in Italia non esiste ma il racket della droga e umilia la società. Sì, l’eroina costa cara e crea forte dipendenza. Il danno che porta con sé non è ancora compreso. A tutti noi tocca di pagarla, in quanto, gira e rigira quei soldi sono ancora quelli di tutti, e così, tutti, andiamo comprando eroina e ingrassando ignari il crimine, che ogni giorno diventa più forte e imperante. Non mi schiero dalla parte di chi vuole le droghe libere ma, come ho già scritto in passato, l’eroina fa caso a sé per la totale dipendenza alla quale lega e non va liberata ma, a chi al momento ne dipende, la sostanza va data, proprio per potere recuperare l’individuo, poiché se rimane coinvolto tutti i giorni e tutto il giorno, costretto a cercare disperatamente il denaro per potersi procurare la dose, voi capite che non c’è; e quindi non è possibile fare nemmeno il quotidiano tentativo di recupero. Sì, l’eroina costa cara e crea forte dipendenza. Il danno che porta con sé non è ancora compreso. A tutti noi tocca di pagarla, in quanto, gira e rigira quei soldi sono ancora quelli di tutti, e così, tutti, andiamo comprando eroina e ingrassando ignari il crimine, che ogni giorno diventa più forte e imperante.  Non mi schiero dalla parte di chi vuole le droghe libere ma, come ho già scritto in passato, l’eroina fa caso a sé per la totale dipendenza alla quale lega e non va liberata ma, a chi al momento ne dipende, la sostanza va data, proprio per potere recuperare l’individuo, poiché se rimane coinvolto tutti i giorni e tutto il giorno, costretto a cercare disperatamente il denaro per potersi procurare la dose, voi capite che non c’è; e quindi non è possibile fare nemmeno il quotidiano tentativo di recupero. 

Ringraziamenti. Desidero ringraziare le autorità e la popolazione tutta, per la grande sensibilità e attenzione che hanno dimostrato verso le persone con problemi di tossicodipendenza da eroina. Per la tempestività con la quale hanno immediatamente provveduto e non permesso che questi ragazzi che dipendono dalla sostanza diventino pure schiavi della criminalità. Ringrazio riconoscendo che se non fosse stato per la bellezza interiore, la grande sensibilità, il grande coraggio e il cuore generoso che le persone che compongono questa società possiedono, certamente i tossicodipendenti da eroina si sarebbero ridotti a rubare, scippare, truffare, elemosinare, prostituirsi e spacciare dovendo magari subire poi il carcere. Anche il racket della droga ringrazia con tanto di cappello questa magnanima società, certo che si lascerà che le cose continuino ad essere tali e quali, non trovando motivo alcuno perché si debba andare a modificare una situazione che ormai dura da più di trent’anni e possiamo dire e complimentarci con noi stessi poiché è divenuta una fra le più importanti istituzioni del nostro adorabile paese.  Evviva la mafia! Evviva il governo! Evviva la droga! Evviva lo stato! Evviva i fratelli d’Italia! Il racket per festeggiare ancora ringrazia e benedice e benedice e benedice. 

In svizzera si può smettere. Lotto, non contro il proibizionismo o a favore dello stesso ma perché si smetta di scrivere e di parlare e si cominci a risolvere. Non vi sembra strano che aumentino in continuazione gli individui che fanno uso di droghe e il governo lascia che la droga aumenti sempre in proporzione alle esigenze di mercato e la si trovi libera un po’ ovunque: parchi, vie, vicoli, discoteche, stazioni, caserme, scuole, case private, stadio, luna park poi dentro alcuni bar, 24 ore su 24; cioè giorno e notte ed è facilmente reperibile sempre!? E quando un uomo politico dice no alla droga né liberalizzata, né regolarizzata, né controllata, e tira fuori in continuazione le solite scuse che continuano a fare ridere i polli,(… e i valori morali e io non posso pensare che lo stato si faccia spacciatore) ma la massa pare vi abbocchi, io sento subito puzza di bruciato, poiché tradotto, quello che quell’uomo in sostanza dice è questo: “Andiamo avanti così, mi raccomando non cambiate idee, non cambiate nulla, siate compatti, continuiamo in questo modo”. E il pensiero è questo: “Bene bene, la droga a prezzo alto è proprio un buon affare, la gente è ben condizionata, risponde come noi vogliamo, ci sono sempre più individui che si drogano, chi se ne frega se soffrono e finché dura il proibizionismo i guadagni sono altissimi, tutti i giorni entrano miliardi. Si va proprio a gonfie vele”.  Non so se vi siete resi conto che i governanti, che in privato li chiamiamo ben diversamente da così, vero!? parlano parlano e non fanno mai nulla, ma proprio mai: intendo dire che per noi non fanno nulla, per loro stessi fanno, eccome se fanno. Un’altra cosa strana direi, un fenomeno che sta crescendo in Svizzera, dove la somministrazione di eroina funziona; da un po’ di tempo in qua si comincia a notare che gli eroinomani smettono di usare la sostanza che tanto li ha tenuti legati, incatenati, prigionieri. Si presume che tale fenomeno, paradossistico ma vero, avvenga in quanto il soggetto, perdendo la ritualità e tutta l’ansia della ricerca quotidiana del denaro: la droga da sola non basta a soddisfare completamente le esigenze dell’individuo che principalmente si droga per ribellione al potere. Così quando il potere gli fornisce la sostanza, l’individuo la rifiuta. Aldilà di tutto, io, ho voglia di raccontarvela ma là ci sono i leoni e qua ci stanno le pecore e i miliardi girano là. E la droga non si tocca. Resta in mano alla criminalità. Ma qual è la vera criminalità? 

Il proibizionismo favorisce la criminalità e non solo…E perché non dirlo…? I proibizionisti stanno agendo sulla vita e la libertà di altri e io spero che un giorno quando, ciò che da loro è stato provocato sarà ben chiaro e potrà essere così valutato, siano giudicati e condannati come criminali. E questo per me vale, non solo per i furbi, cioè per coloro che sono proibizionisti in quanto essendolo, traggono vantaggio economico da questo ma pure per coloro che pensano sia bene togliere la libertà agli altri. Si sa che in passato la buona intenzione giustificava l’individuo e lo scusava. Oggi la legge di causa ed effetto ci obbliga a giudicare in modo differente tutto e a prestare più attenzione ad ogni cosa, responsabilizzandoci maggiormente per non permettere che alcune nostre azioni inconsapevoli o meno siano di danno ad altri. Il proibizionismo ha causato nel caso della dipendenza da eroina disastri su disastri su esseri viventi ed è senz’altro da sopprimere. E i furbi proibizionisti sono da punire. Sono fermamente convinto che pochi proibizionisti si sono resi conto del danno che hanno causato e che tuttora stanno provocando a chi è dipendente da eroina e alle loro famiglie. Molti di loro tengono volutamente gli occhi chiusi. Si abbia presente che nei miei scritti tratto solo il problema della dipendenza da eroina e non il problema delle droghe cosiddette leggere o da divertimento, le quali non producendo assuefazione, non costringono l’individuo che deve procurarsi la dose a rubare, a prostituirsi, a mendicare, ecc. Se i proibizionisti non saranno condannati, dirò che le mitiche gesta di Hitler non dovranno mai più essere messe in discussione e che non si dovranno mai più giudicare; in fin dei conti pure lui ha fatto ciò che ha fatto persuaso di migliorare il mondo, in cuor suo viveva, raggiante, il desiderio di rendere il mondo e gli esseri umani perfetti. Che c’è di meglio allora del volere questo. E’ che oggi non possiamo e non dobbiamo permetterci di sbagliare, soprattutto quando abbiamo la presunzione di sentirci tanto adeguati e in gamba che ci autorizziamo, con serena tranquillità, ad agire sulla pelle degli altri. Non possiamo dare una mano ad ogni Hitler che si affaccia sulla terra. Poiché in forma ingentilita e meno appariscente i proibizionisti con la proibizione totale dell’eroina hanno creato una nuova forma di olocausto. Trent’anni eh, mica uno scherzo. La legge causa effetto la conosciamo tutti. In questo caso è. Tu mi proibisci la sostanza senza la quale io al momento non posso vivere. Grazie alla tua proibizione questa sostanza costa carissima e per procurarmela devo andare a rubare o altro e soffrire più del dovuto. Non sono io il delinquente, ma tu. Se mi sparano un colpo alla testa e muoio, tu sei un assassino. E di nuovo: se scippo una donna anziana e questa cade e muore, non l’ho uccisa io ma tu l’hai uccisa, e l’hai uccisa ancor prima che lo facessi io, poiché, dopo trent’anni che queste cose succedono, è fuori di dubbio che tu ne sei consapevole. Gli individui che dipendono dall’eroina sono trattati dalla società più o meno: “Peggio delle bestie da macello”. Questo per conseguenza viene proiettato sui loro familiari. Alto che rispetto. Questo è rovinare le famiglie. Visto che i tossicodipendenti non hanno la forza di dire, di farsi sentire e tantomeno quella di denunciare, lo faccio io per loro. Il proibizionismo è cosa da vigliacchi; gente che rovina gente senza dover subire le meritate conseguenze e in questo caso stimo Milosevic, almeno ci mette la faccia e la responsabilità. I proibizionisti si mascherano da benefattori, appoggiati da quel potere che sfrutta e schiaccia, aderiscono e si sentono anch’essi potenti. Ma schiavi sono e schiavi rimangono. I proibizionisti sono tiranni di seconda mano e assassini. 

Stato, un marchio, una garanzia.… è morto è morto. Pota, èl biia, l’è mort. E’ morto è morto. Pota, él fomaa 50 sigarete al dé, l’è mort.  E’ morto è morto. Pota, èl sbusaa, l’è mort. Le comunità: “Dal lavaggio del cervello alla lobotomia”. Un business. Meglio non andarci. Come evitarle? Ehi! Ma quello può fumare e quello può bere, quell’altro può imbottirsi di psicofarmaci e io? Certo; uno stato che funziona a dovere, ha una vendita di tabacco, di alcol, narcotici e pastiglie d’anfetamina in bella vista, in mille negozi e mille farmacie. E sottobanco quella dell’eroina: così questa costa di più. Pochi clienti, ma scelti. Che belle confezioni hanno i tanti pacchetti di sigarette; igienici, igienici! Tabacco sicuro, controllato garantito dallo stato. E che dire delle bottiglie di alcolici e di quelle dei superalcolici? Che belle forme e che stupende etichette. Invoglianti, invoglianti! Certo che lo stato si prende ben cura dei suoi “tossicodipendenti legali”. E noi? Sigh, sigh. Piangiamo. Guarda, psicofarmaci e narcotici come costano poco. Guarda, come anche le anfetamine costano pochissimo. E che dire degli sportivi? Che millantatori. Ragazzi, cosa posso dirvi? Gettate via la vergogna e diventate pure voi “tossicodipendenti legali”.  Esultate! Urrah! Potrete così esibire la vostra tossicodipendenza senza timori né paure. Potrete pavoneggiarviiiiiiii! Lo Stato, lo sapete, proibisce l’overdose. Suvvia, accettate di morire di una morte semplice, modesta ma in fondo morale e più sicura: un cancrettino, una cirosettina e via.  Con un sano delirium tremens, con un simpatico enfisemino lo stato ti è vicino. Lo stato pensa per te: più salubre e più divertente è morire così. Ditegli di sì, ditegli di sì. Pensate ai vantaggi: i “tossicodipendenti legali a vista” non vanno in comunità! Su, su, presto cambiate. Cambiate in meglio. Morite con prodotti controllati dallo Stato. Stato, un marchio, una garanzia, per un viaggio verso la morte e la malattia legalizzate. Il più igienico che c’è. Ma io volevo che lo stato si prendesse cura di me come se la prende dei suoi tossicodipendenti. Perché non legalizza anche me? Tu finiscila che ti conosco, sei uno che si lamenta sempre. Adesso basta eh! Te l’ho già detto: se vuoi morire, muori di cancro, di overdose è proibito, anche perché si muore subito e non si soffre abbastanza. Lo stato sa quello che fa.

2016 FATTI E NOMI PIU’ IMPORTANTI.

I 10 fatti più importanti del 2016. I profughi in fuga, il populismo, la Brexit, Donald Trump, gli attentati di Nizza e di Berlino, le Olimpiadi, il giubileo. Cosa non dimenticheremo

1/10. Preoccupati dall’inarrestabile flusso di migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia centrale, otto paesi Ue hanno deciso nel corso dell'anno di reintrodurre il controllo alle frontiere (Francia, Belgio, Austria, Ungheria, Germania, Norvegia, Danimarca e Svezia). Una decisione – motivata da ragioni di ordine pubblico previste dal trattato di Schengen per un massimo di due anni – che ha sollevato molti interrogativi sul futuro dell’Unione.

2/10. Il fallito colpo di Stato in Turchia - messo in atto da una parte delle forze armate il 15 luglio 2016 per rovesciare il presidente Erdogan - ha scatenato una dura repressione contro tutte le voci di opposizione interne. Decine di migliaia di insegnanti, giudici e funzionari pubblici sono stati licenziati. Migliaia di persone sono state arrestate. L’Europa però, al di là di qualche timido richiamo, ha preferito soprassedere: Ankara – che ha ricevuto tre miliardi dall’Ue per l’allestimento dei campi profughi dei siriani in fuga – è ritenuta nonostante tutto ancora indispensabile. Anche perché è tutt’ora uno dei Paesi Nato con un esercito più numeroso.

3/10. Il Brasile è stato il primo stato sudamericano a ospitare i Giochi olimpici estivi. Le Olimpiadi si sono svolte dal 5 al 21 agosto, con 11303 atleti, 306 gare e 42 discipline. L'Italia ha vinto 8 medaglie d'oro. Il Paese vincitore, con 46 ori, sono stati gli Usa, seguiti da Gran Bretagna (27) e Cina (26).

4/10. Il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'UE (Brexit) si è svolto il 23 giugno 2016, con una clamorosa vittoria (51 vs 49) degli antieuropeisti, come il capo dell'UKIP nazionalista Nigel Farage.

5/10. La strage di Nizza è stato un attentato terroristico avvenuto il 14 luglio 2016 a Nizza, quando un terrorista, alla guida di un autocarro, ha investito in velocità la folla che assisteva ai festeggiamenti della festa nazionale francese.

6/10. Cala il sipario, con l'impeachement prima e la destituzione del presidente Rousseff, sull'era Lula in Brasile. Un'epoca, iniziata nel 2002, durante la quale il Paese ha conosciuto un grande boom economico, fino alle inchieste giudiziarie che hanno portato alla caduta della classe dirigente del PT.

7/10. Conquistata dall’Isis la prima volta il 20 maggio 2015, ripresa dall'esercito siriano il 25 marzo 2016, la città di Palmira - dove sorge un sito archeologico dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO - è stata ripresa dai miliziani islamisti grazie a un attacco a sorpresa, mentre assadisti e russi erano impegnati ad Aleppo. Un assalto a sorpresa che dimostra come la battaglia contro l'Isis si prospetta ancora lunga e complicata.

8/10. Nessuno, un anno fa, avrebbe immaginato che l'eccentrico tycoon newyorchese riuscisse a vincere le primarie repubblicane prima e poi vincere le elezioni americane l'8 novembre 2016 scorso, sbaragliando l'armata dem di Hillary Clinton. Il programma di Trump, che tante perplessità ha suscitato anche nell'establishment repubblicano, prevede il rigetto del protocollo ambientale sui gas serra e un'alleanza stretta con Putin in Siria e Ucraina.

9/10. Sconfitto nel referendum costituzionale italiano, con un margine di circa 20 punti, Matteo Renzi si è dimesso dopo 1000 giorni. Al suo posto si è insediato l'ex ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.

10/10. Il Giubileo della Misericordia, voluto da Papa Francesco, è finito il 20 novembre 2016 con la cerimonia di chiusura della Porta Santa di San Pietro. Sotto la porta, nel 2016, sono passati secondo il Corsera quasi 22 milioni di pellegrini.

I 10 fatti più importanti del 2016, scrive il 31 dicembre 2016 Panorama. La Brexit, il putch fallito in Turchia, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, il terrorismo islamista che ha colpito ancora una volta la Francia, a Nizza durante la Festa della Repubblica e poi la Germania a Berlino al mercatino di Natale, la vittoria del No nel referendum costituzionale in Italia. E poi il giubileo della Misericordia voluto da Papa Francesco, le Olimpiadi in Brasile. Sono solo alcuni degli eventi che hanno caratterizzato quest'anno, segnato anche dalla grave crisi migratoria che ha portato alla sospensione delle regole di Schengen, e al risorgere dello spettro populista in Europa. Un anno denso di avvenimenti e rischi, non solo per l'Italia che avrà delle naturali ripercussioni anche nel 2017. Ecco perchè abbiamo scelto questi fatti come quelli più significativi. Ne sentiremo parlare ancora, e ancora nei mesi a venire (dopo il video le cronache dei fatti).

I FLUSSI MIGRATORI E LA SOSPENSIONE DI SCHENGEN. È di sicuro l'evento che ha percorso il 2016 costantemente senza tregua: i flussi migratori di intere popolazioni in fuga dalla guerra in Siria, dalla minaccia dell'ISIS, dalla povertà, dalla fame. Sono 4 milioni, secondo l'associazione OXFAM, le persone in fuga. Molte di loro hanno attraversato il Mediterraneo verso l'Italia sbarcando a Lampedusa, in Sicilia, in Sardegna. Perdendo in mare migliaia di vite. Altri si sono diretti verso la Grecia, per mare e via terra. Altri ancora hanno cercato la fuga attraverso la Turchia e i paesi balcani verso la Germania e i paesi scandinavi. La situazione ha fatto sì che otto paesi Ue abbiano deciso nel corso dell'anno di reintrodurre il controllo alle frontiere (Francia, Belgio, Austria, Ungheria, Germania, Norvegia, Danimarca e Svezia) suonando il primo de profundis all'Europa unita.

LA RINASCITA DEL POPULISMO. La conseguenza più evidente in termini politici delle grandi ondate migratorie, delle invasioni dei Paesi da parte di popolazioni in fuga, sommate alla già pesante crisi economica che da quasi dieci anni colpisce l'Europa, è stata il ritorno in forze del populismo. Dall'Italia con il M5S e la Lega Nord agli Stati Uniti d'America con Donald Trump passando per la Gran Bretagna della Brexit, Podemos in Spagna, il Front National in Francia, Syriza in Grecia, fino ai partiti di destra al governo nell’Europa orientale.

GIUBILEO DELLA MISERICORDIA. Iniziato l'8 dicembre del 2015 con l'apertura della Porta Santa nella Basilica di San Pietro in Vaticano, si è concluso un anno dopo, l'8 dicembre del 2016 con la chiusura della porta stessa. È stato il Giubileo della Misericordia fortemente voluto da Papa Francesco.

LA BREXIT. Ha travolto l'Europa come un ciclone la vittoria del Si al referendum sull'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea del 23 giugno 2016. Il 52% dei britannici l'ha voluta salvo poi in parte pentirsene e ora, entro il 2018 dovrà essere effettiva. Le conseguenze politiche ed economiche di questo primo grande distacco di un Paese (di peso) dall'Unione non sono di certo secondarie.

TERRORISMO ISLAMISTA: NIZZA e BERLINO. Sono due gli eventi di matrice terroristica a firma ISIS che hanno sconvolto più di altri il 2016. Oltre all'attentato all'aeroporto di Bruxelles, ricordiamo la strage di Nizza nella notte tra il 14 e il 15 luglio 2016 durante i festeggiamenti per la Festa della Repubblica e quella di Berlino del 19 dicembre 2016. Simili le dinamiche: a Nizza un camion si è schiantato a velocità sulla folla in festa lungo Promenade des Anglais causando 85 morti mentre a Berlino il terrorista Anis Amri ha dirottato un camion polacco per farlo schiantare su un mercatino di Natale in centro città uccidendo 12 persone tra cui l'italiana Fabrizia di Lorenzo.

IL GOLPE IN TURCHIA. È il 16 luglio quando un tentato golpe poi fallito scuote la Turchia, l'Europa e il Medio Oriente. Un'ondata terribile di repressione per mano del Presidente turco Erdogan si abbatte sulla popolazione, militare, politica e civile. E ancora non è finita. Importanti le conseguenze sull'Europa: la Turchia è un Paese centrale per i flussi migratori che l'attraversano.

OLIMPIADI DI RIO. Sport, festa e tanto divertimento nel mese di Agosto del 2016. Le Olimpiadi che si sono svolte in Brasile hanno calamitato l'attenzione del mondo intero.

DONALD TRUMP PRESIDENTE USA. Si insedierà il 20 gennaio ma intanto alle elezioni dell'8 novembre 2016 il candidato repubblicano Donald Trump ha vinto la poltrona di Presidente degli Stati Uniti d'America battendo la candidata democratica Hillary Clinton. È una rivoluzione rispetto alla precedente amministrazione Obama. Trump è molto vicino alla Russia di Vladimir Putin, vuole modificare l'Obamacare, ha visioni opposte in tema ambientale, energetico, previdenziale e sui temi di politica estera.

IL REFERENDUM COSTITUZIONALE. Al voto il 4 dicembre 2016 il 60% degli italiani ha detto NO alle modifiche della costituzione proposte dal Governo Renzi. Il presidente del Consiglio si è così dimesso aprendo una crisi di Governo gestita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la nomina di un nuovo Governo guidato da Paolo Gentiloni. Le priorità: la nuova legge elettorale italiana, l'emergenza terremoto in centro Italia e una costanza nella rappresentanza in Europa.

Tutti i morti nel 2016, scrive il 27 dicembre 2016 Panorama.

DICEMBRE

Carrie Fisher, attrice, 60 anni (21 ottobre 1956 – 27 dicembre 2016)

George Michael, musicista, 53 anni (25 giugno 1963 – 25 dicembre 2016) 

Franca Sozzani, giornalista, 66 anni (20 gennaio 1950 – 22 dicembre 2016) 

Zsa Zsa Gabor, attrice, 99 anni (6 febbraio 1917 – 18 dicembre 2016)

John Glenn, astronauta, 95 anni (18 luglio 1921 – 8 dicembre 2016)

Greg Lake, musicista, 69 anni (10 novembre 1947 – 7 dicembre 2016)

Peter Vaughan, attore, 93 anni (4 aprile 1923 – 6 dicembre 2016)

NOVEMBRE

Fidel Castro, leader politico, 90 anni (13 agosto 1926 – 25 novembre 2016)

Vittorio Sermonti, dantista, 87 anni (26 settembre 1929 – 23 novembre 2016) 

William Trevor, scrittore, 88 anni (24 maggio 1928 – 21 novembre 2016)

Leon Russell, musicista, 74 anni (2 aprile 1942 – 13 novembre 2016)

Leonard Cohen, cantautore, 82 anni (21 settembre 1934 – 7 novembre 2016)

Umberto Veronesi, oncologo, 90 anni (28 novembre 1925 – 8 novembre 2016)

Tina Anselmi, politico, 89 anni (25 marzo 1927 – 1 novembre 2016)

OTTOBRE

Luciano Rispoli, giornalista, 84 anni (12 luglio 1932 – 26 ottobre 2016) 

Tom Hayden, pacifista, 76 anni (11 dicembre 1939 - 23 ottobre 2016)

Dario Fo, attore, 90 anni (24 marzo 1926 – 13 ottobre 2016)

Bhumibol Adulyadej, re della Thailandia, 88 anni (5 dicembre 1927 – 13 ottobre 2016)

SETTEMBRE

Bernardo Caprotti, imprenditore, 90 anni (7 ottobre 1925 - 30 settembre 2016)

Laura Troschel, attrice, 72 anni (3 novembre 1944 – 29 settembre 2016)

Shimon Peres, leader politico, 93 anni (2 agosto 1923 – 28 settembre 2016)

Carlo Azeglio Ciampi, ex Presidente della Repubblica, 95 anni (9 dicembre 1920 – 16 settembre 2016)

Gabriele Amorth, presbitero esorcista, 91 anni (1 maggio 1925 – 16 settembre 2016)

Ermanno Rea, scrittore, 89 anni (28 luglio 1927 – 13 settembre 2016)

Alexis Arquette, attrice, 47 anni (28 luglio 1969 – 11 settembre 2016)

AGOSTO

Marc Riboud, fotografo, 93 anni (24 giugno 1923 – 30 agosto 2016)

Gene Wilder, attore, 83 anni (11 giugno 1933 – 29 agosto 2016)

Tommaso Labranca, scrittore, 54 anni (18 febbraio 1962 – 29 agosto 2016)

Sonia Rykiel, stilista, 86 anni (25 maggio 1930 – 25 agosto 2016)

Ernst Nolte, storico, 93 anni (11 gennaio 1923 – Berlino, 18 agosto 2016) 

Ettore Bernabei, ex direttore generale RAI, 95 anni (16 maggio 1921 – 13 agosto 2016) 

LUGLIO

Anna Marchesini, attrice, 62 anni (18 novembre 1953 – 30 luglio 2016)

Marta Marzotto, stilista, 85 anni (24 febbraio 1931 – 29 luglio 2016)

Max Fanelli, militante per il diritto all'eutanasia, 56 anni (1960 - 20 luglio 2016)

Lorenzo Amurri, scrittore, 45 anni (1971 - 12 luglio 2016)

Valentino Zeichen, poeta, 78 anni (24 marzo 1938 – 5 luglio 2016)

Abbas Kiarostami, regista, 76 anni (22 giugno 1940 – 4 luglio 2016)

Elie Wiesel, scrittore, 87 anni (30 settembre 1928 – 2 luglio 2016)

GIUGNO

Bud Spencer, attore, 86 anni (31 ottobre 1929 – 27 giugno 2016)

Anton Yelchin, attore, 27 anni (11 marzo 1989 – 19 giugno 2016)

Pina Maisano Grassi, militante antimafia, 87 anni (29 settembre 1928 – 7 giugno 2016)

Gianluca Buonanno, eurodeputato Lega Nord, 50 anni (15 maggio 1966 – 5 giugno 2016) 

Muhammad Ali, pugile, 74 anni (17 gennaio 1942 – 3 giugno 2016)

MAGGIO

Giorgio Albertazzi, attore, 92 anni (20 agosto 1923 – 28 maggio 2016)

John Berry, musicista, 52 anni (29 agosto 1963 – 19 maggio 2016)

Marco Pannella, leader politico, 86 anni (2 maggio 1930 - 19 maggio 2016)

Lino Toffolo, attore, 81 anni (30 dicembre 1934 – 17 maggio 2016)

APRILE

Prince, musicista, 57 anni (7 giugno 1958 – 21 aprile 2016)

Fulvio Roiter, fotografo, 89 anni (1 novembre 1926 – 18 aprile 2016)

Gianroberto Casaleggio, imprenditore, 61 anni (14 agosto 1954 – 12 aprile 2016)

Pietro Pinna, attivista nonviolento, 89 anni (1927 – Firenze, 13 aprile 2016) 

Joseph Medicine Crow, capo indiano, 102 anni (27 ottobre 1913 – 3 aprile 2016)

Cesare Maldini, calciatore, 84 anni (5 febbraio 1932 – 3 aprile 2016)

MARZO

Zaha Hadid, architetto, 65 anni (31 ottobre 1950 – 31 marzo 2016)

Paolo Poli, attore, 86 anni (23 maggio 1929 – 25 marzo 2016)

Gian Maria Testa, musicista, 57 anni (17 ottobre 1958 – 30 marzo 2016)

Guido Westerwelle, ex ministro degli esteri tedesco, 54 anni (27 dicembre 1961 – 18 marzo 2016)

Riccardo Garrone, attore, 89 anni (1 novembre 1926 – 14 marzo 2016)

George Martin, musicista, 90 anni (3 gennaio 1926 – 8 marzo 2016) 

Ray Tomlison, inventore dell'e-mail, 74 anni (23 aprile 1941 – Lincoln, 5 marzo 2016)

Nancy Reagan, ex First Lady USA, 94 anni (6 luglio 1921 – 6 marzo 2016)

FEBBRAIO

George Kennedy, attore, 91 anni (18 febbraio 1925 – 28 febbraio 2016)

Umberto Eco, scrittore e semiologo, 90 anni (5 gennaio 1932 – 19 febbraio 2016) 

Harper Lee, scrittrice, 89 anni (28 aprile 1926 – 19 febbraio 2016)

Boutros Boutros-Ghali, già Segretario Generale ONU (14 novembre 1922 – 16 febbraio 2016)

Renato Bialetti, imprenditore, 93 anni (1923 – 11 febbraio 2016) 

GENNAIO

Giulio Regeni, ricercatore, 28 anni (15 gennaio 1988 - tra fine gennaio e inizio febbraio 2016)

Ettore Scola, regista, 94 anni (10 maggio 1931 – 19 gennaio 2016)

Michel Tournier, scrittore, 91 anni (9 dicembre 1924 – 18 gennaio 2016) 

Cesare Colombo, fotografo, 80 anni (24 agosto 1935 – 18 gennaio 2016)

Franco Citti, attore, 80 anni (23 aprile 1935 – 14 gennaio 2016)

Alan Rickman, attore, 69 anni (21 febbraio 1946 – 14 gennaio 2016)

David Bowie, musicista, 69 anni (8 gennaio 1947 – 10 gennaio 2016)

Valerio Zanone, politico, 79 anni (22 gennaio 1936 – 7 gennaio 2016)

Silvana Pampanini, attrice, 90 anni (25 settembre 1925 – 6 gennaio 2016)

Pierre Boulez, musicista, 90 anni (26 marzo 1925 – 5 gennaio 2016) 

I DESAPARECIDOS ED IL PIANO CONDOR.

Desaparecidos, processo Condor: 8 ergastoli e 19 assoluzioni. Una delle foto più note dell'assedio della Moneda: il presidente Allende accompagnato da tre uomini armati. Il primo è Mauricio, dietro di lui c’è Bartulin, il terzo con i baffi è Anibal. Cioè l'italiano Juan Montiglio. Si è concluso nell'aula bunker del carcere di Rebibbia a Roma, il processo per le stragi compiute nel corso delle dittature in Argentina, Bolivia, Uruguay e Cile negli anni'70-'80. Tra i 23 italiani scomparsi anche Juan Josè Montiglio membro della scorta del presidente cileno Allende ucciso durante il golpe di Pinochet, scrive il 17 gennaio 2017 "La Repubblica". Otto condanne all'ergastolo, 19 assoluzioni e sei non luogo a procedere per morte degli imputati. E' questa la decisione della III Corte di Assise di Roma presa a conclusione del processo sul cosiddetto piano Condor, dal nome del plan Condor, la strategia elaborata dalle dittature sudamericane di Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, al potere tra gli anni '70 e '80, che di concerto con la Cia strinsero un accordo finalizzato all'eliminazione di qualunque oppositore al regime (sindacalisti, intellettuali, studenti, operai ed esponenti di sinistra). A vario titolo gli imputati erano accusati di aver mandato a morte anche 23 cittadini di origine italiana che vivevano nei Paesi sudamericani. Le accuse erano quelle di omicidio plurimo aggravato e sequestro di persona. Nei confronti degli imputati non era contestata la strage per un vizio di procedibilità riscontrata nell'ambito delle udienze preliminari. I condannati all'ergastolo avevano cariche di rilievo nei rispettivi paesi d'appartenenza. In particolare, Luis Garcia Meda Tejada è stato il presidente della Bolivia dal 1980 al 1981; Luis Arce Gomez, generale, ha guidato il Dipartimento II dell'intelligence dello Stato Maggiore e poi è stato ministro dell'Interno; Juan Carlos Blanco è stato ministro degli Esteri dell'Uruguay; Jeronimo Hernan Ramirez Ramirez ha svolto un incarico di primo piano in Cile; Francisco Rafael Cerruti Bermudez, è stato presidente del Perù dal 1975-1980. Incarichi di rilievo anche per il cileno Valderrama Ahumada, colonnello in congedo dell'esercito cileno, per Pedro Richter Prada, generale di divisione, ex primo ministro del Perù, e per German Luis Figeroa, capo dei Servizi dello stesso Paese. Tra gli assolti, figura anche l'unico che attualmente risiede in Italia, a Battipaglia (in provincia di Salerno) e cioè l'uruguayano Jorge Nestor Troccoli Fernandez, ritenuto un componente dell'intelligence legato alla dittatura del suo Paese. Si è così chiuso un percorso iniziato due anni fa, il 12 febbraio del 2015, che ha visto alla sbarra 33 persone: agenti della repressione e membri delle giunte militari, responsabili del sequestro e dell'omicidio di 42 prigionieri argentini, cileni e uruguayani. Tra gli italiani vittime della repressione anche Juan Josè Montiglio, un giovane di origini piemontesi, socialista, membro della scorta personale del presidente cileno Salvador Allende, destituito e ucciso durante il golpe militare di Augusto Pinochet, l'11 settembre del 1973. Nello stesso giorno Montiglio venne sequestrato. Morì nella caserma Tacna insieme ad altri membri della Guardia presidencial. La loro morte è stata attribuita direttamente al generale Pinochet, colui che rovesciò il governo costituzionalmente eletto e instaurò in Cile una lunga e sanguinosa dittatura.

Desaparecidos, la sentenza 40 anni dopo. Desaparecidos: dopo oltre 40 anni chiuso il processo Condor. La repressione delle dittature militari in America latina è avvenuta tra gli anni '70 e '80, scrive il 18 gennaio 2017 Nicola Capecchi, Esperto di Cronaca, su "it.blastingnews.com". La storia dei Desaparecidos è una piaga storica che anno dopo anno ha riempito i libri di scuola, per coloro che hanno frequentato i loro studi dalla metà degli anni '80 in poi. Pensare che si studiava qualcosa che non era poi così lontano nella linea temporale. Alcune dittature infatti, hanno fatto il loro corso fino al 1980. La storia ha sempre dato molto spazio a quelle che sono le vittime dei regimi dittatoriali, ma quella dei 'desaparecidos' rappresenta una storia completamente a sé, perché all'interno di uno scatolone dove si racchiudono i soprusi di un regime, loro hanno un'identità a sé stante. Probabilmente perché la storia ha rappresentato un dolore comune, visto che in Sud America le vittime sono state di diverse etnie, in quanto il continente sudamericano era stato per molti anni meta di viaggiatori in cerca di fortuna. Molti italiani, ma non solo loro, si erano stabiliti in maniera definitiva in alcuni stati del continente: Bolivia, Perù, Brasile, Argentina e così via. Forse una componente che lo ha reso un mondo a parte, è come la repressione degli oppositori al regime non sia stata circoscritta all'interno del solo stato in cui vi era la dittatura, ma si era creato un fronte comune tra i vari dittatori del Sud America, che avevano dato vita al Piano #Condor. Movimento di controllo e repressione che era nato spontaneamente, ma che poi aveva cominciato a essere un fenomeno di largo utilizzo. Il processo Condor si è svolto a Roma e ha riguardato i 'desaparecidos' italiani. Tra gli anni '70 e gli anni '80, gli italiani che si erano oramai stabiliti in Sud America erano tantissimi. In quel preciso periodo, i figli che erano nati nel luogo studiavano nelle scuole sudamericane. Molti di questi scomparsi sono giovani del movimento studentesco come avvenuto in Argentina, e trattati come dissidenti politici sono stati chiusi in carcere per poi sparire nel nulla. Spesso anche diverse famiglie, se ritenute compiacenti, hanno avuto la stessa sorte. A Roma si è finalmente chiuso il processo e sono arrivate alcune condanne, anche se molti personaggi coinvolti nei regimi dittatoriali oramai non sono più in vita. Sentenza avvenuta per il processo Condor, per coloro che sono coinvolti nel caso dei 'desaparecidos' italiani, con 8 condanne all'ergastolo e 19 assoluzioni. Risultato che per i familiari ancora vivi delle vittime non soddisfa moltissimo, ma è comunque la fine di un percorso lungo oltre 40 anni. Si parla di vittoria di Pirro, perché molti personaggi che sarebbero dovuti essere perseguiti dalla legge oramai non ci sono più, e dei 27 che potevano essere condannati più della metà sono stati assolti. In ogni caso finalmente si chiude una vicenda storica che ha lacerato i cuori di molti italiani. La dittatura storica è un fenomeno che ancora oggi è difficile anche solo da raccontare, basta vedere la reazione istintiva del popolo che l'ha vissuta, quando si cerca di portare un regime in tv in qualche film o fiction come sfondo storico. 

LE PEGGIORI CAZZATE VIP DETTE NEL 2016.

Le 100 peggiori sparate politiche del 2016. Complotti surreali, avventure sessuali, tweet razzisti ed omofobi. Elogi dell'assenteismo, insulti, nuove insapute. Congiuntivi toppati, promesse disattese, sciacallaggi vari ed eventuali. E molto, molto altro nella nostra top 100, scrive Wil Nonleggerlo il 30 dicembre 2016 su “L’Espresso”. Dopo oltre 1200 sparate raccolte nel nostro tradizionale Stupidario del venerdì, era giunto il momento di riprendere in mano tutto il materiale del 2016 e selezionare per voi le 100 peggiori dichiarazioni politiche dell'anno. Dodici mesi che difficilmente dimenticheremo, segnati da profonde spaccature politiche, economiche, persino sismiche. In uno scenario del genere, non poteva mancare il delirante apporto della nostra classe dirigente. Uno spettacolo che probabilmente nessuna democrazia occidentale può offrire ai propri cittadini. La nostra sì, come state per vedere.

1) Silvio Berlusconi, durante la presentazione del libro di Myrta Merlino: "Sono arrivato alla seguente conclusione: gli italiani non mi meritano". 20-gen-16

2) Matteo Salvini ci propone il suo governo ideale (Radio 24): "Nel mio esecutivo vorrei Checco Zalone alla Cultura, poi lo scrittore Mauro Corona con delega a Montagna, Caccia e Agricoltura. Uno tra Claudio Borghi e Alberto Bagnai come ministro all'Economia. Agli esteri Berlusconi: rispetto a Renzi è avanti anni luce...". 04-gen-16

3) La senatrice 5 Stelle Paola Taverna durante l'ultimo voto sulle riforme costituzionali (Corriere della Sera): "A lo sa che io quanno so’ arrivata qua me la so’ studiata tutta la Costituzione? Cioè, no, capito? Io me so’ voluta fa’ trovà preparata. E questi invece mo’ ce chiudeno er Senato...". 21-gen-16

4) L'eurodeputata forzista Alessandra Mussolini a L'aria che tira (La7): "Ma magari resuscitasse mio nonno! Pure per un mese!". 25-gen-16

5) L'ex sindaca di Lecce Adriana Poli Bortone ed il complotto che lega scie chimiche americane, trivelle adriatiche e ulivi pugliesi: "Gli USA confessano di usare scie chimiche sul territorio italiano. Se la notizia fosse confermata avremmo tutto il diritto di chiedere se la diffusione della xylella sul territorio pugliese e salentino in particolare non sia attribuibile anche a questo fenomeno. (...) Sarà fantapolitica, ma mi incomincia a sorgere il dubbio che xylella faccia rima con trivella!". 20-gen-16

6) L'incredibile post della deputata M5s Tiziana Ciprini, durante il Giorno della Memoria, con tanto di selfie dal campo di concentramento di Auschwitz: "#‎GiornodellaMemoria. La memoria serve a ricordare che certe idee di perfezione e certe tecniche sperimentate ad Auschwitz, che ieri tutto il mondo condannava, sono vendute, oggi, come qualcosa di socialmente desiderabile". 27-gen-16

7) Il senatore verdiniano Vincenzo D'Anna a Radio Cusano Campus: "L’eiaculazione precoce in realtà non è un problema. È un meccanismo psicologico, non ormonale, noi uomini siamo stati costruiti per essere veloci. Quando si è veloci il seme che si produce è fresco, quindi più fertile". 28-gen-16

8) Il vice presidente del Senato Maurizio Gasparri contro Ikea, colpevole di aver promosso alcune iniziative in favore delle unioni civili: "Non comprerò più niente da Ikea! Siccome mi sono rimasti dei loro fazzoletti in casa, mi ci pulisco il sedere e li rimando usati ai capi dell'azienda. Così forse li mangeranno...". 28-gen-16

9) Uno dei più incredibili tweet dell'anno porta la firma del senatore Roberto Formigoni: "L'odore della sconfitta sulla legge Cirinnà sta procurando crisi isteriche gravi su gay, lesbiche, bi-transessuali e checche varie. Non è bello, poverini". 06-feb-16

10) Dibattito sulle unioni civili. Alcuni autorevoli legislatori nella missione impossibile di pronunciare correttamente "Stepchild adoption": Salvatore Torrisi: "Sep... step chaio... child ad... ad... no alla Stepchild ambiscion... adopzion". Domenico Scilipoti: "Step... child... ad... ae... associession... as... adopzion". Giacomo Caliendo: "Step... child... adopt". Aldo Di Biagio: "Step chai adoccion". Francesco Aracri: "Questa schifezza che si chiama Stepchild adoscion!". Roberto Calderoli: "Ciepciai adoscion". Carlo Giovanardi: "Stipchold". Eva Longo: "Stapcholdadepttium". Mariarosaria Rossi: "Stipchildionateption". Renato Schifani: "Stippcheldadopttiom". Antonio Razzi: "Steppe... Step toscion... adozionem... Stepcion... stepsciain adoscio... l'inglese non è il pasto mio!". 03-feb-16

11) Il senatore leghista Roberto Calderoli, in aula (seriamente eh): "Non ci sono santi: chi voterà Sì a questa legge sulle unioni civili, andrà all'inferno!". 25-feb-16

12) Mario Scirè, dirigente dell'ufficio Attività produttive, intervistato da La Gabbia sullo scandalo assenteismo al comune di Pachino (Siracusa): "Certo che un po' di assenteismo ci vuole... visto che non fa male a nessuno!". 01-feb-16

13) L'allora premier Matteo Renzi al Piccolo Teatro di Milano: "Questo progetto per il dopo Expo, è un progetto petaloso". 05-feb-16

14) Il senatore verdinian-craxiano Lucio Barani a botta sicura (Un giorno da pecora, Radio 1): "Su 315 senatori, una cifra tra i 50 e i 70 fa uso di droghe pesanti. Lo capisco dalla pupilla. Si fa uso di cocaina anche nei bagni del Senato, sicuramente!". 09-feb-16

15) Il militante M5s Andrea Tosatto, psicologo, ideatore dell’inno pentastellato e già candidato al Senato con il partito di Grillo: "Esistono studi in base ai quali i gay sono 10 volte più pedofili rispetto agli eterosessuali". 09-feb-16

16) Il senatore Razzi ed il "dibattito" sulle unioni civili (La Zanzara, Radio 24): "Prima di sposarmi sono stato anche con due lesbiche... niente male, dove prendevo prendevo: 'ndo cojo cojo". 05-feb-16

17) La senatrice M5s Taverna rivela una delle più incredibili cospirazioni della storia repubblicana (Radio Cusano Campus): "Potrebbe essere in corso un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Vogliono mettere noi 5 Stelle, per poi togliere i fondi e farci fare brutta figura". 16-feb-16

18) I congiuntivi del senatore M5s Alberto Airola, durante un intervento in aula: "Io ho detto ai miei: se vi trovereste... se ci troveressimo... se ci trovassimo! Prego i giornalisti di non giocare sui miei congiuntivi". 18-feb-16

19) Guido Bertolaso da candidato sindaco di Roma, su Twitter, per poi fare sparire tutto: "Toglieremo i cassonetti, così eviteremo che i rom rovistino". 23-feb-16

20) E Alessandra Mussolini, in un fuorionda su Rete 4: "(Bertolaso) non va, non va, non va... nun se po' candida' questo coglione". 24-feb-16

21) L'onorevole leghista Gianluca Pini sul figlio di Nichi Vendola, in un devastante post su Facebook: "Questione del figlio comprato dal Kompagno "Svendola", ricapitoliamo: questo povero bambino poteva avere il passaporto americano, vivere in California (California, non Puglia, cazzo!) con sua madre, crescere guardando il tramonto sul Pacifico, surfare, magari andare a studiare in qualche università di livello e diventare qualcuno. E invece sarà destinato ad avere un passaporto italiano (...) crescere a orecchiette e cime di rapa e vivere con due busoni anziani a Molfetta. Se poi a 20 anni fa una strage di sta “famiglia arcobaleno”, immagino troverà qualche giudice che gli darà tutta una serie di attenuanti e applichi la legittima difesa". 29-feb-16

22) Matteo Salvini a C'è posta per te, su Canale 5: Maria De Filippi: "Matteo, possiamo darci del tu?". Salvini: "Certo Maria, io sono cresciuto a pane e Amici...". 05-mar-16

23) Il candidato della Destra al comune di Roma Francesco Storace apre la campagna elettorale con questo giuramento: "Prometto che, se sarò sindaco, convocherò l’ambasciatore dell’India per dirgli che se i marò non tornano subito in Italia... chiuderemo tutti i ristoranti e i negozi indiani di Roma!". 06-mar-16

24) La rivelazione del candidato sindaco di Roma per il Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, su Facebook: "Volete capire come si fa il lavaggio del cervello gender ai bambini? Ad esempio con il protagonista di Kung Fu Panda che ha due papà". 14-mar-16

25) Bruno Vespa intervistato dal Fatto Quotidiano: "Il Cavaliere invidia a Renzi la cattiveria. Matteo è un politico determinato con qualche punta di cattiveria. Come la Thatcher o Churchill. Benito Mussolini no, non aveva un animo crudele. (...) Per me il fascismo è inaccettabile. Anche se poi l’ho studiato e posso affermare che qualcosa di buono l’ha fatto". 14-mar-16

26) Totò Cuffaro, da poco uscito dal carcere, intervistato da La Stampa: "Verdini è la vera novità della politica italiana. È come se il numero 10 del Milan passasse con l'Inter". 15-mar-16

27) Silvio Berlusconi annuncia la svolta dal palco del Politeama di Palermo: "Il vecchietto ritorna in campo. Ho finalmente deciso di studiare Internet". 19-mar-16

28) Mario Auriemma, da candidato sindaco di Roma alla guida di “Italia Morale” (La Zanzara, Radio 24): "Il gay pride a Roma? Mai! I froci a casa loro! Non li voglio vedere i froci io. A Roma nun li vugliamo, qui non ci sono i froscia, al massimo ci stanno le mignott. E se a Roma ci sono dei froci, li cacciamo dalla città e li mandiamo a Pomezia". 23-mar-16

29) L'avvocato ed ex parlamentare forzista Carlo Taormina sbrocca contro l'esponente Pd Diana De Marco (Iceberg, Telelombardia): "De Marchi, vai all'Isis a farti stuprare un po', non ti preoccupare, è un sacrificio per l'integrazione. Ma che cavolo dice! Si faccia un po' stuprare se le piace l'integrazione. Vai che ti fa bene... Fai le corna a tuo marito e fatti ingravidare!". 26-mar-16

30) Piero Longo, onorevole di Forza Italia e avvocato di Silvio Berlusconi, intervistato da Repubblica: Avvocato, sa che lei ha un posto tra i 10 deputati più assenti in Parlamento? "Io faccio quello che voglio". 27-mar-16

31) Beppe Grillo intervistato da Wired: "Donald Trump? Beh, forse è meno peggio della Clinton...". 04-apr-16

32) Tempa Rossa, La Stampa pubblica un'intercettazione del 18 giugno 2015 tra l'ex ministra Federica Guidi ed il compagno Gemelli: "Non fai altro che chiedermi favori, con me ti comporti come un sultano... oh mi sono rotta... mi tratti come una sguattera del Guatemala!". 07-apr-16

33) Il primo punto del programma di Antonio Razzi, che s'era pure candidato al Campidoglio: "Voglio liberare la Capitale dai ratti, ormai l'hanno invasa. Ho già preso contatti per far arrivare a Roma qualcosa come 500mila gatti asiatici...". 11-apr-16

34) Alessandro Di Battista ed il rapporto con i congiuntivi (Piazzapulita, La7): "Lei non mi interrompi!". 19-apr-16

35) La mitologica esultanza del deputato Pd Ernesto Carbone, su Twitter, dopo il fallimento del referendum sulle trivelle: "Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l'importante è partecipare. #CIAONE". 17-apr-16

36) L'ex segretario di Rifondazione Fausto Bertinotti intervistato dal Corriere: "Il movimento operaio è morto: in Comunione e Liberazione ho ritrovato un popolo". 18-apr-16

37) Erasmo D'Angelis, da direttore dell'Unità, intervistato dal Corriere sulla "bufala" della candidata 5 Stelle Raggi apparsa nello spot "Meno male che Silvio c'è": Direttore avete chiesto scusa a Virginia Raggi? "Ci siamo scambiati tweet la sera stessa. Ora è tutto a posto". Non avete pensato ad una rettifica quando la Raggi vi ha smentito? "No, perché non è un’operazione politica, ma è giornalismo 2.0". 17-apr-16

38) Beppe Grillo da Taormina, in Sicilia, prima di un suo spettacolo: "Non c’è più la mafia qui: è emigrata al Nord. E non c'è più neanche il voto di scambio, perché non c’è più nulla da scambiare...". 25-apr-16

39) All'interno del nuovo libro dell'onorevole Santanchè: "Donne, non datela. Quando la date è finita. Meglio l’attesa della presa". 26-apr-16

40) Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris in apertura di campagna elettorale: "Non mi avrete mai! Il piombo fuso dovrete usare! Non sono in vendita! Renzi vai a casa! Devi avere paura! Ti devi cacare sotto! Renzi cacati sotto!". 09-mag-16

41) Virginia Raggi rivela il proprio “pantheon” a Micromega: "I leader a cui mi ispiro sono San Suu Kyi, Martin Luther King e Gandhi". 03-mag-16

42) Il "giuramento" di Matteo Renzi in caso di sconfitta al referendum costituzionale (Che tempo che fa, Rai 3): "La mia non è personalizzazione, ma serietà. Se io perdo, con che faccia rimango? Ma non è che vado a casa, smetto proprio di fare politica". 08-mag-16

43) Segue a ruota la ministra Maria Elena Boschi (In mezz'ora, Rai 3): "Noi vinceremo, quindi questo problema non si porrà. Ma comunque sì, noi siamo persone molto serie e se Renzi perde anch'io lascio la politica. Come potremmo restare e far finta di niente?". 22-mag-16

44) Alessandro Di Battista a Piazzapulita, La7: "Renzi che parla di democrazia è credibile come i mafiosi che a Roma sostengono il Pd". 09-mag-16

45) La candidata della Lega Nord al Comune di Bologna Rossella Ceriali interviene in un post sui migranti (Facebook):

Un utente: "Domani porto i miei due cani al canile e mi metto in casa due clandestini". Risposta della Ceriali: "Accendi il forno". 16-mag-16

46) Silvio Berlusconi-show dal palco della festa per i 50 anni dell'Edilnord: "Che differenza c'è tra una supposta ed un carciofo? Beh, provi a mettersi un carciofo nel culo, e vede che capisce subito...". 26-mag-16

47) Il senatore Razzi ai microfoni della tv abruzzese Rete 8: "Proporrò a Donald Trump di venire in Abruzzo assieme al leader nordcoreano Kim Jong-un, e di fare una pace duratura davanti ai nostri arrosticini". 24-mag-16

48) Donald Trump in un'intervista all'Hollywood Reporter prende le distanze da Salvini - della serie "Salvini chi?" - dopo averlo effettivamente incrociato per una foto: "Matteo Salvini? Non ho voluto incontrarlo". 01-giu-16

49) Enrico Mentana, intervistando Stefano Parisi a Bersaglio Mobile, La7: "Senza Passera che centrodestra sarebbe...". 27-mag-16

50) Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio posa per Vanity Fair e dichiara: "Il sesso è fondamentale. Se non c’è sesso non c’è relazione. Il massimo è avere il sesso con l’amore". 31-mag-16

51) Il relatore del ddl sui partiti Matteo Richetti prende la parola alla Camera e..."Credo sia importante dare una risposta alla puntuale e condivisibile riflessione dell’onorevole Cazzone... ehm, Capezzone". 08-giu-16

52) Il pronostico di Fabrizio Rondolino, su Twitter: "Vi do una buona notizia: @virginiaraggi non andrà al ballottaggio". (Virginia Raggi stravincerà proprio le elezioni...) 13-apr-16

53) Il tweet-choc del senatore Gal Bartolomeo Pepe, dopo l'uccisione della deputata laburista britannica Jo Cox: "#JoKox colpire uno per educare cento". 16-giu-16

54) Il programmino di Nigel Farage, rivelato al Corriere: "Grillo e io distruggeremo l'Unione Europea". 10-giu-16

55) Alessandra Mussolini parla della sua ultima passione a Italia Oggi: "Ho un rapporto violento con la tela: la strapazzo, con la spatola stendo il colore, che resta grumoso. La manualità mi coinvolge. Dipingo per terra, in soggiorno, con la tela in orizzontale perché la devo violentare. E con il grembiule addosso, perché può capitare che debba fare il ragù". 07-lug-16

56) La furia del capogruppo forzista Renato Brunetta, riversata su Twitter: "Rai vergognosa! Giletti ha invitato 3 volte Marianna Madia! E mai me!". 01-lug-16

57) Le fatiche di Emilio Fede (La Zanzara, Radio 24): "Ho una pensione da 8mila euro al mese, ma non mi bastano. Devo pagare la rata della macchina in leasing, l’autista, la badante. L’affitto di casa, le bollette. Una volta non pagavo nulla...". 01-lug-16

58) Renzo Bossi detto "il Trota" ci regala una gemma accademica. La laurea "a sua insaputa": "Ho saputo della mia laurea in Albania solo dopo questa indagine. La vicenda mi lascia perplesso, escludo di aver fatto l'università". 12-lug-16

59) Il fedelissimo di Virginia Raggi Raffaele Marra, già vice capo di gabinetto del Campidoglio, è stato arrestato con l'accusa di corruzione. A luglio 2016, intervistato dall'Huffington Post, dichiarava..."Se il Movimento ha come via maestra la legalità, io mi definisco lo spermatozoo che ha fecondato l'ovulo del Movimento. Sono uno di loro". 03-lug-16

60) L'imbarazzante passaggio in un post di Luigi Di Maio, che poi si “scuserà” dicendo di essere stato “strumentalizzato dal Pd”: "(..) Io non ce l'ho con le lobbies. Esiste la lobby dei petrolieri e quella degli ambientalisti, quella dei malati di CANCRO e quella degli inceneritori". 21-lug-16

61) Matteo Salvini, durante un comizio a Soncino, in provincia di Cremona (Skytg24): "Salvini sul palco con la bambola gonfiabile: 'Ecco la sosia della Boldrini!'". 25-lug-16

62) Il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante la tradizionale cerimonia del Ventaglio: "A proposito della data del referendum, mi è parso di assistere a discussioni un po' surreali, quasi sulla scia della caccia ai Pokemon...". 27-lug-16

63) Luca Barbareschi, direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma ed ex parlamentare, in un'imperdibile intervista rilasciata al Fatto Quotidiano: "Il mio film 'Something good' avrebbe dovuto essere a Venezia, ma venne rifiutato (...). Alzai il telefono e chiamai Barbera: 'Portatore sano di forfora – urlai –, quando te ti facevi le seghe a Torino, io chiavavo Naomi Campbell, pippavo con Lou Reed a Kansas City, aravo con il cazzo il mondo e guadagnavo miliardi, testa di cazzo!'". 31-lug-16

64) Monica Bars, da capogruppo leghista in consiglio comunale a Musile di Piave (Venezia), su Facebook: "Laura Boldrini va eliminata fisicamente". 31-lug-16

65) Le ricette del leader padano Salvini, su Twitter: "Ancora tensione a Ventimiglia fra Polizia, clandestini e centri a-sociali. Se fanno ancora casino, due legnate, un bel bagno e arrivederci!". 07-ago-16

66) Matteo Salvini, con addosso la divisa della polizia, rivolgendosi alla platea leghista di Ponte di Legno parla di "pulizia etnica": "Quando arriveremo al governo, polizia e carabinieri avranno mano libera per ripulire le nostre città. Sarà fatta una sorta di pulizia etnica controllata e finanziata, come stanno facendo ora con gli italiani costretti a subire l’oppressione dei clandestini". 15-ago-16

67) I congiuntivi della capogruppo Pd al Comune di Roma Michela Di Biase (è moglie del ministro della Cultura Franceschini), in aula: "Vorrei capire come si fosse, si sarebbe comportato il M5s, come vi sareste comportati voi se questi accadimenti avrebbero riguardato altri partiti...". 10-ago-16

68) Arcangelo Sannicandro, parlamentare Sel e comunista di lungo corso, in risposta all'ordine del giorno dei 5 Stelle sul taglio dello stipendio per i deputati: "Tutto questo ragionamento, come se noi fossimo lavoratori subordinati dell'ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo? Noi non siamo lavoratori subordinati, noi siamo politici!". 11-ago-16

69) La ministra della Salute Beatrice Lorenzin e gli slogan-simbolo pensati per il #FertilityDay: "La bellezza non ha età, la fertilità sì", "Datti una mossa! Non aspettare la cicogna". 31-ago-16

70) La giustificazione utilizzata da Luigi Di Maio per difendersi dall'accusa di non aver detto nulla sull'indagine relativa all'assessore Muraro (ne era a conoscenza da un mese): "Ho sbagliato a leggere la mail". 08-set-16

71) L'ennesimo, durissimo attacco del governatore della Campania Vincenzo De Luca ai 5 Stelle (Lira Tv): "Dalla vicenda di Roma è emerso un trio: Luigino Di Maio il chierichetto, Fico il moscio, e l’emergente Di Battista detto Dibba, il gallo cedrone. Sapete cos'hanno in comune questi tre giovanotti? Sono tre mezze pippe. Che vi possano ammazzare tutti quanti...". 10-set-16

72) Maurizio Gasparri ed il grande cinema: "No, non sono io a dirlo, ma mia moglie: per lei assomiglio ad Al Pacino...". 15-set-16

73) Dopo l'ultimo vertice Ue, il senatore Razzi recapita il proprio messaggio istituzionale a Merkel e Hollande (Repubblica.tv): "Io se ero io per Renzi gli avesse detto, caro Olan, cara Merke, cominciate a fare i cazzi vostri, perché io i cazzi miei me li vedo io in Italia". 17-set-16

74) Il doppio sfondone del vice presidente della Camera Luigi Di Maio, su Facebook: Renzi "ha occupato con arroganza la cosa pubblica, come ai tempi di Pinochet in Venezuela. E sappiamo come è finita". (Che Pinochet era cileno, ad esempio) 13-set-16

75) Matteo Renzi intervistato da Lucia Annunziata (In mezz'ora, Rai 3): "Cucù, ed Equitalia non c'è più!". 23-set-16

76) La senatrice M5s Barbara Lezzi al Corriere: "Grillo per noi è come un padre. Ogni tanto ci bastona, ma se un padre bastona un figlio, lo sta facendo per il suo bene". 28-set-16

77) La rivoluzionaria teoria dell'onorevole 5 Stelle Carlo Sibilia (Facebook): "Esiste una crisi idrica, quando c'è scarsità d'acqua. Esiste una crisi geologica, quando c'è scarsità di suolo. Esiste una crisi d'aria, quando è troppo inquinata. Non può esistere una crisi monetaria perché manca la moneta. (...) Dire che esiste una crisi monetaria è come dire che non c'è la lunghezza perché mancano i metri. NON FACCIAMOCI FREGARE!". 19-set-16

78) Beppe Grillo ed i consigli per un voto referendario consapevole: "Il secondo cervello sta nella pancia, e voi dovete votare con l’intestino, ma senza cagarvi addosso". 10-ott-16

79) Lo sciacal-tweet del senatore M5s Andrea Cioffi, poi cancellato, scritto dopo le prime scosse di terremoto in Centro Italia: "A Roma due forti scosse di #terremoto in due ore. Il Senato ha retto benissimo. Reggerà anche alla deforma di Renzi. #IoVotoNo". 25-ott-16

80) Niccolò Ghedini, parlamentare di Forza Italia e storico avvocato del Cavaliere, intervistato dal Corriere: "Non ho capito: dovrei provare vergogna per cosa?". Senatore Ghedini, lei è il senatore che accumula più assenze... "E allora? Al Parlamento si fa solo fiction". 25-ott-16

81) Virginia Raggi ed il il #FrigoGate, il complotto dei frigoriferi abbandonati (La Repubblica): "Non ho mai visto tanti rifiuti pesanti, divani, frigoriferi abbandonati per strada. Non so se vengono fatti dei traslochi, se tanta gente sta rinnovando casa, ma è strano... ci sono frigoriferi che invece di essere portati all'isola ecologica vengono buttati vicino ai cassonetti e non è mica un lavoro semplice portarli lì, non so neanche come facciano. Il frigorifero è già tutto sfondato e graffitato. Mi sembra strano...". 25-ott-16

82) La vicenda sentimentale della senatrice Pd Stefania Pezzopane con l'ex spogliarellista Coccia Colaiuta si arricchisce di nuovi dettagli (Un giorno da pecora, Radio 1): "Io e Simone ci sposeremo nel 2017. Io lo chiamo Amo', lui mi chiama Pesciolina...". 25-ott-16

83) Antonello Aurigemma, consigliere di Forza Italia in Regione Lazio, durante una seduta: "Sarò breve e allo stesso modo circonciso... cir-con-ci-so". 23-set-16

84) La senatrice M5s Enza Blundo rilancia su Facebook la bufala della magnitudo falsata per non risarcire i terremotati (poi modificherà il post): "Il Tg1 apre dichiarando una scossa di 7.1 e poi la declassa a 6.1, ancora menzogne per interessi economici di governo!!! Anche il terremoto che ha distrutto L'Aquila fu 'addomesticato' a 5.8... IL TUTTO PER NON RISARCIRE I DANNEGGIATI AL 100%". Dopo questo post, dichiarerà all'Espresso: "Bufala? Non ci avevo fatto caso, ero impegnata su altro...". 30-ott-16

85) Antonio Razzi a Un giorno da pecora (Radio 1): "Io sono il Trump italiano. Ero sicuro che avrebbe vinto, e tutti mi prendevano per pazzo. Mi rivedo in lui: i pensieri sono gli stessi". 16-nov-16

86) Vincenzo De Luca torna a commentare la lista di candidati "impresentabili" pubblicata nel 2015 dalla presidente dell'Antimafia Rosy Bindi (Matrix, Canale 5): "Quella è stata una cosa infame che ha fatto questa, una cosa infame, un atto di delinquenza politica, da ucciderla". 18-nov-16

87) Beppe Grillo sullo scandalo delle firme false scoppiato nel Movimento a Palermo e Bologna (Euronews): "La firma falsa non è una firma falsa: è una firma copiata". 11-nov-16

88) Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan a Porta a Porta (Rai 1): "Quanto costa un litro di latte? Ehm... (lungo silenzio, ndr) non faccio più la spesa da quando faccio questo mestiere, devo chiedere a mia moglie". 17-nov-16

89) L'onorevole Renato Brunetta sulle gesta social della compagna Tommasa Giovannoni Ottaviani detta “Titti”: dietro all'account Twitter “Beatrice Di Maio”, particolarmente amato dai grillini ed infamante nei confronti del governo (al punto da ricevere una querela dal sottosegretario Lotti), c'era proprio lei... "La mia compagna twittava quasi completamente a mia insaputa". 24-nov-16

90) Le linee guida della ministra Boschi durante un'iniziativa del Pd per il Sì: "Oramai mancano pochi giorni e ci sono ancora tante persone da convincere. Dovete essere educatamente molesti". 22-nov-16

91) Papa Francesco in un'intervista con padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, nel libro "Nei tuoi occhi è la mia parola" (Rizzoli): "Certe volte sento il desiderio di scendere dalla papamobile. Spesso accade davanti alle vecchiette. Io ho una debolezza per le vecchiette". 10-nov-16

92) Beppe Grillo ed il fronte del Sì: "Qui siamo oltre la dittatura, avete davanti i serial killer del futuro dei vostri figli"..."Renzi ha una paura fottuta del voto del 4 dicembre. Si comporta come una scrofa ferita". 23-nov-16

93) Un passaggio dell'ultimo #MatteoRisponde su Facebook, prima della sconfitta referendaria e le successive dimissioni: Nello: "Non vediamo l’ora che lei torni alla Ruota della Fortuna". E Renzi: "Guardi Nello, se potessi tornare alla Ruota della Fortuna sarei felicissimo, tornerei a 20 anni fa, ritroverei Mike Bongiorno e Paola Barale, poi ho anche vinto un sacco di soldi...". 01-dic-16

94) Dopo una giornata elettorale di folli polemiche, Beppe Grillo arriva al seggio e propone una “soluzione” per la psicosi delle matite cancellabili: "Noi vecchi sappiamo come fare per testare le matite: si succhiano". 04-dic-16

95) Pier Luigi Bersani dopo il tracollo di Renzi (Nemo, Rai 2): "La mucca nel corridoio era un toro, e bisogna stare attenti non vada a destra". 07-dic-16

96) Bufera sulla nuova ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli, accusata di non essersi laureata e diplomata – ha frequentato una Scuola per assistenti sociali – e aver mentito sul titolo di studio riportato nella biografia del sito personale (Corriere): “Io sono una persona seria. Se volevo mentire o truffare non avrei mai messo nel mio curriculum 'diploma di laurea', ma avrei scritto laurea e basta". 15-dic-16

97) Roberto Giachetti durante un'infuocata assemblea Pd, in tema di legge elettorale: "Dovete scusarmi, ma io penso questo: Roberto Speranza, hai la faccia come il culo!". 18-dic-16

98) Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti risponde ad una domanda sugli oltre 100mila italiani che hanno lasciato il Paese nel corso del 2015: "Bene così: conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove sta, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averla più fra i piedi. I 60 milioni che sono rimasti qui non sono tutti dei pistola...". 19-dic-16

99) Il senatore Roberto Formigoni, dopo la condanna a 6 anni per corruzione nell'ambito dell'inchiesta Maugeri, e del sequestro di beni per svariati milioni di euro (La Repubblica): "Ho sempre fatto una vita morigerata". 24-dic-16

100) Il senatore Razzi annuncia urbi et orbi, via Twitter: "Direzione Abruzzo: dopo il Presidente farò io un discorso di fine anno!". 29-dic-16

EI FU: IL CORPO FORESTALE.

Il Corpo Forestale dello Stato: la storia. Dagli Stati pre-unitari del 1822 alla fusione con i Carabinieri: una storia lunga quasi due secoli al servizio del patrimonio naturale italiano, scrive Edoardo Frittoli il 16 gennaio 2017 su Panorama.  Come il "martello", la tipica ascia in dotazione ai Forestali, ha lasciato il marchio nella corteccia degli alberi dei boschi italiani, la storia del Corpo Forestale dello Stato affonda le sue profonde radici nella storia degli Stati pre-unitari. Il Piemonte dei Savoia e la Lombardia degli Austriaci furono i primi Stati che, all'indomani del Congresso di Vienna, legiferarono in materia di censimento del demanio boschivo, organizzandone la cura e la vigilanza. Re Carlo Felice incluse nelle regie Patenti la regolamentazione delle acque e delle foreste nel 1822, creando così le prime basi dell'organizzazione di un Corpo Forestale. Dall'Unità d'Italia in poi furono unificati i corpi mentre nel 1877 fu varata la regolamentazione nazionale in materia di disboscamento con norme restrittive per i proprietari soggetti al nuovo ruolo delle Regie Guardie Forestali con funzione di polizia giudiziaria. Nel 1869 viene fondata la prima scuola per forestali a Vallombrosa (Firenze) nell'ex abbazia benedettina passata allo Stato ed affidata all'Istituto Forestale Nazionale. Tra il 1909 e il 1910 la legge Luzzatti crea la Direzione Generale delle Foreste a cui fa capo il Corpo Reale delle Foreste diviso in 10 grandi dipartimenti, arrivando ad impiegare circa 3.000 dipendenti sul territorio nazionale. Lo scoppio della Grande Guerra causa l'arruolamento di massa delle Guardie Forestali, che furono prevalentemente impiegate con funzione di polizia militare e con compiti di approvvigionamento di materiali per il fronte. Al termine del conflitto le guardie saranno impiegate nell'opera di rimboschimento delle ampie zone danneggiate dalla guerra. Con l'avvento del fascismo anche il Corpo dei Forestali viene inglobato nel sistema delle milizie, cambiando il nome in Milizia Nazionale delle Foreste. Il nuovo corpo sarà impiegato in Africa Orientale e poi dal 1940 sul fronte Occidentale e su quello Greco-Albanese. Dopo l'armistizio viene ricreato al Sud il Real Corpo delle Foreste, ma bisogna attendere il varo della Costituzione nel 1948 per assistere alla riorganizzazione dei Forestali nel nuovo ruolo di intervento nelle zone depresse in particolar modo del Meridione. Il 25 luglio 1952 la Legge sulla montagna prevede l'intervento del Corpo Forestale in qualità di supervisore allo sviluppo delle attività agro-pastorali nelle zone montuose del Paese, con il supporto tecnico e la realizzazione delle infrastrutture necessarie alla ripresa delle attività, parallelamente agli interventi di bonifica in sinergia con le neonate Comunità Montane. Negli anni '70 il Corpo Forestale inizia ad affiancare il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco nell'attività antincendio con l'impiego di elicotteri e velivoli "Canadair", mentre nel 1981 il CFS è incluso nelle Forze di Pubblica Sicurezza, passando definitivamente ad un ruolo di vigilanza e repressione dei reati ambientali. Dieci anni più tardi la "Legge quadro" sulle aree protette affida al Corpo Forestale dello Stato un fondamentale ruolo di sorveglianza sui Parchi Nazionali. Negli anni '90 il CFS entra nella Protezione Civile nazionale intervenendo in soccorso alle popolazioni colpite da calamità naturali. Dal 1 gennaio 2017 il Corpo Forestale dello Stato è entrato a far parte dell'Arma dei Carabinieri. La storia prestigiosa del Gruppo Sportivo del CFS inizia nel 1955 con la nascita del Centro Sportivo, impegnato inizialmente nelle discipline invernali dello sci di fondo e del bob, a cui si aggiungono negli anni '70 il biathlon, il salto, lo sci alpinismo. Dal 1978 è la volta dello sci alpino, che assieme al fondo rappresenterà la punta di diamante dei successi mondiali dei Forestali. I nomi dei campioni (e soprattutto delle campionesse) degli anni '80 e '90 non hanno bisogno di presentazione: si chiamano Deborah Compagnoni, Manuela Di Centa, Stefania Belmondo, Morena Gallizio. Gli uomini Konrad Kurt Ladstaetter, Fabrizio Tescari, Hansjörg Raffl e Kurt Brugger (slittino).

FIGLI DI TROJAN. HACKER E CYBERSPIONAGGIO.

Ci spiano con il condizionatore. Gli hacker entrano nella nostra vita per rubare informazioni, scrive Maria Sorbi, Mercoledì 27/09/2017, su "Il Giornale". Detta così sembra la sceneggiatura di una serie tv, ma di fantascientifico c'è ben poco. La minaccia hacker può entrare nelle nostre case attraverso qualsiasi dispositivo elettronico. Davvero. Che sia il condizionatore dell'aria, il frigorifero intelligente o la tapparella telecomandata poco importa. Ogni apparecchio collegato a Internet o in grado di dialogare con il nostro telefonino può rappresentare una porta d'accesso.

L'allarme fake news nel libro sulla sicurezza. Al posto della serratura c'è un codice, più o meno complicato da identificare, e al posto del ladro incappucciato c'è un diabolico maghetto del computer, magari minorenne, che sa perfettamente quali chiavi utilizzare per entrare virtualmente in casa nostra. Il furto è altrettanto grave: se apparentemente non ci viene rubato nulla di materiale, in realtà degli estranei si sono appropriati della nostra privacy, delle nostre abitudini. E noi diventiamo tracciabili anche quando accendiamo o spegniamo la luce. Paradossalmente - ma neanche tanto - un'organizzazione criminale (...) (...) di hacker potrebbe bloccarci di colpo tutti gli elettrodomestici e chiedere alle aziende produttrici un riscatto per riaccenderli. O ancora potrebbe rubarci l'identità, girare i nostri dati a qualche società che imposta ricerche di mercato, o manipolare le nostre bollette. Poco tempo fa due informatici di una società statunitense hanno simulato un attacco hacker a Las Vegas, durante un incontro stampa, mandando il tilt l'intero impianto di aria condizionata di un albergo. Un giochetto da ragazzi: hanno semplicemente sfruttato un bug esistente nel termostato intelligente che gira sul sistema operativo Linux. Poi hanno bloccato l'accesso all'impianto e immesso un codice che lo avrebbe sbloccato solo dopo il pagamento di un riscatto fittizio. Restando nell'ambito delle simulazioni, è stato dimostrato che non ci vuole granché nemmeno a manomettere il computer di bordo di un'auto e guidarla a distanza come fosse un giocattolo.

L'ALLARME PACEMAKER. Non bisogna fare grossi sforzi di fantasia per immaginare le conseguenze di un'intrusione del genere. La minaccia riguarda tutti: singoli individui, grossi marchi e anche piccole imprese e start up, costrette a pagare il riscatto pur di non fermare il lavoro. Altro pericolo tutt'altro che surreale: i pacemaker del cuore. Anche quelli hanno un codice e possono essere gestiti «da remoto» per la manutenzione ordinaria evitando interventi chirurgici. Qualche mese fa negli Stati Uniti l'allarme è scattato davvero. La società sanitaria Abbott Laboratories ha inviato una lettera al personale medico degli Usa avvertendo che alcuni dei suoi pacemaker contenevano falle informatiche e potevano diventare bersaglio degli hacker. Oltre 460mila pazienti sono stati convocati per l'aggiornamento dati del dispositivo cardiaco. «Tutto ciò che è connesso a Internet è un potenziale oggetto di minaccia, compresa la smart tv» dice, senza tanti giri di parole, Roberto Baldoni. Lui è il direttore del centro di ricerca in cyber intelligence and information security all'università La Sapienza di Roma e direttore del Cini, il laboratorio nazionale di cybersecurity. Insomma, è la persona che coordina i lavori dei difensori del cyber spazio, parola che sa tanto di film alla Ridley Scott ma con cui dovremo imparare a convivere. Anzi, sembra che dobbiamo farlo con una certa fretta. Il rapporto Clusit 2017 dell'Associazione italiana per la sicurezza informatica registra un aumento del 1.200 per cento delle intrusioni informatiche nelle aziende e parla senza mezzi termini di «scenario da incubo». «I dati emersi dall'analisi di centinaia di attacchi gravi del primo semestre 2017 sono emblematici - spiega Andrea Zapparoli Manzoni, membro del comitato direttivo Clusit -. Senza investimenti adeguati in sicurezza, l'applicazione delle tecnologie informatiche al business e nelle vite dei singoli cittadini rischia di diventare un boomerang, generando rischi economicamente e socialmente insostenibili».

I RICATTI. Per colpa degli hacker, la cosiddetta industria 4.0, quella degli impianti automatizzati e super intelligenti, rischia di morire sul nascere, ostaggio di criminali che ci ricattano a colpi di bitcoin, la valuta virtuale con cui vengono chiesti i riscatti. «Non possiamo non portare avanti l'industria 4.0 - sprona Baldoni - ma se non viene corroborata da un solido sistema di sicurezza diventa una minaccia enorme. Se invece potessimo blindarla, allora rappresenterebbe una rivoluzione, un'enorme occasione di crescita». In ballo ci sono la sicurezza e la crescita del Paese nei prossimi vent'anni. Perché se non riusciamo a difenderci dal cyber spionaggio e dal mare di virus in cui siamo immersi (un milione quelli nuovi lanciati nella rete mondiale ogni giorno), allora rischiamo di rimanere esclusi dalle partite internazionali. Che si giocano tutte su piattaforme, app, e algoritmi con l'interfaccia più semplice possibile ma con alle spalle programmi complicatissimi e, purtroppo, violabili. Fondamentale evitare disastri come quelli provocati da Wannacry e Petya, i due mega virus che in pochi secondi hanno mandato in frantumi gli archivi di migliaia di aziende, università, ospedali, uffici. E che sono riusciti a curiosare negli elenchi dei clienti (ma non nei conti) delle banche. La sfida è trovare il giusto equilibrio tra programmi sempre più accessibili ma al tempo stesso sempre più impenetrabili.

PAKISTANI SUPERSTAR. «Non possiamo finire alla mercé di un adolescente pakistano qualsiasi» commenta Baldoni pensando alla nuova generazione di hacker. Come fare? Innanzitutto creando una generazione di anti hacker che facciano da scudo. Operazione che è semplice a dirsi ma non a farsi. Ad oggi fra Italia e resto del mondo, le posizioni da coprire arrivano a quota 3 milioni, la richiesta è enorme ma mancano gli esperti. E quelli che ci sono fuggono dall'Italia: da noi dove vengono pagati come ricercatori precari meno di 30mila euro netti all'anno, in California hanno stipendi da 120mila dollari all'anno. Per di più il nostro sistema universitario non sembra così preparato a formare i genietti del computer che ci possono difendere dai cyber attacchi. C'è un altro nemico della sicurezza informativa: la burocrazia. Lenta, complicata e che, fra timbri e protocolli, parla un linguaggio totalmente anacronistico rispetto a un sistema per codici che, alla velocità della luce, penetra nelle banche dati di ogni angolo della terra. E poi il nemico numero uno: i finanziamenti. In Francia, Inghilterra e in Germania i governi hanno stanziato un miliardo di euro ogni quattro anni per sviluppare il piano di cybersicurezza. In Italia sono stati concessi 135 milioni di euro, una tantum. «Tenteremo comunque - assicurano all'istituto Cini - di trasformare l'Italia in un enorme cantiere cyber e di fare della sicurezza informatica una grande opportunità di sviluppo nazionale».

QUANTI DANNI...Va precisato che non siamo all'anno zero della lotta ai criminali informatici. L'Italia ha un suo piano di cybersicurezza, appena aggiornato rispetto a quello varato con il governo Monti nel 2013. A breve giro ci dovremo anche adeguare alla nuova stretta data dall'Unione Europea che, oltre a «un'agenzia-fortezza» contro gli attacchi, prevede anche la creazione di un fondo per i paesi colpiti dai virus, un sistema di certificazione Ue per i prodotti «cybersicuri», una rete e un centro di ricerca europei. E una direttiva contro le frodi per i pagamenti online, incluse le valute virtuali. Gli hacker in Europa sembrerebbero fare danni per 265 miliardi l'anno e lo stesso presidente della commissione europea Jean Claude Juncker ha ammesso che al momento le difese sono un autentico colabrodo. Per questo la sicurezza informatica è stata inserita fra le priorità da affrontare assieme all'immigrazione. «Solo l'anno scorso - ha detto Juncker all'europarlamento di Strasburgo - ci sono stati più di 4mila attacchi ransomwere (ndr, blocchi dei computer con relative richieste di riscatto) al giorno e l'80% delle aziende ha sperimentato almeno un incidente di cybersecurity». Quando ci fu l'epidemia di Wannacry nemmeno le ambulanze erano più in grado di soccorrere i malati, il sistema operativo era stato mandato del tutto all'aria e i danni agli enti pubblici e privati sono stati immani.

I fratelli Occhionero accusati di cyberspionaggio. I fratelli Occhionero sono stati arrestati il 9 gennaio 2017 con l’accusa di cyberspionaggio, la prossima udienza è prevista per lunedì 17 luglio, scrive il 15 Luglio "Il Dubbio". La parabola discendente di Francesca Maria Occhionero inizia il 9 gennaio di quest’anno quando viene arrestata insieme al fratello Giulio, e condotta nel carcere romano di Rebibbia. Le accuse mosse dalla procura di Roma sono: accesso abusivo a sistema informatico aggravato, intercettazione illecita di comunicazioni informatiche, violazione della privacy; accantonata al momento quella di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato. In pratica i due avrebbero cercato di entrare nella posta elettronica di 18mila persone, tra cui l’attuale segretario del Pd, Matteo Renzi, l’ex premier Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, il cardinale Gianfranco Ravasi, ma anche in quella di nomi altisonanti della finanza, delle istituzioni, delle pubbliche amministrazioni, di celebri studi professionali. Il processo a carico dei due fratelli, iniziato lo scorso 27 giugno, riprenderà il 17 luglio davanti al giudice monocratico. La Procura ha chiesto ed ottenuto dal gip l’ok al giudizio immediato che ha consentito, alla luce delle prove raccolte nella fase investigativa, di saltare l’udienza preliminare e di portare il processo direttamente in aula. Entrambi lavoravano insieme in diverse società di famiglia, compresa la Westlands Securities, fondata da Giulio due anni dopo la laurea, nel 1998, a Malta, e che si occupa di consulenza finanziaria a istituzioni bancarie. Lui con la passione per la matematica, lei per la maratona. Secondo gli inquirenti i fratelli Occhionero sarebbero stati al vertice di una centrale di cyberspionaggio che accumulava illecitamente dati sensibili e riservati, attraverso l’utilizzo di un malware (malicious software) chiamato Eye Pyramid, “occhio sulla piramide”, il simbolo massonico per eccellenza. I dati sottratti dal virus informatico erano custoditi in server negli Stati Uniti. L’indagine era partita da una segnalazione del capo della sicurezza dell’Enav, Francesco Di Maio, che aveva rilevato nella posta elettronica una email malevola. L’attacco malware avveniva generalmente infatti tramite una email. Dalle carte della Procura di Roma, che ha condotto le indagini con il Cnaipic, il Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia postale, e in collaborazione con l’Fbi, si legge che quella che ha poi consentito di infettare i computer arrivava da uno studio legale, in cui si diceva di scaricare un file pdf contenuto in allegato. Una fattura, nel caso specifico. Dentro quel pdf in realtà era contenuto il software. Appena si apriva il file, l’infezione del computer era avvenuta, ed esso poteva essere controllato da remoto, senza che il proprietario se ne potesse accorgere. Contemporaneamente il virus metteva in condizione il presunto hacker di accedere abusivamente a tutti gli account in possesso del titolare del sistema infettato: email, cloud, conti correnti, profili social. I due fratelli – lui ingegnere nucleare di 45 anni, lei quarantanovenne con un dottorato in chimica – difesi rispettivamente dagli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari, si sono sempre dichiarati estranei ai fatti contestati. I legali avevano chiesto più volte la scarcerazione dei loro assistiti, e in subordine gli arresti domiciliari, ma il Tribunale del Riesame aveva respinto il ricorso, sui cui aveva espresso parere contrario anche il pm Eugenio Albamonte.

Figli di Trojan, come due spioni possono infettare vip ed enti pubblici. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, l'11 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La cronaca ci parla di un plateale Ko di due criminali telematici, finiti al tappeto – nomina sunt homina – entrambi con un occhio tumefatto. I signori Occhionero sono balzati sullo schermo televisivo e sul display di smartphone, tablet e computer, incastrati al termine di una lunga indagine e soprattutto inchiodati dalle 47 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Intere generazioni di spie e di hacker, che hanno sudato sette camicie per guadagnarsi un briciolo di notorietà, sono stati mortificati brutalmente da imprevedibili Bonnie e Clide del bit. Ma cosa è successo davvero? Chi si aspetta la solita risposta tranchant, quella che deve stare in un minuto di servizio del TG o in duecento battute virgolettate dell’intervista su carta, purtroppo stavolta non sarà accontentato. Una storia del genere merita di essere assaporata con la massima calma, ma soprattutto deve essere ricostruita in un linguaggio e in una modalità accessibili anche a chi è fortunatamente digiuno di tecnologie, di indagini, di misteri. Questo post somiglia a certi acquisti del periodo natalizio. E’ a rate. Una rateazione senza sorprese, se non quella – legittima – del “ho capito anch’io” esclamato dall’immancabile “scettico blu”. Il primo step riguarda alcune considerazioni sulla platea dei soggetti presi di mira, il cui elenco sembra aver sbalordito l’opinione pubblica. La lunga lista di “Very Important Person” è fin troppo scontata: avremmo dovuto restare stupefatti se il target fosse stato rappresentato dal verduriere sotto casa, dall’edicolante all’angolo della strada, dal benzinaio lungo il viale, dal pensionato del piano di sopra. Le persone “catalogate” nella progressiva azione di costante spionaggio ed ininterrotta archiviazione sono tra loro concatenate: il ruolo istituzionale, lo status sociale, le condizioni economiche e la posizione di spicco in un contesto aziendale rendono probabile la compresenza nella medesima rubrica telefonica o di indirizzi di posta elettronica. Chi immagina il puntuale assalto dei personaggi “uno ad uno”, sbaglia. Chi opera con certi grimaldelli digitali si limita a prendere di mira un tizio di interesse e da lì, come in certe sfortunate cordate di alpinisti, “tira giù” tutti quelli che gli sono a qualunque titolo legati. Tutto comincia con la scelta del tallone d’Achille e della tecnica per entrare nella vita della vittima prescelta. Il punto debole non sta sotto la caviglia, ma nella tasca o nella borsa del bersaglio: smartphone, tablet e computer portatili e da scrivania. Chiunque ha un dispositivo elettronico che lo accompagna ovunque e cui sono affidate informazioni più o meno riservate. Capito “dove” colpire, si passa rapidamente al “come”. Il dardo avvelenato di maggior efficacia è rappresentato dallo sconfinato arsenale di “malware”, ovvero i “malicious software” o programmi dalle venefiche capacità operative. Una manciata di istruzioni nocive sono capaci di “narcotizzare” gli strumenti di lavoro e di farli sfuggire dal regolare controllo di chi ne è legittimo possessore o utente. In pratica chi vuole colpire il suo avversario – per poi, violandone la riservatezza, depredarlo di dati e notizie – deve riuscire ad installare il malware sull’apparato nel mirino. Le modalità per “infettare” ricordano le pagine dell’Odissea ed evocano il ricorso a virtuali “cavalli di Troia”, dizione storicamente adoperata per identificare i malvagi programmini pronti a fregare il destinatario del dono. La trappola è nascosta in un allegato ad una mail apparentemente innocua, oppure in una App gratuita che viene consigliata da un presunto amico, o in tanti altri modi idonei a veicolare fregature bestiali. Il malcapitato non riconosce l’inghippo, fa clic con il mouse sulla “graffettina” che identifica l’annesso al messaggio o magari non esita ad installare la fatidica applicazione per il moderno telefonino intelligente ma non troppo. Il file allegato o la App si aprono e si comportano in modo esteriormente corretto, ma – dribblando le protezioni – entrano in azione e mandano a segno la propria missione illecita. Cellulare, palmare o computer ingurgitano in totale incoscienza i codici malevoli, ricevono ordini che l’utente non ha mai impartito, spalancano la via a chi vuole sottrarre qualsivoglia contenuto, registrano quel che viene digitato sul touch screen o alla tastiera. In pratica il dispositivo diventa uno “zombie”, ubbidisce a chi ha predisposto l’insidioso malware, si lascia scappare copia dei documenti memorizzati o delle mail spedite o ricevute, mette in funzione la webcam o la videocamera del telefonino e filma quel che rientra nella sua visuale, attiva il microfono di portatile/tablet/smartphone improvvisandosi microspia ambientale, e così a seguire. La vittima non ha scampo. E deve sperare che l’unico file installato sul suo computer sia solo quello del virus. Eh, già. Perché un vero malintenzionato potrebbe non accontentarsi di piazzare le istruzioni, ma inserire cartelle e file (di qualunque genere, magari materiale pedopornografico) che il proprietario di quell’arnese non ha mai nemmeno immaginato potessero esistere… Ma su questo “dettaglio” torneremo in una prossima puntata di questo sequel…Fermiamoci qui. Tranquilli, non mi farò attendere.

Figli di Trojan: come, a furia di spiare, si diventa spiati. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 12 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Viene legittimamente da chiedersi da dove e perché saltino fuori questi dannati malware. E, lo si stenterà a credere, l’humus di questo genere di prodotti è il contesto giudiziario che rappresenta un importante committente e al tempo stesso un alibi per il mercato. Le Procure della Repubblica se ne servono per le indagini più impegnative (non faccio mistero dei tanti fondati dubbi di legittimità di questo modus operandi – che personalmente non ho mai utilizzato né genericamente “approvato”, ma mi riservo di rinviare il tema ad una delle future tappe di questa chiacchierata). Le software house, da parte loro, li producono dichiarando la speranza di venderli ad articolazioni territoriali della giustizia e non disdegnando di collocarli su un più redditizio mercato parallelo (senza arrivare al crimine organizzato, ci si può accontentare di qualche Paese poco democratico…. Hacking Team docet). In termini pratici il mercato non manca di opportunità e poi mille artigiani della programmazione informatica sono sempre pronti a confezionare soluzioni sartoriali. Non bastasse, banditelli di qualunque taglia – simili a vecchi druidi – mescolano righe di codice per pozioni dannose da somministrare personalmente o conto terzi al primo computer che capita. Nelle viscere della Rete insediamenti dell’underground computing (deepweb o darknet direbbero quelli “più giovani”) non esitano – simili all’Ikea – a proporre gratuitamente o a pagamento kit fai-da-te per costruirsi autonomamente un malware o combinare altri guai… Ognuno può personalizzare il proprio malware, provvedendo direttamente o commissionando a qualche esperto il confezionamento di quel che gli serve. Il malware soddisfa le pretese anche dei più esigenti e non di rado fa anche qualcosa di più rispetto quel che è stato richiesto o quella che è stata dichiarata come dinamica di funzionamento. Il programmatore, infatti, non si accontenta del corrispettivo pattuito e si riserva sempre la possibilità di ottenere una sorta di “mancia”. Cosa fa? Semplice. Combina la procedura in maniera tale da ottenere una copia del materiale che verrà sottratto e il privilegio di servirsi a proprio uso e consumo del varco aperto dal suo committente nel dispositivo aggredito. Lo “smanettone” non si preoccupa certo di distinguere la natura del committente, né lo scopo – più o meno nobile – che anima chi si serve della sua “creatura”. Nessuno infatti è in grado di sapere cosa facciano effettivamente i “trojan” (espressione gergale appioppata a questa tipologia di programmi spia) adoperati per finalità di indagine dalle Forze dell’Ordine o dalla magistratura. Si corre addirittura il rischio (ma spero di esagerare) che in questo sconfortante stato di cose il programmatore o la software house abbiano automaticamente il monitoraggio (o il controllo) delle investigazioni in corso o comunque si trovino ad accompagnare zitti zitti chi si occupa dei casi più delicati. Lo spionaggio dello spionaggio, che meraviglia….I malware in questione vengono comprati a scatola chiusa e non sono accompagnati dal classico foglietto illustrativo dove si riportano le controindicazioni dei medicinali. Non esiste un albo certificato dei fornitori selezionati, come vorrebbe giustamente il procuratore capo di Torino Armando Spataro, e ancor meno esiste un “bollino” a garanzia dell’affidabilità di prodotti e servizi tecnici (che sarebbe bello venissero ideati, sviluppati, realizzati e gestiti direttamente da strutture statali e non da privati). Chi, quindi, può entrare più o meno prepotentemente nella nostra vita, insinuandosi negli strumenti che ci assicurano il tanto ambito “stay connected”? Esiste un mandante? Qual è la finalità di simili azioni? Le domande si moltiplicano rapidamente. Facile a prevedersi. Proprio per questo ci si ritrova a brevissimo su queste pagine per proseguire la chiacchierata che prenderà spunto anche da osservazioni, commenti, curiosità e opinioni di chi ci legge.

Figli di Trojan, la Cia confessa: "Da soli non ce la facevano, ci servivano gli Occhionero". Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 13 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". L’ “intrigo internazionale” immaginato dai tanti finti esperti, che si accalcano nei talk-show, farebbe impallidire persino Alfred Hitchcock che quella espressione l’ha impiegata per titolare uno dei suoi capolavori cinematografici. In tanti si sono affrettati a dipingere appassionanti “dietro le quinte”, ipotizzando i due protagonisti della vicenda giudiziaria come ispiratori delle migliori pagine di Tom Clancy o John Le Carrè. Unico loro connotato corrispondente al normotipo dell’agente segreto l’essere totalmente sconosciuti ai più. Elemento immancabile in ogni avventura epica dai contorni informatici, invece, la disponibilità di un garage: proprio come quello dove Steve Jobs e Steve Wozniak hanno fondato la Apple e quell’altro in cui Hewlett e Packard hanno avviato la loro impresa. Questi due indizi hanno sicuramente avuto un peso significativo per chi – in assenza di informazioni dettagliate dagli inquirenti – ha voluto far credere di saperne una più del diavolo. A questo punto mi prendo la libertà di dar sfogo – almeno per qualche riga – alla mia irrefrenabile vena goliardica. In ogni spy-story che si rispetti non manca mai una gigantesca organizzazione di intelligence. Talmente gigantesca che a qualcuno è scappato il riferimento alla Gru, facendo correre il pensiero non al servizio segreto russo “Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie”, ma piuttosto a qualcosa di grosso da doversi spostare o sollevare. In un attimo tutti quelli che non sapevano nulla, ma pensavano di far brutta figura a dichiararlo, hanno giocato il jolly e non hanno esitato a sparare la sigla che tutti si aspettavano: la Cia. Anche qui i soliti cattivi – consci che a blaterare fossero braccia, voci o penne rubate ai campi da arare – hanno subito compreso che i sedicenti guru dello spionaggio stessero facendo una bieca operazione di lobbying a vantaggio dei coltivatori nostrani, magnificando imprevedibili potenzialità della Confederazione Italiana Agricoltori il cui sito cia.it ha spesso tratto in inganno gli appassionati di thriller. Qualche altro ha azzardato un cenno alla Nsa ma molti interlocutori distratti hanno detto che la sigla corretta era Nsu e che non andava nemmeno nominata per evitare sfortune e calamità. I più dotti (o magari semplicemente meno giovani) rammentavano che proprio la Nsu produceva l’automobile Prinz che nella colorazione verde portava una sfiga pazzesca e che negli anni Settanta gli studenti “si passavano” l’un l’altro urlando “tutta tua” al pari di quanto avveniva alla vista di una suora. Riconquistando, a fatica, un barlume di serietà, riesce difficile credere che i Servizi più potenti del mondo possano aver assoldato (non me ne vogliano gli interessati) fratello e sorella o aver deciso di acquistare il risultato delle loro perlustrazioni informative. Ho provato a chiudere gli occhi e, sollecitato dal ricordo di pellicole come “Nemico Pubblico”, ho cercato di vedere la sala operativa di Langley o quella a Fort Meade con fior di analisti che – stremati e delusi – si lasciano scappare “Non ce la possiamo fare da soli…. Ci vogliono gli Occhionero…”. Non manco di fantasia, ma non ci sono riuscito. Anche a sforzarmi, proprio non ce la faccio. Perdonatemi, ve ne prego. Fortunatamente gli specialisti dell’intelligence, nonostante il ruolo serio e i toni seriosi che li contraddistinguono, sono persone di grande spirito e non serberanno rancore nei confronti di chi ha fatto abbinamenti irriguardosi. Chi ha ragionevolmente scartato il coinvolgimento di 007 e relative strutture, rinunciando così ad innamorarsi di incantevoli tesi complottiste, si domanda se l’operato dei nostri angloconnazionali sia da ricondurre ad un incarico ricevuto da chissà quale committente e vorrebbe conoscerne le ragioni. Già, c’è un mandante? E chi potrebbe essere? Esclusi i servizi segreti, qualcuno intravede torbidi scenari massonici. Sullo sfondo appare Corrado Guzzanti che esorta i suoi fratelli al golpe…

Figli di Trojan, non solo gli Occhionero: sul web un intero esercito di mancati detective. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 14 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Quello “in grembiule” è un mondo che conosco davvero poco (mia nonna Bigina ne aveva uno, ma lo adoperava per cucinare) ma so che gli intrecci del nostro pianeta si annodano molto spesso con personaggi appartenenti a logge o aggregazioni misteriose. Probabilmente chi frequenta certi ambienti si alimenta (come i vampiri con il sangue) di dati e notizie che garantiscano la supremazia dell’informazione. Sapere, sapere prima, sapere qualcosa in più, sapere qualcosa d’altro: questa è la forza di chi vuole rompere gli equilibri o crearne di nuovi, approfittando di un patrimonio conoscitivo che assicuri una posizione di vantaggio. Considerato, però, che certe associazioni possono contare tra i “fratelli” tanti personaggi di spicco nelle istituzioni e nelle Forze Armate e di Polizia, sembra bizzarro che non si avvalgano proprio dei loro affiliati che – tra l’altro – sono debitori della loro carriera alla cerchia cui hanno aderito e che in qualche modo dovranno pur sdebitarsi con contributi di adeguato calibro. E allora perché rivolgersi ai pur “volenterosi” signori Occhionero? L’ombra della massoneria – così dicono e scrivono i “ben informati” – aleggia sulla scena. L’ingegner Occhionero a quanto pare è affiliato alla Loggia 773 “Paolo Ungari – Nicola Ricciotti Pensiero e Azione”, da non confondersi (ho cominciato a documentarmi!) con la quasi omonima Loggia numero 1498 “Pensiero e Azione” il cui maestro venerabile comunicava via Facebook e i cui elenchi e documenti sono stati trovati il 5 marzo scorso in un cassonetto dei rifiuti davanti agli uffici del dipartimento regionale all’Energia di viale Campania a Palermo. Il Grande Oriente d’Italia – casa madre della massoneria italiana e, come si legge sul relativo sito, “iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia” ha formalmente “sospeso” l’Occhionero riconoscendo l’appartenenza del soggetto al sodalizio. Probabilmente accumulare dossier riservati era propedeutico all’acquisizione di ruoli sempre di maggior caratura nell’ambito dell’organizzazione cui l’ingegnere aveva aderito: l’informazione come freccia nella propria faretra, come merce di scambio, come strumento di potere. Molto più facilmente la collezione dei dati poteva avere una destinazione commerciale. Mi spiego meglio. Chi intraprende queste avventure (anche e soprattutto chi lo fa senza farsi accalappiare) opera a scopo di lucro: agisce su specifica istanza di qualche cliente, confida in una futura committenza da soddisfare con immediatezza, non esclude nemmeno dinamiche estorsive in danno di chi ha qualcosa da nascondere. Questa vasta gamma di possibile impiego di dati tesaurizzati ci porta per mano dinanzi al baratro in cui è sprofondata la nostra privacy. Non ci troviamo dinanzi a due presunti “fenomeni” (Giulio e Francesca Maria), ma al solo effettivo e preoccupante fenomeno della “data collection” che conta migliaia di persone tra i suoi appassionati. La speranza di “rivendere” quel che si è scovato in maniera più o meno lecita trasforma le ricerche in attività compulsive. E se qualcosa non lo si trova in Rete (la cosiddetta “Open Source Intelligence” è disciplina di grande efficacia), l’aspirante “dominus” della conoscenza globale non esita a contattare chi ha a disposizione un terminale collegato a una banca dati giudiziaria o investigativa. La catena di favori e cortesie (prezzolate e non) e di piccole manovre sottobanco qualifica il livello della partita in corso, in cui farebbero capolino anche operatori di polizia pronti a sgraffignare qualche informazione nei database dell’ufficio (incuranti del fatto che ogni loro azione è rigorosamente tracciata). I fratelli Occhionero sono la prima pattuglia che viene catturata, ma in campo c’è un intero esercito di mancati detective che somigliano ai tanti che vanno a giocare alla guerra nei boschi con il “softair” magari dopo essere stati “obiettori di coscienza” in età di leva. Internet è la giungla in cui vietcong digitali vanno autonomamente a caccia di nemici, sentendosi bravi e importanti per esser riusciti ad utilizzare trappole e ordigni virtuali e aver accumulato prede. I mercenari della guerra alla riservatezza personale prima o poi riusciranno a vendere il loro scalpo a chi ne farà richiesta. Basta aspettare. Le “radiografie” dei singoli individui pescati anche a strascico non ingialliscono mai.

Figli di Trojan, i sistemi hackerati dagli Occhionero erano protetti? Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 16 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Computer, tablet e smartphone sono una sorta di cornucopia di informazioni. Il loro saccheggio è certo attività deprecabile, il loro utilizzo improprio addirittura peccato mortale. Etica a parte, c’è poi da fare i conti con il codice penale. Ma se i primi colpevoli fossero i vip che si sono fatti scippare il contenuto delle loro “memorie” e delle caselle di posta elettronica? La boutade – che potrebbe non esser tale – prende spunto dalla lettura del codice penale e degli articoli che in questo sono stati inseriti dall’entrata in vigore “illo tempore” della legge 547 del 1993 che ha introdotto nel nostro ordinamento i crimini informatici. Le disposizioni che hanno contemplato la sanzionabilità di comportamenti illeciti mandate a segno in danno di sistemi informatici hanno – analogamente a tanti brani di musica leggera – un ritornello ricorrente. Il refrain è quel “protetto da misure di sicurezza”, che troviamo – sempre compreso tra due virgole – nelle diverse fattispecie di reato come elemento indispensabile perché siano soddisfatti i requisiti delle singole condotte delittuose. In termini pratici il reato si configura solo ed esclusivamente se il computer destinatario delle attività criminose (ad esempio di “accesso abusivo” di cui all’articolo 615 ter del codice penale o di “danneggiamento” previsto e punito dal successivo 635 bis) è opportunamente difeso da idonee precauzioni tecniche. Proviamo ad accostare l’accesso abusivo a un sistema informatico alla ben più materiale violazione di domicilio. Quest’ultima si realizza se chi entra rompe lucchetti, scassina serrature, scavalca recinzioni, divelle porte blindate, fa violenza sulle persone che si oppongono all’ingresso, quindi superando o infrangendo le “misure di sicurezza” poste a difesa dell’immobile. Non commette reati chi va a sdraiarsi sul prato – pur proprietà privata – antistante l’altrui abitazione di cui è pertinenza: il padrone di casa avrà diritto di cacciarlo, di lamentare il superamento del perimetro segnato dalle margheritine piantate sul bordo del terreno, di chiedere il risarcimento di un eventuale danno all’aiuola, ma nulla di più. I dispositivi elettronici su cui hanno scorrazzato i due sedicenti hacker somigliano più alla costruzione corazzata della prima situazione o piuttosto allo spazio semiaperto del secondo caso? La questione delle misure di sicurezza è incredibilmente importante. Se ci sono, chi le viola si macchia di reato. Se non ci sono, gli indesiderati visitatori non devono rispondere di accesso indebito. Ma la storia non finisce certo qui. Le misure di sicurezza, infatti, sono considerate obbligatorie dalla disciplina vigente in materia di privacy. La normativa in argomento si preoccupa del fatto che enti e aziende raccolgano o utilizzino informazioni personali sui propri computer effettuando tali operazioni su dati riferiti ad altre persone (si pensi a quelli dei dipendenti per una azienda o dei cittadini per un ente pubblico). Un eventuale attacco a un archivio elettronico non danneggia tanto chi lo detiene e lo gestisce, ma piuttosto tutti i soggetti cui i dati sottratti, copiati o alterati si riferiscono. Per questo motivo gli articoli 33 e 34 del decreto legislativo 196 del 2003 e l’allegato B al medesimo provvedimento stabiliscono misure minime e precauzioni specifiche per chi si avvale di strumenti tecnologici di elaborazione dati (categoria in cui rientrano dai più piccoli ai più sofisticati arnesi digitali di uso comune per lavorare alla scrivania o comunicare in mobilità). Il primo comma dell’articolo 169 del medesimo d.lgs. 196/03 prevede la pena dell’arresto fino a due anni per chi, essendovi tenuto, omette l’adozione di tali misure. Conoscono bene la sottile linea di demarcazione tra codice penale e quello della privacy tutte quelle imprese che, subita una aggressione informatica, hanno capito le controindicazioni al presentare regolare denuncia. Considerato che oltre al danno di immagine per la beffa subita, infatti, c’è il rischio di passare dalla posizione di vittima a quella ben più scomoda di reo, parecchie aziende preferiscono tacere sull’accaduto e sperare che i dati sgraffignati non comincino a circolare…Tenuto conto che il virus “Eye Pyramid” utilizzato per combinare questo ambaradan risale al 2008 e quindi erano disponibili da tempo sistemi idonei a prevenire o neutralizzare azioni o situazioni dannose o comunque pericolose generate dal suo entrare in azione, gli apparati presumibilmente azzannati in modo virtuale dagli Occhionero erano protetti da misure di sicurezza? Viste le considerazioni precedenti, sarebbe interessante appurarlo. Tranquillizziamo subito chi è pronto a commenti feroci pensando che si stiano cercando giustificazioni o alibi ai due personaggi. La loro posizione giudiziaria è ancorata anche ad altri capi di imputazione come l’intercettazione di comunicazioni telematiche (articolo 617 quater comma 1 e 4 n°1 del codice penale), il procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato (art. 256 comma 1 e 3 c.p.), la diffusione di programmi informatici atti ad alterare il funzionamento di un sistema informatico (art. 615 quinquies c.p.). Strada in salita per chi deve difenderli, ma percorso che offre mille spunti di riflessione per chi vuole capire meglio cosa è davvero successo. Un pochino di pazienza. Il sequel continua.

Giulio Occhionero scrisse a Papa Francesco, scrive "L'Ansa" come riportato da "L'huffingtonpost.it" il 13/01/2017. Funzionari delle Regioni Campania, Lombardia, Marche, Sicilia e Veneto. E ancora: banche, consiglio nazionale dei notai, il ministero del Tesoro, farmacie, alberghi a cinque stelle, agenzie di viaggio. I fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero "monitoravano" i più disparati settori nella loro presunta attività di cyberspionaggio. Non tralasciando, sembra, neanche una non bene specificata lettera "da consegnare al Papa". L'elenco delle caselle di posta elettronica hackerate dai due arrestati è presente negli allegati all'ordinanza di custodia cautelare. Oltre ai politici, di quasi tutti gli schieramenti, nel database degli Occhionero sono presenti caselle di posta di dirigenti e funzionari del ministero degli Esteri, a cominciare dall'account dell'ambasciatore ed ex ministro, Giulio Terzi, di società come Alitalia, Poste Italiane e Trenitalia. E ancora: la banca dati avvocati oltre ad un lungo elenco di istituti di credito come American express, Allianza Bank, banca di Roma, Banca Mediolanum, Banca Fideuram, Bank of America, Bim Bank, ByBank.it, Cari Parma, Civibank, csebanking.it, Fineco, Unicreditbanca.it e Webank. Nelle carte dell'inchiesta anche una serie di intercettazioni di telefonate tra i due fratelli e in alcuni casi di Giulio con la madre, Marisa Ferrari. Parole che restituiscono anche un spaccato della vita dei due. In particolare le offerte di lavoro da società di prestigio a Londra, Berlino e Dublino ma anche una non bene specificata lettera "da consegnare al Papa". Giulio racconta delle offerte di lavoro ricevute. In particolare in una l'ingegnere mette a parte la sorella della proposta di lavoro "ricevuta per un progetto che ha sede a Berlino dove verrebbe retribuito con 50 euro all'ora per 7 ore al giorno dal lunedì al venerdì e facendo un calcolo a suo dire saranno 8 mila euro e rotti al mese per 5 mesi". Stando a quanto racconta l'ingegnere nucleare proposte di lavoro gli sono giunte da Deutsche Bank ("come Vice President tra le 90 e le 160 mila sterline l'anno più bonus"), Ubs e Hsbc. In una conversazione intercettata l'8 agosto scorso tra Giulio e la madre si fa, invece, riferimento ad una lettera da consegnare al Papa. Giulio chiede: "ma quella della lettera al papa? è sparita?" e la madre risponde:" no, non è sparita, ti ricordi che sono andata a trovarla (riferendosi ad una amica ndr). Sono andata trovarla le ho portato pure il regalo con la speranza e ho detto senti un pò che cosa ha fatto e sì sì è stata consegnata". Giulio le dice "facciamo un aggiornamento ad un certo punto mò so passati 3, 4 mesi sentiamo che fine ha fatto sta lettera" e la madre gli dice "a settembre e che quando è andata glielo ha detto e le ha risposto che è stata consegnata poi dice se l'ha letta il papa perlomeno sa chi". Dalle carte emerge che Giulio fosse assai attento a tutto ciò che riguardava la galassia delle logge massoniche. Agli atti c'è una telefonata, sempre dell'agosto scorso, in cui emerge come l'ingegnere nucleare fosse preoccupato per l'iniziativa del presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi di chiedere, nel corso dell'audizione di Stefano Bisi (Gran Maestro del Goi, il Grande Oriente d'Italia che sarà ascoltato dalla commissione il 18 gennaio) l'elenco delle oltre 20mila persone iscritte. "La Bindi pubblicherà gli elenchi della loggia sui giornali - dice Occhionero - poichè la Commissione Parlamentare ha chiesto l'acquisizione degli elenchi a seguito della storia della Calabria". Secondo Occhionero, "la Bindi sembrerebbe intenzionata a passarli ai giornali".

Gli hacker di Mafia capitale. I due fratelli Occhionero, arrestati per cyberspionaggio ai danni di decine di politici, businessman e prelati, sono stati amministratori di società collegate al faccendiere Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo romano, scrive Gianfranco Turano il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". Tutte le strade portano a Roma capitale. Il detto vale anche per i due fratelli hacker, Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati la mattina del 10 gennaio perché spiavano sistematicamente politici al massimo livello, businessmen, alti prelati ed esponenti della massoneria: da Matteo Renzi a monsignor Gianfranco Ravasi, dal Governatore della Bce Mario Draghi al'ex premier Mario Monti fino al Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Stefano Bisi. Francesca Maria Occhionero, nata negli Stati Uniti 48 anni fa, e Giulio, classe 1971, sono stati rispettivamente presidente del cda e amministratore della Rogest, oggi fallita, una delle società immobiliari riferibili a Salvatore Buzzi e alla cooperativa 29 giugno finite sotto sequestro giudiziario a giugno del 2015. La Polizia Postale ha individuato a Roma una vera e propria centrale di cyberspionaggio, che intercettava e raccoglieva dati sensibili su personaggi noti della politica e della finanza. In manette un ingegnere nucleare di 45 anni e la sorella di 49, conosciuti negli ambienti dell'alta finanza, residenti a Londra ma domiciliati nella capitale. Gli Occhionero hanno svolto il loro ruolo in Rogest per circa un anno e mezzo fra il 2006 e il 2007. Fra gli azionisti della Rogest ci sono stati la Edil House 80 di Andrea Munno, con un passato nell'estrema destra, la Luoghi del Tempo di Lucia Mokbel, sorella di Gennaro coinvolto nelle inchieste su Finmeccanica, la Sarim immobiliare, pure considerata nella disponibilità di Buzzi, e la Casa Comune 2000 di Ladispoli, anche questa presente nelle carte di Mafia capitale. In un'altra società, la Sire, gli Occhionero sono stati amministratori. La Sire risulta in liquidazione con pendenze per circa 8 milioni di euro nei confronti della regione Lazio nell'ultimo bilancio disponibile (2008). Era invece nel diretto controllo dei fratelli Occhionero la Westland securities, partecipata da una limited omonima con sede a Londra e dalla Owl Investments, insediata nel paradiso offshore delle Turks and Caicos. La filiale romana della Westland, attiva fra Italia e Stati Uniti e collegata alla maltese Pombal, è stata cancellata nel marzo del 2015.

Cyberspionaggio, così funzionava il meccanismo di controllo. L’indagine condotta dagli investigatori del Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia che ha portato all'arresto dei due fratelli Occhionero ha scoperchiato un'attività di dossieraggio durato anni. Che riguardava non solo esponenti di rilievo istituzionale ma anche vittime apparentemente insospettabili. Da Sergio De Gregorio alla Cgil di Torino fino a una società di trasporti di Frosinone recentemente fallita, scrive Floriana Bulfon il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il meccanismo digitale di controllo era questo: un server Command and Control utilizzato per controllare l’azione del malware, da lì la gestione di tutti i sistemi informatici infettati, inviando file di configurazione, sottraendo protocolli di posta elettronica e memorizzando migliaia di documenti da custodire negli Stati Uniti. 18327 username univoche, 1793 di queste corredate da password, suddivise in 122 categorie: dalla politica, agli affari, dalla massoneria ai palazzinari, fino alla Guardia di Finanza e al Vaticano. A gestire l’ “eye pyramid”, l’occhio della Piramide, due fratelli romani, Giulio e Francesca Maria Occhionero. Personaggi noti dell’alta finanza capitolina trapianti a Londra che, secondo l’indagine condotta dagli investigatori del Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia postale in collaborazione con la Cyber Division dell’Fbi, avrebbero coordinato una rete di computer infettati con un malware acquisendo per anni notizie riservate e dati sensibili di autorità di strategica importanza o di sistemi informatici protetti utilizzati dallo Stato e da altri enti pubblici. I dati carpiti, attraverso l’invio di una mail, e ricevuti comodamente sul pc venivano catalogati poi in sottocartelle ciascuna con una differente tipologia: dalle password per le mail e messenger ai preferiti del browser, dalla cronologia dei siti visitati alle conversazioni Skype, fino ai collegamenti email tra le vittime. Tra gli spiati appartenenti alla massoneria, raggruppati nella cartella Bros (Brothers, ossia Fratelli ndr) quali il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi e il presidente del Collegio dei Venerabili del Lazio Franco Conforti, e politici e uomini d’affari racchiusi nella cartella POBU (Politicians Business ndr). Si va dall’account Apple dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi agli indirizzi email degli ex governatori della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni e dell’ora presidente della BCE Mario Draghi. E poi Mario Monti, Vincenzo Scotti e Vincenzo Fortunato, il comandante della Guardia di Finanza Saverio Capolupo, l’ex portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Bonaiuti e l’ex ministro Maria Vittoria Brambilla. Sotto controllo anche la posta elettronica di Ignazio La Russa e Piero Fassino, quella di Fabrizio Cicchitto fino ai computer in uso a due collaboratori del Cardinale Gianfranco Ravasi, dal 2007 presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e pure quelli della Casa Bonus Pastor, 89 camere a ridosso delle mura vaticane con aria condizionata, wi-fi e tv satellitare adibite a struttura alberghiera. E poi tanti studi legali. Tra questi quello dell’ex parlamentare Pdl Maurizio Scelli, già commissario della Croce Rossa, lo studio Ghia che raggruppa esperti di diritto societario fallimentare e bancario, avvocati internazionali specializzati in consulenza e rappresentanza di enti pubblici, professori di diritto amministrativo come Mario Macchia e legali come Elena Prezioso, dirigente dell’ufficio contenzioso dell’Avvocatura generale del Lazio. Se l’interesse di Occhionero, scrivono gli inquirenti, “nei confronti dei suoi fratelli massoni possa essere legato a giochi di potere” o nel caso della cartella classificata come TABU (Taranto Business ndr) ad affari riconducibili alla sua società, la Westland Securities, se risultano comprensibili le mire di spionaggio di esponenti di rilievo istituzionale, lascia ancora senza spiegazione la scelta di altre vittime. A partire dal pc della segreteria di Lettere dalla seconda università di Napoli, la Cgil di Torino o la Toti trans, una società di trasporti di Frosinone recentemente fallita. Ci sono inoltre i pc di due agenzie della Reale mutua assicurazioni di Roma e quelli dell’istituto neuro-traumatologico italiano che vanta oltre 1000 posti letto e 1200 dipendenti e infine la MBA, la più grande mutua sanitaria italiana per numero di soci. Nelle mire anche l’account gmail di Sergio De Gregorio, ex senatore Pdl, ex direttore de ‘L’Avanti!’ decaduto dall’immunità e finito ai domiciliari, e il pc di Antonio Pulcini, patron dell’impero di palazzine a Roma, una famiglia coinvolta in varie inchieste, tra le ultime quella di mafia Capitale. Un’attività di dossieraggio durata anni, con il malware in continua evoluzione. Le prime cartelle risalgono al 2010, le ultime segnalano come data di infezione agosto 2016. Lo scorso luglio, secondo i tecnici, sono state aggiunte due nuove classi aventi il compito rispettivamente di creare alert in base ad una lista di parole chiave e di geolocalizzare la vittima in base all’indirizzo IP. L’indagine è partita dalla segnalazione dell’invio di una email indirizzata a Francesco di Maio, a capo della security di Enav, un’infrastruttura critica nazionale. La mail conteneva il virus e seguendo quella traccia gli investigatori sono risaliti alla rete botnet che, sfruttando il malware, riusciva ad acquisire da remoto il controllo dei computer e dei sistemi informatici. Per i due fratelli, oggi arrestati, le accuse sono di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico aggravato e intercettazione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche.

Occhionero spiava i notai e "monitorava" l'Antimafia. Una trentina i professionisti nel mirino. Quella strana telefonata sulla Bindi: «Svelerà gli elenchi dei massoni», scrive Massimo Malpica, Sabato 14/01/2017, su "Il Giornale". Tutti nel mirino, compresi i notai. Nell'elenco allegato all'ordinanza si moltiplicano gli obiettivi del lavoro di spionaggio che, secondo la Procura di Roma e la Polizia postale, Giulio Occhionero e la sorella Francesca Maria avrebbero portato avanti da tempo. L'elenco dei presunti spiati è diviso da uno spartiacque non indifferente. Da una parte i 1.936 utenti dei quali, sui server riferibili agli Occhionero, oltre ai dati informatici di accesso alle caselle email erano presenti anche le password. Ci sono poi una serie di esponenti istituzionali che erano finiti anche loro monitorati da Eyepyramid, il malware che Giulio Occhionero avrebbe utilizzato per infettare i pc dei suoi bersagli. Qui c'è il nome di Mario Monti e c'è anche quello di Matteo Renzi, il cui account Apple non sarebbe però stato violato. Ma dall'allegato saltano fuori altre vittime eccellenti delle attenzioni della centrale di dossieraggio. Come Stefano Fassina di Sinistra italiana, o Nicola Latorre, senatore dem e presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama, o ancora l'ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, il ministro degli Esteri del governo Monti Giuliomaria Terzi di Sant'Agata, e pure il leader di Ala, Denis Verdini, per finire con il senatore di Ncd Paolo Bonaiuti. Colpisce, però, anche il gran numero di «bersagli» che le presunte spie avevano individuato tra i notai. Forse per carpire informazioni riservate da una categoria strategicamente rilevante. O forse, come fatto anche per gli studi legali e per i commercialisti «violati» dal file Eyepyramid, per usare quei pc «conquistati» come basi di partenza per spedire alle vittime le email contenenti il malware che Occhionero avrebbe personalizzato. E i destinatari, di fronte a una missiva elettronica il cui mittente era uno studio affermato, hanno spesso abbassato la guardia. E così nell'allegato all'ordinanza ci sono almeno una trentina di indirizzi di posta elettronica relativi ad account email del Consiglio nazionale del notariato, riferibili a professionisti di tutta Italia, più una quindicina di account privati di altri studi notarili. Alcuni «deformati» nel nome (ne parliamo nello Spillo, in questa pagina), altri riportati correttamente, come il notaio Gianluca Napoleone di Civitavecchia, quello davanti al quale avvenne la stipula della famosa casa con vista Colosseo dell'ex ministro Claudio Scajola. E a quanto pare finito pure lui - il notaio - «attenzionato» chissà perché dagli Occhionero. Al netto del dubbio che a muovere i fili dei fratelli fossero interessi d'oltreoceano, infatti, allo stato si cerca ancora di capire quale fosse lo scopo del presunto spionaggio - anche se Occhionero nega di aver svolto attività illegali. Di certo i primi a mettere le mani sul malware per analizzare il metodo degli Occhionero, la società Mentat solutions, si erano limitati un anno fa alla considerazione essenziale: «La finalità ultima sembra quella di sottrarre informazioni riservate e documenti sensibili e inviarli a un'entità di natura sconosciuta che gestisce la rete del virus». Ma l'entità altro non era, allo stato delle indagini, che il pc di casa di Giulio, dove il flusso di dati «rubati», e poi selezionati sui server all'estero che ospitavano l'intero «malloppo» digitale, concludeva la corsa. Lì ci arrivavano solo le informazioni che Giulio desiderava, selezionando parole chiave nel testo delle email o in quello digitato dalle inconsapevoli vittime sulle tastiere dei pc. Ma è ancora da accertare che cosa poi facesse l'ingegnere di questa messe di dati e informazioni sottratte ai pc controllati grazie al malware. Nemmeno nelle intercettazioni c'è molto che spieghi il fine ultimo di questo rastrellamento meticoloso. Di solito Giulio e la sorella Francesca Maria parlano di lavoro, della sua (di lui) passione per le certificazioni informatiche, di gite al lago, di possibili trasferimenti all'estero e della mamma. Mai di potenziali, ulteriori clienti o personaggi interessati al loro lavoro sulle vite degli altri. Occasionalmente i due parlano anche di Rosi Bindi, presidente della commissione Antimafia. Succede l'otto agosto scorso, quando Giulio confida alla sorella «che la Bindi pubblicherà gli elenchi della loggia sui giornali poiché la commissione parlamentare ha chiesto l'acquisizione degli elenchi a seguito della storia della Calabria e la Bindi secondo lui sembrerebbe intenzionata a passarli ai giornali».

Cyberspionaggio, il contrattacco di Occhionero: io hackerato dai malware degli investigatori. La posizione difensiva dell'ingegnere romano arrestato il 10 gennaio è tecnicamente possibile e, se sarà confermata, apre le porte a un tema fra i più sensibili della giustizia in questo momento, scrive Gianfranco Turano il 12 gennaio 2017 su "La Repubblica". L'hacker Giulio Occhionero si difende e contrattacca: non c'è nulla di vero, afferma, nel provvedimento che lo ha portato in carcere insieme alla sorella Francesca Maria. È stato lui a essere hackerato dai malware degli investigatori. All'apparenza sembra una linea difensiva delirante, consentita soltanto perché un imputato ha il diritto di mentire pur di difendersi. Ma Occhionero è un tecnico e tecnicamente quello che afferma è possibile. Un malware lavora con la semplicità di un tumore maligno. Non solo imita le cellule sane. Non solo guarda, ascolta e registra ma è anche capace di fabbricare false prove attraverso interventi attivi su sistemi operativi, file, audio, video. In altre parole, si può costruire un profilo di omicida, di narcotrafficante o, appunto, di hacker attraverso il trojan, il cavallo di Troia che infetta i vari device che ormai fanno parte della vita quotidiana di chiunque. E c'è poco da illudersi sulle possibilità di difendersi. «Basta un'innocua foto di WhatsApp, che di solito si scarica in automatico, o un semplice pdf allegato a una mail», dice Giovanni Nazzaro, ingegnere, consulente di varie Procure della repubblica e direttore della rivista specializzata Sicurezza e giustizia. «Stiamo ancora elaborando i protocolli di sicurezza per consentire le chiamate dall'aereo, che a oggi sono vietate in Italia perché la cybersecurity è la tempesta perfetta dal punto di vista della legge, con infiniti profili di attenzione nazionale e internazionale». Il wi-fi in volo però è un business con rischi di sicurezza. L'inchiesta romana sui fratelli Occhionero è altra cosa e la posizione difensiva dell'ingegnere romano arrestato il 10 gennaio, se sarà confermata nel prosieguo del procedimento, apre le porte a un tema fra i più sensibili della giustizia in questo momento. E se Francesco Cossiga, un presidente della Repubblica molto addentro agli apparati di intelligence, diceva: «Io parto dal presupposto di essere intercettato», nemmeno lui poteva partire dall'ipotesi che i suoi scritti e le sue parole potessero essere manipolabili a distanza. Inoltre per l'ex ministro dell'Interno degli anni di piombo essere ascoltato era una sorta di status symbol. Cossiga ne sapeva abbastanza del mondo da non illudersi che i suoi colloqui sfuggissero agli altri potenti. Sei anni dopo la morte del Picconatore, la sicurezza informatica, gli hacker, le spiate elettroniche sono diventate merce comune che copre una vasta gamma di clienti, dal capo di Stato al coniuge diffidente. Niente a che vedere con il caso del perito Gioacchino Genchi o dei servizi segreti più o meno deviati. E anche il Tiger team di Giuliano Tavaroli era comunque una devianza partita da una grande impresa di interesse nazionale come la Telecom. Oggi è semplicemente troppo facile fare soldi con un malware, l'equivalente di un cavallo di Troia digitale che l'ignaro accoglie fra le mura a rischio della sua distruzione.

Mentat Solutions, chi ha smascherato davvero i fratelli Occhionero, scrive Simona Sotgiu su "Formiche.net" il 17 gennaio 2017. Giulio e Francesca Maria Occhionero, i due fratelli romani accusati di aver spiato per anni le caselle di posta elettronica di politici, dirigenti istituzionali, avvocati, commerciali e aziende, sono stati smascherati da un’indagine condotta dalla Polizia Postale diretta da Roberto Di Legami (nella foto), poi sostituito da Nunzia Ciardi su decisione del capo della Polizia, Franco Gabrielli, e coordinata dalla procura di Roma. Secondo l’ordinanza di arresto, a sbrogliare la matassa cibernetica che dal malware Eye Pyramid ha portato ai nomi degli arrestati è stata una società privata, la Mentat Solutions, che ha condotto le analisi preliminari permettendo alla procura di arrivare, poi, ai fratelli Occhionero. Ecco quale ruolo ha avuto la Mentat Solutions nelle indagini sullo cyberspionaggio, come opera, chi sono i proprietari e lo stato di salute contabile della società. Secondo l’ordinanza d’arresto, firmata dal gip Maria Paola Tomaselli, le indagini che hanno portato all’arresto dei fratelli Occhionero sono nate dalla segnalazione fatta da Francesco Di Maio, responsabile della sicurezza della società Enav, di una mail sospetta inviata per l’analisi tecnica “alla società MENTAT Solutions s.r.l., che opera specificamente nel settore della sicurezza informatica e della malware analysis” (pagina 5 dell’ordinanza che si può leggere qui). Le analisi condotte dalla società hanno mostrato come l’account mittente che aveva inviato la mail a Di Maio “faceva parte di una serie di account collegati a studi legali risultati compromessi a seguito di un’infezione informatica”. Inoltre, il file analizzato presentava molte analogie con un altro malware diffuso in passato e già studiato nell’ottobre del 2014 dal personale della Mentat, quando l’Eni S.p.A. era stata oggetto di messaggi malevoli al pari dell’Enav, si legge ancora nell’ordinanza. Dalle analisi condotte dalla Mentat, si è potuta rintracciare la tipologia di malware contenuto nella mail ricevuta dall’Enav, che corrispondeva con la versione recente di un virus denominato “EyePyramid” usato nel 2008 per un massiccio attacco informatico a seguito del quale erano stati compromessi sistemi informatici appartenenti a società private e studi professionali. I tecnici della Mentat, “grazie a un software da loro appositamente realizzato, sono riusciti a decodificare i file trasmessi tramite mail”, oltre a individuare il funzionamento del malware: sottrazione dei dati mediante duplicazione, successiva cifratura e invio dei dati mediante due modalità di trasmissione. “Per i file di dimensioni grandi vengono utilizzati account di cloud storage; gli altri vengono trasmessi in allegato a messaggi email inviati utilizzando account di posta elettronica aventi dominio @gmx.com” (pag. 6), gestito dalla società statunitense 1&1 Mail & Media Inc”. Sempre partendo dall’analisi dell’allegato malevolo – scrive il gip Maria Paola Tommaselli – i tecnici Mentat “sono stati in grado di individuare un server punto di riferimento per il citato malware, ossia il cosiddetto server di Command and Control (C&C) utilizzato per la gestione di tutti i sistemi informatici infettati e sul quale erano memorizzati i file relativi alla configurazione delle macchine compromesse dal medesimo virus EuePyramid, oltre a migliaia di documenti informatici abusivamente esfiltrati secondo la descritta modalità” (pag. 6). Ma come hanno fatto i tecnici della Mentat Solutions ad arrivare ai nomi dei fratelli Occhionero permettendo, così, alla Procura di mettere in atto la seconda fase delle indagini, ossia le attività di intercettazione, terminate con l’arresto dei fratelli? Sbrogliare la matassa informatica è stato possibile, da una parte, grazie all’analisi di tutti i malware citati in precedenza – quello inviato all’Enav, ma anche quelli già in possesso della Mentat – con i quali si sono riscontrate “analogie presenti in tutte le versioni del malware analizzato, compresa quella in esame. Così, fin dal maggio 2010, tutte le versioni del programma malevolo succedutesi nel tempo, fino al dicembre 2015, hanno sempre utilizzato la stessa licenza del componente MailBee.NET caratterizzata dallo stesso codice univoco identificativo”. “La licenza MailBee utilizzata dal malware è variata solamente nel dicembre 2015 quando – si legge ancora nell’ordinanza -, a seguito della richiesta effettuata dalla Mentat di fornire le generalità del suo acquirente, la società AFTERLOGIC Corporation (produttrice delle componenti MailBee.NET Object) ha ritenuto di dover dare notizia a riguardo il proprio cliente”. Tale circostanza fa presumere che a utilizzare la licenza sia stata sempre la stessa persona nel corso del tempo, almeno a partire dal 2010. Altro dato emerso dalle analisi della Mentat riguarda il metodo con cui il virus copiava e reinoltrava i dati carpiti dalle macchine compromesse, ossia attraverso l’invio via mail a caselle di posta specifiche. In particolare è stato fondamentale scoprire che il reinoltro del contenuto delle caselle email @gmx “utilizzate per le descritte operazioni di exfiltration” fosse verso “un account del dominio hostpenta.com, registrato sfruttando il servizio di ‘whois privacy’ offerto dalla società statunitense PERFECT PRIVACY, LLC, con sede a Jacksonvile (Florida), che oscura i dati identificativi del reale titolare del dominio”. Tale dominio, risultava essere collegato ad altri domini, come: enasrl.com, eyepiramyd.com, marashen.com, occhionero.net e westlands.com, tutti registrati con la stessa società statunitense (Registrar: NETWORK SOLUTIONS, LLC.), “ma sono risultati tutti essere, a vario titolo, riconducibili a Giulio Occhionero, o a società a lui collegate ove collabora con la sorella Francesca Maria Occhionero”. “Ulteriori accertamenti – conclude l’ordinanza -, effettuati per tramite dell’FBI statunitense presso la società Afterlogic Corporation, produttrice della licenza MailBee.NET Objects, permettevano di appurare che la licenza relativa al componente utilizzato dal malware, dal maggio 2010 al dicembre 2015, risultava essere stata acquistata proprio da Giulio Occhionero”. La società Mentat Solutions è di proprietà di Federico Ramondino (70% delle quote) e di Paola D’Angelo (30% delle quote), ha iniziato le sue attività il 10 agosto 2009 e si occupa prevalentemente della “produzione di software non connessi all’edizione, consulenza nel settore tecnologico dell’informatica, gestione di strutture e apparecchiature informatiche hardware – housing (esclusa la riparazione)” e ha due dipendenti. Il conto economico al 31 dicembre 2015 indica in 203.128 euro i ricavi delle vendite e delle prestazioni, in crescita rispetto all’anno precedente (133.018 euro). Tra i costi della produzione, si nota una crescita per “materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci”, passate da 4.515 euro nel 2014 a 35.348 euro alla fine del 2015. La società nel 2015 ha fatto registrare un utile di 12.146 euro. Sono poche le informazioni rintracciabili online sui due proprietari della società. Tra i pochi risultati, la partecipazione come relatore da parte di Federico Ramondino alla presentazione del libro “Futuro Ignoto” di Philip Larrey, docente di Logica e Filosofia della conoscenza presso la Pontificia Università Lateranense e sacerdote per la diocesi di Roma. Il libro, si legge nella quarta di copertina, “presenta 14 conversazioni con persone altamente qualificate in diversi settori della società odierna che riflettono sull’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo nel loro campo specifico”. A intervenire assieme a Ramondino anche Claudio Bianchi, definitivo “professionista nel settore Informatica e servizi”, come si legge nella presentazione.

Hackers e cyberspionaggio dopo Eyepyramid e Occhionero: l'esperto dagli USA. E' Massimo Bertaccini a rispondere ad alcune domande sull'argomento spie informatiche, dal suo ufficio di Santa Clara in California: "In futuro proliferazione ed un affinamento degli attacchi cyber-informatici", scrive il 17 gennaio 2017 "Bologna Today". Dopo il malware Eyepyramid usato per infettare e spiare persone "influenti" e le presunte violazioni alle elezioni Usa da parte di hacker russi, la questione della security informatica è tornata di nuovo in primo piano. In Italia, con l'esplosione del caso Occhionero, ci si chiede cosa possiamo fare per proteggerci e come agiscono queste cyber-spie. Attraverso Innovami, centro per l’Innovazione e incubatore d’impresa senza finalità di lucro con sede a Imola, è stato raggiunto a Santa Clara in California presso la sua sede americana Massimo Bertaccini, fondatore di Cryptolab Srl (una startup imolese, ex-incubata presso Innovami), che produce soluzioni crittografiche per la sicurezza informatica per fare il punto e commentare le ultime vicende in generale, affrontare il tema della sicurezza informatica. 

E’ possibile che un malware possa avere infettato così tanti account e sistemi informatici strategici per l’Italia?

«Al netto del clamore giornalistico per i nomi coinvolti, è certamente possibile e assisteremo sempre più in futuro ad una proliferazione ed un affinamento degli attacchi cyber-informatici. Personalmente sono anni che cerco di trasmettere, il concetto di “backdoor” (possibilità di creare un gate spia all‘interno delle comunicazioni tra 2 o più computers infettati) e “botnet” (agenti computerizzati che controllano una rete di computers infettati) e della reale possibilità di infettare milioni di computers nello stesso tempo. Una falla potrebbe dipendere anche dal fatto che la cyber-security Europea e Italiana sta utilizzando algoritmi crittografici standardizzati in America e non in Europa e non dispone quindi (o non vuole disporre) di propri algoritmi standard per la protezione delle comunicazioni».

C’è a suo avviso una carenza di protezione o di strategia difensiva?

«C’è carenza di strategia difensiva; bisognerebbe fare una campagna informativa estesa. Abbiamo in dotazione computers molto potenti e pensiamo solo alla velocità e alle prestazioni ma siamo titubanti nel pagare un euro in più per avere le dotazioni di sicurezza adeguate. Oppure siamo disposti a cliccare “accept” pur di loggarci all’interno di un social network, rinunciando totalmente alla nostra privacy. Queste informazioni e queste disposizioni dovrebbero arrivare a livello istituzionale con campagne informative e norme ben precise».

Quali rischi corre il sistema economico e istituzionale italiano?

«Le informazioni carpite dagli hackers, in larga percentuale, sono vendute per dare un maggior vantaggio competitivo ad altre aziende o stati.  Non solo: altri governi o enti potrebbero utilizzarle per mettere a rischio l’economia e la politica del paese. Gli scenari possono essere estremi. Si pensi che attualmente non c’è bisogno di costruire una bomba atomica per poter utilizzare una bomba atomica, ma è sufficiente entrare in possesso dei codici crittografici che la fanno innescare. Questo ci fa capire quanto la Cyber security sia importante e non solo per l’economia di un paese».

Quali sono ora le azioni principali per correre ai ripari?

«Non conosco quali sono state le lacune. Serve un’azione coordinata pubblico-privata. In America, ad esempio, quando il governo si è accorto della possibilità di creare un “super quantum computer” che può devastare la rete di sicurezza nazionale perché immensamente più veloce di tutti i precedenti computer finora progettati il NIST, che è l’organo deputato dal governo per la standardizzazione di nuovi algoritmi crittografici, ha promosso un bando (con relativo premio in denaro) che invita tutti a presentare nuovi algoritmi di post quantum computing.  Noi potremmo fare lo stesso in questo settore chiedendo l’aiuto dei privati che, spesso, agiscono meglio degli enti governativi o delle università».

L’operazione è stata portata a termine anche in collaborazione internazionale con l’Fbi. Quanto è importante stabilire e coltivare questo genere di partnership?

«Prima di agire in combinazione con altri stati dovremmo muoverci con le nostre gambe. Poi possiamo collaborare alla pari con terzi. Oggi, inutile negarlo, enti mastodontici come l’NSA o la CIA hanno a disposizione tecnologie e mezzi per monitorare l’intero globo. Per non parlare di aziende private come Google, Amazon Facebook e altri che sono sponsorizzate a suon di miliardi dal governo per fargli da spalla. Chi ci garantisce che gli stessi che ci stanno aiutando non siano gli artefici o i sostenitori di queste strategie di attacco? E’ risaputo oramai quale importanza abbiano gli attacchi informatici che periodicamente si scatenano tra Russia-America o Cina-America o altri stati e viceversa. Se prima non pensiamo a rafforzare le nostre cyber-difese per affrontare questa corsa del gatto e del topo e a proteggere le informazioni all’interno dei nostri confini non c’è nessuna garanzia che altri lo facciano per noi».

«Cronaca da una cella di Rebibbia: qui si vive all’inferno». La dichiarazione spontanea di Francesca Occhionero, reclusa nel carcere di Rebibbia dal 9 gennaio del 2017 con l’accusa di cyberspionaggio, scrive il 15 luglio 2017 "Il Dubbio". Sono Francesca Occhionero, dal 9 gennaio 2017 detenuta nel carcere di Rebibbia, dove, quindi, mi trovo a “sopravvivere” ormai da 183 giorni. Ritengo che sia assolutamente infondato ed ingiusto quanto sostenuto per la custodia cautelare che sto subendo: ma ciò è stato e sarà trattato nelle opportune sedi. Quel che, invece, ora mi preme evidenziare riguarda il fatto che la detenzione avviene in condizioni generali di assoluta, evidente e nota illegalità, e ciò rischia di essere strettamente collegato con i fatti di causa. Sono note le condanne inflitte dalla Cedu all’Italia per lo stato di illegalità delle carceri (per le dimensioni delle celle e per il sovraffollamento, che dovrebbe far pensare ad un ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere). Ma sono altrettanto ben note le condizioni concrete nelle quali i detenuti sono costretti a “sopravvivere”, così come mi trovo io, letteralmente a “sopravvivere”.

Qualche cenno:

1) Nel cortile della mia sezione c’è una fogna a cielo aperto, con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni; ebbene, qui si svolge l’ora d’aria!

2) Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in “isolamento sanitario” per giorni, senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto (arguibile dall’isolamento) del trattarsi di malattie infettive. Infatti, il reparto Nido è stato isolato in quarantena per “scabbia”.

3) Io stessa, ormai piena di sfoghi e punture di insetti, il 7 giugno scorso chiedevo di avere un parere medico. La risposta dell’infermiere di turno in ambulatorio è stata che il medico sarebbe stato disponibile per il mio settore solo il martedì successivo. Insomma, ci si può ammalare solo di martedì, ovviamente iscrizione nella lista permettendo. Cosa analoga era successa a maggio, quando sono rimasta bloccata per un colpo della strega dovuto a cinque mesi passati su un letto con un materasso di cui dirò. Per i miei ponfi, non sono riuscita ad avere neanche una crema cortisonica, in quanto, a detta dei vari infermieri di turno, sarebbe terminata da tempo. Ho assistito io stessa un infermiere mettere del Voltaren gel su un ponfo derivante dalla puntura di un’ape.

4) Una ragazza, che lamentava da tempo l’insorgenza di piaghe sulle gambe, dopo un mese ha finalmente ricevuto una visita medica e le è stata diagnosticata una micosi infettiva (si è parlato di tigna). La stessa ragazza ha continuato a condividere i 9 mq. di cella con la sua concellina ed a frequentare gli spazi comuni.

5) Condivido una cella di meno di 9 mq (magari lo fossero!) con un’altra persona che dorme sul letto superiore di un letto a castello dotato di materassi di gommapiuma usurati, bucati, bruciati, pieni di acari e pulci, ormai scaduti da oltre 10 anni. Alla richiesta di sostituzione mi sono sentita rispondere, con il visibile sconcerto della stessa polizia penitenziaria, che non ci sono materassi a sufficienza.

6) Sono obbligata a nutrirmi mediante il vitto passato dal carrello del carcere, ma con grande disgusto e sofferenza fisica. Ne ho capito il motivo quando altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto viene infatti “lavato” con spugnette bisunte e praticamente senza detersivi. Non vi è mancata la presenza di scarafaggi e persino un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento anziché essere sollevati. E questo solo un cenno.

7) Il congelatore non funziona, col risultato che è impossibile conservare alcunché. Nella cella la temperatura è infatti ormai prossima a quella di un forno. Il cibo si scongela e ricongela. Per non dire che, ovviamene, gli approvvigionamenti interni sono fuori di qualsiasi logica: i prodotti sono limitati ed i prezzi raddoppiati e triplicati.

8) Il cortile, le grate delle finestre e i davanzali sono preda di piccioni (e dei loro escrementi) e di gabbiani. Sovente i gabbiani attaccano i piccioni lasciando i cadaveri a marcire sui davanzali delle finestre. Facile immaginare gli odori ed il vomitevole panorama.

9) Il carcere è teatro di continue risse e scontri tra le detenute a causa della difficile convivenza nelle celle, la cui assegnazione avviene inevitabilmente in funzione della scarsa disponibilità; e così vengono fatti convivere soggetti assolutamente incompatibili tra loro e con il carcere (molti di loro dovrebbero essere indirizzati presso altre strutture, idonee per adeguati trattamenti psichiatrici).

10) Il bagno presente in cella è in condizioni pietose. Lo sciacquone perde acqua ininterrottamente, la cipolla della doccia, completamente intasata dal calcare, è un proiettile pronto a partire con la pressione dell’acqua. Dopo esserne stata colpita una volta, d’intesa con la mia concellina, mi faccio la doccia usando il solo tubo. Il filtro/ riduttore del lavandino è analogamente “esploso” a causa del calcare e, data l’assenza di tappi, è finito nello scarico. Il water è privo di coperchio.

11) Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno (problema che aveva già interessato la cella a fianco). Tutto galleggiava, sia nel bagno che nella cella, le lenzuola del letto del piano di sotto erano zuppe, così come le scarpe e tutto ciò che poggiava in terra. A nulla sono valsi i solleciti alle assistenti di sezione, che ben poco potevano fare, se non a loro volta sollecitare la manutenzione. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo. Nel mentre, il bagno, il water e il bidet erano del tutto inutilizzabili, e quindi ci è stato dato l’unico suggerimento pratico possibile: «Chiudete tutti i rubinetti dell’acqua e … usate i secchi».

Tutto ciò, anche in estrema sintesi, era la necessaria premessa per OSSERVARE che le condanne inflitte dalla CEDU sono ben note, ma altrettanto note sono le concrete condizioni, come quelle da me vissute, nelle quali i detenuti e le detenute si trovano a “sopravvivere”, spesso in condizioni davvero disumane ed inaccettabili per una società civile. Ebbene, poiché tutto ciò è ben noto, è mio libero pensiero ritenere che continuare a fare uso della custodia cautelare sia una forzatura inammissibile, un abuso del diritto, una ingiustizia. Tanto più nei casi come il mio, nel quale il rischio di fuga è formalmente escluso, quello di inquinamento è riconosciuto come scemato, residuando, nei provvedimenti che mi hanno negato una attenuazione della misura, solo il rischio di reiterazione, il quale però resta escluso dalla assoluta mancanza di elementi circa i fatti di insussistenti e non provate esfiltrazioni informatiche. Mi sembra, quindi, evidente la forzatura del mantenimento della mia custodia cautelare in carcere, che nei vari provvedimenti, in modo significativamente seriale, viene espressamente ancorata alla mia (asserita) mancata resipiscenza ed alla mia mancata collaborazione, come se una qualche norma la ponesse a buon motivo della misura cautelare! Tralascio le altre evidenti forzature contenute nei vari provvedimenti (nei quali, ad esempio, si fa riferimento a dati informatici esfiltrati: ma da dove risultano tali esfiltrazioni? ma dove sono indicate negli atti di Pg?). Prima o poi inevitabilmente emergerà che dette forzature sono solo l’evidente segno della debolezza dell’impianto accusatorio, cui evidentemente il giudice avverte il bisogno di porre rimedio. Tutto ciò premesso e considerato, la CONCLUSIONE appare evidente. Infatti, quanto sopra sintetizzato induce a sospettare che le ben note, illegali e talvolta disumane condizioni carcerarie, rispetto alle quali non coglie il segno di alcuna reazione, vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto “collabori”, anche se per legge una collaborazione non è dovuta ed anche se (come nel mio caso) una collaborazione è persino impossibile. Ovvio che non posso minimamente accettare l’idea che tale sospetto possa avere un lontano fondo di verità: sarebbe a dir poco avvilente ed irrispettoso della intelligenza e della dignità umana e professionale di chi dovesse far uso di simili strategie. Per cui, ferma restando la incomprensibile inerzia che accompagna le note condizioni carcerarie, voglio tenere del tutto lontano il sospetto di un uso strumentale e distorto dello strumento carcerario, che, diversamente ragionando, a ben vedere, si tradurrebbe in una vera e propria tortura. Dovendo e volendo escludere l’indicato sospetto, debbo però aggiungere che nel mio caso non ritengo si possa in alcun modo ipotizzare la attuale sussistenza dei presupposti di legge per il mantenimento del mio stato di detenzione. Come ho già detto, fuga ed inquinamento sono esclusi; e il pericolo di reiterazione non ha ragione d’essere. Ed ovviamente la mancanza di tali presupposti non può essere colmata con riferimento ad insussistenti e non provati fatti di esfiltrazioni informatiche (che peraltro non sarebbero a me riferibili): nel fascicolo non ve ne è la minima traccia e non capisco perché si continui meccanicamente ad invocarle. Al riguardo non posso e non voglio trattare profili tecnici, ma ritengo significativo che, salvo errori nelle notizie di cui dispongono, io e mio fratello siamo, almeno in Italia, gli unici imputati per “tentati” reati informatici attualmente in carcere e certamente siamo i detentori di un record assoluto di durata di custodia cautelare carceraria per tali reati. In conclusione, quindi, CHIEDO, in primo luogo, che ognuno per quanto di propria competenza si attivi affinché cessino le denunciate illegalità in ambito carcerario e, in secondo luogo, che, considerata la insussistenza almeno attuale – dei presupposti di legge, venga rimossa o attenuata la misura cautelare a me applicata.

Francesca Occhionero: «Pensavo che in cella ci andasse chi commette dei reati. Invece…», scrive Valentina Stella il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia si racconta al Dubbio. «Mi preparavo a trascorrere un’altra notte in cella. Un’ora dopo mi sento chiamare dall’altoparlante “Occhionero scendi a piano terra” e la guardia “prepara la tua roba e vattene perché sei libera”». Comincia così il racconto al Dubbio di Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia, nel quale era rinchiusa perché accusata di cyber spionaggio col fratello Giulio, che rimane a Regina Coeli. Nel provvedimento firmato dal giudice Bencivinni si legge che viene concesso alla Occhionero l’obbligo di firma e dimora a Roma, oltre il parere favorevole per i domiciliari del pm Albamonte, per questi due motivi: la “condotta rispettosa” tenuta in carcere e gli elementi emersi dall’incipit dell’istruttoria dibattimentale “consentono di ritenere che vi sia stato un parziale ridimensionamento” della posizione della donna. «Ho sempre avuto l’impressione di essere stata arrestata sulla base di un fumus che non si è mai concretizzato in una serie di prove ci racconta nello studio del suo avvocato Roberto Bottacchiari. Al giudice è bastato da un lato che le intercettazioni fossero chiarite e dall’altro sentire paradossalmente solo il primo teste dell’accusa, il dottor Pereno del Cnaipic (Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia postale), per capire che contro di me non ci sono elementi probanti: nessuna esfiltrazione di dati, nessun collegamento con il malware e i server». E sul perché abbia fatto nove mesi di carcere preventivo Francesca Occhionero si dà due spiegazioni: «Avendo avuto molto tempo di pensare in cella, temo che abbiano strumentalizzato la mia detenzione per fare leva su Giulio, e per acquisire conoscenza di elementi da poter poi contestare in maniera specifica, anche se ad oggi manca ancora l’individuazione di un fatto criminale». E sul rapporto con suo fratello, che i giornali hanno descritto talvolta come in crisi, ci risponde: «Assolutamente, il rapporto tra me e mio fratello è solidissimo».

Tornando al 25 settembre, le chiediamo cosa ha fatto appena saputo di dover lasciare Rebibbia: «In pochissimo tempo ho preparato la mia roba. Poi grandi abbracci più o meno sinceri: ho stretto amicizie profonde che mi hanno fatto trascorrere domeniche normali. Prima di uscire mi hanno prelevato il dna. E poi l’incontro con mio marito fuori dal carcere. Ero emozionata ma anche tesa perché credevo che qualcuno potesse cambiare idea e rispedirmi dentro. La prima notte non ho dormito, ero adrenalinica, carica, non sapevo cosa fare». Il mattino invece sono subentrati sentimenti contrastanti: «Da un lato avevo una grande voglia di uscire, di tirare subito su le tapparelle e di andare a correre lungo il Tevere, ma poi è subentrata l’ansia del giudizio popolare. Sono entrata in banca e mi sono sentita gli occhi addosso di chi sussurrava nelle orecchie il mio nome, guardandomi e pensando di non essere visto. Mi sono resa conto di avere una popolarità negativa».

E sulla celebrità che il caso ha suscitato: «Non mi ero resa conto subito di quello che riportavano i giornali e le televisioni, perché nei primi giorni di detenzione non mi era stato permesso di accedere a nulla. Poi ho notato due cose: che per la stampa mio fratello era ingegnere nucleare, io semplicemente ‘ la sorella di’ o la runner. Tutti avevano omesso il mio dottorato di ricerca in chimica. Poi ho letto che mi dipingevano come “lady hacker”, “la bella spia” e mi sono resa conto che si trattava di una montatura, di una enorme bufala che si smonterà. Ma purtroppo qualcuno dentro e fuori il carcere ha goduto nel vedermi rinchiusa». Qualche mese fa il Dubbio pubblicò in esclusiva una lettera dal carcere di Francesca Occhionero in cui denunciava le pessime condizioni di detenzione: «Le prime notti ho pianto, poi alla disperazione è subentrata la rabbia per una situazione così surreale e shockante. Ho passato i primi venti giorni nella sezione Camerotti, dove ci sono quelli in attesa di giudizio. Avevo paura ad uscire dalla cella fredda e spoglia per farmi la doccia, temevo di essere aggredita. Non capivo perché le guardie mi davano del “tu” e si rivolgevano a me con “questa”, “quella”, palesando una chiaro atteggiamento di insufficienza. Poi sono stata trasferita in un reparto migliore. Comunque non sono mai riuscita ad abituarmi alla condizione di detenzione perché per me ogni giorno era l’ultimo psicologicamente, non riuscivo a entrare nel sistema, lo rigettavo, pensavo di uscire subito. Passavo il tempo leggendo e scrivendo, anche un libro sulla mia vicenda, e facendo sudoku. E poi nell’ultimo mese sono riuscita a far riaprire una palestra donata al carcere da De Rossi e Totti e ho insegnato fitness a oltre 50 detenute». Sarà il processo a mettere un punto a questa storia ma concludiamo chiedendo a Francesca Occhionero che idea in generale si sia fatta di questa vicenda: «All’inizio pensavo che qualcuno doveva far carriera sulla nostra pelle. Adesso credo che siamo un perfetto capro espiatorio, il soggetto giusto a cui dare la colpa di qualcosa messo in piedi da altri nel passato, essendoci altri sei malware in circolazione». Un ultimo pensiero sul carcere: «È un mondo che non mi aveva mai incuriosita. Confesso di aver avuto un pregiudizio, per cui se qualcuno entrava in carcere doveva aver fatto qualcosa. Il classico luogo comune su cui mi sono dovuta ricredere. Ora dico che bisogna pregare di non incappare nella giustizia; purtroppo si è incrinata la mia fiducia in alcuni ambiti delle istituzioni e delle forze dell’ordine».

«Vi racconto la fantasiosa montatura sui fratelli Occhionero». Parla l’avvocato Roberto Bottacchiari, scrive Valentina Stella il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Qualche settimana fa abbiamo pubblicato in esclusiva la lettera integrale che Francesca Occhionero ha scritto dal carcere romano di Rebibbia per denunciare le condizioni disumane di detenzione che sta vivendo insieme alle altre detenute. Oggi, mentre è in corso anche una petizione su Change. org rivolta al Presidente Mattarella per chiedere di porre fine alla detenzione preventiva della donna, torniamo sulla vicenda dei fratelli Occhionero, accusati dalla Procura di Roma di aver creato una centrale di cyberspionaggio per monitorare istituzioni, pubbliche amministrazioni, studi professionali, imprenditori, politici di primo piano e massoni. Sentiamo il punto di vista della difesa.

Avvocato Roberto Bottacchiari, sulla stampa è emerso che i fratelli Occhionero sapevano di essere indagati e per questo avrebbero sistematicamente cancellato file compromettenti. Addirittura avrebbero negato di fornire le password e bloccato l’accesso ai loro pc lanciandosi sui computer appena gli agenti sono entrati a casa loro.

«Si tratta di una fantasiosa ricostruzione giornalistica. Gli investigatori sono entrati per arrestare Giulio con un provvedimento che prevedeva anche il sequestro dei pc, non l’accesso agli stessi, ma la polizia insisteva nel voler accedere. Questa cosa ha indisposto Giulio che si è rifiutato di fornire le credenziali di accesso anche per proteggere i dati dei suoi clienti. I computer devono essere analizzati nel rispetto di tutte le regole del contraddittorio, in base alla metodica forense che preserva dal rischio di contaminazione e cancellazione dati. Cosa analoga è accaduta con Francesca: in maniera insistente, con fortissima pressione, le chiedevano la password di accesso, lei rispondeva che non aveva la password perché lavorava con la smart card. Loro l’hanno costretta a digitare la password ma non è servito a nulla e gli investigatori hanno sostenuto che lei abbia sfilato di proposito la smart card. Il fatto di averla sfilata è stata una reazione di autodifesa rispetto a quello che stava accadendo. Non è che Francesca non ha collaborato, sono gli investigatori che sono andati contro le regole. E poi in assenza dell’avvocato: ero stato avvisato ma nessuno mi aveva parlato di accesso ai computer».

Sta dicendo che la polizia ha operato in maniera illegale?

«Quantomeno con dubbia legalità: d’altronde basti pensare che la polizia postale ha inoculato, qualche mese prima dell’arresto, un malware nel computer di Giulio. Sono entrati con un falso aggiornamento Microsoft. Da intercettazione passiva si è trasformata in attiva: hanno compiuto una attività di perquisizione e sequestro e non lo hanno comunicato. Giulio comunque ha presentato una denuncia alla Procura di Perugia che ha avviato le conseguenti indagini».

Passiamo al cuore dell’indagine: gli Occhionero sono accusati di essersi introdotti in oltre 18000 profili e di aver conservato in server americani i dati acquisiti illecitamente.

«Punto primo: sul fatto che il malware appartenga a Giulio non esiste alcuna prova. Inoltre sono state fatte anche indagini patrimoniali e non sono stati trovati soldi estorti a qualcuno dei possibili soggetti spiati. Poi sfatiamo subito un altro aspetto che è stato urlato dalla stampa: il computer di Matteo Renzi non poteva essere infettato perché usava Apple mentre il software che avrebbe usato Giulio è Microsoft. Inoltre dall’analisi dei nostri periti solo 1935 (8,2%) username recano anche la password ma non risultano essere stati mai utilizzati; all’interno dei 1.935 indirizzi, solo 11 (0,5%) sono relativi ad Enti; da essi, non risultano essere mai state utilizzate le credenziali; nessun elemento risulta transitato verso Giulio Occhionero: nessuna esfiltrazione. Rispetto a quest’ultimo punto un grave errore è stato commesso dal Tribunale del Riesame che scrive di dati esfiltrati. Il pm Albamonte ci ha confermato che invece nelle contestazioni manca l’esfiltrazione».

Però addirittura nelle indagini sarebbe intervenuta l’Fbi con i suoi potenti mezzi.

«Come si legge espressamente nel documento che vi ho fornito, il 21 marzo 2016 la Polizia Postale Italiana chiedeva agli americani di sapere dove Giulio avesse comprato la licenza di un software (Corporation) che sarebbe servita, a parer loro, per comporre il malware. L’Fbi ha risposto, specificando che tutto quello che aveva comunicato non poteva essere usato dall’Italia in nessun procedimento legale. E invece ce lo troviamo nell’ordinanza di custodia cautelare. Ma poi secondo il buon senso Giulio andava a comprare la licenza dando il suo nome e la sua carta di credito se avesse avuto intenzioni illegali? Per non dire del fatto che mai un hacker collocherebbe i propri server nel Paese – gli Usa – con la più severa legislazione in materia di crimini informatici. Insomma, tutto stride con la linea dell’accusa».

Si è scritto anche che Giulio Occhionero spiasse il pm Albamonte.

«Non è affatto così. Semplicemente aveva incaricato una persona di procurargli gli appunti di un intervento che Albamonte aveva tenuto in un convegno sui reati informatici».

La sua cliente è in custodia cautelare da ormai quasi otto mesi.

««Purtroppo, come ha ben descritto nella sua lettera Francesca, le condizioni di detenzione sono difficili. Contro di lei sembra esserci una sorta di accanimento. Alcuni esempi: la precedente udienza è stata segnata da un episodio che lascia quantomeno perplessi: i fratelli Occhionero sono stati condotti in Tribunale con le manette ai polsi, con un caldo afoso, e senza poter bere dell’acqua dalla bottiglietta che gli volevamo offrire noi avvocati. Ma la cosa drammatica è che la giudice era in ferie e nessuno ci aveva avvisato! Per non parlare delle vessazioni che subisce: circa un mese fa una detenuta si è infiltrata tra i visitatori tentando la fuga. Hanno dato la colpa a Francesca chiedendole perché non avesse avvisato le guardie che la detenuta voleva fuggire. Dopo questo le è stato dimezzato il piazzale dove corre. Questa cosa è fuori da ogni regolamento».

Secondo gli inquirenti ad incastrarla sarebbero sostanzialmente due intercettazioni telefoniche: in una lei rispondendo al fratello dice ‘ Giulio ti prego di non coinvolgere mamma nei nostri problemi…… come vedi sono dei falsi allarmi’ e la seconda in cui lei, parlando con un tecnico informatico, dice che ha necessità di connettersi ai server Usa, dove, secondo la relazione della Mentat, sarebbero custoditi i dati esfiltrati.

««Nel primo caso quell’espressione è mal collocata nel contesto investigativo, non è oggetto di acquisizione agli atti del processo e si riferiva ai problemi economici per superare i quali la mamma aveva ampiamente contribuito, ad esempio vendendo un villino a Santa Marinella per dividere il ricavato tra i due figli. Come si legge chiaramente dalla trascrizione della seconda telefonata la mia cliente dice espressamente “non sono un tecnico informatico” e chiede aiuto per entrare nel dominio dell’azienda che dirige, ossia la Westlands.com a cui specifica che accedono anche altri dipendenti. Quindi di quale oscuro server stiamo parlando? Ci tengo però a dire che a riguardo della mia cliente è avvenuto un fatto gravissimo: a Francesca il Tribunale del Riesame ha negato i domiciliari perché si rifiuta di collaborare. Quale norma prevede questo? Un’altra motivazione è che potrebbe reiterare il reato utilizzando lo smartphone ma i periti hanno già stabilito che dal cellulare quel malware non può essere utilizzato».

Avvocato ascoltando la sua versione, quella dei fratelli Occhionero sembrerebbe una montatura gigante.

«Senza il reato di esfiltrazione di dati, di cui ripeto non si hanno prove, il reato minore che così rimarrebbe sarebbe quello di aver tentato di utilizzare una email con relativa password. Questa è cosa ben diversa dall’aver danneggiato il computer di qualcuno, che è l’aggravante che giustifica la custodia cautelare, ma non vi è stato nessuno che abbia potuto dire una simile cosa. L’Acea ha persino rinunciato a costituirsi parte civile per non aver subito danni».

Falso e abuso d’ufficio: il presidente dell’Anm indagato a Perugia. Le accuse si riferiscono alla gestione dell’inchiesta sui fratelli Occhionero. Il pm disponibile ad astenersi, come chiesto dalla difesa, ma Pignatone ha stabilito che continuerà a seguire il processo. Il pg Salvi: «Decisione pienamente condivisa», scrive Ilaria Sacchettoni il 21 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il pubblico ministero di Roma Eugenio Albamonte, presidente l’Associazione nazionale magistrati, è indagato dalla procura di Perugia per falso e abuso d’ufficio. Le contestazioni si riferiscono alla gestione dell’inchiesta sui fratelli Giulio e Francesca Occhionero, arrestati a gennaio scorso e oggi a processo con l’accusa di aver hackerato le mail di politici e manager. Proprio Giulio Occhionero ha presentato la denuncia sfociata nell’iscrizione a «modello 21» del pm e di due investigatori della polizia postale, Ivano Gabrielli e Federico Preno. L’iscrizione di Albamonte nel registro degli indagati è emersa oggi nel processo agli Occhionero. La difesa, gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari, hanno chiesto che il pm si astenga dal processo, ma il capo della procura, Giuseppe Pignatone, non ha accolto la disponibilità del magistrato al passo indietro. Una decisione che il procuratore generale, Giovanni Salvi, ha «pienamente condiviso». Nel suo provvedimento Pignatone, facendo riferimento a una giurisprudenza consolidata, sostiene che «non può confondersi l’inimicizia fra magistrato e parte con le iniziative di quest’ultima, tesa a sottrarsi al proprio giudice naturale; l’inimicizia deve trovare fondamento in rapporti personali svolti in precedenza e fuori del processo». A parere del procuratore, dall’istruttoria «risulta che l’imputato Giulio Occhionero, nel corso delle indagini a suo carico e prima di avere accesso agli atti del procedimento, aveva già manifestato l’intenzione di presentare un esposto contro Albamonte alla procura di Perugia», come emerge da una conversazione intercettata il 18 novembre del 2016. Da altri colloqui carpiti in quello stesso periodo - ricorda Pignatone in una nota sarà trasmessa domani al giudice del dibattimento Antonella Bencivinni - «risulta che Occhionero, avendo appreso la falsa notizia dell’imminente trasferimento di Albamonte ad altro incarico, esprimeva soddisfazione per il fatto che lo stesso non si sarebbe più occupato delle indagini a suo carico». Occhionero è ancora detenuto a Rebibbia. Fra gli spiati erano anche emersi i nomi del politico Domenico Gramazio, del costruttore Antonio Pulcini, dell’avvocato Lucio Ghia e molti altri. Violati anche il sito dell’accoglienza del vicariato romano e i computer di società assicurative e imprese private. Giulio Occhionero aveva ammesso durante il suo interrogatorio di garanzia di essere un massone. Ma ha sempre sostenuto la sua innocenza, spiegando che le molte informazioni trovate sui suoi pc gli servivano per il suo lavoro di consulente d’azienda.

Cyberspionaggio: pm Albamonte indagato dopo esposto Occhionero. Ma resta pubblico ministero a processo. Il presidente dell'Anm è accusato di falso e abuso d'ufficio insieme a due agenti della polizia postale. Pignatone conferma la designazione: l'inimicizia tra magistrato e parte, può diventare un impedimento per un corretto giudizio, scrive il 22 settembre 2017 "La Repubblica". Falso e abuso d'ufficio: sono questi i reati contestati al presidente dell'Anm e pm a Roma, Eugenio Albamonte, dalla Procura di Perugia, che indaga in seguito a un esposto presentato nel febbraio scorso da Giulio Occhionero, l'ingegnere finito sotto processo assieme alla sorella Francesca Maria, per una presunta attività di cyberspionaggio ai danni di siti istituzionali e mail di politici, enti e imprenditori, nell'inchiesta 'Eye Piramid'. Nonostante questo, Albamonte, continuerà a rappresentare l'accusa nel processo a carico dei fratelli. Lo ha deciso il Procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, secondo il quale, "l'inimicizia tra magistrato e parte", può diventare un impedimento per un corretto giudizio. La notizia dell'iscrizione è emersa nel corso della prima udienza, davanti al giudice monocratico, del processo agli Occhionero. Gli avvocati della difesa hanno formalmente chiesto al pm di astenersi dal rappresentare l'accusa durante il procedimento.

Il procuratore Giuseppe Pignatone, però, ha confermato Albamonte a rappresentare l'accusa nel processo con un provvedimento che verrà depositato in udienza. Una decisione "pienamente condivisa" dal procuratore generale presso la Corte d'appello, Giovanni Salvi. In base a quanto si apprende, il fascicolo nel capoluogo umbro è stato aperto contestualmente al deposito dell'esposto, ma l'iscrizione del magistrato è arrivata alcune settimane fa. Nel suo documento Giulio Occhionero lamenta alcuni 'abusi' fatti dall'autorità inquirente nel corso dell'attività di indagine.

Accessi non consentiti al suo personal computer, violazioni della privacy e altri illeciti. Su quanto denunciato, Occhionero nel giugno scorso è stato chiamato a deporre, in presenza del suo difensore, l'avvocato Stefano Parretta, davanti ai pm umbri L'ingegnere avrebbe confermato le accuse. Sul fascicolo aperto, al momento, Perugia mantiene il riserbo più assoluto. Il procuratore Luigi De Ficchy non ha voluto in alcun modo commentare quanto emerso nell'udienza romana, anche se l'iscrizione sarebbe un atto dovuto in seguito all'esposto. Con Albamonte risultano indagati anche due agenti della polizia postale a cui viene contestato anche l'accesso abusivo a sistema informatico.

Il colpo di scena ha fatto, quindi, slittare le audizioni di alcuni testi dell'accusa che erano in programma per la prima udienza del processo. I fratelli Occhionero, che sono detenuti dal gennaio scorso, sono accusati di avere organizzato una colossale operazione di cyberspionaggio ai danni anche di alte cariche dello Stato. I due avrebbero tentato di violare anche le mail dell'ex presedente del consiglio Matteo Renzi, del presidente della Bce Mario Draghi e dell'ex premier Mario Monti. Nei loro confronti la Procura contesta i reati di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico aggravato ed intercettazione illecita di comunicazioni informatiche e telematiche.

A COSA SERVONO...

A cosa servono davvero 29 dettagli di oggetti che usiamo tutti i giorni. Dalla fessura nel tappo delle penne Bic al secondo foro nelle linguette delle lattine, sono molte le cose apparentemente senza senso che invece sono state inventate con uno scopo preciso, scrive Andrea de Cesco il 15 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera".

1. Il mini taschino dei jeans. Molti oggetti di uso quotidiano sono contraddistinti da dettagli apparentemente inutili. In realtà spesso questi particolari non sono frutto del caso, ma rispondono a scopi precisi. Un esempio è il taschino rettangolare cucito all'interno della tasca destra dei jeans, troppo piccolo persino per metterci le chiavi di casa. A svelarne la funzione è stata la regina stessa dei jeans. Come ha spiegato in un post sul suo blog l'azienda californiana Levi’s, il taschino fu introdotto a fine Ottocento come «watch pocket»: i cowboy lo usavano per riporre gli orologi da tasca e le pepite d’oro. Negli anni il taschino ha perso la sua funzione originale per ospitare altri oggetti, dai preservativi (come suggeriva uno spot del 1995 per i jeans 501) ai bigliettini da cui copiare durante i compiti in classe.

2. I bottoni sul mini taschino dei jeans. A indossare i jeans 150 fa erano soprattutto operai e minatori, che lavorando sottoponevano la stoffa a uno sforzo tale da ritrovarsi puntualmente con i pantaloni scuciti o bucati. Nel 1971 la moglie di un lavoratore, decisa a porre rimedio alla situazione, andò da un sarto, Jacob Davis, e gli chiese di creare un paio di denim che non si disintegrassero così facilmente. Lui ebbe un'idea: fissare alcuni «chiodi» a forma di bottone (il loro nome tecnico è «rivetti») nelle aree più delicate, quelle che entravano maggiormente in contatto con le superfici o si danneggiavano a causa dei movimenti. Davis poi contattò l'imprenditore tedesco Levi Strauss e, insieme, iniziarono a disegnare i nuovi modelli di pantaloni dotati di rivetto. 

3. Il tessuto «extra» che vendono con i vestiti. Il pezzetto di stoffa che spesso viene venduto insieme ai vestiti tecnicamente è un campione di tessuto pensato per testare la reazione dei detersivi per bucato su quel tessuto particolare. Così, ad ogni lavaggio, possiamo controllare che il colore non si sbiadisca rispetto a quello originale.

4. La fessura sul manico delle pentole. La fessura sul manico delle pentole, in apparenza un banale vezzo di design, in realtà serve per riporre il mestolo o qualunque altro utensile con cui mescoliamo il cibo.

5. Il foro nel mestolo per gli spaghetti. Oltre che essere utile per fare passare l'acqua nel momento in cui assaggiamo la pasta per verificarne la cottura, il foro nel mestolo per gli spaghetti ha la funzione di dosatore. La quantità di spaghetti che ci entra corrisponde alla porzione standard per una persona. 

6. Il collo lungo delle bottiglie di birra. Il collo lungo e stretto, utile per impugnare più saldamente la bottiglia e per evitare di scaldare il liquido con il calore delle mani, è tipico delle birre chiare, carenti di schiuma e con una bassa data di scadenza. Le birre scure e maggiormente alcoliche si trovano invece in bottiglie scure dalla forma più larga e dal collo basso. Queste differenze favoriscono una diversa ossigenazione e una diversa fermentazione in base al tipo di birra. 

7. La rientranza sul fondo delle bottiglie di vino e di champagne. Questo tipo di bottiglia garantisce una maggiore resistenza meccanica alla pressione dei gas contenuti nello spumante e nel vino. Inventato nel IV secolo per lo champagne, grazie alla sua particolare conformazione il fondo «a campana» può essere realizzato anche con un vetro sottile. Ormai è comune a tutte le bottiglie di vino e spumante, con l'eccezione dello champagne francese Louis Roederer di tipo «Cristal», creato nel 1876 per lo zar Alessandro II. Lo zar chiese che la bottiglia avesse il fondo piatto e fosse trasparente (motivo per cui venne realizzata in cristallo) poiché temeva che qualcuno potesse usare il fondo a campana per nascondervi una bomba.

8. Il piccolo disco all'interno del tappo delle bottiglie di plastica. Il suo scopo è sigillare per bene la bottiglia ed è usato soprattutto per le bevande frizzanti, in modo da impedire la fuoriuscita del gas.

9. L'anellino sul retro delle camicie. Inventato negli Stati Uniti nel 1960, serviva per appendere le camicie - specialmente negli spogliatoi delle palestre, dove solitamente non c'erano armadietti e appendiabiti. Oggi ha più che altro una funzione decorativa.

10. Il piccolo buco nei finestrini degli aeroplani. Viene chiamato «foro di respirazione» e svolge un’importante funzione di sicurezza. Il tipico finestrino del passeggero è composto da tre pannelli. Quello più vicino al passeggero serve solo a proteggere il pannello di mezzo. I due pannelli più importanti sono quello esterno e quello di mezzo, che contiene il forellino. Quando un aereo prende quota, grazie ai sistemi di pressurizzazione la pressione all'esterno scende molto di più che dentro la cabina. Lo scopo del forellino del pannello di mezzo è riequilibrare la pressione fra la cabina e i due pannelli più interni, cosicché la differenza di pressione sia quasi tutta a carico del pannello più esterno, che è il più resistente. Nel caso il pannello esterno si rompa, quello in mezzo ne assume le funzioni. Il forellino serve anche a rilasciare l’umidità dell’aria compresa fra i pannelli e a impedire che si formino nuvolette o ghiaccio fuori dal finestrino, permettendo la vista. 

11. La parte blu della gomma per cancellare. A chiarire la funzione della parte blu delle gomme Pelikan è stata l'azienda stessa, che presentando il prodotto ha scritto che la porzione di gomma blu serve per cancellare «inchiostro/inchiostro colorato/penne a sfera e pastelli». Ma la spiegazione non ha convinto molti. L'idea più diffusa è che la famigerata parte blu funzioni solo sulle superfici particolarmente spesse.

12. Il buco sul tappo delle penne Bic. Oltre a prevenire la perdita di inchiostro, il foro evita che i bambini (o gli adulti) che abbiano inavvertitamente ingoiato il tappo della penna soffochino. È dal 1991 che le norme di sicurezza prevedono che le penne abbiano quel buchino sul cappuccio.

13. I buchini sui lati delle All Stars. Secondo i progettisti, la principale funzione dei due buchini è fare ventilare il piede, evitando che sudi troppo. Ma un tempo i fori venivano usati anche per infilarci un secondo paio di stringhe, in modo da permettere un'allacciatura della scarpa più aderente. La Converse iniziò a produrre le All Stars nel 1917 con l'obiettivo di entrare nel mercato delle scarpe per il basket.

14. La freccia vicino alla spia della benzina. Niente di più semplice, e di più utile (soprattutto quando si usa una macchina a noleggio in un Paese straniero): serve a indicare su quale lato dell'auto si trova il tappo della benzina.

15. Le lineette in rilievo sotto la F e la J della tastiera dei computer. Queste righe, oltre che ai non vedenti, servono anche a chi sa scrivere senza guardare la tastiera e fungono da punto di riferimento per disporre le dita correttamente. Il tatto percepisce il rilievo su questi tasti, riservati agli indici, e il cervello è guidato nel disporre le restanti otto dita sul tasto convenzionalmente loro assegnato.

16. Il buchino nel righello. Più semplice di qualsiasi spiegazione che ci si possa immaginare. Serve — banalmente — per appenderlo al muro.

17. Il buchino accanto alla fotocamera dell'iPhone. Il foro in questione è un microfono con la funzione di registrare l'audio durante i filmati e consentire la cancellazione attiva del rumore. Grazie a questo microfono l'iPhone è inoltre in grado di riconoscere la nostra voce in maniera più chiara, interpretando meglio i comandi vocali utilizzati con Siri.

18. La cavità nel coperchio della confezione di Tic Tac. Ha la funzione di raccogliere una singola caramellina alla volta, così da non doversene versare una quantità imprecisata nella mano.

19. Il foro sul fondo dei lucchetti. In genere i lucchetti vengono utilizzati per fissare o mettere in sicurezza oggetti che si trovano all’aperto. Il foro che si trova in prossimità della fessura per le chiavi serve a far drenare l’acqua piovana e i vari residui di sporcizia rimasti incastrati. Viene usato anche per lubrificare il lucchetto attraverso olio di vaselina introdotto con una siringa.

20. Il secondo foro sulla linguetta delle lattine. Per utilizzarlo bisogna girare la linguetta verso l'apertura. Serve per infilarci la cannuccia con cui bere.

21. La rigatura intorno al perimetro delle monete. Quando le monete erano fatte d’oro e d’argento alcuni raschiavano via dai bordi un po’ di materiale per rubarlo. Per evitare questo inconveniente (a causa del quale le monete, perdendo il loro peso corretto, diventavano inutilizzabili) si è iniziato a creare monete con un particolare zigrinatura sui bordi, così da poter vedere subito quali erano state contraffatte e quali no. Oggi il motivo della rigatura è aiutare le persone non vedenti a distinguere fra le varie monete. 

22. La forma esagonale delle matite. Lo scopo di questa particolare forma — tipica soprattutto delle matite utilizzate a scopi professionali — è garantire un’impugnatura perfetta. Così che la mano non scivoli durante la produzione del disegno.

23. I sacchettini di silicagel. Questa bustina piena di palline di silicio che troviamo spesso nelle scatole di scarpe, nelle borse e in molti altri oggetti serve per assorbire l’umidità che si potrebbe creare nella scatola stessa.

24. I disegni sulla carta igienica. Servono semplicemente per aderire meglio alla pelle e ottenere una maggiore pulizia.

25. La fessura e la staffa in metallo seghettata all'estremità del metro a nastro. La fessura serve per infilarci le unghie o una vite in modo che il metro non scivoli via, mentre la seghettatura è stata pensata per imprimere un segno sulla parete nel momento in cui dobbiamo prendere delle misure ma abbiamo entrambi le mani occupate.

26. Le «alette» che si aprono sul caricabatterie del MacBook. Si tratta di un comodo ed elegante avvolgicavo. 

27. La parte zigzagata della forcina. La parte zigzagata è la parte inferiore della forcina, quella che va rivolta verso il cuoio capelluto, in modo che la forcina stessa trattenga meglio i capelli.

28. I «cilindretti» presenti in molti cavi. Si tratta di cilindri di ferrite, utilizzati nei cavi molto lunghi o dove serve un'altissima precisione nel segnale elettrico al fine di eliminare i disturbi elettromagnetici dal segnale. In sostanza servono a isolare le frequenze che spesso si generano all’interno di apparecchiature elettroniche e che potrebbero disturbare altri dispositivi durante l’alimentazione. Per esempio, nel caso di cavi che collegano il monitor al PC evitano che le immagini su schermo appaiano disturbate. Nei cavi di ultima generazione non vengono più usati, in quanto le più recenti tecnologie li hanno resi presto inutili.

29. La fessura sul cappuccio del taglierino. L'utilizzo di questa fessura appare chiaro solo una volta che si è sfilato il cappuccio, che a questo punto possiamo usare per eliminare le lame usate. Basta inserire la punta nella fessura e muovere il cappuccio di lato, fino a quando la lama non si spezza. Assicuratevi di non aver tirato fuori gran parte della lama quando eseguite l'operazione, altrimenti spezzerete anche le punte nuove insieme a quella vecchia.